L’Europa del diritto 9788858125748

«Vogliamo sottolineare al lettore che il diritto, anche se le sue manifestazioni più vistose sono in solenni atti legisl

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L’Europa del diritto
 9788858125748

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FARE L’EUROPA Collana diretta da Jacques Le Goff

La collana «Fare l’Europa» viene pubblicata contemporaneamente da cinque editori: C.H. Beck, Monaco - Basil Blackwell, Oxford Crítica, Barcellona - Laterza, Roma-Bari Editions du Seuil, Parigi

I volumi della collana sono pubblicati anche da: Arbeiderspers (Agon), Amsterdam - Presença, Lisbona - Ellinika Grammata, Atene - Atlantisz, Budapest - Archa, Bratislava - Krag, Varsavia Baltos lankos, Vilnius - AFA, Istanbul Saemulgyul, Seùl - Heibonsha, Tokyo - LIK, Sofia - Lidové Noviny, Praga - Polirom, Iasi - Zalozˇba/*cf, Ljubljana - Literatür Yayincilik, Istanbul - CLIO, Belgrado - Symposium, San Pietroburgo

PAOLO GROSSI

L’EUROPA DEL DIRITTO

EDITORI LATERZA

© 2007: Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari, per la lingua italiana © 2007: C.H. Beck Verlag, München, per la lingua tedesca © 2007: Basil Blackwell, Oxford, per la lingua inglese © 2007: Editorial Crítica (Grijalbo Comercial, S.A.), Barcelona, per le lingue spagnola e catalana © 2007: Editions du Seuil, Paris, per la lingua francese Prima edizione 2007 Settima edizione 2011 www.laterza.it

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8454-9

ai cari e valenti discepoli degli Atenei brasiliani e messicani seme vigoroso per un futuro abbondante raccolto

Prefazione

L’

Europa si costruisce. È una grande speranza che si realizzerà soltanto se terrà conto della storia: un’Europa senza storia sarebbe orfana e miserabile. Perché l’oggi discende dall’ieri, e il domani è il frutto del passato. Un passato che non deve paralizzare il presente, ma aiutarlo a essere diverso nella fedeltà, e nuovo nel progresso. Tra l’Atlantico, l’Asia e l’Africa, la nostra Europa esiste infatti da un tempo lunghissimo, disegnata dalla geografia, modellata dalla storia, fin da quando i Greci le hanno dato il suo nome. L’avvenire deve poggiare su queste eredità che fin dall’antichità, e anzi fin dalla preistoria hanno progressivamente arricchito l’Europa, rendendola straordinariamente creativa nella sua unità e nella sua diversità, anche in un contesto mondiale più ampio. La collana «Fare l’Europa» nasce dall’iniziativa di cinque editori di lingua e nazionalità differenti (Beck a Monaco di Baviera, Basil Blackwell a Oxford, Crítica a Barcellona, Laterza a Roma e Bari, Seuil a Parigi) e vuole gettar luce sulla costruzione dell’Europa e i suoi punti di forza non dimenticabili, senza dissimulare le difficoltà ereditate dal passato. Nella sua tensione verso l’unità, il continente ha vissuto discordie, conflitti, divisioni, contraddizioni interne. Questa collana non li na-

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PREFAZIONE

sconderà: l’impegno nell’impresa europea deve compiersi nella conoscenza del passato tutto intero e nella prospettiva dell’avvenire. Di qui l’intitolazione «attiva» della collana. Non ci sembra infatti che sia giunta l’ora di scrivere una storia sintetica dell’Europa. I saggi che proponiamo sono dovuti ai migliori storici odierni, anche non europei, già affermati e non. Essi affronteranno i temi essenziali della storia europea nei diversi campi – economico, politico, sociale, religioso, culturale – appoggiandosi alla lunga tradizione storiografica che si estende da Erodoto alle nuove concezioni che, elaborate in Europa nel corso del Novecento, e segnatamente negli ultimi decenni, hanno profondamente rinnovato la scienza storica. Grazie alla loro volontà di chiarezza, questi saggi sono accessibili anche a un ampio pubblico. E la nostra ambizione è di apportare elementi di risposta alle grandi domande che stanno dinanzi a coloro che fanno e faranno l’Europa, e a quanti nel mondo intero s’interessano all’Europa. «Chi siamo? Donde veniamo? Dove andiamo?» Jacques Le Goff

Premessa

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hiamato dall’amicizia di Jacques Le Goff e dell’Editore a redigere il volume dedicato al diritto in seno alla collana «Fare l’Europa», mi sono trovato di fronte a un cómpito non agevole: disegnare nei suoi tratti essenziali un itinerario storico-giuridico disteso in più di millecinquecento anni e spaziante in una dimensione europea, unendo nella trattazione, com’è nel carattere della collana, un irrinunciabile rigore scientifico a una altrettanto irrinunciabile intelligibilità di discorso, evitando scrupolosamente il comodo rifugio del colloquio tra dotti e assumendo invece a scopo primario l’ufficio di comunicare anche al di là del ristretto numero degli esperti. Ci sono riuscito? I lettori saranno i giudici naturali. Io posso solo confessare che le pagine di questo libro sono il frutto di una grossa fatica. Fatica duplice: non è stato facile garantire chiarezza in presenza di un vocabolario e di un ideario – quali quelli dei giuristi – assai ermetici nella loro specialità; e non è stato neanche facile ridurre un enorme materiale entro le linee di un disegno generale che non tradisse la ricchezza e complessità della storia giuridica europea.

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PREMESSA

Nei limiti che saranno precisati nei Chiarimenti preliminari, si presenta entro le pagine del volume un itinerario che, dal primo germinare dell’esperienza giuridica medievale, arriva fino agli anni Cinquanta del secolo XX, ossia fino al momento immediatamente successivo alla grossa cesura rappresentata dalla seconda guerra mondiale, appena dietro le nostre spalle. Nulla di essenziale è stato dimenticato? Consapevole di non essere dotato di omniscienza, non ne sono affatto sicuro e, se il lettore europeo nelle sue diversificate competenze rileverà omissioni, non posso che promettere con umiltà di rimediarvi in future edizioni del libro. L’indole di questo volume, ma anche la quantità e la mole dei temi trattati, impongono che le indicazioni bibliografiche siano ridotte al minimo essenziale, facendo soprattutto riferimento a opere di sintesi capaci di offrire al lettore orientazioni sicure ma dominabili. Non dimenticando che europeo è lo spazio cui si riferisce la nostra esposizione e che europeo è il futuro lettore, ho cercato di offrire una bibliografia a proiezione europea. Mi sia consentita una constatazione: l’indice di questo libro riproduce sostanzialmente l’ossatura dei corsi di Storia del diritto italiano (soltanto da ultimo intitolati alla Storia del diritto medievale e moderno) da me svolti per quaranta anni presso la Facoltà di Giurisprudenza della Università di Firenze. E mi sia consentito anche un sentimento di soddisfazione: da sempre, ho avuto la coscienza precisa che lo sguardo dello storico del diritto dovesse essere ampio, sia per ricomprendere i tempi medievale, moderno e contemporaneo, sia per ricomprendere l’intiero spazio europeo (almeno europeo). Solo così la storia del diritto poteva assolvere (come oggi può assolvere) la sua ineliminabile funzione formativa. I ringraziamenti, per coloro che mi hanno accompagnato nel lungo travaglio di elaborazione e definizione, dovrebbero essere tanti. Mi limito a segnare qui i nomi

PREMESSA

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di coloro che si sono sobbarcati con amicizia l’onere di una lettura attenta della prima stesura, e cioè Paolo Cappellini, Giovanni Cazzetta, Pietro Costa, Bernardo Sordi. Citille in Chianti, Fine d’anno del 2006

L’EUROPA DEL DIRITTO

Chiarimenti preliminari

1. Equivoci su Europa e diritto: Europa Poiché, in questo volume, si seguirà l’itinerario del diritto in un territorio geografico-storico chiamato convenzionalmente Europa e poiché il destinatario delle nostre pagine non è un giurista né tanto meno uno storico del diritto, bensì un lettore sprovvisto di specifiche competenze, è opportuno subito fare i conti con lui, sgombrando il passo da alcuni fraintendimenti, possibili se non probabili. Europa. L’antichità classica e post-classica, tenendo da parte il confronto fra grecità e ‘barbarie’ asiatica del secolo V a.C., conobbe una frammentazione di realtà politiche differenziatissime, raccolte poi e inglobate, lentamente ma continuativamente, nella grande realtà romana, unitaria e a carattere universale. Di Europa si può, pertanto, parlare solo quando, col dissolversi di questa, cominciò a prender forma un territorio, geografico ma soprattutto storico/culturale/religioso, che, con alterne vicende, attraverso anche divisioni assai nette al suo interno, giungerà faticosamente all’attuale Unione Euro-

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pea, una struttura politica ancora in costruzione e con dei confini – almeno a Oriente – tuttora mobili e provvisorii. Insomma, si può parlare di dimensione europea soltanto nelle esperienze medievale, moderna e post-moderna (nella quale siamo ancora immersi). Sono necessarie alcune ulteriori precisazioni. Il sostantivo «Europa» ha nel corso del Medioevo un contenuto esclusivamente geografico. È con l’Umanesimo, è con Enea Silvio Piccolomini e con Erasmo da Rotterdam che assume il significato di un complesso di valori spirituali e culturali, avviando un filone riflessivo che trova più tardi la sua pienezza nel lineamento di un’autentica ‘république littéraire’ tratteggiato da Voltaire; è con Machiavelli che si inaugura, invece, il disegno di una Europa come terra di libertà politiche avverso un’Asia dominata dal dispotismo, disegno che avrà respiro e sviluppo peculiarissimi durante il Settecento nelle diagnosi di un principe cólto come Federico di Prussia e nelle acute percezioni di Montesquieu. Avendo lucida coscienza di un emergere e montare di motivazioni complesse che, lentissimamente, fanno di un’area geografica qualcosa di qualitativamente diverso; avendo lucida coscienza che dimensione politica e dimensione culturale non procedono nello stesso cammino e che le percezioni unitaristiche degli intellettuali restano sogno e miraggio, troppo spesso smentite da un assetto politico dove permangono – fino alle nostre spalle e, ohimè!, ancora oggi – frontiere, separazioni, lacerazioni; avendo lucida coscienza di tutto ciò, noi ci porremo dinnanzi un oggetto e uno scopo ben precisi: seguire, tra medievale moderno post-moderno, una dimensione della storia generalmente trascurata, quella giuridica; una dimensione che, pur immersa nella globalità del divenire storico, ha una sua autonomia, che ha talvolta grossi legami con il potere politico e gli è sottomessa, ma che, soprattutto nelle manifestazioni della pra-

CHIARIMENTI PRELIMINARI

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tica quotidiana e della riflessione scientifica, ha la forza e la capacità di percorrere strade proprie. Seguiremo legislatori, giudici, scienziati, semplici uomini di affari in una vicenda segnata da una perenne dialettica fra localismo/particolarismo e universalismo, dove il diritto rivela il suo carattere di realtà affiorante alla superficie della quotidianità dalle radici profonde di una civiltà e pertanto capace di esprimerla nella sua cifra più genuina; rivelando altresì – in grazia di questa capacità – la possibile sua autonomia dalle scelte contingenti del potere politico. E, proprio perché il tema nostro è ‘Europa del diritto’, sarà innanzi tutto la tensione dialettica tra particolare e universale, tra frammentazioni statuali e respiro trans-nazionale, ad orientarci. Abbiamo detto diritto, ed è ora su questa nozione che bisogna sostare per evitare possibili equivoci. Il nostro lettore avrà in cuor suo identificato diritto e legge, e non riuscirà assolutamente a capire la possibilità di autonomia dalle centrali politiche e ad afferrare tutta la ricchezza di questa troppo spesso fraintesa nozione.

2. Equivoci su Europa e diritto: diritto È vero! Equivoci rischiosissimi si annidano nella nozione di diritto, anche perché troppo spesso, nella cultura e nella educazione europee, gli si è dato risalto minimo e il lettore di questo libro potrebbe non avere gli strumenti per apprezzarlo in tutto il suo autentico spessore. Il diritto, infatti, soprattutto a chi vive nell’Europa continentale con alle spalle la civiltà moderna, appare legato indissolubilmente al potere, al potere supremo, a quello politico, e appare espressione di quel potere. Appare, quindi, come un comando che viene dall’alto, come legge, voce autorevole e autoritaria del titolare della sovranità.

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Il diritto è indubbiamente anche questo: per esempio – all’interno di uno Stato moderno, che ha la necessità di disciplinare una società assai complessa – può esprimersi pure (e, forse, prevalentemente) in un insieme di atti legislativi generali, ma sarebbe scorretto e falsante identificare in quelle leggi l’interezza del fenomeno giuridico; il quale, nella sua essenza, più che potere è ordinamento, è la stessa società che si auto-organizza percependo certi valori storici, disegnando su di essi alcune regole e osservandole nella vita quotidiana. Vogliamo cioè sottolineare al nostro lettore che il diritto, anche se le sue manifestazioni più vistose sono in solenni atti legislativi, appartiene alla società e quindi alla vita, esprime la società più che lo Stato, è il tessuto invisibile che rende ordinata la nostra esperienza quotidiana, consentendo la convivenza pacifica delle reciproche libertà. È, insomma, identificabile in un vero autosalvataggio della società. Questo emerge chiaramente oggi, quando è in crisi proprio la statualità del diritto, il suo immedesimarsi in un sistema di leggi degli Stati, visione che fu dei nostri padri (e che noi studieremo nella seconda parte del volume), ma che constatiamo insufficiente a ordinare una società globale (quella odierna) in cui Stato e Stati contano sempre meno come produttori di diritto. Consapevoli di tutto questo, cercheremo, nelle pagine che seguono, di non deporre mai un osservatorio ampio sì da dominare l’interezza del paesaggio giuridico. Se il diritto è esperienza, lo storico/giurista è il primo a dover rifiutare di limitarsi a una contemplazione di atti autoritarii che non ne restituiscono la immagine effettiva, la sola che preme allo storico. Noi non dimenticheremo mai che il diritto non appartiene alla sola superficie della società, ma che è, al contrario, come più sopra si accennava, realtà radicale, cioè connessa alle radici profonde di quella; non dimenticheremo mai che, prima di es-

CHIARIMENTI PRELIMINARI

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sere un comando, il diritto è una mentalità, esprime cioè un costume e lo ordina, esprime i valori di una civiltà e – ordinandola – la salva. Per questo, senza trascurare le sue connessioni con il potere, dedicheremo una prevalente attenzione al diritto che ordina la vita quotidiana dei privati e che siamo soliti chiamare oggi «diritto privato», perché è lì la fisiologia del diritto sorpresa in un tessuto di vendite locazioni donazioni, di testamenti, di appropriazioni di beni, di rapporti di lavoro, di imprese agrarie commerciali industriali, cioè di istituti che permettono la mia pacifica convivenza con quella degli altri.

3. La storia del diritto come storia di esperienze giuridiche V’è la necessità di un ultimo chiarimento preliminare. Il nostro cammino è lungo: più di millecinquecento anni; un cumulo di date e di dati che rischiano di soffocarci se non li organizziamo in guisa metodologicamente corretta. Hanno – Medioevo, modernità e post-modernità – una visione uniforme del diritto, della sua genesi e del suo esprimersi, tanto da consigliare di vedere quei millecinquecento anni come un continuum che corre ininterrotto? O constatiamo visioni diverse, se non addirittura opposte? È quest’ultima conclusione che, ai nostri occhi, ci si mostra in tutta evidenza. A una siffatta convinzione non può pertanto che conseguire il tentativo di identificare i varii – e diversi, e peculiari – vólti che il diritto assume nell’accumulo plurisecolare, perché solo facendo ciò, arriveremo a storicizzare il nostro materiale storico-giuridico, non seppellendo e soffocando le singole originalità in un antistorico appiattimento. L’elementare criterio metodologico che faremo nostro è comparare e distinguere sulla base delle dissonan-

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ze che registriamo nel divenire storico, dissonanze che ci rivelano diversi modi di percepire, concepire, vivere il diritto, che ci rivelano diverse esperienze giuridiche con tratti di forte e incisiva peculiarità. Il riferimento a ‘esperienze giuridiche’ ha il significato di sottolineare una elementare ma spesso trascurata verità: che il diritto è scritto sulla pelle degli uomini, è – come si diceva qualche rigo più sopra – dimensione della vita quotidiana, è scritto nella concretezza dei fatti della vita prima che in leggi, in trattati internazionali, in opere scientifiche. Da questo osservatorio ampio le scansioni del nostro lungo percorso si palesano, per l’appunto, in tre esperienze giuridiche, ‘Medioevo’, ‘modernità’, post-modernità’, contrassegnate da questi elasticissimi confini temporali: dai secoli IV/V al XIV; dal secolo XIV agli inizii del secolo XX; dagli inizii del secolo XX con un itinerario che è tuttora in corso e di cui oggi, anno 2006, non siamo in grado di vedere il compimento. Tre esperienze giuridiche: tre civiltà storiche ben differenziate sotto il profilo giuridico, che ci propongono tre diverse visioni e realizzazioni del diritto. Non un itinerario continuo, ma piuttosto tre momenti di forte discontinuità, tre momenti che appaiono allo storico del diritto come tre maturità di tempi da contemplare e decifrare nel più pieno rispetto delle loro autonome fondazioni; tre maturità di tempi che si manifestano – ciascuna – con un ideario, un vocabolario, uno strumentario tecnico di intensa tipicità, e pertanto insofferenti ad essere indebitamente mescolate e confuse. L’esaltazione di queste tipicità sarà il non facile cómpito che ci proponiamo, convinti che sarà questo l’unico modo concreto per essere utili al nostro lettore nel suo processo di comprensione.

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Radici medievali

1. UNA CIVILTÀ GIURIDICA IN COSTRUZIONE: L’OFFICINA DELLA PRASSI

1.1. Il contesto politico: una società senza Stato. L’incompiutezza del potere politico medievale Il primo marchio di tipicità dell’esperienza giuridica, nella quale iniziamo ora ad addentrarci, sta nella profonda discontinuità con la esperienza precedente. Il medioevo giuridico comincia lentamente a disegnarsi negli espedienti e nelle invenzioni con i quali la società dei secoli IV e soprattutto V d.C. tenta di ordinarsi all’interno dei vuoti generati dal crollo dell’edificio politico romano e della cultura in esso circolante. Il punto storicamente saliente è sul modo con cui si corrispose a quei vuoti. Occupiamoci, per ora, del vuoto politico, che è il più greve di conseguenze e il più incisivo per il vólto della nuova esperienza. A un apparato di potere robusto, capillare, articolatissimo come quello romano non se ne sostituì (o non si poté sostituire) uno di pari qualità e intensità. La circo-

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stanza veramente nuova e tipizzante è la incompiutezza del potere politico che si realizzò nella vicenda storica medievale, intendendo per incompiutezza la carenza di ogni vocazione totalizzante, la sua incapacità (ma anche indifferenza) a occuparsi di tutte le manifestazioni sociali e a controllarle, coprendo solo certe zone dei rapporti intersoggettivi e consentendo ad altre – e amplissime – la possibilità di poteri concorrenti. È ovvio che il potere politico – come potere supremo – fu variamente esercitato e ben spesso con piena effettività in una determinata area territoriale, aggiungendo che non è raro constatare poteri illimitati nelle mani di questo o quel principe che li usa tirannicamente, ma sempre mancherà durante tutta la vicenda medievale quella psicologia totalizzante e omnicomprensiva che sarà invece – come vedremo – il tratto distintivo e la vocazione dei principi della modernità matura. Il principe medievale si occupa di ciò che gli serve al mantenimento saldo del potere, e cioè della milizia, dell’amministrazione pubblica, delle imposte, della repressione e coazione ai fini di un reale ordine pubblico, ma non è il grande burattinaio che pretende di tenere e manovrare tutti i fili dei rapporti sociali ed economici. Ci si può e ci si deve domandare perché questo avvenne, perché questo potere, malgrado i molti casi di tirannidi, fu intrinsecamente debole e soprattutto incompiuto. A un siffatto risultato portò il congiungersi di determinate circostanze. I secoli di transizione fra tardo-antico e medievale, all’incirca dalla fine del IV al VI, per il concatenarsi di guerre epidemie carestie, conoscono una enorme crisi demografica e, in conseguenza, un mutamento decisivo nel paesaggio sociale ed agrario. Diminuisce di parecchio la popolazione e, conseguentemente, la superficie sottoposta a coltivazione, diventa sempre più difficile la sopravvivenza quotidiana e la natura riprende il suo aspet-

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to di realtà indominata e indominabile, si ingigantisce nella psicologia collettiva; a una civiltà antropocentrica ottimisticamente fondata sulla fiducia nelle capacità dell’uomo di sottomettere le cose, si va sostituendo un atteggiamento pessimistico, sfiduciato in quelle capacità e tutto incentrato sul primato del reale. All’antropocentrismo della civiltà classica si va sostituendo, come preciseremo meglio in seguito, un reciso reicentrismo, centralità della res, della cosa, del complesso di cose che è il cosmo. Un tale atteggiamento diventa psicologia collettiva, che investe l’ultimo dei pezzenti così come il detentore del potere, il quale si sentirà per primo condizionato dalla natura intesa come un complesso di regole primordiali da rispettare, un complesso di regole a cui dovrà essere affidata la vita quotidiana della umana comunità. Ma altre due circostanze, storicamente più precise, non mancarono di avere un grosso rilievo. I primi secoli del nascente Medioevo sono contrassegnati da quel fatto incisivo costituito dall’inserimento nella civiltà mediterranea di stirpi nordiche. Ostrogoti, Visigoti, Vandali, Svevi, Longobardi, Burgundi, Franchi vi si inseriscono stabilmente creandovi stabili strutture politico-sociali; e, ovviamente, vi portano un proprio costume politico, che è tanto tipico quanto profondamente diverso. Se nell’Impero romano circolava da tempo un’idea sacrale del potere venuta da Oriente, che rendeva l’investito una manifestazione terrena della stessa divinità, le stirpi discese da settentrione nutrivano il più dimesso orientamento che il potere fosse semplicemente una necessità e che l’investito dovesse soprattutto intendersi come guida della sua nazione: affiorava così all’inconscio collettivo una psicologia di remote ascendenze nomadiche. Per altro verso, la Chiesa romana, con la estensione – dal secolo IV in poi – della sua capillare organizzazione fino nelle più appartate campagne, ormai esercente grazie a questa presenza una efficace supplenza dei poteri

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pubblici imperiali inesistenti o impotenti, non poteva che vedere di malocchio un potere politico forte e invadente, contribuendo non poco al consolidamento di una psicologia collettiva anti-assolutistica. Il risultato fu, come abbiamo detto, un potere politico connotato da una intrinseca incompiutezza, con un ulteriore risultato che si ripercosse potentemente a livello del diritto: il vincolo potere/diritto, cioè il diritto concepito e realizzato quale ombra del potere, un diritto proveniente dall’alto sotto forma di comando, al quale siamo stati avvezzi fino a ieri nel colmo della modernità, si restringe a quelle zone del ‘giuridico’ che servono al principe nell’esercizio delle sue potestà. Non così per tutto il grande territorio dei rapporti giuridici disciplinanti la vita quotidiana di un popolo. Qui, nella sostanziale indifferenza del potere, il diritto riacquista il suo naturale carattere di specchio delle esigenze circolanti nella società e specchio delle forze plurali che in essa liberamente si muovono; il diritto, con una sua genesi dal basso, è la stessa realtà complessa e magmatica della società che si auto-ordina, e auto-ordinandosi si salva. Questo diritto non è scritto nel comando di un principe, in un testo autoritario, nella pagina di un sapiente; è un ordine scritto nelle cose, nelle cose fisiche e nelle cose sociali, dove con occhi umili può essere letto e tradotto in regole di vita. Comincia a serpeggiare, inespressa ma puntualmente avvertita, la percezione fondamentale che il diritto – quello autentico, non l’artificio che serve al potente per conservare la sua superiorità, bensì quello che serve alla difficile sopravvivenza della comunità – è un insieme di valori soggiacente ai superficiali rapporti sociali ed economici, un ordine riposto che funge da salvataggio della comunità; e la comunità, consapevole, corrisponde a quei valori osservando le regole da essi promananti. Due punti vanno segnalati con forza.

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Questo diritto ha un carattere assai più ordinativo che potestativo. La contrapposizione fra i due aggettivi non è nominale: il primo segnala una genesi dal basso e si connota per una rispettosa considerazione della realtà oggettiva, senza la quale non sarebbe effettivo ordinamento ma violenza e artificio; il secondo sottolinea l’espressione di una volontà superiore, che piove dall’alto e può anche essere violenza sulla realtà oggettiva, arbitrio e artificio. In una visione ordinamentale, il diritto è il costume stesso che, avvertito come valore della vita associata, viene osservato e diventa vincolante; non è la voce del potere, ma piuttosto l’espressione della pluralità di forze presenti in un certo assetto sociale. Il secondo punto fondamentale e strettamente conseguente al primo è che, sotto questo aspetto, pur immerso nella storia, pur rivestito sempre della carnalità di interessi e di bisogni pullulanti nella storia, il diritto acquisisce una sua autonomia. Si tratta dell’ordinamento della società, la quale, in autonomia rispetto ai detentori del potere, è alla ricerca di invenzioni giuridiche che le garantiscano la salvezza. E, al contrario di quanto avviene sotto la cappa di piombo del monolito statuale (per esempio, nella matura modernità), dove il diritto è espressione di una volontà centrale e centralizzante (monismo giuridico), assisteremo per tutto il Medioevo al trionfo del pluralismo giuridico, ossia alla possibilità di convivenza di diversi ordinamenti giuridici prodotti da diversi gruppi sociali anche se essi insistono su un territorio soggetto a una stessa autorità politica. Credo che in questa incompiutezza del potere politico stia la cifra essenziale per carpire il ‘segreto’ della nuova progrediente esperienza giuridica, e che sia sua diretta conseguenza il vólto tipico che il diritto assume fin nei primordii medievali. Se così è, in grazia di questa tipicità, si impone una necessaria operazione di lavacro culturale; occorrerà cioè

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una cautela somma nell’usare un vocabolario e un ideario troppo compromessi con una visione tutta moderna; occorrerà, anzi, a nostro avviso, ferma decisione nel rifiutare quel vocabolario e ideario che rischiano di impantanarci in grossolani fraintendimenti. Intendiamo soprattutto riferirci (ma non soltanto) alla nozione di «Stato», che, da parte di molti storici e in particolare storici del diritto, non si esita a trapiantare nell’universo medievale. A tacer del fatto che «stato» (si noti la «esse» iniziale minuscola) appartiene all’usuale lessico medievale col diversissimo significato di ceto, di rango sociale, quel che più conta è che «Stato», così come si è venuto definendo e consolidando nella nostra attuale coscienza, si è profondamente diversificato dall’accezione medievale e, lungi dall’assumere un contenuto generico, è diventato una categoria storica dalla intensissima storicità, un soggetto politico connotato da una psicologia potestativa monopolizzante e omnicomprensiva; è, insomma, l’incarnazione storica di un potere politico perfettamente compiuto. Non si tratta di domandarsi grossolanamente se nel Medioevo c’è o non c’è lo Stato, come da qualcuno si è ridotto il problema metodologico di cui qui si discorre, ma piuttosto di constatare che per tutto l’arco della civiltà medievale non ci è dato di cogliere quel potere politico compiuto al quale noi moderni abbiamo dato il nome di Stato. Elementare operazione di pulizia concettuale (prima che lessicale) è evitare termine e nozione, quando si ha di fronte la vicenda storica medievale. Ed è quello che abbiamo fatto in passato e che continueremo a fare in questo volume di iniziazione. 1.2. Il trionfo delle comunità intermedie: perfezione della comunità e imperfezione dell’individuo Questo mondo proto-medievale popolato di scarsi abitatori, solcato da un perenne disordine politico e sociale,

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funestato dal tarlo costante della fame, sovrastato da una natura fisica indominata, solcato – come si è già sottolineato – da una profonda sfiducia collettiva, non poteva non avere una conseguenza pesante anche a livello antropologico, a livello cioè della posizione e del ruolo dell’uomo nel mondo fisico e storico. Si avverte, infatti, in modo preciso l’insufficienza del soggetto singolo, la sua naturale imperfezione, l’esigenza primaria per lui di rannicchiarsi in seno a comunità ospitali e protettive. In una realtà sociale confusa e convulsa, senza l’ombra condizionante ma anche rassicurante di un potere politico compiuto, l’individuo non ha esistenza facile; ce l’avrà – e lo vedremo – in seno alla modernità quando Stato e individuo vivranno in perfetta simbiosi e quasi in reciproco ausilio. Nella realtà che abbiamo ora di fronte, l’incompiutezza del potere genera due conseguenze strettamente connesse: il proliferare di società intermedie, cioè di assetti comunitarii che si pongono quali forme di supplenza in luogo di un’assente o manchevole generale forza superiore e quali organizzazioni necessarie in una realtà politica priva di compattezza e pertanto incapace di mantenere la quiete sociale; il proporsi di queste società intermedie come nicchie che consentono al soggetto singolo di sopravvivere e di godere di un minimo di presenza sociale. Il singolo, se sopravvive, sopravvive uti socius e non uti singulus, ossia come membro di una comunità e non come individuo solitario, inerme e fragilissimo al pari della formica fuori del suo formicaio o dell’ape fuori del suo alveare. Comunità le più varie: si va da nuclei pluri-familiari ad aggregati gentilizii, a corporazioni di indole religiosa, assistenziale, professionale, micro-politica. La realtà socio-politica medievale si presenta allo storico come una frammentatissima complessità comunitaria, una società di società, con un assetto che avrà vita lunga e che

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si dimostra ancora vegeto, pur in presenza ormai di creature politiche autenticamente statuali, sino alla fine dell’antico regime, alle soglie della rivoluzione francese. Una considerazione va aggiunta: a questa convinzione perenne della imperfezione del singolo (e quindi della sua strutturale fragilità) doveva contribuire non poco l’influsso possente di quel grosso protagonista della civiltà medievale che è la Chiesa Romana, una confessione religiosa dominata dall’idea di fondo di una comunità salvante, di una salvezza eterna difficilmente raggiungibile dal fedele isolato e assai più pervia all’interno di una comunità fornita di efficaci strumenti sacramentali. Anche su questo punto constateremo lucidamente il transito fra Medioevo e modernità quando a una visione rigidamente comunitaria (extra Ecclesiam nulla salus, «fuori della comunità ecclesiale non c’è salvezza») si sostituirà la provvidenzialità di un colloquio diretto del singolo con la divinità; ma sarà la voce tutta moderna della riforma protestante.

1.3. Il vuoto culturale e la fattualità del diritto. Il primato dei fatti naturali ed economici. I fatti primordiali come forze fondanti: tempo, terra, sangue Il vuoto rappresentato dal crollo dell’apparato pubblico romano fu assai parzialmente colmato da un potere politico, che abbiamo ritenuto di qualificare come incompiuto. Circostanza di enorme rilievo storico anche per la genesi e lo sviluppo del diritto della nuova società protomedievale. Ma un altro vuoto incolmato fu circostanza altrettanto greve di conseguenze per il vólto della nuova esperienza giuridica, e precisamente quello culturale. Della raffinata cultura greco-romana restano tracce nelle cittadelle chiuse di qualche monastero proto-medievale, ma senza alcuna circolazione nella società, men-

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tre appare totalmente perduto, almeno in Occidente, il superbo monumento culturale che una scienza giuridica di altissima levatura, assimilando la forza speculativa della riflessione filosofica greca, aveva, in perfetta simbiosi con le esigenze dello Stato, edificato durante la Repubblica, il Principato e la pienezza dell’Impero. Perduto perché inutilizzabile e inutilizzato. A chi potevano giovare le eleganze teoriche racchiuse nei cinquanta libri del Digesto, ossia nel tesoro delle elaborazioni scientifiche romane? In una realtà socio-economica, come quella che prende sempre più campo dalla fine del secolo IV in poi, non servono eleganze ma strumenti – magari rozzi e incolti – capaci di corrispondere alle esigenze di una grama vita quotidiana. La grandezza del diritto romano era stata di indole scientifica, ma non c’è più spazio per le speculazioni di uomini di scienza; bastano ormai invenzioni pratiche ispirate a un realistico buonsenso. Zona di tenebra storica? Tempo di regresso immeritevole di attenzione? Guai a misurare il susseguirsi delle civiltà in base a modelli unilaterali. Lo storico del diritto, che guardi spoglio da pregiudizii la nascente esperienza medievale, deve invece riconoscere la fertilità delle perdute ipoteche culturali romane; senza quelle ipoteche, senza le indubbie ricchezze culturali che da quelle potevano derivare, una civiltà giuridica povera si dette da fare nella invenzione di quegli strumenti giuridici che, soli, potevano soccorrere e ordinare quella povertà. E anche in questo modo si fornì un potente contributo alla costruzione di un edificio originario e originale. Se non avessi coscienza che gli azzeramenti completi non appartengono alla storia, al solo scopo di sottolineare al lettore questa originalità di scelte e di soluzioni, mi sentirei di affermare: si ricomincia da capo. E dove sta un simile straordinario coefficiente di novità? La ri-

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sposta è una sola: nella riscoperta della fattualità del diritto. Fattualità: termine inconsueto ed oscuro, di cui è chiara unicamente la derivazione da fatto. Significa che il diritto riscopre i fatti nella loro genuinità, vi si adagia, si lascia modellare da essi, né pretende di coartarli o di alterarli. Precisando subito che, quando qui si parla di fatti, si intendono elementi e accadimenti materiali, fenomeni naturali (fisici, geologici, climatici) ed economico-sociali (assetti economici strutturali, costumanze, comportamenti collettivi). Quando una civiltà giuridica trova la sua fonte nella scienza (quella romana, per esempio) o nel potere politico (quella moderna, per esempio), il rischio (o, secondo i punti di vista, il privilegio) è che il diritto venga pensato e progettato dall’alto e si proietti sui fatti inserendoli – magari, a forza – nel progetto superiore. Qui è vero esattamente il contrario; natura e società si esprimono senza imbavagliamenti, mentre il diritto si riserva un dimesso ruolo ordinativo. È particolarmente la natura fisica a farla da padrona, forza primordiale enorme e misteriosa ma vitalissima e fonte di vita, e perciò temuta e rispettata, che l’uomo subisce limitandosi a registrare le regole che si crede di leggere in essa scritte. L’epoca, in cui ci stiamo inoltrando, trova la sua ispirazione di fondo in un sentito naturalismo, giacché è sulla dimensione della natura fisica che la dimensione umana si modella, a quella completamente e docilmente sottomessa. Un naturalismo tanto spinto da trasfigurarsi in autentico primitivismo. Se, infatti, il tratto caratterizzante di una coscienza primitiva consiste nel subire a tal punto la natura fisica da compenetrarsi in essa fino a confóndervisi, fino a perdere la possibilità di contemplarla criticamente e di oggettivarla, il paesaggio socio-giuridico di questa officina proto-medievale ci offre la testimonianza vivace di un creato dove uomini e cose appaiono quali semplici tessere di un complessivo mo-

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saico, con una vigorosa centralità delle cose, soprattutto della grande cosa-madre, la terra, realtà forte che attrae a sé e vincola e condiziona le formiche umane mentre le nutre e ne permette la sussistenza. Dunque, fattualità del diritto: mentre, come vedremo, durante la modernità si assiste a un riuscito tentativo di sterilizzazione dei fatti, entità giuridicamente irrilevanti fino a quando una volontà autorevole non se ne approprii e li renda anche ‘giuridici’, qui i fatti hanno già in sé una potenziale carica giuridica che attende solo di manifestarsi. Fra essi, tre appaiono determinanti nel disegno del nuovo ordine giuridico; e sono la terra, il sangue, il tempo. La terra, che, pur nella sua misteriosa enormità, è materna perché cosa produttiva, fonte di sopravvivenza. Il sangue, che opera un legame inscindibile fra soggetti e dispensa fra essi un patrimonio di virtù, facoltà, funzioni non comunicabili all’esterno. Il tempo, come durata, come un martellìo di mesi e di anni che crea estingue modifica. Tre forze primordiali che hanno un medesimo significato antropologico: minimizzano il contributo dell’individuo singolo, elevando a protagonista della esperienza la natura delle cose e il gruppo. La terra significa per l’uomo medievale la fucina per ovviare alla fame grazie alla coltivazione e alla produzione, ma coltivazione e produzione non si affidano al singolo ma al gruppo, familiare o sovrafamiliare, e verticalmente alla catena generazionale di gruppi successivi, perché solo il gruppo può avere successo nel tentativo di imporsi a una realtà misteriosa e riottosa. Il sangue è inteso come un prezioso segno di identità in un crescendo che va dalla famiglia alla natio, al grande gruppo di coloro che nascono da uno stesso ceppo e formano una stessa stirpe. Il tempo, inteso come durata, come lunga durata, che, in quanto tale, può esprimersi soltanto nella continuità delle generazioni che annulla il singolo come il punto in una linea; il

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tempo che, come memoria, trova nella collettività la sua nicchia conveniente. Terra, sangue, durata sottolineano l’imperfezione dell’individuo rispetto alla perfezione della comunità. Per far comprendere meglio al lettore il significato storico di questa fattualità, crediamo di dover insistere in una considerazione conclusiva: sono fatti immediatamente produttivi di diritto, in forza della carica giuridica che è in essi. Della terra parleremo nel prossimo paragrafo; aggiungiamo, invece, qualcosa sul sangue e sulla durata. Il sangue unisce coloro che sono partecipi dello stesso ceppo ma inesorabilmente separa da coloro che di questa partecipazione non fruiscono; unisce e separa anche sotto il profilo giuridico. Lo stesso sangue reclama un medesimo diritto; un diverso sangue esige, al contrario, l’assoluta incomunicabilità. Il diritto si propone come pertinenza di una stirpe. È il principio che gli storici sogliono chiamare della «personalità del diritto». Una vecchia storiografia giuridica arrivò ad enfatizzarlo, mentre più recenti indagini storiografiche tendono a ridurne la portata nella Francia e nella Spagna (accanite le polemiche che si sono accese tra gli studiosi spagnoli). È certo però che il sangue, quale fatto primordiale distintivo fra stirpi diverse, è un protagonista della vita giuridica proto-medievale. Nella penisola italiana, che è un vero mosaico giuridico a partire dal V secolo, stanno a dimostrarlo le cosiddette «professioni di legge», ossia le affermazioni solenni fatte davanti a un giudice da attore e convenuto precisanti la propria appartenenza a questo o a quel costume giuridico; professioni di legge diffuse fino a tutto il secolo XII sia nell’Italia del Nord che nella Longobardia minore e nel regno normanno (Italia centro-meridionale). La durata, il tempo non effimero, è qui un fatto bruto, un accumulo continuativo di momenti, che, senza al-

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cun contributo da parte di una umana volontà, unicamente per il suo scorrere fattuale incide a fondo sul piano del diritto. Situazione diversissima da istituti giuridici ben conosciuti anche dalla cultura raffinata dei Romani, come la prescrizione e l’usucapione, nei quali il decorso temporale gioca un ruolo per perdere o acquisire una posizione giuridica, ma soltanto se vi si unisce un contributo umano, un atteggiamento di negligenza o di diligenza da parte del titolare. 1.4. Il primato della consuetudine tra le fonti del diritto Riassumiamo concisamente le linee fin qui tracciate. Due direttrici di fondo: reicentrismo e comunitarismo. E un atteggiamento circolante tendente a percepire il diritto come qualcosa di fattuale. Conseguenza di questa fattualità è l’identificazione del mondo giuridico del primo Medioevo in una realtà squisitamente consuetudinaria, dove cioè spetta alla consuetudine il ruolo di fonte generatrice e consolidatrice del diritto. Che cos’è la consuetudine? Per spiegare questo singolare fenomeno, si ricorre spesso a un’immagine tanto semplice quanto efficace, che è quella di un sentiero tracciato in un bosco. Il sentiero non c’è fino a quando un soggetto intraprendente compie i primi passi in una certa direzione, seguìto poi da un numerosissimo stuolo di imitatori convinti che quello sia l’attraversamento più rapido; il sentiero non è, dunque, che un’infinità di passi costantemente ripetuti nel tempo. Lo stesso avviene nella formazione della consuetudine, che è un fatto ripetuto nel tempo in seno a una comunità piccola o grande, ripetuto perché si avverte in quel fatto una valenza positiva. E hanno ragione i filosofi nel definirla «fatto normativo», cioè fatto che, di per sé, per una propria forza, viene osservato nei tempi lunghi e diventa qualcosa di vincolante.

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In quanto fatto, la consuetudine serba necessariamente due caratteri fondamentali: nasce dal basso, dalle cose, dalla terra, e dalla terra non si separa, strisciandovi in totale adesione come una serpe e rispecchiando fedelmente la realtà locale nelle sue strutture geologiche, agronomiche, economiche, etniche; nasce dal particolare, anche se in séguito può estendersi, e reca in sé le inevitabili tracce della realtà particolare che intende ordinare giuridicamente. Ma essa non è mai un comportamento solitario; anzi, è solo dalla ripetizione collettiva d’un certo comportamento che trae origine. Ed ecco un ulteriore carattere: esprime un gruppo, una collettività, minima allo stato nascente ma che può diventare anche assai ampia col perdurare nel tempo. Insomma, la consuetudine sintetizza in sé le convinzioni e i valori che la nuova civiltà giuridica ha posto a suo fondamento con l’obiettivo di vincere la propria battaglia con la storia e garantirsi la propria presenza nella storia, e manifesta con assoluta fedeltà i fatti fondamentali della terra, del sangue, della durata nel tempo. Con una precisazione aggiuntiva assai rilevante: se non c’è dubbio che la consuetudine nasce in una comunità e la esprime, essa però tende a proiettarsi su una terra fino a immedesimàrvisi e a diventarne il carattere giuridico. In questo suo naturale sviluppo localistico, la consuetudine costituisce uno strumento verso la territorializzazione del diritto, anche se si tratterà sempre di territorializzazione limitata a ristrette aree particolari. Ogni terra ha la sua consuetudine, ogni terra attrae a sé le regole consuetudinarie e se ne intride. Ma poiché la consuetudine non consolida artificii e arbitrii bensì valori e convinzioni, essa è l’affioramento alla superficie delle radici più profonde di quella terra, e l’ordine che essa instaura è lo specchio di un ordine profondo, quell’ordine che è il vero salvataggio della società da una vi-

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ta socio-politica quotidiana spesso confusa e convulsa. La ricchissima fioritura consuetudinaria è, pertanto, in tutta Europa una sorta di nascosta ma solidissima piattaforma. È lì la costituzione del primo Medioevo, intendendo questo termine (che potrebbe suonare equivoco) non nel senso formale di noi moderni (una carta di principii redatta per iscritto, come la Costituzione italiana del 1948), bensì quale tessuto di regole non scritte ma vincolantissime perché attingono immediatamente ai valori riposti di una società. Sì, costituzione, giacché costituisce le diverse comunità socio-politiche, dà loro stabilità e fisionomia peculiare. Il diritto è assai più lì, in questo strato riposto della società, che non nei comandi dei varii principi, fossero essi pure dotati di tirannici poteri. Anzi, i principi, come vedremo tra breve, sono chiamati a un comportamento di massimo rispetto, a una lettura attenta. Essi non sono produttori di diritto, essi non creano alcunché, né la coscienza collettiva identifica nel produrre norme autoritarie generali la cifra essenziale del loro potere. La virtù che fa un principe, e anche la sua cifra autentica, e anche il suo potere/dovere caratterizzante, sta nella sua aequitas, nel suo essere giusto, e questa – a sua volta – consisterà nel rendere giustizia secondo quanto è scritto nella natura delle cose. Il suo potere altissimo si risolve in un dovere stringente. 1.5. Il primato della prassi nella identificazione dell’ordine giuridico. All’insegna del particolarismo Il paesaggio giuridico prevalente è, dunque, quello di un ampio tessuto consuetudinario, che riveste tutto l’Occidente europeo: tessuto che ha una sua unitarietà, giacché l’ammasso delle innumerevoli consuetudini è specchio di principii portanti e di scelte fondamentali comuni alla nuova esperienza giuridica in formazione, ma

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che è anche frammentatissimo, giacché ciascuna consuetudine è anche specchio di esigenze e interessi di gruppi particolari o di ristretti àmbiti locali. Il nuovo ordine giuridico è all’insegna del particolarismo, è cioè un ordine che non può né vuole soffocare le pretese che salgono dal particolare e a cui l’incompiutezza del potere politico consente di vivere e di svilupparsi in tutta la loro vitalità. In grazia di un virulento atteggiamento rei-centrico, le singole terre, fornite di un loro vigoroso magnetismo giuridico, attraggono e assorbono le mille regole consuetudinarie fino a farle diventare una qualità fondiaria al pari della diversa vegetazione che variamente le riveste. È ineccepibile pensare a un viaggiatore che, passando da una valle all’altra, non trovi mutato il solo paesaggio agrario ma altresì quello giuridico di impronta consuetudinaria. E le fonti storiche documentano in modo eloquente questa esuberante frammentazione parlando diffusamente di consuetudo regionis, consuetudo loci, consuetudo terrae, consuetudo fundi, consuetudo casae, quasi a mostrarci che gli usi, scritti sulla terra, con una compenetrazione assolutamente capillare, arrivano a particolarizzare e, in qualche modo, isolare non già una regione, ma addirittura un’azienda agraria dall’altra. In questo contesto, si può ben capire che spetti un ruolo fondamentale come fonte del diritto, ossia come strumento che permette la sua identificazione e manifestazione a livello sociale, non già a un soggetto troppo distante e distaccato come il principe, ma a chi, immerso nel luogo, fosse conoscitore e interprete delle istanze localistiche fissate nella consuetudine. Protagonista della nostra esperienza giuridica è infatti non il legislatore, non lo scienziato, ma il notaio, un uomo di prassi. Il notaio: un personaggio che non sa nulla di scienza giuridica, che sa di diritto quel tanto che gli è stato insegnato in qualche scuola professionale e che è

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quanto basta per le modeste bisogna del momento; che, ispirandosi al buonsenso, riesce a conciliare le richieste delle parti con la nascosta ma incombente realtà usuale del luogo. Silenziosamente, dimessamente, la pratica notarile non crea ma dà forma concreta e anche una sufficiente veste tecnico-giuridica a figure di cui l’esperienza ha necessità nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. Come vedremo tra poco, sarà soprattutto il terreno tutto nuovo del diritto agrario (pressoché ignoto al diritto romano) a mettere a prova la versatilità e positività del notaio proto-medievale; il campo dei contratti agrari, di cui si ha una urgenza disperata, darà piena misura di questo protagonismo notarile.

1.6. La appartatezza del legislatore E il principe? E i molti principi, che governano spesso duramente la massa dei sudditi? Che dall’alto del loro potere sono in grado di emanare norme generali e autorevoli infischiandosi del pullulare consuetudinario; che, per di più, hanno in mano la temibile arma della coazione? La domanda – puramente retorica, perché vi abbiamo già sostanzialmente risposto nelle pagine precedenti – ci serve per avviarci a dare maggiore svolgimento al tema/problema di quella che noi abbiamo creduto di qualificare come incompiutezza del potere politico, una mentalità profonda che diventa effettività storico-giuridica. Quella che a noi sembra l’attribuzione primaria e tipizzante per un sovrano moderno – il produrre diritto, il fare leggi, il proporsi innanzi tutto come legislatore – non riceveva una medesima percezione nella coscienza collettiva proto-medievale (noi potremmo tranquillamente scrivere: medievale). Il principe si esalta, invece,

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all’interno di quella coscienza come giudice, come il gran giustiziere del suo popolo, con una latitudine potestativa che arriva fino all’effusione del sangue, alla dominanza sulla vita e sulla morte dei sudditi. E le fonti religiose, politologiche, filosofiche non mancano di sottolineare la virtù massima che si chiede a un principe, virtù che è in connessione diretta con la sua attribuzione tipica: l’essere aequus, ossia essere realizzatore di equità, dove equità ha il contenuto specifico di una giustizia modellata sulla natura delle cose. Nella lettura e nella interpretazione della natura il principe si garantisce due risultati: vi trova i canoni sicuri per l’amministrazione di una giustizia veramente equa; vi legge il diritto, che le consuetudini hanno potuto decantare grazie al decorso del tempo. Il potere del principe è e sarà per tutta la vicenda medievale iurisdictio, un potere complesso dove centrale è la potestà giudiziale, ma dove – secondaria – sta anche la potestà di ius dicere nel significato specifico di «dire il diritto», di manifestarlo ai sudditi. Il principe, infatti, sa di dover fare i conti con una costituzione consuetudinaria, che non soltanto egli non ha contribuito a creare, ma che avvolge nelle sue spire tanto lui quanto l’ultimo dei suoi sudditi. Si dirà: ma, tra le fonti giuridiche proto-medievali, appaiono non pochi testi legislativi redatti da questo o quel monarca, o dalla sua cancelleria. Verissimo: i re visigoti in Spagna, quelli longobardi in Italia, i re e, poi, gli imperatori franchi hanno una produzione legislativa non irrisoria. Ma esaminiamola bene: queste leges, questi edicta appaiono prender forma da un ampio universo di mores, di costumanze immemorabili, che i monarchi non osano scalfire e in cui continuano a restare immersi. Nessuna superbia creativa da parte del monarca, il quale si limita a manifestare con la sua lex scripta quanto è già contenuto nella lex non scripta osservata spontanea-

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mente dalla comunità. In questa mentalità proto-medievale la nozione di lex si colora in modo specialissimo: tra lex e consuetudo non v’è quell’abisso concettuale che il legalismo/formalismo moderno vi ha sopra costruito: la consuetudo è una legge in potenza e la legge è una consuetudine debitamente redatta per iscritto, certificata e sistemata. Un’ultima considerazione va fatta sui contenuti: spesso si tratta di leggi sparse con contenuti specifici e occasionali, o di raccolte di leggi di monarchi precedenti, o di testi riadattati del tardo diritto romano; e spesso hanno per oggetto temi di grosso rilievo pubblico collegati all’esercizio del supremo potere pubblico sul territorio (un esempio italiano: il diritto penale e di famiglia contenuto nel vasto Edictum Langobardorum emanato dal re Rotari nell’anno 643; un esempio relativo ai re e agli imperatori franchi: i loro atti normativi, i cosiddetti Capitularia, prodotti intensamente durante il lungo regno/impero di Carlo Magno tra fine Settecento e primo Ottocento, si concentrano sulle norme regolanti l’amministrazione pubblica e soprattutto i rapporti fra potere politico e potere ecclesiastico).

1.7. Le soluzioni giuridiche della vita quotidiana di una società agraria Affinché i discorsi generali sin qui fatti non corrano il rischio di diventar generici nell’animo del novizio e per coerenza con quanto abbiamo detto all’inizio (e cioè che, centrato il nostro obbiettivo nel diritto come mentalità giuridica, si sarebbe dovuto privilegiare lo sguardo sui rapporti privati), caliamo nella vita quotidiana, nelle soluzioni e scelte che la regolano, per colmare il quadro e dargli concretezza. Ci interessano, pertanto, i rapporti contrattuali che collegano i soggetti privati nella lenta di-

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namica di una realtà economica abbastanza stagnante, ma ancor di più le soluzioni giuridiche al rapporto uomo/beni – e particolarmente uomo/terra – essenziale in una civiltà fondamentalmente agraria. Per dare forza a quanto esporremo, si ricorrerà allo strumento comparativo per la sua singolarissima capacità di esaltare le discontinuità; nel nostro caso, alla comparazione con le scelte del diritto romano còlte nel suo messaggio più genuino, messaggio che può condensarsi in un forte controllo della dimensione giuridica, pensata e risolta come funzionale alla stabilità dell’ordinamento politico. Siamo, cioè, all’opposto delle nostre conclusioni sulla nuova esperienza giuridica medievale. Converrà passare, dunque, ad una istruttiva valutazione comparativa. I Romani vollero la realtà contrattuale dominata da un rigoroso principio di tipicità: ai privati venivano proposti dei tipi contrattuali, ossia dei modelli pre-fabbricati, offrendo piena tutela solo nella eventualità di un’adozione ristretta entro il nòvero di quelli (per esempio, compravendita, locazione, mutuo, e così via). La pratica negoziale proto-medievale è, invece, all’insegna della atipicità; né poteva che esser così in una civiltà giuridica tanto profondamente consuetudinaria. L’uso aborrisce dalla modellistica rigida; i suoi stampi sono duttili e mutevoli, con un affidamento totale alle intuizioni del notaio e alla buona fede delle parti. Ben spesso la volontà delle parti contraenti era solo formalmente libera: immerse nelle spire di uno stringente universo consuetudinario, esse si rimettevano ai contenuti di cui gli usi si facevano portatori e che il notaio non mancava di segnalare. Si deve anche aggiungere che gli schemi contrattuali escogitati dalla prassi erano ben spesso latissimi e si riducevano a dei contenitori formali capaci di poter ricevere nel loro seno i contenuti consuetudinarii più diversi nella loro estrema variabilità da luogo a luogo.

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Un pari controllo mostra il territorio geloso del rapporto uomo/beni, uomo/terra; geloso perché la civiltà romana, in tutto il suo millenario svolgersi, è sempre stata accanitamente proprietaria, cioè fondata sulla proprietà privata individuale, con una funzione di questa che esorbitava dalla dimensione puramente economica per acquisire una dimensione squisitamente politica. Il sistema romano dei cosiddetti diritti reali, cioè concernenti il rapporto uomo/res, si assomma nel dominium, che è il legame di appartenenza vincolante strettamente la cosa a un soggetto privilegiato, e che si riduce a una volontà potestativa sulla cosa rispettata e tutelata dallo Stato nella sua indipendenza e libertà. Allo Stato romano preme dare rilievo a un istituto assurto al rango di fundamentum rei publicae, cerca di limitare al minimo i condizionamenti derivanti dalla convivenza con altri cittadini, e riduce le situazioni di fatto sulla cosa – contatto fisico, uso, godimento – a circostanze giuridicamente irrilevanti. Ci possono essere contatti fisici, usi, godimenti della cosa da parte di soggetti non proprietarii ma non avranno rilievo giuridico né offuscheranno la pienezza dei poteri del proprietario. È in questa cultura che nasce l’opposizione fra dominium e detentatio, fra proprietà e detenzione, fra il pieno potere sulla cosa previsto e tutelato dal diritto e il semplice rapporto di fatto, il semplice tenere la cosa; e nasce la sterilizzazione giuridica di ogni detenzione. In questa cultura antropocentrica l’attenzione è per il titolare formale (che, magari, non ha mai messo piede sulla sua terra) e non per coloro che, a vario titolo, hanno invece familiarità con la terra (per esempio, un coltivatore legato al proprietario da un rapporto di locazione e considerato semplice detentore). È ovvio che tutto ciò si capovolga nella nuova cultura reicentrica, dove manca il burattinaio che controlla tutti i fili e dove l’ordine giuridico – intimamente consuetu-

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dinario – dà un grosso rilievo alla fattualità. Certi fatti economici – uso, godimento, esercizio –, anche il semplice fatto materiale di una familiarità fisica con un bene, lasciano il limbo della irrilevanza e pretendono una loro presenza e incidenza a livello del diritto; soprattutto quando la durata ha reso effettive queste situazioni di fatto. E noi sappiamo che la grande regola costituzionale non è la validità, cioè la corrispondenza a un modello generale autoritario, bensì l’effettività. Si aggiunga il mutamento nell’osservatorio da cui si guarda il mondo fisico e sociale, che non è più il soggetto ma la cosa; con il risultato di un mondo esaminato da sotto in su. E le cose non sono più il terreno calpestato da un soggetto sovrano, ma una realtà vivente da leggere e rispettare nelle sue oggettive pretese, tanto più che ad esse sono legati i fatti vitali della coltivazione, della produzione, del sostentamento della comunità. Se il diritto romano è prevalentemente diritto civile, è cioè imperniato su un soggetto economicamente neutro, neutro perché astratto, che è il civis, il cittadino, il diritto proto-medievale è prevalentemente diritto agrario, cioè imperniato sui fatti economici fondamentali della coltivazione e della produzione, e su soggetti economicamente connotati quali allevatori, coltivatori, boscaioli; ed è tutto teso non certo al culto del proprietario formale (che pur c’è e resta), ma allo scopo di una maggiore e migliore produzione agraria, scopo in nome del quale si possono chiedere sacrificii anche rilevanti al titolare catastale del bene. Sotto un profilo tecnico-giuridico le conclusioni che spiccano sono le seguenti: l’ordine giuridico valorizza le situazioni di effettività sulla terra, soprattutto se connesse all’esercizio della impresa agraria; appare inutilizzabile l’opposizione concettuale romana fra proprietà e detenzione; molte situazioni di concessionarii rivolte al miglioramento della terra nella lunga durata si èlevano

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di per sé a situazioni para-dominative con un latente ma costante dissanguamento della posizione giuridica del proprietario formale. La prassi giuridica, con le sue povertà tecniche, con le sue figure rozzamente scolpite, è pròdromo delle conquiste che, nella maturità medievale, una consapevole scienza giuridica realizzerà con successo.

1.8. La Chiesa Romana durante il primo millennio: genesi e sistemazione del diritto canonico La Chiesa Romana è protagonista nella civiltà medievale; a ogni livello, religioso, culturale, economico-sociale, politico, giuridico. Si può ben dire che quella civiltà è, per buona parte, creatura sua. Per lo storico del diritto la vicenda della comunità romano-cattolica è di un interesse tutto speciale, perché si tratta dell’unica confessione religiosa che pretende di costituire un ordinamento giuridico originario non dipendente da nessuna formazione temporale ma risalente direttamente al Cristo come divino legislatore; perché, conseguentemente, pretende di produrre un diritto suo proprio e peculiare, il diritto canonico; perché questo diritto canonico, lungi dall’essere la disciplina di un’appartata collettività sacerdotale, in un mondo storico come quello medievale dove cielo e terra si toccano, sacro e profano si fondono, il cittadino e il fedele si congiungono in una unità perfetta, è dimensione dell’intiero ordine giuridico dando un grosso contributo al suo complessivo vólto tipico. Non possiamo eludere una domanda circa le ragioni di questa scelta per il diritto e dobbiamo tentare una risposta appagante: se non si deve minimizzare l’esigenza di fornirsi di uno strumento prezioso di potere e di controllo, la ragione principale è, a nostro avviso, antropo-

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logica, si fonda sul ruolo essenziale della società sacra – della comunità/Chiesa gerarchicamente strutturata – nel raggiungimento della salvezza eterna, sul necessario inserimento del fedele all’interno della struttura, sulla conseguente necessità di meccanismi giuridici ineliminabili a ordinare un tessuto comunitario. E la Chiesa Romana, ordinamento giuridico, si dà da fare sin dalle origini a disegnare un diritto a sé congeniale. Anche se il primo millennio di vita è solcato da movimenti ereticali, e lo sforzo è soprattutto diretto a fissare l’ortodossia religiosa in stabili verità teologiche, lentamente ma continuativamente in questi mille anni prende un vólto compiuto anche il diritto canonico. Ed è ovvio che, attraverso tanti secoli, prodotto nei luoghi più disparati del mondo allora cristianizzato e dalle fonti più diverse (pontefici, concilii, vescovi, ordini religiosi, consuetudini, teologi, giuristi), la dimensione giuridica della Chiesa sia divenuta sempre più un ammasso confuso di regole, molte delle quali si contraddicevano vicendevolmente, suscitando imbarazzo in un ordinamento sovrastato da finalità squisitamente pastorali. Allo scadere del millennio questi caratteri negativi si palesano con evidenza, ma, provvidamente, ci sono anche dei lungimiranti giuristi che si impegnano in un robusto tentativo di messa in ordine dell’enorme materiale, della sua consolidazione e armonizzazione. Alla fine dell’XI secolo, in quell’età gregoriana dominata dalla possente personalità centralizzatrice del papa Gregorio VII, è da ricordare specialmente l’opera di un prelato francese, Ivo, vescovo di Chartres, che riesce a dare una sistemazione risolutiva al diritto canonico, senza forzature ma anzi interpretandone puntualmente le intrinseche peculiarità. Ivo prende atto delle diversità e contraddizioni secolarmente accumulatesi (discordantiae), ma individua entro il materiale giuridico due livelli, che provocano una

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dicotomia imprescindibile, imprescindibile perché legata alla natura pastorale del diritto canonico: il livello alto del diritto divino (ius divinum), che ha in Dio stesso la sua fonte, che è composto di poche regole essenziali (un esempio: non uccidere), e che è perpetuo e universale, insomma immutabile perché necessario a ogni creatura umana nel cammino verso la salvezza; il livello più basso del diritto umano (ius humanum), che ha la sua fonte nella sacra gerarchia, nei giuristi, nelle consuetudini, che costituisce la più gran parte delle regole canoniche e che è soltanto utile per la salvezza; che, proprio per essere soltanto utile, deve accomodarsi alle umane fragilità, tenendo accuratamente conto delle diversità dei luoghi, dei tempi, delle circostanze, delle motivazioni degli atti. Dalla sistemazione iviana derivava un diritto marcatamente non compatto, anzi, formato da un ristretto strato superiore rigidissimo e da un ampio strato inferiore contrassegnato invece da elasticità; che doveva essere elastico per corrispondere a tutte le differenti circostanze in cui l’uomo pellegrino sulla terra si era trovato, e che unicamente nella sua elasticità trovava la possibilità di essere equo. Questo diritto era, ovviamente, nelle mani dell’applicatore della norma generale, soprattutto del giudice, che, dalla valutazione concreta su una specifica situazione, poteva usare rigore o moderazione, arrivando anche alla non-applicazione se il caso pastoralmente lo richiedeva (è ciò che i canonisti chiamano relaxatio legis). Ivo non aveva inventato alcunché, aveva semplicemente dato applicazione a un principio generale e perenne dell’ordinamento giuridico della Chiesa, la aequitas canonica, che impone la considerazione del singolo fedele, dei suoi atti particolari, delle circostanze particolari in cui questi si sono svolti, riuscendo a conseguire una identificazione puntuale del diritto canonico còlto nella sua intima indole pastorale. Ed è per questo che la dicotomia segnalata alla fine dell’XI secolo dal vescovo di

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Chartres non conosce l’usura del tempo e può essere considerata ancor oggi valida per la comprensione del diritto della Chiesa Cattolica. Sul piano storico-giuridico aggiungiamo una rilevante conclusione: la elasticità del diritto canonico umano è un lievito per l’intiera esperienza giuridica medievale marcata profondamente dal protagonismo della Chiesa Romana e del suo messaggio giuridico.

2. MATURITÀ MEDIEVALE: UN LABORATORIO SAPIENZIALE

2.1. Tra XI e XII secolo: un crinale storico. Il contesto economico-sociale. Il contesto culturale Alla fine dell’XI secolo quei mutamenti sostanziosi, che la storia porta a maturazione – riposti ma continui – nei tempi lunghi, divengono appariscenti, tanto da giustificare la collocazione in quei decennii tra un secolo e l’altro di uno spartiacque che segnala l’inoltro in uno scenario storico sensibilmente diverso. Mutato appare il paesaggio agrario, che, da prevalentemente silvo-pastorale, è ormai tratteggiato in tutta Europa da terre disboscate, dissodate e riconquistate alla cultura; ed è un paesaggio popolato da un maggior numero di abitatori. Anche la coscienza collettiva appare trasformata nel profondo: la vecchia sfiducia che costringeva, nell’imperversante disordine sociale, a ricercare le rassicuranti chiusure di un castello o di un borgo murato, si va deci-

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samente mutando in un atteggiamento di fiducia; e ne sono segni tangibili il ritorno a una diffusa circolazione e il ripopolamento delle città. Il vecchio paesaggio si fa più complesso: ancora fortemente incentrato sulla campagna, si fa però anche cittadino. Ma la città non è soltanto un ammasso di pietre; è innanzi tutto un fatto spirituale. Se il castello è appartato sulla cima d’una collina, la città si colloca sugli snodi delle grandi strade ormai nuovamente battute, ed è realtà per sua natura non autarchica, anzi dalla vocazione aperta, che trae vita dagli apporti di uomini e beni provenienti dall’esterno. La scelta, via via più intensa, che si comincia a fare per la città è la dimostrazione della rinnovata fiducia per rapporti sociali ariosi e di sempre più lunga gittata. Anche il numero dei protagonisti sociali si amplia, e fa la sua comparsa il mercante professionale. Ormai, non basta più il vecchio mercato proto-medievale, luogo di permute di prodotti locali da parte di produttori locali. Ora c’è maggior copiosità di beni e, quindi, esigenza di scambii a largo raggio; e riprende campo l’intermediazione della moneta, che è la testimonianza più concreta della vivacità economica e della diffusa fiducia. C’è bisogno di un soggetto tutto nuovo che faccia della mercatura la professione della propria vita, della città la sua sede, di un panorama ormai europeo il territorio necessario ai suoi traffici. Ed è il mercante il nuovo protagonista, anche lui segno di fiducia, di apertura a scenarii sempre più ampii. Fin qui il discorso ha avuto un contenuto socio-economico, ma deve ora estendersi anche alla dimensione culturale. Se nei secoli proto-medievali non mancarono scuole e centri di intensa cultura e di scavi penetranti in campo teologico e filosofico, ciò avvenne nell’ambiente chiuso di qualche monastero, senza che questi arricchimenti culturali circolassero fuori delle mura claustrali e fecondassero la società civile. Ora, invece, la scuola ap-

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pare sempre più spesso al centro della città, accanto alla chiesa cattedrale, e di cultura circolante si tratta. Quel vuoto culturale, che ci ha permesso di parlare non solo di naturalismo ma anche di primitivismo, si va colmando, e lo dimostra la fioritura del secolo XII, una fioritura fatta non di riflessioni isolate ma di grosse personalità che agiscono all’interno di una rete di rapporti a spettro sicuramente europeo, spesso in acceso dialogo, con scuole che sono per elezione culle di dibattiti e pertanto fucine di una cultura cui ripugna il soffocamento del particolare e che aspira all’universale; siamo anche alla nascita della grande e fra breve diffusissima germinazione universitaria. A noi interessa sottolineare le ricche revisioni che avvengono nel campo della teologia e della filosofia, perché ne trarrà vigore intellettuale la scienza giuridica che comincia ad allignare bene in questo terreno fertile.

2.2. Potere politico e diritto. La appartatezza del legislatore Dunque, parecchie novità a cavallo fra undecimo e duodecimo secolo: nelle strutture stesse della società occidentale, nella coscienza collettiva. E uomini di cultura, che, accanto ai mercanti, percorrono le riattate arterie stradali portando ovunque il seme d’una riflessione autenticamente scientifica e certamente colmando uno dei due vuoti entro cui si era modellata l’originalità della civiltà proto-medievale. A questo punto, riterrei più che legittima una domanda del lettore: queste mutazioni, sulle quali si è creduto di insistere, quale grado di incidenza hanno sul vólto della esperienza giuridica medievale? Si può ancora parlare di un’unica esperienza, che corre continua fino al Trecento, o si deve individuare nel nostro spartiacque

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un solco che separa due esperienze irrimediabilmente diversificate nelle loro radici più intime? Domanda legittima ma anche opportuna, perché ci consente di rispondere, in coerenza con le nostre premesse, che l’esperienza giuridica è una, giacché uno è il suo vólto essenziale, unitarie restano le sue fondazioni, unitario il modo di vivere e concepire il diritto. A ciò si deve unire una semplice avvertenza: questa esperienza – che la modernità ha voluto minimizzare chiamandola maliziosamente ‘medioevo’, età di mezzo, età di transizione – ha la durata di un millennio (o giù di lì), e il tempo (che non passa mai invano) non può che apportare, nella lunghissima durata, delle variazioni su quel vólto; le quali, tuttavia, non debbono ingannarci e farci dimenticare la costanza nelle scelte fondamentali. Il nostro cómpito – non lieve – è ora di motivare asserzioni generiche e insoddisfacenti. E cominciamo súbito col dire che la novità (e non di poco conto) di una forte dimensione culturale, lungi dallo stravolgere l’identità medievale, si innesterà armonicamente sulla piattaforma fattuale del diritto distillata lentamente da una prassi, dando a quella l’ulteriore valenza necessaria per corrispondere ai bisogni di una civiltà più dinamica, più complessa, insieme campagnola e cittadina, agraria e mercantile. Preme un primo fondamentale rilievo: se il vuoto culturale è colmato, incolmato resta invece il vuoto politico. Quel soggetto pubblico ingombrante, che ritiene di potersi e doversi occupare di tutto quanto avviene a livello del sociale, che ritiene di potere e dovere controllare la dimensione giuridica di un popolo e, quindi, di produrre diritto, tutto il diritto possibile, è un futuribile che concerne tempi ulteriori. Il principe continua ad essere pensato e risolto dalla coscienza collettiva come il giudice supremo della comunità, con una dote (e virtù) basilare, irrinunciabile:

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l’equità, la capacità di attuare una giustizia fondata sulla natura stessa delle cose. Giovanni di Salisbury, un prelato inglese che scrive a metà del 1100 il primo grande trattato di filosofia politica dell’incipiente medioevo sapienziale, lo ritrae come «imago aequitatis»1, immagine dell’equità, caratterizzando la legge quale «aequitatis interpres», interprete dell’equità, e, all’incirca cento anni dopo, Tommaso d’Aquino, il consolidatore delle certezze teologiche e filosofiche medievali, lo identifica secondo un medesimo timbro come «custos iusti»2, custode di ciò che è giusto. In altre parole, un principe che non è còlto come volontà suprema, con in mano un potere arbitrario sopra i sudditi, bensì come personaggio attento a leggere la natura, ossia la grande realtà dove sono scritti i canoni del giusto; ed è per questo che lo stesso san Tommaso, in alcune sue celebri definizioni di ‘lex’3, la individua nel frutto di una operazione razionale, conoscitiva, tesa non a proiettare una volontà dispotica sulla comunità dei sudditi, ma a ordinarla («ordinamento della ragione rivolto al bene comune»). La coscienza collettiva continua a non identificare il principe in un ‘legislatore’, cioè in un facitore del diritto; in lui il dovere di leggere la natura non è per ricavarne norme generali autoritarie ma unicamente la misura della vera giustizia. E lui stesso non avverte nella funzione ‘legislativa’ il carattere tipizzante del suo potere. Continua la relativa indifferenza per il diritto che abbiamo già sottolineato per i secoli proto-medievali, continua 1 Giovanni di Salisbury, Policraticus, lib. VI, cap. II; per la successiva citazione della legge quale «aequitatis interpres» si veda ivi, lib. IV, cap. II. 2 Tommaso d’Aquino, Summa theologica, secunda secundae, quaest. LVIII, art. 1, ad 5. 3 Le definizioni tomiste di lex sono reperibili in Summa theologica, prima secundae, quaest. XC, art. 3 e art. 4; quaest. XCI, art. 2, ad 3 e art. 3.

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la relativa afasia legislativa. Il principe si limita a produrre norme per disciplinare il ristretto campo connesso all’esercizio del pubblico potere. E questo è ovvio, perché continua l’impero delle consuetudini, perché il diritto ha un’impronta consuetudinaria, verso la quale il potere politico – come facitore di norme – si pone marginale e in posizione di sincero rispetto. Un quadro che non muta nell’Italia centro-settentrionale, dove comincia una esuberanza cittadina che si concretizza nei liberi Comuni: gli Statuti, espressione della loro autonomia, sono regolamenti il più delle volte disorganici, senza alcuna pretesa omnicomprensiva e dove ricevono maggiore attenzione i minimi problemi urbanistici che non i grandi istituti regolanti la vita dei privati. E non muta nemmeno nell’Italia meridionale dove un grande monarca, Federico II di Svevia, fa redigere per il suo regno di Sicilia, nel 1231, un troppo magnificato e gigantizzato monumento normativo, il Liber constitutionum regni Siciliae, il cosiddetto Liber Augustalis, un testo ambiguo ricolmo com’è di figurazioni passate nella concezione del potere che si mescolano con alcune intuizioni innovative. Non sarà male dare un rapido sguardo a quanto avviene Oltralpe durante il Duecento, secolo estremo della medievalità ma in cui ci sono eloquenti conferme di quel che or ora si diceva. Non ci interessa tanto l’area germanica, che continua per tutto il secolo ad essere terra di consuetudini, quanto le monarchie che in Francia, Spagna e Portogallo stanno iniziando un cammino che le porterà più tardi a una configurazione finalmente statuale. La Francia non tarderà ad essere per noi, di lì a breve tempo, il vero laboratorio politico-giuridico della modernità. Qui la monarchia, pesantemente condizionata nella sua azione dalla feudalità, comincia a crearsi uno spazio politico sempre più solido riconquistando a sé un territorio sempre più ampio, opera nella quale eccelle

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un monarca dalla indubbia capacità progettuale, Filippo Augusto (1180-1223). Per tutto il secolo l’attività legislativa è, però, sporadica e limitata a interventi di indole pubblicistica; in tempo di pace, la vita privata dei cittadini continua ad essere regolata da un secolare tessuto consuetudinario, mentre il re – come si esprime efficacemente uno dei più grandi giuristi francesi del secolo, il Beaumanoir4 – è soprattutto «custode delle consuetudini». La prima grande Ordonnance riformatrice – ordonnance sta divenendo il termine che indica la norma generale regia – è emanata da san Luigi (Luigi IX) nel 1254 al suo ritorno dalla Crociata, ma riguarda gli abusi degli amministratori reali rispetto ai quali il re non sa far di meglio che riaffermare il valore delle consuetudini locali. In Portogallo la legislazione regia si intensificherà solo con Alfonso III (1248-1279). In Spagna, mentre in Catalogna, Aragona, Valenza, Navarra dominano fino alla metà del Duecento diritti locali dal carattere schiettamente consuetudinario, in Castiglia, nella seconda metà del secolo, abbiamo un cospicuo intervento di Alfonso X il Saggio (1265-1284) che tende a forzare il localismo consuetudinario, ma intervento singolarissimo e che la dice lunga sulla qualità di legislatore di quel re: Las siete partidas, il monumento legislativo alfonsino, così chiamato per la sua partizione interna, ha un contenuto di diritto comune e non castigliano, cioè di quel diritto universale romano e canonico di cui non abbiamo ancora parlato ma di cui fin da ora si deve sottolineare il carattere prevalentemente scientifico. E infatti la prassi del regno, malgrado la tra4

Cit. in J.M. Carbasse, Manuel d’introduction historique au droit, Paris 20053, p. 192.

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duzione nella familiare lingua locale, lo respingerà recisamente come corpo estraneo.

2.3. La ritrovata complessità della società occidentale esige rinnovati strumenti giuridici Ecco, quindi, un evidente segno di continuità: persiste fino al pieno Duecento la dominanza della consuetudine quale fonte del diritto, e persiste pertanto la fattualità del diritto. È, questa, una continuità sostanziale; diremo di più: essenziale. Fonte materna, aderente ai luoghi e agli interessi locali, la consuetudine ha però un intrinseco difetto che non abbiamo mancato di segnalare: il particolarismo, esprime il particolare, si intride di particolare. In una società semplice come quella del primo Medioevo, società statica, società dalla trasformazione lentissima, la consuetudine può essere l’unica veste giuridica capace di ordinarla effettivamente, ma si dimostra inidonea proprio per il suo frammentarismo quando il paesaggio socioeconomico-giuridico si fa complesso, quando la dinamica dei rapporti economici comporta una pari dinamica dei rapporti giuridici, quando il reticolato delle relazioni si infittisce e si allarga formando un tessuto che va dalle città anseatiche sul Baltico al Mediterraneo che le Crociate hanno recuperato nella sua interezza. In un simile contesto, così macroscopicamente complesso e diffuso, la consuetudine rivela la sua impotenza ordinatrice. È ovvio che fatti e usi permangano come matrice prima, ma nel momento in cui fatti e usi si inseriscono in uno spazio amplissimo, quando alla dimensione agraria si congiunge – intersecàndosi – una vivace dimensione mercantile, ecco che emerge prepotente l’esigenza di quegli schemi generali, di quelle categorie generali ordinanti e anche di una tecnica giuridica rigoro-

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sa e raffinata che il fattuale universo consuetudinario non è in grado di fornire. I fatti hanno bisogno di una intelaiatura ordinante che non li soffochi ma che li organizzi e li sistemi, che realizzi una unità delle diversità, perché incombe altrimenti lo spettro di un caos indominabile. Orbene! Due sono le fonti giuridiche idonee a conseguire questo scopo: la legge e la scienza, due fonti che possono sovraordinarsi all’ammasso dei fatti particolari e organizzarli secondo principii, concetti, schemi generali. Potrebbe farlo egregiamente il principe, sia esso monarca o città libera, ma c’è da parte sua una sostanziale rinuncia a leggere natura e fatti traducendoli in regole; la veste del legislatore ancora non gli si addice. Non resta che una risorsa per la civiltà medievale, che ha recuperato ormai una intensa dimensione sapienziale; ed è precisamente il ricorso alla scienza, alla scienza giuridica.

2.4. Il ruolo della scienza giuridica. Universalismo e particolarismo. Consuetudini e scienza nell’identificazione dell’ordine giuridico Medioevo sapienziale: un simile aggettivo si confà alla fase della maturità medievale, perché in essa è la scienza – per noi, la scienza giuridica – ad avere un ruolo primario. E assistiamo alla circostanza rilevantissima che l’esperienza affida alla scienza di disegnare quel diritto di cui il momento storico ha urgente necessità. Le motivazioni sono molte, e la prima può ben essere quella già sottolineata nel paragrafo precedente: la scienza è la sola fonte che, in assenza di un potere politico compiuto, può raccogliere, organizzare, unificare un enorme materiale fattuale sparso, ossia può conferirgli quel carattere ordinativo che è la cifra intima del diritto, di ogni dimensione giuridica. Con questo non piccolo

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vantaggio: che, mentre la norma autorevole del principe non può che tradursi in comandi generali necessariamente rigidi, le categorie teoriche e i principii, di cui è portatrice una riflessione scientifica, hanno una loro elasticità che li rende particolarmente congeniali a un’esperienza giuridica in perenne cammino. Come opportunamente si precisava più sopra, la scienza armonizza non sopprimendo le diversità ma riconducèndole nell’alveo delle grandi linee direttrici quali elementi di arricchimento. Una così sentita centralità della scienza giuridica poggia però anche su altre solide ragioni. Il direttore della nostra collana «Fare l’Europa», Jacques Le Goff, ha scritto un volume improntatore che, nella traduzione italiana, è stato felicemente intitolato Il cielo sceso in terra5, rispecchiando fedelmente una delle intuizioni di fondo del grande medievista e puntualizzando bene una civiltà storica in straordinaria percezione di una realtà al di sopra della natura e della storia, una civiltà che vive nello spazio e nel tempo ma che trova la sua finalità ultima al di là dello spazio e del tempo. In questa civiltà, il giurista, il maestro di diritto, in quanto sapiens, è più di ogni altro operatore terreno in un rapporto di partecipazione con Dio, sapienza somma, verità somma. È personaggio illuminato e illuminante, quasi un mediatore fra cielo e terra, certamente colui che è su un gradino superiore a tutti nella ricerca della verità. E questo spiega l’affidarsi a lui. Quel che si deve, però, aggiungere, per non essere tratti a conclusioni falsanti, è che si tratta di scienza incarnata. Lo vedremo meglio nei prossimi capitoli, ma va-

5 Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa, Roma-Bari 2004. Nella edizione originale francese (Editions du Seuil, Paris 2003) il volume era intitolato L’Europe est-elle née au moyen age?.

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le la pena anticiparne ora qualcosa. Non sono in gioco sapienti chiusi nel loro studio, maledettamente assorbiti da disegni teorici as-tratti dal contesto circostante; sono grandi speculativi, quasi sempre grandi maestri nelle università ormai disseminate in tutta Europa6, ma sono personaggi in carne ed ossa, ben inseriti all’interno della società civile e non di rado in posizioni di prestigio e di potere, per di più attentissimi a quanto accade fuori dello scrittoio o dell’aula di lezione, e coscienti che su di essi pesa il carico onorevole e greve di dare ordine al magma socio-economico. Felice atteggiamento, che pone questa coralità scientifica in feconda simbiosi con la sussistente e crescente piattaforma consuetudinaria e comunque fattuale. I nuovi fatti economici e sociali, sempre nuovi in una esperienza in costruzione quale quella tardo-medievale – un cantiere perennemente aperto –, i nuovi casi proposti dalla prassi, le nuove figure e i nuovi istituti di cui ha ormai necessità la vita d’ogni giorno, trovano una stabile sistemazione teorica e tecnica nelle pagine degli uomini di scienza; sottratti alla incandescenza del divenire, si trasformano in un messaggio più decantato, rigoroso e universalizzante. La figura, l’istituto, grazie al consolidamento scientifico, diventa un modello attuabile in altri contesti consimili, in altri luoghi, in altri tempi. La scienza assume pienamente una funzione ordinatrice e pienamente raggiunge lo scopo.

6 La proliferazione delle università a partire dalla fine del secolo XI, quali centri di ricerca scientifica, di comunicazione e formazione culturale, è uno dei tratti più notevoli e tipici del secondo Medioevo.

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2.5. Sul carattere della scienza giuridica tardo-medievale. Diritto comune, diritto romano, diritto canonico Dobbiamo calare un po’ più nel concreto. Sappiamo che la scienza giuridica ha un ruolo da protagonista, e ne conosciamo le ragioni. Occorre ora caratterizzarne meglio i tratti identificativi. In prima linea, non avrei esitazione nell’evidenziare la sua solitudine, intendendo con questo termine sorprendente che il nostro coro di scienziati non opera all’interno di un potere politico compiuto, il quale certamente – come spesso constateremo nella modernità – condiziona e vincola, ma anche protegge e soprattutto conferisce autorevolezza in grazia della possibilità di coercizione tenacemente nelle sue mani tramite le forze di polizia. L’autorevolezza di questi maestri è unicamente riposta nel loro prestigio spirituale e intellettuale, ma è bastevole per generare l’osservanza della comunità senza la quale non si ha diritto? Essi avevano un disperato bisogno di autorevolezza, e questa non poteva esser fornita dal singolo giurista alto dignitario alla corte di un principe o notabile influente nell’organismo pubblico di un Comune libero, come spesso succedeva. Ne aveva bisogno il loro messaggio scientifico corale. Eran giuristi che nel loro subconscio nutrivano saldamente le convinzioni naturalistiche e fattualistiche di generazioni di pratici proto-medievali che si erano sedimentate nella coscienza collettiva, ed eran portati a guardare attenti e compiaciuti ai fatti della realtà loro contemporanea; lì stava la dimensione primaria della effettività. Mancava loro, però, un supporto di validità, cioè un modello superiore, generale ed autorevole, a cui ancorare il brulichìo di creature effettive che essi eran chiamati a disegnare concettualmente e tecnicamente. Quel modello lo si trovò nel diritto romano. Durante il primo Medioevo il diritto romano aveva vi-

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vacchiato, vestendo tuttavia i panni rozzi che erano gli unici confacenti; si era ‘volgarizzato’, come dicono i romanisti, assorbendo tratti semplici, fattuali ma efficaci, deponendo invece i pinnacoli alti eretti da una raffinatissima scienza giuridica. Si pensi che il suo scrigno più prezioso, i cinquanta libri del Digesto contenenti il tesoro scientifico romano, restano ignorati perché incomprensibili per tutti i secoli proto-medievali, perché inidonei, perché non servivano cappelli piumati e lustrini a un volgo di agricoltori e di pastori. E non hanno torto gli storici del diritto quando segnano con enfasi una data puntuale, il 1076, allorché in una carta giudiziaria proveniente dalla Toscana per la prima volta ci si riferisce a un frammento del Digesto. Si torna a usarlo, perché ora, nel 1076, lo si può capire, lo si può adoperare consapevolmente. La dovizia culturale della fine del secolo undecimo dà, sul piano della storia giuridica, anche questo frutto specifico: riaffiora alla superficie storica nella pienezza del suo messaggio scientifico un patrimonio che sembrava perduto per sempre ma che era soltanto sepolto. È un frutto che viene subito afferrato. Quello che noi abbiamo sopra chiamato troppo vagamente ‘diritto romano’ e che è il ‘diritto romano’ così come viene consolidato dall’imperatore Giustiniano, nella prima metà del VI secolo d.C., nel maestoso monumento del Corpus iuris civilis, composto dalle Institutiones, dal Digesto, dal Codex, dalle Novellae – non è per i giuristi dell’XI-XII secolo unicamente uno scrigno di vocaboli appropriati, di concetti rigorosi e di invenzioni tecniche, tutti ora finalmente percepibili nella forte valenza di solidissima grammatica giuridica; è anche e soprattutto l’agognato modello autorevole, munito d’una autorevolezza enorme ai loro occhi. Enorme almeno per due motivi: in primo luogo, per la sua vetustà, perché appartiene al favoloso mondo antico e lo riassume, perché – come diceva Giovanni di Sa-

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lisbury, che già conosciamo – «venerabilior est vetustas», perché l’antichità non può non essere oggetto di particolare venerazione; secondariamente perché il ‘legislatore’ è Giustiniano, che non è solo un imperatore romano, ma anche un imperatore cattolicissimo, custode della ortodossia, protettore (anche troppo) della Chiesa, come dimostravano quelle parti del Corpus iuris in cui si parlava dottamente e rispettosamente di dogmi di fede. Il diritto romano serviva egregiamente come supporto di validità per le elaborazioni della scienza giuridica medievale: era il modello autorevole che avrebbe, a sua volta, garantito loro autorevolezza e, quindi, l’osservanza generale. Lo scienziato doveva rivestirsi dei panni del romanista, doveva porre ogni suo discorso all’ombra protettiva di qualche frammento del Corpus iuris, frammenti che i medievali senza mezzi termini chiamavano ‘leges’ quasi per sottolinearne la perentorietà. Tutto bene. Ma qual è la sorte dei fatti contemporanei ai nostri dottori? È forse un tradimento verso quel primato dell’effettività, che pur sentivano intensamente nelle loro coscienze di giuristi ben inseriti nel loro tempo? Non dimentichiamo, infatti, che il complesso normativo giustinianeo rappresentava un messaggio giuridico risalente, al più tardi, al secolo VI dopo Cristo, ed era messaggio di alto valore ma esprimente una società e un ambiente storico profondamente diversi. E avvenne che si mescolassero in loro due ossequii sinceri, ai venerabili testi giustinianei e alla chiamata della civiltà contemporanea, con la possibilità, però, che l’uno si ponesse in contrasto con l’altro, che la richiesta della vita quotidiana medievale non trovasse rispondenza nei sacri testi o la trovasse non confacente. La soluzione, che segnala la problematicità del loro approccio e che può risultare poco accetta a un uomo di cultura del secolo ventunesimo, è che non si allontanarono mai formalmen-

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te dalla ‘legge’ romana, ma se ne allontanarono sostanzialmente allorché lo richiedeva la loro funzione di costruttori di un nuovo ordine giuridico. Essi lessero il Corpus iuris con occhi di uomini del tardo Medioevo; essi lo interpretarono alla luce delle novissime esigenze presenti attorno a loro, tanto che sono più apparenti che reali i panni del romanista da loro indossati. I protagonisti futuri dell’Umanesimo, come vedremo, li reputarono asini e ignoranti, giacché talora, spesso, di interpretazione non fedele si trattava, o, se volete, di tradimento del contenuto genuinamente romano. Certamente, in essi vi fu una intima contraddizione, perché in contraddizione potevano essere le due fonti ispiratrici, i fatti contemporanei e la ‘legge’ antica. Una cosa essi non potevano fare e non fecero: gettare alle ortiche il diritto romano. Non potevano farlo per il grado di venerabilità che aveva ai loro occhi, ma soprattutto perché vi si condensava la validità delle elaborazioni dottorali. Si ebbe allora questa singolare posizione: all’indiscutibile e costante ossequio formale si accompagnava – ove ce ne fosse necessità – una disinvolta soluzione reclamata dalle circostanze novissime, si invocava un testo antico per proteggere una soluzione ad esso estranea se non contraria. I nostri giuristi erano interpreti, ma non nel significato – corrente nell’Europa continentale moderna – di approccio con un testo vincolato da quel testo; la loro interpretatio – uso volentieri il termine latino per evitare equivoci – è più intermediazione fra legge antica e fatti novissimi che spiegazione, esegesi. La tradizione ha chiamato «glossatori» la prima grande scuola originatasi a Bologna fra XI e XII secolo e ha chiamato «commentatori» la più matura, culturalmente più provvista, scuola che, nel Trecento e nel Quattrocento, è una fioritura italiana ed europea, ma sia chiaro

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che, se è corretto parlar di ‘glosse’ e di ‘commenti’ perché sempre questi maestri si proposero come interpreti del Corpus giustinianeo, la loro intermediazione fu creativa, creativa di quel nuovo diritto, tipico di un momento altamente sapienziale, che siamo soliti chiamare «ius commune», «diritto comune». Ius commune. Un diritto prodotto dai giuristi, da coloro che sanno di diritto, giudici, notai, avvocati, ma soprattutto scienziati, soprattutto maestri; maestri che insegnavano nelle università di tutta Europa ma che, ben immersi nella carnalità dell’esperienza giuridica, non si peritavano a farsi consiglieri dei detentori del potere, consulenti nei tribunali delle parti in causa e del giudice, a esercitare con successo l’avvocatura e il notariato. Un diritto che nasceva dal dialogo complesso che essi instauravano contemporaneamente con i fatti di vita presenti e con le regole romane fissate nei testi antichi. Se questo libro non avesse lo scopo di tracciare un disegno generale, sarebbe interessante misurare la novità delle loro invenzioni entro il tessuto dei varii istituti. Dobbiamo limitarci a sottolineare il grado di creatività e di fantasia sul tema economicamente e socialmente più rilevante, quello della proprietà: malgrado che le fonti romane parlassero chiaro dell’unicità del dominium, gli interpreti, eredi della prassi proto-medievale che aveva spostato la sua attenzione sulle situazioni di effettività e le aveva rivalutate, consapevoli che quelle situazioni ormai reclamavano una valorizzazione giuridico-formale, giocando disinvoltamente su alcuni testi romani e tradèndone il messaggio, arrivarono a costruire due proprietà sulla stessa cosa, elevando le situazioni di effettività sul bene al rango di una proprietà, il dominium utile; si dava vita a quella ‘teoria del dominio diviso’ che avrà una esistenza lunghissima, giungendo fino alle soglie della rivoluzione francese. Ius commune. Un diritto corale, la voce d’una intiera

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comunità di giuristi, che non conosce frontiere e che si propone a noi come la voce di un ceto di tecnici impegnati nella costruzione di un grosso edificio, quel diritto senza Stato come continua ad essere il diritto del tardo Medioevo. Giustamente un grande storico italiano del diritto, Francesco Calasso, ha parlato del «diritto comune come fatto spirituale»7. Ius commune. Un diritto senza frontiere – abbiam detto –, come è proprio della scienza, che nutre sempre in sé una vocazione all’universale e a cui ripugnano le artificiose barriere politiche. Il che è dimostrato da quella straordinaria circolazione di docenti e discenti, pellegrini di cultura itineranti da una sede universitaria all’altra, tutti cittadini di quella repubblica sapienziale nella quale nessuno può sentirsi straniero. Un diritto che realizza l’unità giuridica europea, un diritto a proiezione universale, l’unica legittima per la scienza. Un esempio illuminante, fra i tantissimi, lo ricaviamo dai Commentarii del principe della scuola dei «commentatori», Bartolo da Sassoferrato, un giurista italiano vissuto nella prima metà del Trecento. In una pagina di questi Commentarii, che sono prevalentemente appunti dalle lezioni e che si concretano in un dialogo vivo con gli studenti, Bartolo integra la sua spiegazione accennando a un maestro tedesco che aveva tenuto nella mattina la sua lezione e che aveva parlato della opinione di un professore della Università di Orléans8. La piccola aula della Università di Perugia (dove Bartolo insegna) non è rinchiusa nelle mu7 Il diritto comune come fatto spirituale è la intitolazione della prolusione fatta da Francesco Calasso alla Università di Roma nel 1946 (ora in Id., Introduzione al diritto comune, Milano 1951). 8 Ecco qui, nella sua originaria scrittura latina, il testo tratto dalle lezioni di Bartolo da Sassoferrato (è nel commentario a un frammento del Digesto, e precisamente al frammento 17, titolo 2, del libro 41): «quidam Doctor de Aurelianis, ut retulit ille Doctor Theutonicus qui pridie hic repetiit, dicit...».

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ra di una città dell’Italia centrale, ma è al centro di una raggiera di relazioni intellettuali fra Italia, Germania, Francia; la sua collocazione spaziale è al cuore dell’intiero mondo civilizzato. Due necessarie precisazioni. Il diritto comune non è, come diceva un tempo un romanista italiano, un «diritto romano ammodernato», o, come qualche sprovveduto ancora vorrebbe, la semplice continuazione nel Medioevo dell’antico diritto romano, «ius romanum medii aevi». Per lo ius commune il diritto romano è fonte di autorevolezza, strumento prezioso di validità; è un necessario elemento di confronto, un modello di linguaggio, di idee, di tecniche, ma sarebbe una falsazione della tipicità giuridica medievale operare una identificazione. Rispetto al nuovo tessuto giuridico tardomedievale il diritto romano è solo un filo della tela, anche se rilevante; e, come si sa, i fili sono trasfigurati nella realtà nuova e diversa che è la tela. Seconda precisazione, e non meno rilevante. Ius commune significa diritto comune a tutte le genti, perché ispirato alla razionalità che è sempre il nerbo segreto e la risorsa della scienza. Ma è comune anche perché l’uomo integrale del Medioevo, in cui si fondono armonicamente il cittadino e il fedele, non ritiene estraneo a sé il diritto della confessione religiosa imperante, il diritto canonico. Se questo, per il giurista odierno, è il complesso di regole giuridiche di un ordinamento diverso dallo Stato e che ha una vita indipendente dallo Stato, dai varii Stati, ciò è impensabile nella civiltà medievale, dove il diritto della Chiesa Romana è un secondo modello autorevole, un secondo supporto di validità. E il giurista non è soltanto interprete della ‘legge’ romana contenuta nel Corpus iuris civilis, ma altresì della ‘legge’ canonica; il buon giurista deve possedere una competenza specifica anche in questa, e il diritto che ne risulta è ius commune anche sotto questo profilo.

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2.6. La sistemazione del diritto canonico. L’edificazione del diritto canonico classico Abbiamo visto come, durante il primo millennio, la Chiesa Romana abbia lentamente ma costantemente costruito un diritto a sé congeniale, un diritto segnato da quella cifra tipica che si conviene a un ordinamento giuridico dal prevalente scopo pastorale; e abbiamo anche visto che, agli albori del secondo millennio, un primo bilancio viene tracciato nelle opere di alcuni canonisti dell’età gregoriana cominciando ad armonizzare le diversità e a edificare un sistema fondato sulla basilare distinzione fra diritto divino e umano. I due secoli che seguono, e che sono il coerente (anzi, accentuato) svolgimento della politica gregoriana, secoli segnati dal protagonismo di pontefici dalla forte preparazione giuridica, ospitano la compiuta sistemazione del diritto canonico; è il momento che viene non a torto qualificato come «diritto canonico classico». Se a metà del millecento sarà un monaco, Graziano, a tentare, in un’opera famosa ma a titolo privato, la Concordia discordantium canonum, una armonizzazione delle diversità nell’unità, nel Duecento saranno gli stessi pontefici che, a livello ufficiale, si faranno promotori di rilevanti raccolte normative, Gregorio IX nel 1234, Bonifacio VIII nel 1298, e poi Giovanni XXII nel 1317. La Chiesa sta formando quello che più tardi sarà chiamato, sul modello dello stampo giustinianeo, Corpus iuris canonici. La cifra tecnica di questo singolare diritto plasmato in forme assolutamente tipiche dal proprio scopo pastorale è quella riassunta egregiamente da Ivo di Chartres, e non ci resta che rinviare il lettore alle nostre notazioni precedenti. Vogliamo, ora, aggiungere delle precisazioni sulla fonte prevalente (anche se non esclusiva) con cui il diritto canonico di questa età si manifesta: la cosiddetta «decretale». Decretale è un aggettivo, significa ‘deciso-

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rio’, presuppone il sostantivo ‘lettera’ (epistola decretalis), e si concreta nella risposta che il papa dà a richieste di chiarimenti definitivi su casi dubbii emersi nell’applicazione quotidiana. Lettere decisorie, dunque. Strane fonti che, a guardarle con occhi moderni, ci appaiono difficilmente inquadrabili, non essendo né leggi né sentenze giudiziali né atti amministrativi, ma che esprimono appieno la sintesi dei poteri di cui il pontefice romano è titolare: contemplano un caso singolo e lo decidono, ma hanno il carattere di norma valevole anche per consimili episodii futuri. È chiaro che, se mantengono un ruolo importante le disposizioni dei Concilii, la scienza giuridica canonistica e le pronuncie giudiziali, un ruolo centrale è, ormai, nel pontefice, vicarius Christi, guida suprema che ha in mano ogni potere nella Chiesa quale successore diretto di Pietro; e lo dimostra appunto la proliferazione massiccia di ‘decretali’. Tuttavia, questa proliferazione dimostra anche che il diritto canonico disdegna le regole generali ed astratte prediligendo invece il caso concreto con tutto il corredo di circostanze ad esso collegate; la sua ‘pastoralità’ lo porta, insomma, ad essere un diritto dall’indole squisitamente casistica. Da questo momento, e fino al primo Codex iuris canonici del 1917, il diritto della Chiesa romana apparirà soprattutto «ius decretalium», diritto fatto di decretali, e come tale sarà qualificato.

2.7. Diritto comune, leggi e statuti particolari nazionali e locali Il diritto comune era munito di una travolgente forza espansiva; perché era un diritto scientifico. Era un forziere pressoché inesauribile di analisi e soluzioni tecnico-giuridiche, ma anche di quei concetti e principii, insieme astratti e duttili, di cui la complessa realtà socio-

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economica del tardo Medioevo aveva un urgente bisogno. Era un diritto a proiezione universale in ragione della sua sapienzialità; non immiserito da configurazioni locali, anche se disponibile ad assorbire in sé i localismi più diversi, ogni giurista, teorico o pratico, in esso si riconosceva e vi reperiva strumenti ed arnesi idonei per il proprio lavoro creativo. Nato nel terreno culturalmente fertile dell’Italia centro-settentrionale e con una origine precisa in quella Bologna che può veramente dirsi ‘alma mater’ degli studii giuridici, aveva dilagato in tutta Europa approntando il tessuto unitario – un vocabolario comune e un ideario comune – che faceva sentire ogni giurista in patria malgrado i suoi spostamenti tra l’estremo frazionismo politico europeo. E lo si insegnava non solo a Bologna e nell’Italia centro-settentrionale ma in tutte le università, a Salamanca come a Lisbona, a Montpellier, a Orléans, a Parigi. Lo stesso Federico II di Svevia, l’ambiguo legislatore che aveva dato vita nel 1231 a un autonomo corpo normativo per il suo Regno di Sicilia, assume lo ius commune come oggetto primario di studio nelle da lui riordinate scuole giuridiche napoletane chiamandovi insegnanti di schietta formazione bolognese. Ma la penetrazione fu ancor più sottile: anche nella redazione di atti legislativi regii le cancellerie principesche gremite di giuristi si modellavano spesso sui provvedutissimi schemi tecnici del diritto comune e lo stesso avveniva nelle redazioni scritte di consuetudini o di statuti cittadini operate da redattori professionalmente giuristi; fino ad arrivare ad esempii estremi come quello offertoci dal re di Castiglia Alfonso il Saggio, che fa del suo monumento legislativo Las siete partidas quasi un testo di puro diritto comune tradotto nella lingua nazionale. In Francia, poi, a partire dalla metà del secolo XIII, si consoliderà quella ripartizione (che durerà per tutto l’Antico Regime) in due zone, un Mezzogiorno retto dal ‘droit

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écrit’ (ossia dal diritto comune) e un Nord ‘coutumier’, retto da consuetudini locali di cui molte ancora di tradizione orale. Pertanto, quando, oggi, da parte di qualche storico italiano del diritto si affacciano tesi che fanno del diritto comune più un fantasma che una presenza storica, non ho esitazione nel qualificarle come frutto di una inaccettabile smania di originalità, un frutto che non ha riscontri (anzi, ne ha di opposti) in una oggettiva contemplazione della civiltà tardo-medievale. Mi preme però di affrontare qui il problema storicamente rilevante del rapporto fra diritto comune e diritti particolari, fra ius commune e iura propria, a causa della contemporanea presenza – in uno stesso àmbito territoriale e all’interno di una stessa entità politica – di un diritto universale e di un diritto locale. Il che comincia a porsi pressantemente nel corso del Duecento, quando vediamo apparire – sia pure ancora timidamente – una legislazione regia e, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, una vivacissima fioritura di statuti cittadini. Più che nelle monarchie, dove il re, per ora, si occupa solo di problemi pubblicistici su cui il diritto comune tace o parla in modo assolutamente esiguo, il problema è forte nelle città comunali italiane, uscite da poco dalla tutela imperiale dopo lotte asperrime, e i cui statuti, sia pure disorganicamente e senza alcuna velleità di completezza, hanno uno spettro assai largo. E, infatti, gli statuti, puntualmente, affrontano il problema, dando la precedenza alla ‘legge’ locale sulla ‘legge’ universale. Si tratta di una gerarchia delle fonti del diritto? Così si dovrebbe dire se reputassimo la città libera italiana medievale (nei cui statuti quella precedenza è nettamente segnata) uno Stato sovrano, perché lo Stato sovrano è rigidamente monista, considera diritto solo quello prodotto da sé medesimo e non tollera giuridicità concorrenti all’interno dei suoi confini. Per nostra fortuna, ci

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siamo liberati di una nozione e di uno schema interpretativo inidonei e fuorvianti, ed è proprio grazie a questa affrancazione che abbiamo potuto recuperare all’esperienza medievale quello che è uno dei suoi tratti più caratteristici: il pluralismo giuridico. All’interno di una stessa entità politica possono esserci diversi produttori di diritto, perché manca nell’ideario politico-giuridico medievale il principio della monopolizzazione nelle mani del soggetto detentore del potere politico. Rifacciamoci, per comodo, all’esempio di un qualsiasi grande Comune duecentesco: non esiste solo la ‘legge’ comunale, ossia lo statuto; esiste il diritto canonico prodotto dalla Chiesa, esiste il diritto mercatorio prodotto dalla comunità dei mercanti, e quello feudale prodotto dal ceto feudale, ciascuno con regole specifiche, con oggetti e destinatarii specifici, con tribunali specifici. E infine il diritto comune, frutto della interpretazione di ‘leggi’universali (la romana e la canonica) da parte della comunità universale dei giuristi. L’ordinamento politico cittadino è uno ma plurali, diversi, sono invece gli ordinamenti giuridici co-viventi e co-vigenti entro le mura cittadine. Il diritto è svincolato dall’abbraccio soffocante dell’apparato di potere pubblico, fa capo alla società, e la esprime, e la ordina. Il richiamo fatto dallo statuto non fissa una gerarchia, perché di gerarchia si può parlare solo quando ordinamento politico e ordinamento giuridico coincidono e si fa i conti con un solo soggetto sovrano. Lo statuto, complesso normativo che deve servire ai bisogni contingenti della vita cittadina e sempre all’insegna di una grande concretezza, si limita a precisare che, se su un certo problema v’è una norma comunale espressa, questa sia applicata dal giudice, ma, se vi sia una lacuna, il diritto comune, diritto onnipresente senza bisogno di autorizzazioni e diritto potenzialmente completo, sia chiamato dal giudice a colmare il vuoto normativo locale.

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Pluralità di ordinamenti che si integrano: ius commune e iura propria sono manifestazioni di una giuridicità unitaria che non si lascia immiserire all’ombra del potere; e il potere, tenendo dietro alla coscienza collettiva, riconosce questa unità che lo sopravanza. Un grande storico italiano del diritto da noi già ricordato, Francesco Calasso, parlò di un «sistema del diritto comune» formato da diritto comune e diritti particolari, non isolati gli uni dall’altro, bensì in perenne dialettica integrativa9. L’ipotesi calassiana la si può accogliere, se si dà a quel vocabolo impegnativo che è «sistema», il significato di una intuizione puntualmente vera: che universale e particolare sono ricompresi in una grande unità rispettosa della pluralità delle diversità.

2.8. Diritto comune e diritto feudale. In particolare, degli «usus feudorum» Alla civiltà medievale si suole accompagnare una qualificazione: feudale; e non a torto. Sembra, pertanto, opportuno chiarire al lettore il contenuto di questo singolarissimo aggettivo. Aggiungendo subito che un assetto feudale non è tipico solamente della nostra Europa, ma si è verificato ogni qual volta una civiltà storica si è trovata nelle medesime condizioni socio-politiche; il che è avvenuto, per esempio, in terre sottratte a ogni influsso europeo fin nella piena modernità, come gli imperi cinese e giapponese. Le origini di un assetto qualificabile come feudale risalgono alle origini stesse della civiltà medievale ed hanno un motore primo nel modo in cui – nella nascente esperienza – venne a conformarsi il potere politico. Ri9

Dello storico italiano del diritto Francesco Calasso si veda soprattutto la sua sintesi: Medioevo del diritto, Milano 1954.

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petiamo qui, con opportune integrazioni, indicazioni già offerte: un assetto politico-giuridico caratterizzato dalla impotenza del potere centrale e dalla sua incapacità a dare effettività ai proprii voleri, dalla crescente influenza di poteri altri e periferici sia per occupazione di fatto sia per delega formale dall’alto. Tra questi poteri altri spicca quello economico, il cui titolare, come titolare dell’unica forza veramente decisiva, diviene gradualmente, in un processo lentissimo, il giudice naturale sulle proprie terre, l’esercitore della funzione di difesa militare, l’esattore delle imposte. Mai come in questo momento storico si perde la percezione di una distinzione tra ‘privato’ e ‘pubblico’. A loro volta, molti titolari di potere periferico erano di fatto costretti a delegare a presenze più immediate sul territorio. E si esasperò il frazionismo dei poteri, e la società politica apparve come un folto e aggrovigliato reticolato di rapporti solo formalmente gerarchici. Sul piano giuridico questa struttura gerarchica, anche se smentita sul piano dei poteri effettivi, si scandiva in una relazione di superiorità e inferiorità, formalmente connotata da una promessa di protezione dall’alto e di fedeltà dal basso, con una mescolanza di vincoli personali spesso non coincidenti con le situazioni di potere effettive su un territorio. Essere feudatario (o vassallo) significava formalmente essere uomo di un altro uomo, anche se ben spesso il cosiddetto inferior era un soggetto sostanzialmente autonomo in grazia della propria effettività potestativa. Feudalesimo significò questo complesso reticolato di uomini collegati da vincoli scambievoli di protezione e fedeltà, un reticolato che divenne presto un ceto di personaggi, tutti, in una certa misura, inseriti nel complesso e frammentato ingranaggio di poteri legante il supremo vertice all’ultimo gradino, e sempre più separato dalla massa dei comuni mortali. Con questa precisazione:

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lentamente, si ebbe la patrimonializzazione di questo complesso relazionale, fino al punto che il carattere feudale – protezione e fedeltà scambiate fra soggetti – fu assorbito dalle terre; e si avranno terre feudali che incorporeranno in sé quella mistione fra pubblico e privato che è il connotato costante di un assetto feudale, con la conseguenza che alcuni poteri pubblici (i cosiddetti honores) diventeranno pertinenza del fondo e ne diventeranno titolari coloro che, in base a un semplice acquisto, sono divenuti i proprietarii della terra. Sul piano storico-giuridico mi preme, anche se brevemente, rilevare che questa complicata ma appartata ragnatela di uomini e beni cominciò ben presto a dar vita, nella sua appartatezza, a un tessuto sempre più fitto di consuetudini, che, per essere ristrette a specifici soggetti e a specifiche terre, prese l’aspetto di un ordinamento giuridico autonomo che possiamo chiamare diritto feudale; una autonomia resa più intensa e serrata dalla creazione di autonomi tribunali per giudicare le liti aventi a oggetto quegli uomini e quelle terre. A metà del XII secolo, il complesso di consuetudini e di decisioni giudiziali, che la sedimentazione pluri-secolare aveva reso complicatissimo, ebbe una prima sistemazione da parte di un sensibile uomo di prassi, un giudice milanese. E prese forma quella raccolta chiamata Usus feudorum o anche Libri feudorum, che, ritenuta ormai materia degna di essere studiata dalla scienza, ebbe il privilegio di una collocazione in appendice allo stesso Corpus iuris civilis. E la scienza la studiò, dando vita a una letteratura spesso di alto significato culturale; i grandi dottori del diritto comune non erano soltanto ‘romanisti’ e ‘canonisti’ ma anche ‘feudisti’. I nomi potrebbero essere tanti; basti qui citare quello del perugino Baldo degli Ubaldi, un grande commentatore italiano del Trecento, colui che fu riconosciuto come il più filosofo tra i giuristi, autore di approfonditi commenti a tutto il Cor-

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pus giustinianeo, a parti del Corpus iuris canonici e ai Libri feudorum. Il diritto feudale, diritto universale ma speciale, si poneva in stretta dialettica con il diritto comune entro il pluralismo giuridico del tardo Medioevo, entro un universo giuridico che già sappiamo uno e, insieme, plurale.

2.9. Alle origini del diritto commerciale Nel comune linguaggio dei giuristi si intende per «diritto commerciale» quel complesso di regole e di istituti all’insegna della specialità, funzionali non ai semplici cittadini bensì agli esercenti la speciale professione della mercatura. Almeno agli inizii consiste negli usi che il ceto dei mercanti – sempre più forte economicamente socialmente politicamente, sempre più proteso a costruirsi specifiche difese giuridiche a tutela dei proprii interessi – elabora per disciplinare in modo autonomo i traffici commerciali. Usi nati spontaneamente nella verifica della pratica quotidiana; usi nati localmente nella prassi di una piazza mercantile, ma diventati poi generali in virtù dell’apprezzamento universale del coetus mercatorum; usi che cominciano per comodità degli utenti a essere redatti per iscritto e divengono, dalla metà del Duecento, veri e proprii statuti mercantili, specchi fedeli di una pienamente raggiunta potenza cetuale. Via via, durante il tardo Medioevo, o ci troviamo di fronte a una invenzione continua di strumenti nuovi (titoli di credito, società commerciali, fallimento, contratti di assicurazione), o davanti alla semplificazione e allo snellimento di strumenti vecchi accomodati alle esigenze del commercio (rappresentanza, cessione dei crediti), o al superamento di vecchi ostacoli risalenti alle visioni tecniche dei Romani e ormai ingiustificabili (contratto a favore di terzi).

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Un insieme organico di istituti prende sempre più forma e, di pari passo, una complessa organizzazione cetuale e professionale. Una conquista di grosso rilievo è l’istituzione di tribunali speciali, dapprima con un ristretto campo di azione professionale e disciplinare, ma assurgendo ben presto a vera e propria giurisdizione fornita di regole sue, avente una precisa competenza ovunque si trattasse di soggetti commercianti o di atti di commercio, governata da giudici non togati e regolata da procedure improntate a rapidità ed efficienza. Una istituzione, questa, che avrà vita lunga e sarà assai dura a morire; pensi il lettore che, in Italia, i cosiddetti «tribunali di commercio» saranno aboliti soltanto nel 1888. Il diritto dei mercanti è, senz’altro, uno dei protagonisti del particolarismo giuridico tardo-medievale.

II

Fondazioni della modernità giuridica

1. Il Trecento agli occhi dello storico del diritto: sconvolgimenti socio-economici e crisi di valori. Alla ricerca di un nuovo ordine giuridico Noi siamo avvezzi a guardare al Trecento come al culmine dei secoli medievali, abbacinati dal fulgore che ci ostentano con pienezza di messaggio la storia delle arti plastiche e la storia letteraria; per me – toscano – Dante, Boccaccio, Giotto son lì a dimostrarlo. Quelli trecenteschi sono, invece, decennii che ci indicano uno scompiglio profondo, sol che si modifichi l’angolo di osservazione, puntando il nostro occhiale sulle vicende a livello strutturale, guardando a cosa avviene sul terreno della storia agraria alimentare demografica sanitaria, sul terreno basso ma determinante della vita quotidiana dell’uomo comune. Sono decennii di guerre rovinose, di carestie, di epidemie, con la generale presenza corrosiva della fame; la protagonista occulta del secolo è la peste, che ha il suo acme fra il 1347 e il 1351 ma che devasta tutto il suo svolgersi e tutto il continente falcidiando la popolazione. Il

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risultato è un massiccio abbandono delle terre, una rapida eclissi delle culture agrarie, una crescente anche se sterile urbanizzazione. Al fondo di questo vortice strutturale c’è una sopravvivenza diventata per l’uomo comune assai stentata, difficoltosissima, ma anche uno scossone demolitivo che comincia a percorrere la coscienza collettiva. Non è certamente un trapasso improvviso, come una esposizione frettolosa potrebbe far credere, né un capovolgimento brusco della clessidra storica. Nel vecchio organismo, come sempre avviene, con segni di stanchezza, fanno capo le cellule tumorali che lentamente prenderanno sempre più campo e in esso trovano ancora ospitalità e nutrimento. Il vecchio reca in sé il germe del nuovo, nutre la sua morte. E il Trecento appare quello che storicamente è: un tempo di transizione, dove vecchio e nuovo si mescolano, e dove si cominciano a disegnare le linee di un edificio futuro. Nessuno ha, forse, meglio di Francesco Petrarca (1304-1374) espresso l’atteggiamento di chi possiede la consapevolezza di trovarsi su un crinale; il grande poeta, ma uomo di cultura in cui già cominciano ad allignare germi del prossimo rivolgimento umanistico, confessa – in una pagina dalla straordinaria lucidità – di vivere in un terreno di confine che lo stimola a guardare simultaneamente all’indietro e in avanti, un mondo morente e un mondo nascente: «velut in confinio duorum populorum constitutus, ac simul ante retroque prospiciens»1. È ovvio che la coscienza collettiva sia spinta a mettere in dubbio i pilastri portanti del vecchio ordine medievale fino a riconoscervi degli pseudo-valori. Cose e comunità hanno tradito, non sono riuscite a garantire la sopravvivenza, e comincia a imporsi la necessità di una rinnovazione essenziale del vecchio assetto socio-politico1

F. Petrarca, Rerum memorandarum libri, lib. I, n. 19.

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giuridico puntando su valori decisamente nuovi. Il Trecento è un singolare nodo temporale: alla crisi strutturale risponde con immediatezza di sforzo costruttivo una riflessione teologica e filosofica, che cerca di disegnare un’antropologia completamente rinnovata: si punta sull’individuo, ma gli si può dare fiducia solo se lo si libera dalle catene che per tutto il tempo medievale lo hanno tenuto prigioniero. Il processo, che, in questo crocevia affollato di movimenti strutturali e di progetti intellettuali, si sta avviando, è un processo di liberazione. La nuova antropologia ha un carattere spiccatamente liberatorio. Liberazione dalla natura bruta, liberazione dai tanti lacci sociali, da quell’ordine sociale che proteggeva il soggetto singolo e insieme lo vincolava, dalle stesse cose che avevano deluso nella loro pretesa virtù salvifica. Le dispute filosofiche, che arrivano ad avere pienezza di voce durante il corso del secolo, se le si colgono nel nucleo essenziale del loro messaggio, a questo mirano: isolare il soggetto dal mondo e sul mondo, riconoscèndolo capace di cercare e trovare all’interno di sé le forze per dominare la realtà. Il soggetto medievale, interpretato con fedeltà e puntualità da Tommaso d’Aquino, è un uomo intelligente, identificato soprattutto nella sua dimensione razionale, munito soprattutto della conoscenza, che lo proietta al di fuori di sé, con un gesto di umiltà psicologica verso il reale circostante, che lo inserisce nel reale e lo rende in qualche modo anche tributario del reale. L’uomo nuovo, che saranno prevalentemente la teologia e la filosofia francescane a disegnare, è individuato in un soggetto che ama e vuole, un soggetto che tra le molte dimensioni psicologiche punta sulla più autonoma, sulla più auto-referenziale – la volontà – per reperirvi una identità ma anche la propria cifra vincente. Tutto sembra soggettivizzarsi e risolversi all’interno del soggetto, che af-

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ferma il suo distacco ontologico dal mondo e reclama la propria libertà sul mondo. È illuminante come viene cementata questa ritrovata libertà: è auto-determinazione della volontà ed è concepita come dominium. Se si rilevasse che non siamo di fronte a qualcosa di nuovo e che già nel diritto classico romano il dominium non ha soltanto una grossa valenza politica ma è strettamente collegato con la libertà del soggetto (a differenza delle analisi schiettamente economico-giuridiche dei medievali), ciò non sarebbe smentibile. Il nuovo, però, che si profila da questo fertile Trecento in poi, sta nella onnivalenza del dominium, che diventa la generale categoria interpretativa sia della realtà intersoggettiva che di quella intrasubbiettiva. Accanto alla proprietà delle cose del mondo esterno (dominium rerum), assistiamo alla enfatizzazione del dominium sui, della proprietà che ciascuno ha sulle proprie membra e sui proprii talenti, di quella proprietà prima che la divinità ha inserito dentro ognuno a tutela della sua individuale esistenza e che, essendo contrassegnata da una formidabile forza espansiva, fa di ognuno un personaggio vocato a dominare il mondo cosmico e sociale. Volontà, insomma, come carattere essenziale del soggetto e garanzia della sua libertà; libertà come dominium, l’intrasubbiettivo concepito come un insieme di meccanismi proprietarii. Se a un lettore impaziente i discorsi sin qui fatti sono sembrati viziati di genericismo, ribatterei che è in questa nicchia di riflessioni antropologiche trecentesche (riflessioni nate in polemica con le certezze medievali) l’origine prima di quella dimensione individualistica che sarà assolutamente dominante per tutta la modernità; sono, inoltre, riflessioni che ci consentono di sorprendere l’avvìo di quell’altra cifra tipizzante della modernità costituita dalla commistione fra essere e avere, fra me e mio, con l’avere individuato quale contributo allo stesso essere. Ma avremo agio di riparlarne più distesamente.

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Un’altra obbiezione riterrei, a questo punto, probabile e anche legittima: che si è parlato sino ad ora di storia agraria demografica sanitaria a proposito della crisi strutturale del Trecento, o di supreme scelte filosofiche a proposito del ribaltamento antropologico, ma non di diritto; e nemmeno di quella dimensione più ravvicinata che è la politica. Rubando a Hegel un’immagine che ho sempre ritenuto efficacissima e trasferèndola dalla filosofia al diritto, risponderei che quest’ultimo è come l’uccello di Minerva, la civetta, che non ama l’incandescenza dei meriggi assolati e attende, per levarsi in volo, che l’accesa vicenda del giorno sia terminata. Il diritto – l’abbiamo detto molte volte – è realtà di radici, alligna negli strati profondi di una civiltà, strati dove riposano i valori di questa civiltà, ed emerge alla luce del sole solo dopo che, dalle inquietudini della superficie socio-economico-politica, i rivolgimenti discendono e investono le radici stesse. Ripetiamo qui, quando stiamo analizzando una terra di confine fra diverse esperienze giuridiche, due considerazioni rilevanti per la nostra comprensione storica: che ‘esperienza giuridica’ è un modo tipico di concepire, sentire, vivere il diritto, non è racchiusa e non è racchiudibile nelle leggi di un monarca o nei comandi degli organi di polizia, è invece un fatto di civiltà; che l’esperienza giuridica medievale non è una inconsistente e innocua età di mezzo, ma è durata secoli e secoli, è penetrata nelle coscienze, è riuscita a plasmare lentamente i suoi valori basandoli su un’antropologia assolutamente tipica. La crisi strutturale trecentesca è stata l’occasione storicamente provvida, che ha permesso l’avvìo di un rinnovamento a livello di coscienza collettiva, di una nuova visione del ruolo dell’uomo nel mondo cosmico e nella società. Il rinnovamento non può che essere innanzi tutto antropologico: alla antropologia reicentrica medievale si deve sostituirne una antropocentrica, ed è proprio il mo-

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vimento che filosofie e teologie volontaristiche cominciano a propugnare dal secolo XIV. Il diritto, in perfetta coerenza, verrà dopo, ma si nutrirà e si impregnerà di quella nuova visione. Ora che ci apprestiamo a percorrere i sentieri della modernità giuridica in Europa, dobbiamo avvertire il lettore che la ricerca di un nuovo ordine giuridico durerà secoli, si concreterà in una lenta ma progressiva crescita, dandoci un modello compiuto, un ordine ormai interamente rinnovato, solo alla fine del Settecento, quando la ventata risolutiva della rivoluzione francese spazzerà definitivamente il vecchiume dalle strade di Parigi e dell’Europa continentale. Per inerzia, quell’assetto socio-politico che siamo soliti in Francia chiamare Antico Regime, ossia fino al 1789, serba ancora parecchie reliquie giuridiche medievali che si mescolano con parecchie novità emergenti e sempre più crescenti, ma un ordine giuridico nuovo apparirà netto e totale solo con la grande rivoluzione.

2. Un processo liberatorio: macro-individuo e micro-individuo quali nuovi protagonisti. Alle origini dello Stato moderno Sul piano della coscienza collettiva, il volontarismo filosofico e teologico, che circola nella più viva cultura trecentesca e che diventa anche una vera e propria teoria politica, è una prima ventata liberatoria che rompe la grande ragnatela medievale frazionandola inesorabilmente, ragnatela di relazioni fra individualità che impediva a ciascuna di esse di affermarsi in una propria posizione di indipendenza; e ciò a ogni livello, del soggetto civile, del soggetto religioso, del soggetto economico, del soggetto politico. La nuova avventura liberatoria, che comincia nel Trecento, ha di mira la liberazione di ogni individualità pri-

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ma compressa. La cifra essenziale della modernità sta tutta nella tentata riscoperta di un nuovo ordine che, mettendo da parte natura cosmica e comunità (tutto il vecchio ammasso comunitario), pretende di fondarsi su una dimensione tutta umana costituita da individualità, ciascuna delle quali è riconosciuta e rispettata nella sua libertà e nella sua carica dominativa della realtà naturale e sociale, ciascuna delle quali viene dotata di una virulenta carica psicologica. Innanzi tutto, il soggetto fisico, un soggetto psicologicamente liberato, che non ha più bisogno di rannicchiarsi all’interno di protettivi assetti comunitarii e che sempre più sente il peso di strutture ormai per lui soffocanti. La società, che sino alla fine dell’Antico Regime è società di società, un crogiuolo complesso e complicatissimo di formazioni intermedie, è considerata per quel che ormai è effettivamente divenuta, e cioè un impedimento sia per il micro-soggetto privato sia per il macrosoggetto pubblico, un impedimento per la libera azione dell’uno e dell’altro. L’individuo fisico, psicologicamente affrancato, conquisterà tra breve, come vedremo, robusti capisaldi sul piano culturale, religioso, economico, giuridico, ma, poiché la sua libertà è fondata su una volontà dominativa e si identifica nella proprietà che lui ha di se stesso e dei beni esterni, sarà particolarmente la dimensione economica a giocare un ruolo rilevante. Protagonista dell’esperienza moderna sarà, infatti, l’abbiente. Abbiamo ora accennato al macro-soggetto pubblico, una entità politica parimente soffocata dalla società, da una costituzione sociale ingombrante perché nata prima e dalla quale il principe non può prescindere. All’inizio del nostro volume abbiamo insistito su un potere politico incompiuto che non ci siamo sentiti di qualificare ‘Stato’ per evitare equivoci falsanti, perché si trattava di un

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potere che doveva fare i conti con una realtà enorme, sovrastante: l’articolatissima società medievale. Ecco. Nel Trecento anche il macro-soggetto pubblico ha qualche freccia in più al suo arco. Tra le ragnatele che cominciano a essere lacerate ci sono anche quegli ampii tessuti universali di cui la civiltà medievale si era compiaciuta, la Santa Romana Chiesa e il Sacro Romano Impero, la prima con grosse pretese e con la forza derivante dal monopolio del sacro, il secondo ormai ridotto a creatura larvale ma che era pronto ad avanzar pretese quando sul trono imperiale sedeva un personaggio intraprendente. La dimensione politica è pienamente investita dal processo di liberazione delle individualità, e dalla frantumata ragnatela prendono forma delle entità politiche individue cariche di una volontà mai riscontrata prima. Non sono ancora degli Stati, ma degli embrioni di Stato. Siamo, però, certamente alle origini dello Stato moderno, all’inizio di un itinerario che, d’ora in avanti, corre continuo verso il pieno statalismo sette-ottocentesco, che può essere adeguatamente fissato in questa immagine: sempre più Stato, sempre meno società.

3. Il principe e il diritto. In particolare, del regno di Francia: un laboratorio politico-giuridico della modernità Tra queste entità politiche che affermano la propria individualità scrollandosi di dosso i pesanti mantelli universali spicca il regno di Francia, un vero laboratorio politico-giuridico, dove quello che sarà – di lì a poco – un movimento diffuso ha le sue manifestazioni pionieristiche. Abbiamo già rilevato che, nel corso del Duecento, con la formazione di una sempre più corposa riconquista territoriale, dal regno di Filippo Augusto (1180-1223) in poi, è riscontrabile un orientamento preciso per una totale indipendenza, mentre i giuristi della corte regia af-

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fermano l’assoluta supremazia del monarca nelle cose temporali; un re consapevole del suo ruolo come san Luigi, a metà del secolo, non ha esitazioni nell’usare a livello ufficiale un linguaggio eloquente per qualificare il proprio potere contrassegnato da pienezza: «plenité de la royal puissance»2. Continua, però, la ‘timidità’ legislativa, perché continuano gli impacci derivanti da un assetto feudale ancora forte. È con Filippo il Bello (1285-1314), a cavaliere tra i due secoli, che il re sembra sbarazzarsi di ogni disagio e titubanza, avviando una politica coraggiosa ai limiti della temerarietà. Ne è una riprova evidente il conflitto che lo contrappone a Bonifacio VIII, un pontefice che, ancora ai primi del secolo nuovo, senza volersi render conto del senso della storia, persiste a conclamare il primato del potere papale sia in campo spirituale che in quello temporale. E proprio nell’anno 1302, quando Bonifacio riaffermava solennemente nella bolla Unam sanctam i suoi antistorici progetti teocratici, Filippo convocava un’amplissima assemblea di prelati, baroni e deputati delle città, dalla quale usciva il riconoscimento della sua sovranità (ormai, non è scorretto usare un termine così impegnativo): supremazia assoluta del re sul piano temporale sia riguardo ai feudatarii laici che a quelli ecclesiastici; essi ricevevano i loro feudi direttamente da lui, che, al contrario, aveva avuto da Dio stesso il governo del regno. L’anno di poi Bonifacio moriva e con i suoi successori – soprattutto con il prelato francese che sarebbe divenuto nel 1305 Clemente V – il re ebbe presto la meglio. L’essenziale per noi è constatare l’emergere e il consolidarsi di un potere autenticamente sovrano, primizia delle individualizzazioni statuali dell’Europa moderna. 2 La frase della cancelleria di san Luigi è riportata da A. Rigaudière, Pouvoirs et institutions dans la France médiévale. Des temps féodaux aux temps de l’Etat, Paris 20043, p. 93.

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Allo storico del diritto preme rilevare, però, in primo luogo, un potere che si fa sempre più compiuto, che ha cioè una tendenza espansiva nell’occuparsi di zone del sociale sempre più vaste. Sta sensibilmente mutando il carattere di questo potere supremo: il re giustiziere pone la produzione del diritto fra gli oggetti primarii delle sue prerogative e delle sue cure, le Ordonnances si moltiplicano. Siamo all’inizio di quel cammino plurisecolare che avrà al suo esito finale Napoleone I, il tipico sovrano legislatore, il codificatore che vuole ridurre (e ci riesce) tutto il diritto – anche il diritto privato – negli articoli di un Codice. Sia chiaro: il sovrano francese del Trecento si occupa del diritto, ne percepisce la valenza preziosa di cemento del suo potere, ma agisce con la massima prudenza, perché il terreno delle fonti si incardina nella costituzione materiale del regno, e soprattutto lascia alle consuetudini immemorabili la disciplina dei rapporti privati dei privati. Tuttavia, da Filippo il Bello in poi muta la psicologia del potere: passa in secondo piano l’equità cara alla vecchia immagine del principe e primeggia fra i suoi compiti riservati il «faire loys ou constitucions toutes nouvelles entre ses subjés», come si esprime l’incerto autore del Songe du Vergier 3, una compilazione tardo-trecentesca a contenuto politico-giuridico, nella quale si riconosce al re di Francia la stessa capacità normativa degli antichi cesari romani. Da questo atteggiamento psicologico si origina la diffidenza verso il diritto comune, diritto per sua natura scientifico e universale, anche se i giuristi regii non ave3 Il Songe du Vergier (ed. Schnerb-Lièvre, Paris 1982) è un’opera scritta per ordine del re Carlo V, dapprima in latino e poi in volgare francese (1376-1378), ed è fedele testimone dell’atteggiamento della monarchia francese trecentesca. La citazione è tratta da Rigaudière, Pouvoirs et institutions dans la France médiévale cit., p. 125.

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vano mancato di ricorrere alle figurazioni assolutistiche dell’imperatore contenute nel Corpus iuris. Quando Filippo il Bello, nel 1312, riorganizza gli studii giuridici nell’Università di Orléans, già famosa per la presenza di autorevolissimi maestri, ha cura di precisare che il Corpus romano godeva di autorità entro il regno unicamente perché lo si poteva considerare una consuetudine vigente grazie al beneplacito regio. Ma è sul terreno specifico delle coutumes che il nuovo spettro ampio del potere si rivela; non per sopprimere o modificare, cioè con interventi diretti, il che smentirebbe la sopra rilevata prudenza, bensì in modo indiretto suggerendo la redazione per iscritto dell’enorme – sfuggente e incontrollabile – materiale a tradizione orale. È un lavorìo latente che si convertirà in posizione ufficiale soltanto a metà del Quattrocento: con la ordinanza di Montils-lès-Tours del 1454, Carlo VII dispone infatti la redazione per iscritto, organizzando una procedura dove un ruolo fondamentale è affidato alla puntigliosa ingerenza da parte del potere centrale. Formalmente, la piattaforma ‘costituzionale’ delle consuetudini rimaneva intoccata e la monarchia realizzava due scopi di grosso rilievo nella storia giuridica francese: si operava un occhiuto controllo e si contribuiva ad attenuare la incredibile frammentazione stimolando delle riunificazioni. Nel 1539, con l’ordinanza di Villers-Cotterêts, dedicata alla riforma della giustizia, Francesco I imponeva che tutti gli atti giuridici ufficiali – e quindi anche le raccolte di coutumes – fossero redatti «nella lingua materna francese e non diversamente». Comincia, ormai, a disegnarsi nettamente un ‘diritto francese’, anche linguisticamente autonomo, cemento e immagine speculare della unità e indipendenza dello Stato nazionale. Non si illuda il lettore che la monarchia presuma di ridurlo nella sola dimensione legislativa. Se cresce la quantità di interventi legislativi, permane quel plurali-

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smo che sarà cancellato solo dalla Rivoluzione. Nel 1576, il giurista Jean Bodin, nei giustamente celebrati Sei libri sullo Stato, diagnosi acuta e lucida dei nuovi assetti politici e giuridici, registra un paesaggio giuridico complesso, che egli suddivide in due grandi filoni, la ‘legge’ e il ‘diritto’4, la prima che esprime la volontà potestativa del monarca e si sostanzia in un comando autoritario, il secondo che esprime le regole materne delle consuetudini, nate dalle cose e intrise della equità soggiacente alle cose. L’itinerario, di cui si parlava più sopra, a fine Cinquecento, è ancora in atto.

4. In particolare, del regno d’Inghilterra: continuità con la visione e l’esperienza medievali. Alle origini del «common law» L’Inghilterra è un’isola separata dal continente europeo da un profondo braccio di mare. Affermazione che perde la sua apparenza di grossolana ovvietà se dal piano puramente geografico la trasportiamo su quello storico-giuridico; sul quale spicca nettissima la insularità del contesto inglese rispetto alla koinè dell’Europa continentale. Cerchiamo di esporre sinteticamente, così come è richiesto dall’indole di questo volume, origini e consolidamento di siffatta insularità, anche se è cómpito non facile ridurre in linee semplici un processo storico complesso e assai articolato. Una data certa e un fatto storico preciso possono essere assunti a momento inaugurale: la sconfitta nella battaglia di Hastings – anno 1066 – dell’ultimo monarca sas4 La distinzione di Jean Bodin tra ‘diritto’ e ‘legge’ è in Les six livres de la Republique, lib. I, cap. VIII, Paris 1583 (rist. Aalen 1977; trad. it., I sei libri dello Stato, a cura di M. Isnardi Parente e D. Quaglioni, Torino 1988).

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sone da parte del normanno Guglielmo il Conquistatore, evento storico tradizionalmente identificato nella ‘Conquest’, nella ‘Conquista’ che dà un nuovo vólto politico e giuridico alla società inglese. Se, prima, malgrado la presenza di alcuni monarchi ragguardevoli, la storia politica inglese è faticosa e confusa con inserimenti violenti (e non episodici) di invasori danesi e con la vicenda giuridica sostanzialmente contrassegnata da uno sparso regime consuetudinario, con l’instaurazione del forte regime normanno, si crea prontamente una struttura unitaria facente capo a un ingombrante potere centrale. Quel che a noi preme è che questo centralismo non si limita alla sfera politica, ma investe direttamente anche quella giuridica: si creano delle corti regie centralizzate sedenti in Londra e che, all’origine, sembrano fondersi – all’ombra del re – nella generale azione di governo. Quello che verrà tradizionalmente chiamato common law (e che noi esprimeremo sempre nella versione inglese per mostrare bene che non ha nulla a che spartire con il diritto comune – ius commune – continentale) è il diritto comune a tutti gli uomini liberi del Regno e che tale può essere perché proviene da un forte potere regio, sia pure manifestato per il tramite di corti giudiziarie. Anche se Guglielmo, al momento del suo insediamento, aveva solennemente giurato di farsi garante della osservanza degli ordinamenti fino ad allora vigenti, si ha la progressiva sostituzione del nuovo common law al vecchio ammasso consuetudinario fatto valere dalle corti locali non per formale abrogazione ma perché le corti regie, portatrici della nuova disciplina giuridica, erano di fatto preferite fornendo una giustizia più efficace. In questa visione, dove la dimensione di governo e quella giudiziaria tendono a fondersi, abbiamo una singolare espressione dell’ingerenza regia in quella tipicissima ‘invenzione’ della proto-storia del common law che

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è il writ, ossia un comando che il re rivolgeva al presidente di una corte locale e in cui si ingiungeva il soddisfacimento di qualche specifica pretesa; l’interessato doveva procurarsi il comando e soprattutto quel particolare comando adatto a tutelare la pretesa particolare in oggetto. Si impongono alcune considerazioni sul vólto che prende questo nascente common law. La prima è che si tratta di un diritto dall’impronta squisitamente casistica, tutto imperniato su rimedii processuali specifici per specifiche situazioni; tutto si gioca sul piano processuale, è dall’esistenza di un efficace rimedio processuale che diventa effettiva la stessa situazione sostanziale. La seconda è che, al di sotto degli investiti del potere politico, non potevano non esserci degli esperti, dei tecnici capaci di confezionare il tessuto (appunto, tecnico) degli stessi writs; e, infatti, durante il corso del XII secolo e soprattutto sotto il lungo regno di Enrico II (11541189), prende forma un ceto di giuristi dall’adeguata preparazione tecnica. Con una illuminantissima precisazione: non sono personaggi che hanno frequentato – come avviene nel continente – le università più prestigiose apprendendovi un sapere astratto sulla base delle geometrie dei Romani, bensì uomini di prassi che hanno studiato negli Inns di Londra, cioè all’interno di formazioni che sono soltanto delle corporazioni professionali e dove l’orizzonte è unicamente quello professionale. La terza è che questo progrediente ceto di giuristi, protagonista tecnico dei procedimenti e anche mediatore insostituibile fra potere regio e cittadini, proprio per l’empiria dei suoi scopi e per la tecnicità delle proprie invenzioni, tolse sempre più ai comandi regii lo sgradevole connotato autoritario, potestativo; i comandi regii, digeriti – se così mi è permesso dire – dal ceto dei tecnici e divenuti un complesso armonico di istituti, si iden-

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tificheranno sempre più in una sorta di consuetudine generale del regno. Un simile – non semplice – contesto giuridico doveva, però, fare i conti con l’evolversi della situazione politica della monarchia inglese. Il centralismo crea insofferenze, lotte centrifughe, dilaniamenti interni; crea cedimenti del rigido potere centralizzante normanno. La Magna charta del 1215, tanto magnificata da una certa retorica pseudo-storica, è uno di questi cedimenti, anche se – con un po’ di sforzo e solo per alcuni aspetti – possiamo collocarla nella preistoria di quelle che saranno (e lo vedremo) le ‘carte dei diritti’ (vedi infra, p. 116); e durante il lunghissimo regno di Enrico III (1216-1272) assistiamo all’acquisizione di sempre maggiori poteri da parte del Parlamento formato da due Camere, l’una in rappresentanza dei baroni, l’altra degli esponenti delle Contee e dei Comuni. Fin qui i rivolgimenti della storia politica e istituzionale, ma con cospicue ripercussioni nella storia giuridica: il potere giudiziario si stacca dalla persona del re e tre corti di common law prendono a separarsi dal governo regio. Il common law vive la singolare vicenda di essere un diritto di origine regia ma che, almeno a partire dalla seconda metà del Duecento, si affranca dal re. Prende avvìo la cosiddetta «rule of law», che significa autonomia del diritto ma anche primato del diritto sulla politica spicciola, subordinazione dello Stato al diritto. Un diritto ormai governato da un ceto di giuristi, avvocati e giudici, muniti di auto-referenzialità perché allevati nei microcosmi chiusi degli Inns e rinnovantisi grazie a un rigoroso meccanismo di cooptazione, un ceto cosciente del proprio ruolo e della propria indipendenza, intimamente assai coeso grazie alla forza della tradizione sempre più incisiva con il passare del tempo. Da quel che si è più sopra scritto il lettore potrà agevolmente accertare per suo conto le buone ragioni che,

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se abbiamo fin nella intitolazione del paragrafo precedente qualificato il regno di Francia come un laboratorio politico-giuridico della modernità, ci hanno invece portato a sottolineare (sempre nel titolo) la direzione completamente opposta del processo storico-giuridico del regno d’Inghilterra. Qui, infatti, la debolezza del potere politico centrale ha, fra le sue molte implicazioni, quella di uno svincolo fra potere politico e diritto e, conseguentemente, di un carattere prevalentemente non-legislativo della produzione del diritto. Common law significa un diritto prodotto prevalentemente da giuristi, da coloro che sanno di diritto e che, nel Medioevo inglese, sono soprattutto empirici, uomini di prassi, educati nelle scuole interne ai proprii ordini professionali. In Inghilterra continua e continuerà il medioevo giuridico, ossia un modo non-statuale di produzione del diritto. È ovvio che ci siano atti normativi del potere, ma costituiranno un apporto marginale almeno fino all’inizio del secolo XIX; per averne una presenza massiccia, occorrerà però attendere il 1945 col primo governo laburista di Clement Attlee, con i suoi progetti di Stato sociale e con l’inevitabile necessità di una pianificazione dall’alto di parte dei rapporti economicosociali. Cerchiamo di fissare qualche riflessione conclusiva. Abbiamo detto più sopra che il medioevo giuridico, in Inghilterra, continua ben oltre i confini storici della civiltà medievale; aggiungiamo ora: attraversa indenne tutta la modernità. La storia del common law corre continuativamente, senza cesure, dalle fondazioni dei primi re normanni fino a noi. Il legalismo, la legolatria, imperversante e soffocante nel diritto continentale sette/ottocentesco, sono ignoti all’esperienza giuridica inglese. Si tratta di un diritto che fonda la propria insularità in una schietta autoctonia: è un diritto di prassi e confezionato da pratici, fuori delle grandi correnti culturali che circo-

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lano libere nelle scuole giuridiche e nei tribunali continentali. I tentativi di ‘invasione’ romanistica sono respinti con decisione e non fanno a tempo ad allignare, anche se qualche influsso è riscontrabile in giuristi come Glanvill (XII secolo) e Bracton (XIII secolo). La tradizione funziona, inoltre, da cerniera di chiusura per il ceto dei giuristi, che trova in essa la legittimazione a escludere incuneamenti dall’esterno e il fondamento del proprio orgoglio cetuale. Il diritto, ben saldo e continuo al di sotto dei mutamenti politici, è alle radici della storia di un popolo e si fonde perfettamente con essa, diventando il segno più intenso della tipicità inglese.

5. Una frattura ideologica con il passato nel solco della liberazione individuale: Umanesimo, riforma religiosa, pre-capitalismo, rivoluzione scientifica Se il Trecento fu un tempo di transizione, dove la civiltà medievale cominciò a vivere la propria morte, dove vecchio e nuovo convissero, dove si dette avvìo a un corrosivo processo liberatorio di tante individualità, i due secoli successivi ci mostrano una liberazione già conquistata. Durante il loro svolgersi l’Europa è un immenso crocevia percorso da grandi movimenti di pensiero e di azione, che consolidano ad ogni livello la liberazione di ogni individualità. Sono temi che esorbitano dal terreno del diritto e della scienza giuridica, ma ai quali non possiamo non fare qualche accenno nella convinzione di fornire in tal modo al lettore strumenti preziosi per la piena comprensione di quel sovvertimento radicale da cui prenderà vólto e sostanza il diritto moderno. Ci limitiamo qui, ovviamente, a offrire solo alcuni lineamenti di un contesto culturale religioso economico assai complesso, quelli che ci

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sembrano indispensabili a individuare le fondazioni di una nuova esperienza giuridica. a) Il primo approdo delle demolitive incrinature trecentesche fu una visione schiettamente umanistica del rapporto uomo/società/natura. Umanesimo è, innanzi tutto, un rinnovamento antropologico imperniato su un atteggiamento di piena fiducia verso questo sovrano della società e della natura che è l’individuo, il singolo soggetto, il quale, in grazia della sua volontà, proprietario di se stesso e di taumaturgici talenti, è in grado di piegare ai proprii progetti il mondo che lo circonda. Umanesimo è, innanzi tutto, la valutazione accentuatamente ottimistica nelle capacità del soggetto e il conseguente tentativo di liberarlo da ogni condizionamento proveniente dall’esterno, sia dalla realtà fenomenica che sociale. Umanesimo è, quindi, anche una psicologia di orgogliosa autosufficienza, che vuol seppellire definitivamente l’esecrata umiltà dell’uomo medievale. Se noi, nel comune linguaggio, intendiamo per Umanesimo la riscoperta e il culto della civiltà classica, non commettiamo certo una falsazione, ma sottolineiamo un aspetto che viene secondo, segnalando in tal modo solo una sintonia culturale che gli homines novi del Quattrocento e del Cinquecento avvertivano, sì da riconoscersi nelle testimonianze di quella civiltà. Umanesimo è, però, essenzialmente, l’interpretazione novissima del mondo operata da una civiltà ormai squisitamente antropocentrica. b) Quando la dimensione generale dell’Umanesimo investe la specifica dimensione religiosa, abbiamo quel frutto cospicuo del secolo XVI che è la protesta e la conseguente riforma religiosa: lentamente anticipata e anche preparata in analisi e intuizioni avanzate coraggiosamente già nei due secoli precedenti, scoppia nella seconda dècade del Cinquecento. E si concreta in un umanesimo religioso, anche se – nel prosieguo – Lutero stesso polemizzerà con Erasmo e con le posizioni umanisti-

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che e si avranno svolte e involuzioni in parecchi riformatori. Se parlare genericamente di ‘riforma’ è storicamente insoddisfacente per i molti e differenziatissimi rivoli in cui si frammenta, c’è un messaggio unitario di fondo, che rivela la radice umanistica del grande movimento religioso e che è riassumibile nella esigenza di liberare il singolo fedele dal soffocamento all’interno e al di sotto delle strutture gerarchiche della società sacra, di ritenerlo – ottimisticamente – capace di un suo colloquio diretto e immediato con la divinità, di ritenerlo capace di leggere da solo – senza mediazioni ingombranti – il testo sacro, la Bibbia. Cercheremo, nel prossimo paragrafo, di coglierne alcune implicazioni sul piano giuridico; qui ci basta di sottolinearne la sua assoluta ‘modernità’, con un totale sovvertimento delle convinzioni ‘comunitarie’ della religiosità medievale per affermare anche a livello religioso il trionfo della carica individuale di cui ogni soggetto è portatore. c) Nel Cinquecento, quando si cominciano a percepire le incisive conseguenze di quell’evento formidabile che fu, a fine Quattrocento, la discoperta del continente americano, anche sul piano economico si fanno notare sommovimenti radicali. Le enormi masse di metalli preziosi circolanti in Europa occidentale, un amplificarsi e un intensificarsi dei traffici terrestri e marittimi, mutano assai gli assestamenti della vita economica europea, che comincia ad abbandonare il vecchio atomismo post-medievale dando vita a strutture e affari quantitativamente ragguardevoli. E si comincia a profilare un homo oeconomicus anche psicologicamente rinnovato nel profondo. Siamo sicuramente in una fase che può correttamente definirsi pre-capitalistica, se per capitalismo intendiamo soprattutto un sistema economico teso al conseguimento – ad ogni costo – del maggior profitto possibile, con il profitto che balza a essere nobilitato a possibile degno ed esclusivo scopo di una vicenda personale. Il mer-

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cante medievale accumulava ricchezza, ma sempre con l’incubo di essere in una situazione peccaminosa, sempre con l’incubo di giocarsi la vita eterna; e traevano origine da questa cattiva e complicata coscienza tutte le fondazioni di monasteri e le edificazioni di chiese fatte in vecchiezza o fissate nei proprii atti di ultima volontà al solo fine di garantire all’anima del mercante folte preghiere di religiosi. Il nuovo operatore economico, immerso nella intensità tutta nuova dei traffici cinquecenteschi, psicologicamente affrancato dalle recenti filosofie innovatrici che avevano còlto i suoi caratteri essenziali nella volontà, nella libertà individuale, nel suo essere proprietario di se stesso, affrancato dai moralismi chiesastici che avevano tormentato e mortificato il medievale mercator, può ora dedicarsi con serenità d’animo e con dedizione totale ad accumulare ricchezza; anzi, tra poco, egli troverà nell’àmbito delle teologie riformate chi benedirà il prestito con interesse (vietato nella paleo-visione cattolica) e identificherà nella ricchezza accumulata addirittura il segno della protezione divina. d) Un’ultima considerazione, che può sembrare, di primo acchito, estranea a quello che si sta qui precisando, ma che è necessaria anche per il futuro sviluppo del nostro itinerario. C’è un’altra determinante affrancazione da segnalare al lettore e che si matura soprattutto dal tardo Cinquecento in poi; ed è quella delle scienze naturali ormai tese, senza inibizioni moralistiche e di indole religiosa, alla ricerca delle verità scritte nella complessità del cosmo e decifrabili dalla umana intelligenza. Il modello di questo nuovo scienziato è Galileo (15641642), che intende decrittare l’intelaiatura matematica dell’universo, le sue regole riposte ma leggibili sol che si abbia occhi aguzzi e soprattutto non alterati da occhiali deformanti. Abbiam citato Galileo per la sua carica esponenziale, ma i nomi potrebbero essere molti.

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Aggiungiamo due rilievi conclusivi. Nella scia di una riflessione scientifica cosciente della propria autonomia, della propria valentia, nonché dei raggiunti successi, assistiamo presto al congiungimento tutto nuovo nella stessa personalità dell’indagatore dei supremi principii filosofici e morali con il matematico e il geometra percettore delle linee rigorose che sorreggono la natura fisica. In quell’intellettuale modernissimo, che è il francese René Descartes (1596-1650), il sapere matematico, con il suo assoluto rigore, è il modello per guidare le esplorazioni del filosofo all’interno dell’animo umano. Forse, ancor più significativo l’esempio di un altro francese, Blaise Pascal (1623-1662), il fine e inquieto moralista che scrive anche imponenti opere di matematica e di fisica. Come è anticipato nel rilievo or ora fatto intorno a Cartesio, si va maturando – tra Cinquecento e Seicento – un’autentica rivoluzione culturale consistente nel soppiantamento delle scienze giuridiche da parte delle scienze fisiche e matematiche nella guida di ogni scienziato a una sicura correttezza metodologica. Nel secondo Medioevo il primato epistemologico era nella scienza giuridica, l’unica a offrire un sapere decantato da una tradizione di quasi due millennii e ad offrire un linguaggio e una concettualistica rigorosissimi, tanto rigorosi da aver costituito facilmente la base solidissima per una altrettanto solida costruzione sistematica. Ora, la riflessione giuridica, compromessa con le supreme scelte medievali, compromessa nella fusione medievale tra diritto civile e diritto canonico, subisce la stessa mala sorte di tutto l’edificio medievale: non appare affidabile, mentre affidabilissime sembrano le penetranti esplorazioni di matematici e astronomi, che hanno disvelato all’uomo moderno i segreti del cosmo. In queste ogni scienziato, anche colui che si occupa di scienze morali e anche il giurista, troveranno un sicuro modello di metodo.

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6. In particolare: riforma religiosa e ordine giuridico Il 10 dicembre 1520 delle fiamme si accesero sul sagrato della cattedrale di Wittenberg, una città della Sassonia. Era un rogo di libri ordinato dal primo dei riformatori, Martin Lutero, che, bruciando quell’ammasso di carte, voleva ridurre in cenere il loro contenuto ideale. Allo storico del diritto interessano particolarmente due oggetti di quel rogo: un grosso insieme di volumi, il Corpus iuris canonici, e uno smilzo libretto, la Summa angelica. Cerchiamo di spiegare i motivi di tanto interesse. Bruciando le pagine del Corpus iuris canonici, il breviario di regole giuridiche della Chiesa medievale, Lutero intendeva condannare e rimuovere con una totale estirpazione la scelta per il diritto, che gli appariva come scelta per il potere, finalizzata alla edificazione di un apparato gerarchico non più gratificato dal crisma della sacralità e sguazzante invece nel fango delle temporalità. La scelta per il diritto – testimoniata dal voluminosissimo Corpus iuris canonici – rappresentava agli occhi del riformatore il tradimento della Chiesa romana e la prova di quella che lui definiva la sua «prigionia babilonese», la sua «captivitas babylonica»: la Chiesa si era lasciata catturare dalle lusinghe temporali e aveva dimenticato, sia la legge suprema della carità insegnata dal Cristo, sia il suo fine trascendente, il suo essere guida per la conquista di un regno celeste. Più oscure sono le motivazioni della singolare attenzione per lo smilzo libretto, perché oscura e dimenticata è la Summa angelica, e indubbiamente dimenticabile se, nelle fiamme di Wittenberg, non fosse assurta al rango e ruolo di simbolo5. Essa altro non è che un manuale per confessori, per i chierici chiamati ad amministrare il sa5 La Summa angelica de casibus conscientiae, pubblicata a Venezia nel 1487, avrà una enorme fortuna, con decine e decine di ristampe nei secoli successivi (la si stamperà ancora, a Roma, nel 1771).

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cramento della confessione auricolare, compilato a fine Quattrocento da un frate francescano piemontese, Angelo Carletti (da cui il nome di «angelica»). Bruciandolo, Lutero condannava un sacramento di origine medievale, che gli si presentava non come mezzo di santificazione dei fedeli ma come strumento di controllo, dal momento che metteva interamente in mani clericali l’assoluzione del penitente dai peccati. Come abbiamo già avuto modo di precisare, la scelta della Chiesa Romana per il diritto ha motivazioni complesse, e le abbiamo considerate tutte. Qui preme, invece, la valutazione drasticamente negativa che ne diede Lutero, con la conseguente espunzione della dimensione giuridica dalla nuova religiosità, tutta imperniata ormai nel colloquio immediato (e, quindi, interiore) tra il singolo e la divinità. Ma, al di là della ferma condanna di un diritto ‘canonico’, ha rilievo il contributo non indifferente che la riforma diede al declino del prestigio del diritto e dei giuristi, personaggi – questi ultimi – pensati quali possessori di tecniche astruse e misteriose validissime per turlupinare il cittadino sprovveduto. Il giurista assurge alla immagine negativa del cattivo cristiano. E ha rilievo il contributo che la nuova religiosità fornisce al generale indirizzo individualistico e, quindi, anche al serpeggiante e tra poco imperversante individualismo giuridico (di cui parleremo nei prossimi capitoli). Una notazione conclusiva. Non v’è dubbio che, nell’animo del monaco Lutero, fosse determinante il sincero bisogno di purificazione di un apparato ecclesiastico profondamente corrotto e che la finalità prevalente fosse di liberare la nuova chiesa dall’abbraccio soffocante delle temporalità. Di fronte alla immediata controriforma cattolica e al pericolo concreto di una riconquista papale, si maturò una scelta che, anche se necessaria, si pose però in netta contraddizione con le ragioni alte della riforma religiosa. Si affidò, infatti, spesso, la guida e la

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protezione delle fragili comunità riformate ai sovrani nazionali che avevano aderito al nuovo verbo; con il poco edificante paesaggio politico-religioso di monarchi a capo di chiese nazionali e con la elevazione delle fedi riformate al ruolo di religioni ufficiali di Stato. E ancora oggi, nell’Europa del Nord, abbiamo reliquie di una siffatta antinomia. 7. In particolare: l’umanesimo giuridico e le sue due anime: a) l’anima razionalista; b) l’anima storicista Umanesimo è una misura nuova dei rapporti fra soggetto e mondo, è un rinnovamento antropologico, e non può che irradiarsi in ogni avventura scientifica incidendo profondamente sulle sue scelte basilari. Il che avviene anche sul terreno della scienza del diritto. Quell’ampia e fertile corrente culturale, che siamo soliti chiamare sommariamente «umanesimo giuridico», è null’altro che la tesaurizzazione e applicazione di determinanti premesse umanistiche. Sappia il lettore che ci stiamo inoltrando all’interno della più fattiva fucina della modernità. Con due precisazioni necessarie: con l’umanesimo giuridico siamo giunti a un momento intenso di frattura verso le certezze medievali, siamo giunti – in altre parole – non all’ultimo atto di una vicenda passata, ma al primo (o fra i primi) di una vicenda nuova; l’umanesimo giuridico, lungi dal restare conchiuso nei termini storici dei secoli XV e XVI in cui si manifesta, avrà un influsso decisivo sullo sviluppo dei secoli successivi e contribuirà a plasmarli. Ma è ora di passare a individuarne il messaggio: il quale – semplificando – può essere ridotto a una ferma polemica verso le carenze metodologiche (e la conseguente anti-scientificità) di glossatori e commentatori, verso il modo disinvolto con cui essi avevano maneggiato il diritto romano. Il loro sguardo si era contentato di analiz-

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zare puntigliosamente il Corpus iuris giustinianeo senza la preoccupazione di sorprendere lì l’ultima consolidazione di un millennio elaborativo e di comparare i varii stadii di elaborazione che la Cancelleria bizantina del secolo VI d.C. aveva confuso e anche soffocato. Agli occhi dei nuovi giureconsulti umanisti il diritto romano – strumento meta-storico nelle mani dei medievali – doveva essere recuperato alla sua effettiva dimensione storica, cioè per quel che era stato e come era stato e come si era sviluppato in mille anni di vita. L’insegna di questi homines novi è la storicizzazione del diritto romano, ed è una battaglia culturale che impegna gli ingegni più vivaci in tutta Europa, manifestandosi con pienezza di voce già nelle prime dècadi del Cinquecento: il lombardo Andrea Alciato, il francese Guillaume Budé e il germanico Ulrich Zasius sono i modelli più prestigiosi di un orientamento metodologico che sta avendo consensi sempre più larghi. Storicizzazione: il diritto romano espressione e specchio del suo tempo storico. Programma ambizioso, che esigeva l’inserimento della dimensione più propriamente giuridica all’interno della raggiera delle altre dimensioni (religiosa, filosofica, linguistica, letteraria, archeologica, politica), che esigeva una apertura culturale (e una preparazione) pesantemente impegnativa. Ma ciò è congenialissimo agli umanisti, tutti presi da un ideale pansofico; parola difficile questa, che fa riferimento a una scienza totale, applicabile alla loro visione del sapere come unità coordinata delle conoscenze e dello scienziato che non può limitarsi ad arare soltanto il proprio ristretto campicello. Una disciplina scientifica, che pretendesse la assoluta solitudine, si tarperebbe le ali e affievolirebbe la propria scientificità, perché il sapere è un tutto connesso, è pansofia. Ed è in questa convinzione che si motiva la loro scelta della filologia come strumento culturale decisivo, essendo concepita non già come arido esame

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grammaticale di un testo, bensì, come afferma efficacemente Budé, quale doctrina orbicularis, quale scienza multiforme e aperta che consente di carpire il segreto di una intiera civiltà storica. L’apporto di altre scienze, invocato a fornire solidi supporti culturali al diritto, è la strada maestra che può portare a uno strutturale riordinamento dell’ammasso caotico del diritto romano. Quello voluto e attuato da Giustiniano e dai suoi sodali non lo fu; fu piuttosto il soffocamento delle precedenti voci del diritto classico e post-classico nella loro tipicità storica. L’esigenza è, ormai, una sola: restituire il diritto romano ai Romani, seguirne fedelmente le mutazioni prodotte nella civiltà giuridica romana durante il distendersi di un millennio. L’indirizzo metodologico è radicalmente nuovo rispetto all’approccio di glossatori e commentatori, e coinvolge tutto l’umanesimo giuridico. Però, in questo voler arrivare a discoprire il vero vólto storico dell’esperienza giuridica romana, si debbono segnalare (e sottolineare) quasi due anime, due atteggiamenti ben differenziati, che tendono a valorizzarne aspetti diversi, l’uno e l’altro fertilissimi per i futuri svolgimenti del diritto moderno, un’anima che potremmo qualificare razionalista e un’altra storicista. Esaminiamole partitamente. a) Uno dei ‘tradimenti’ operati da Giustiniano è di avere malamente utilizzato frammenti del sapere scientifico classico devitalizzandoli con manipolazioni e alterandone così l’autentico messaggio storico. I giuristi classici sono, invece, ora considerati come quei sapienti che, attingendo ai grandi logici e geometri greci, sono riusciti a costruire un rigoroso edificio sistematico, dove i singoli elementi hanno l’indiscutibile rigore delle figure geometriche. In una siffatta ottica, si valorizza la logica perfetta da essi provvidamente messa in atto per le proprie costruzioni, perfetta perché fondata non su discutibili artificii, bensì sulla natura dell’uomo

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che gli umanisti a vocazione razionalistica chiamano recta ratio, retta ragione. I classici lessero la natura, la capirono e la tradussero in un ammirevole sistema dalla straordinaria logicità. Il diritto romano classico appare qui come ratio scripta, manifestazione scritta di una razionalità pura, che va riscoperta quale modello proponibile anche nella nuova Europa cinquecentesca, perché non si tratta di un’arida logica formale bensì di forme di ragionamenti aderenti al processo reale del pensiero; vanno riscoperte le venature razionali che sono le nervature portanti, va riscoperto il piano razionale che sorregge tutta la costruzione sistematica e i principii informatori che ne costituiscono la piattaforma unificante. Ed è in un siffatto orientamento che può essere messa a frutto la cultura pansofica; e si legge il De architectura del romano Vitruvio e il De re aedificatoria dell’umanista fiorentino Leon Battista Alberti, progettatore eccelso di chiese e palazzi, ma anche espressione genuina di una vera pansofia 6; e Budé non ha esitazione a esortare i colleghi a modellare i proprii progetti iure architectonico. E la filologia – di cui sopra si parlava – non è attività semplicemente grammaticale ed esegetica (cioè esplicativa di un testo), ma esercizio delle facoltà raziocinanti. Il diritto vede accentuato, in questa visione, il suo carattere di tessuto ordinante la realtà grazie alle sue basamenta squisitamente logiche, quelle basamenta logiche che gli scienziati liberi del Rinascimento hanno messo a nudo leggendo senza inibizioni le architetture matematiche e geometriche del cosmo. Queste conclusioni di quella che abbiamo chiamato 6 Leon Battista Alberti, vero personaggio ‘pansofico’, scrive anche il trattatello De iure. Sull’Alberti, ma altresì sull’umanesimo giuridico in generale, cfr. D. Quaglioni, La giustizia nel Medioevo e nella prima età moderna, Bologna 2004 (cap. IX: L’Umanesimo e la giustizia).

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l’anima razionalista dell’umanesimo giuridico serviranno da indispensabile supporto per la grande avventura del giusnaturalismo (che studieremo tra breve). b) La vocazione pansofica serve da guida anche all’anima storicista dell’umanesimo giuridico. Dobbiamo ripetere che la pansofia umanistica non è una mescolanza confusa tra discipline diverse, bensì l’approfondimento di una disciplina alla luce e con il soccorso di altre discipline al fine di rendere più corretto l’approccio metodologico e garantirsi una fondazione indiscutibilmente scientifica. La percezione del diritto romano come prodotto storico esigeva l’immersione delle tecniche dei giuristi romani e dei testi giuridici romani in una storia totale della civiltà romana nel suo divenire attraverso varii momenti, nel suo sfaccettarsi in varie e diverse dimensioni, a chiarire le quali sono chiamate la storia politica e sociale, la storia religiosa, la linguistica, la archeologia, l’epigrafia, e via dicendo; discipline che il giurista/storicista studierà non per amore dell’eclettismo, ma per tener dietro a un metodo rigoroso di indagine. C’è, ovviamente, uno sviluppo di studii storici e filologici sulle fonti, c’è quel superbo ordito di erudizione che rende le opere di questi giuristi storicisti ancora leggibili (e ancora lette) con profitto dagli odierni romanisti, ma non è questo che interessa lo storico del diritto moderno con il suo sguardo disteso sullo svolgersi della futura linea storica. Ci interessa, invece, e parecchio, se ha delle conseguenze sul tracciato della linea una apparentemente innocua riflessione di scienziati immersi fino al collo nello studio delle antichità greco-romane. La risposta non può che essere affermativa, perché non è affatto innocua l’esigenza culturale di restituire ai Romani il diritto romano e di coglierlo come prodotto storico. È, infatti, la premessa per conseguire due risultati corposi: differenziare passato e presente; mettere in luce la

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specificità del presente. Facciamo un solo esempio chiarificatore: François Hotman (1524-1590), giurista immerso nel nuovo clima culturale, giurista storicista e, per giunta, aderente (come è circostanza comune a diversi giuristi umanisti) alla riforma religiosa, scrive dei libelli polemici ricolmi di concrete proposte indirizzate al governo regio, e tutte contrassegnate dallo scopo di potenziare un diritto autonomo del regno: si afferma la inutilità dello studio del diritto pubblico romano, essendo evidente il divario che lo separa dalle esigenze reali della Francia cinquecentesca; si fa leva sulle antiche istituzioni dei Franchi, con affermazioni apparentemente ingenue ma che vogliono essere l’indicazione di un materiale storico autoctono capace di fondare un’autonomia giuridica; si invita esplicitamente il re a dar mano a un diritto nazionale unitario utilizzando soprattutto le fonti indigene delle consuetudini regionali. Dalla premessa storicistica che il diritto romano è un prodotto storico se ne ricava un’altra che ha il valore di premessa metodologica generale: ogni diritto è un prodotto storico, e, come tale, meritevole di essere valorizzato quale segno del suo tempo; naturalmente, lo è anche il diritto francese, specchio di un tempo storico, di una società, di un costume politico-sociale. E gli umanisti storicisti non lesinano gli sforzi per una valorizzazione, dimostrano di essere ben calati all’interno di uno Stato nazionale che sta edificando – passo dopo passo – la sua completa indipendenza, si danno da fare per la costruzione di un diritto nazionale francese, disegnando progetti immediatamente applicabili, insistendo talora sulla necessità che ci si basi sulla unificazione delle coutumes perché quelle fonti rozze esprimono bene l’unità spirituale del popolo francese, insistendo talvolta sulla esigenza di accentuare in Francia la potestà legislativa del re. Certamente, la monarchia ha degli alleati validissimi in questi antiquarii che dalle loro ricerche hanno rica-

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vato un sentimento intenso del presente, della sua tipicità e rispettabilità. Il nascente e crescente nazionalismo giuridico francese trova in questo filone umanistico motivazioni e contributi notevoli.

8. Il giusnaturalismo Se l’umanesimo giuridico è il protagonista vivace della scienza giuridica del Quattrocento e del Cinquecento (e lo è in tutta Europa, anche se con una forza particolare in Francia), i secoli XVII e XVIII sono percorsi in tutta Europa dalla grande avventura del giusnaturalismo. Cerchiamo di avvicinarci alla comprensione di questo capitale fatto storico della modernità dalle enormi conseguenze. In un’accezione assolutamente elementare, giusnaturalismo significa una civiltà giuridica che si impernia sulla nozione di «diritto naturale» quale suo fondamento e sua idea matrice e che serba al proprio interno, quale tratto tipico, la dialettica fra i varii diritti storici positivi prodotti dalle varie entità politiche e un diritto superiore – appunto, il diritto naturale – che non è prodotto da quelle entità ma fa capo al di là di esse, in una realtà superiore, universale, che per ora possiamo contentarci di chiamare sommariamente ‘natura’. Il richiamo a un ‘diritto naturale’ non è certamente una novità moderna; la civiltà greco-romana, quella medievale e – addirittura – quella a noi contemporanea sono sicuramente arricchite dalla dialettica ora accennata; e possiamo, anzi, anche individuare una piattaforma comune e costante di ogni ricorso che nella storia si è fatto e si fa al diritto naturale: il suo carattere liberatorio, affrancatorio, nell’opporre alle scelte contingenti e spesso arbitrarie del potere un complesso di principii e regole che al potere e alle sue miserie non si rifanno, che

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si fondano – al contrario – su qualcosa di più durevole, di più solido. Detto questo, si deve però immediatamente aggiungere che appagarsi del riferimento a questa generica piattaforma comune non ci dà la cifra tipica del giusnaturalismo moderno e che si deve procedere a una sua maggiore storicizzazione. Cominciando da due precisazioni chiarificatrici: nel Seicento europeo, sulla dialettica diritto naturale/diritti positivi si basa la costruzione di un intiero ordine giuridico; e si conferisce un contenuto assolutamente nuovo al generico contenitore ‘diritto naturale’, variamente riempibile e variamente riempito dalle varie civiltà storiche. Poiché la comparazione è l’arma più appuntita nelle mani dello storico, rendiamoci conto delle conclusioni medievali in proposito. Nella visione di Tommaso d’Aquino, che, al solito, le esprime con fedeltà e lucidità somme, l’analisi fa pernio non sull’individuo ma sul cosmo, una grande realtà magnificamente ordinata grazie a principii e regole che Dio stesso ha generosamente voluto in favore del genere umano e ha scritto a caratteri indelebili sulle stesse cose. Qui la ‘ragione naturale’ è un dono divino e ha una dimensione squisitamente oggettiva. Ma, tra la fine del Duecento – che è il tempo di Tommaso – e i primi del Seicento – che è il tempo di avvìo del giusnaturalismo – sta quel secolo XVI in cui si sviluppano diversi processi liberatorii, che abbiamo creduto bene di sottolineare. Umanesimo, pre-capitalismo, rivoluzione scientifica sono gli eventi rivoluzionarii tutti tesi a capovolgere la vecchia e opprimente visione del mondo naturale e sociale, e sono proprio gli eventi che debbono presupporsi al giusnaturalismo seicentesco e gli dànno un conio di tipicità e di novità intensissime; le sue radici sono nel fervido crogiuolo storico germinato nel Trecento e maturatosi compiutamente nel Cinquecento, ed è da lì che esso afferra la nuova antropologia appro-

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priandosi della sua carica rivoluzionaria. Cerchiamo di disegnare le linee essenziali del progetto giusnaturalistico: che deve essere còlto, in conseguenza e coerenza al già avvenuto processo liberatorio del soggetto individuale, quale gradino ulteriore valido per fornirgli fondazioni indiscutibili. Ora, nel Seicento, le scienze matematiche e naturali offrono ormai un sicuro presidio metodologico, al quale il giurista – diventato anche lui, come il naturalista, uno scopritore – dovrà affidarsi con dedizione totale; e, al par di lui che è riuscito a individuare le leggi universali ordinanti la natura delle cose, riuscirà a fissare quelle regole universali di condotta scritte chiaramente nella natura dell’uomo, e ben visibili sol che si abbia uno sguardo non alterato. Bisogna, però, arrivare a scoprire la natura genuina dell’uomo, ma non è un recupero facile, perché la storia – nel suo scorrere – ha falsato e deformato. Da qui l’assillo, che domina tutto il giusnaturalismo, di liberarsi delle artificiose sedimentazioni storiche e pervenire a una perfetta registrazione di quello che fu il primitivo stato di natura, dove il primo uomo può fungere da incontaminato modello nella operazione di recupero. Sembra una ingenua favola assolutamente innocua, ma il suo vólto muta appena si scenda a constatare la lettura che viene fatta della pretesa ‘natura’: è uno stato primigenio, dove operano soggetti individui, ciascuno dei quali agisce e dispone liberamente di sé. La regola assoluta è l’istinto di conservazione individuale, che genera l’unico dovere esistente: quello della auto-conservazione. L’antropo-centrismo di marca umanistica qui diventa il più rigido individualismo. Nello stato di natura non si danno per il singolo condizionamenti sociali e collettivi; questi verranno successivamente quando la somma di tante individualità insulari, mossa da motivazioni di opportunità, sceglierà liberamente di dare vita alla società civile. Ma sarà già il mondo della sto-

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ria, che, in questa visione, è duramente contrapposto a quello della natura con lo stesso vigore manicheo con cui si contrappone purezza e contaminazione. Ma continuiamo in questo tentativo di caratterizzazione, chiedendo aiuto al giurista olandese Huig van Groot (latinizzato in Hugo Grotius, donde l’italiano Grozio) (1583-1645), a colui che per primo riuscì a tracciare un disegno compiuto della nuova antropologia giuridica soprattutto in una grossa opera dalla forte valenza teorica, il De iure belli ac pacis (1625), uno dei più lucidi incunaboli del diritto moderno. Nelle ampie premesse (Prolegomeni) egli fissa bene i cardini del rinnovamento metodologico: «anzitutto mi sono preoccupato di ricollegare le prove riguardanti il diritto naturale a nozioni così evidenti che nessuno possa negarle senza far violenza a se stesso: infatti i principii di tale diritto [...] sono manifesti di per sé ed evidenti» (Prolegomeni, § 39). Comincia l’assillante ritornello della evidenza, che continuerà per tutto il Settecento e che è illuminante per farci capire che siamo in un emisfero culturale addirittura capovolto rispetto a quello medievale: ciò che era pensato come dono d’Iddio, qui è autonomizzato all’interno della natura cosmica e sociale, e il puntello dell’evidenza è la cerniera che permette di chiudere verso l’alto. Ciò che è evidente non abbisogna di interventi celesti, ma trova in sé la propria giustificazione. Il nuovo giusnaturalismo è rigorosamente laico. Ancora: «dichiaro apertamente che, come i matematici considerano le figure facendo astrazione dai corpi, così io, nel trattare del diritto, ho distolto il pensiero da qualsiasi fatto particolare» (Prolegomeni, § 58). Anche qui il nuovo coincide con la ricerca di una nuova e più appagante metodologia. Grozio, attento lettore ed entusiastico ammiratore di Galileo, assume a modello epistemologico le scienze matematiche in pieno rigoglio, si china ossequioso di fronte ad esse riconoscendo il loro pri-

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mato e ponendo ogni zelo per esemplarvisi. I giuristi cominciano a pregustare il momento in cui riusciranno a ridurre la complessità del diritto in una armonia di rigorose figure geometriche; e si parlerà tra poco di mos geometricus, di un diritto che è esattamente l’opposto della alluvionale caoticità dell’ordine giuridico medievale perché semplificato in linee essenziali come nei teoremi e nei postulati di uno studioso di geometria. Ma nella seconda frase groziana v’è un’altra radicale innovazione che preme sottolineare: si rinnega la fattualità del diritto, che era stato il messaggio centrale di tutto il diritto medievale (anche di quello sapienziale) e, a imitazione di quei veri scienziati che sono i matematici, si opta per un sapere virtuale. Lo stato di natura è soltanto un laboratorio, dove, più che la sperimentazione, si esercita la fantasia del giurista. Intendiamo dire che il giusnaturalismo seicentesco è tutto un ragionar per modelli, un grande ed elaborato discorso misurato su un modello astratto di uomo, che non ha mai avuto esistenza concreta perché non è fatto di carne e di ossa e perché galleggia in una sorta di paradiso terrestre senza spazio e senza tempo7. Ma perché costruire questa favolistica? Più sopra abbiamo detto che non si tratta di favole innocue, e lo ripetiamo ora; ma si impone che si dia qualche motivazione e si cominci a tirare qualche conclusione. Il giusnaturalismo seicentesco ha una valenza com7

Il De iure belli ac pacis libri tres di Grozio è consultabile comodamente nella edizione a cura di R. Feenstra e C.E. Persenaire, Aalen 1993. Ecco i due testi groziani nell’originale latino: «Primum mihi cura haec fuit, ut eorum quae ad ius naturae pertinent probationes referrem ad notiones quasdam tam certas ut eas nemo negare possit, nisi sibi vim inferat. Principia enim eius iuris... per se patent atque evidentia sunt» (Prolegomena, § 39); «Vere enim profiteor, sicut mathematici figuras a corporibus semotas considerant, ita me in iure tractando ab omni singulari facto abduxisse animum» (Prolegomena, § 58).

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plessa e, per alcuni aspetti, ambigua. È certamente una grande avventura scientifica, ma elaborata da scienziati non avulsi dal loro tempo, bensì figli del loro tempo e impegnati fino al collo nel contribuire ad ordinarlo. Puntare, come loro fanno, sull’uomo allo stato puro e sul primitivo stato di natura ha il significato di disegnare un territorio riservato dove il soggetto non può essere molestato nelle sue libertà dagli arbitrii del potere. Ed è in questa avventura, come vedremo, che avranno la loro radicazione il costituzionalismo moderno e le sei-settecentesche ‘carte dei diritti’, prime barriere edificate a protezione di situazioni fondamentali dell’individuo. Sono, però, figli del loro tempo anche nella impostazione individualistica, nel loro assillo per as-trarre l’individuo da ogni formazione sociale, nell’avvalorarne una dimensione essenzialmente egoistica. Lo stato di natura groziano è sorretto da una regola fondamentale che è il rispetto del proprium di ognuno, cioè di una sfera individuale indipendente dove si trovano congiunti diritti di libertà e di proprietà. Conclusione che sarà ancora più pronunciata in quel progetto di società nuova compiutamente tratteggiato nei Due trattati sul governo pensati e redatti dal filosofo e politologo inglese John Locke (16321704) tra il 1680 e il 1690, un decennio gremito di futuro per l’Inghilterra8: lo stato di natura come «stato di perfetta libertà», dove è affidato alla property il ruolo di garanzia e di presidio della libertà individuale. Possiamo tradurre il termine inglese con l’italiano «proprietà», ma con l’identico contenuto del proprium groziano: è un complesso di energie e di talenti individuali, che ha una 8 Precisiamo i fatti storici che in quel decennio avvengono: 1688, ‘glorious revolution’ e cacciata del sovrano assolutista Giacomo II Stuart; 1689, Bill of Rights, prima carta dei diritti, ossia il tentativo di fissare alcune situazioni soggettive dei sudditi, che il nuovo sovrano è chiamato a rispettare; 1690, pubblicazione dell’opera di John Locke, di cui si parla nel testo.

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enorme forza espansiva, che tende a proiettarsi verso le cose esterne, a segnarle con il marchio della esclusività, a vincolarle a un soggetto quasi fondendo il ‘me’ con il ‘mio’. Ed è qui che si scopre la valenza ambigua del giusnaturalismo moderno: avventura di una scienza alla ricerca di regole oggettive ma anche abilissima strategia di intellettuali, che esprimono bene gli interessi e le istanze del pre-capitalismo – esuberante in grandi potenze coloniali come l’Inghilterra e i Paesi Bassi – e si impegnano a disegnare un nuovo ordine sociale e giuridico alla cui base sia la tutela di quegli interessi e il soddisfacimento di quelle istanze. Il nuovo individuo, su cui si incardina la società, è l’erede diretto di quel soggetto affrancato dagli involucri medievali che abbiamo visto comparire nelle analisi teologico-filosofiche trecentesche, soggetto liberato e libero grazie al suo essere dominus, proprietario dei beni ma innanzi tutto di se stesso. Si inaugurava in quel remoto Trecento un itinerario che avrebbe avuto sbocco e compimento nel secondo dei trattati lockiani, ma che avrebbe corso in perfetta continuità puntando sulla stessa argomentazione di fondo: naturalità della proprietà dei beni perché emanazione di quella proprietà di me stesso, frutto dell’istinto di conservazione, strumento di auto-tutela voluto a mio favore dalla divinità e quindi indiscutibilmente naturale. Il soggetto che riceve attenzioni e premure è il proprietario, e la proprietà privata appare quale pernio del nuovo ordine. Siamo ormai penetrati al cuore di una civiltà che può correttamente essere definita «borghese», dove un ceto in ascesa – la borghesia –, tutto preso dallo scopo del profitto e dall’accumulo del patrimonio, sta assumendo un ruolo protagonistico, mescolando e fondendo dimensione etica e dimensione economica, elevando l’avere a un piano superiore prima sconosciuto.

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La proprietà individuale, infatti, immedesimata col soggetto e quasi incuneata nei suoi meccanismi più intimi, diventa il contributo più possente alla sua individualità. Durante il corso del Settecento politologi, economisti e giuristi non esiteranno a qualificarla come ‘sacra’, e ‘sacra’ la proclamerà la prima Dichiarazione dei diritti francese del 1789 al suo articolo 17. Restano due punti da approfondire: il primo concerne la scelta per l’astrattezza; il secondo concerne il ruolo del potere politico. Abbiamo precisato più sopra che il giusnaturalismo moderno fa i conti con soggetti astratti, e cioè con gli improbabili abitatori di uno spazio/tempo inesistente, lo stato di natura: non uomini in carne ed ossa bensì modelli di uomo. Ma non fa a pugni questa scelta con la valorizzazione della ricchezza e il protagonismo del patrimonio, che non possono non inasprire le differenze di fatto fra abbienti e nulla-tenenti? Con la scelta della astrattezza il giusnaturalismo inaugura una strategia che ha accompagnato il diritto borghese per tutto lo svolgersi della modernità. L’astrattezza è – se mi è consentita l’espressione – l’efficace foglia di fico dietro cui celare l’assetto concreto di una società percorsa da non poche iniquità: soggetti astratti, rapporti astratti, libertà astratta, uguaglianza astratta, norme astratte. Affermazioni che esauriscono la propria azione a un livello formale ma assolutamente inappaganti sotto il profilo sociale. Un esempio vistoso: della libertà contrattuale e della uguaglianza formale delle parti in seno ai contratti che se ne faceva l’ultimo dei pezzenti nobilitato, ma solo virtualmente, nella parità giuridica al pingue borghese ma di fatto stritolato dal contraente economicamente dominante? L’astrattezza giova, infatti, soltanto all’abbiente proprio in ragione della sua virtualità, mentre lascia intatta la fragilità economica e sociale del contraente debole.

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Un unico risultato veniva raggiunto, e di non poco momento. Si rompevano le chiusure e i privilegii cetuali, si cancellava (o si tentava di farlo) una immobilizzante organizzazione corporativa; di fronte al potere politico si stagliava l’individuo, anzi, un popolo di soggetti individui. Un cenno anche al secondo punto meritevole di riflessione. Nella visione giusnaturalistica il potere compare in un secondo momento, un momento che non è più solo ‘natura’ ma è anche ‘storia’: tenendo dietro a motivazioni di opportunità, per comune consenso si sceglie di dare vita a una società politica. E qual è l’atteggiamento verso il potere? La risposta è ferma: il proprium, la property, deve trovare un’adeguata tutela, e questa tutela può essere pienamente rinvenuta in una situazione di ordine pubblico, di sicurezza generalmente mantenuta da una efficiente opera di polizia. Gli individui ‘proprietarii’ generano il potere, e il potere è chiamato a proteggerli. L’età borghese è segnata dalle loro reciproche effusioni.

9. L’illuminismo giuridico. Legalismo e legolatria. L’età dell’assolutismo giuridico Le ultime riflessioni del paragrafo precedente, che sottolineano la complessità ma anche l’ambiguità della grande avventura giusnaturalistica, ci introducono egregiamente alla analisi e comprensione dell’illuminismo giuridico del continente europeo, che può essere considerato come la prosecuzione, il compimento e anche il tradimento di quella avventura durante il secolo XVIII. E cominciamo subito col chiarire che è, come il giusnaturalismo, un movimento di pensiero e di azione a proiezione europea; anzi, è lo stesso giusnaturalismo, che, proseguendo la sua vita, accentua certi caratteri e assu-

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me un vólto più specifico; che, tuttavia, arriva a soluzioni che rappresentano la smentita delle premesse giusnaturalistiche. Una precisazione iniziale può indirizzarci a una retta comprensione: se era propria dei giusnaturalisti seicenteschi una spiccata vocazione a tradurre il proprio patrimonio ideale in un progetto di trasformazione del mondo socio-politico-giuridico, una siffatta vocazione diventa spiccatissima negli illuministi settecenteschi, i quali, per quanto concerne ciò che più interessa questo libro, si fanno portatori di una vera politica del diritto, aggredendo frontalmente quel nodo di rapporti fra soggetto/individuo, stato di natura, potere politico indubbiamente presente nei progetti del secolo XVII, ma non compiutamente risolto sul piano giuridico. Ed ecco un primo carattere: il movimento illuministico è un’ampia comunità di intellettuali affrancati grazie alla rivoluzione culturale umanistica e giusnaturalistica, convinta nelle proprie capacità di lettura veridica del mondo naturale e sociale, convinta di essere in possesso di quei lumi idonei ad adeguare la realtà storica alle finalmente individuate regole naturali. Ma è una comunità di cui fanno parte anche sovrani e uomini politici, una comunità che ha come programma, e tenta, e pone talvolta in atto una riforma strutturale della società e dell’apparato statuale. Federico II (1740-1786) nel regno di Prussia, Maria Teresa (1740-1780) e il suo ministro von Kaunitz (e poi anche i suoi figli Giuseppe e Leopoldo) nell’Impero austriaco, Giuseppe I (1750-1777) e il suo ministro marchese di Pombal in Portogallo sono gli esempii più vistosi e più probanti del passo innanzi che si sta facendo nel Settecento, e del calare di un tessuto di idee e di progetti a livello di azione politica e giuridica. Si arriva ad avere un nuovo modello di sovrano, che si picca di mescolarsi nelle dispute culturali e di compia-

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cersi nel mostrarsi egli stesso – in prima persona – facitore di pensiero giuridico, come quando Federico II, nel 1750, va a leggere presso l’Accademia delle Scienze di Berlino una Dissertazione sulle ragioni di stabilire o abrogare le leggi; o un nuovo modello di legislatore, che si sente in obbligo di fare dei proprii prodotti legislativi il manifesto dichiarato della nuova filosofia, come quando, nel 1769, il marchese di Pombal confeziona una legge, chiamata successivamente e giustamente Lei da Boa Razão, (Legge della buona ragione)9, dimostrando la penetrazione dei principii giusnaturalistici ben all’interno delle cancellerie perfino nell’estremo appartato lembo occidentale dell’Europa. L’illuminismo giuridico è una vera politica del diritto: affronta il nodo del rapporto diritto naturale/potere e lo risolve in una radicale innovativa sistemazione delle fonti del diritto. Ormai, il diritto diviene l’oggetto privilegiato della riflessione intellettuale e dell’azione politica e ne riceve uno scossone radicale, colorandosi di venature spiccatamente assolutistiche. L’esigenza di garantire la libertà dell’individuo, la sua property, era emersa chiaramente già nelle proposte giusnaturalistiche e lo stesso Locke, campione della impostazione più liberale, non aveva mancato di proporre una concezione legalitaria della libertà e uno stretto collegamento fra legge del principe e libertà dei singoli. È, però, con l’illuminismo giuridico che le visioni politologiche precedenti divengono proposta di riforma e poi riforma. E protagonisti non saranno più soltanto filosofi e politologi ma giuristi ed economisti (questi ultimi incarnanti una nuova figura di intellettuale10 nel proscenio euro9 Sulla portoghese Lei da Boa Razão, cfr. M.J. de Almeida Costa, História do direito português, Coimbra 19922. 10 Con l’espressione «nuova figura di intellettuale» ci si riferisce a quella corrente di pensiero – collocabile in Francia, alla metà del Set-

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peo). Il processo è duplice: da un lato, critica demolitiva dell’assetto tradizionale delle fonti; dall’altro, proposta costruttiva. Ancora a metà Settecento si trascinava stancamente in tutta Europa la sistemazione medievale del diritto, erosa in parte sul continente dalle invadenze sempre più massicce di norme autoritarie sovrane all’interno dei forti Stati nazionali (soprattutto, come vedremo, nel regno di Francia). Restava, cioè, vigente un ammasso di consuetudini, di opinioni dottrinali, di sentenze di giudici, che, nell’accumulo dei secoli, si era trasformato in una realtà caotica e indominabile all’insegna della più totale incertezza; una realtà dove poteva signoreggiare (e signoreggiava) l’arbitrio dei giuristi, ossia dei possessori del sapere tecnico, e dove la confusione, l’oscurità, la indecifrabilità venivano a cozzare proprio con il bisogno di chiarezza, di certezza, di semplicità, insomma di linee geometriche, emerso prepotentemente nel dopo-umanesimo giuridico. Si trattava di un sistema giuridico condannato senza appello sia dai sovrani sia dagli intellettuali illuministi; dai sovrani, perché assai poco controllabile dal potere, dai secondi per motivazioni più complesse su cui conviene sostare un momento. In essi c’era disprezzo sia per le consuetudini, sia per i giuristi. Non dimentichi il lettore che questi intellettuali settecenteschi sono degli aristocratici, spesso adepti di logge massoniche o, comunque, di circoli esclusivi, e sono pertanto incapaci di contecento – che siamo soliti chiamare «fisiocrazia», sostantivo composto di calco greco che significa impero della natura e che, rifiutando l’assorbimento dell’economia nella politica quale semplice strumento nelle mani del potere, vuole esprimere l’intendimento di disegnare principii e regole di una nuova scienza edificata sulla natura autentica della società. E abbiamo giustamente parlato di «nuova figura di intellettuale» perché i fisiocrati possono considerarsi i primi economisti in questa loro ricerca di principii e regole autonomi della dimensione economica della società.

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cepire un diritto proveniente dal basso, dal groviglio degli usi. Le opere del francese Charles de Montesquieu (1689-1755) e dell’italiano Cesare Beccaria (1738-1794), due diversi corifei dell’Illuminismo europeo, possono essere assunte a campione di un simile atteggiamento, essendo palese in esse il disprezzo per il volgo, per le opinioni circolanti in basso, per tutto ciò che dal basso può provenire. Né potevano salvarsi ai loro occhi i vecchi giuristi, troppo tecnici e troppo poco filosofi, troppo spesso avulsi dalla cultura del loro tempo e troppo compenetrati con un diritto comune compromesso nelle sue origini medievali con la aborrita Chiesa Romana e col diritto canonico. Il processo di rinnovamento giuridico doveva necessariamente cominciare con un rifiuto drastico del passato, sgombrando il terreno dalle vecchie fonti e cancellandole con lo stesso zelo con cui si cancella una infamia. Il vuoto lo si poteva egregiamente colmare assecondando di buon grado le pretese delle nuove insularità politiche statuali, dove i sovrani si proponevano sempre più come legislatori e tendevano a creare diritti nazionali da essi direttamente controllati11. Si ebbe, nel Settecento continentale europeo, un momento di grossa sintonia fra potere politico e gli homines novi della cultura politica e giuridica. E si ebbe, allo stesso tempo, un ingigantimento del ruolo del principe sul terreno specifico della produzione del diritto e una sua idealizzazione. Mentre le consuetudini non possono che restare sempre irretite nella più greve fattualità, mentre i giudici non possono che restare immersi nelle controversie particolari assegnate alle loro decisioni, mentre i maestri di diritto non riescono a sollevarsi di una spanna al di sopra di un sapere miseramente tecnico, il principe, idealizzato come modello di uomo e campione di virtù, non toc11 È il momento che abbiamo ritenuto di poter qualificare come «assolutismo giuridico» (cfr. P. Grossi, Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano 1998).

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cato dalle umane passioni, contemplatore oggettivo del bene comune e pertanto probabile realizzatore della pubblica felicità12, è l’unico personaggio cui poteva essere affidato un ruolo non soltanto di governo e di polizia ma altresì di legiferazione. Chi meglio di lui, che si collocava su un osservatorio tanto elevato, avrebbe potuto separare i principii naturali dalle creazioni artificiose, leggere la natura delle cose e tradurla in norme? Il vecchio monopolio della Chiesa romana, custode assoluta del diritto naturale, viene, nella secolarizzata civiltà settecentesca, depositato nelle mani del principe, con la conseguenza rilevantissima che il vero diritto – quello poggiante sulla lettura delle geometrie naturali della società – si immedesima nella volontà del principe espressa unicamente dalle sue leggi. Nella Francia pre-rivoluzionaria i fisiocrati, questi primi disegnatori di una analisi economica della società, parlano con tranquillità di «dispotismo legale»13, resi tranquilli dalla sicurezza che il principe legge l’evidenza e la traduce in norme generali. Nell’Italia di metà Settecento, due protagonisti dell’illuminismo peninsulare, Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) e Cesare Beccaria, assegnano senza esitazione al principe, in due libelli accanitamente polemici, una posizione decisamen12 Mai, come durante il Settecento, si è tanto parlato di «pubblica felicità» quale scopo e programma del Principe illuminato. Basti qui ricordare le classiche pagine di un illuminista italiano settecentesco, che menzioneremo più ampiamente poco sotto nel testo: L.A. Muratori, Della pubblica felicità oggetto de’ buoni Principi, a cura di C. Mozzarelli, Roma 1996. 13 Di «dispotismo legale» parlano soprattutto i fisiocrati. Nella loro ottica è necessaria la congiunzione fra lettura della natura e potere politico, giacché le leggi «ne doivent être que des résultats évidents de l’ordre mais scellés du sceau de l’autorité publique», come sostiene Mercier de la Rivière in un saggio dal titolo emblematico, L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques (vedi la citazione in P. Capitani, I fisiocrati e Mably tra dispotismo legale e governo misto, in Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico, a cura di D. Felice, Napoli 2001).

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te assolutistica. Muratori, nel suo libello Dei difetti della giurisprudenza (1742), è duramente esplicito: «il più giovevol partito sarà che i Principi mettano la falce alle radici, troncando per quanto mai possano le controversie ed inviolabilemente ordinando con leggi e statuti nuovi quello che in avvenire avrà da osservarsi nei tribunali della giustizia»; e la ragione è una sola: «allorché i Principi formano le leggi, d’ordinario non istà loro davanti agli occhi, se non la pubblica utilità»14, dove è lampante il processo di idealizzazione del principe che l’illuminismo giuridico continentale compie. Lampante anche in Beccaria, dove si ha una identificazione eloquente: «il sovrano, cioè il depositario della attuale volontà di tutti»15. Il problema grave è che, quando si parla di principe, non ci si riferisce a un principe universale (il sacro imperatore, esistente ancora per pochi anni, è soltanto una larva), bensì a una pluralità di sovrani, ciascuno dei quali ha al di sotto del suo potere una proiezione territoriale definita da frontiere frammentanti e separanti. Quale sbocco angusto per l’afflato universalistico che aveva validamente sorretto il giusnaturalismo! Più sopra abbiamo parlato degli sbocchi illuministici come di un tradimento del messaggio giusnaturalistico. Certamente, l’illuminismo continentale, coerente con le scelte di fondo di una civiltà secolarizzata, si era trovato nella necessità di individuare nel titolare del potere supremo il lettore del diritto naturale, ma, così facendo, aveva particolarizzato quel messaggio e lo aveva consegnato nelle mani dei singoli Stati. Questo passaggio dall’universalismo giusnaturalistico al particolarismo statalistico rappresenta l’antinomìa fondamentale che sta a base della Modernità politica e giuridica; e rappresenta altresì il più grosso contributo alla corroborazione dei poteri del singolo Stato, 14 L.A. Muratori, Dei difetti della giurisprudenza, cap. XX: Conclusioni dell’opera. 15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. IV: Interpretazione delle leggi.

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giacché veniva a fondarli anche sul piano etico in grazia della eticità insita nel contenuto del diritto naturale. Ovviamente, poiché giusnaturalismo e illuminismo giuridico sono anche delle strategie, si escogitò una sapiente propaganda per occultare la profonda contraddizione che lo storico non può invece mancare di rilevare; e tutto un edificio mitologico – fatto cioè di credenze indimostrate – fu eretto a sua difesa. A una parte dell’edificio abbiamo già accennato, e cioè alla idealizzazione del principe sino a farne quel modello affidante che sappiamo. Dobbiamo ora sostare sull’altra parte che era chiamata a integrare perfettamente la prima e a compierla, quella concernente la legge, ossia la fonte che manifesta la volontà del principe ed esprime il suo potere; che, in quanto tale, si proietta autoritariamente sulla comunità dei sudditi. Ma una abilissima propaganda entra in campo a tessere un sonoro elogio della legge. Questa, provenendo da un modello, da un personaggio simbolico, non ha nulla della odiosità che proverrebbe dal comando di un uomo in carne ed ossa e dal vincolo di dipendenza personale che provocherebbe. Essa è soltanto espressione della «ragione umana» (secondo l’indicazione di Montesquieu) o della «volontà generale» (secondo la connotazione fortunata di Rousseau). L’obbedienza che le si deve non lede la libertà del cittadino consistente unicamente nella sicurezza dalla violenza altrui, quella sicurezza che la sola legge può garantire con i suoi comandi generali, astratti e rigidi. E, proprio perché si tratta di comandi generali e astratti, servire la legge è esattamente l’opposto che servire un uomo. «La felicità pubblica e la benefica verità fanno desiderare che finalmente cessi il governo degli uomini e cominci il governo delle leggi e che la sacra facoltà di far leggi sia custodita gelosamente presso del trono e non altrove»16. È 16

La frase riportata è di Pietro Verri (1728-1797), protagonista vi-

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un messaggio che trova in Rousseau (1712-1778) la sua espressione più definita: si è liberi anche se sottomessi alle leggi, e non quando si obbedisce a un uomo; obbedendo alla legge non si obbedisce che alla volontà pubblica; è la legge che fa libero un popolo per questa sua qualità di esprimere la volontà generale17. Il corredo di credenze è sapientemente confezionato, ma è apodittica l’affermata coincidenza fra legge (che è volontà dell’investito del potere supremo) e volontà generale della nazione. Al di là dell’apparato mitologico la scelta è autoritaria e la china (che si sta percorrendo) scivola pericolosamente verso l’autoritarismo. È il messaggio, di sorprendente franchezza, che proviene dall’ultimo grande cantore dell’illuminismo continentale, il filosofo Immanuel Kant (1724-1804): nel 1784, nella Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo, egli sottolinea il vincolo coercitivo delle leggi e il dovere assoluto di obbedienza, ribadendo, nel 1797, nella Metafisica dei costumi, che contiene una sezione dedicata specificamente alla teoria del diritto, la inammissibilità di qualsiasi opposizione da parte del popolo al supremo legislatore dello Stato18. Dietro la foglia di fico della ‘ragione naturale’ e della ‘volontà generale’ sta la consegna nelle mani del potere politico della intiera produzione del diritto. Al vecchio caotico pluralismo giuridico si va sostituendo un rigidissimo monismo giurivace dell’illuminismo lombardo, nelle sue Memorie storiche sulla economia pubblica dello Stato di Milano, ora in Scrittori classici di economia politica, Parte moderna, t. XVII, Roma 1966 (rist. anast. Milano 1804), p. 170. 17 Sono insegnamenti ripetuti dal grande ginevrino; si veda a titolo esemplare: Du contrat social ou principes du droit politique (1762), in Oeuvres complètes, Paris 1971, vol. II, capp. VI e VII. 18 Di Kant cfr. Beantwortung der Frage: was ist Aufklärung? (trad. it., Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, in Antologia degli scritti politici, a cura di G. Sasso, Bologna 1977, p. 53). Cfr. anche Metaphysik der Sitten - Rechtslehre, § 49, in I. Kant, Werke, Berlin 1968, B. VI (trad. it. in Metafisica dei costumi, a cura di N. Merker, Roma-Bari 19996).

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dico: la dimensione giuridica è ormai vincolata all’apparato di potere dello Stato e tende a immedesimarsi in una dimensione legislativa. E comincia un lungo periodo non solo di legalismo ma di autentica legolatria: la legge come tale, come emanazione di una volontà sovrana, diviene oggetto di culto prescindendo dai suoi contenuti. Atteggiamento greve di rischi, che un’onda lunghissima porterà fino alle nostre spalle e di cui ci stiamo faticosamente liberando proprio in questi ultimi decennii. Dal Settecento illuminista in poi, sul continente europeo, si farà i conti unicamente con la volontà del legislatore, perché solo a lui spetterà la capacità di trasformare in giuridica una generica regola sociale. Una conclusione finale si deve trarre: la civiltà del liberalismo economico, nel suo tentativo di operare un completo controllo di quel prezioso cemento sociale che è il diritto, si è rivestita della corazza ferrea di un autentico assolutismo giuridico.

10. L’età dell’individualismo proprietario. Liberalismo economico e assolutismo giuridico Credo che possiamo essere più concisi nella trattazione di questo paragrafo, e non perché il tema sia di poco rilievo (è vero esattamente il contrario), ma semplicemente perché i suoi nodi problematici sono stati – sia pure sparsamente – già affrontati nei capitoli precedenti. Per comodità del lettore ci limitiamo a riassumerli qui unitariamente. Gli inizii della modernità coincidono con un assetto pre-capitalistico della antropologia e della organizzazione economiche; coincidono con l’ascesa del ceto borghese verso sempre maggiori conquiste, fino ad arrivare all’ultima – quella politica – con la Rivoluzione di fine Settecento. Come abbiamo già osservato, la dimensione

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economica acquisisce una rilevanza tutta nuova, e una sostanza tutta nuova viene conferita a quella proiezione esterna del soggetto che è il patrimonio; il quale non è più soltanto un’appendice significante ricchezza e benessere, ma qualcosa di più: in una civiltà come quella che stiamo cercando di caratterizzare, tanto più si è quanto più si ha, e la proprietà non riguarda più soltanto le cose ma si incunea all’interno dell’individuo fondendosi e confondendosi con la sua libertà; la property lockiana questo è e questo vuole essere. Ed è il proprietario al centro delle attenzioni, perché è lui il nerbo dell’ordine pubblico, il soggetto ‘virtuoso’ ma soprattutto quieto e disciplinato su cui potrà fondarsi la conservazione dell’assetto politico, che, dapprima in Inghilterra, poi, con la Rivoluzione, in Francia e in zone sempre più larghe dell’Europa continentale, si va progressivamente instaurando. E i nuovi movimenti non hanno esitazione nel mettere a punto la più formidabile strategia di difesa, consistente nel sorprendere la proprietà nello stesso paradiso terrestre dello stato di natura e nel constatare nell’uomo originario un proprietario e per giunta tutto occupato nell’adempimento del ben singolare ma sacro dovere (!) della auto-conservazione; e di sacertà viene ammantata la proprietà individuale. Tempo di effusioni amorose fra ceto borghese e cultura nuova, uniti nella alleanza contro i privilegii nobiliari e clericali e i rimasugli insensati di un anacronistico assetto feudale ancora protetti da decrepite forme di governo. Le nuove invenzioni giuridiche dell’astrattezza e della generalità sembrano fatte apposta per il borghese, ed è senz’altro a suo favore la tanto strombazzata uguaglianza giuridica che lascia intatte le diversità delle fortune. Ed è a tutto suo vantaggio l’idea – che si afferma pienamente in tutta l’Europa continentale – di uno Stato forte, unitario e compatto, con un pesante controllo della produzione del diritto.

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La borghesia, che punta alla conquista del potere politico, sa, con lucida lungimiranza, che solo un possente apparato pubblico le consentirà il terreno riservato di uno spazio economico interamente nelle sue mani e pienamente garantito. Lo Stato si addice alla borghesia. Liberalismo economico e assolutismo giuridico soltanto in apparenza sembrano due opposti; al contrario, come ci mostrerà (soprattutto sul continente) lo straordinario incremento nella matura modernità del potere legislativo e degli atti legislativi, nonché la non lontana vicenda della codificazione di tutto il diritto (cfr. infra, par. 15), ci sarà una simbiosi all’insegna di una vittoriosa alleanza.

11. L’età del costituzionalismo. Il costituzionalismo moderno tra mito e storia Nella nicchia della riflessione e delle costruzioni giusnaturalistiche ha la sua scaturigine e anche la sua consolidazione il costituzionalismo moderno: un freno all’arbitrio del potere, la protezione dell’individuo mediante il rafforzamento con situazioni soggettive non soffocabili. E ha sicuramente origine qui un itinerario in cui anche noi, protagonisti di una civiltà giuridica raffinata, ci gloriamo di situarci e in cui hanno preso forza, sempre più forza, quei diritti fondamentali che riteniamo tuttora un nostro inabdicabile patrimonio etico-politico: il diritto alla libertà religiosa, alla libera espressione del pensiero, alla libera circolazione, alla libertà di riunione, e così via. Ripetendo, però, una doverosa precisazione: accanto a diritti preziosi per l’integrità morale e intellettuale del soggetto emergeva, dalla esasperata configurazione individualistica e dalla fusione tra essere e avere, un contributo altrettanto prezioso per il proprietario. Il giusnaturalismo forniva una pietra angolare per l’edificazione dell’ordine borghese.

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Il costituzionalismo trova le sue prime espressioni e manifestazioni in alcuni rilevanti testi cartacei, che siamo soliti chiamare «carte dei diritti»; sintagma unitario, che esprime appropriatamente una ideale fondazione unitaria, ma che non deve tradire alcuni caratteri storici differenziati. Si suole vederne una prima testimonianza nel Bill of Rights inglese del 1689, appena un anno dopo la «gloriosa rivoluzione» e la cacciata degli Stuart. Il Bill non va troppo enfatizzato; è soltanto la fissazione di limiti precisi all’azione del potere regio e di alcune situazioni soggettive dei sudditi violate in un recente passato e che il nuovo monarca dovrà rispettare. È chiaro che si tratta di un documento che nasce al termine di una lotta politica e che rappresenta semplicemente una conquista storica faticosamente guadagnata. Se l’aspetto costituzionale non ha nel Bill se non un carattere assolutamente embrionale, quello, al contrario, è limpidamente e fortemente scoperto nei Bills e nelle Constitutions dei primi Stati nordamericani che si affrancano dalla madrepatria inglese (1776, 1777, 1780, 1784) e nelle Déclarations, nelle Constitutions e negli Actes constitutionnels del sessennio rivoluzionario francese. Anche se è doveroso puntualizzare le diversità dei due retroterra storici, da un lato, il rifiuto di obbedire ad atti del sovrano inglese ritenuti arbitrarii e dispotici, dall’altro, il rifiuto di un complessivo sistema socio-politicogiuridico strutturato in un assetto organizzativo socialmente cetuale e giuridicamente post-feudale, è palese che queste ‘Carte’ esprimono un medesimo clima storico. Quelle americane e francesi del maturo Settecento raccolgono appieno il messaggio giusnaturalistico: intendono essere lettura della natura delle cose, dei principii e delle leggi supreme in essa scritti, e intendono constatare e dichiarare situazioni giuridiche fondamentali godute dal soggetto nello stato di natura e che il po-

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tere non può che rispettare dopoché per motivi di opportunità si è, con libero consenso, scelto di formare una comunità politica. I favoleggiamenti giusnaturalistici divengono ormai il tessuto connettivo di testi programmatici dall’indole squisitamente etico-politica; vengono confermati l’orientamento individualistico e l’impostazione borghese già più sopra segnalati, riducendosi a un catalogo di diritti soggettivi fondamentali. Sarebbe ingiusto irridere verso quelle che sono autentiche conquiste della modernità: l’abbattimento dei vincoli di ceto, la riconosciuta pretesa del soggetto al sicuro esercizio di diritti costituenti l’espressione e il presidio della sua personalità sono un formidabile passo innanzi che deve essere sottolineato con forza. Doverosa constatazione, che non può impedirci di constatare, nello stesso tempo, l’insufficienza di siffatte dichiarazioni, ripetendo qui affermazioni già fatte nei paragrafi precedenti. Grava su di esse il peccato originale del giusnaturalismo, ossia il volersi fondare su una meta/storia, su uno stato di natura che è soltanto creazione intellettuale e pertanto supremo artificio. Uno stato di natura dove non circolano uomini in carne ed ossa ma modelli di uomo uguali e perfetti come le statue uscite da un medesimo stampo. Da qui, uno scenario irreale, che rifiuta la verifica con la concretezza spesso ripugnante ma corposa della storia, quella storia che forgia e deforma gli uomini ma che è ingenuo e, comunque, falsante rimuovere. È ovvio che da un simile presupposto venga fuori solo un catalogo, che è teoricamente suadente nel suo parlar sonoro di libertà, di uguaglianza, di diritti e – perché no? – di felicità (termine ingenuo che ricorre spesso nelle ‘carte’ settecentesche), ma che non può consolare il nullatenente del quarto stato, che non è neppure sfiorato, nella miseria della sua vita quotidiana, da uno scialo

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di decorazioni irrilevanti – se non schernitrici – per chi fa i conti con la fame. Dallo stato di natura discende una raffigurazione statica, come si conviene all’aria rarefatta della meta-storia; ma la vita – quella realmente vissuta – è consegnata tutta alla dinamica delle forze in lotta. Nel Bill della Virginia (1776) – che è il primo degli Stati nordamericani ad adottarlo –, dopo l’affermazione solenne di apertura che «tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi e indipendenti», ecco i diritti imprescindibili: «il godimento della vita, della libertà, mediante l’acquisto e il possesso della proprietà, e il perseguire e ottenere felicità e sicurezza». È un quadro di maniera quasi come quei dipinti in cui si disegnavano deliziosi paesaggi campestri con pastorelli ornati di candide parrucche al pari dei ricchi parigini; e che sia un quadro elitario lo dimostra il riaffermato legame tra libertà e proprietà, che farà suo anche la Déclaration francese del 1789, per restare poi immutato nelle varie ‘carte’ esprimenti i varii momenti del percorso rivoluzionario fino al 1795. Ed èccole lì, campeggianti l’una accanto all’altra, le situazioni ritenute fondamentali: uguaglianza, libertà, sicurezza, proprietà. Doveva fare un ben strano effetto per il proletario sentirsi trattare come un proprietario potenziale malgrado il suo stato di effettiva miseria! Insomma, il catalogo dei diritti galleggia ben al di sopra di una sgradevole (e pertanto rimossa) realtà sociale, anche perché accanto alla loro tonante declamazione, quasi non si accompagna quella elencazione dei doveri che avrebbe contribuito a immergere le situazioni soggettive previste dalle ‘carte’ ben all’interno della società. È, infatti, la corrispettiva situazione di dovere a relativizzare e socializzare quella di diritto. Soltanto nella Constitution della Repubblica francese del 22 agosto 1795, dopo una sezione dedicata ai diritti, ne segue una relativa ai doveri. Ma quale delusione a leggerla nella sua fret-

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tolosa brevità! Non vi si parla d’altro che di doveri morali come in un fervorino della peggiore paternalistica religiosa e – per giunta – in guisa genericissima. Fin qui il discorso sulle ‘carte dei diritti’, cioè sulle prime manifestazioni storiche del costituzionalismo moderno, un costituzionalismo senza costituzione, ci verrebbe voglia di dire. Frase, questa, sorprendente a una prima lettura e pertanto bisognosa di una spiegazione. Che senso ha parlare di un costituzionalismo moderno senza Costituzione, quando molti storici politologi giuristi parlano disinvoltamente di «costituzione degli antichi», di «costituzione medievale», di una «ancient Constitution» dell’Inghilterra prima del 1688, o di «una ancienne Constitution de la France» durante tutto l’Antico Regime pre-rivoluzionario? Intendiamoci bene. «Costituzione» è termine polisemico, e può essere assunto in un’accezione del tutto generica volendo unicamente individuare quel patrimonio di costumanze e consuetudini secolari che, inevitabilmente, una comunità politica dalla duratura vita storica nutre e consolida nel suo seno. Se, però, assumiamo quel termine, rigorosamente, senza indulgenze a genericismi, e ci riferiamo con esso a quel complesso organico di principii e regole fondamentali e supreme che un potere costituente desume dai valori portanti di un popolo in un determinato momento storico, identificando così la profonda e autentica cifra giuridica di quel popolo e traducendola in una scrittura complessa e dettagliata, di ‘Costituzione’ si potrà parlare in un momento assai avanzato, quando – durante il Novecento – i tratti genuini della modernità giuridica cedono a forze e a valori indicanti l’inoltro in un terreno che è supporto di un mutato paesaggio giuridico. Ma di ciò si parlerà diffusamente più avanti. In conclusione, le ‘carte dei diritti’ sono testimonianze di un clima ormai costituzionalistico, ma rappresen-

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tano ai nostri occhi semplicemente degli embrioni di costituzione, spezzoni di un edificio incompiuto.

12. Il regno di Francia nei secoli XVII e XVIII e la costruzione di un «droit français» Nelle pagine precedenti non abbiamo mancato di sottolineare l’attenzione dei sovrani francesi verso il diritto, la sua produzione e il suo controllo, con una crescita progressiva della normativa regia e con un re che veniva sempre più a identificare la propria sovranità in un potere legislativo. Ma non abbiamo anche mancato di sottolineare, nello stesso tempo, una marcata prudenza dell’azione legislativa monarchica, tenendo dietro alla consapevolezza – mai deposta per tutto l’Antico Regime – che il re non avrebbe mai potuto sovvertire quella piattaforma consuetudinaria plurisecolare che aveva lentamente assunto il carattere di ‘costituzione’ non scritta, di legge fondamentale non scritta del regno. Ancora alla fine del Cinquecento, come sappiamo, lo stesso teorico dell’assolutismo regio, Jean Bodin, non può fare a meno di constatare che, in Francia, sussistono due ordinamenti giuridici che disciplinano zone differenti, la loi, la legge, immedesimata nella volontà potestativa del re, e il droit, il diritto di origine consuetudinaria. Di più: ancora in pieno Seicento, Luigi XIV, considerato il campione dell’assolutismo, riteneva sensatamente di non poter condiscendere alla temeraria proposta del suo ministro Colbert per «l’unità della legislazione»; i tempi non gli sembravano maturi per operare il sovvertimento di una tradizione radicatissima. Allo scoppio della Rivoluzione il complesso paesaggio giuridico del regno non è, dunque, sostanzialmente mutato, anche se nel corso del Seicento e del Settecento, assistiamo a riusciti tentativi di riappropriazione di larghi

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spazii dell’ordine giuridico da parte della legislazione regia. Il più cospicuo è certamente quello compiuto da Luigi XIV e da Colbert, soprattutto con quattro incisivi interventi: la Ordonnance civile del 1667, la Ordonnance criminelle del 1670, la Ordonnance du commerce del 1673, la Ordonnance de la marine del 1681, un’attività normativa che, per ampiezza e organicità, non ha riscontri nelle altre monarchie, come provano, per esempio, le varie recopilaciónes che i sovrani spagnoli stimolano dal Cinquecento all’Ottocento19. Poiché le prime due Ordonnances vengono usualmente chiamate Code Louis e la terza Code Savary, e poiché quella qualificazione di code, codice, può essere produttiva di equivoci, conviene subito far chiarezza sulla corretta caratterizzazione storico-giuridica di queste fonti. Il termine codice, così come il termine costituzione, ha una pluralità di significati e, quindi, di usi assai differenziati. Sulla base del latino codex, che, all’origine, indica soltanto il sostrato materiale – di legno o di carta – in cui viene scritto un testo, è passato a indicare, nel linguaggio giuridico, una raccolta che organizza e sistema delle norme sparse, e si hanno codici nell’antichità – come quello teodosiano e giustinianeo –, e si hanno parecchi codes nella storia giuridica francese tra Cinquecento e Ottocento. 19 Per recopilación si intende la riunione e l’ordinamento di norme disperse, insomma un fenomeno di consolidazione, che avviene nei varii regni spagnoli per iniziativa ufficiale o dietro lo zelo di qualche giurista e che inizia già alla fine del secolo XV; le sue tappe principali sono la Nueva recopilación castigliana di Filippo II del 1567 e la Novísima recopilación di Carlo IV del 1805, quest’ultima consistente in una enorme collezione legislativa divisa in dodici libri e che non mancò di suscitare severe critiche in un momento storico già dominato in tutta Europa da una idea di Codice quale soluzione drasticamente innovativa sul piano della sistemazione delle fonti del diritto. Per capire il ritardo di questa consolidazione spagnola, basti constatare che, un anno prima, Napoleone promulgava in Francia il Code civil, fonte novissima, come il lettore vedrà nei paragrafi 15 e 16.

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Sia, tuttavia, avvertito il lettore che, quando lo storico del diritto parla di età dei Codici e di Codice, intende contrassegnare un momento della storia delle fonti giuridiche e una fonte caratterizzati da un’assoluta tipicità, e che non è culturalmente corretto confonderli con esperimenti solo formalmente chiamati ‘codici’, risalenti a epoche differenziate e incarnanti una generica attività di principi o anche di privati giuristi nell’attuare una generica organizzazione del materiale giuridico. Il ‘Codice’, di cui parla nel rigore del suo linguaggio tecnico il provveduto storico del diritto, presuppone la grande rivoluzione culturale del giusnaturalismo/illuminismo, presuppone un legislatore onnipotente e presuntuoso, un legislatore privo di remore che non tollera pluralismi giuridici all’interno del territorio sottoposto al suo potere politico e che pretende di disciplinare con sue leggi tutto l’ordine giuridico. Questo ‘Codice’ presuppone le mitologie legalistiche e legolatriche dell’illuminismo continentale, e solo così assume il carattere di categoria storica capace di fornire rigorosa tipicità a certi prodotti storici. Fare di ogni erba un fascio, mettere accanto il Codex dell’Imperatore Giustiniano al Code Louis (di cui ora si parla) o al Code Napoléon (di cui si parlerà fra breve), avrebbe il significato di affogare le tipicità storiche all’interno di un equivoco contenitore generico, facendo unicamente del nominalismo senza costrutto. Ciò non toglie che le Ordonnances di Luigi XIV abbiano un grosso rilievo storico-giuridico e meritino tutta la nostra attenzione. Nell’economia del presente volume guarderemo soprattutto alle prime tre, anche se la quarta – quella del 1681, dedicata a disciplinare la navigazione marittima – segnala una Francia che è ormai grande potenza coloniale al centro di traffici economici a proiezione mondiale. Le prime due, che concernono la riorganizzazione unitaria della procedura civile e della procedura penale,

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mirano a una riforma della giustizia con uno scopo politico-giuridico ben preciso: ridimensionare il ruolo dei Parlamenti, che, da organismi giudiziarii quali erano all’origine, avevano eroso lentamente la sovranità regia e si erano arrogati il rango di rappresentanti della nazione e di interpreti delle ‘leggi fondamentali’ del regno20; ribadire la soggezione di ogni giudice (e, quindi, anche dei Parlamenti) alla legge, previa la identificazione della legge nella sola volontà dell’unico sovrano; contribuire in modo determinante alla riduzione del diritto a un complesso di leggi. È da qui che scaturisce il loro notevolissimo rilievo storico-giuridico; infatti, anche se si limitano a disciplinare organicamente il materiale normativo del passato, anche se non hanno la pretesa di porsi come norme esclusive, sono un sicuro e decisivo passo innanzi nell’itinerario storico verso il Codice con l’attuazione del disciplinamento mediante leggi regie di larghe e vitali zone della esperienza giuridica quali il processo civile e quello penale. Una vittoria, insomma, del potere regio verso il raggiungimento di un agognato monismo giuridico. Di carattere assai diverso è l’importanza storico-giuridica della terza delle grandi Ordonnances luigiane, tutta tesa a un disciplinamento unitario nel delicato terreno del diritto commerciale, delicato perché erano in gioco gli interessi economici delle possenti corporazioni mercantili. Credo che si falserebbe l’operazione di Colbert, se la si riducesse a una semplice affermazione di potere nel pretendere di regolare una materia geneticamente e tradizionalmente affidata agli usi e alla pratica quotidiana dei mercanti. La complessità degli scopi dell’abilissimo ministro è, invece, svelata appieno se si pone attenzione 20 Non dimentichi il lettore che, se oggi il Parlamento è la istituzione che incarna il potere legislativo, in Francia, per tutto l’Antico Regime, i Parlamenti erano organismi aventi una prevalente funzione giudiziaria.

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a come il governo centrale ha voluto che fosse redatta la Ordonnance; la quale è frutto soprattutto di pratici e trova il proprio demiurgo in Jacques Savary, personaggio incolto ma che ha il pregio insostituibile di rappresentare la voce genuina e immediata del ceto mercantile: viene da una famiglia di mercanti, ha esercitato la mercatura prima di avere qualche funzione pubblica, è nulla più che un pratico espertissimo. E il prodotto normativo, abbastanza succinto nei suoi 122 articoli, assai modesto sotto il profilo della tecnica legislativa, esprime però assai bene le istanze della borghesia mercantile a vedere disciplinati i capisaldi giuridici della mercatura così come si erano venuti maturando – nella loro specialità – all’interno della prassi dei mercati medievali e post-medievali. Vi si tratta, infatti, dei soggetti (commercianti, apprendisti, mediatori), dei libri di commercio, delle società commerciali, dei titoli di credito, del fallimento, nonché di quella giurisdizione mercantile, giurisdizione specialissima, dove i mercanti avrebbero potuto trovare giudici non togati e una rassicurante valutazione equitativa. L’Ordonnance, più che il segno di una vittoria del potere regio, è la consolidazione di un’alleanza da tempo duratura. Non era forse stato il ceto mercantile a dare una forte mano alla monarchia nel rompere – contro i grandi feudatarii – i particolarismi locali e a procedere verso l’unità territoriale? Il re affermava con la Ordonnance la sua figura di legislatore e corroborava la sua immagine di sovrano, ma lasciava che i mercanti si disegnassero a loro piacimento (però, con la benedizione regia) i contenuti di un diritto speciale ben separato dal diritto civile generale e fondato su usi immemorabili. Rimaneva intoccato dalle Ordonnances luigiane il diritto dei rapporti privati fra privati cittadini, che continuava ad essere il regno delle coutumes e che tale resterà fino alla squassante ventata rivoluzionaria. Soltanto nel-

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la prima metà del Settecento, per opera del cancelliere D’Aguesseau, si avranno tre isolati (anche se importanti) interventi in tema di donazioni e di testamenti; ma faranno spicco in mezzo a un generale silenzio legislativo. Quel che si può dire a conclusione è che, grazie alla congiunta operosità dei giuristi eredi dell’umanesimo storicista e di un legislatore voglioso di affermazioni sovrane, si stanno tracciando in modo sempre più definito le linee di un diritto nazionale, di un autentico droit français.

13. Il regno d’Inghilterra: turbolenze e mutamenti costituzionali al di sopra della stabile continuità del «common law» Mentre la Francia, sul piano costituzionale, continua a sonnecchiare durante i primi secoli della modernità lasciando latente sotto le ceneri sempre più pesanti dell’Antico Regime il fuoco che scoppierà violento nel 1789, nella vicina Inghilterra si vive una lunga e tormentata vicenda costituzionale, che avrà un’influenza decisiva non solo sulla storia del costituzionalismo europeo, ma anche su tutto lo svolgersi del diritto inglese, anche del diritto riguardante la vita quotidiana dei cittadini. Operiamo subito alcuni chiarimenti per il lettore digiuno. È una vicenda all’insegna della discontinuità, con radicali mutamenti che frastagliano, se non rompono, la continuità della linea storica. Si passa cioè dalla monarchia limitata – così come appare dalla Magna charta estorta nel 1215 al re Giovanni Senza Terra – alla monarchia mista – dove protagonisti sono l’uno (il re), i pochi (i Lords), i molti (i Comuni), così come emerge durante il Seicento – alla monarchia parlamentare – così come si consolida nel Settecento –, nella quale il Governo dipen-

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de dal controllo politico del Parlamento e la sua direzione è affidata alla persona capace di ottenere la fiducia della Camera dei Comuni, con le nuove figure giuridiche del Gabinetto e del Premier. Certamente, un filo di continuità lo si può senza dubbio rilevare, ed è nella limitatezza del potere regio, che riesce a imporsi pienamente soltanto nel momento aureo dei Tudor (con Enrico VIII e con Elisabetta), ma si tratta di un filo generico frammentato dalle novità imposte da una storia politico-costituzionale tormentatissima a causa della perenne rissa tra monarca e Parlamento. A una di queste novità, la prevalente, non si può fare a meno di accennare, e riguarda le due trasformazioni che fanno del Parlamento, in Inghilterra, una realtà politica e giuridica radicalmente nuova: da organo dalla esistenza occasionale e comunque temporanea a organo permanente; da organo giudiziario a organo legislativo. Al di sotto di questo strato superiore che si identifica nell’apparato di potere del regno e che vive una lotta dura per la supremazia, sta lo strato più riposto (ma che interessa maggiormente lo storico del diritto) della vita del common law; la quale fa spicco esattamente per una sua stabile continuità, dove – se qualcosa relativamente muta – è solo la sempre maggiore radicazione nella società e la crescita di prestigio. Infatti, è unicamente con Enrico VIII – il sovrano che si fabbrica una riforma religiosa anche per agevolare le sue mire assolutistiche – che si ha un tentativo di esautoramento in favore di quel civil law portatore, nelle sue remote fondazioni romane, di un’immagine di principe sciolto (absolutus) da vincoli e limiti. A Enrico dava fastidio la grossa circostanza che si era verificata in età medievale e che aveva dato una carica tutta particolare al common law: il suo affrancamento dalla potestà regia – dal cui ventre, come sappiamo, proveniva – e il suo lento ma incessante trasformarsi in una sorta di consuetudine generale del regno, quasi un deposito del-

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le antiche costumanze storicamente sedimentate e delle antiche libertà conquistate, e, proprio in questa veste, deposito anche di una concreta razionalità basata sulla lettura oggettiva di un mondo di usi immemorabili. A parte l’accenno al momento dei Tudor, vorrei però chiarire meglio al lettore il rapporto tra common law e legislazione, tenuto in debito conto che con il Bill of Rights del 1689 ha la sua consacrazione il principio che titolare del potere legislativo è «The King in Parliament», ossia una entità complessa formata dalla Camera dei Comuni, dalla Camera dei Lords e dal re. Su un piano formale non si può non registrare il primato della legge. Aggiungendo però subito che gli interventi del legislatore sono sporadici, slegati, addirittura timidi, almeno fino al secolo XIX e si inseriscono naturalmente in un universo giuridico, già perfettamente formato nella sua imponenza, che è il common law, un universo dove tutto è previsto e disciplinato nella plurisecolare sedimentazione della tradizione. Gli atti legislativi presuppongono l’esistenza del common law, proponendosi come integrativi o modificativi, ma sempre in stretta dialettica con esso, costituendo con esso un grande e plurale sistema giuridico. Credo che non sia scorretta (e sia, anzi, illuminante) l’analogia con quanto avviene durante il Medioevo sul continente, nel rapporto tra ius commune e legge di un principe o di una città libera: ciò che conta per il tessuto giuridico ordinante la società non è lo Statuto del Comune o la legge isolata del principe, ma lo ius commune, che è un tessuto ampio e organico in continua evoluzione grazie ai continui ripensamenti della scienza giuridica e alla continua esperienza dei casi giurisprudenziali. Per la società inglese il tessuto ordinante lo costruisce, giorno dopo giorno, caso dopo caso, duttilmente, un ceto giudiziale fortificato da una robustissima tradizione, e il titolare del potere legislativo, lungi dallo scendere in

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campo per contrastare e affermare un predominio, si tiene appartato, intimidito – come si diceva più sopra – da una piattaforma giuridica che si fonde con la storia stessa di un popolo e che ha contribuito a dargli tipicità. Questa piattaforma giuridica ha una persistente continuità, che lo scorrere del tempo, anziché scalfire, incrementa di rispettabilità e di forza sociale, imponendo un indiscusso primato sostanziale della giurisprudenza quale fonte di diritto. Ci limitiamo a segnare qui alcune tappe di questa crescita nella continuità: il grosso contributo offerto da un altissimo magistrato, Sir Edward Coke (1552-1634), che, grazie alla sua competenza della storia giuridica medievale inglese e alla conoscenza minuta degli «Year Books» medievali (sorta di resoconti giudiziali informali), arriva a sostenere la sovranità delle corti di common law; la inamovibilità e quindi l’indipendenza del potere giudiziario conquistate dopo la «gloriosa rivoluzione» con l’Act of Settlement del 1701; la lievitazione – per così dire – della figura del giurista avvenuta in pieno Settecento grazie all’opera dottrinale di un altro altissimo magistrato, Lord William Mansfield (1705-1793), al cui ripensamento (poi, universalmente recepito) si deve il disegno di un nuovo ruolo per il common lawyer, non più semplice tecnico immerso in forme e procedure, ma scienziato sociale portatore di una sua politica del diritto. Questo sguardo sommario all’isola giuridica inglese deve essere completato con una rapida integrazione relativa a un’altra giurisdizione, quella di equità, che, a partire dal Quattrocento, si affianca a quella di common law. Avviene cioè che un numero sempre maggiore di contendenti, delusi dalla lentezza, dalle complicazioni procedurali, dai formalismi delle corti di common law, si rivolge al cancelliere del re, il quale è normalmente un ecclesiastico e decide il caso secondo la mentalità e i principii del diritto canonico, ossia con attenzione alle cir-

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costanze particolari al fine di giungere a una giustizia sostanziale, usando la più rapida procedura romano-canonica aliena da eccessivi formalismi. Quello che era, all’inizio, nulla più che il ricorso di sparsi litiganti insoddisfatti dà però vita a una giurisdizione concorrente dominata dal canone dell’equità, tipica valvola di sicurezza del diritto canonico. Un’aggiunta di non poco interesse: con Enrico VIII e con il suo acre distacco dalla Chiesa di Roma, non fu più un ecclesiastico a fungere da cancelliere regio, mentre il diritto canonico veniva cancellato quale fonte di diritto e oggetto di insegnamento nelle università. La mentalità equitativa, peculiare a quel diritto dall’impronta necessariamente pastorale, resterà però quale lievito della Cancelleria e fungerà ancora da cifra tipica delle decisioni grazie all’opera di cancellieri laici, grandi giuristi e grandi uomini di cultura.

14. Il messaggio giuridico della rivoluzione francese Fino a qui, abbiamo spesso fatto riferimento alla rivoluzione francese, chiamandola talora senza aggettivazione e quasi per antonomasia la ‘Rivoluzione’, talora aggiungendo la qualifica di ‘grande’, sottolineando sempre l’enormità di un evento che incide a fondo non solo sulla storia politica e giuridica della nazione francese ma sulla stessa storia politica e giuridica della intiera Europa continentale. La Rivoluzione è infatti una falce che taglia alle radici la vecchia organizzazione della società francese, attuando compiutamente quel risultato che Luigi XIV – cento anni prima – aveva ritenuto temerario rifiutandosi di accogliere il progetto del suo ministro Colbert. Così operando, la Rivoluzione veniva a costituire anche un modello per futuri esperimenti costituzionali. Anche se l’uso di quel sostantivo al singolare – Rivo-

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luzione – rischia di appiattire un sessennio rivoluzionario (1789-1795) scandito in momenti segnati da idealità e ideologie sensibilmente diverse (per esempio, un primo momento teso a valorizzare i diritti fondamentali dell’individuo nella società e un momento giacobino teso a inchiodare la società entro un apparato statuale custode della ortodossia politica e pertanto rigidissimo controllore), in questa sede, a noi interessano i segni di rottura con il passato che il movimento comporta, i segni profondi della falce che tagliano irreversibilmente la storia giuridica moderna dell’Europa continentale. Il primo (e basilare) di questi segni, politico e giuridico insieme, è la riduzione drastica della nazione francese da entità complessa – società di società, comunità statuale frammentata in tante formazioni comunitarie particolari – a struttura semplice e compatta, pertanto rigorosamente unitaria, inscindibilmente unitaria. Per lo storico del diritto sono rilevanti soprattutto gli strumenti grazie ai quali essa viene attuata, fra i quali spicca la falce della uguaglianza. Soggetti e beni sono sottoposti a una operazione di assoluta semplicizzazione: esiste (fatti, ovviamente, salvi i personaggi legittimamente investiti di pubblici poteri) un solo soggetto giuridicamente uguale a tutti gli altri, tutti insieme formanti la universalità dei cittadini; esiste (fatti, ovviamente, salvi i beni di rilevanza pubblica) un solo oggetto di diritti, perfettamente uguale ad ogni altro oggetto, ed esiste un solo potere privato su di esso, la proprietà individuale assoluta ed esclusiva. Si cancellavano d’un solo colpo stratificazioni e differenziazioni secolari e si realizzava un paesaggio giuridico radicalmente nuovo, contrassegnato dai due caratteri che capovolgevano l’assetto dell’Antico Regime: compattezza e semplicità. Soffermiamoci un momento sul risultato che qui maggiormente ci interessa: la uguaglianza giuridica dei sog-

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getti, un popolo composto di soggetti perfettamente uguali sul piano del diritto come le statue uscite da un medesimo stampo, un popolo composto di soggetti individui, diversificati unicamente per il fatto di essere uomini e donne, ma pensati e risolti come soggetti solitarii all’interno dell’unica macro-comunità nazionale e sciolti dalle micro-comunità (religiose, sociali, professionali) dell’Antico Regime ormai definitivamente tutte soppresse. La legge – cosiddetta Le Chapelier, dal nome del suo proponente –, promulgata nel giugno del 1791 ma consolidativa di un indirizzo ben fermo fin dagli esordii rivoluzionarii, conclamava lo anéantissement, l’annichilimento, l’assoluta cancellazione di ogni assetto corporativo21. Un popolo, insomma, che si identificava nella nazione, un popolo senza vólto perché non lo avevano i suoi innumerevoli e innominati componenti, che, chiamato soltanto alla funzione passiva di eleggere dei rappresentanti, era condannato a identificarsi in essi, gli unici che avevano un vólto definito, gli unici che erano portatori di una volontà concreta. La strettissima uguaglianza giuridica provocava, infatti, una inevitabile massificazione, rendeva la massa una sorta di piattaforma passiva ed esaltava figura e ruolo dei rappresentanti. Si deve segnalare e sottolineare con forza il sovvertimento che la riduzione all’uguaglianza causava nella nozione di rappresentanza politica: la quale non è più, come nell’Antico Regime, autentica rappresentanza di una volontà già formata in seno alle singole corporazioni, ai singoli ‘stati’, e di cui il rappresentante si faceva semplice e innocuo latore; essa è piuttosto una delega a esprimere una volontà che la massa popolare 21 La legge Le Chapelier, 14-17 giugno 1791, recita: «L’anéantissement de toutes les espèces de corporations des citoyens du même état et profession, étant une des bases fondamentales de la constitution française, il est défendu de les rétablir de fait, sous quelque prétexte et quelque forme que ce soit».

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non è in grado di elaborare e non è nemmeno chiamata ad elaborare. La rigida uguaglianza deformava la rappresentanza politica a tutto vantaggio del cosiddetto rappresentante, appiattiva la funzione elettorale, faceva giganteggiare il corpo degli eletti, dava vita a un centralismo politico-giuridico provocando una articolazione elitaria nella configurazione del nuovo Stato. La strutturazione formalmente democratica poteva facilmente degenerare in un sostanziale dispotismo; e ciò avvenne nel momento giacobino, anche se tutto formalmente si proponeva come un «dispotismo della libertà», secondo l’espressione di uno dei giacobini più intransigenti ma anche più lucidi e intelligenti, Maximilien Robespierre (1758-1794). Giova ricordare l’accorata finissima riflessione che su uguaglianza giuridica e rappresentanza politica faceva, in quell’anno cruciale del periodo rivoluzionario che fu il 1793, uno dei protagonisti dell’illuminismo francese, Jacques Necker (1732-1804), lo sfortunato ministro di Luigi XVI, autore di progetti di riforma mai attuati; l’identificazione che tanto si strombazzava tra popolo e assemblea dei rappresentanti gli appariva come un artificio e quindi come una turlupinatura, anche se i poveri elettori erano invitati ad avere fiducia nei loro eletti. Si giocava – aggiungeva Necker – sulla parola «rappresentante», giacché «questa parola dà l’idea di un altro se-stesso», idea assolutamente fallace22. Anche se il processo sin qui accennato subirà una esasperazione nel momento giacobino, si deve però riconoscere che la sua formidabile novità è al centro del messaggio giuridico della intiera Rivoluzione. Un messaggio – se ne sarà già accorto il nostro lettore – che è cancellazione di realtà decrepite, posizione di principii infor22

Il testo di Necker è leggibile in Réflexions philosophiques sur l’égalité, in Id., Oeuvres complètes, t. X, Paris 1820-21, p. 435.

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matori completamente nuovi, ma che riveste anche il ruolo di una abilissima strategia. Se ci è consentita l’espressione, la superficie del regno (poi, repubblica) di Francia è resa assolutamente liscia, dove il potere politico può proiettarsi senza trovare ingombri: non ci sono formazioni sociali che possono attenuare la compattezza se non la famiglia naturale, e non ci devono nemmeno essere dei particolarismi giuridici che possono frammentare l’unità. In altre parole, perfetta unità della nazione e perfetta unità del diritto. Su questo punto, che soprattutto ci preme, restano nelle segrete dell’Antico Regime quelle ormai inammissibili divisioni fra droit coutumier e droit écrit, ma è improponibile anche un diritto che possa provenire da fonti diverse dal corpo rappresentativo collocato al centro dello Stato. Il nuovo diritto sarà ormai fatto di ‘principii’, ossia di grandi orientamenti pensati ed espressi dalla entità sovrana, principii che, a livello di fonti giuridiche, si manifesteranno come ‘leggi’, ossia come voci autorevoli di quella entità; non saranno consentite consuetudini, incontrollabili perché provenienti dal basso e dal particolare, né avranno più alcun ruolo i giuristi (maestri e giudici), già usciti malridotti dalla sfiducia illuministica, perché parimente incontrollabili. La Rivoluzione, in questo decisamente unitaria dal 1789 al 1795, è la completa riduzione del droit a un complesso di lois, per continuare ad usare il contrappunto di cui, ancora a fine Cinquecento, Bodin si serviva per segnalare una forte diversificazione. Ora, l’itinerario è concluso, ora trova compimento l’auspicio (e anche le realizzazioni) di tanti monarchi e cancellieri della storia francese. La legge è l’unica fonte del diritto, perché è anche l’unica fonte che, in grazia della sua astrattezza generalità rigidità, può garantire l’unità giuridica dello Stato francese. Ovviamente, si provvede ad apprestarle tut-

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to un supporto protettivo, che degenera sùbito in un efficace apparato mitologico. Sì, mitologico, perché oggetto di credenza e non di conoscenza critica, perché fondato su assiomi, ossia su verità indimostrate e indimostrabili. E la Rivoluzione, figlia ed erede dell’illuminismo giuridico, proclama, a cominciare dalla Déclaration del 1789 (art. 6) per finire alla Constitution del 1795 (art. 6), che «la legge è l’espressione della volontà generale», che «la conservazione della libertà dipende dalla sottomissione alla legge» (Déclaration des droits de l’homme del 29 maggio 1793, art. 8), che la legge «non può ordinare che ciò che è giusto e utile alla società» (Acte constitutionnel del 24 giugno 1793, art. 4). Prende avvìo il legalismo; di più: il dispotismo legale, perché servire il precetto generale e astratto della legge è cosa buona e commendevole né lede la dignità del cittadino come il servire un altro uomo. Di più: prende avvìo la legolatria – che dominerà in tutta Europa fino a ieri –, giacché la legge, circondata da una impenetrabile corazza mitologica, non sarà meritevole di rispetto per i suoi contenuti di giustizia ma perché è legge, è cioè un atto che proviene dal titolare del potere supremo. Le fondazioni giusnaturalistiche restano sempre più remote, mentre è preponderante sempre più quello statalismo che l’illuminismo giuridico aveva legittimato con la sua idealizzazione e gigantizzazione della figura del principe. Il messaggio universalistico della Rivoluzione tende a ridursi a messaggio fondativo di una immagine di Stato quale creatura politicamente e giuridicamente robusta. Al cuore del legalismo rivoluzionario c’è un impegno deciso, con il quale si chiude la Constitution française del 3 settembre 1791 e che è opportuno rimarcare: «Sarà fatto un Codice di leggi civili comuni a tutto il Regno» (II - Disposizioni fondamentali, ultimo capoverso). Il costituente rivoluzionario non parla in termini generici; al

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contrario, intende proporsi un impegno specifico: dovrà essere disciplinato legislativamente proprio quel diritto civile che le Ordonnances regie avevano lasciato pressoché intatto nell’involucro secolare delle consuetudini. E sarà il segno della novità; tutto, proprio tutto l’ordine giuridico dovrà trasformarsi in ordine legale. La Rivoluzione, che è borghese, che è cioè fatta dal terzo ‘stato’, dal ceto borghese, intende occuparsi direttamente di ciò che le sta particolarmente a cuore, di proprietà e di contratti, disegnando una disciplina coerente con i proprii interessi. Finalmente, dopo la regolamentazione del commercio avvenuta nel 1673, si avviava ora il progetto di regolamentare il nucleo del diritto autenticamente privato.

15. L’età del Codice La Rivoluzione, dunque, fin dai suoi primi passi (le prime proposte risalgono al 1790) mira a un Codice, vuole un Codice; anzi, esige la codificazione del diritto fino ad allora non disciplinato legislativamente, il diritto civile. La Rivoluzione esprime fedelmente l’età del Codice, di cui è – al tempo stesso – figlia e madre. Che si intende dire? E, soprattutto, perché quel singolare ‘Codice’ che spicca nella intitolazione del paragrafo e che è ripetuto in queste righe? Il singolare è voluto, e serve a discriminare profondamente il ‘Codice’ di cui qui si parla dai molti ‘Codici’ di cui è fertile l’antichità e la prima età moderna, giacché, come sappiamo, vediamo spesso usato il sostantivo latino codex o il francese code – tanto per fare degli esempii – al fine di contrassegnare raccolte e sistemazioni di materiale normativo fatte su iniziativa di privati giuristi o di monarchi, dovunque si ha una utile messa in ordine, quasi sempre anche una selezione e una riduzione a miglio-

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re organicità di disposizioni sparse accumulatesi disordinatamente nel corso del tempo. Per queste raccolte e sistemazioni, al fine di evitare equivoci, si è proposto, da parte di uno storico italiano del diritto, di chiamarle consolidazioni, per separarle nettamente dalle codificazioni e per consentire una più puntuale messa a fuoco storicogiuridica di quel progetto post-illuministico tutto nuovo che è il Codice. La qualificazione nominale, come già abbiamo avvertito, non deve, dunque, trarci in errore. Altra cosa è il Codice che si staglia come fonte novissima di diritto tra fine Settecento e primi Ottocento e che dominerà tutto il secolo XIX e buona parte del XX: questo è una idea, un programma politico-giuridico; è il progetto di soluzione radicale del problema delle fonti del diritto, che l’illuminismo giuridico ha limpidamente disegnato, che taluni sovrani sensibili al nuovo verbo han fatto proprio senza però poterlo realizzare, che la falce rivoluzionaria – proprio perché falce d’un intiero passato – ha potuto finalmente cominciare a realizzare, che Napoleone – in questo, erede del messaggio rivoluzionario – attuerà con una capillare compiuta opera codificatoria. Il ‘Codice’, di cui qui si parla, presuppone due rivoluzioni, quella culturale del giusnaturalismo/illuminismo e quella fattuale del sessennio 1789-1795, e segnala due novità essenziali: un nuovo modo di intendere il rapporto fra potere politico e diritto, e, conseguentemente, un nuovo modo di concepire e concretizzare la produzione del diritto. Questa, per tutto il corso del Medioevo, ma perdurando sostanzialmente per tutto l’Antico Regime, aveva tre precisi caratteri: era alluvionale, ossia le fonti tendevano a stratificarsi accumulandosi le une sopra le altre e provocando confusione e incertezza; era pluralistica, ossia proveniva da fonti diverse, anche se la modernità aveva mostrato un principe legislatore sempre più ingom-

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brante; era estra-statuale, malgrado il crescere degli ingombri legislativi (e il diritto civile di impronta consuetudinaria lo stava a dimostrare). In fondo, al di sotto di tutto questo stava una percezione viva della storicità del diritto, del suo vincolo alla società in perenne sviluppo piuttosto che all’apparato irrigidente dello Stato. Dopo, però, che la revisione giusnaturalistico/illuminista, tutta presa dalla ritrovata capacità di leggere le geometrie perfette della natura delle cose, ha ingenerato orrore per la vecchia alluvionalità identificando nella storicità soprattutto una complessità disordinata e confusa; dopo che il grande programma innovatore è consistito nella riscoperta dello stato di natura e dell’uomo genuino così com’era prima che la storia ne alterasse e deformasse la statura; dopo che al principe legislatore e alla sua manifestazione suprema – la legge – era stato dato con fiducia il potere di ridurre in geometrie legali, chiare e certe, il passato caos giuridico; dopo tutto questo, il risultato non poteva che essere uno: la completa statualità del diritto, il potere politico supremo quale unica fonte del diritto, un rigoroso monismo giuridico che si sostituiva al vecchio pluralismo. Insomma, quello che abbiamo chiamato più sopra un vincolante assolutismo giuridico. Di esso espressione fedele e tipicissima è il Codice di cui qui si parla. Si tratta – ripetiamolo perché il lettore lo tenga ben presente – di un modo tutto nuovo di concepire ed effettuare la produzione del diritto. Tre tensioni essenziali lo fondano e lo modellano: a essere fonte unitaria, specchio e cemento della unità compatta dello Stato; a essere fonte il più possibile completa, per garantire la auspicata unità; ad essere fonte esclusiva, sempre nel miraggio di conseguire il medesimo fine. Non si dimentichi mai di cogliere il Codice quale frutto estremo del generale atteggiamento di mistica legislativa (mito e culto della legge), di inserirlo nella impo-

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stazione ormai monistica che individua la legge al di sopra di ogni altra fonte di diritto, al vertice di una rigidissima scala gerarchica. Né si dimentichi mai l’orditura di un Codice: mira a realizzare la riduzione dell’intiera esperienza in un sistema articolatissimo e minuziosissimo di regole scritte, contemplando tutti gli istituti possibili, cominciando spesso col darne una definizione e disciplinando con studiata precisione tutte le prevedibili applicazioni. Le matrici giusnaturalistiche imprimono una radicale novità anche ai contenuti del Codice: dietro il generale indirizzo che vede nella storicità un ammasso di scorie fattuali soffocanti la genuina naturalità, soggetti e rapporti sono astratti. Con il risultato di fare del Codice una realtà virtuale popolata – al pari dello stato di natura su cui pretende esemplarsi – di modelli di uomo più che di uomini in carne ed ossa; con il risultato di proiettare il Codice, con le sue forme purissime, ben al di là del momento storico che pure lo ha generato, in un orizzonte perpetuo senza tempo. Una precisazione chiarificatrice: alcuni storici del diritto, che individuano nel Codice l’ultimo anello di una lunga catena anziché – come noi – il primo anello di una catena nuova, e legano il Codice tardo-settecentesco ai tanti esperimenti di un passato prossimo e remoto tési a organizzare e sistemare le fonti del diritto, fanno anche leva sulla presenza – per esempio, all’interno degli articoli del Code Napoléon del 1804 – di non poche tracce di istituti ben presenti nella vita giuridica dell’Antico Regime. Ciò non è smentibile, e lo darei per scontato, perché è nozione di comune buonsenso (più che di corretta metodologia) che sul piano della storia nulla nasce dal nulla e che non è pensabile una recisione totale del cordone ombelicale che lega presente e passato. A ciò si deve aggiungere che i redattori componenti le commissioni napoleoniche (continuiamo con il nostro esempio) so-

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no personaggi nati ed educati sotto l’Antico Regime e necessariamente portatori almeno a livello del subconscio di qualche passata invenzione. Ma non si deve cadere nel tranello di guardare a certe tessere particolari che suonano stonatura nel mosaico complessivo del Codice. L’essenziale è la generale psicologia presuntuosa di rifiuto del passato, la scelta radicale fatta a livello di produzione giuridica, la svolta che imprime al sistema delle fonti un vólto assolutamente nuovo. Aggiungendo che, anche a livello di contenuti, l’innovazione balza agli occhi in tutta evidenza: non esistono né ceti né associazioni né fondazioni, ma solo un individuo che è il soggetto agente nello stato di natura, soggetto unitario, né nobile né plebeo, né contadino né mercante, né povero né ricco (i poveri non esistono più in questo beato mondo di modelli!). E nuovi di zecca – ma lo vedremo meglio tra breve – sono gli strumenti messi a sua disposizione, proprietà e contratto, una proprietà che ha ritrovato la sua perfetta unitarietà e un contratto che esprime ormai solo il libero consenso di liberi operatori. A conclusione di tutto il nostro discorso, è Napoleone che appare quale primo compiuto codificatore, fatto salvo – forse – un esperimento austriaco dell’imperatore Giuseppe II, del 1787, ma ristretto al solo campo penale, ossia a un terreno pubblicistico vincolatissimo all’esercizio della sovranità. Affermazione netta che potrebbe suscitare qualche obbiezione da parte di un lettore più sapiente degli altri. Questo lettore, infatti, potrebbe smentirmi invocando un grosso prodotto legislativo riguardante il regno di Prussia, pubblicato nel 1794, lo Allgemeines Landrecht für die Preussischen Staaten, il «Diritto territoriale per gli Stati prussiani» (comunemente identificato con la sigla ALR). Tocqueville, l’acuto intellettuale francese universalmente conosciuto, fu assai sprezzante in proposito, affer-

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mando che «sotto quella testa tutta moderna, vediamo prender forma un corpo tutto gotico»23. Non aveva torto. Quel prodotto legislativo era nato sotto l’impulso del re illuminista Federico II, ma aveva subìto in una gestazione durata più di cinquanta anni attacchi e resistenze soprattutto dai ceti conservatori del regno, snaturandosi via via fino ad arrivare al seguente disarmante risultato: un enorme, elefantiaco ammasso di norme, che tradivano gli ideali illuministici della semplicità e della chiarezza; per di più, con al centro la permanenza immobile del ‘ceto’ (Stand) quale protagonista sociale, ulteriore tradimento dell’individualismo illuministico. Ma il motivo determinante, che impedisce di poter vedere nel ‘Landrecht’ un Codice, è che esso non solo non è norma esclusiva, lasciando in vigore i diritti locali e cancellando unicamente il vecchio diritto comune sapienziale, ma addirittura si pone rispetto a quelli quale norma meramente sussidiaria.

16. In particolare: della codificazione francese, ai primi del secolo XIX Il secolo XIX si presenta agli occhi dello storico del diritto come l’età del Codice nella sua pienezza di manifestazione e maturità di espressione; è, infatti, un secolo che comincia con due grandi codificazioni, la francese e l’austriaca (1804 e 1811), mentre un’altra, e parimente di grosso rilievo, quella germanica, ne suggella gli ultimi anni con la propria promulgazione e la differita entrata in vigore (1896-1900). E una fioritura di Codici ne costella il corso. Tutti, Codici nel più rigoroso significato 23 A. de Tocqueville, L’ancien régime et la révolution (trad. it., L’antico regime e la rivoluzione, a cura di G. Candeloro, Milano 1989), l. II, cap. I, nota «Codice del grande Federico».

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storico-giuridico da noi assegnato a questo vocabolo ambivalente. Anche se il fenomeno codificatorio coinvolge pressoché tutte le branche del diritto, ci interessano in questa sede soprattutto gli esperimenti concernenti il diritto civile, e ciò per due fondamentali motivi: perché, nell’ottica di questo volume, avendo privilegiato un’analisi del diritto come mentalità circolante, sono soprattutto i rapporti privati fra privati a rivelarcela, senza dubbio assai più delle regole collegate ai palazzi alti del potere; perché, nella civiltà borghese, un ruolo di modello e di guida di tutto l’ordine giuridico è riposto per l’appunto nei Codici civili, dove sta – in assenza di costituzioni scritte – il vero assetto costituzionale di quell’ordine. Una prima dimostrazione è data da una circostanza di non poco rilievo: sia il Codice francese, sia quello austriaco, di cui ora ci accingiamo a parlare, si aprono con alcune disposizioni relative alle leggi in generale (sei articoli nel francese, quattordici paragrafi nell’austriaco), segno del particolare significato che i due legislatori hanno attribuito alle nuove sistemazioni civilistiche. Ma un’altra circostanza accomunante vogliamo sottolineare prima di passare a un esame rivolto a esaltare le singole tipicità: sia l’uno che l’altro Codice, malgrado la loro nascita remota, sono tuttora vigenti nella Repubblica francese e nella Repubblica federale austriaca, ovviamente rinnovati in parecchie loro parti per renderli adeguati ai tempi. È un dato che non abbisogna di commenti. Il Codice civile francese, promulgato nel 1804 e universalmente conosciuto come Code Napoléon, non ha nulla a che spartire con le consolidazioni legislative precedenti perché è il figlio legittimo dell’illuminismo giuridico e della Rivoluzione: costituisce una fonte novissima, cioè un modo nuovo di produzione del diritto; non intende perfezionare l’assetto giuridico del passato anche prossimo, ma produrre una norma di nuovo conio

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proiettata verso il futuro, magari nell’eternità; come tale, non è un complesso di regole vecchie rimesse a nuovo, selezionate e sistemate, bensì una totalità organica fortemente pensata, sorretta da un progetto unitario ed organico, nonché da rigorose linee-guida, intimamente coerente, munito di una sua struttura logica. Insomma, è la legge chiara, semplice, astratta prefigurata dal riduzionismo illuministico, dove campeggiano finalmente due nozioni assolutamente unitarie di soggetto e di bene, rese unitarie dalla falce dell’uguaglianza che ha fatto tabula rasa della precedente complessità sociale ed economica. Vivono ora nel Codice Napoleone il soggetto e i beni dello stato di natura, liberati da ogni sovrastruttura storica, riscoperti nella loro pretesa originarietà primitiva. Per quanto riguarda più da vicino il soggetto, la doverosa uguaglianza non tollera né le diversificazioni che potrebbero derivare dall’appartenenza a una fede religiosa (in una visione – per la prima volta – assolutamente laica), né quelle provocate dall’inserimento in una delle vecchie imperversanti società intermedie (tutte cancellate dalla falce rivoluzionaria). Protagonisti sono ormai gli individui astratti nella loro nudità sociale. Napoleone, che non è il vedovo inconsolabile della Rivoluzione e che non è animato dal sincero émpito di rigenerazione del popolo così assillante nel momento giacobino, conserva però e intensifica l’idea rivoluzionaria (ma – prima ancora – illuministica) del diritto come imprescindibile controllo del sociale e cemento necessario del potere. La codificazione si addice al suo potere dispotico, ed egli – il condottiero, il futuro imperatore – vi si impegna in prima persona. Intuisce la enorme rilevanza di un disciplinamento legislativo del diritto privato e comincia l’opera sua di legislatore partendo dal terreno – fino a pochi anni prima proibito – del diritto civile, partecipando assiduamente alle sedute della com-

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missione redazionale e imponendo non di rado la propria volontà. Si arrivò a un risultato straordinario: nella trama organica scandita in 2281 articoli, tutti i rapporti pensabili fra privati erano irretiti in una disciplina minuziosa fatta di principii, definizioni, previsioni, comandi, sanzioni. Anche se fra i giuristi redattori (fra i quali è doveroso ricordare almeno Jean-Étienne-Marie Portalis) v’era consapevolezza che un’assoluta completezza era un miraggio irraggiungibile, tuttavia l’impegno e lo sforzo fu di costruire un sistema normativo il più possibile completo; e tutto il diritto civile ipotizzabile si trovò rinchiuso entro le mura compatte del Codice. Una compattezza rinsaldata dalla totale devitalizzazione di consuetudini, giurisprudenza pratica, scienza giuridica ormai espunte dal novero delle fonti e dalla riduzione delle fonti del diritto alla sola manifestazione della volontà del legislatore. E l’articolo 4, che ritiene un illecito grave il rifiuto di giudicare da parte di un giudice «sotto pretesto di silenzio, oscurità o difetto della legge», anche se nel corso dei lavori preparatorii è potuto sembrare a qualche redattore uno strumento per valorizzare il ruolo del giudice, è divenuto nel contesto finale del Codice un elemento di chiusura, con il giudice prigioniero entro la gabbia di una legalità rigidissima. L’assolutismo giuridico trionfava con il Codice civile e nel Codice civile; vi si compieva in tutta la sua massima intensità. Novissimo anche l’impianto dei contenuti sostanziali, malgrado le tracce, che è facile rilevare, di fibre del passato all’interno del nuovo tessuto (ma è l’impianto che conta). Diviso in tre libri – il primo dedicato alle persone, il secondo alla proprietà, il terzo agli strumenti che consentono la circolazione della proprietà – il Codice civile appare limpidamente trovare nell’istituto della proprietà privata individuale la sua colonna portante, anche

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perché le persone di cui si occupa il primo libro sono considerate dall’osservatorio prevalente della loro proiezione a livello di patrimonio, e perché gli istituti di cui si occupa il libro terzo (contratti, obbligazioni, successioni per causa di morte, donazioni) sono tutti intesi come mezzi circolatorii dei beni. La proprietà non è più il fascio di poteri sulla cosa secondo la visione dei medievali trascinatasi fino alla Rivoluzione; è la proprietà unitaria strettamente collegata alla libertà del soggetto individuo, e, quindi, ombra una e indivisibile del soggetto sulla cosa; pertanto, potere assoluto, perpetuo, esclusivo. Se mai, si può rilevare ancora qualche venatura di passato che permane, decisamente stonata all’interno della nuova sistemazione: come nella intitolazione del libro secondo Dei beni e delle differenti modificazioni della proprietà, dove i diritti reali limitati sono considerati appunto delle «modificazioni» e dove sembra riaffiorare un concetto di proprietà come realtà complessa e composita; lo stesso nell’articolo 544, che tenta una definizione, e dove c’è una evidente contraddizione tra l’affermazione del potere assoluto del proprietario e l’indicazione del «godere» e «disporre» quale suo contenuto. Assai significativa è anche la disciplina contrattuale: si contemplano, ovviamente, i varii contratti che hanno finalità specifiche nella vita quotidiana e nella pratica degli affari (vendita, permuta, locazione, mutuo, e via dicendo), ma prima di essi e al di sopra di essi sta il contratto, ossia l’espressione di un libero consenso, che, proprio perché espressione della libertà dell’individuo, è di per sé meritevole di tutela e produttivo di conseguenze giuridicamente rilevanti. L’autonomia privata ha un suo larghissimo spazio, dove, entro certi confini disegnati dal legislatore, può creare figure a suo piacimento per propria utilità. Negli articoli dal 1101 al 1167 si fissa all’interno del Code una sorta di teoria generale del contratto, dove si parla del consenso, della capacità dei contraenti,

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dell’oggetto, della causa, ossia dei requisiti previsti non per questo o quel contratto specifico, ma per ogni incontro libero delle volontà di due o più persone che regolamentano la propria vita. Il contratto, che l’articolo 1134 qualifica – assai significativamente per una cultura tanto intensamente legalista – come legge tra le parti contraenti, è il regno della libertà del cittadino francese, ma particolarmente dell’uomo d’affari. La solida alleanza tra potere politico e potere economico (che aveva avuto un’eloquente manifestazione nella Ordonnance del 1673) viene qui – e, di lì a qualche anno, nel Codice di commercio del 1807 – pienamente confermata.

17. E della codificazione austriaca Se il Code Napoléon può facilmente conseguire organicità e coerenza perché il suo edificio viene innalzato immediatamente dopo che gli anni della eversione rivoluzionaria hanno raso al suolo le vecchie ingombranti costruzioni, lo stesso non si può dire per l’altro grande Codice con cui si inaugura il secolo, il «Codice civile generale», lo Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (abitualmente identificato nella sigla ABGB), che nel 1811 promulga per i suoi Stati ereditarii tedeschi (con l’estensione al vicereame lombardo-veneto a far data dal 1° gennaio 1816) Francesco I, ultimo cesare del Sacro Romano Impero e primo imperatore d’Austria. A Vienna, al contrario di Parigi, persiste un pesante segno di contraddizione fra un apparato centrale di governo, in cui circolano ancora gli stimoli illuministici dei settecenteschi sovrani riformatori, e una struttura socio-economica di impronta cetuale e feudale. Qui passato e presente convivono antinomicamente, e il nuovo Codice ne è la figura fedelmente speculare.

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Non v’è dubbio che lo ABGB sia un Codice, e ciò a causa delle scelte essenziali che lo contraddistinguono: è, infatti, testimonianza di quel modo nuovo di concepire la produzione del diritto nel quale si incarna un Codice; ed è, sotto questo profilo, fonte novissima, esclusiva, che afferma il proprio monopolio normativo abolendo il diritto comune e cancellando l’autonomia di consuetudini e statuti locali (§§ 10 e 11). Ed è fonte novissima anche perché assume a suo protagonista il soggetto unitario di diritto naturale con tutto il suo patrimonio inabdicabile di diritti innati (§ 16). Il Codice è, infatti, pervaso dalla visione individualistica del diritto propria della filosofia di Immanuel Kant, filosofia di cui si fa portatore all’interno della commissione redazionale un alto funzionario e magistrato, Franz von Zeiller (1751-1828), il giurista che maggiormente contribuisce a definire il vólto di questa operazione legislativa. La quale ha connotati suoi proprii anche sotto il profilo della tecnica legislativa adottata. La certezza e la chiarezza, finalità ben presenti al legislatore austriaco, vengono ottenute usando un linguaggio discorsivo piano e semplice alieno da eccessivi tecnicismi, riducendo la puntigliosità nel disciplinare le minuzzaglie e facendo del Codice una esposizione organica di principii; con il risultato di proporsi, con i suoi 1502 paragrafi, quale complesso normativo assai più sobrio di quello francese. Essenziale è la sua architettura: dopo una breve introduzione, si divide in tre parti, la prima dedicata al «diritto delle persone», la seconda ai «diritti sulle cose», la terza alle «disposizioni comuni ai diritti delle persone e ai diritti sulle cose». All’interno dell’introduzione fa spicco il § 7, che affronta direttamente la croce di ogni codificatore, e cioè il problema delle eventuali lacune nel sistema conchiuso del Codice, con una soluzione ardita che dà respiro all’aria stagnante dei paragrafi codificati: se non basteran-

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no le interpretazioni letterale e logica, se non basterà nemmeno il ricorso «ai casi consimili precisamente dalle leggi decisi ed ai motivi di altre leggi analoghe, rimanendo nondimeno dubbioso il caso, dovrà decidersi secondo i principj del diritto naturale, avuto riguardo alle circostanze raccolte con diligenza e maturamente ponderate». Espressioni che mostrano bene quanto premessero sulle coscienze dei codificatori le due grandi forze protagoniste della precedente vicenda storico-giuridica austriaca: il giusnaturalismo, che aveva avuto durante il Settecento, alla corte di Vienna, sovrani e ministri quali accaniti paladini; il diritto comune, che non aveva subìto in terra d’Austria le mortificazioni del suolo francese e che aveva ora la vitalità di inserire un proprio messaggio nella trama del Codice con quel riferimento specifico alle circostanze particolari che solo un giudice/applicatore poteva raccogliere e valutare. Ma è sul piano dei contenuti che risalta la intima incoerenza fra una intelaiatura di novissimo conio e il decrepito tessuto socio-economico ancora vigoreggiante per inerzia nell’Impero. Nessun ostracismo sulle società intermedie, contemplate espressamente nel § 26. In tema di contratti si può rilevare una contraddizione fra la teoria generale del contratto disegnata nei §§ 859 e seguenti, avvalorante la forza creativa del libero consenso, e una disciplina del contratto di compravendita ancora riflettente lo schema del diritto romano e del diritto comune, dove il semplice consenso non è ritenuto capace di operare il passaggio di un bene da un patrimonio all’altro e si continua a individuare nella consegna (traditio) il momento effettivamente traslativo (§ 1053). È, però, sul piano dei diritti reali che il vecchiume persiste imperterrito, smentendo e tradendo il limpido impianto giusnaturalistico. La proprietà non è affatto la nuova proprietà unitaria; ideario e vocabolario sono an-

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cora quelli dei glossatori e commentatori continuando a cogliere la proprietà come una realtà composita, un fascio di poteri, e a parlare tranquillamente di dominio diretto e di dominio utile. E altrettanto tranquillamente lo ABGB dà ospitalità a istituti che, osteggiati culturalmente dall’illuminismo giuridico, erano stati condannati senza appello dalla ventata rivoluzionaria quali relitti del passato e pertanto inaccettabili in una società dalle fondamenta nuove: il contratto di enfiteusi, perché, elevando la posizione giuridica del concessionario (enfiteuta) a dominio utile, frammentava la proprietà; la locazione ereditaria, perché impediva la libera circolazione dei beni; il fedecommesso, perché, consistendo, talora in un vincolo per l’erede di conservare e trasmettere l’eredità a una terza persona, talora in un vincolo di inalienabilità, ledeva la sua libertà e limitava la stessa circolazione del patrimonio ereditario. I paragrafi 618 e seguenti, 1122, 1124 danno piena cittadinanza a questi vecchi istituti così congeniali all’assetto socio-economico medievale e post-medievale. Qui non si tratta di fibre poco visibili che scompaiono nell’ampiezza del tessuto, spesso dovute – come per alcuni redattori del Code Napoléon – alla loro educazione giuridica sotto l’Antico Regime e quindi a un affioramento pressoché inconscio che solo il provveduto storico del diritto è in grado di rilevare. Qui si tratta di una visione globale dell’appartenenza proprietaria che fa a pugni con la nuova visione del soggetto di diritto, o di trapianti di intieri istituti che costituiscono dei corpi estranei nella architettura del Codice. Un Codice, insomma, che ci rivela di possedere due anime. Si deve proprio a questa ambivalenza se, diversamente dalla codificazione napoleonica, quella austriaca avrà una limitata influenza sullo sviluppo legislativo dell’Ottocento.

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18. Legge, scienza giuridica, prassi giuridica nell’Europa dei Codici Alla borghesia ottocentesca il Codice apparve come una grande conquista giuridica, quasi una tappa ultima dell’umano progresso. Vi trovavano incarnazione compiuta tutti gli ideali illuministici: era una legge generale (e pertanto ugualitaria), semplice, chiara, certa; il magma giuridico vi era ridotto a sistema coerente ed armonico realizzando le aspirazioni settecentesche per un ordine di stampo geometrico. Il diritto era fissato nella sua totalità all’interno di un testo, che il cittadino era in grado di possedere leggere comprendere; era tutto legalizzato, e cioè controllato dal potere politico ormai stabilmente in mano al ceto borghese, il quale poteva rinvenirvi con soddisfazione il frutto delle sue abilissime strategie. Il Codice era il cardine dell’ordine giuridico borghese, era la sua rassicurante Costituzione scritta, immune dalle pericolose devianze di incontrollabili affioramenti consuetudinarii, di fantasie di bizzarri scienziati, di giudici scalmanati. Era, insomma, la pietra angolare del nuovo edificio giuridico, destinata a durare, meritevole di durare, meritevole della più ampia diffusione. E per tutto il secolo circola una vera smania codificatoria. In Francia, il primo decennio è interamente dedicato a una codificazione completa. Dopo il primo e più cospicuo frutto, il Code Napoléon, ecco susseguirsi i Codici di procedura civile, di commercio, di procedura penale, penale. E si offrirà in tal modo un modello da seguire, un modello seguìto perché privo di ambiguità, lineare e coerente, pertanto facilmente proponibile ai diversi ambienti europei ispirati al medesimo clima borghese. Un modello che s’impone in parecchi degli staterelli preunitarii italiani dell’età della Restaurazione malgrado che la maggioranza di essi si ispirasse politicamente a Vienna; ed è napoleonico il modello del Co-

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dice civile dei Paesi Bassi del 1838, di quello portoghese del 1867, di quello spagnolo del 1889. Si impone sulla prima codificazione unitaria del regno d’Italia del 1865, dove molti articoli sono la semplice traduzione di articoli dei Codici francesi. Nel Codice civile italiano è tuttavia doveroso rilevare tracce non indifferenti di autonomia: per esempio, nelle Disposizioni preliminari al Codice Civile, dove – nell’articolo 3 riguardante il problema delle lacune – si ipotizza come estremo rimedio il ricorso ai «principii generali del diritto», con formulazione generica che può schiudere al giudice anche uno sguardo oltre il sistema legislativo positivo; per esempio, nell’articolo 2 del libro primo, dove si fa riferimento ai «corpi morali», ossia alle persone giuridiche, esiliate completamente dal Code Napoléon e qui nuovamente contemplate, anche se – con diffidenza – inserite all’interno del diritto pubblico. A proposito del sopramenzionato Codice spagnolo del 1889 è, però, necessaria una precisazione in ragione dell’assoluta peculiarità della storia giuridica spagnola. La Spagna, infatti, che consegue la sua unità politica già nel secolo XV, mantiene intatta fino al secolo XIX una situazione di ‘localismo giuridico’. Il problema della codificazione civile, che comincia ad agitarsi già con il regno di Giuseppe Bonaparte, si mescola (e si complica) con quella che viene chiamata la «cuestión civil foral», cioè con l’esigenza di rispettare i varii diritti civili ‘forales’. Foral è aggettivo che deriva dal sostantivo fuero, un sostantivo che domina la storia giuridica spagnola fin dal primo Medioevo e con il quale si indica una tradizione giuridica locale di origine consuetudinaria che assurge – nel corso del tempo – a segno della peculiarità storica di un certo ‘paese’. Ancora nell’Ottocento si stagliano forti cinque tradizioni giuridiche riguardanti i ‘paesi’ di Castiglia, Aragona, Catalogna, Navarra e Vizcaya, alle quali possono aggiungersi i localismi indubbii della Galizia e delle Isole Baleari. La «cuestión civil foral» è il grosso

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problema, dalla difficile soluzione, emergente nella redazione dei molti progetti codificatorii che si susseguono per tutto il secolo. Il risultato è che il Codice civile finalmente promulgato nel 1889, pur ispirandosi nella sua ossatura al Code Napoléon e al Codice italiano del 1865, si pone come diritto comune del regno ma con carattere suppletorio rispetto ai «derechos civiles forales», dei quali è prevista (art. 12, §. 2) una redazione in «apendices» (da intendersi in senso restrittivo per non vanificare la codificazione tanto faticosamente raggiunta). Se si continua a codificare per tutto il secolo, è perché politici e giuristi sono persuasi di aver trovato nel Codice il rimedio a tutti i mali che avevano – in passato – infestato il diritto. Persuasione che si legava strettamente alla certezza di avere edificato una società stabile fondata su valori durevoli perché condivisi. E il Codice, come breviario di quei valori, ben poteva essere redatto nella fissità di norme generali vocate all’eternità; invece che sulle pagine di un libro, avrebbe potuto essere scolpito su tavole di pietra. Ottimismo ingenuo, che non faceva i conti con due fattori erodenti: lo sviluppo economico e tecnico e il mutamento sociale, con l’affacciarsi del quarto stato al palcoscenico della storia. Nei primi anni del secolo, immediatamente dopo il sovvertimento rivoluzionario, il Codice civile rappresentò la soddisfazione delle secolari aspirazioni della borghesia alla proprietà della terra; la terra era stata liberata dal soffocamento di vincoli cetuali e oneri reali, e ora poteva finalmente essere disciplinata la sua libera appropriazione. Con un preciso risultato sul piano economico: il modello di proprietà adottato nel Codice era quello del fondo rustico o, tutt’al più, della cosa immobile. Ma nei decennii dopo la codificazione, l’economia francese, felicemente sposandosi a un progresso tecnico notevolissimo, si fa più dinamica, assumendo una precisa dimensione industriale e facendo di essa il proprio pernio pre-

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valente. E un nuovo tipo di ricchezza comincia a dominare i traffici economici relegando a un ruolo inferiore la rendita fondiaria. Già negli anni Trenta un intellettuale italiano versatissimo nella scienza giuridica così come in quella economica, Pellegrino Rossi, contemplatore lucido degli spostamenti in atto, ne trasse delle desolanti conclusioni in un suo clamoroso discorso all’Accademia di Scienze morali di Parigi, rimarcando l’arretratezza della coscienza economica dei codificatori napoleonici e la inadeguatezza del Codice a corrispondere alle nuove e novissime esigenze. Il libro scritto sulla pietra era superato da un divenire rapidissimo24. Si aggiunga l’altro fattore, e anche più erosivo. Se il Codice aveva fondato il suo ordine sociale accontentando la massa di diseredati con la minestra di lenticchie della uguaglianza giuridica, ma conservando intatta la disuguaglianza di fatto, tutto poteva procedere tranquillamente fino a quando nella complessità sociale il quarto stato non avesse acquisito una coscienza di classe e non avesse iniziato a protestare e a fermentare. Nel momento in cui lo Stato borghese, rigidamente censitario e monoclasse, avesse cominciato a subire gli attacchi consistenti in rivendicazioni e scioperi, se non in autentiche rivolte piazzaiole, il Codice avrebbe rivelato la sua impotenza, una impotenza causata dal suo impianto giusnaturalistico, dalla sua generalità e astrattezza. La meta-storia della mitologia giusnaturalistica era costretta ad arrendersi alla fattualità greve e impietosa della carnale storia quotidiana. È così che, soprattutto nella seconda metà del secolo, le virtù taumaturgiche del Codice patiscono un offuscamento, e accanto alla augusta legge/madre cominciano ad aggiungersi atti di legislazione speciale, che non 24 Il titolo della celebre conferenza di Pellegrino Rossi è: Observations sur le droit civil français dans ses rapports avec l’état économique de la société, in Mélanges d’économie politique, d’histoire et de philosophie, t. II, Paris 1867.

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smentiscono il Codice ma lo ìntegrano con provvedimenti specifici tési a prendere atto – sia pure di malavoglia – delle profonde modificazioni sociali, economiche, tecniche. Si cerca, però, di legiferare solo quando lo impone l’urgenza e di ridurre al minimo le leggi speciali; le quali devono semplicemente far corona, come si esprimono alcuni civilisti italiani, alla stella fissa del Codice civile, cardine e sostegno di tutto l’ordinamento giuridico dello Stato. Una conclusione: l’Ottocento è l’età del Codice, del Codice civile, ma con il trascorrere del tempo la manifestazione della legalità si fa più complessa con l’apparizione di una pluralità di leggi speciali estorte al legislatore borghese dai nuovi bisogni giuridici. Una domanda, a questo punto, urge, ed è implicita nel titolo di questo paragrafo: qual è lo spazio dei giuristi, teorici e pratici, in mezzo al generale parossismo legalistico che domina il continente europeo e le colonie (o ex-colonie) delle grandi potenze continentali? La risposta appare scontata: se si somma tutta la sfiducia accumulata nelle velenose polemiche degli illuministi al clima di stretta legalità instaurato dalla Rivoluzione e al monopolio legale realizzato da Napoleone con la codificazione, lo spazio non può che essere minimo. E, da tempo, quando si vuole puntualizzare l’identità del giurista operante dopo i Codici, si suole utilizzare un termine assai espressivo: esegesi. Esegesi è vocabolo che viene da lontano, dagli studii sulle Sacre Scritture, nei quali si richiede allo studioso un atteggiamento doverosamente passivo di fronte a un testo ritenuto di provenienza divina e una attività puramente esplicativa della volontà in quello contenuta. Il trapianto del vocabolo dal sacro al profano ha il significato di esaltare la volontà del legislatore e ridurre la operosità intellettuale dell’interprete (scienziato o giudice) alla pura conoscenza, a un esercizio di logica, magari combinando frammenti sparsi entro il sistema legale positi-

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vo, ma con la consegna imperiosa di non varcare i confini del diritto legale. C’è, fra i civilisti e gli storici del diritto, chi ha tentato recentemente una rivalutazione della ricca letteratura – fatta spesso di amplissimi commentarii – che fiorisce soprattutto in Francia, in Belgio, in Italia. È, a nostro avviso, una battaglia perduta. È chiaro che non si tratta di un gregge di pecore e che la letteratura esegetica, nei suoi esponenti più vivi, offre pagine pregevoli per intelligenza testuale, chiarezza, rigore logico, ma è altrettanto chiaro che essa è intrisa del clima legolatrico e che soffre di una psicologia servile che la colloca costantemente all’ombra incombente della legge. I giuristi, pur essendo le prime vittime del parossismo legalistico perché espropriati del ruolo loro consueto di fonti di diritto, sono convintamente orgogliosi di proporsi come servi legum, dominati dalla maestà indiscutibile di quel prodotto supremo del progresso umano che è il Codice. Questo stato d’animo rinunciatario è dimostrato dal non-ruolo della scienza giuridica di fronte al crescere di esigenze ed urgenze nuove, dalla sua incapacità a sollevarsi di una spanna al di sopra del sistema testuale per affrontare quanto bolle nella società e per tentarne un ordinamento. Primazia del testo; il testo innanzi tutto: questa rimane la loro divisa tipizzante. È contro una siffatta passività che si leveranno – a fine Ottocento – le voci robuste e coraggiose di Saleilles, di Gény e di parecchi altri, nella sentita necessità di operare breccie nelle muraglie ormai soffocanti del Codice. Un discorso diverso va fatto per la giurisprudenza pratica, che è sulla trincea dell’applicazione e che non può eludere il contatto con l’incandescenza dei fatti sociali economici tecnici. Nel contrasto fra legge vecchia e fatti nuovi i giudici più sensibili ritroveranno un loro ruolo mediativo e si comporteranno in modo non dissimile dagli interpreti medievali con gli antichi testi romani. Ma di ciò si parlerà in seguito.

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19. Legge, scienza giuridica, prassi giuridica nell’area germanica durante la prima età moderna Dell’area germanica abbiamo finora parlato pochissimo: nella parte dedicata al Medioevo per constatarvi l’assoluto predominio di fonti consuetudinarie, nella parte dedicata all’età moderna (a parte l’accenno alla protesta luterana) per rilevare l’emersione al suo interno – durante il Settecento – del forte apparato statuale prussiano. Tutto sommato, si trattava di una scelta imposta dal carattere di questo libro rivolto a disegnare il divenire essenziale del diritto nel pianeta Europa, anche se ci si rendeva perfettamente conto di trascurare una doverosa attenzione, nel Cinquecento, al vivace umanesimo giuridico nelle città germaniche gravitanti sull’alto Reno e, nel Settecento, ai preziosi contributi della filosofia giuridica germanica alla rivoluzione culturale illuministica. Il cammino distratto deve tuttavia trasformarsi in una sosta più distesa e in un’analisi scrupolosa, quando abbiamo ormai di fronte a noi l’Europa ottocentesca, dove l’area germanica assume il ruolo di pernio rilevantissimo che sarebbe storicamente esiziale dimenticare. Ma non si capirebbe molto del complesso e originalissimo vólto giuridico di questa matura modernità, se non si tentasse di seguire a ritroso un itinerario, che è il solo a poter sciogliere ai nostri occhi i molti nodi di un divenire storicogiuridico tanto peculiare quanto complicato. Il che non è male, giacché ci consente di colmare in qualche modo la ora segnalata lacuna. Forse, del lungo itinerario si sacrificherà la oggettiva complessità, ma è questo il costo che siamo consapevoli di pagare per fornire al lettore novizio una linea essenziale di svolgimento. Nell’età medievale fino al secolo XIII l’area germanica si caratterizza, a livello politico, per un frammentatissimo assetto di tipo feudale, a livello giuridico, per il predominio – come si diceva più sopra – di risalenti regole

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consuetudinarie che, nella loro grossolana immediatezza, rispecchiavano coerentemente la coscienza collettiva locale. Appartato rispetto alla grande riflessione scientifica che aveva già cominciato a svilupparsi nelle plaghe mediterranee, questo ricco ma grezzo materiale consuetudinario trovava i suoi interpreti efficaci in giudici privi di qualsiasi capacità teorizzatrice perché privi di una dimensione culturale, però esperti nella prassi tradizionale e muniti di grosso prestigio sociale grazie alla costante appartenenza al ceto nobiliare. Un sistema giuridico indubbiamente rudimentale ma che poteva anche essere appagante in una società interamente agraria abbastanza fissa in una sua staticità. Quando, però, nel tardo Medioevo, la società semplice acquisisce una sua dinamicità e complessità differenziandosi sia sul piano sociale sia sul piano economico, consuetudini e giudici pratici non bastano più; prende l’avvìo un processo storico, che segna il futuro della esperienza giuridica in terra di Germania e che viene sommariamente identificato con il termine Rezeption, «recezione». Termine tradizionale, ma che può risultare falsante se con esso si volesse intendere l’accettazione e l’inserimento di un corpo estraneo nell’organismo vivente germanico. Cerchiamo di chiarirne il significato storico sostanziale, riducendo al massimo il suo complicato svolgimento che gli storici tedeschi del diritto sogliono seguire in varie fasi, ciascuna delle quali segnata da elementi di tipicità. Che sta, dunque, succedendo nella storia giuridica germanica dal Duecento al Cinquecento? Avviene che la società subisce profonde mutazioni soprattutto di indole economica, che sta divenendo più complessa e che ha l’esigenza forte di una intelaiatura razionale, che abbisogna di schemi teorici generali, di categorie ordinanti; abbisogna di una cultura giuridica portatrice di una grammatica fatta di principii e di concetti, idonea a sistemare

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l’incandescenza della realtà fattuale. Quella che viene usualmente chiamata recezione è, in realtà, la risposta alla domanda che i cambiati modi di convivenza della società tedesca ormai pretendono. C’è, insomma, una sete di scienza giuridica e di scientifizzazione del diritto, che prima non era avvertita e che ora appare impellente, e c’è ovviamente una osmosi di uomini e di idee che non può provenire se non dal meridione europeo con tutta la ricchezza di elaborazioni teoriche messe a punto sulla base del Corpus iuris giustinianeo da uno stuolo di glossatori e di commentatori. Bisogni nuovi, ingresso di uomini nuovi e di un patrimonio culturale nuovo. Il diritto comune, diritto eminentemente scientifico, opera dei maestri che insegnano nelle già nate e già prestigiose università italiane francesi spagnole, è l’ordito di quell’ordine nuovo di cui il diritto tedesco ha urgente necessità. È una penetrazione che trova, dapprima, nella Chiesa lo strumento più efficace grazie soprattutto alla sua organizzazione giudiziaria, alla sua opera di formazione di un ceto di giuristi; ma ben presto si trasformerà in un flusso che fa della Germania tardo-medievale un autentico crocevia: studenti tedeschi che affollano le università italiane (particolarmente Bologna e Padova) per poi riportare in patria il nuovo verbo scientifico, mentre le università fondate in area germanica nel corso del secolo XIV, e dove si insegna – dapprima – il diritto canonico e – poi – il diritto comune, cominciano a contribuire sostanziosamente alla formazione di una comunità di giuristi profondamente nuovi per educazione e per sapere specifico. Questa pacifica conquista non portò soltanto personaggi culturalmente e tecnicamente nuovi a ricoprire cattedre universitarie, ma penetrò nella stessa corte imperiale, nelle amministrazioni cittadine, in ogni strato della burocrazia e della amministrazione giudiziaria, e fu conquista – di fatto – di un ruolo decisivo, e ci fu – sem-

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pre, di fatto – una decisiva trasformazione del diritto tedesco, reso più disponibile, grazie agli strumenti concettuali e tecnici provenienti dal sud, a ordinare convenientemente il mutamento socio-economico. Fino a quando, nella Dieta di Worms del 1495, assemblea solenne di nobili e prelati, dietro impulso degli stessi principi territoriali, si ottenne dall’imperatore Massimiliano una ordinanza con la quale veniva a rifondarsi il supremo organismo giudiziario dell’Impero con la creazione di una Corte suprema, il Reichskammergericht, sottratta all’influenza personale dell’imperatore. Ha grosso rilievo per la storia giuridica germanica la circostanza che questo altissimo fastigio giudiziale, sedente nella città libera di Frankfurt am Main, era composto di sedici assessori di cui otto dovevano essere competenti nel diritto comune ed era chiamato a decidere secondo il diritto comune quale vero sistema normativo comune a tutto l’Impero, e secondo i diritti territoriali unicamente se invocati dalle parti in causa. Lo ius commune, ossia il diritto romano-canonico riplasmato dalla interpretazione della scienza giuridica medievale, rappresentava la riaffermata unità giuridica di un Sacro Impero politicamente frammentatissimo e pertanto condannato politicamente alla impotenza. Tutto questo processo trasformativo – la cosiddetta Rezeption, se vogliamo usare un termine tradizionale – segnò profondamente la storia giuridica dell’area germanica nella prima età moderna: mentre in Francia l’unità politica del regno conduceva lentamente ma progressivamente al protagonismo della volontà sovrana e a un diritto di impronta sempre più legislativa, in Germania protagonisti continuarono ad essere i giuristi, teorici e pratici, maestri universitarii e giudici. Anzi, dal Cinquecento all’Ottocento, ci è dato di osservare una comunità di tecnici che, lungi dal voler edificare pinnacoli teorici senza rispondenza con i bisogni

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della pratica quotidiana, si immedesimò nel suo ruolo autenticamente ordinativo, tentò di interpretare la coscienza giuridica tedesca, dette vita a un diritto di indole sempre più casistica (cioè basato sull’analisi di casi concreti), valorizzando anche i diritti locali e quelle consuetudini indigene che la recezione aveva lasciato qua e là sopravvivere. Dal Cinquecento all’Ottocento abbiamo in Germania quella fioritura giuridica, che siamo soliti chiamare usus modernus Pandectarum, una rivisitazione moderna del vecchio Corpus iuris giustinianeo così come era stato interpretato dai maestri medievali. Talora si parla di mores hodierni, di nova practica, odierne costumanze, nuova prassi, sintagmi che sottolineano uno stesso carattere: è una scienza ben immersa nella prassi giuridica quotidiana, tanto immersa da impastarsi – in nome delle sue finalità eminentemente pratiche – con le costumanze giuridiche locali e con gli stili giudiziarii locali. Se il diritto comune medievale era consistito in un nuovo vólto per il vecchio diritto romano accomodato alle nuove esigenze, la stessa disinvoltura si ripeté e si accentuò dal Cinquecento all’Ottocento in Germania, dove scienza e prassi si combinano armoniosamente e dove si dà vita a una scienza giuridica che può chiamarsi correttamente tedesca perché ha la consapevolezza e l’aspirazione di esprimere una coscienza giuridica collettiva circolante nel Reich tedesco. In coerenza con questo diffuso atteggiamento si ebbero, dai primi del Seicento in poi, riforme incisive negli stessi ordinamenti didattici delle università germaniche e miranti tutte a dare ai discenti una preparazione prevalentemente pratica. I professori non erano tanto chiamati ad essere fedeli romanisti quanto ad adeguare i vecchi testi romani «ad praesentis saeculi usum», cioè alla prassi dell’esperienza contemporanea, nella quale i giovani studenti sarebbero stati chiamati a esercitare le professioni giudiziali, notarili, forensi.

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20. Legge, scienza giuridica, prassi giuridica nell’area germanica durante l’Ottocento. Scuola storica del diritto e Pandettistica. L’edificazione del sistema giuridico Il paragrafo precedente, che potrebbe esser sembrato al lettore quasi come una digressione con quel suo andare all’indietro fino al tardo Medioevo tedesco, aveva lo scopo di spiegare le remote motivazioni storiche della singolare situazione del diritto in Germania all’inizio del secolo XIX: da un lato, imperavano le costruzioni geometriche di un giusnaturalismo esasperato nelle sue astrazioni e privo di ogni aggancio con l’esperienza concreta; dall’altro, persisteva un usus modernus Pandectarum che, in nome del primato della prassi, tradiva il vecchio diritto romano mescolandolo disinvoltamente con le fonti locali tedesche. È precisamente contro i due filoni dominanti – l’uno e l’altro – come fenomeni assai riduttivi del diritto che prende forma in Germania (tra fine Settecento e inizii Ottocento) la cosiddetta «Scuola storica del Diritto»; la quale attinge le sue fondazioni metodologiche e i suoi tratti tipici dalle proposte innovatrici del grande romanticismo tedesco. Romanticismo, ossia: scetticismo sull’idea illuministica di progresso; ripugnanza per la costrizione della società in schemi puramente razionali, geometrici; rispetto del passato e ossequio per la tradizione; rivalutazione della storia nella sua complessità, anche e soprattutto nelle sue dimensioni irrazionali fatte di religione, di credenze, di costumanze, di pratiche inconsce. Questi capisaldi della nuova consapevolezza romantica vengono afferrati per gettare le fondamenta di un nuovo edificio giuridico, che non troverà la sua cifra essenziale nelle manifestazioni del potere, nelle leggi, nei Codici, ma nella vita quotidiana del popolo. In questa visione, la massima espressione giuridica è la consuetudine, nascente dal fondo della comunità, crea-

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tura plastica e, in quanto tale, aderente e fedele all’incessante divenire del corpo vivente della società. La grande verità riscoperta è la storicità del diritto, corroborata da un’analogia (che sarà ripetuta ricorrentemente) fra diritto e linguaggio, realtà efficacemente ordinative della dimensione sociale del soggetto a condizione che non abdichino mai al carattere della duttilità, ossia alla capacità di seguire armonicamente la vita del sottostante organismo sociale. In questo quadro, così diversificato sotto il profilo della cultura giuridica (giusnaturalismo, usus modernus, scuola storica), subito dopo la burrasca napoleonica che ha devastato e anche lacerato il suolo tedesco, il primo problema che emerge sul piano del diritto è quello delle fonti, di una sua possibile soluzione adeguata ai tempi e ai bisogni della società tedesca. Era un problema reso incombente anche dalla scomoda presenza del modello codicistico francese, diventata ancora più scomoda per l’adozione che dello strumento ‘Codice’ aveva fatto nel 1811 l’Impero austriaco; senza contare che, con l’espandersi dell’Impero napoleonico, il modello francese è legge vigente nelle stesse terre di Germania annesse all’Impero. La questione erompe quando un prestigioso professore di diritto civile all’Università di Heidelberg, Anton Friedrich Justus Thibaut (1772-1840), vi incentra interamente un suo libello e quando un altro prestigioso professore di diritto romano nella neo-fondata Università di Berlino, Friedrich Carl von Savigny (1779-1861), risponde polemicamente con altro libello. Si instaura una forte contrapposizione dialettica, che segnerà il divenire del diritto in Germania per tutto il secolo XIX. Non possiamo perciò esimerci dal chiarire al lettore i tratti essenziali di una controversia, che, dalla dimensione teorica, ridonda sul terreno della esperienza. Corre l’anno 1814. Thibaut intitola le sue pagine Sulla

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necessità di un diritto civile generale per la Germania25, esponendovi una tesi nettissima: sinceramente convinto della validità dello strumento ‘Codice’, lo propone per la complicata e difficile situazione politica tedesca quale sistema di regole certe, chiare, stabili, oltre che opportuno mezzo unificatore. Non l’utilizzo della codificazione francese e tanto meno la sua estensione, ma un Codice tedesco redatto dai migliori giuristi tedeschi valorizzando il meglio della tradizione comune germanica. È un testo che rivela limpidamente il retrostante ascendente illuministico, attestato da una grossa diffidenza verso il diritto romano e la sua alluvionalità, dall’entusiasmo per una legge generale e astratta rigidamente unificatrice, dalla convinzione che buona parte del diritto civile è «una specie di pura matematica del diritto, su cui nessun carattere locale può esercitare un influsso decisivo, come la dottrina della proprietà, del diritto di successione, delle ipoteche, dei contratti, e tutto quanto appartiene alla parte generale della scienza giuridica»26. Nello stesso anno si leva alta la voce opposta di Savigny con il suo arcinoto libello intitolato Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza27, un libello che dal primo sostantivo presente nel titolo, «vocazione», in tedesco «Beruf», è universalmente e speditamente citato sempre con questa parola tedesca. Ma chi è Savigny? Anche se il nostro libro è volutamente povero di dati personali in ragione della sua qualità di sguar25 Über die Notwendigkeit eines allgemeinen bürgerlichen Rechts in Deutschland, Heidelberg 1814. Vedilo nella sua lingua originaria in: Thibaut und Savigny. Ihre programmatischen Schriften, a cura di H. Hattenauer, München 2002. Una ottima traduzione italiana, da noi seguita, è: A.F.J. Thibaut, F.C. Savigny, La polemica sulla codificazione, a cura di G. Marini, Napoli 1982. 26 Thibaut, Savigny, La polemica sulla codificazione cit., p. 79. 27 Vom Beruf unsrer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, Heidelberg 1814. Vedilo, nella sua lingua originaria e in italiano, nelle due pubblicazioni menzionate alla nota 25.

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do sintetico, ci si deve soffermare sulla formazione e sull’itinerario di vita di questo giurista, giacché siamo di fronte a uno dei non molti esempii di personalità singola che imprime un carattere peculiare allo sviluppo dell’intiero diritto europeo. È un consapevole adepto della Scuola storica; anzi, ne è il corifeo; e lo attesta pienamente il libello contro Thibaut, che assurge al rango di manifesto della Scuola stessa. Strettamente legato (anche per vincoli familiari) al circolo più raffinato del romanticismo tedesco, legato da affettuosi rapporti di magistero con i fratelli Grimm, gli intelligenti esploratori e rilevatori delle antichità germaniche (istituzioni, costumanze, fiabe, mitologia, lingua), spirito religioso, aristocratico, anti-rivoluzionario e antinapoleonico, Savigny serba in sé un intenso sentimento della storicità delle cose umane, con il conseguente intenso rispetto verso il passato e la tradizione. Accanitamente ostile all’individualismo borghese e agli artificii giusnaturalistici che contribuivano a legittimarlo, è portato a valorizzare la dimensione collettiva, comunitaria, fucina del costume, fucina di quelle consuetudini che costituiscono la genesi spontanea e la forma primigenia della giuridicità. L’origine del diritto, infatti, – scrive a chiare note nel libello del 1814 – è, al pari della lingua, nella «comune convinzione del popolo», perché «il diritto, come la lingua, vive nella coscienza del popolo»28. Se così è, non può che ripugnargli ogni tentativo di immobilizzazione in comandi generali e uniformi, ingessati in un testo considerato insensibile agli apporti del flusso storico. Il diritto, storia vivente, subisce in tal modo l’alterazione più snaturante. La sua fonte originaria, che lo manifesta compiutamente, è invece la consuetudine, dove si esprime la comunità e dove la storicità può essere continua28

Thibaut, Savigny, La polemica sulla codificazione cit., p. 97.

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mente mantenuta, mentre la prevalenza della legge in taluni ordinamenti storici è soltanto il segno della decadenza e della trionfante corruzione. Conclusione: il Codice va evitato alla nazione tedesca come si evita un male funesto. Piuttosto, è naturale che si abbia, lungo l’itinerario storico di una civiltà, un processo di raffinamento nelle manifestazioni del diritto; è naturale che l’ordinamento dei grezzi spontanei fatti consuetudinarii sia assunto da un ceto di esperti, i giuristi, i quali tuttavia in questa loro decantazione dei fatti in categorie scientifiche e invenzioni tecniche altro non sono che rappresentanti qualificati del popolo senza nulla far perdere alla spontaneità e plasticità della produzione giuridica. In questa luce, lo stesso diritto romano, permeato nella coscienza collettiva del popolo tedesco grazie alla Recezione e allo usus modernus, deve essere considerato alla medesima stregua di un diritto consuetudinario. Era necessaria una sosta sulla polemica fra Thibaut e Savigny, perché riassume soluzioni e motivazioni in tema di fonti, e le indica alla nazione tedesca: da un lato, la codificazione del diritto; dall’altro, un diritto che vede rispettata la sua naturale plasticità grazie a due fonti, la consuetudine e la scienza giuridica, soprattutto quest’ultima quale interprete della piattaforma consuetudinaria e, quindi, rappresentante dello stesso spirito popolare. Il vincitore fu Savigny; le sue perplessità fecero breccia, anche perché parlavano un linguaggio caro al nazionalismo germanico e respingevano nel Codice l’insegna conquistatrice dell’odiato Bonaparte. Perché si abbia un Codice civile in Germania occorrerà attendere il lontano 1896; per tutto il secolo la vera dominatrice sarà la scienza giuridica, lungo un singolare itinerario che mette conto di seguire. Anche sul corso di questo itinerario pesò in modo determinante la marcata evoluzione rilevabile nel pensiero savignyano. Dobbiamo, perciò, parlare an-

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cora di lui e accompagnare con attenzione la sua lunga e complessa avventura intellettuale. Infatti, al primo Savigny, quello storicista, così come appare nitidamente nel libello del 1814, sembra contrapporsi un secondo, e di segno profondamente diverso. È il giurista che comincia a redigere nel 1840 – e vi si dedicherà per un intiero decennio – una delle opere più impressionanti della letteratura giuridica di ogni tempo, dove «impressionante» è aggettivo non enfatico, ma appropriatissimo a indicare un modello che ha impressionato di sé, per le sue qualità, generazioni di giuristi in Germania e fuori, come dimostrano le numerose traduzioni in lingue straniere. Intendiamo riferirci al Sistema del diritto romano attuale 29, un’ampia trattazione, che, malgrado la sua ampiezza, arriva soltanto a disegnare una teoria generale del diritto civile. Cerchiamo di coglierne, come sempre si tenta di fare in questo libro, il messaggio essenziale collocandolo senza forzature nell’itinerario savignyano. Intanto, è un sistema, ossia un tentativo di ricondurre ad unità organica la estrema frammentazione delle manifestazioni giuridiche particolari, tentativo che può riuscire solo all’interno di un edificio pensato come ascensione dal particolare al generale e all’astratto, con il possibile sacrificio di aspetti del particolare. Colpisce il sistema come costruzione creativa del giurista, e colpisce la sua intima razionalità, il rigore di un pensiero e di un linguaggio depuratissimi. Il sistema di Savigny è un’ammirevole fabbrica di concetti, ossia di cristalli logici abbastanza impermeabili al divenire. In più, si nota una ri29 Il titolo della tarda opera sistematica di Savigny è: System des heutigen römischen Rechts, Berlin 1840-1846 (rist. Aalen 1956 e 1981; trad. it., Sistema del diritto romano attuale, Torino 1886-1898). Le citazioni che seguiranno nel testo, tutte fatte sulla eccellente traduzione italiana di Vittorio Scialoja, sono in Sistema del diritto romano attuale cit., I, rispettivamente pp. 5, 185, 49, 63.

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valutazione dello Stato e della legge accanto al ruolo centrale della scienza giuridica. Abbiamo a che fare con due Savigny? Direi che siamo piuttosto in presenza di un giurista che ha vissuto con attenzione e consapevolezza il venticinquennio che separa il Beruf dal System, e non è stato insensibile alle novità e alle nuove esigenze: la società tedesca si è fatta più complessa, con la piena decadenza dei vecchi ceti dominanti e la prima ascesa di quella borghesia imprenditoriale che sarà, dalla metà del secolo, la protagonista dell’espansione economica nazionale; insieme, il crescente rafforzamento dello Stato prussiano; insieme, la vicenda personale dello stesso Savigny, chiamato dalla fiducia dei monarchi prussiani a incarichi politici prestigiosi e poi, dal 1842, addirittura alla funzione di ministro per la legislazione. Tutto questo non può non incidere, perché il Sistema è scritto «per l’epoca, in cui oggi viviamo», non è diritto romano, ma diritto romano attuale. Rispetto al programma del Beruf, più che una smentita, c’è una decisa attualizzazione. Alla base sta la scelta della fondazione romanistica come l’unica capace di rendere coerenti i due momenti riflessivi del ’14 e del ’40: il diritto romano, quale autentico «diritto consuetudinario moderno» ormai penetrato nelle trame della stessa coscienza popolare tedesca, come traduzione di un tessuto consuetudinario in tessuto scientifico, è il supremo garante del rapporto fra scienza e vita. Più che il pulviscolo dei fatti, nel 1840 serve un disegno razionale non da inventare artificiosamente ma da scoprire e descrivere quale reticolato sottostante agli stessi fatti storici. La razionalità è, infatti, una dimensione interna alla storia, come dimostra quel diritto romano classico che resta un modello insuperato di lettura della natura delle cose. E Savigny insiste nell’affermare la storicità del suo sistema: che si struttura sì in una piramide ascensionale, ma dove non viene tradita la sua piattaforma basale. In-

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fatti da una moltitudine di rapporti giuridici ha origine una prima unificazione, l’istituto giuridico, un insieme di rapporti che diventa ‘proprietà’, ‘compravendita’, ‘successione legittima’, e così via; è, poi, dal complesso degli istituti che ha origine il sistema. Il cordone ombelicale che garantisce al sistema il respiro della storicità è l’istituto giuridico, che è – allo stesso tempo – esperienza vissuta e prima riduzione ad unità. Qui è il Savigny valorizzatore del diritto romano e della scienza, che si limita ad accentuare intensamente elementi che erano già presenti nel Beruf, che non può non accentuare perché una società complessa abbisogna di schemi ordinanti generali ed astratti. Una sintonia minore e la parvenza di una forzatura sono, invece, le giustificazioni fornite per la evidente rivalutazione dello Stato e della legge e per lo spostamento dell’asse portante dell’ordine socio/politico/giuridico dalla società all’apparato statuale, come quando si prostra dinnanzi allo Stato, «il più alto grado della creazione giuridica», o quando si afferma che «la legge è l’organo del diritto del popolo» e che il legislatore è da considerarsi «come il vero rappresentante dello spirito popolare» (dove, a parte il riferimento allo spirito popolare, sembra quasi di leggere una frase di Rousseau, un intellettuale cordialmente detestato dal Nostro). Nell’ottica di questo libro, più che l’intima coerenza fra i varii momenti della ricerca scientifica di Savigny, ci interessa di più sottolineare i riflessi che quella ricerca, nella duplicità delle sue espressioni, ha sul futuro del diritto in area germanica: lo storicismo del Beruf (certamente non da solo, ma unito ad altre forze, per esempio a filoni germanistici valorizzanti la tradizione consuetudinaria indigena) diventa il vessillifero del movimento anti-codificatorio, con il risultato di spostare parecchio in avanti la realizzazione di un Codice civile tedesco; le successive scelte per il sistema, con le connesse ardite co-

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struzioni di ingegneria giuridica, daranno fiato, nel persistente vuoto legislativo, alla scienza giuridica germanica orientandola in una precisa direzione. È quanto ci proponiamo brevemente di dilucidare. Non v’è dubbio che la tarda opera savignyana attui un ribaltamento di valori: nella perenne dialettica che crocifigge il diritto (e il giurista) di sempre tra storia e sistema, qui c’è una prevalenza netta del sistema sulla storia; ed è la dimostrazione delle capacità edificatorie della scienza quando non sia soffocata dalla vigenza di un apparato legislativo. Come tale, è un enorme forziere di concetti, di categorie, di schemi logici ordinanti. Come tale, il secondo Savigny può considerarsi l’ispiratore e la guida di quella robusta corrente del pensiero giuridico tedesco dominante nella seconda metà dell’Ottocento che siamo soliti chiamare convenzionalmente Pandettistica. Precisando subito: Pandettistica in senso stretto e anche in senso convenzionale, giacché è almeno dal Cinquecento che in terra di Germania si hanno esercitazioni moderne sulle vecchie Pandette giustinianee. In una siffatta ristretta accezione si intende una comunità di giuristi – particolarmente, di civilisti – che, in buona sintonia con le esigenze della civiltà borghese ormai campeggiante anche in Germania, si dedica – con fantasia, intelligenza, forza speculativa – alla costruzione di un diritto astratto, cioè articolato in categorie logiche volute pensate disegnate come liberate dalla contaminazione dei contingenti fatti economici e sociali; un diritto astratto che si risolve facilmente in un sistema improntato a un assoluto rigore logico-deduttivo. Se più sopra abbiamo parlato della prevalenza del sistema sulla storia, ora si può parlare di un sistema senza storia. Se il tardo Savigny, malgrado i suoi attestati formali di fedeltà alle premesse della Scuola storica, offre sicuramente un modello per questa involuzione, un modello ancor più deciso lo offre un discepolo di Savigny dota-

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to di uno straordinario vigore logico, Georg Friedrich Puchta (1798-1846): il diritto diviene nelle sue mani un’architettura formale, mentre il diritto giustinianeo assume il singolare ruolo di piattaforma assolutamente astorica. E si parla fittamente di «costruzione giuridica», di purezza di principii e schemi ordinanti, financo di «dogmatica», prendendo a prestito l’impegnativo termine dalla dottrina teologica: ‘dogmatica’, ossia un insieme di verità immobili perché insuscettibili all’usura del tempo. Questi giuristi, di cui l’esponente più prestigioso fu Bernhard Windscheid, nemici giurati del giusnaturalismo e delle sue mitologie, non si accorgevano (o non volevano accorgersi) che, in sostanza, riproducevano in pieno Ottocento l’atteggiamento metodico e le conclusioni essenziali della riflessione giusnaturalistica: quel ragionar per modelli, quel disegnare soggetti e rapporti meta-storici cioè astratti, quel sorprendere il diritto soprattutto come diritto privato e per di più sorretto da una fortissima ideologia individualistica. Pandettistica significa, dunque, l’identificazione del diritto in un ordine formale; un formalismo esasperato sembra essere il suo contrassegno primario. Un cenno soltanto per riprendere il riferimento fatto più sopra alla sintonia fra Pandettistica e ordine borghese; per riprenderlo e dargli un contenuto che lo renda comprensibile al lettore. Può servire l’esempio della costruzione giuridica della proprietà privata individuale. Se ancora nelle prime codificazioni abbiamo visto tracce della precedente visione composita del dominio (un dominio inteso come fascio di poteri sulla cosa e, come tutti i fasci, componibile e scomponibile), con i pandettisti si perviene al pieno e coerente modello moderno di proprietà: sintesi di poteri, una totalità e non una somma, una proprietà specchio della persona e della sua libertà, che i diritti reali limitati (per esempio, una servitù prediale, una servitù di passo o di acquedotto) non sono in

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grado di modificare (ricordate, invece, la intitolazione del libro secondo del Code Napoléon più sopra riferita nel par. 16?) ma soltanto di comprimere dall’esterno restando delle realtà completamente esterne. Un altro esempio illuminante della impostazione individualistica dei pandettisti è offerto dalla loro concezione del «negozio giuridico» (Rechtsgeschäft), ossia dello strumento con cui i privati regolamentano autonomamente i proprii interessi, uno strumento da loro costruito all’insegna del più deciso individualismo. È esemplare la definizione che ne dà il sopracitato Windscheid nel suo famoso e diffusissimo ‘manuale’: «Il negozio giuridico è l’attuazione della forza creatrice competente nel campo giuridico alla volontà privata. Il soggetto comanda, ed il diritto si appropria del suo comando (sotto riserva della liceità della causa)»30. 21. Fondazioni germaniche di un’autonoma scienza di diritto pubblico Ricorda il lettore l’intitolazione del libello polemico di Savigny del 1814 contro la proposta di Thibaut e contro lo spettro di una immediata codificazione in Germania? Ha al centro una parola, Beruf, vocazione, che è poi valsa a contraddistinguerlo nella cultura giuridica successiva. Vocazione, cioè vocazione del secolo appena iniziato per la legislazione e la giurisprudenza; Savigny è cioè persuaso che quel secolo sarà un tempo ‘giuridico’, che avrà nel diritto il proprio salvataggio storico, che si affiderà soprattutto al diritto, che chiederà al diritto di esprimerlo schiettamente. Consapevolezza e orgoglio insieme, che provocavano 30

B. Windscheid, Diritto delle Pandette, trad. it. di C. Fadda e P.E. Bensa, Torino 1902, I, I, pp. 265 sgg., nota 1.

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in Savigny un appello chiaro e forte alla scienza per non indugiare oltre nell’allestimento di un’opera di costruzione. Il terreno dove essa veniva chiamata a lavorare era la società civile, e l’oggetto era il tessuto della vita quotidiana, il diritto privato. Nel 1814, il diritto si identifica ancora nel diritto privato; il ‘pubblico’ è una realtà extra-giuridica di cui facevano bene a occuparsi politologi e sociologi, mentre il giurista doveva soltanto preoccuparsene per le eccessive invadenze del potere politico. E il secolo XIX aderì alla chiamata savignyana offrendo l’esempio edificante di una comunità di giuristi impegnati nell’architettura di un diritto privato capace di ordinare adeguatamente la società germanica nella sua profonda trasformazione economica. Non un ripensamento, ma tracce di novità sono, tuttavia, riscontrabili – e le abbiamo riscontrate – nello scrittore del System, nel Savigny degli anni Quaranta, dimostrando che il tempo non è passato invano: accanto a consuetudini e scienza compare con un suo ruolo sempre più forte la legge, e compare un’attenzione tutta nuova per lo Stato. Il messaggio frammentario tra le pieghe del grande System civilistico diventerà invece un autentico progetto culturale e tecnico in un personaggio che non può non avere cittadinanza in questo libro: Carl Friedrich von Gerber (1823-1891). Figura singolare anche per il complesso itinerario nel quale conquista la sua identità di giurista: in una prima fase della sua vita di studioso dà ottima prova delle sue capacità in una trattazione sistematica del diritto privato tedesco, ma ha anche la virtù (e la croce) di vivere il proprio tempo con sensibilità e consapevolezza; e sono – quelli di metà secolo – anni turbolenti per la vita politica e sociale della Germania, che vedono la nascita e la repressione dell’avventura liberale del 1848, mentre la Prussia, all’interno della koinè tedesca, continua la sua marcia inarrestabile non solo verso

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una struttura statuale compatta ma realizzante una sempre più vasta unità spaziale. Gerber contempla nel suo tempo «i caratteri di un’epoca di transizione», come scriverà in una tarda edizione della sua opera più famosa, i Lineamenti di diritto pubblico; ma non è la sua una contemplazione distaccata, bensì partecipe. Qualcuno ha parlato di opportunismo, di remissività del giurista alla reazione dei principi tedeschi cancellanti le giurate libertà costituzionali. A noi interessa soprattutto un rilievo: lo scienziato privatista, assolutamente consenziente con la diagnosi di Savigny e aderente al suo appello alla costruzione, ritiene che sia giunto il momento di deporre la sprezzante sufficienza verso la dimensione del ‘pubblico’ e che a questo debba estendersi con urgenza l’opera edificatrice della scienza. Anche perché «quella impazienza febbrile» che ha circolato durante il ’48 nelle città tedesche e che riscuote la desolata diffidenza di Gerber dimostra che c’è un’esigenza di cambiamenti, ma non con i fuochi di carta delle improvvisazioni (come è avvenuto nella vicina Francia), bensì con le intelaiature dei giuristi, lente, incisive e pertanto durature, che riescono a fissare in principii e regole quanto è il frutto della decantazione del costume (come nella Inghilterra, ammiratissima dal Nostro)31. Il 6 aprile 1851 un grande giurista tedesco, che avrà una incredibile fama in tutta Europa grazie a opere di carattere generale, il romanista Rudolf von Jhering, con il quale Gerber fonderà più tardi una rivista scientifica dedicata alla «dogmatica dell’attuale diritto privato romano e germanico»32, avuta notizia dei proponimenti 31 Gerber parla di «un’epoca di transizione» nei suoi Grundzüge eines Systems des deutschen Staatsrechts, Leipzig 1865 (II ed., Leipzig 1869; III ed., Dresden 1880; trad. it., Lineamenti di diritto pubblico tedesco, in C.F. von Gerber, Diritto pubblico, Milano 1971, p. 103.) Parla di «impazienza febbrile» nel saggio Über öffentliche Rechte, Tübingen 1852 (trad. it., Sui diritti pubblici, in Diritto pubblico cit., p. 12). 32 La rivista – che Gerber fonda con Jhering nel 1857 – è: «Jahrbü-

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gerberiani, non ha esitazione nel prendere la penna e scrivergli una lettera per noi eloquentissima e della quale riteniamo opportuno trascrivere un frammento: «Ella parla di un diritto costituzionale? Oh, mio ottimo amico, non vorrei; non è il momento ora di affrontare il diritto costituzionale... Si tenga al suo diritto privato, scriva una buona volta una monografia dogmatica... Ella possiede un rilevante interesse dogmatico...»33. Ma Gerber, percettore acuto delle richieste del proprio tempo, non gli dà retta e si accinge a un’opera antesignana: non soltanto ordinare giuridicamente il ‘pubblico’ ma utilizzare i concetti giuridici formali della dogmatica privatistica per edificare una dogmatica pubblicistica. Le tappe del processo costruttivo sono due: nel 1852 un approccio monografico, Sui diritti pubblici, nel 1865 i Lineamenti di un sistema del diritto pubblico tedesco; ciò che nel ’52 è l’affiorare di una esigenza e un primo esperimento scientifico, diviene nel ’65 il disegno di un ‘sistema’; maturazione della coscienza scientifica, ma anche contemplazione compiaciuta di quello Stato unitario prussiano che non è ancora il Reich del 1871, ma che è già compiuta realizzazione di una possente unità statuale. E Gerber, fedelmente, registra: il popolo, il Volk, che, nella scia delle suggestive visioni di Savigny e della Scuola storica, aveva mantenuto a lungo il suo carattere di organismo originario, autonomo nella sua corazza storica di valori credenze costumanze, ora viene totalmente assorbito entro la struttura unitaria dello Stato contribuendo a fornirgli una valenza etica ed acquisendo esso stesso una eticità di grado maggiore: «Nello Stato un popolo trova la disciplina giuridica della sua vita collettiva. cher für die Dogmatik des heutigen römischen und deutschen Privatrechts». 33 La lettera di Jhering può essere letta in: M. Losano, Der Briefwechsel zwischen Jhering und Gerber, T. I, Ebelsbach 1984, p. 18.

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In esso un popolo giunge ad essere riconosciuto e a valere giuridicamente come un’unità totale». È così che iniziano i Lineamenti. Ancora: «se si considera dal punto di vista giuridico lo Stato, si coglie innanzitutto il fatto che in esso il popolo assurge nel suo insieme alla coscienza e alla capacità di volere richieste dal diritto». E inoltre: «nella personalità dello Stato si trova il punto di partenza e il nucleo di tutto il diritto pubblico; dal riferimento ad essa dipendono, al tempo stesso, la possibilità e il criterio informatore di un sistema scientifico, di un sistema cioè ispirato a una idea unitaria»34. La più corposa conquista dogmatica gerberiana è il trapianto – facile a lui privatista – della nozione di persona dal singolo allo Stato, ottenendo due altrettanto corposi risultati: la perfetta unità dello Stato, che, in tal modo, può essere ridotto a volontà di potere; la perfetta separazione tra lo Stato, dove ha rilievo solo il collettivo, l’insieme dei singoli che scompare entro l’unità collettiva, e la società, che è il regno dei singoli, delle loro particolari facoltà e libertà (prima fra tutte, la libertà della proprietà). E risalta la duplice funzione dello Stato: di interprete e realizzatore dell’interesse collettivo; di «supremo tutore dell’ordinamento giuridico» e di garante dei diritti pubblici soggettivi, da intendersi però come diritti riflessi. Lo Stato di Gerber è indubbiamente Stato di diritto, nel senso che si caratterizza nel produrre diritto, e nel diritto trova il suo limite, ma questo diritto altro non è che la legge, ossia la manifestazione della propria volontà sia pure impersonale, generale ed astratta; le sue limitazioni consistono, dunque, in auto-limitazioni, e lo Stato di diritto rivela il suo vero vólto autoritario. 34

Le citazioni di Gerber sono tratte dai Lineamenti di diritto pubblico tedesco cit., rispettivamente pp. 95, 97, 124.

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Che sarà il vólto del filone centrale della scienza germanica di diritto pubblico. Se ancora in Gerber la scienza è chiamata ad avere un suo progetto, a creare forme giuridiche convenienti e a costruire, con Paul Laband (1838-1918), con il suo Diritto statale dell’Impero tedesco, il cui primo volume esce nel 1876, la scienza giuridica è relegata al rango minimo di elaborazione di apparecchi ortopedici per il potere perché collocata ben all’interno dell’apparato di potere. Il giurista di diritto pubblico avrà il cómpito esclusivo di descrivere la situazione esistente approntando strumenti per difenderla ad ogni costo. Il panorama è sicuramente più sfaccettato, anche se il filone portante ci sembra essere quello che da Gerber arriva a Laband. Alla economia di questo libro bastava la rilevazione che, accanto alla edificazione del sistema privatistico, se ne costruisce anche uno pubblicistico, utilizzando un sapere parimente formale ed astratto, e arrivando a una costruzione formale; ed è sintomatico che l’inventore sia il privatista Gerber. Come le forme astratte del diritto privato giovano al pingue borghese tedesco e si risolvono in un formidabile strumento di protezione, così le forme astratte del diritto pubblico giovano alla potenza della nuova persona giuridica statuale.

22. Pandettistica e germanistica verso il «Bürgerliches Gesetzbuch» dell’Impero tedesco. Un Codice speculare alla scienza: il BGB del 1896-1900 Fu nel 1881 che prese l’avvìo, in una Germania politicamente ed economicamente robusta, l’itinerario verso la codificazione civile; cominciava, infatti, i suoi lavori una commissione che, già nel 1887, fu in grado di presentare un primo progetto. Malgrado che ne facessero parte giuristi teorici e pratici, il risultato fu un prodotto caratterizzato da una scel-

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ta decisa per l’astrattezza e per una altrettanto decisa impronta individualistica, da un linguaggio complicato e da contenuti tecnici altamente dottrinarii e pertanto di difficile accesso al cittadino qualunque: il quale non era, nella mente dei redattori, il destinatario del Codice, bensì il giudice togato esperto di diritto. Fu incombente sulla commissione la carismatica figura di Bernhard Windscheid (1817-1892), il principe dei pandettisti tedeschi, che fece dei paragrafi del Progetto la consolidazione legislativa delle impostazioni della Pandettistica. Né dovette troppo faticare in proposito, perché i lavori preparatorii ci segnalano la completa adesione anche da parte dei componenti pratici, evidentemente educati (e anche conquistati) nelle università tedesche al culto delle nuove costruzioni dogmatiche. Il Progetto fu, però, come il sasso lanciato in una piccionaia, provocando il levarsi di parecchie voci polemiche. Ci basti segnalarne qui le due che ci appaiono più significative, la prima dal carattere squisitamente culturale, la seconda, invece, assai caratterizzata sul piano ideologico. Otto von Gierke (1841-1921) era un germanista e coltivava con crescente prestigio il filone – più appartato e discreto rispetto alla ufficialità romanistica – del diritto indigeno consuetudinario; proprio in nome di questa risalente tradizione nazionale, che si pretendeva più sociale e comunitaria e che l’individualismo borghese aveva volutamente trascurato, egli muove il suo attacco frontale in un libello che è tutto un contrappunto fra le astrazioni artificiose (ed egoisticamente borghesi) del verbo pandettistico e la solida concretezza del deutsche Recht 35; diversamente, Anton Menger, professore a Vienna di diritto processuale civile, un solidarista che, pur ostile alle tesi classiste di Marx, osteggia il 35 Per Otto von Gierke il riferimento è a: Entwurf eines Bürgerlichen Gesetzbuchs und das deutsche Recht (1888-89), ma anche a Die soziale Aufgabe des Privatrechts (1889).

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Progetto per la sua sordità alle esigenze delle classi nullatenenti36. Si passa nel 1890 a una seconda commissione e nel 1895 a un nuovo Progetto e a un terzo l’anno di poi. In questo stesso anno si ha la promulgazione del Codice, che entrerà in vigore con il 1900. Il Bürgerliches Gesetzbuch, universalmente indicato con la sigla BGB, è sicuramente un Codice nel rigoroso significato storico-giuridico che abbiamo assegnato a questo termine: pretende alla esclusività, riafferma l’impero della legalità positiva e impone al giudice l’osservanza della legge. Suo destinatario resta il giudice, il suo stile rimane altamente teorico, concetti e tecniche si ispirano al purismo rigoroso della più raffinata Pandettistica. È questa la grande protagonista occulta, ed è sostanzialmente Windscheid il trionfatore alla fine del quasi ventennale e talora aspro dibattito. Domina il culto del generale e dell’astratto evitandosi accuratamente ogni particolarizzazione casistica, mentre gli istituti sono inseriti in una intelaiatura concettuale di grande rigore logico. Il culto pandettistico dell’astrattezza trionfa nella cosiddetta Parte generale. Si badi: non siamo di fronte ai pochi articoli del Codice Napoleone o del Codice austriaco relativi alle fonti in generale, ma a un intiero libro primo che si distende in ben 240 paragrafi dove viene premessa al Codice – pur essendo parte integrante di esso – una vera e propria teoria generale del diritto civile con larghi squarci di una ancora più ampia teoria generale del diritto, puntellate ambedue dal disegno dei caratteri concettuali comuni dei rapporti giuridici; scelta che viene ripetuta all’inizio del libro secondo nei paragrafi dal 241 al 36 Per Anton Menger il riferimento è a: Das Bürgerliche Recht und die besitzlosen Volksklassen. Eine Kritik des Entwurfs eines Bürgerlichen Gesetzbuchs für das Deutsche Reich (1890), cui si accennerà più distesamente nel paragrafo 27.

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432. Un esempio significativo è, al cuore del libro primo, la teoria generale del negozio giuridico, significativo perché il negozio giuridico (Rechtsgeschäft) è l’atto di autonomia con cui il singolo privato regola i proprii interessi nei rapporti con gli altri, costituendo il terreno più geloso di una costruzione individualistica del diritto civile. Un tratto tipico di questa codificazione è il ricorso alla «clausola generale» quale espediente che serve a evitare l’immiserimento della regola astratta nelle minuzzaglie dei casi concreti. Per «clausola generale» si intende una direttiva che il legislatore fa al giudice autorizzandolo a ricorrere, in determinati casi, a nozioni e dati di esperienza al di fuori della legge positiva. Grazie al rinvio alla «buona fede», al «buon costume», agli «usi del traffico», alla «diligenza del buon padre di famiglia» (ecco alcune delle più comuni clausole generali), si responsabilizza il giudice, si apre una valvola respiratoria verso l’esterno nella struttura formale del sistema codificato e si garantisce in qualche modo una maggiore adattabilità della regola generale senza smentire il principio della esclusività, giacché si tratta di previsione voluta dal legislatore stesso e da lui circoscritta in limiti ben definiti. Un’ultima notazione: il BGB fa sua la diffidenza della civiltà giuridica borghese verso il sociale e il collettivo, riaffermando una impostazione rigidamente individualistica. Anche a livello di organizzazione economica, sembra tener presente come modello di riferimento il singolo individuo imprenditore.

23. Una codificazione singolare: il Codice civile svizzero del 1907 Durante il corso del secolo XIX parecchi cantoni svizzeri si erano forniti di codificazioni particolari, preminente fra tutte quella del Cantone di Zurigo, il cui Privat-

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rechtliches Gesetzbuch (1853-55) è opera di un giurista notevole, Johann Kaspar Bluntschli. Tuttavia, la Confederazione, che riesce a darsi nel 1848 una Costituzione federale unitaria, dovrà attendere il 1907 per avere l’unificazione del proprio diritto privato. Anche qui il parto del Codice non è rapido; la sua preparazione – attraverso varie tappe – si snoda per un ventennio pur senza incontrare le aspre polemiche che avevano reso difficile la gestazione del BGB. Tutto è reso qui più semplice da due circostanze rilevanti: alle spalle dei codificatori sta la realtà politica di una democrazia diretta ormai consolidata nella sua forma di Stato; il codificatore è, in realtà, uno solo, che esprime fedelmente la tradizione giuridica svizzera e che è in grado di imprimere al Codice un vólto definito. Mai come in questo caso ci troviamo di fronte a un Codice d’autore. L’autore – per così dire – è Eugen Huber (1849-1922), professore a Berna, giurista dalla straordinaria cultura, giurista europeo per ampiezza di visione e per fitti rapporti di colleganza. Egli è, però, non un romanista ma un germanista dotato di una profonda conoscenza della storia giuridica svizzera; le sue proposte riscuotono consensi, perché affondano nel terreno sicuro della tradizione nazionale; nel solco della quale Huber non propone sfoggi dottrinali, linguaggi raffinati ma incomprensibili, astrattezze concettuali senza riscontri nella prassi. Ecco i tratti distintivi di questo singolare prodotto legislativo, che, proprio per la sua singolarità, merita un ricordo speciale in questo libro: il destinatario è il cittadino, e il suo linguaggio è necessariamente piano, conciso, intelligibile a tutti con un costante riferirsi alla vita quotidiana, come dimostra l’uso frequente di locuzioni proverbiali; non contiene una parte generale; è sorretto da un solidarismo di fondo, che lo porta a propugnare un diritto più concreto, segnato da disuguaglianze di fatto, da posizioni di forza o di debolezza sociale ed eco-

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nomica degne di essere registrate dall’ordine giuridico; dà grosso spazio alle formazioni collettive, rispecchiando una vivace realtà sociale ed economica della campagna e della montagna elvetica; dà grosso spazio alle clausole generali, nella esigenza sentita di garantire al Codice – che, in quanto Codice, è un sistema chiuso – il flusso ossigenante del costume e delle pratiche quotidiane. Ma, soprattutto, fa del giudice il protagonista della vita giuridica, operando una scelta coraggiosa che contrassegna il Codice civile svizzero di originalità e tipicità. Contrariamente alle esclusioni illuministiche, il giudice è assunto a protagonista precisamente perché immerso nel particolare, in quella carnalità storica nella quale è scritto il diritto. Vogliamo trascrivere qui – nella versione ufficiale in lingua italiana – il secondo e il terzo capoverso dell’articolo 1, affinché il lettore se ne renda personalmente conto: «Nei casi non previsti dalla legge il giudice decide secondo la consuetudine e, in difetto di questa, secondo la regola che egli adotterebbe come legislatore. Egli si attiene alla dottrina e alla giurisprudenza più autorevoli». La vecchia sfiducia illuministica nel giudice sembra non essere penetrata nelle valli e nelle montagne svizzere.

24. Pesantezze legalistiche in Francia. Il potere ‘pretorio’ della giurisprudenza pratica. Insofferenze e proposte: Raymond Saleilles e François Gény Nel 1904 si celebra in gran pompa a Parigi il centenario del Code Napoléon; c’è, ovviamente, l’inevitabile scialo di encomii all’insegna di un compiaciuto orgoglio nazionale, ma affiora, ripetuto in alcune relazioni di civilisti disinvolti e soprattutto di magistrati, il ben singolare elogio che la grandezza di quel Codice consiste nella genericità di parecchie sue prescrizioni, genericità che aveva

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consentito a teorici e a giudici una assolutamente necessaria opera di supplenza e di integrazione. Il trascorrere, dopo il 1804, di quel secolo XIX così ricco di novità aveva mostrato l’insufficienza delle previsioni legislative e aveva reclamato l’urgenza di quell’opera; né si trattava soltanto di carenze nelle idee economiche dei codificatori (come aveva segnalato negli anni Trenta Pellegrino Rossi), ma di inadeguatezza nell’ordinare la vita giuridica di un paese in rapidissima crescita. Una interpretazione retrospettiva di tutte queste carenze la esprimerà bene, ai primi del Novecento, un giurista pratico francese, il Cruet, intitolando un suo libro La vita del diritto e l’impotenza delle leggi, perché in quel titolo era efficacemente segnato il dramma dell’Ottocento francese lacerato dal divario sempre più profondo fra testo codificato ed esperienza, dalla ‘impotenza’ di quel testo a ordinare una esperienza sempre più complessa. Di fronte alle pesantezze legalistiche, sempre meno sopportabili via via che il tempo passava, lo storico deve registrare nella ultima dècade del secolo un cospicuo movimento scientifico tendente a scrollarsi di dosso un ossequio troppo passivo al Codice e a riappropriarsi di un lavoro costruttivo. È interessante notare che il movimento si riannoda idealmente al grosso, anche se lento e discreto, lavorìo interpretativo, spesso decisamente novativo, che la magistratura aveva operato tra le pieghe del Codice, oltre il Codice e anche contro il Codice. Si elogia, da parte di questi civilisti innovatori, lo «stile pretorio» dei giudici francesi e soprattutto del Consiglio di Stato, con palese riferimento al pretore romano che era stato l’organo prezioso di adeguamento dell’ordine giuridico a nuove esigenze; addirittura, nel 1897, una tesi dottorale viene dedicata al «potere pretorio della giurisprudenza»37. 37 La tesi dottorale, che esalta lo «stile pretorio» dei giudici, è: H. Langlois, Essai sur le pouvoir prétorien de la jurisprudence en droit français, Paris 1897.

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Sulle orme di quanto i giudici, per decennii, avevano portato innanzi nelle decisioni quotidiane, caso per caso, senza clamori ma efficacemente, ora, anni Novanta, appare dichiaratamente al centro del programma scientifico di un gruppo consistente e battagliero di giovani giuristi. Giovani, perché si tratta quasi sempre di redattori di tesi dottorali, ossia di prime prove scientifiche anche se elaborate da studiosi ormai conquistati alla ricerca e al cursus honorum universitario. Segnaliamo qui alcuni dei problemi incandescenti affrontati con libertà, coraggio, sensibilità culturale e sociale, problemi che, pur brucianti, il Codice lasciava insoluti, ignorava, o trattava secondo schemi di una tradizione decrepita e respingibile. Cerchiamo di chiarire che cosa bolliva in pentola, limitandoci ai problemi di maggior rilievo etico, sociale, economico: l’abuso del diritto, ossia il tentativo di controllo sull’esercizio della libertà del singolo individuo in nome di una visione maggiormente solidaristica; la possibilità di cessione del debito, ossia il tentativo di affrancarsi dalla concezione (di ascendenza romana) del rapporto obbligatorio inteso quale relazione personalissima tra due specifici soggetti, il creditore e il debitore; gli incidenti sul lavoro e, più in generale, la responsabilità civile, ossia il tentativo di affrancarsi dalla sola ammissibilità di una responsabilità per colpa (secondo un vecchio dogma romano) per accogliere invece un principio di responsabilità oggettiva. Non sarebbe privo di interesse potersi soffermare con maggiore attenzione su questo intenso momento riflessivo della scienza giuridica francese di diritto privato (con forti affondi nella teoria generale del diritto), ma non lo consente l’economia del presente volume. Dobbiamo limitarci a un minimo di sosta su due grossi personaggi che avranno un vigoroso influsso culturale sugli itinerarii futuri. Iniziatore del movimento innovatore e mèntore indi-

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scusso del gruppo dei giovani è un professore di diritto civile, Raymond Saleilles (1855-1912), il quale, pur partecipando attivamente al conio di nuove figure, ha il merito di affrontare di petto il problema delle fonti del diritto nella Francia di fine secolo, nella quale il Codice venerato sembra galleggiare esangue sulla dinamica della vita giuridica. Egli comincia col denunciare il decrepito piano di studii imposto nelle Facoltà di Giurisprudenza francesi e il metodo piattamente esegetico che non arrivava nemmeno a far percepire allo studente l’edificio del sistema civilistico; piano e metodo strategicamente funzionali al culto del testo codificato quasi fosse un testo sacro e alla imperante mitologia legalitaria. L’immobilizzazione del diritto in un testo autoritario e la restrizione dello sguardo del civilista a un orizzonte di soli testi appaiono a Saleilles le ragioni del clima asfittico che si respira in Francia; ed emerge risolutamente l’esigenza di schiudersi a un respiro più aperto, di rompere il chiuso delle muraglie testuali per porsi in contatto con la vita. Agli esercizii logici sui testi si contrappone l’immersione necessaria del testo normativo nella storia, nell’economia, nella politica, la sua indilazionabile verifica con il mutamento sociale. Saleilles, che è cattolico fervente ma che è adepto convinto delle correnti moderniste, cioè di quelle correnti teologiche che vogliono misurare la Sacra Scrittura alla luce delle variazioni storiche variando il contenuto delle sue prescrizioni secondo le mutate circostanze storiche, è ‘modernista’ anche di fronte all’immobile testo sacralizzato del Codice civile. Egli propugna un’ampia libertà dell’interprete, che avrà necessariamente sempre a che fare con dei testi legislativi autoritarii, con la possibilità però di gettare il suo sguardo «al di sopra dei testi e al di là dei testi» («au dessus des textes et par delà des textes»), utilizzando un «metodo di adattazione storica»

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(«méthode d’adaptation historique») e instaurando un «regime più duttile ed elastico» («régime plus souple et plus élastique»), tanto da pervenire al risultato che più preme al nuovo giurista: «l’assouplissement du texte», la elasticizzazione di un testo assurdamente concepito sino ad allora come rigido ed immobile. Secondo lui, il Codice Napoleone è stato formulato in modo da funzionare soltanto mercè l’aiuto di giudici sensibili capaci di adattarne le disposizioni generiche alle successive mutate necessità. Saleilles non è, ovviamente, così insensato da non rendersi conto del circostante clima legalistico, né si sente di adottare una conclusione di completa rottura – come quella del giusliberismo di cui parleremo nel prossimo paragrafo – condannata all’inevitabile suicidio in una Francia non solo legolatrica ma addirittura ‘codicolatrica’. La sua proposta ha delle contorsioni: il giudice può elasticizzare il testo, ma soltanto entro la «cornice» («cadre») offerta dal testo; suscitando nel lettore delle sue pagine una giustificata domanda: e se i fatti nuovi non rientrano nella cornice e, anzi, la frantumano?38 A noi non interessa discutere qui le aporie contenute nel programma di Saleilles, interessa piuttosto la sua figura come testimonianza del disagio, che in un civilista cólto e aperto provoca il permanere immobile di un legalismo ottuso; interessa la ricerca di nuove strade per ridare forza ad altre fonti – dottrina e giurisprudenza pra38

Le frasi di Saleilles possono essere consultate in: P. Grossi, Assolutismo giuridico e diritto privato. Lungo l’itinerario scientifico di Raymond Saleilles (1993), ora in Id., Assolutismo giuridico e diritto privato cit., pp. 219 e 227. Sul riferimento di Saleilles al «cadre», cfr. ivi, p. 239. Sul Codice Napoleone quale sistema legale bisognoso dell’intervento massiccio dell’opera del giudice, ivi, p. 251, soprattutto n. 220. Per chi volesse un approccio diretto, un testo emblematico di Saleilles è: Le Code Civil et la méthode historique, in Le Code Civil 1804-1904. Livre du centenaire, Paris 1904.

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tica – più capaci del legislatore di esprimere quella realtà complessa che è il diritto; interessa la consapevolezza che il diritto è vita, è esperienza mobilissima, ed è compresso – più che espresso – da un monopolio legislativo. E in questa sincera ricerca di orizzonti più larghi, idonei ad ossigenare l’aria che respira il civilista operante in Francia a fine Ottocento, deve essere sottolineata la antesignana apertura di Saleilles verso la comparazione giuridica; è a lui che si deve, come vedremo fra breve, il progetto e la realizzazione del primo Congresso internazionale di diritto comparato del 1900. Un uguale disagio è testimoniato anche dalla grande presenza scientifica, a cavaliere fra i due secoli, di un altro civilista francese, François Gény (1861-1959). Al pari di Saleilles egli affronta con coraggio il problema basilare delle fonti e quello strettamente connesso della interpretazione, ritenendoli urgenti, ma, a differenza di lui che aveva preferito diffondersi in numerosi, succosi ma brevi, contributi puntuali, vi dedica una possente opera di analisi critica e di ricostruzione sistematica, pubblicandola nel 1899, l’anno di chiusura del secolo dei Codici, e intitolandola Metodo di interpretazione e fonti nel diritto privato positivo39. La motivazione prima nasce dalla contemplazione de «la complessità infinita e la mobilità incessante della vita sociale» e diventa – non può che diventare – la rivolta contro il «feticismo della legge scritta e codificata», giacché «la legge non è che la rivelazione imperfetta» della infinita ricchezza del diritto, è cioè una fonte insufficiente a ordinare da sola l’universo giuridico40. 39 Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif, Paris 1899 (II ed., Paris 1919, con testo immutato ma con cospicue integrazioni di cui è importante quella relativa al movimento giusliberistico, di cui si parlerà nel paragrafo seguente). 40 P. Grossi, Ripensare Gény (1991), ora in Assolutismo giuridico e diritto privato cit., pp. 158, 161 e 172.

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La soluzione di Gény non ricalca la proposta di Saleilles sulla elasticizzazione dei testi normativi, che gli sembra troppo erosiva e poco percorribile. Tende, invece, a ridurre al minimo la loro portata, assumendo come fondative due premesse: che la legge è un comando, l’espressione di una volontà, pertanto non elasticizzabile, ma che è anche specifica nel suo prescrivere qualcosa, che perciò deve essere ridimensionata, ridotta a ciò che vi è espressamente voluto senza nessuna possibilità di estensione; che il Codice non è un sistema completo con qualche lacuna, ma, al contrario, è un sistema necessariamente incompleto. Dalle due premesse scaturisce il vincolo per l’interprete solo nei limiti del dettato espresso e specifico del comando, ma altresì la sua libertà in tutto il grande territorio dove il legislatore non è intervenuto o è intervenuto genericamente o confusamente. 25. La ventata giusliberistica: un modernismo giuridico Saleilles e Gény sono le vistose punte emergenti di un diffuso latente disagio, che, se in Francia appare limitato a un gruppo di giovani impazienti e brillanti, sta conquistando nell’area austro-tedesca, dagli anni Settanta in un crescendo continuo, le leve più agguerrite della scienza giuridica. E affiorano molteplici motivazioni: da un lato, un Codice invecchiato come quello austriaco o progetti di codificazione improntati all’astrattezza più marcata come in Germania; dall’altro lato, l’imperante concettualismo della Pandettistica ormai dominante anche a Vienna. È istruttiva, sotto questo profilo, la maturazione interiore del grande giurista tedesco Rudolf von Jhering (1818-1892), che, da una visione del diritto contrassegnata da astrattezza e purezza, è passato a una piena valorizzazione delle forze e degli interessi che premono su di esso dall’esterno orientandolo e plasmandolo. A ben vedere, il disagio aveva una comune radicazio-

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ne: l’eccessivo distacco che separa il diritto dei legislatori e degli scienziati da quello vivente; e anche una comune finalità da raggiungere: una effettiva storicità del diritto. Nel primo decennio del Novecento il cumulo di insofferenze prende la forma di un movimento, assai variegato per la diversità dei personaggi che lo compongono ma sostanzialmente unitario nella sua ispirazione di fondo, il ‘giusliberismo’, stringata espressione italiana che traduce le più distese indicazioni tedesche di Freirechtsbewegung e di Freirechtslehre, movimento del diritto libero, dottrina del diritto libero. Un movimento, dunque, una dottrina, non una scuola; si tratta, infatti, di scienziati ma in buona parte anche di pratici, giudici e avvocati, uniti soltanto da una sincera e appassionata volontà di rinnovamento. I suoi manifesti più sonori sono in parecchi scritti sparsi di un intelligente e cólto avvocato, Ernst Fuchs (18591929); nel saggio Libera scoperta del diritto e libera scienza del diritto scritto nel 1903 da Eugen Ehrlich (1862-1922), professore nel più remoto angolo orientale dell’Impero austro-ungarico e futuro protagonista di una scienza nuova, la Sociologia del diritto; nel libello arcifamoso di uno storico del diritto, Hermann Kantorowicz (1877-1940), La lotta per la scienza del diritto, risalente al 1906. La cifra essenziale del movimento può essere còlta assai facilmente se si pone attenzione alla insegna programmatica sotto la quale si raccolgono in Francia, in Germania, in Italia gli accesi cantori del nuovo verbo: modernisme juridique, juristischer Modernismus, modernismo giuridico, ossia una rinnovata visione del ruolo della legge, dei rapporti fra legge e diritto, del ruolo della interpretazione, soprattutto del ruolo dell’applicazione e, quindi, del giudice. Una visione in cui trovano sviluppo molti dei motivi presenti in Saleilles e in Gény. Certamente, non siamo di fronte a un messaggio anarcoide, come lo

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interpretarono – turbati e irritati dalle pagine accesamente polemiche dei giusliberisti – i giureconsulti benpensanti della maggioranza legalistica. Il succo del ripensamento giusliberistico nasceva infatti dalla sopravvalutazione fatta sino ad allora della legge come fonte esclusiva del diritto, dal culto indiscriminato della legge, dalla credenza che la legge potesse esprimere tutta la ricchezza e la complessità del diritto. Era questa legolatria che suscitava le ire dei giusliberisti, convinti che, in tal modo, si era contratto il diritto entro un soffocante apparecchio ortopedico, si era innaturalmente immobilizzata una realtà per sua natura mobilissima e la si era incredibilmente sacrificata in una operazione drasticamente riduttiva. Risibile appariva ai loro occhi la falsa credenza che tutti i problemi si fossero risolti con lo strumento taumaturgico del Codice, particolarmente con la pseudo-verità della sua completezza, nulla più che una marchiana menzogna a difesa del monopolio statale della produzione giuridica. Icastiche sono le pagine di Kantorowicz sull’articolo 4 del Codice Napoleone, inteso per quel che effettivamente volle essere, ossia una norma di chiusura, e per la falsa idea – proclamata ad arte dalla cultura legalista – che un Codice era un sistema organico completo e che, tutt’al più, si sarebbero potute ammettere alcune lacune facilmente colmabili ricorrendo a norme espresse all’interno dello stesso Codice. La verità vera ha un vólto esattamente contrario, e Kantorowicz ribatte con piglio impavido: «a viso aperto e con sicura fronte, noi possiamo affermare che nella legge le lacune non sono minori delle parole!». Il Codice, insomma, è tutto una lacuna, non solo per i suoi vuoti ma anche per le sue imprecisioni, per i suoi genericismi, per le sue insoddisfacenti approssimazioni. La legge è e non può non essere insufficiente; di conseguenza, non può essere lasciata sola; certamente, non deve essere cancellata ma più semplicemente affiancata

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dalla libera interpretazione di scienziati e dalla libera applicazione di giudici. Viene rivalutato, in modo particolare, il giudice, visto come garante della storicità del diritto, cioè della sua adesione alla dinamica della società, e il modello è individuato nel giudice inglese, vero motore del plasticissimo common law. È proprio sul ruolo del giudice che il giusliberismo prende le distanze dalla meccanicistica soluzione illuministica che lo vuole semplice macchina munita di ingranaggi unicamente logico-deduttivi. Al contrario, alla nuova riflessione la decisione giudiziale appare intessuta di volontà, di intuizione, di buonsenso, di sentimento del giusto, mentre l’equità del giudice non è più lo spettro pauroso dei foschi disegni legalistici. C’è al fondo del giusliberismo il recupero della dimensione valutativa dell’interpretazione/applicazione, il recupero della dimensione fattuale (cioè storica) del diritto, il recupero del primato dell’individuale/particolare quale specchio concreto dell’esperienza sull’astratto/generale che si risolve in un supremo artificio. 26. Solidarismo giuridico di fine Ottocento: le cosiddette «leggi sociali» La seconda metà dell’Ottocento vede in buona parte dell’Europa centro-occidentale (particolarmente in Inghilterra, in Germania e in Francia, tutte e tre ancora detentrici di un intatto impero coloniale) il trionfo del maturo capitalismo e la diffusione della sua manifestazione più tipica: la macro-impresa; la quale non è soltanto una organizzazione tendente alla maggior quantità di prodotto e di profitto strumentalizzando ai due fini mezzi tecnici e forza-lavoro, ma viene a realizzare due circostanze di notevole peso socio-giuridico. Costituisce, innanzi tutto, il primato della macchina sul soggetto lavoratore; in secondo luogo, provoca necessariamente la

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convivenza quotidiana e continuativa di una cospicua massa di soggetti lavoratori. La prima circostanza fa emergere in modo macroscopico ciò che, all’interno di una piccola impresa utilizzante ridotte strumentazioni tecniche, poteva restare fenomeno ridotto e facilmente occultabile: l’infortunio sul lavoro, la fragilità del soggetto umano a fronte della enormità della macchina, il problema della sicurezza sul luogo di lavoro. La seconda rappresenta per una moltitudine di sfruttati l’occasione di comunicare fra loro, di parteciparsi le proprie sofferenze e insofferenze, di cominciare a progettare lotte comuni, tanto che la grande impresa può considerarsi il luogo di elezione per il concreto avvìo di un movimento rivendicativo del quarto ‘stato’. Movimento che è uno dei fatti più salienti della storia europea negli ultimi decennii del secolo XIX, in un continuo avvicendamento di lotte e rivendicazioni da un lato, di repressioni anche brutali dall’altro. Fuori dell’orizzonte borghese (anzi, ferocemente contro l’ordine costituito) avanzano i movimenti autenticamente socialisti. In questo momento storico, hanno per noi uno scarso interesse perché scarsissima è la loro incidenza sul piano del diritto, ponendosi come portatori di un progetto eversivo basato sulla lotta di classe e proteso a cancellare l’intiero ordine borghese così come era uscito dalla Rivoluzione del 1789. Altro discorso è, invece, da fare per dei fermenti, che possono agevolmente cogliersi all’interno della trama di quell’ordine e che portano in esso rinnovamenti di qualche rilievo. Fermenti sì, ma certamente non socialistici, qualificabili piuttosto come solidaristici. Spieghiamoci meglio: buona parte della ufficialità borghese fa sua la scelta di una totale sordità di fronte alle nuove pretese e, conseguentemente, della contrapposizione frontale. Ma v’è anche chi pensa alla necessità di

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corrispondere (entro ben precisi limiti) alle attese e pretese del proletariato attenuando gli eccessivi squilibrii sociali e sostenendo un intervento dello Stato sul piano economico e sociale al fine di mitigare situazioni di troppo palese disagio. L’individualismo borghese accetta nel suo seno tracce di solidarietà verso la classe più bisognosa di aiuti. Dunque, nulla più che solidarismo. Tutto questo non poté non tradursi sul sistema delle fonti del diritto. Fino ad allora, l’ordinamento giuridico poteva contare su una fonte omni-valente, sulla legge madre del Codice, ma si trattava di norma cocciutamente progettata, realizzata e poi difesa come generale astratta rigida, tale da contemplare quel soggetto unico che non apparteneva alla storia europea ottocentesca ma piuttosto a un museo di modelli umani, norma inadatta a piegarsi alle esigenze di tempi e di circostanze particolari perché voluta e programmata in tutta la sua incapacità ad umiliarsi verso la bassa corte dei fatti quotidiani. Vi fu chi urlò di essere pago del vecchio Codice, vi fu chi cominciò a disegnare un Codice privato sociale costruito sui fatti e su creature carnali a differenza del museale Codice civile, e vi fu anche chi cominciò a parlare della necessità di ricorrere a ‘leggi speciali’, leggi cioè che non smentissero l’ossatura codicistica ma la integrassero e la specificassero. Lo strumento della legge speciale non era nuovo, anche se ne era stato fatto un uso parchissimo per non compromettere ed offuscare la centralità del Codice; ora, si trattava di dargli un ruolo ulteriore, e cioè di supplire alle deficienze della legge madre modificando alcune sue disposizioni. La garanzia per lo Stato mono-classe riposava nell’essere questi vagheggiati provvedimenti pur sempre delle leggi ben governate dalle mani del potere politico. I dibattiti parlamentari sono doviziosi nel mostrare molte sordità e poche aperture, arroccamenti e disponibilità. Sia pure con fatica, il solidarismo si fece stra-

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da e si tradusse in una fioritura – né ricca né esigua, più numerosa a partire dagli anni Settanta – di leggi speciali che, proprio per le loro finalità, sono correntemente chiamate «leggi sociali», cioè norme che esprimevano le istanze solidaristiche più urgenti. Istanze che potevano esser fatte proprie o da un parlamentare sensibile o da un membro del Governo, e divenire progetti di legge dalla vita lunga e tormentatissima, spesso destinati ad esiti abortivi. Ma potevano anche fare parte del programma paternalistico di uno Stato dai prevalenti connotati assolutistici. Emblematico è l’esempio della Germania bismarckiana, che, dal 1869 (quando si promulga per tutta la Confederazione germanica del Nord una Gewerbe Ordnung, una legge per l’industria e il lavoro), avvìa una fitta serie di interventi per tutti gli ultimi decennii del secolo. È significativo quello che è affermato nell’intendimento ufficiale del Governo proponente la legge 15 giugno 1883 sulla assicurazione per le malattie degli operai: «Lo Stato deve preoccuparsi, più di quanto ha fatto fino ad ora, dei suoi membri bisognosi. Non è questo soltanto un dovere imposto dall’umanità e dal cristianesimo, ma è un postulato necessario di politica conservatrice, allo scopo di far penetrare nelle classi senza fortuna, che sono le più numerose e le meno istruite, la convinzione che lo Stato è una istituzione benefica e indispensabile»41. Si direbbe che la ‘legge sociale’ è parte integrante dell’assolutismo illuminato, ed è da considerarsi eccellente strumento di conservazione, affermazione non della debolezza dello Stato che cede alla piazza, ma della sua forza; da siffatti provvedimenti, infatti, lo Stato imperiale germanico si aspetta una obbedienza più convinta da parte di tutti i sudditi. 41 B. Gabba, Trenta anni di legislazione sociale, Torino 1901, p. 50. In quest’opera, indubbiamente datata, può reperirsi un quadro dettagliato della legislazione sociale nei diversi Stati europei.

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Quali i contenuti di questa esuberanza normativa presente in Inghilterra come in Germania, in Francia come in Austria-Ungheria, Spagna, Belgio, per arrestarci agli ambienti più favorevoli? Elenchiamo, qui di seguito, i prevalenti: gli infortunii sul lavoro, il lavoro dei minori e delle donne, l’igiene e la sicurezza nelle officine, l’assicurazione obbligatoria per l’invalidità e la vecchiaia, le Casse di previdenza, le procedure di conciliazione e gli arbitrati nelle controversie fra padroni e dipendenti. Più sopra abbiamo accennato alle grandi imprese come a un fertilissimo terreno di cultura per il nuovo associazionismo operaio. Movimento spontaneo, temuto, perseguitato, compresso in ogni modo, rappresenta un incubo per un ordine borghese che si era impegnato a fondo nella cancellazione di ogni manifestazione associativa. Un popolo di cittadini tutti uguali aveva costituito un espediente doppiamente proficuo: era teoricamente gratificante anche per il povero; faceva scomparire ogni ingombro fra il singolo e lo Stato lasciando debole il socialmente debole, e quindi assolutamente innocuo. Dalla data del 1791, quando la legge Le Chapelier aveva fatto tabula rasa di ogni formazione sociale, si poteva parlare soltanto di individui solitarii, una solitudine che premiava l’abbiente e rendeva ancora più nudo il nullatenente. Era il trionfo dell’io individuale e la cancellazione dell’io collettivo, mentre la dimensione collettiva (immersione del singolo in strutture collettive) avrebbe costituito l’unico salvataggio per l’uomo del quarto ‘stato’, l’unica sua possibilità di abbandonare una uguaglianza astratta che non gli giovava, di contare, di supplire alle deficienze della sua inesistente individualità per il tramite della immersione nella concreta nicchia protettiva di un tessuto più ampio. Via via che ci si avvicina alla fine del secolo, contempliamo sempre più nettamente l’emergere di un io collettivo per l’uomo del quarto ‘stato’. Non potendo se-

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guire le diverse manifestazioni affioranti, ne segniamo almeno una, che riguarda la Francia, ossia l’ambiente politico più irriducibile nel culto delle venerabili scelte della Rivoluzione considerate come conquiste insuperabili di progresso: con la legge 21 marzo 1884 le associazioni professionali – anche operaie – possono formarsi liberamente senza autorizzazioni amministrative, vi si può liberamente aderire, ne viene riconosciuta la personalità giuridica. Un’ultima notazione: è questo anche il momento di consolidazione di un forte associazionismo cooperativistico. E leggi specifiche disciplinano le novità socio-economiche di cooperative e di mutue-assicuratrici. 27. Solidarismo giuridico di fine Ottocento: il cosiddetto «socialismo giuridico» Dunque, chiamiamola pure legislazione sociale, purché sia ben chiaro che siamo di fronte a leggi degli Stati con intenti puramente solidaristici. E sia altrettanto chiaro che, quando – tra Ottocento e Novecento – si parla spesso di «socialismo giuridico», si resta ben rinserrati all’interno di semplici variazioni dell’universo borghese e ben lontani da premesse, progettazioni, soluzioni socialistiche. I termini «socialismo» e «socialista» sono spesso usati, talora con disinvoltura, talora con un preciso sottofondo di scherno, generando non pochi equivoci. Era avvenuto in Germania, nei primi anni Settanta, quando ad Eisenach fu fondato, esattamente nel 1872, un Verein für Sozialpolitik, un’associazione per la politica sociale, punto d’incontro di un gruppo di professori universitarii di economia, qualificati come esponenti di un Kathedersozialismus42, socialismo della cattedra, mentre le 42

È il pubblicista liberale Heinrich Bernhard Oppenheim che conia

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loro istanze riformatrici non andavano oltre la richiesta di un deciso intervento dello Stato in campo economico al solo fine di ridurre l’eccessivo squilibrio fra capitale e lavoro. Lo stesso avviene, con qualificazione che circola in tutta Europa e in lingue diverse, per quanto attiene al socialismo giuridico. Ma quando? Come? E a proposito di chi? Se non andiamo errati, usarono per primi questa definizione – e con scopo dichiaratamente dileggiatorio – Friedrich Engels e Karl Kautsky, fedeli propagatori del nuovo verbo marxiano, proprio sul foglio del Partito, la «Neue Zeit», nel 1887, a proposito del processualista austriaco Anton Menger (1841-1906) e parlando di lui come esponente di uno Juristensozialismus; falso socialismo, di cui si facevano paladini taluni giuristi, i quali, in quanto giuristi, non potevano che distorcere e falsare il messaggio liberatorio proveniente dalle pagine di Marx e dei suoi seguaci43. Ma si usa tranquillamente in lingua italiana il sintagma ‘socialismo giuridico’ e in lingua francese quello di ‘socialisme juridique’. Vediamo di che si tratta, e vediamo le ragioni dell’ira di Engels e Kautsky. Il saggio di Menger, contro cui se la prendono, già lo conosciamo, ed è scritto in polemica con il primo progetto del BGB totalmente ispirato agli ideali pandettistici di purezza e astrattezza della scienza giuridica e del futuro Codice. È un saggio che costituisce il tassello di per la prima volta l’etichetta Kathedersozialismus, socialismo della cattedra, socialismo cattedratico, in un articolo apparso il 7 dicembre 1871 sulla «Nationalzeitung». 43 L’articolo di Engels e Kautsky in cui si parla di Juristensozialismus è in C. Marx, F. Engels, Werke, Berlin 1964, B. XXI, pp. 491 sgg. È, invece, intitolato Socialismo giuridico un saggio dell’economista italiano Achille Loria sulla rivista «La scienza del diritto privato» I, 1893. È intitolato Le socialisme juridique un saggio di André Mater su «La revue socialiste», XX, 1904.

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un’opera più articolata e complessa – quella, appunto, di Menger – che può ritenersi modello espressivo dei tanti contributi di cui i cosiddetti gius-socialisti costellano tra fine Ottocento e primi Novecento la letteratura giuridica europea44. Esaminando con un minimo di dettaglio le proposte mengeriane, si ha chiaro almeno il nucleo centrale del messaggio di tutto il movimento. Con questa precisazione essenziale: che si tratta di un movimento con un sottofondo comune ispiratore di indole solidaristica, ma non di una ‘scuola’, composto com’è di personaggi culturalmente assai diversificati. Le proposte vengono dall’interno dell’edificio borghese e si guardano bene dal demolirlo. Sono soltanto proposte modificative, che poggiano sulle strutture dello Stato e del diritto tardo-ottocenteschi e che hanno il dichiarato scopo di salvare e di conservare quelle strutture; si parte, in altre parole, dalla premessa che l’edificio è pieno di difetti ma che questi possono essere eliminati. Se qualcosa deve essere cancellato, è il diritto generale e astratto, che, giovando solo all’abbiente, diventa inevitabilmente un diritto di classe, il diritto di una minoranza; il diritto privato deve essere reso più ‘sociale’ ossia orientato dall’ideale di una maggiore giustizia sociale, fissando diritti sociali fondamentali, impedendo lo sfruttamento e sradicando le rendite parassitarie. Si capisce perché a Marx e ai socialisti tutto questo sembri semplicemente un Vulgärsozialismus, un socialismo involgarito, da strapazzo: innanzi tutto, perché è illusorio tentare un cambiamento puntando soltanto sulla distribuzione senza toccare il modo di produzione; in 44 Il saggio di Menger, che abbiamo già ricordato nel paragrafo 22, è: Das Bürgerliche Recht und die besitzlosen Volksklassen. Eine Kritik des Entwurfs eines Bürgerlichen Gesetzbuchs für das Deutsche Reich, pubblicato in volume per la prima volta a Tübingen nel 1890 (trad. it., Il diritto civile e il proletariato, Torino 1894).

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secondo luogo, perché è altrettanto illusorio operare il trapasso mediante il diritto, che è borghese e resta borghese. È assai lucido un socialista italiano, Claudio Treves, pubblicista e deputato al Parlamento nazionale, quando, sulla rivista di partito «Critica sociale», nel 1894 scrive: «Noi attendiamo la riforma del diritto privato da questo rigoglioso movimento dell’organizzazione operaia, che sale augusto e imponente dalle grandi assise internazionali del proletariato... A tutto questo l’opera dei giuristi non può aggiungere quasi nulla. Il socialismo non può venire che dall’opera degli interessati: però, ripetiamo, il movimento socialisteggiante che ha commosso i cultori del diritto e che ancora a quando a quando si fa sentire, è sterile»45. Parole più nette, più franche, più troncative non avrebbero potute essere scritte. Il cosiddetto «socialismo giuridico» appare a Treves come un atteggiamento sentimentale serpeggiante nel salotto buono dei giuristi. Forse fu anche questo, ma fu anche qualcosa d’altro: per taluni, un’abile strategia di conservazione, per taluni un generoso moto solidaristico. Certamente, non fu socialismo. Un merito va, comunque, riconosciuto al movimento: quella riscoperta dell’io collettivo – che proviene dalla organizzazione spontanea di auto-tutela del quarto ‘stato’ e che lo stesso legislatore borghese ha dovuto in qualche modo trangugiare come si trangugia un boccone amarissimo – si trasforma (e si nobilita) grazie ai gius-socialisti in oggetto di riflessione scientifica e si constata – ormai con soddisfazione – «l’affermazione del diritto collettivo»46. Non è poco, considerato che la dimensione collettiva era stata esecrata dalla cultura giuridica indivi45

C. Treves, Socialismo e diritto civile, in «Critica sociale», 1894. L’affirmation du droit collectif è il titolo dell’opera che il giurista lionese Emmanuel Levy pubblica a Parigi nel 1903. 46

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dualistica, e non a torto, perché minava alla base un edificio ammirevolmente ma artificiosamente costruito. 28. Alle origini della comparazione giuridica L’Ottocento è secolo di Stati, di leggi, di Codici, e reca ben scritto nella sua cifra più genuina il culto dello Stato, della legge, del Codice. L’Europa continentale ci appare, sotto il profilo politico e giuridico, un arcipelago in cui ciascuna isola è aggrappata alla propria insularità; il che non è smentito dal frequente utilizzo di qualche modello straniero nella redazione della singola legislazione nazionale (per esempio, del Codice Napoleone). Si vuol dire che l’Ottocento, proprio per questa sua cifra, non è l’ambiente storico più adatto al crescere e al diffondersi di una consapevolezza culturale che coglie nella comparazione giuridica il salvataggio di un diritto positivo, la ricchezza che gli prepara un futuro. Il Codice ha, infatti, assunto il significato di legge positiva nazionale, impegnando tutte le forze della cultura giuridica nazionale nell’esegesi, ed esegesi significa cartaceità del diritto, il diritto interamente contenuto in un testo autorevole, con giudici e maestri chiusi nel recinto di quel testo, un recinto senza aperture perché non gioverebbero al giurista, perché potrebbero solo distrarlo. Fino a che permane il culto rigoroso della legge e nel giurista l’atteggiamento esegetico, non ci possono essere grandi spazii per la comparazione, la quale è esigenza avvertita da singoli personaggi culturalmente curiosi e viventi in aree a diritto non codificato come l’Inghilterra (valga il grande nome di Henry Sumner Maine) e la Germania (valga quello di Joseph Kohler). Qualcosa si deve pur registrare anche in Francia, ma quasi esclusivamente sul ristretto piano della comparazione legislativa: nel 1869 – lo stesso anno in cui Henry Maine diventa docente ad Oxford di ‘Historical and Comparative Jurisprudence’

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– viene fondata a Parigi la ‘Société de législation comparée’ con il coevo varo di un foglio periodico. Perché la comparazione sia sentita come una imprescindibile necessità culturale del giurista, perché la cultura comparatistica possa essere considerata parte integrante del bagaglio normale del giurista/scienziato sopravanzante di parecchie spanne il semplice tecnico, occorrerà attendere il clima aperto degli anni Ottanta, che noi abbiamo già sommariamente disegnato parlando di Saleilles e di Gény. È, infatti, in questo contesto, dove giovani giuristi cominciano a essere insofferenti di statalismo e legalismo e dove il pluralismo culturale diventa esigenza di misurarsi con esperienze diverse, che la comparazione giuridica lascia il carattere episodico legato alla predilezione e vocazione di questo o quel personaggio, per assurgere a branca autonoma della scienza giuridica, con proprie organizzazioni a supporto della ricerca, con una propria collocazione nel piano di studii di una Facoltà giuridica. Dovrà passare ancora molto tempo per arrivare a quella presenza piena, che possiamo constatare oggi in una proiezione assolutamente mondiale, e ciò perché il positivismo giuridico, ossia la fallace convinzione che identifica il diritto nel comando della potestà suprema in un certo territorio, ha messo una sorta di paraocchi ai giuristi operanti nell’Europa dei Codici, limitando la loro attenzione alla norma vigente all’interno di precise frontiere politiche: ma l’itinerario della scienza del diritto comparato trova la sua origine concreta già nel contesto tardo-ottocentesco nel quale prendono forma le proposte provocatorie di Saleilles e di Gény. È soprattutto a Saleilles, alle sue insofferenze, alle sue intuizioni, alla sua ansia di scrollarsi di dosso il peso di un ottuso legalismo, che si deve parecchio in questa direzione. Al grande civilista borgognone la comparazione è congeniale: essa rappresenta per lui una necessità non

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rinunciabile, e vi si dedica con tutte le sue forze. Lo attrae il pianeta del common law ma soprattutto il non facile trapasso del diritto del Reich germanico da giurisprudenziale (Juristenrecht) a codificato, segue i progetti di Codice, è attratto dalla circostanza singolare di un’altissima riflessione scientifica tedesca che si trasforma in Codice e partecipa il complicato processo ai giuristi francesi in un complesso imponente di opere dove un diritto straniero viene posto in frizione dialettica con quello di casa propria: dapprima, sono saggi sulla teoria generale delle obbligazioni e sulle fonti del rapporto obbligatorio nel progetto di BGB, pubblicati nel «Bollettino» della Società di legislazione comparata (1888-89); poi, lo studio dell’atto giuridico nel BGB ormai confezionato (1901); poi, una introduzione allo studio del diritto civile germanico (1904). Saleilles fa, però, qualcosa di più, organizzando nel 1900, a Parigi, il primo Congresso internazionale di diritto comparato, dove tiene una relazione – fondativa per la nuova scienza – dedicata alla nozione e all’oggetto della scienza del diritto comparato e dove risalta il suo scopo lungimirante: comparare, accostare esperienze giuridiche diverse in vista di un possibile futuro diritto uniforme. Al novello diritto comparato Saleilles continuerà a contribuire con entusiasmo, scrivendo e insegnando: l’ultima sua grossa opera prima della morte prematura saranno proprio venticinque lezioni di introduzione a un corso di diritto civile comparato sulle persone giuridiche. Ma, ormai, la scienza comparatistica ha un suo alveo ben definito, e il Congresso parigino del 1900 ha servito da solida pietra angolare di un edificio in costruzione. Di lì a poco, Ernst Rabel (1874-1955), romanista, storico del diritto e civilista, fornirà un duplice basamento: organizzativo, creando nel 1916, presso l’Università di Monaco, un Istituto di diritto comparato; teorico, redi-

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gendo nel 1925 un raffinato breviario metodologico dove le intuizioni di Saleilles diventano un organico progetto scientifico. Ci sia consentito un ultimo accenno: in Francia, Edouard Lambert (1866-1947), uno dei giovani civilisti irrequieti degli anni Novanta (autore – nel 1893 – di una tesi dottorale sul controverso argomento del contratto a favore di terzi), sarà, su incarico di Saleilles, rapporteur général al Congresso del 1900, dedicandosi poi a edificare una robusta scienza comparatistica francese; oltre a molti contributi scientifici, si dovrà a lui la creazione, nel 1920, presso l’Università di Lione, di un Istituto di diritto comparato, il secondo dopo quello monacense di Rabel. A Rabel e a Lambert si debbono i primi grossi approcci comparativi con il pianeta del common law.

29. Alle origini del diritto del lavoro Credo che la intitolazione di questo paragrafo abbisogni di una spiegazione preliminare per non ingenerare equivoci. Le origini del cosiddetto «diritto del lavoro» sono abbastanza recenti, anche se quel complesso di energie fisiche e intellettuali che un soggetto spende nella vita quotidiana per garantirsi la sopravvivenza – il lavoro, appunto – è presenza che si perde nella notte dei tempi. Si ha, infatti, un diritto del lavoro, quando il fatto ‘lavoro’ – sia esso svolto in modo autonomo, sia alle dipendenze di altro soggetto fisico o giuridico – viene considerato in una sua specificità etica e sociale e, conseguentemente, anche giuridica; il che avviene soltanto alla fine del secolo XIX. Il Codice Napoleone, pedissequamente seguìto da tutti i Codici successivi, risolve il problema del lavoro subordinato ed autonomo grazie allo schema tecnico-giuridico della locazione; o, meglio, lo risolve soffocandolo e

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anzi vanificandolo. Vale la pena di soffermarsi su questo punto di grossa rilevanza storico-giuridica, affinché il lettore novizio si renda bene conto della portata socio-politica e giuridica di una scelta solo apparentemente di semplice carattere tecnico. Si tratta, al contrario, di una precisa strategia del diritto borghese, che riesuma antichi schemi tecnici del diritto romano. Milleottocento anni di storia sembrano essere passati invano, quando si constata il permanere pressoché immobile di soluzioni romane negli articoli 1708 e seguenti del Code civil. Recita l’articolo 1708, con il quale inizia il titolo dedicato al contratto di locazione: «vi sono due specie di contratti di locazione: quello delle cose e quello delle opere»47. Il primo è il contratto con cui il proprietario di un fondo (rustico o urbano), il cosiddetto locatore, lo offre in godimento a un altro soggetto (il cosiddetto conduttore) contro la prestazione di un canone. Il secondo è il contratto con cui il proprietario della propria forza-lavoro la offre in godimento a un altro contro la prestazione di una mercede. La sola differenza è che, nel secondo, il locatore è il contraente debole, il lavoratore, ma unico è il contratto e unico è lo schema tecnico-giuridico; si tratta, infatti, semplicemente di due specie di uno stesso genere contrattuale. Ed è semplicemente una cosa quel lavoro che è l’esclusivo patrimonio, l’esclusiva proprietà del nullatenente. La strategia dei Romani e dei moderni borghesi sottesa alla unitarietà del contratto di locazione è lampante: visione materialistica del lavoro, sua mercificazione nella riduzione a cosa; separazione fra lavoro e personalità del lavoratore, con il significato prevalente di togliergli ogni connotazione etica e sociale. Nei Codici borghesi non si parla di contratto di lavoro, come oggi, seppel47

Il testo italiano dell’articolo 1708 è quello della traduzione ufficiale del testo francese del Code Napoléon per il regno d’Italia (1806).

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lendo e vanificando questa dimensione nobile della persona umana entro il meccanismo neutro della locazione d’opere e svalutandola completamente; se il lavoro è soltanto una cosa, dovrà occuparsene il generico e omnicomprensivo diritto civile dove si aveva la beffa suprema di nobilitare il lavoratore a proprietario, anche se si trattava della miserevole proprietà delle proprie energie. Era, insomma, impensabile un diritto del lavoro, come lo intendiamo noi oggi, con una sua sostanziale autonomia. Aggiungiamo, per fugare possibili equivoci, che la prospettiva non cambia nemmeno nell’ultimo Codice con cui il secolo XIX si chiude, e cioè il germanico BGB. Se lì non si parla di locazione d’opere, ma di Dienstvertrag, contratto di servizio, è solo in omaggio a una tradizione endo-tedesca risalente legislativamente al settecentesco ALR prussiano, ma la sostanza non muta: lo schema contrattuale è costruito sul modello della locazione, e resta immutata la svalutazione borghese della realtà lavorativa. Un cambio di atteggiamento e, insieme, una visione più complessa cominciano a profilarsi, come abbiamo veduto in precedenti paragrafi, nelle ultime dècadi dell’Ottocento, quando si stagliano due circostanze nuove: i moti, anche violenti, del quarto stato e le prime capitolazioni del potere borghese concretizzate nei crescenti atti di ‘legislazione sociale’; una rinnovata coscienza in parecchi giovani giuristi, particolarmente in coloro che si fanno portatori di una visione solidaristica. Il diritto del lavoro nasce qui, e nasce assolutamente fuori dalle purezze e genericità dei Codici civili; nasce nelle rozze ‘impure’ fattualissime leggi sociali estorte alla borghesia imperante o, come nella Germania bismarckiana, paternalisticamente concesse da governi lungimiranti; nasce nella prassi quotidiana delle coalizioni di lavoratori, che riescono sempre più a imporsi; nasce nella riflessione di una consapevole scienza giuridica che cerca di definire

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tecnicamente le avvenute conquiste sociali. Per buona parte, il cosiddetto «diritto del lavoro» ha una matrice squisitamente extra-legislativa, che gli darà – durante tutto il corso del Novecento – quel vólto tipicissimo che tuttora conserva malgrado i ripetuti recenti tentativi genericizzanti. Due erano stati gli apporti più sostanziosi del solidarismo giuridico: l’affermata inidoneità della romana «locazione d’opere» a esprimere la complessità e la ricchezza del rapporto di lavoro; la configurazione, accanto all’io individuale (colonna portante del semplicissimo ordine borghese e garanzia della sua tranquillità), di un io collettivo (il lavoratore quale membro di una collettività organizzata che gli dava forza peso prestigio) come protagonista di un ordine – se non nuovo – almeno più complesso. È di grande rilievo il processo demolitorio della locazione d’opere proprio per il carattere che essa aveva assunto di modello mortificatore della dimensione ‘lavoro’. Soltanto se liberato dall’inchiodamento nella decrepita ma efficacemente conservativa tradizione romanistica il lavoro avrebbe potuto recuperare tutta la pluralità dei suoi valori e superare il processo di mortificazione a cui lo si era costretto. Il nostro diritto del lavoro può ritenersi nato unicamente quando il bozzolo della locatio operarum ha cominciato ad essere discusso e smantellato nel suo basamento e ne è stata apertamente mostrata la riposta valenza di abile strategia conservatrice. Tutto questo è indubitato, e rende incomprensibili recentissimi tentativi, in Italia, di rivalutare Lodovico Barassi (18731961), un civilista di stretta educazione romanistica che, in una sua grossa indagine su Il contratto di lavoro apparsa nel 1901, continua imperterrito a identificarlo con un rapporto squisitamente locativo e a ritenere soddisfacenti per il mondo sociale dell’ineunte secolo ventesimo le categorie del diritto romano.

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Un passo innanzi si fa, però, in quei primissimi anni del Novecento con l’opera di un giurista tedesco, Philipp Lotmar (1850-1922), un convinto solidarista che, dopo essersi formato quale romanista in diverse università germaniche, è dal 1888 professore di diritto romano a Berna. Egli pubblica, nel 1902, il primo volume di una amplissima indagine sul Contratto di lavoro nel diritto privato dell’Impero tedesco, nella quale è agevole notare un atteggiamento complesso che mira a un difficile risultato: diversità nella continuità. Spieghiamoci meglio. Convivono, confliggono ma anche tentano di armonizzarsi in lui il solidarista, il romanista e l’osservatore attento della realtà circostante del Reich germanico incarnata in una evolutissima società industriale; una capacità di osservazione – nuova in un giurista – che lo porta a valorizzare, accanto alle fonti tradizionali, disposizioni di contratti collettivi, ordinanze sindacali, decisioni di collegii arbitrali formati da giudici non togati, indagini di ispettorati del lavoro, inchieste tra lavoratori. Il risultato, che preme qui sottolineare, è quello di un corpo vivente che si sta liberando di una vecchia pelle ma che non ci riesce completamente: il contratto di lavoro è visto ancora profondamente inserito nel diritto privato come contratto di scambio (prestazione lavorativa contro retribuzione), ma con una sincera insoddisfazione del giurista per i vecchi e inidonei incasellamenti entro i tradizionali schemi della locazione e della vendita e con una altrettanto sincera ricerca di una sua tipicità. Deve essere segnalato l’emergere di almeno due punti fermi. Primo: il contratto di lavoro non può essere astratto dalle effettive situazioni socio-economiche in cui è chiamato ad operare; anzi, deve essere sempre esaminato e interpretato al centro di quella che Lotmar chiama la «faktische Umwelt», l’ambiente fattuale; osservatorio singolare per un personaggio dalla educazione pandettistica. Secondo: il contratto di lavoro non è una re-

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lazione contrattuale anonima, né il lavoro può essere ridotto entro una concezione meramente patrimoniale. Il lavoro è la stessa persona in azione, che impegna in esso non una dimensione patrimoniale ma squisitamente personale; il lavoro è parte essenziale della vita di quel soggetto in carne ed ossa che è il lavoratore. Ed è qui, in questo rapporto personalissimo – conclude Lotmar – la sua tipicità48. Non può essere omesso un altro riferimento. Philipp Lotmar si occupa a più riprese, a partire dal 1900, dei Tarifverträge, dei contratti di tariffa49, cioè degli embrioni di contratto collettivo già molto frequentati nella prassi sindacale tedesca. Egli se ne occupa in un’ottica ancora esclusivamente privatistica, riducendoli a contratti di scambio e inserendoli nella categoria privatistica della rappresentanza, ma è rilevante l’attenzione disinibita verso espressioni collettive condannate dalla tradizione pandettistica come manifestazioni di indole puramente sociologica. Il solidarista prevale – ma solo fino a un certo punto – sul romanista/civilista. Dove, al contrario, lo stacco si profila netto, è in un altro giurista tedesco, Hugo Sinzheimer (1875-1945), la cui opera è tutta proiettata verso il futuro, è un’analisi del presente percorsa da acuti e lungimiranti presagii di futuro. Lo stacco può avvenire grazie alla peculiare formazio48 P. Lotmar, Der Arbeitsvertrag nach dem Privatrecht des Deutschen Reiches, B. I, Leipzig 1902. Il riferimento alla faktische Umwelt è a p. 24 della Introduzione. Che il nucleo del contratto di lavoro sia «nicht ein Einsatz von Vermögen, sondern ein Einsatz der Person», vedi ivi, p. 8. 49 Il saggio del 1900 sui contratti di tariffa (Die Tarifverträge zwischen Arbeitgebern und Arbeitnehmern), insieme ad altri successivi sullo stesso tema, può ora leggersi in: Ph. Lotmar, Schriften zu Arbeitsrecht, Zivilrecht und Rechtsphilosophie, a cura di J. Rückert, Frankfurt am Main 1992. Il saggio del 1900 è stato parzialmente tradotto in italiano da Lorenzo Gaeta: I contratti di tariffa tra datori e prestatori di lavoro, in «Giornale di diritto del lavoro e relazioni industriali», VI (1984).

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ne di questo singolarissimo personaggio, che non è impacciato da ipoteche pandettistiche, ma ha trovato la sua affrancazione culturale nel clima aperto del giusliberismo tedesco e della sociologia del diritto di Ehrlich (che delle innovazioni giusliberistiche si nutre). È, infatti, la metodologia dello scienziato/giurista che in Sinzheimer muta sostanziosamente. Fuori dal solco condizionante del legalismo e del formalismo (due atteggiamenti sempre strettamente congiunti), egli rifiuta l’identificazione fra Stato e società, fra legge e diritto, richiamandosi invece alla nozione ehrlichiana di «diritto vivente», cioè di un diritto espresso immediatamente dalle forze sociali al di là degli apparati potestativi statuali, ma che non possiede una minore giuridicità delle norme provenienti da quegli apparati. Il contratto collettivo è manifestazione dell’autonomia dei gruppi sociali, che, in quanto autonomia, è produttiva di norme; il contratto collettivo deve, quindi, essere ricondotto nello schema dirompente di una Selbstgesetzgebung, di un’auto-normazione, mentre lo stesso diritto del lavoro non è più il diritto individuale ingabbiato dallo Stato nei suoi Codici, bensì un diritto sociale nascente dai gruppi autonomi in cui la società si articola. Capovolgendo la posizione di Lotmar, nella innovativa ottica di Sinzheimer, il contratto collettivo si trasforma nel korporative Arbeitsnormenvertrag, nel contratto corporativo normativo di lavoro, o, come lui lo definisce in un primo rivoluzionario saggio del 1907, in «un accordo fra un’associazione professionale di lavoratori, da un lato, ed un datore di lavoro (o un’associazione di datori di lavoro), dall’altro, contenente norme destinate a disciplinare il contenuto di futuri contratti (individuali) di lavoro». Contratto collettivo come contratto normativo, come contratto che diventa norma autoritaria lesiva delle

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autonomie individuali di singoli lavoratori perché si impone e si sostituisce alle loro individuali volontà. Una eresia e uno scandalo per l’individualismo giuridico borghese, ma Sinzheimer non fa che registrare il vento nuovo, che comincia a percorrere il Novecento, a squassare vecchi edificii, a scoprire nuovi sentieri.

30. Il diritto commerciale tra legislazione, scienza e prassi L’Ottocento è secolo di Codici. Di Codici civili, innanzi tutto, perché la civiltà borghese ha la necessità di scrivere su tavole indistruttibili il proprio breviario giuridico imperniato sulla proprietà individuale, sul contratto (parimente individuale), sull’atto di disposizione per causa di morte. Ma anche di Codici di commercio, con la ulteriore precisazione che – via via che il corso del secolo procede – il numero di questi esperimenti legislativi si infittisce. Il Codice di commercio, infatti, al contrario dell’astratto e vocazionalmente immobile sistema civilistico, è collegato agli interessi di un ceto professionale, ed è immerso nei fatti economici e soprattutto nel loro divenire rapidissimo; è, insomma, una veste giuridica ordinante costretta al mutamento dal sottostante sviluppo economico e tecnico. Il Code de commerce del 1807, terza tappa della imponente codificazione napoleonica, è opera legislativa di non poco rilievo. Certamente, non smentisce la vecchia alleanza con il potere politico già sostanzialmente siglata nella Ordonnance colbertiana: la realtà mercantile vi è considerata come facente parte della sfera privata del soggetto operatore, anche se è lo Stato ad occuparsene con lo strumento della legge, del Codice; è redatto da una commissione di pratici secondo una tradizione ormai consolidata; reca in sé ancora ben marcata l’impronta di un complesso di norme tutelatrici di interessi

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cetuali, come segnala la salda presenza di un tribunale speciale mercantile composto da giudici non-togati. Ma v’è in esso una scelta di fondo che mostra puntualmente una finalità ulteriore, e forse prevalente. La specialità del diritto commerciale rispetto alla generale legge civilistica risiede non già, come nella Ordonnance del 1673, sui caratteri tipici dei soggetti esercenti il commercio, bensì su una particolare realtà oggettiva che sono gli atti di commercio, ed è il commercio quale vitale dimensione economica dell’Impero francese che il Codice intende tutelare e promuovere. Se mai, c’è da aggiungere alcune notazioni: che questa dimensione è intesa in senso assai ristretto quasi per non togliere spazio alla legge madre, il Code civil, alla cui ombra il Code del 1807, con tutto il suo particolarismo, si pone; che il Codice è varato in un momento anteriore allo sviluppo industriale francese, e rispecchia una società ancora largamente incentrata sulla proprietà terriera e su un capitalismo strettamente commerciale; che, nell’itinerario di formazione, i giuristi del Consiglio di Stato eliminano parecchie soluzioni individuate dai redattori nella pratica degli affari e attenuano di parecchio il pregio di essere specchio d’una vita economica concreta. Pur con queste autolimitazioni, il Code de commerce costituì un modello per il Código de comercio spagnolo del 1829, per il Código comercial portoghese del 1833, per quello del Regno di Sardegna del 1842 e per quello italiano del 1865; anche se si trattò di un modello necessariamente provvisorio. Furono due le circostanze che ne provocarono l’inevitabile e precoce invecchiamento: il già accennato sviluppo economico e tecnico, nonché la massiccia industrializzazione che pervase l’Europa occidentale a partire dagli anni Quaranta; la vocazione universalistica del diritto commerciale, retaggio della sua origine nella prassi dei mercati europei medievali, che gli fece sentire stretta la proiezione statale e che lo portò

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a misurarsi sulle soluzioni che a uno stesso problema economico-giuridico si erano date o si stavano dando in contesti politici diversi. Circostanze che deteriorano presto il prodotto legislativo del 1807 e anche degli altri Codici emanati sulla sua orma, e che causano una moltiplicazione di leggi speciali modificative o integrative sui grandi temi delle società commerciali, dei titoli di credito, della protezione dei brevetti, dei diritti di banca e borsa, dovunque le innovazioni della vita economica pretendevano nuove invenzioni ordinative. In queste numerose leggi speciali – che orecchiano spesso quanto si è fatto (e si fa) in ordinamenti stranieri e rappresentano una prima concreta testimonianza di comparazione legislativa – si verifica l’esigenza del diritto commerciale di misurarsi sui fatti economici sensibilissimi agli sviluppi strutturali più che agli artificiosi progetti di un sovrano. Valgano due esempii specifici: lo strumento agile dello chèque desunto dal common law inglese e l’astrattezza della cambiale, frutto maturo della scienza e della legislazione germaniche, un’astrattezza che, liberando il titolo di credito dalla causa particolare sottostante, ne faceva una sorta di cartamoneta dei commercianti. Un Codice che si stacca su tutti gli altri è lo Allgemeine Deutsche Handelsgesetzbuch (ADHGB), il Codice generale commerciale tedesco del 1861. Fa sua la scelta di fondare la propria specialità su una realtà oggettiva tipica, gli atti di commercio. Ma questa, come sappiamo, non è una novità. Sono, invece, rimarchevoli altri caratteri specifici. Mentre l’unificazione giuridica civilistica è in Germania ancora lontana, questo Codice commerciale dimostra la sensibilità del ceto economicamente dominante a interpretare e favorire processi di unificazione politica sempre più ampii, quella unificazione, quei confini sempre più larghi, che sono lo spazio idoneo per la piena estrinsecazione dei traffici

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economici. Non solo; in assenza di un Codice civile (la decrepita consolidazione prussiana del 1794 è sostanzialmente inservibile) il tessuto connettivo dello ADHGB si allarga fino a ricomprendere istituti prettamente civilistici del campo dei contratti e delle obbligazioni ed è quindi una codificazione commerciale operante in un terreno assai vasto. Non solo; in presenza di una scienza privatistica possentemente costruttiva quale quella tedesca del secolo XIX, si appropria di parecchi dei suoi risultati affermandosi come il Codice di commercio teoricamente e tecnicamente più robusto, munito di uno sguardo aperto che, muovendo dalla prassi, non si lascia immiserire in un orizzonte esclusivamente pratico (un esempio: è dal grande serbatoio della riflessione pandettistica – già riversatosi sulla legge cambiaria del 1848 – che questo Codice desume il principio sopra ricordato della astrattezza cambiaria50). Una più complessa, più culturalmente ariosa, tecnica legislativa è agevole constatare anche in un Codice commerciale di fine secolo, quello italiano del 1882. Fondato anch’esso sulla nozione oggettiva di atti di commercio, amplia il proprio contenuto disciplinando istituti che, pur avendo una precisa origine nei traffici mercantili, vengono utilizzati anche in attività non commerciali, come le assicurazioni, le società anonime, la cambiale. Il diritto commerciale, proprio per la sua costante attenzione alla dimensione pratica ed effettiva, per la sua capacità di registrare e inglobare istituti nuovi di zecca o le modificazioni intervenute in istituti vecchi durante lo sviluppo della vita economica, e per la sua innata tendenza a guardare oltre le frontiere di uno Stato, assume 50 La riflessione scientifica fondamentale in tema di astrattezza cambiaria, che sistema una prassi già frequente nella esperienza quotidiana degli affari, è quella di C. Einert, Das Wechselrecht nach dem Bedürfnis des Wechselgeschäfts, Leipzig 1839 (rist. Aalen 1969).

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sempre più la configurazione di un presidio avanzato sia nella legislazione sia nella scienza. È una verità che sarà orgoglioso di conclamare il più grande commercialista tedesco dell’Ottocento, Levin Goldschmidt, in un suo vivace disegno storico: «il diritto civile generale non può mai innalzarsi a quella libertà e mobilità, e a quella applicabilità universale che un diritto adeguato ai bisogni del commercio necessariamente richiede»51. Anche se il collegamento con un ceto socialmente forte non potrà mai scomparire, c’è però da rilevare, in questi Codici di fine secolo, la consapevolezza che si attua con essi la lettura di un ordine obbiettivo; atteggiamento che esprime bene il legislatore spagnolo, quando, nella relazione introduttiva al Código de comercio del 1885, contempla lo stadio ultimo di un processo evolutivo che ha permesso al diritto commerciale di convertirsi «en un derecho propio e independiente, con principios fijos derivados del derecho natural y de la indole de las operaciones mercantiles»52. Momento essenziale di questo stadio è anche una riflessione scientifica che, lasciato il cantuccio appartato in cui veniva esiliata dalla sufficienza dei cultori del diritto civile, si afferma come scienza di pari dignità e prestigio. Segnaliamo due protagonisti di un siffatto risveglio scientifico, l’uno allievo dell’altro, Levin Goldschmidt (18291897) in Germania e Cesare Vivante (1855-1944) in Italia, ambedue portatori di un medesimo atteggiamento metodologico: la congiunta attenzione verso la storia degli istituti quale sicuro terreno di verifica di ciò che è effimero e di ciò che è duraturo, e verso la prassi economica quotidiana quale terreno fertile di nascite e di mu51 L. Goldschmidt, Universalgeschichte des Handelsrechts, Stuttgart 1891 (trad. it., Storia universale del diritto commerciale, Torino 1913, pp. 12-13). 52 La relazione al Código de comercio spagnolo del 1885 è citata da F. Tomas y Valiente, Manual de historia del derecho español, Madrid 19834, p. 518.

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tazioni continue. La storicità del diritto, se è una dimensione poco avvertita dal civilista di stampo pandettistico tutto immerso nella costruzione di una scienza pura, è invece avvertitissima dal commercialista.

31. La prima codificazione del diritto canonico nel 1917 Più sopra, abbiamo già constatato come la Chiesa romana, fin dall’inizio della sua vicenda storica, abbia preteso di costituirsi in ordinamento giuridico primario, cioè non derivante da nessuna terrena potestà ma dal Cristo quale divino legislatore, e di edificare un proprio diritto peculiarissimo, il diritto canonico; di questo abbiamo seguìto le tappe fondamentali della sua formazione durante tutto il millennio medievale. Nel corso dell’età moderna, anche se lo squasso della riforma protestante ha costretto la Chiesa a un rigido centralismo e a rinserrarsi in una struttura inflessibilmente gerarchica, le fonti del diritto canonico hanno mantenuto un carattere plurale e il tessuto del diritto canonico umano ha conservato quella elasticità che si conviene a un ordinamento dall’indole squisitamente pastorale: il principio della aequitas canonica continua a dominare incontrastato, né può essere altrimenti, trattandosi di un principio legato al fine superiore della salvezza delle anime; e continua il ruolo rilevantissimo dei giudici e dei maestri quali naturali operatori di equità, all’ombra di quel supremo giudice/legislatore/governatore che è il pontefice come Vicarius Christi. Per questo, a differenza di quanto abbiamo visto avvenire negli Stati dell’Europa continentale durante la modernità, i papi non hanno mai preteso di risolvere il diritto canonico in un complesso di leggi della autorità centrale. Quello che i canonisti chiamano ius vetus, diritto vecchio, e che si trascina stancamente fino al 1917,

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è una enorme plurisecolare sedimentazione di fonti legislative, dottrinali, giurisprudenziali; se vogliamo, è un ammasso caotico non molto dissimile dallo ius commune medievale e post-medievale. Né la Chiesa poteva prestare orecchio alla smania codicistica, che sapeva troppo di quell’Illuminismo e di quella Rivoluzione che essa aveva trovato quali feroci antagonisti sulla propria strada. Delle istanze di rinnovamento si ebbero nel 1870 in occasione del Concilio ecumenico Vaticano Primo, un’assemblea presto abortita a causa della conquista militare di Roma da parte delle truppe italiane, ma che ebbe il merito di permettere ai prelati della Chiesa universale di riunirsi e di portare collettivamente alla Curia Romana i messaggi provenienti dalle terre più remote. Cominciò qui a serpeggiare l’istanza di un diritto più certo e più chiaro, certezza e chiarezza che venivano invocate in nome della pastoralità del diritto canonico. Forse, anche la Chiesa romana doveva seriamente pensare a darsi una codificazione. E cominciarono anni di discussioni anche accese; e vi furono voci ostili, anche acremente ostili, che facevano valere il carattere essenziale della elasticità, insopprimibile perché in stretta connessione con la pastoralità che un Codice avrebbe sacrificato nella sua rigidezza. Prevalsero, alla fine, le motivazioni a favore: da un lato, e con parecchia ragione, l’esigenza di maggiore certezza e chiarezza nella disciplina normativa; dall’altro, un atteggiamento imitatorio verso un movimento che aveva conquistato, a fine Ottocento, tutti gli Stati dell’Europa continentale e rispetto al quale una rinuncia della Chiesa al Codice sapeva di umiliante inferiorità. Nel 1904 il pontefice Pio X ruppe gli indugii e avviò ufficialmente i lavori per la codificazione, nei quali ebbe un ruolo protagonistico Pietro Gasparri, eccellente giurista e docente di diritto canonico, che sarà – in ségui-

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to – più noto come segretario di Stato di Benedetto XV e di Pio XI e primattore nelle difficili trattative di conciliazione con il regno d’Italia concluse, nel 1929, con i cosiddetti Patti Lateranensi. Dopo poco più che un decennio, nel 1917, con la ‘costituzione apostolica’ Providentissima Mater Ecclesia (gli atti pontificii solenni sono contraddistinti dalle prime parole del testo ufficiale latino), Benedetto XV promulgò il primo Codex iuris canonici, esprimendo soddisfazione per l’ultimo frutto di quello che il pontefice amava ribadire come lo «ius ferendarum legum proprium ac nativum», cioè il diritto della Chiesa di produrre norme sue proprie, un diritto non concesso da potestà temporali, bensì nativo, originario. Che dire della codificazione canonica? Ebbe pregi e difetti, dando ragione sia ai favorevoli sia agli ostili. Si ebbe, finalmente, un testo certo e chiaro, maneggevole anche dall’ultimo parroco, ma il diritto canonico ne uscì irrigidito; il testo appare assai rigoroso sotto il profilo tecnico-giuridico, specchio fedele della indubbia dottrina di Gasparri; se mai, si deve dire che si ha una giuridicizzazione talora eccessiva della dimensione sacra e che l’impianto – ispirato alla tradizionale tripartizione sistematoria romana dell’ordine giuridico in persone/cose/azioni processuali – diventa inchiodante per realtà squisitamente religiose come i sacramenti, inseriti a forza nel libro terzo ‘delle cose’ che non sembra proprio il luogo più adatto a riceverli. Senza avere la possibilità di scendere in dettagli, un punto ci preme: la codificazione della Chiesa, a parte la ovvia specificità dei suoi contenuti, fu, sotto il profilo formale, imitazione servile di quella laica e quindi abdicativa dai caratteri bimillenarii assunti dalle regole giuridiche canoniche? Credo si debba rispondere che si tratta di un atto normativo che vive a suo modo, in assoluta tipicità, l’aspetto essenziale di ogni Codice moderno, e cioè la esclusività, il proporsi come norma esclusiva.

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Innanzi tutto, non guarda con superba sufficienza al passato come pretende ogni codificazione post-illuministica. La Chiesa codifica in perfetta continuità con la sua storia quasi bimillenaria, una storia che è considerata ricchezza del presente. Il canone 6 (il Codice è diviso non in articoli ma in ‘canoni’) valorizza espressamente il patrimonio giuridico del passato, gli attribuisce un grosso valore interpretativo e invita a utilizzarlo, a meno che non si sia in presenza di una regola del Codice specificamente innovativa e, pertanto, abrogativa di ogni regola pretèrita. Singolare è, in secondo luogo, come il Codex affronti nel canone 20 il problema arduo di ogni operazione codificatoria: le eventuali lacune nel sistema positivo. Dopo avere accennato al consueto rimedio dell’analogia, cioè al ricorso a norme aventi oggetto identico o similare e contenute nel Codice stesso, l’orizzonte giuridico si amplia indefinitamente: il giudice potrà riferirsi ai principii generali del diritto verificati alla luce dell’equità canonica, alla prassi della Curia Romana, alla opinione comune dei maestri di diritto. Due postille necessarie: la Chiesa ha diffidenza verso i principii generali che, se contemplati isolatamente, possono non tenere abbastanza conto della realtà particolare, delle circostanze particolari in cui un atto si è consumato, e chiede una loro verifica alla luce della equità canonica, di quella equità che è lo strumento di emersione del particolare in tutta la sua concretezza; la scienza – la scienza giuridica con le sue opinioni illuminate – permane fonte preziosa, e si perpetua in questo Codice novecentesco l’antica eredità del diritto comune medievale.

III

Itinerarii contemporanei Vecchi e nuovi modelli a confronto

1. Novecento giuridico: crisi dello Stato e riscoperta della complessità Chiamato a tenere il discorso inaugurale per l’anno accademico 1909-1910 nella Università di Pisa, un giovane e brillante cultore italiano del diritto pubblico, Santi Romano (1875-1947), lo intitolava senza mezzi termini Lo Stato moderno e la sua crisi; singolare franchezza per chi faceva del diritto costituzionale e amministrativo il proprio oggetto di studio e di insegnamento. Il giovane giurista era, però, da parecchi anni, l’osservatore attento di un processo avanzante che gli appariva nitidamente quale ‘eclissi’ dello Stato, una eclissi strettamente consequenziale alla incapacità di ordinare una realtà politico-sociale e giuridica sempre più complessa1. Liberatosi finalmente da occhiali deformanti, il castello del diritto borghese gli si profilava – in una visio1 Il discorso si può leggere in: Santi Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Milano 1969. Romano parla espressamente di «eclissi» a p. 9, mentre la denuncia del «semplicismo» è a p. 13.

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ne straordinariamente lucida – come una costruzione ammirevole ma artificiosa: era ridotto lo scenario a due protagonisti, il macro-individuo Stato e il micro-individuo soggetto/singolo, erano ridotte le fonti a due soltanto, la legge sul piano sociale e il contratto sul piano privato, era ridotta la società a una massa anonima di cittadini formalmente tutti uguali che subiva inerte e passiva i comandi di un potere centrale. E balzava agli occhi una metafisica dello Stato e dell’individuo, giacché, essendosi operata una netta separazione con la società, Stato e individuo galleggiavano isolati al di sopra di questa senza alcuna radicazione in essa. La sonora denuncia di Romano era contro un processo riduzionistico, che aveva elaborato un edificio assai armonico e assai semplice, ma che, ora, primi anni del secolo nuovo, si mostrava completamente antistorico. La semplicità era, invece, semplicismo, ossia una semplificazione forzosa priva di riscontri nella realtà e assai costrittiva del reale sviluppo socio/economico/giuridico rapidamente maturatosi soprattutto negli ultimi decennii dell’Ottocento. Nell’Europa continentale il paesaggio sociale si era parecchio rinnovato; e non c’era soltanto quel «rigoglioso movimento dell’organizzazione operaia» acclamato nel 1894 dal socialista italiano Claudio Treves; c’era un generale rigoglio di associazioni, nate e affermatesi spontaneamente, spesso contro i progetti dello Stato monoclasse, spesso represse, talora appena tollerate, ma che ormai erano presenze vive ed effettive, e che, nella diagnosi di Romano, costituivano il nucleo erosivo del decrepito (anche se ammirevole) edificio statuale disegnato dalla grande Rivoluzione in poi. La crisi consisteva nella perdita della compattezza, nella emersione di un io collettivo del cittadino che il potere borghese aveva da sempre ignorato riconoscendo in esso la minaccia più pericolosa, quell’io collettivo che frastagliava la compattez-

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za e che dava al cittadino nulla-tenente una cittadinanza più sostanziale, ottenuta però con il gruppo di appartenenza ed entro il gruppo. Si incrinavano, con questo processo incalzante, anche le due colonne portanti dell’edificio: la separazione nettissima fra la sfera del diritto pubblico e quella del diritto privato; la separazione nettissima fra il mondo del diritto e quello dei fatti. La modernità giuridica aveva rinverdito la remota divisione romana fra pubblico e privato pressoché cancellata dalla civiltà medievale: il ‘pubblico’ era totalmente rimesso nelle mani dello Stato e il ‘privato’ si restringeva ai rapporti fra individui. Ma la presenza di una terza dimensione, quella di un ‘collettivo’ diverso dallo Stato, scompigliava una dicotomia preziosa all’ordine borghese, il quale – non dimentichiamolo mai – si risolve in un acceso individualismo ma anche in un altrettanto acceso statalismo giacché l’individuo proprietario non può fare a meno di una protezione possente. La seconda colonna portante – il rigidissimo controllo della giuridicità da parte dello Stato, imponendo come diritto unicamente ciò che lo Stato vuole che sia diritto – è incrinata da un proliferare di fatti economici e sociali che corrispondono a esigenze nuove e che trovano osservanza da parte dei cittadini, prescindendo completamente dalla benedizione e appropriazione da parte del potere politico: fatti grezzi ma fatti osservati dalla comunità, e pertanto formanti già una giuridicità effettiva. E il risultato ultimo è la perdita di autorevolezza dello Stato, lo sfaldarsi del suo monopolio, il formarsi di due livelli di giuridicità, quello legale e quello della esperienza quotidiana, quello del diritto formale e quello del diritto vivente. È vero che i poteri politici, in tutta Europa, si trovano costretti – sia pure di malavoglia – a prendere atto della pesante situazione e a provvedervi con quelle leggi spe-

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ciali di cui abbiamo già parlato recuperando in un tessuto legislativo fatti emersi e consolidati nella pratica sociale, ma si assiste purtuttavia a una genesi estra-legislativa del diritto, che ci propone due livelli di formazione, talora l’uno (fattuale) in conflitto con l’altro (legale), con l’effetto finale della complicazione delle linee armoniche del vecchio paesaggio, con la perdita dell’artificiosa semplicità, con il recupero della complessità. La società aveva la sua rivincita sullo Stato. L’esempio del nascente ‘diritto del lavoro’ è addirittura emblematico: nasce con l’ostilità o, tutt’al più, con la tolleranza dello Stato mono-classe comprensibilmente affezionato alla decrepita locazione d’opere, e nasce nella prassi delle lotte sindacali e delle contrattazioni collettive, appena integrate da leggi speciali concesse con malavoglia dai detentori del potere. Al sommo di quel cielo metafisico, in cui abbiamo collocato lo Stato/persona e l’individuo astratto coniato dall’abile mitologia giusnaturalistica, sta il Codice, recante nei suoi articoli una modellistica sempre più smentita nella cruda effettività della vita quotidiana. Il Codice, legge madre, legge omni-valente, è sempre più lontano dal divenire sociale, mentre nel magma dell’esperienza giudici e avvocati si trovano a fare opera di supplenza in assenza di una parola del legislatore, diventano sempre più numerose le leggi speciali che integrano il Codice e, insieme, lo devitalizzano e lo esiliano, si affacciano fonti nuove (sentenze arbitrali di giudici di equità e contratti collettivi) immerse nella fattualità, una fattualità ripugnante per chi aveva contemplato orgoglioso il diritto puro dei pandettisti e dei Codici. Con la riscoperta della complessità del diritto, che scaturiva direttamente dalla complessità della società, si sanzionava la vittoria di questa. La scienza giuridica più lungimirante non esiterà a verificarlo: sarà lo stesso Santi Romano, che, nel 1918, ultimo anno di una immane trage-

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dia bellica, portando a conclusione le diagnosi del discorso inaugurale pisano e di numerosi scavi parziali, darà loro una veste scientifica in un denso saggio di robusta teoria generale del diritto, L’ordinamento giuridico2. In queste pagine trovava adeguata veste dottrinale la consapevolezza nuova del nuovo giurista: il diritto esprime la società prima che lo Stato. Se, durante la modernità, si è ridotto il diritto statalizzandolo, è giunta l’ora di un suo recupero all’ampio ventre materno della società. Contro il costringente monismo giuridico dell’età dei Codici occorre recuperare quel pluralismo giuridico che è in grado di permettere l’armonico divenire congiunto di società e diritto.

2. Corporativismi europei Corporativismo: ecco un altro termine stracolmo di equivoci e intorno al quale dobbiamo intenderci bene. Qui lo consideriamo in una accezione generica. È un atteggiamento di insoddisfazione per lo statalismo e l’individualismo moderni; è un recupero di tutta la complessità dell’ordine sociale e giuridico; è un disegno che – all’interno di quell’ordine – esalta, nella sua vitale funzione mediatrice fra Stato e individuo, il ruolo di ogni tipo di associazione/corporazione, strumento capace di incarnare il soggetto astratto in un tessuto concreto di relazioni e di avvicinare l’apparato di potere alla società. 2 L’ordinamento giuridico di Santi Romano, stampato originariamente a Pisa nel 1918, ha avuto una seconda edizione a Firenze nel 1946, preziosa perché curata dallo stesso autore che risponde alle critiche mossegli negli anni precedenti. Dell’opera di Romano esistono tre traduzioni: in lingua spagnola (El ordenamiento jurídico, trad. di S. e L. MartinRetortillo, Madrid 1963), in lingua francese (L’ordre juridique, trad. di L. François e P. Gothot, Paris 1975) e in lingua tedesca (Die Rechtsordnung, trad. di R. Schnur, Berlin 1975).

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In questa visuale, l’associazione/corporazione, proprio perché toglie astrattezza al soggetto singolo, diviene per ciò stesso la sua necessaria cellula protettiva, necessaria soprattutto per il soggetto socialmente ed economicamente debole: se il suo io individuale lo condanna a subire la violenza dei più forti, il suo io collettivo costituisce per lui un efficace salvataggio. Dopo le drastiche negazioni illuministiche e rivoluzionarie fatte proprie dall’ordinamento borghese, la seconda metà dell’Ottocento fu tempo di rigurgiti corporativi, e a un duplice livello, di prassi sociale e di progetti culturali. Tempo di associazionismi – come abbiamo già visto – mediante multiformi concretizzazioni che andavano dalle prime coalizioni operaie a formazioni politiche, assistenziali, cooperativistiche, dando vita a un fenomeno che combinava e differenziava gli anonimi soggetti uguali della cittadinanza borghese, e tendeva a spostare su queste nuove coagulazioni sociali ed economiche il perno della vita pubblica. Nella quale assumeva aspetti variissimi: strumenti di lotta e di emancipazione (come un sindacato), di conservazione di privilegii (come una corporazione professionale), di assistenza e di promozione (come una cooperativa), di culto religioso (come una confraternita). Accanto a questa dinamica spontanea di inarrestabili assestamenti pratici, a margine di una cultura ufficiale tenacemente avvinta a fondazioni statalistiche e individualistiche, si fanno sempre più consistenti dei ripensamenti che potremmo chiamare lato sensu corporativistici. In Germania il corporativismo è la battagliera insegna assunta contro i pandettisti dall’appartata ma virulenta corrente dei giuristi germanisti. Noi vi abbiamo precedentemente accennato parlando della polemica del germanista Otto von Gierke contro i progetti pandettistici del Bürgerliches Gesetzbuch, ma, ben oltre questa specifica contesa, assurge a contrassegno di una precisa tipicità

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culturale. Quando, a metà Ottocento, Georg von Beseler (1809-1888), il maestro di Gierke, scrive il definitivo programma germanistico nel suo libro famoso Volksrecht und Juristenrecht («Diritto popolare e diritto dei giuristi»)3, la contrapposizione è fra una tradizione romana sordamente individualistica e una tradizione germanica che si pretende dominata dal fenomeno associativo e dove protagonista è la Genossenschaft, ossia il raggruppamento sociale. E sarà la Genossenschaft la protagonista, fin nella intitolazione, della imponente ricostruzione fatta da Gierke del diritto della genuina tradizione germanica4: la battaglia non è contro un progetto di codice ma investe Gerber e Laband che, con la loro invenzione dello Stato/persona, avevano assunto a modello il soggetto di diritto privato della tradizione romana, cancellando la natura comunitaria e complessa dello Stato e precludendosi in tal modo di cogliere il suo reale substrato associativo. Nel 1889, un allievo di Gierke, Hugo Preuss (1866-1925), il futuro progettista dello Stato weimariano, tenterà concretamente il disegno di uno Stato/comunità dalla struttura spiccatamente corporativa5. Sempre in Germania, al di là dei giuristi, Albert Schäffle (1831-1903), un sociologo immerso nel culto delle trionfanti scienze biologiche, disegna la società come organismo complesso, dove rilevante è l’individuo sociale, 3

Beseler pubblica il suo saggio a Lipsia nel 1843. La colossale ricostruzione di Gierke è: Das Deutsche Genossenschaftsrecht, il cui volume primo (Rechtsgeschichte der deutschen Genossenschaft) appare a Berlin nel 1868 (rist. Graz 1954). Di questo primo volume esistono una traduzione francese a cura di J. De Pange e una inglese a cura di F. Maitland. 5 Il volume di Hugo Preuss, pubblicato a Berlino nel 1889, si intitola: Gemeinde, Staat, Reich als Gebietskörperschaften. Versuch einer deutschen Staatskonstruktion auf Grundlage der Genossenschaftstheorie (rist. Aalen 1964). Titolo programmatico, che vale la pena di tradurre per il lettore italiano: Comunità, Stato, Impero come corporazioni territoriali. Tentativo di costruzione di uno Stato tedesco sulla base della teoria associativa. 4

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che, unendosi ad altri, forma le strutture portanti, dove è impossibile separare il soggetto dal gruppo così come è impossibile separare la cellula biologica dal tessuto6. Senza lasciarsi soffocare da questo pesante biologismo, in Francia, il sociologo Émile Durkheim (1858-1917) ne raccoglieva il messaggio basilare: valorizzazione dei gruppi sociali quali essenziali strumenti di mediazione tra massa e potere. Ma il corporativismo doveva trovare altri terreni fertili di sviluppo, e in un campo ben diverso: quello del solidarismo sociale di matrice religiosa. Già negli anni Sessanta del secolo XIX si levava alta in questa direzione la voce autorevole di un membro della gerarchia cattolica tedesca, il vescovo di Magonza Wilhelm Emmanuel von Ketteler (1811-1877), e veniva affrontato direttamente il tema/problema dei rapporti fra ‘questione operaia’ e cristianesimo, con la precisa proposta di respingere le scelte individualistiche, riassumere l’idea di associazione come fondamento della società, puntando su un assetto corporativo depurato da antistoriche nostalgie e misurato sulle esigenze della società industriale di metà Ottocento7. L’idea suggestiva della mediazione corporativa, che permette di sfuggire alla eversione socialista così come alla conservazione borghese, avrà un’accoglienza calorosa all’interno del pensiero cattolico, sia al livello supremo del magistero papale con la enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), sia in chi tenta la realizzazione di uno Stato fondato sopra la cooperazione fra le 6 Di Albert Schäffle circolerà in Europa con grande successo una grossa opera, che fin nel titolo reca traccia del biologismo acuto dell’autore: Bau und Leben des socialen Körpers, Tübingen 1875-1878 (trad. it., Struttura e vita del corpo sociale. Saggio enciclopedico di una reale anatomia, fisiologia e psicologia della società umana con speciale riferimento all’economia sociale come scambio sociale di materia, Torino 1881). 7 Il vescovo Ketteler pubblica nel 1864 il saggio: Die Arbeiterfrage und das Christentum.

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parti sociali. Giuseppe Toniolo (1845-1918), economista e sociologo ben inserito nella ortodossia cattolica, non esita a identificare nella corporazione la soluzione del conflitto sociale, con in più il risultato positivo di evitare due rischi opposti ma ambedue parimente gravi, e cioè l’onnipotenza dello Stato e l’anarchia8. Ingenuità, utopia, strategie conservatrici, generosità solidaristiche si celano nelle vesti teoriche che coprono il ritorno corporativistico nel passaggio tra Ottocento e Novecento. In più, il corporativismo si dimostra come un grande vaso vuoto colmabile dai contenuti più diversi. Se nella lotta sociale, cementando le coalizioni dei soggetti deboli, si rivela strumento prezioso di affrancazione dando forma alle prime embrionali associazioni sindacali, tra non molto, nel terzo e quarto decennio del secolo XX, diventerà addirittura, per i motivi che esamineremo, l’ossatura economico-sociale di alcuni Stati totalitarii dell’Europa continentale. Converrà che si accenni qui a un fenomeno associativo, di cui si può parlare in questo paragrafo solo per l’accezione generica da noi data alla nozione di «corporativismi». Intendiamo alludere al partito politico; ed è un cenno necessario, anche se sommario, per il protagonismo che assumerà durante il secolo XX. È nel corso dell’Ottocento che un fenomeno di fazioni, di circoli, di movimenti prende forma di corpi sociali organizzati al fine di fare politica, organizzazioni di lotta tese alla conquista del potere, sorrette da una struttura gerarchica e dalla unitarietà di comando nelle mani di un capo. Sotto la spinta dell’allargamento del suffragio, dall’Inghilterra – 8 Di Giuseppe Toniolo si vedano i seguenti scritti più programmatici: Programma dei cattolici di fronte al socialismo (1894), Indirizzi e concetti sociali all’esordire del secolo XX (1900), La democrazia cristiana (1900), Provvedimenti sociali popolari (1902), ora in Id., Democrazia cristiana. Istituti e forme, Città del Vaticano 1951.

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dove si consolidano dopo il Reform Act del 1832 – i partiti politici aumentano di consistenza col trascorrere del tempo, lasciando il livello dei notabili di una società per trasformarsi a fine secolo in autentiche manifestazioni di massa. E così come avverrà per il corporativismo politico-economico, anche per il partito politico ci sarà una appropriazione da parte degli esperimenti totalitarii del Novecento subendo una greve metamorfosi e il pieno sconvolgimento delle linee assunte in seno alle democrazie parlamentari. La rilevanza di questo diffuso e variegato movimento, agli occhi dello storico del diritto, è soprattutto questa: lo scenario si fa molteplice, non più soltanto le individualità solitarie dello Stato e del soggetto singolo, ma anche il gruppo, tante collettività che permettono accanto all’io individuale la presenza di un io collettivo. La complessità sociale e giuridica veniva compiutamente recuperata. Credo che non si possa chiudere questo paragrafo senza provvedere a un ultimo accenno per un fenomeno che è lato sensu corporativo, giacché tende alla creazione di combinazioni volte a superare il semplice rapporto individuale fra un soggetto e un’azienda; ci riferiamo alla impresa, di cui si comincia a parlare nella Germania industriale dei primi anni del Novecento (Unternehmen) alla ricerca di nuovi moduli organizzativi della vita economica9. 9 Sulla «impresa» e sulla nascita di questa nozione nell’Europa del primo Novecento basti rinviare ai cenni da noi fatti in P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1960-1950, Milano 2000, pp. 191 sgg. È in questo momento che, dimostrando un’attenzione tutta nuova per la dinamica dei fatti economici, si parla di «diritto dell’economia». Si deve a un giurista tedesco sensibilissimo al mutamento socio-economico, Justus-Wilhelm Hedemann, la creazione presso l’Università di Jena, nell’immediato primo dopoguerra, di un Institut für Wirtschaftsrecht. Alla nuova disciplina lo stesso Hedemann avrebbe sùbito offerto una solida piattaforma scientifica: J.W. Hedemann, Grundzüge des Wirtschaftsrechts, Mannheim 1922.

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L’impresa è, infatti, una organizzazione unitaria di persone, beni e servizii vincolati al raggiungimento di scopi rilevanti sul piano socio-economico, una organizzazione entro la quale si attenuano le individualità del datore di lavoro e del prestatore di lavoro, dove la stessa proprietà è obbligata a servire un fine soprastante. Per la prima volta, a livello del diritto, si parla di organizzazione, una realtà sgradita all’individualismo economico moderno fondato sul soggetto e sui suoi rapporti individuali, mentre organizzazione significa un necessario coordinamento di individui e rapporti che può portare anche al loro pesante sacrificio.

3. La prima guerra mondiale e la sua incidenza nell’ordine giuridico europeo Gli anni a cavaliere fra i due secoli sono una operosa officina, dove, in coraggiose sperimentazioni, si indica chiaramente che stiamo lasciando il terreno sicuro delle certezze borghesi per inoltrarci in un terreno nuovo. Si esigono, pertanto, rinnovate invenzioni giuridiche idonee a ordinare uno sviluppo che è, allo stesso tempo, sociale economico tecnico. Il vólto di una nuova civiltà giuridica trova qui disegnati i suoi primi tratti. In questo intrecciarsi di forze storiche decisive per il mutamento, ha un ruolo assai incisivo un colossale e tragico evento bellico, la prima guerra mondiale, che investe l’intiero ordine giuridico scuotendolo violentemente. Il lettore potrà restare sorpreso di affermazioni tanto recise e tanto generali, convinto che una guerra, fatto formidabile sul piano politico, possa incidere a fondo sul piano giuridico soltanto nel ristretto campo del diritto internazionale. Varrà, dunque, la pena di attardarci un poco in proposito per fugare non ingiustificate perplessità.

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E cominciamo con una precisazione: la guerra, questa guerra così totale e così coinvolgente, così diversa da uno scontro settoriale per raddrizzare confini o occupare una fetta ulteriore di territorio, proprio perché è uno squasso che scuote l’intiero assetto politico europeo (e non solo), costringe gli Stati ad allentare il controllo conservativo del vecchio ordine giuridico e a permettere l’emersione a livello ufficiale, cioè legislativo, dei fermenti già serpeggianti nella prassi quotidiana. Al giurista, infatti, interessa una legislazione di guerra emanata all’insegna della eccezionalità; né si tratta di interventi sporadici ma di una cospicua serie di massicci atti legislativi spesso collegati da una intensa organicità (esemplari, sotto un simile profilo, quelli dell’Impero germanico). Si dirà: ma sono pur sempre interventi legati a una vicenda eccezionale e destinati a vanificarsi appena questa abbia termine. Non è così, e se ne accorgono i giuristi più sensibili, i quali guardano con attenzione al singolare fenomeno normativo e, lungi dal nutrire ripugnanza o indifferenza, discutono i singoli atti sulle principali riviste giuridiche dedicando apposite rubriche a ospitare le loro salutari discussioni. E si ha la consapevolezza che ci si trovi di fronte a una sorta di sipario strappato e che, attraverso la lacerazione, si possa intravedere un paesaggio nuovo e niente affatto effimero. Ha ragione un notevole e noto civilista italiano, Francesco Ferrara (1877-1941), commentatore acuto delle leggi italiane di guerra, a domandarsi se rappresentino «anomalie dettate dalle necessità ed opportunità del momento, o invece [...] germi di un diritto nuovo che matureranno nel lontano avvenire»; e ha ragione a rispondere senza esitazioni che «nelle grandi crisi [...] nuovi elementi si elaborano e fermentano nel conflitto, preparando una trasfigurazione ed una rigenerazione della vita avvenire», costituendo dunque la guerra «oc-

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casione per accelerare e maturare lo sviluppo di riforme giuridiche, come mezzo violento di evoluzione»10. Fatta questa prima necessaria precisazione, se ne impone sùbito un’altra: i temi, sui quali si affonda la lama tagliente della legislazione di guerra, sono tanti, ma ci preme di segnalarne almeno due, perché si identificano nei nuclei vitali del vecchio ordine giuridico borghese scaturito dalla rivoluzione francese e dalle codificazioni, e cioè quello delle fonti e quello del diritto civile, l’uno e l’altro appartenenti al sacrario più geloso di un diritto imperniato sul controllo strettissimo della produzione giuridica e fondato su un Codice civile quale sua sostanziale e sostanziosa Costituzione. Né fa meraviglia che in Germania, in Francia, in Italia siano soprattutto i civilisti ad affannarsi nel disquisirvi sopra. Limitiamoci a segnalare sommariamente le lacerazioni più profonde delle, fino allora indiscusse, certezze del diritto borghese e che appaiono – più o meno – delle costanti nella produzione normativa degli Stati coinvolti nel conflitto. Il potere esecutivo diventa il normale produttore di disposizioni aventi carattere legislativo e si espropria – di fatto – il ruolo intoccabile dei Parlamenti, anche se ciò avviene formalmente per delega parlamentare. Si costituiscono commissioni arbitrali quali organi di decisione rapida ed efficace e si prevedono criterii equitativi rimessi al prudente apprezzamento del giudice, rompendo l’immagine fino ad allora intatta dello iudex sub lege. Si arriva a potenziare il ruolo giuridico della donna, sia pure con la giustificazione dell’emergenza. Si attua un pesante intervento dello Stato nel cuore stesso del diritto civile. Per quanto concerne il diritto di proprietà, il 10

F. Ferrara, Diritto di guerra e diritto di pace (1918), ora in Scritti giuridici, vol. I, Milano 1954, pp. 70-71.

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proprietario subisce ingombranti limitazioni alla sua libertà. Per quanto riguarda la sfera contrattuale, si esonerano i debitori dall’adempimento della prestazione quando essa sia divenuta difficile; si attua la protezione del contraente economicamente debole (per esempio, il conduttore, con la proroga legale di tutte le locazioni), imponendo un principio socialmente doveroso in tempi di emergenza, ma mortalmente lesivo dell’uguaglianza formale delle parti nel contratto, che è uno dei cardini irrinunciabili della dogmatica giuridica borghese. Infine: il risarcimento dei danni di guerra, che, essendo relativo a danni provocati da un legittimo esercizio della potestà d’imperio dello Stato (appunto, la guerra), non trovava collocazione alcuna nella tradizionale concezione della responsabilità – subordinata, da sempre, alla colpa – ed esigeva una revisione fondamentale di quella concezione. Arrestiamoci qui, perché le notazioni precedenti ci segnalano a sufficienza quanto profondi siano gli effetti sul tessuto del diritto, addirittura del diritto civile. Ci basti solo concludere che in parecchi di questi atti normativi c’è un disegno embrionale di futuri sviluppi. La prima guerra mondiale si propone, dunque, allo storico del diritto come tappa rilevante di un itinerario in corso, come un futuro che si fa presente, l’evento che mette a nudo la crisi da tempo serpeggiante nel basso dell’esperienza, la ufficializza, la legalizza.

4. Il comunitarismo weimariano Comunitarismo weimariano; avverto la necessità di qualche spiegazione per il lettore digiuno. L’aggettivo «weimariano» è in palese riferimento alla città di Weimar, capitale del vecchio granducato di Sassonia-Weimar, dove risiedettero e morirono Goethe e Schiller e dove – anche per un ideale congiungimento con questi grandi pro-

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tagonisti della cultura germanica – si adunò nel 1919 l’Assemblea costituente chiamata a dare vita a un nuovo Reich repubblicano dopo il crollo rovinoso dell’Impero guglielmino. «Comunitarismo» fa, invece, riferimento ai caratteri della nuova struttura statuale, caratteri di assoluta tipicità che avviano un esperimento socio-politicogiuridico meritevole di una sosta da parte nostra, anche se effimero nella sua durata di soli quattordici anni. Attardiamoci un momento sulla Germania in quell’anno 1919: alle spalle c’è una immane tragedia bellica, in atto c’è un diffuso malessere sociale unito a una disastrosa crisi economica destinata sempre più ad aggravarsi a causa delle pesanti riparazioni imposte dal trattato di pace; circola ancora nell’aria il fermento non interamente spento delle cruente rivolte sovversive e, da oriente, si impone lo spettro della rivoluzione bolscevica perfettamente e sanguinosamente realizzata nel nucleo centrale dell’ex Impero zarista. L’Assemblea costituente, anche se molto eterogenea ed ideologicamente assai frammentata, riuscì faticosamente ad approdare a una soluzione: si sarebbe dovuto evitare la riesumazione di uno Stato di diritto secondo lo stampo liberale, come si sarebbe dovuto evitare la dittatura del proletariato proposta dal modello russo. Il ‘comunitarismo’ fu il risultato di compromesso tra le varie fazioni, ma fu anche la meta caldeggiata da quelle vigorose correnti corporativistiche tedesche che avevano piena cittadinanza nella stessa Assemblea. Una circostanza peculiare alla vicenda weimariana è, infatti, il ruolo decisivo che, accanto ai politici, hanno gli uomini di cultura e soprattutto i giuristi: aleggia la maestosa e suadente visione germanistica di Otto von Gierke, che sta vivendo gli ultimi anni della sua lunga vecchiaia11, e dominano le presenze in Assemblea e i contributi determinanti di due 11

Gierke sarebbe morto nel 1921.

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suoi allievi, Hugo Sinzheimer e Hugo Preuss, accesi e vittoriosi sostenitori (anche se con parecchie differenziazioni) di una costruzione statuale ‘comunitaristica’. Diamo un contenuto a questo aggettivo un po’ criptico: è una concezione pluralistica dello Stato quale comunità di comunità, lo Stato più come Volkstaat, Stato popolare, che come Rechtsstaat, Stato di diritto di conio liberale, dove Volk non si identifica con una massa anonima di cittadini tutti uguali, ma con una amplissima comunità di «uomini socializzati»12. Secondo quanto aveva scritto appena qualche anno prima, nel 1915, il grande padre Gierke, lo Stato veniva considerato «non tanto come un’associazione di individui uniti da un comune destino, ma come una associazione di individui già uniti in gruppi, che perseguivano ulteriori e più vaste finalità comuni»13. La democrazia weimariana è «democrazia collettiva»14, giacché sono le collettività che hanno uno speciale rilievo all’interno della macro-collettività statuale, e ce l’hanno perché l’idea basilare è la primazia dell’interesse collettivo su quello dei singoli individui. E lo Stato non è il contemplatore inerte dell’azione dei privati, bensì un organismo chiamato a intervenire particolarmente in ordine ai meccanismi della produzione. Ed è questo un segno di intensa tipicità storica, che marca il distacco rispetto all’assolutismo giuridico e all’individualismo be12 Di «uomo socializzato», Verbandmensch, parla Friedrich Naumann, uno dei protagonisti weimariani, in un intervento di straordinaria lucidità e progettualità in Assemblea: cfr. Verhandlungen der verfassunggebenden Deutschen Nationalversammlung (Aktenstück, n. 391), Berlin 1920, pp. 179-80. 13 O. von Gierke, Die Grundbegriffe des Staatsrechts und die neuesten Staatsrechtstheorien, Tübingen 1915 (nuova ed. Aalen 1973), p. 31. 14 L’espressione è di Ernst Fraenkel (1898-1975), allievo di Sinzheimer a Frankfurt, avvocato e sindacalista, in Kollektive Demokratie (1929), ora in Id., Arbeitsrecht und Politik. Quellentexte 1918-1933, a cura di T. Ramm, Berlin 1966.

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nedetti dalla Rivoluzione francese e dalle costruzioni borghesi ottocentesche. Il Reich inaugurato a Weimar è il tentativo di superare il netto dualismo tra governanti e governati, fra titolari del potere d’imperio e i sudditi chiamati all’obbedienza, un dualismo che l’artificiosa rappresentanza politica di invenzione liberale lasciava nella sua sostanza irrisolto. Certamente, le basi giusnaturalistiche, che avevano costituito il validissimo supporto delle conquiste borghesi, appaiono rimosse: il contrappunto e quasi la contrapposizione fra stato di natura e storia, su cui abbiamo tanto insistito in precedenti capitoli e su cui la civiltà borghese si era edificata, si risolve interamente in storia, rifiutando gli stantii apparati mitologici del giusnaturalismo e riducendo tutto al gioco perenne delle forze storiche che danno vita alla comunità umana e quindi allo Stato e alle comunità intermedie. Dalle accese discussioni in seno all’Assemblea costituente rimangono in eredità all’esperimento weimariano non poche delle vecchie ipoteche. Per esempio, in tema di diritti: accanto ai nuovi diritti del cittadino legati alla rinnovata dinamica sociale ed economica, che non lo as-traggono ma – al contrario – lo immergono in un tessuto di relazioni, rimangono affermati i vecchi diritti individuali della tradizione liberale. Per esempio, in tema di proprietà: si ribadisce la proprietà privata anche dei mezzi di produzione, ma la si inserisce in un reticolato di doveri che ne fanno una realtà assai lontana dal modello giusnaturalistico lockiano15. Dunque, parecchie novità, giacché la Costituzione weimariana intende esprimere ed esprime il proprio tem15 Vale la pena di ricordare la frase – famosissima e citatissima – con cui si chiude l’articolo 153 relativo alla proprietà: «Eigentum verpflichtet. Sein Gebrauch soll zugleich Dienst sein für das Gemeine Beste» (che può essere tradotta un po’ liberamente così: «La proprietà comporta dei doveri. Il suo uso deve riguardare anche il bene comune»).

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po storico, un tempo post-moderno; e, con la presa di coscienza delle novità, il coraggio di consolidarle nel testoguida di una intiera nazione. Ma, come si diceva, anche parecchie ipoteche della modernità borghese dietro la spinta delle forze politiche conservatrici presenti nell’Assemblea. Pertanto, anche un messaggio che soffre di ambiguità, quella ambiguità che condannerà a morte la creatura politico-sociale del 1919. Certamente, campeggia nella sua Costituzione un’idea di libertà, trasformata perché modellata dal vento nuovo che soffia nel primo Novecento, non una dimensione pre-statuale, come nel vecchio artificiosissimo salvataggio giusnaturalistico dell’individuo solitario, bensì una libertà sociale nel suo stretto rapporto con gli altri in seno alle comunità particolari e alla comunità generale. E campeggia un pernio tutto nuovo della società: non più la proprietà e il soggetto proprietario, ma il lavoro e il soggetto lavoratore, ed è centrale un diritto – quello al lavoro – che le carte costituzionali liberali non avevano ritenuto e – nella loro ottica individualistica e proprietaria – non avevano potuto considerare. E campeggia, tra le comunità intermedie, appena dopo la famiglia, il sindacato, strumento non di sovversione ma di razionalizzazione secondo la visione alta di Sinzheimer, collaboratore dello Stato, dotato di pari diritti e doveri, capace di auto-normazione16 nel meccanismo dinamico della contrattazione collettiva. E campeggiano, infine, i «consigli di azienda» previsti nell’articolo 165, prima forma di democrazia industriale. Il disegno utopico weimariano doveva, però, fare i conti con le contraddizioni conseguenti alla propria ambiguità, così come la stessa Costituzione aveva dovuto fa16 «Auto-normazione», Selbstgesetzgebung, del sindacato è l’idea forte di Sinzheimer a presidio della posizione del sindacato entro lo Stato/comunità.

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re i conti con un Parlamento frastagliato e diviso: al conclamato diritto al lavoro non corrispondevano indicazioni ferme per garantirne l’effettività; il sindacato si riduceva ad essere una semplice Körperschaft dello Stato/comunità, i consigli di azienda restavano creature informi di fronte alla proprietà privata dei mezzi di produzione. Un punto va segnalato e sottolineato al lettore, in conclusione di questo sguardo sommario, riprendendo e sviluppando accenni fatti in precedenza. La Costituzione weimariana del 1919 inaugura una fase nuova nella storia del costituzionalismo, proponendosi non più come ‘carta dei diritti’, catalogo di indole filosofico-politica recante l’elenco di situazioni del generico cittadino che lo Stato era tenuto a rispettare, bensì come autentica Costituzione, norma giuridica rispecchiante e disciplinante la complessità di una società nazionale, specchio fedele di essa, interpretazione dei suoi valori storici e traduzione di questi in principii e regole di vita. A Weimar si poté realizzare, perché si trattò della prima compiuta realizzazione di uno Stato pluri-classe in luogo del vecchio Stato mono-classe incapace – per la sua stessa strutturazione – di percepire la totalità e la complessità. È per questa contemplazione aperta, scevra da assolutizzanti pregiudizii classisti, che il soggetto ha perduto la sua astrattezza, è ormai un soggetto incarnato nella esperienza, e sono più le disuguaglianze sociali nella loro fattualità a raccogliere l’attenzione del Costituente anziché l’uguaglianza formale e museale della rivoluzione del 1789. Diamo appena uno sguardo al suo interiore tessuto per renderci conto della sua novità. Dopo una Parte prima dedicata a «struttura e cómpiti del Reich» (Aufbau und Aufgaben des Reichs) sta una Parte seconda rivolta a individuare «i diritti e i doveri fondamentali dei tedeschi» (Grundrechte und Grundpflichten der Deutschen), con questa eloquente ripartizione in «capi», dei quali il primo con-

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cerne «l’individuo» (Die Einzelperson), il secondo «la vita collettiva» (Das Gemeinschaftsleben), il terzo «religione e associazioni religiose» (Religion und Religionsgesellschaften), il quarto «educazione e istruzione» (Bildung und Schule), il quinto «la vita economica» (Das Wirtschaftsleben). Il lettore può misurare già da questa sommaria elencazione la distanza fra l’esperimento weimariano e le ‘carte’ del primo costituzionalismo. 5. L’Unione Sovietica e la costruzione di un diritto socialista Nelle nostre pagine non abbiamo mai fatto menzione della Russia, un pianeta che, per tutta l’età medievale e moderna, resta appartato nelle estreme propaggini orientali dell’Europa geografica, prevalentemente tributario – dapprima – di influssi bizantini provenienti dal sud e assumendo – poi – una identità sua propria che la fede cristiana ortodossa, intimamente compenetrata con la struttura statuale, contribuiva a separare dalla koinè occidentale europea. Anche la penetrazione di correnti illuministiche, verificàtasi nella seconda metà del Settecento durante il regno di Caterina II, una principessa tedesca divenuta imperatrice, costituì una semplice parentesi, tanto che l’Impero russo, malgrado le rivolte e le pseudo-riforme dei primi anni del Novecento, si presenta nella sua veste di autocrazia di stampo orientale fino alle rivoluzioni del 1917. In questo momento estremo dello Stato zarista, l’ordine giuridico si presenta a due strati: un diritto popolare di formazione consuetudinaria, di fatto tollerato dal regime autoritario, e un diritto legislativo ufficiale consolidato, durante la prima metà dell’Ottocento, nel cosiddetto Corpo delle leggi (Svod Zakonov Rossijskoj Imperii), una enorme raccolta, il cui tomo X è dedicato alle leggi civili e che appare a noi come una consolidazione senza conseguire quei caratteri di razionalità, sistematicità,

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esclusività tipici di una autentica codificazione. È significativo notare che il suo redattore, Michail Michailovicˇ Speranskij (1772-1839), ministro degli zar Alessandro I e Nicola I, si gloriava di puntualizzarne l’assoluta originalità endo-russa affermando che «la nostra legislazione ha trovato in se stessa le sue fonti»17. Poi, la burrasca squassante, demolitoria, radicale, della seconda rivoluzione, quella bolscevica dell’ottobre 1917. Radicale perché si proponeva quale sovversione totale del vecchio ordine socio-politico per sostituirvi un ordine nuovo nascente non da lotte politiche o movimenti di piazza, bensì da una visione nuova della storia e della società (quella di Marx) che pretendeva di fondarsi su un’analisi scientificamente corretta. Le lotte e i movimenti nelle piazze ci furono (e sanguinosissimi), ma traevano forza straordinaria da una filosofia che si era fatta ideologia e si era alfine tradotta in un progetto di civile convivenza. Il demiurgo del radicale sovvertimento russo fu Vladimir Il’icˇ Lenin (1870-1924), non un filosofo anche se filosoficamente assai nutrito, bensì un formidabile uomo d’azione che seppe trasformare un messaggio filosofico in progetto di organizzazione politica e sociale. Stato e rivoluzione, il saggio che egli elaborò proprio nell’estate precedente la rivoluzione di ottobre, può considerarsi il breviario per la costruzione della nuova macchina statuale in sostituzione dell’inservibile rottame dell’edificio politico zarista. La finalità del rivolgimento in atto è la instaurazione della dittatura del proletariato, proposta da Lenin come soluzione democratica perché tutelativa degli interessi della stragrande maggioranza del popolo; lo Stato proletario è, infatti, necessariamente democratico giacché riversa tutte le sue forze al servizio del proletariato. 17

La frase del ministro Speranskij può leggersi, entro un più ampio contesto, in: G. Ajani, Diritto dell’Europa orientale, Torino 1996, p. 67.

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Al centro del progetto, nucleo portante di esso, è il partito, il partito unico, il partito comunista, inteso da Lenin come la forma politica della coscienza di classe del proletariato, come la realtà globale dove individuo e massa si fondono dando vita a una grande unità organica. Un partito che ha una precisa e indilazionabile vocazione: quella di creare uno Stato a sua immagine. Si potrebbe addirittura dire: di farsi Stato. Il partito non si identifica totalmente nello Stato, che è però lo strumento insostituibile nelle sue mani, è l’apparato di potere munito di una intensa capacità coercitiva, della quale il partito non può fare a meno per realizzare i proprii progetti. Ed ecco profilarsi nitidamente il disegno della palingenesi sovietica della società russa: partito unico di massa; ruolo determinante del capo; ideologia rigorosamente unitaria mirante a una trasformazione della società; politicizzazione integrale dei rapporti sociali; controllo dei comportamenti individuali; sottoposizione dello Stato al partito e funzione strumentale dello Stato alla ideologia marxista-leninista incarnata nel partito; subordinazione del diritto alla politica rivoluzionaria decisa dal partito. Seguiamo, con sguardo sommario, le tappe della storia giuridica all’interno della nuova realtà sovietica. Si hanno, dapprima, gli anni del cosiddetto «comunismo di guerra» (1918-1921): il diritto si concreta in decisioni del partito rivoluzionario, che prendono la forma o di decreti di organi statali o di deliberazioni degli organi supremi del partito stesso, unitamente a un’attività di libera creazione del diritto da parte di giudici non-giuristi, di provata fede rivoluzionaria e portatori di una coscienza giuridica rivoluzionaria. Seguono gli anni della cosiddetta NEP (Nuova economia politica) (1922-1928), con l’esigenza – nel 1923 – di sospendere l’irruenta marcia rivoluzionaria ricercando un compromesso fra l’iniziativa economica dello Sta-

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to e quella dei privati. Si ha un rintuzzamento della coscienza giuridica rivoluzionaria a fonte ausiliaria e si hanno diverse codificazioni nelle diverse repubbliche dell’Unione, a cominciare dal Codice civile della Repubblica socialista federativa sovietica russa del 1923, codici che risentono della influenza dei codici borghesi. Infine, gli anni della dittatura staliniana (1929-1953) con l’impegno per la costruzione di un compatto diritto statale, con il ritorno a una concezione normativistica e unitaria – ossia statalistica – del diritto sovietico. Il giurista che coadiuvò il dittatore in questa operazione fu, soprattutto negli anni Trenta, Andreij Vysˇinskij (18831954), maggiormente conosciuto dal grande pubblico come il futuro ministro degli Affari esteri dell’URSS: il diritto si riduce all’imperatività statuale quale conseguenza dell’assoluto primato della volontà politica a cui il diritto è asservito, volontà espressa dal partito e manifestata nella forma della legge dal Soviet supremo, ossia dal Parlamento federale. In Vysˇinskij ritorna intensamente con chiari scopi apologetici e propagandistici il tema della originalità del diritto sovietico, ripetendo a cento e più anni di distanza le declamazioni nello stesso senso del ministro zarista Speranskij e confermando un atteggiamento xenofobo quale costante tipica della cultura russa. È, invece, facilmente rilevabile l’adozione non esplicita ma sostanziale di schemi mentali, categorie logiche, soluzioni tecniche proprii della scienza giuridica occidentale. Immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, quale conseguenza dell’inghiottimento di molti Stati dell’Europa orientale nell’orbita politica ed economica dell’URSS, il modello giuridico sovietico vi fu, con poche variazioni, esportato, e si venne a costituire un’area giuridica nella quale gli studiosi di diritto comparato riconobbero, accanto alle aree di civil law e di common law, uno dei grandi sistemi giuridici con forte tipi-

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cità di scelte. Tutto ciò, dai primi anni Novanta del secolo scorso, è diventato soltanto un capitolo della storia del diritto contemporaneo in seguito al ripristino in tutta l’Europa orientale di democrazie parlamentari e pluri-partitiche e alla conseguente cancellazione di quel modello.

6. Il diritto nei regimi totalitarii italiano e tedesco Il Novecento è tempo di totalitarismi. Dopo il primo esperimento russo attuante la dittatura del proletariato secondo il progetto marxista-leninista, altri si susseguono in Europa, di stampo diverso, ma agguagliabili nel risultato di dare vita a una realtà politico-giuridica totalitaria, dove spiccano alcuni fondamentali caratteri comuni già segnalati nel precedente capitolo: imposizione di una ideologia unitaria; esistenza di un partito unico di massa; ruolo determinante del capo; politicizzazione integrale dei rapporti sociali; controllo dei comportamenti sociali dei singoli individui. Diamo qui attenzione all’esperimento fascista in Italia e a quello nazional-socialista in Germania, sia per la loro rilevanza storica, ma sia anche perché in altri paesi (per esempio, il Portogallo salazariano e la Spagna franchista) si assunse a modello quanto si era consolidato in Italia. a) Il fascismo, che intende sostituirsi all’anarchia del regime liberale con i suoi anacronistici individualismi e che si compiace di evitare la dittatura comunistica di tipo sovietico, tende – con il plauso dei ceti economicamente forti – alla creazione di uno Stato autoritario, ma, avendo conquistato il potere rispettando le regole della correttezza costituzionale, procede tenendo ben fissa sul proprio vólto la maschera del rispetto formale dei procedimenti della tradizione. Sul piano formale, si continua entro l’alveo del vecchio Stato di diritto almeno nel-

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la persistente riaffermazione del primato della legge; sul piano sostanziale si pone, però, fine alla pluralità dei partiti, si avvìa un’opera capillare di organizzazione e controllo delle masse, si creano istituzioni di fatto lesive dei diritti fondamentali del cittadino come il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Anche in Italia la novità radicale è il partito unico, il Partito nazionale fascista, tramite necessario e ineliminabile strumento di mediazione fra i singoli soggetti e lo Stato, luogo di elezione per la milizia e l’impegno politico del singolo. È il partito che, grazie a organismi paramilitari, alle diverse organizzazioni fasciste di massa, alle organizzazioni del dopolavoro, ordina la società, forma la futura classe dirigente e consente allo Stato di essere pienamente l’incarnazione della nazione. Lo Stato raggiunge il suo scopo di attuare l’interesse nazionale unicamente grazie al partito, ed è evidente la linea di tendenza che porta, durante il ventennio del regime, a una sua sempre più ingombrante gigantizzazione, con due tappe fondamentali. Il 1928, quando, con la ‘costituzionalizzazione’ del Gran Consiglio del Fascismo, organo supremo del partito, si ha la coincidenza tra le funzioni di capo del partito e capo del Governo; il 1939, quando si istituisce in luogo della Camera dei deputati la Camera dei fasci e delle corporazioni, cancellando ogni residuo del vecchio regime parlamentare. Sul piano del diritto vige il principio di stretta legalità, anche se talora le leggi assumono dei contenuti aberranti e ripugnanti come è nelle cosiddette leggi razziali del 1938. E il regime si gloria di farsi legislatore, ponendo in essere interventi coraggiosi com’è per parecchi interventi pubblici in economia o per la bonifica integrale, ma soprattutto promovendo e realizzando una grande codificazione a largo raggio: saranno nel 1931 i Codici penale e di procedura penale, nel 1942 il Codice civile, di procedura civile, della navigazione. Si tratta di reda-

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zioni legislative che, liberate dai non molti incuneamenti fascisti, hanno attraversato indenni il crollo del regime e, in parte, sono tuttora vigenti nella Repubblica italiana. Una vitalità e longevità che è segno indubbio della loro validità. Il Codice civile entrato in vigore nel 1942 (che è codice unico privatistico unificante in sé anche il terreno riservato del vecchio Codice di commercio), redatto da una commissione formata dai più insigni giuristi italiani, rappresenta la traduzione in disciplina legislativa delle più rilevanti acquisizioni scientifiche del Novecento giuridico e costituisce un grosso passo in avanti rispetto all’individualistico e francesizzante Codice del 1865. Di particolarissimo significato il libro quinto, Del lavoro, che appare – per un verso – dominato da un’attenzione nuova verso la dimensione ‘lavoro’, e – per un altro verso – imperniato sullo schema organizzativo della impresa messo a punto, come già sappiamo, dalle più innovative correnti commercialistiche del Novecento europeo. Un fenomeno che va segnalato è l’esistenza in seno e intorno al regime, accanto ai soliti servi ossequenti, di una scienza giuridica di altissima qualità, impegnata innanzi tutto nella rigorosa scientificità del proprio discorso; e ce ne dà una riprova lampante, quando, a Pisa, nel 1940, in un convegno destinato a discutere il proposito del ministro fascista della giustizia di portare all’approvazione del Gran Consiglio del Fascismo un complesso di principii generali dell’ordinamento giuridico fascista da premettere al nuovo Codice civile in via di elaborazione, ha il coraggio di rispondere negativamente – nella voce delle sue personalità più significative – percependo che si sarebbe introdotto nel breviario giuridico della vita quotidiana degli italiani quasi un corpo estraneo nella sua acuta politicità, nel suo scoperto legame con l’ideologia del regime. Nei Codici, particolarmente nei Codici civile, processual-civile e della navigazione, fu

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un’altissima riflessione scientifica a trasformarsi in sistema normativo. Ma ci fu una scelta del fascismo, che va puntualizzata perché rappresenta un elemento di tipicità della storia del diritto italiano nel Novecento: quella di un assetto corporativistico della società e dell’economia, ossia un assetto che, diffidando delle energie individuali solitarie, faceva pernio sulle collettività organizzate e sugli interessi di cui queste erano portatrici, tutte composte e armonizzate con l’incombente interesse nazionale; faceva pernio sull’individuo così come si esprime all’interno dei varii raggruppamenti. Sul piano socio-politico, il corporativismo doveva servire al superamento del dualismo fra società e Stato; sul piano economico, a una cooperazione fra le diverse categorie produttive. Il programma fascista era stato fin dall’inizio chiarissimo, e si erano sonoramente conclamati i due nemici da combattere, il liberalismo individualista e il bolscevismo collettivista. La scelta corporativistica, che il regime farà ufficialmente con una complessa legge del 1926, è pertanto obbligata, ma è sicuramente fatta senza entusiasmi. Un assetto corporativistico, anche se ingabbiato e deformato come sarà nella rivisitazione autoritaria fascista, è infatti sempre una incrinatura di quella compattezza sociale ed economica alla quale ogni totalitarismo ambisce. L’ingabbiamento ci fu. A livello politico, il primo, il più condizionante, fu il partito, il partito unico; a livello economico-sociale, fu la stessa legge introduttiva del 1926, la quale pretendeva il riconoscimento legale delle associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro (ossia cancellava di colpo la libertà sindacale), dichiarava illeciti lo sciopero e la serrata, istituiva una magistratura speciale per dirimere le controversie di lavoro. Si gettava addosso all’assetto corporativo una corazza autoritaria che gli era sicuramente troppo costringente; e si operava

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l’imbrigliamento di quel pluralismo che, inevitabilmente, è sotteso a ogni articolazione corporativa. Fu un procedere antinomico, denso di contraddizioni, anche se obbligato, del regime, il quale portò avanti stancamente la costruzione del nuovo ordine, che resta ancora incompiuto al crollo del 1943. Però, l’ambiguo corporativismo italiano degli anni Venti e Trenta permise a una scienza giuridica curiosa e lungimirante osservazioni e intuizioni che sarebbero state preziose per un futuro sviluppo del diritto nel dopo-fascismo. Al diritto degli Stati totalitarii tocca in sorte quanto era avvenuto per la legislazione eccezionale della prima guerra mondiale: in mezzo a distorsioni respingibili e presto respinte con la caduta dei regimi, ci sono letture del tempo storico e presentimenti di futuri itinerarii. Basta leggere gli atti dei congressi scientifici e le riviste giuridiche del decennio Trenta-Quaranta per rendersene perfettamente conto. b) Carattere ancora più radicale, perché completamente sradicato dalle precedenti forme di Stato e completamente affondante in nuove radici, è il totalitarismo nazional-socialista (nazista) in Germania, che diventa rinnovazione della società e dello Stato tedeschi con l’assunzione al cancellierato, il 30 gennaio del 1933, di Adolf Hitler. Anche in questo caso, come per il fascismo in Italia, il rivolgimento trovò le sue motivazioni di fondo nella grave conflittualità sociale e politica e nell’altrettanto grave crisi economica del Reich weimariano, e anche in questo caso l’avvìo del nuovo regime rispettò il procedimento costituzionale. Ma la sovversione dei valori democratici fu immediata, e si consumò nei mesi immediatamente successivi: sospensione dei diritti fondamentali; potestà al governo di emanare leggi ordinarie e costituzionali; eliminazione della pluralità dei partiti; cancellazione della autonomia dei Länder, ossia delle regioni in cui il

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Reich si articolava; la istituzione di un Tribunale speciale per i diritti politici. Le nuove radici, cui si accennava più sopra, possono condensarsi in una scelta essenzialmente razzista, nella fondazione essenzialmente razzista del nazional-socialismo. Mentre la dimensione razziale appare estranea al fascismo italiano, che se ne approprierà soltanto in seguito alla sua espansione coloniale, alla conquista dell’Etiopia e alla costituzione dell’Impero nel 1936, questa dimensione è caratterizzante del messaggio originario di Hitler fin dalla redazione del suo breviario programmatico, il Mein Kampf («La mia battaglia»), scritto tra il 1923 e il 1926: la storia come conflitto tra razze superiori e inferiori; l’ebraismo come piovra parassitaria; l’identità di un popolo concepita quale identità razziale; l’identità di un individuo concepita quale appartenenza a un popolo; lo Stato quale strumento per tutelare lo sviluppo della omogeneità razziale di un popolo. Al cuore del nuovo verbo nazional-socialista è il popolo, il Volk, che è nozione assai distante da quella invocata dai romantici e dagli storicisti sette-ottocenteschi. Questo radicalmente nuovo Volk attinge la sua identità e unità dal suo necessario substrato biologico; il Volk è un popolo che ha un sangue omogeneo e che soltanto grazie a questa omogeneità può diventare Gemeinschaft, comunità spiritualmente e socialmente unitaria. Il nuovo Volk, disinfestato dalle deformazioni storiche, può ritrovare la sua vera identità perduta e ritrovare la sua funzione di Volksgemeinschaft, di compattissima comunità unitaria. E qui si innesta la funzione vitale del partito: di essere l’interprete del Volk, il suo specchio concreto, e che – come tale – non può che essere il partito, il partito unico. Il partito assume, di conseguenza, il ruolo di fondare lo Stato, di fare dello Stato un apparato di potere congeniale alla vocazione popolare. Stato e partito non sono pensabili come entità disgiunte ed è necessario che

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trovino un pernio saldissimo della loro unità organica in un capo unitario, capo dello Stato e capo del partito, il Führer, capo di entrambi perché è l’unico in grado di esprimere la totalità del popolo, la sua volontà più profonda. Il Führer, nella ideologia nazista, è la personificazione del popolo, è la personalità/guida dotata di straordinario carisma e di forza creatrice, nelle mani della quale deve convergere un’assoluta pienezza di poteri. Lo Stato nazista è, pertanto, in perfetta antitesi al modello della tradizione liberale, Stato totale, Völkischer Führerstaat, che esprime la comunità organica del popolo nella persona della guida suprema. E il diritto? Si capisce bene che, in questo sovvertito ordine nuovo, novissime debbono essere anche le fondazioni giuridiche. Il diritto si immedesima nei valori di cui è portatore il Volk e il giudice – che non è certo il giudice della tradizione liberale, fornito soltanto di logica formale – assume un ruolo protagonistico, giacché egli è l’interprete naturale di quei valori e il loro traduttore nella decisione, nella concreta applicazione. E si capisce bene come si dovesse subito pensare a un nuovo giurista, disincagliato dal legalismo/formalismo borghese e, invece, ben inserito nella nuova visione nazional-socialista immersa nella effettualità della vita del Volk. Già nel 1933 fu creata a Monaco la Akademie für Deutsches Recht sotto la presidenza del Reichsrechtsführer (Guida del diritto del Reich) Hans Frank (1900-1946), e si cominciò la elaborazione delle nuove costruzioni giuridiche: accanto al servilismo verso il potere di molti giuristi, accanto alle aberrazioni che legittimavano ‘scientificamente’ l’orrore di un diritto razzista, l’alta qualità intellettuale di taluni permise – per esempio, in tema di proprietà e di contratto – di giungere a revisioni del diritto civile borghese che avrebbero avuto una funzione positiva nello sviluppo scientifico gius-privatistico anche dopo la caduta del nazismo.

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E si capisce come il vecchio BGB, immerso com’era nell’aria rarefatta di una scienza astratta e pura, non fosse più ritenuto confacente a ordinare la nuova società germanica; e gli si oppose prontamente il progetto di un Volksgesetzbuch, di un Codice popolare, la cui redazione viene affidata all’Akademie monacense. La guerra impedirà che il progetto – già approntato nel 1938 – diventi legge positiva. Ultima notazione: nel contesto, che abbiamo sommariamente descritto, non c’è proprio spazio per una continuazione della ‘democrazia collettiva’ weimariana. Si provvede a un progressivo smantellamento dei sindacati e dei consigli d’azienda, e a una conseguente rigida statalizzazione del diritto del lavoro. Il Führerprinzip, cioè il principio generale della totale consegna nelle mani di un capo, ebbe applicazione anche a livello aziendale. Ogni azienda costituiva una comunità formata dal capo (l’imprenditore) e dai subordinati vincolati a una completa obbedienza; a sua volta l’imprenditore, come partecipe della grande comunità nazionale, era tenuto a obbedire alle direttive nazionali, ai contratti di lavoro-tipo (cioè a modelli predeterminati dal ministero del Lavoro), alle ordinanze ministeriali.

7. Dopo il 1945. Nuove costituzioni e vecchi codici. L’avvìo del processo di unificazione europea Negli anni che vanno dal 1939 al 1945 l’Europa e il mondo intiero vivono il massacro di una lunga guerra devastante. E il tessuto del diritto europeo ne è profondamente segnato in conseguenza dei nuovi assetti sociali, economici e politici. Vengono cancellati in Italia e in Germania i regimi totalitarii fascista e nazista, mentre permarranno ancora

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per parecchio tempo in Spagna e in Portogallo i fascismi franchista e salazariano. Nella Unione Sovietica persiste la fedeltà alla ideologia marxista-leninista, con questa novità di rilievo: insieme al forzato ingresso dei paesi dell’Europa orientale nell’area sottoposta al predominio politico sovietico, vengono in essi imposti regimi politici e giuridici esemplati sul modello sovietico; e l’area politica, rigidamente separata dai paesi occidentali nella contrapposizione della cosiddetta «guerra fredda», prende i connotati di un’autonoma area giuridica dove si consolida – fino ai rivolgimenti politici della fine degli anni Ottanta – quello che i comparatisti chiamano «diritto dei paesi socialisti». Con la sola eccezione della federazione jugoslava, che tenta una sua scelta autonoma nella costruzione del socialismo, nella Repubblica democratica tedesca (DDR), in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Albania si afferma – con variazioni di scarso rilievo sostanziale – la dittatura del proletariato, il partito comunista come partito unico, la proprietà statale dei mezzi di produzione e la totale ingabbiatura della vita economica nell’apparato centralizzante dello Stato. Nella storia giuridica dell’Occidente europeo sono soprattutto due i fatti meritevoli di segnalazione: il rinnovamento costituzionale in Germania e in Italia e la continuata vigenza delle vecchie codificazioni. Anche la Francia si dà, nel 1946, una nuova Costituzione impostata sul ruolo centrale del Parlamento, ma è nel solco di una continuità democratico-parlamentare che non ha sofferto cesure (se non nella parziale e brevissima esistenza dello Stato/fantoccio di Vichy). È, invece, in Germania e in Italia che, dopo i regimi totalitarii, si deve rifondare radicalmente i nuovi Stati. Singolarissimo l’avvìo costituzionale tedesco, che a noi interessa – in un paese ormai nettamente diviso – per la cosiddetta Germania Occidentale, essendo la parte orien-

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tale completamente inglobata nell’area di influenza sovietica18. Singolarità legata alla circostanza della duratura occupazione militare delle potenze vincitrici la seconda guerra mondiale. Fu nel 1948 che i governatori militari provvidero a stimolare i governi dei già ricostituiti Länder affinché attivassero un processo costituente. Stante la permanente divisione della nazione tedesca e del suo territorio, si volle attuare una soluzione che avesse l’impronta della provvisorietà; non si varò un’assemblea costituente bensì un semplice Consiglio parlamentare (Parlamentarischer Rat) con il cómpito di redigere non una Costituzione (Verfassung), ma una più modesta ‘Legge fondamentale’ (Grundgesetz), che sarebbe entrata in vigore il 23 maggio 1949. Come recita l’art. 20, si dava vita a uno «Stato federale, democratico e sociale» nel quale il popolo avrebbe esercitato la propria sovranità mediante libere elezioni seguendo l’orma del consolidato parlamentarismo occidentale. Istruito dalle debolezze che avevano condannato a morte l’esperimento weimariano, il Consiglio parlamentare, dopo aver fissato i tradizionali diritti individuali di libertà non quali principii programmatici (come nella Costituzione di Weimar) ma quali regole giuridiche immediatamente valide, volle difendere la democratica Legge fondamentale precisando espressamente, nell’art. 18, che «chi abusa della libertà di espressione del pensiero, in particolare della libertà di stampa, della libertà di insegnamento, della libertà di riunione, per combattere le basi dell’ordinamento democratico e liberale, perde questi diritti» e definendo nell’art. 21 come incostituzionali i partiti politici che si prefiggono di «danneggiare od eliminare l’ordinamento democratico e liberale». Fu altresì istituito un Tribunale co18 La Germania Orientale si darà una Costituzione nel 1949, ispirandosi alla propria opzione per l’assetto socialista della società e dello Stato.

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stituzionale federale (Bundesverfassungsgericht) con il ruolo di autentico custode della Costituzione. In Italia, dopo il referendum popolare abrogativo della istituzione monarchica, un’Assemblea costituente provvide alla elaborazione di una carta costituzionale, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, nella quale era chiaro il contributo congiunto delle forze cattoliche, liberali e marxiste presenti nella stessa Assemblea. Non una carta dei diritti ma una Costituzione nel significato nuovo assunto dopo Weimar. Essa non concerne soltanto l’Ordinamento della Repubblica, cui è dedicata la seconda parte, ma esordisce fissando i Principi fondamentali (artt. 1-12) e riservando a una prima parte l’analisi dettagliata dei Diritti e doveri dei cittadini (artt. 13-54). Nei primi articoli, tra l’altro, si afferma la sovranità popolare, si riconoscono e garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo, si riconosce il ruolo delle formazioni sociali, si scrive l’impegno verso una uguaglianza non più unicamente formale, si stabilisce la unità e indivisibilità della Repubblica articolata in autonomie locali. È di rilievo la istituzione di un giudice delle leggi, la Corte costituzionale, quale custode della Costituzione. Più sopra, nel titolo del paragrafo, abbiam parlato di nuove costituzioni e vecchi codici. Ed è vero. Non sorprende che continui in Francia la lunga vita del Code Napoléon, e non sorprende nemmeno la continuità del BGB nella Germania Occidentale, considerato che il progetto di Codice popolare nazional-socialistico resta a mero livello progettuale. Code Napoléon e BGB rappresentavano, infatti, due modelli di codificazione liberale. Sorprende, invece, la continuità di una codificazione italiana, la quale è stata interamente progettata e redatta durante il ventennio di regime fascista. Ne abbiamo già anticipato le motivazioni: a parte certi forzosi incuneamenti fascisti, l’opera legislativa è stata soprattutto lavorìo di giuristi, prevalentemente scienziati ma anche giudici. E i giuristi

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hanno avuto il grande merito di interpellare e interpretare il proprio tempo storico più che il regime con le sue deteriori pretese. Conclusione, questa, che vale per l’intiera codificazione, anche se – ovviamente – la mano del regime autoritario si fa sentire più pesante nei Codici penali del 1930-31 per la stretta connessione della materia punitiva all’ordine pubblico dello Stato. Nell’immediato dopoguerra ci fu in Italia un certo dibattito sul da farsi, ma risultò larghissimamente maggioritaria la proposta conservativa, programmando soltanto una non difficile operazione di ‘disinfestazione’ dai parassiti annidati nel tessuto del corpo vivo della codificazione (l’immagine non è mia ma di un grande giurista italiano, il processualista Piero Calamandrei). Non si può chiudere questo libro dedicato a L’Europa del diritto nel suo svolgimento storico senza fare almeno un cenno al grandioso e anche faticoso processo – tuttora in corso – verso l’unità europea politica e giuridica: grandioso perché si tratta della costruzione di un edificio imponente, che ha ricevuto via via sempre più numerose adesioni di Stati, faticoso perché si tratta di ridurrre un arcipelago di isole statuali a un continente politicamente e giuridicamente compatto. Il processo può essere – molto sommariamente – condensato in queste tappe: il Trattato di Parigi del 1951 istitutivo di un primo embrione unitario, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA); il Trattato di Roma del 1957 istitutivo della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea per l’energia atomica (CEEA); il Trattato di Maastricht del 1992, che dà vita alla Unione Europea come realtà complessa concernente non soltanto carbone e acciaio, economia, energia atomica, ma altresì politica estera e sicurezza comune, giustizia e affari interni. Recentemente si è arrivati a coniare una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, comunemente chiamata Carta di Nizza perché, approvata nel 2000 dal

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Parlamento europeo e dalla Commissione, venne proclamata e sottoscritta dai rispettivi presidenti nella seduta di Nizza del 7 dicembre 2000. Recentissimamente, nel 2004, essa è divenuta parte integrante del trattato che adotta un progetto di Costituzione per l’Unione, progetto che è restato tale fino ad oggi a causa della mancata ratifica da parte della Francia e dei Paesi Bassi.

8. Qualche considerazione finale tra un millennio e l’altro Poiché lo storico deve avere una ferma consapevolezza del presente in cui si muove e agisce, sì da rendere più aguzzo il suo sguardo rivolto alla comprensione del passato, ci sia consentita un’ultima considerazione sull’itinerario che stiamo sperimentando in questi ultimi anni a cavaliere fra i due millennii. Oggi – 2006 – il diritto e il giurista (ossia, colui che al diritto dedica la sua vita di operatore o di scienziato) vivono un momento di grossa incertezza in quanto percorso da un mutamento rapido e intenso, momento non facile di cui, tuttavia, lo storico avverte la fertilità. Sì, momento fertile perché si sta disegnando un nuovo paesaggio giuridico non ancora definito e anche difficilmente definibile. Ci stiamo allontanando sempre più dal paesaggio chiaro e semplice di ieri, troppo chiaro e semplice per poter rispecchiare fedelmente il sottostante assetto sociale in tutta la sua reale complessità. Gli idoli venerati della vecchia mitologia giuridica della modernità appaiono in buona parte infranti: statualità del diritto, legge, principio di rigidissima legalità, principio di rigidissima divisione dei poteri, gerarchia delle fonti. I due pianeti di civil law e di common law hanno visto recentemente attenuarsi le nette confinazioni del passato, e l’Unione Europea – dove il Regno Unito è componente fondamentale – è diventata, nelle sue istituzioni e

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nella sua produzione normativa, l’officina per una sempre maggiore fusione. Sul continente, lo Stato, indiscusso protagonista giuridico della modernità, si dimostra sempre più incapace di ordinare giuridicamente la società, e la legge sta lasciando il suo trascorso ruolo di strumento essenziale di produzione del diritto. Stiamo, ormai, vivendo l’esperienza di poteri diversi da quello politico – in primo luogo, il potere economico – impegnati nel coniare nuovi e più congeniali istituti giuridici; e stiamo parimente vivendo una proiezione che è sempre più globale, che tende ad astrarre dalle confinazioni spesso insensate delle frontiere statuali. Accanto ai diritti ufficiali concorrono diritti promananti da altre e molteplici fonti, ed è spesso la prassi il laboratorio virulento dove il nuovo diritto prende forma. Se fino a ieri il criterio determinante era quello della validità, ossia della corrispondenza a un modello generale autorevole (prevalentemente offerto dallo Stato), oggi sembra vincente quello della effettività, cioè della capacità che ha una regola o un istituto di essere concretamente osservato, applicato. E i confini tra fatto e diritto, così nitidamente segnati in un passato prossimo, si fanno labili, e l’approdo è una decisa fattualità del diritto. Il lettore, che ha seguìto con attenzione lo svolgersi delle nostre pagine, sarà portato a pensare alla reviviscenza di remote civiltà giuridiche. Pensiero utile e, al tempo stesso, falsante: utile perché lo istruisce sulla relatività di invenzioni che erano state identificate in tappe insuperabili di progresso; falsante perché fa correre il rischio di offuscare la tipicità di questo momento post-moderno plasmato da forze nate oggi per ordinare l’oggi secondo le esigenze dell’oggi. Che il lettore non si lasci prendere dallo sgomento se il terreno è labile sotto i suoi piedi. Si sta, infatti, scavando per far posto ai basamenti di un nuovo edificio giuridico in coerenza con quanto è richiesto dalla nuova maturità di tempi in lenta formazione.

Bibliografia

CHIARIMENTI PRELIMINARI

Paragrafo 1 In una letteratura, che è divenuta negli ultimi tempi smisurata, basti rinviare alle riflessioni tuttora preziose di due grandi storici: F. Chabod, Storia dell’idea d’Europa, Bari 1964; F. Braudel, L’Europe. L’espace, le temps, les hommes, Paris 1987. Paragrafo 2 Ci sia consentito di rinviare il lettore a un nostro libretto di iniziazione: Prima lezione di diritto (2003), Roma-Bari 200812 (di cui esistono già due traduzioni, una in lingua spagnola a cura di C. Alvarez, Madrid 2006, e una in lingua portoghese, a cura di R.M. Fonseca, Rio de Janeiro 2006). La parola «ordinamento» è al centro del messaggio culturale del grande giurista italiano Santi Romano, di cui si parlerà più ampiamente nel paragrafo primo della terza parte, e assume il significato di riscoperta della socialità del diritto, della sua genesi dal basso della società piuttosto che dai palazzi alti del potere politico. Paragrafo 3 Per l’utilizzazione dello schema interpretativo dell’«esperienza giuridica» da parte di uno storico del diritto,

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BIBLIOGRAFIA

cfr. R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, soprattutto pp. 353 sgg.

I. RADICI MEDIEVALI

1. Una civiltà giuridica in costruzione: l’officina della prassi Paragrafi 1-4 La interpretazione storica espressa in questi paragrafi non fa che sintetizzare quanto da noi sostenuto e motivato in P. Grossi, L’ordine giuridico medievale (1995), Roma-Bari 200613. Utili le integrazioni contenute nelle seguenti opere collettanee: Funktion und Form. Quellen und Methodenprobleme der mittelalterlichen Rechtsgeschichte, a cura di K. Kroeschell e A. Cordes, Berlin 1996; Rechtsbegriffe im Mittelalter, a cura di A. Cordes e B. Kannowski, Frankfurt am Main 2002; Ordnungskonfigurationen im hohen Mittelalter, a cura di B. Schneidmüller e S. Weinfurter, Ostfildern 2006. Ricchi di utili informazioni per tutti i paragrafi di questa parte sono i seguenti manuali didattici, di cui si raccomanda la lettura quale rilevante integrazione: F. Tomas y Valiente, Manual de historia del derecho español, Madrid 19834; N. Espinosa Gomes da Silva, História do direito português. Fontes de direito, Lisboa 20003; M.J. de Almeida Costa, História do direito português, Coimbra 19922; M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994; M. Lupoi, Alle radici del mondo giuridico europeo. Saggio storico-comparativo, Roma 1994; E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, I, L’alto Medioevo, Roma 1995; A. Padoa Schioppa, Il diritto nella storia d’Europa. Il Medioevo. Parte prima, Padova 1995; K. Bader, G. Dilcher, Deutsche Rechtsgeschichte. Land und Stadt-Bürger und Bauer im Alten Europa, Berlin 1999; E. Cortese, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma 2001; O. Guillot, Y. Sassier, Pouvoirs et institutions dans la France médiévale. Des origines à l’époque féodale, Paris 20043; J.M. Carbasse, Manuel d’introduction historique au droit, Paris 20053. Non condivisibile ci sembra, invece, l’impostazione rigidamente statalistica di A. Iglesia Ferreiros, La creación del derecho.

BIBLIOGRAFIA

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Una historia de la formación de un derecho estatal español. Manual, Barcelona 1992. Paragrafo 4 Sulla consuetudine utili integrazioni possono offrire due opere collettanee: La coutume. Custom, Bruxelles 1990; Gewohnheitsrecht und Rechtsgewohnheiten im Mittelalter, a cura di G. Dilcher, Berlin 1992. Paragrafo 5 Sul notaio proto-medievale: G. Costamagna, L’alto Medioevo, in M. Amelotti, G. Costamagna, Alle origini del notariato italiano, Milano 1995; J. Hilaire, La science des notaires. Une longue histoire, Paris 2000 (trad. it., La scienza dei notai. La lunga storia del notariato in Francia, Milano 2003). Paragrafi 6 e 7 Sui temi di questi paragrafi rinviamo il lettore allo svolgimento dato nel nostro L’ordine giuridico medievale cit. Paragrafo 8 Letture consigliate sono: J. Gaudemet, Église et cité. Histoire du droit canonique, Paris 1994 (trad. it., Storia del diritto canonico. Ecclesia et Civitas, Torino 1998); C. Fantappiè, Introduzione storica al diritto canonico, Bologna 1999; P. Erdö, Die Quellen des Kirchenrechts. Eine geschichtliche Einführung, Frankfurt am Main 2002. 2. Maturità medievale: un laboratorio sapienziale Paragrafi 1 e 2 Per uno sviluppo di quanto si dice in questi paragrafi non possiamo che rinviare al nostro L’ordine giuridico medievale cit. Una proficua lettura: D. Quaglioni, Introduzione. La rinnovazione del diritto, in Il secolo XII: la «renovatio» dell’Europa cristiana, a cura di G. Constable e G. Cracco, Bologna 2003. Sulla struttura socio-politico-giuridica della città medievale, cfr. G. Dilcher, Bürgerrecht und Stadtverfassung im europäischen Mittelalter, Köln 1996. Sugli statuti comunali italiani si veda U. Santarelli, La normativa statutaria nel quadro dell’esperienza giuridica bassomedievale, in Diritto generale e diritti particolari nell’esperienza storica, Torino 2001; C. Storti Storchi, Scritti sugli statuti lombardi, Milano 2007,

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BIBLIOGRAFIA

e anche P. Grossi, Il sistema giuridico medievale e la civiltà comunale, in La civiltà comunale italiana nella storiografia internazionale, Atti del Convegno, Pistoia, 9-10 aprile 2005, Firenze 2007. Sull’opera legislativa di Federico II di Svevia ottimi sussidii – anche bibliografici – può offrire una recentissima pubblicazione enciclopedica interamente dedicata al grande principe medievale: Federico II. Enciclopedia Fridericiana, Roma 2005, ad voces. Per la Francia, Carbasse, Manuel d’introduction historique au droit cit.; A. Rigaudière, Pouvoirs et institutions dans la France médiévale. Des temps féodaux aux temps de l’Etat, Paris 20043. È rilevante, anche se ormai datato, il volume collettaneo Renaissance du pouvoir législatif et genèse de l’État, a cura di A. Gouron e A. Rigaudière, Montpellier 1988. Per il Portogallo, cfr. A.M. Hespanha, Panorama histórico da cultura jurídica europeia, Lisboa 19992 (trad. it., Introduzione alla storia del diritto europeo, Bologna 1999). Per la Spagna, cfr. Tomas y Valiente, Manual de historia del derecho español cit. Paragrafi 3 e 4 Per maggiori chiarimenti si veda Grossi, L’ordine giuridico medievale cit. Paragrafo 5 Si veda di M. Bellomo, L’Europa del diritto comune, Roma 19947, nonché Id., Medioevo edito e inedito, II, Scienza del diritto e società medievale, Roma 1997 (soprattutto i saggi seguenti: I giuristi, la giustizia e il sistema del diritto comune, 1982; Parlando di ius commune, 1994; Ius commune, 1996). Intorno al dibattito sullo ius commune, vivace negli ultimi anni, si veda anche M. Caravale, Alle origini del diritto europeo. Ius commune, droit commun, common law nella dottrina giuridica della prima età moderna, Roma 2005. Sui maestri dello ius commune, che non erano soltanto degli scienziati, dei sommi teorici, ma anche dei personaggi immersi nella ‘pratica’ del diritto, dei consiliatores dediti a fornire i loro provvedutissimi pareri legali (consilia) a potentati, giudici e cittadini, cfr. Legal Consulting in the Civil Law Tradition, a cura di M. Ascheri, I. Baumgärtner e J. Kirshner, Berkeley 1999.

BIBLIOGRAFIA

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Paragrafo 6 Letture consigliate: Gaudemet, Eglise et cité. Histoire du droit canonique cit.; R.H. Helmholz, The Spirit of Classical Canon Law, Athens (Georgia), 1996; Fantappiè, Introduzione storica al diritto canonico cit.; Erdö, Die Quellen des Kirchenrechts cit. Paragrafo 7 Sui rapporti tra ius commune e i sempre più virulenti iura propria, rinviamo a quanto se ne dice in Grossi, L’ordine giuridico medievale cit. Si vedano anche M. Ascheri, I diritti del Medioevo italiano – secoli XI-XV, Roma 2000 e Caravale, Alle origini del diritto europeo cit. Per la Spagna: Tomas y Valiente, Manual de historia del derecho español cit.; B. Clavero, Institución historica del derecho, Madrid 1992. Per la Francia: Carbasse, Introduction historique au droit cit. e Rigaudière, Pouvoirs et institutions dans la France médiévale cit. Per la Germania: K. Kroeschell, A. Cordes, K. Nehlsen Von Stryk, Deutsche Rechtsgeschichte, B. II, 1250-1650, Köln 20069. Paragrafo 8 Si raccomanda, innanzi tutto, la lettura chiarificatrice di un classico della storiografia moderna, di un libro vecchio ma non invecchiato: M. Bloch, La société féodale, Paris 1939 (trad. it., La società feudale, Torino 1949), scritto da uno storico della società attentissimo alla dimensione giuridica. Utilissime le pagine di Guillot-Sassier, Pouvoirs et institutions dans la France médiévale cit. e di Cortese, Il diritto nella storia medievale, I, L’alto Medioevo cit. Sui Libri feudorum basti rinviare alla ricca esposizione, sempre dello stesso Cortese, in Il diritto nella storia medievale, II, Il basso Medioevo, Roma 1995. Paragrafo 9 Si vedano J. Hilaire, Introduction historique au droit commercial, Paris 1986; U. Santarelli, Mercanti e società tra mercanti, Torino 19983; F. Galgano, Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale, Bologna 2001; nonché Del ius mercatorum al derecho mercantil. III Seminario de historia del derecho privado, Sitges, 2830 maggio 1992, a cura di C. Petit, Madrid 1997, e From «Lex Mercatoria» to Commercial Law, a cura di V. Piergiovanni, Berlin 2005. Utilissima un’antologia intelligentemente selezionata: Una economia politica nel Medioevo, a cura di O. Capitani, Bologna 1987.

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BIBLIOGRAFIA

II. FONDAZIONI DELLA MODERNITÀ GIURIDICA

Paragrafo 1 Si vedano almeno: W. Naphy, A. Spicer, Plague, Black Death and Pestilence in Europe, Stroud 2004 (trad. it., La peste in Europa, Bologna 2006), e M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa (1993), Roma-Bari 20034 (particolarmente il capitolo Il ritorno della fame). Può essere illuminante la lettura di pagine ormai classiche, anche se contrassegnate da una forte unilateralità: M. Villey, La formation de la pensée juridique moderne (a cura di S. Rials), Paris 2003 (trad. it., La formazione del pensiero giuridico moderno, Milano 2007). Paragrafo 2 Può essere chiarificatrice la lettura di P. Grossi, Dalla società di società alla insularità dello Stato, tra Medioevo ed età moderna (2003), ora in Id., Società, diritto, Stato, Milano 2006. Paragrafo 3 Ottime le pagine di Carbasse, Manuel d’introduction historique au droit cit. e di Rigaudière, Pouvoirs et institutions dans la France médiévale cit. Da leggersi anche il volume di J. Krynen, L’empire du roi. Idées et croyances politiques en France. XIIIeXVe siècle, Paris 1993. Paragrafo 4 Sui temi del paragrafo si deve, innanzi tutto, segnalare la fondamentale sintesi di J. Baker, An Introduction to English Legal History, London 20024, ma anche R. Van Caenegem, The Birth of the English Common Law, Cambridge 19882. Per un approfondimento analitico si veda: The Oxford History of the Laws of England, Oxford 2003, di cui è coordinatore generale J. Baker, con direzioni specifiche dei singoli volumi: II (Hudson), 900-1216; III (Brand), 1216-1307; IV (Donahue), 1307-1377; V (Biancalana), 1399-1483; VI (Baker), 1483-1558. Nella letteratura italiana debbono segnalarsi alcune sintesi didattiche perfettamente riuscite nel tentativo di chiarire una complicata vicenda storico-giuridica: U. Mattei, Il modello di common law, Torino 20042, e V. Varano, V. Barsotti, La tradizione giuridica occidentale, I, Testo e materiali per un confronto civil law-common law, Torino 20063. Due manuali di storia del dirit-

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to riservano una peculiare attenzione alle origini e allo sviluppo del common law: A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, I, Le fonti e il pensiero giuridico, Milano 1979, e Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale cit. Ricco di spunti originali è l’intelligente corso di N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno, Torino 20013. Paragrafo 7 Sui temi di questo paragrafo si vedano le testimonianze raccolte da V. Piano Mortari, Cinquecento giuridico francese. Lineamenti generali, Napoli 1990 (su Budé, p. 199; sul diritto come recta ratio, passim, ma soprattutto p. 235). Paragrafo 8 Chiarimenti fondamentali sulla complessa valenza del giusnaturalismo, cui si accenna nel paragrafo, possono trovarsi in un vecchio ma non invecchiato libro di P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna, Bari 1961. Sul piano storico-giuridico pagine rilevanti hanno scritto P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, I, Dalla civiltà comunale al Settecento, Roma-Bari 1999, e I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino 2002. Su Grozio, cfr. The World of Hugo Grotius (1583-1645). Proceedings of the International Colloquium organized by the Grotius Committee of the Royal Netherland Academy of Arts and Sciences (1983), Amsterdam 1984 e Grotius, a cura di J. Dunn e I. Harris, Cheltenham 1997. Per un inserimento di Grozio nell’umanesimo giuridico olandese, cfr. G.C.J.J. Van Den Bergh, Die holländische elegante Schule. Ein Beitrag zur Geschichte von Humanismus und Rechtswissenschaft in den Niederlanden 1500-1800, Frankfurt am Main 2002. È il caso di aggiungere che l’intuizione della intelaiatura matematica del diritto avrà il suo coerente sviluppo nella costruzione di un sistema secondo il modello del procedimento logico matematico: i nomi da fare sono soprattutto quelli dei filosofi e giuristi tedeschi Gottfried Wilhelm Leibniz (16461716) e Christian Wolff (1670-1754). Se l’indole di questo libro non richiedesse dei sacrificii a una esposizione più articolata, si dovrebbe almeno accennare

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a quella grande corrente di pensiero usualmente chiamata «seconda scolastica» e costituita da teologi-giuristi operanti soprattutto in Spagna nel Cinquecento e nel Seicento, i quali danno un grosso contributo al rinnovamento del diritto secondo le direttive della nuova antropologia post-umanistica. Grozio e l’intiero giusnaturalismo ne sono, in qualche misura, tributarii. Indicazioni possono essere ricavate dal seguente volume collettaneo: La Seconda Scolastica nella formazione del diritto privato moderno, a cura di P. Grossi, Milano 1973. Di Locke sono, ai nostri fini, di particolare interesse: Two Treatises on Goverment, a cura di P. Laslett, Cambridge 1964 (trad. it., Due trattati sul governo. Secondo trattato, Torino 1960). Sugli aspetti, da noi sottolineati, del pensiero di Grozio e di Locke, cfr. S. Buckle, Natural Law and the Theory of Property. Grotius to Hume, Oxford 1991. Sul pensiero politico lockiano, cfr. C.A. Viano, Il pensiero politico di Locke, Roma-Bari 1997. Paragrafo 9 Intorno all’Illuminismo, sul piano storico-giuridico, pagine preziose ha scritto Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, I cit. Chi voglia chiarire meglio la costruzione di un «edificio mitologico» (di cui si parla nel testo) può leggere: P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità (IIIa ed. accresciuta), Milano 2007, di cui esistono due traduzioni: una in lingua spagnola (a cura di M. Martinez Neira, Madrid 2003) e una in lingua portoghese (a cura di A. Dal Ri, Florianopolis 20062). Paragrafo 10 Può essere utile al lettore lo sguardo sintetico offerto in P. Grossi, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, Napoli 2006 (ristampa in veste autonoma di una relazione congressuale del 1985, accresciuta di una riflessione dal titolo Venti anni dopo). Paragrafo 11 I testi delle principali ‘carte dei diritti’ possono essere comodamente consultati, nella lingua originaria e nella traduzione in lingua italiana, in F. Battaglia, Le carte dei diritti, III ed. con appendice di aggiornamento a cura di N. Matteucci, Reggio Calabria 1998. Si consiglia anche di leggere: La déclaration des droits de

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l’homme et du citoyen, Paris 1988, con una eccellente presentazione di S. Rials. Ottime letture integrative potranno essere trovate dal lettore in: Le basi filosofiche del costituzionalismo, a cura di A. Barbera, Roma-Bari 19983; Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, I cit.; M. Fioravanti, Costituzione, Bologna 1999; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit. Paragrafo 12 Delle prime due Ordonnances abbiamo in Italia recentissime ristampe anastatiche con ampie introduzioni: Code Louis, t. I, Ordonnance civile (1667), Milano 1996; t. II, Ordonnance criminelle (1670), Milano 1996. Sulle Ordonnances di Luigi XIV, e particolarmente sulla Ordonnance per il commercio di terra, cfr. F. Wieacker, Privatrechtsgeschichte der Neuzeit unter besonderer Berücksichtigung der deutschen Entwicklung, Göttingen 1967 (trad. it., Storia del diritto privato moderno con particolare riguardo alla Germania, Milano 1980); Hilaire, Introduction historique au droit commercial cit.; Galgano, Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale cit.; Carbasse, Manuel d’introduction historique au droit cit.; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit. Paragrafo 13 Per approfondimenti, basti rinviare a: The Oxford History of the Laws of England cit., voll. VI (Baker), 1483-1558; VII (Ibbetson), 1558-1625; VIII (Brooks), 1625-1689 ; IX (Horwitz), 1689-1760. Un testo di parecchi anni fa, ma che coglie bene le fondazioni della piattaforma giuridica di common law in una tradizione immemorabile, è J.G.M. Pocock, The Ancient Constitution and the Feudal Law. A Study of English Historical Thought in the Seventeenth Century. A Reissue with a Retrospect, Cambridge 1987. Paragrafo 14 Sulla profonda diversità della rappresentanza politica nella visione politico-giuridica della Rivoluzione suggeriamo tre letture illuminanti: il volume ormai classico di H. Hoffmann, Repräsentation. Studien zur Wort und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19. Jahrhundert (1974), Berlin 20034 (trad. it., Rappresentanza-rappresentazione. Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, Milano 2007); P. Rosanvallon, Le peuple introuva-

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ble. Histoire de la représentation démocratique en France, Paris 1998 (trad. it., Il popolo introvabile. Storia della rappresentanza democratica in Francia, Bologna 2005); G. Duso, La rappresentanza politica: genesi e crisi del concetto, Milano 2003. Sulla fase giacobina della Rivoluzione, cfr. L. Jaume, Échec au liberalisme. Les Jacobins et l’Etat, Paris 1990 (trad. it., Scacco al liberalismo: i giacobini e lo Stato, Napoli 2003). Paragrafo 15 Lo storico italiano del diritto ricordato a p. 135 è Mario Viora che, nel 1928, scrisse un saggio che ha avuto una straordinaria diffusione, almeno in Italia: Consolidazioni e codificazioni. Contributo alla storia della codificazione, Torino 19903. Una visione condivisibile della ‘codificazione’ moderna può essere reperita nei due volumi di P. Caroni, Saggi sulla storia della codificazione, Milano 1998, e Gesetz und Gesetzgebung. Beiträge zu einer Kodificationsgeschichte, Basel 2003. Un bilancio può essere còlto nel volume collettaneo: Codici. Una riflessione di fine millennio, Atti dell’incontro di studio, Firenze, 26-28 ottobre 2000, a cura di P. Cappellini e B. Sordi, Milano 2002. Sullo Allgemeines Landrecht prussiano si può consultare: ALR. 200 Jahre Allgemeines Landrecht für die preussischen Staaten. Wirkungsgeschichte und internationaler Kontext, Frankfurt am Main 1995. Per il testo dello ALR: Allgemeines Landrecht für die preussischen Staaten von 1794, Textausgabe, Frankfurt am Main 1970. Una valutazione diversa del fenomeno codificatorio è in U. Petronio, La lotta per la codificazione, Torino 2002. Paragrafo 16 Sul Code civil può essere utile una lettura delle riflessioni collettive organizzate in occasione del bicentenario. Fra le molte: Le Code civil 1804-2004. Livre du bicentenaire, Paris 2004; Les Français et leur Code civil. Bicentenaire du Code civil 18042004, a cura dei Journaux Officiels, Paris 2004; 1804-2004. Le Code civil. Un passé, un présent, un avenir, a cura di Y. Lequette, Paris 2004; Il bicentenario del Codice napoleonico (Atti dei convegni Lincei, Roma, 20 dicembre 2004), Roma 2006. Si occupano della influenza del Code in Europa: 200 Jahre Code civil. Die napoleonische Kodifikation in Deutschland und Europa, a cura di

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W. Schubert e M. Schmoeckel, Köln 2005; Richterliche Anwendung des Code Civil in seinen europäischen Geltungsbereichen ausserhalb Frankreichs, a cura di B. Dölemeyer, H. Mohnhaupt, A. Somma, Frankfurt am Main 2006. Un’analisi chiarificatrice è in J.L. Halpérin, L’impossible code civil, Paris 1992. Dello stesso autore abbiamo una felice sintesi in: Le Code Civil (1996), Paris 20032. Per comodità del lettore, riportiamo qui di seguito, nella traduzione ufficiale italiana del 1806 per il regno d’Italia, i testi degli articoli 4, 544, 1134, espressamente menzionati nel corso del paragrafo. Art. 4: «Se un giudice ricuserà di giudicare sotto pretesto di silenzio, oscurità o difetto della legge, si potrà agire contro di lui come colpevole di negata giustizia»; art. 544: «La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera la più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi e dai regolamenti»; art. 1134: «Le convenzioni legalmente formate hanno forza di legge per coloro che le hanno fatte». Paragrafo 17 Sullo ABGB si veda, da ultimo, una recentissima pubblicazione collettanea italiana: L’ABGB e la codificazione asburgica in Italia e in Europa, Atti del Convegno internazionale, Pavia, 11-12 ottobre 2002, a cura di P. Caroni e E. Dezza, Padova 2006 (contributi di W. Brauneder, R. Garré, G. Kohl, M.G. Di Renzo Villata, F. Colao, E. Mongiano, E. D’Amico, P. Rondini, A.A. Cassi, R. Ferrante, S. Solimano, M.R. Di Simone, C. Neschwaro, E. Berger, P. Caroni). Il § 7 è trascritto dalla traduzione ufficiale in lingua italiana redatta per il vicereame lombardo-veneto. Paragrafo 18 L’articolo 2 del Codice civile del regno d’Italia, del 1865, recita così: «I comuni, le provincie, gli istituti pubblici civili od ecclesiastici, ed in generale tutti i corpi morali legalmente riconosciuti, sono considerati come persone, e godono dei diritti civili secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico». Sul complesso rapporto, in Spagna, fra diritto unitario statale e tradizioni giuridiche locali, maggiori approfondimenti li offre Tomas y Valiente, Manual de historia del derecho español cit.

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Sul ‘tempo della esegesi’ esaminato in tutte le sue sfaccettature cfr. J.L. Halpérin, Histoire du droit privé français depuis 1804 (1996), Paris 20012. Paragrafo 19 In ordine a quello che si dice all’inizio circa il silenzio, nelle nostre pagine, sull’umanesimo giuridico e l’illuminismo giuridico in Germania, la lacuna potrebbe essere colmata leggendo J. Schröder, Recht als Wissenschaft. Geschichte der juristischen Methode vom Humanismus bis zur historischen Schule, München 2001. Sui temi del paragrafo, una ottima messa a punto, che ha il solo torto di risalire a quasi cinquant’anni fa, è in: Wieacker, Privatrechtsgeschichte der Neuzeit cit., vol. II. Si aggiungano B. Diestelkamp, Recht und Gericht im Heiligen Römischen Reich, Frankfurt am Main 1999 e P. Oestmann, Rechtsvielfalt vor Gericht. Rechtsanwendung und Partikularrecht im Alten Reich, Frankfurt am Main 2002, nonché due atti congressuali specificamente dedicati ai primordii della Neuzeit: Recht und Verfassung im Übergang vom Mittelalter zur Neuzeit, I. Teil, Göttingen 1998, II. Teil, Göttingen 2001. Due agili sintesi sullo usus modernus sono rappresentate da due voci enciclopediche: K. Luig, Usus modernus, in Handwörterbuch zur deutschen Rechtsgeschichte, V. Band, Berlin 1998, e J. Schröder, Deutscher Usus Modernus, in Der Neue Pauly, B. XIII, Stuttgart 1999. Paragrafo 20 Sulla Pandettistica ottocentesca buone pagine offre Wieacker, Privatrechtsgeschichte der Neuzeit, vol. II. cit. Dello stesso Wieacker può essere utile leggere i saggi raccolti in Industriegesellschaft und Privatrechtsordnung, Frankfurt am Main 1974 (trad. it., Diritto privato e società industriale, Napoli, 1983). Più recentemente, cfr. O. Jouanjan, Une histoire de la pensée juridique en Allemagne (1800-1918) - Idéalisme et conceptualisme chez les juristes allemands du 19. siècle, Paris 2005. Sulla costruzione del ‘sistema’ da parte della Pandettistica, cfr. la ricchissima indagine di P. Cappellini, Systema iuris, vol. I e II, Milano 1984 e 1985. Su Puchta, cfr. H.P. Haferkamp, Georg Friedrich Puchta und die «Begriffsjurisprudenz», Frankfurt am Main 2004. Su Bernhard Windscheid si veda U. Falk, Ein Gelehrter wie

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Windscheid. Erkundungen auf den Feldern der sogenannten Begriffsjurisprudenz, Frankfurt am Main 1989. Paragrafo 21 L’opera di Paul Laband appare, nel suo primo volume, a Tübingen, nel 1876, con il titolo: Das Staatsrecht des deutschen Reiches. Su tutto il presente paragrafo può essere preziosa la lettura delle seguenti opere: M. Fioravanti, Giuristi e costituzione politica nell’Ottocento tedesco, Milano 1979; M. Stolleis, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland, vol. II. 1800-1914. Staatsrechtslehre und Verwaltungswissenschaft, München 1992; L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Bari 2001. Per dei chiarimenti sulla nozione – evocata nel testo – di ‘Stato di diritto’, rimandiamo a: Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, a cura di P. Costa e D. Zolo, Milano 2002. Paragrafo 22 Una guida estremamente chiara sulla complessa vicenda della formazione del BGB è offerta dal classico ‘manuale’ di Franz Wieacker, Privatrechtsgeschichte der Neuzeit cit., ma si veda ora: 100 Jahre BGB-100 Jahre Staudinger: Beiträge zum Symposion vom 18.-20. Juni 1998 in München, a cura di M. Martinek e P.L. Sellier, Berlin 1999. Si veda anche: Historisch-kritischer Kommentar zum BGB, B. I., Allgemeiner Teil, §§ 1-240, a cura di M. Schmoeckel, J. Rückert, R. Zimmermann, Tübingen 2003. Per la incidenza del BGB sulla prassi giudiziale tedesca è di notevole interesse il seguente volume: Das Bürgerliche Gesetzbuch und seine Richter. Zur Reaktion der Rechtssprechung auf die Kodifikation des deutschen Privatrechts 1896-1914, Frankfurt am Main 2002. Paragrafo 23 La migliore guida per la conoscenza del Codice civile svizzero (identificabile quale ZGB nella sua versione in lingua tedesca o CCS nelle sue versioni francese e italiana) sono i già citati volumi di Caroni, Saggi sulla storia della codificazione e Gesetz und Gesetzgebung. Beiträge zu einer Kodifikationsgeschichte. Paragrafo 24 Il libro, cui ci si riferisce all’inizio, è: J. Cruet, La vie du droit et l’impuissance des lois, Paris 1908.

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All’opera complessiva di Gény è dedicato un intiero volume dei «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XX, 1991. Paragrafo 25 Gli scritti di Fuchs possono essere consultati in: Gesammelte Schriften über Freirecht und Rechtsreform, Aalen 1970 sgg. Il saggio di Ehrlich è: Freie Rechtsfindung und freie Rechtswissenschaft, Leipzig 1903 (rist. Aalen 1975). Ehrlich era docente nella Università di Czernowitz, capitale della Bukowina, allora territorio dell’Impero austro-ungarico. Il saggio di Kantorowicz, Der Kampf um die Rechtswissenschaft, apparve a Heidelberg nel 1906 e fu immediatamente tradotto, con il titolo La lotta per la scienza del diritto, dal giudice italiano Raffaele Majetti, appassionato adepto del nuovo verbo giusliberistico (Milano 1908; rist. anast. Bologna 1988). Nella traduzione italiana le affermazioni di Kantorowicz sull’articolo 4 sono alle pp. 80-81; la frase sulle lacune è a p. 82. Paragrafo 26 Cfr. G. Ritter, Der Sozialstaat. Entstehung und Entwicklung im internationalen Vergleich, München 1989 (trad. it., Storia dello stato sociale, Roma-Bari 1996); Halpérin, Histoire du droit privé français depuis 1804 cit.; Tomas y Valiente, Manual de historia del derecho español cit. Ottime integrazioni offre per la Francia la ricca indagine di P. Rosanvallon, Le modèle politique français: la société civile contre le jacobinisme de 1789 à nos jours, Paris 2004. Paragrafo 27 L’opera di Menger spazia dalla pura tecnica giuridica alla politologia fino ad arrivare al regno proibito della matematica. Nell’ottica del nostro testo è rilevante il suo discorso per l’investitura a Rettore della Università di Vienna: Über die sozialen Aufgaben der Rechtswissenschaft (Rede gehalten am 24. Oktober 1895 bei Übernahme des Rektorats der Wiener Universität, Wien-Leipzig 1895). Per maggiori chiarimenti sulla genesi e sullo sviluppo del socialismo giuridico in Europa possono essere letti i due tomi dei «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico

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moderno», III-IV, 1974-75 (contributi di P. Grossi, T. Ramm, N. e A.J. Arnaud, V. Gerratana, G. Orrù, P. Caroni, G. Dilcher, R. Weyl, M. Picard Weyl, A. Di Majo, G. D’Amelio, P. Costa, S. Cassese, D. Schwab, M. Sbriccoli). Paragrafo 28 Si diffondono sui primordii K. Zweiger e H. Kötz in Einführung in die Rechtsvergleichung, B. I., Grundlagen, Tübingen 1984 (trad. it., Introduzione al diritto comparato, I, Principi fondamentali, Milano 1998) con un’attenzione soddisfacente per l’area austro-germanica. Può essere utile la consultazione del Livre du centenaire de la Société de legislation comparée, Paris 1969. Tutta l’opera di Henry Maine (1822-1888) è sostanzialmente comparativa, perché la comparazione (insieme verticale e orizzontale) è l’arma culturale di questo cólto e sensibile giurista. In particolare, si vedano di lui: Village-Communities in the East and West, London 1871, e Ancient Law: its Connection with the early History of Society and its Relation to modern Ideas, London 1861 (trad. it., Diritto antico, a cura di V. Ferrari, Milano 1998). Di Joseph Kohler (1849-1919), giurista tedesco dalle molte curiosità, si veda soprattutto: Einleitung in die vergleichende Rechtswissenschaft (1885). I contributi di Raymond Saleilles menzionati nel testo sono: Étude sur la théorie générale des obligations d’après le projet de Code Civil allemand e Étude sur les sources de l’obligation dans le projet de Code Civil pour l’Empire d’Allemagne, in «Bulletin de la Société de législation comparée», XVIII, 1888-89; De la déclaration de volonté. Contribution à l’étude de l’acte juridique dans le Code Civil allemand (artt. 116 à 144), Paris 1901; Introduction à l’étude du droit civil allemand, Paris 1904; Conception et objet de la science du droit comparé. Rapport présenté au Congrès International de Droit Comparé, in «Bulletin de la Société de législation comparée», XXIX, 1900; De la personnalité juridique. Histoire et théories, vingt-cinq leçons d’introduction à un cours de droit civil comparé sur les personnes juridiques, Paris 1910. Il contributo di Ernst Rabel è: Aufgabe und Notwendigkeit der Rechtsvergleichung (1925), ora in Gesammelte Aufsätze, Tübingen 1965.

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I principali contributi comparatistici di Lambert nei primi due decennii del Novecento sono: Études de droit commun législatif. La fonction du droit civil comparé, Paris 1903; L’enseignement du droit civil comparé. Sa coopération au rapprochement entre la jurisprudence française et la jurisprudence anglo-américaine, Lyon 1919; L’Institut de droit comparé. Son programme. Les méthodes d’enseignement, Lyon 1921. Paragrafo 29 Sulle origini di un diritto del lavoro in Italia e sull’opera di Lodovico Barassi è istruttiva la lettura degli atti di un recente convegno scientifico: La nascita del diritto del lavoro. «Il contratto di lavoro» di Lodovico Barassi cent’anni dopo. Novità, influssi, distanze, Milano 2003. Su Lotmar, e anche sull’altro giurista più avanti menzionato, Hugo Sinzheimer, offre una chiara esposizione M. Becker, Arbeitsvertrag und Arbeitsverhältnis in Deutschland. Vom Beginn der Industrialisierung bis zum Ende des Kaiserreichs, Frankfurt am Main 1995. Specificamente su Lotmar si veda il seguente volume collettaneo: Forschungsband Philip Lotmar (1850-1922), a cura di P. Caroni, Frankfurt am Main 2003. Gli scritti principali di Sinzheimer possono essere letti nella raccolta: Arbeitsrecht und Rechtssoziologie. Gesammelte Aufsätze und Reden, a cura di O. Kahn-Freund e T. Ramm, Frankfurt am Main 1976. Per la Francia si può segnalare G. Aubin, J. Bouveresse, Introduction historique au droit du travail, Paris 1995 e J. Le Goff, Du silence à la parole. Une histoire du droit du travail des années 1830 à nos jours, Rennes 2004. Per l’Italia, si veda, da ultimo, P. Passaniti, Storia del diritto del lavoro, I, La questione del contratto di lavoro nell’Italia liberale (1865-1920), Milano 2006. Paragrafo 30 Per i temi di questo paragrafo, cfr. Galgano, Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale cit.; C. Bergfeld, Handelsrecht, in Handbuch der Quellen und Literatur der Neueren Europäische Privatrechtsgeschichte, B. 3, Teilb. 3. Gesetzgebung zu den privatrechtlichen Sondergebieten, a cura di H. Coing, München 1986; Hilaire, Introduction historique au droit commercial cit.; Tomas y Valiente, Manual de historia del derecho español cit.; Almeida Costa, História do direito português cit.; A. Padoa Schioppa, Saggi di storia del diritto commerciale, Milano 1992.

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Nonché le seguenti opere collettive: 1882-1982. Cento anni dal codice di commercio, Milano 1984; Modernisierung des Handelsrechts im 19. Jahrhundert, Heidelberg 1993; Bicentenaire du Code de commerce 1807-2007. Les actes des colloques, Paris 2008; Negozianti e imprenditori. 200 anni dal Code de commerce, Milano 2008. Paragrafo 31 Maggiori riferimenti in: Gaudemet, Église et cité. Histoire du droit canonique cit.; Fantappiè, Introduzione storica al diritto canonico cit.; Erdö, Die Quellen des Kirchenrechts cit. Sul lunghissimo itinerario che sboccherà nella codificazione del 1917 cfr. ora C. Fantappiè, Chiesa Romana e modernità giuridica, t. I. L’edificazione del sistema canonistico (1563-1903), t. II. Il ‘Codex iuris canonici’ (1917), Milano 2008. III. ITINERARII CONTEMPORANEI VECCHI E NUOVI MODELLI A CONFRONTO

Paragrafo 1 Abbiamo ricordato la pagina di Claudio Treves, più sopra, a p. 197. Paragrafo 2 Recentemente, la materia di questo paragrafo è stata tratteggiata in modo esauriente, con un disegno europeo, da Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, III, La civiltà liberale cit. Paragrafo 3 Qualche integrazione può essere offerta dalla trattazione, pur sommaria, di J.-L. Halpérin, Histoire des droits en Europe: de 1750 à nos jours, Paris 2004, pp. 197 sgg. Più particolarmente, per la Germania si consulti: E.R. Huber, Deutsche Verfassungsgeschichte seit 1789, B. V., Weltkrieg, Revolution und Reichserneuerung, Stuttgart 1978 e M. Stolleis, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland, vol. III. 1914-1945. Staats- und Verwaltungsrechtswissenschaft in Republik und Diktatur, München 1999. Per l’Italia, può bastare la sintesi che abbiamo tracciato in P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 19601950, Milano 2000. Paragrafo 4 Sul contesto politico-giuridico weimariano, accanto alla approfondita analisi di E.R. Huber, Deutsche Verfas-

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sungsgeschichte seit 1789, B. VI., Die Weimarer Reichsverfassung, Stuttgart 1981 e B. VII., Ausbau, Schutz und Untergang der Weimarer Republik, Stuttgart 1984, eccellenti le sintesi offerte da Stolleis, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland, vol. III cit., e da Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, IV. L’età dei totalitarismi e della democrazia cit. Su un protagonista della vicenda weimariana, Hugo Preuss, si può contare in Italia sulla eccellente indagine di S. Mezzadra, La costituzione del sociale. Il pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Bologna 1999. La Costituzione di Weimar ha avuto un traduttore e un commentatore di eccezione in Italia nel grande costituzionalista Costantino Mortati: C. Mortati, La Costituzione di Weimar, Firenze 1946. Sullo stretto nesso tra Costituente weimariana e cultura giuridica germanica, cfr. Crise et pensée de la crise en droit. Weimar, sa république et ses juristes, a cura di J.-F. Kervégan, Lyon 2002. Paragrafo 5 Una succinta ma densa analisi delle fonti di diritto nell’ultimo periodo zarista può trovarsi in: G. Ajani, Diritto dell’Europa orientale, Torino 1996. Sulla costruzione leniniana di uno Stato e di un diritto socialista, come su tutto lo sviluppo di questo, possono essere utili le integrazioni, offerte nel libro sovracitato, da Gianmaria Ajani, comparatista italiano che ha indagato a fondo sugli ordinamenti giuridici dell’area socialista. Per le costruzioni teorico-pratiche di Lenin si aggiunga, su un piano storico-giuridico e anche filosofico-giuridico, Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, IV cit. Il saggio di Lenin Stato e rivoluzione può essere letto in una buona traduzione italiana in Opere scelte, vol. IV, Roma 1975. Un’ampia antologia di giuristi sovietici appartenenti a diverse fasi della proto-storia sovietica e a diverse correnti, tale – quindi – da offrire un quadro soddisfacente dello sviluppo dopo il 1917, è in: P.I. Stucˇka, E.B. Pasˇukanis, AI. Vysˇinskij, M.S. Strogovicˇ, Teorie sovietiche del diritto, a cura di U. Cerroni, Milano 1964. Paragrafo 6 Un ampio sguardo comparativo su tutta la materia del paragrafo è offerto dall’opera collettanea: Korporativi-

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smus in den Südeuropäischen Diktaturen, a cura di A. Mazzacane, A. Somma, M. Stolleis, Frankfurt am Main 2005. Un’acuta analisi storico-giuridica e filosofico-giuridica del fascismo italiano è in Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, IV cit. Sulla scienza giuridica italiana durante il ventennio fascista, cfr. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico cit. Sulle ambiguità del corporativismo giuridico italiano, ibid. Sull’ordinamento giuridico del nazional-socialismo l’analisi più appagante, particolarmente sotto il profilo costituzionale e amministrativo, è in Stolleis, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland, vol. III cit.; dello stesso autore si veda anche: Recht im Unrecht. Studien zur Geschichte im Nationalsozialismus, Frankfurt am Main 20062. Una densa sintesi anche in Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, IV cit. Si possono ancora leggere con profitto due opere collettanee: Rechtsgeschichte im Nationalsozialismus, a cura di M. Stolleis e D. Simon, Tübingen 1989; Recht und Justiz im «Dritten Reich», a cura di R. Dreier e W. Sellert, Frankfurt am Main 1989. Alla scienza giuridica tedesca coinvolta nell’esperienza nazional-socialista dedicano una cospicua attenzione, oltre ai volumi or ora citati di Stolleis, R. van Caenegem, European Law in the Past and in the Future, Cambridge 2002 (trad. it., I sistemi giuridici europei, Bologna 2003) e M. Schmoeckel, Auf der Suche nach der verlorenen Ordnung - 2000 Jahre Recht in Europa - Ein Überblick, Köln 2005.

Indice

Prefazione di Jacques Le Goff

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Premessa

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Chiarimenti preliminari

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1. Equivoci su Europa e diritto: Europa, p. 3 - 2. Equivoci su Europa e diritto: diritto, p. 5 - 3. La storia del diritto come storia di esperienze giuridiche, p. 7

I. Radici medievali 1. UNA CIVILTÀ GIURIDICA IN COSTRUZIONE: L’OFFICINA DELLA PRASSI

1.1. Il contesto politico: una società senza Stato. L’incompiutezza del potere politico medievale, p. 11 - 1.2. Il trionfo delle comunità intermedie: perfezione della comunità e imperfezione dell’individuo, p. 16 - 1.3. Il vuoto culturale e la fattualità del diritto. Il primato dei fatti naturali ed economici. I fatti primordiali come forze fondanti: tempo, terra, sangue, p. 18 - 1.4. Il primato della consuetudine tra le fonti del diritto, p. 23 - 1.5. Il primato della prassi nella identificazione dell’ordine giuridico. All’insegna del particolarismo, p. 25 1.6. La appartatezza del legislatore, p. 27 - 1.7. Le soluzioni giuridiche della vita quotidiana di una società agraria, p. 29 1.8. La Chiesa Romana durante il primo millennio: genesi e sistemazione del diritto canonico, p. 33

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2. MATURITÀ MEDIEVALE: UN LABORATORIO SAPIENZIALE

2.1. Tra XI e XII secolo: un crinale storico. Il contesto economico-sociale. Il contesto culturale, p. 37 - 2.2. Potere politico e diritto. La appartatezza del legislatore, p. 39 - 2.3. La ritrovata complessità della società occidentale esige rinnovati strumenti giuridici, p. 44 - 2.4. Il ruolo della scienza giuridica. Universalismo e particolarismo. Consuetudini e scienza nell’identificazione dell’ordine giuridico, p. 45 - 2.5. Sul carattere della scienza giuridica tardo-medievale. Diritto comune, diritto romano, diritto canonico, p. 48 - 2.6. La sistemazione del diritto canonico. L’edificazione del diritto canonico classico, p. 55 - 2.7. Diritto comune, leggi e statuti particolari nazionali e locali, p. 56 - 2.8. Diritto comune e diritto feudale. In particolare, degli «usus feudorum», p. 60 - 2.9. Alle origini del diritto commerciale, p. 63

II. Fondazioni della modernità giuridica 1. Il Trecento agli occhi dello storico del diritto: sconvolgimenti socio-economici e crisi di valori. Alla ricerca di un nuovo ordine giuridico, p. 67 - 2. Un processo liberatorio: macroindividuo e micro-individuo quali nuovi protagonisti. Alle origini dello Stato moderno, p. 72 - 3. Il principe e il diritto. In particolare, del regno di Francia: un laboratorio politico-giuridico della modernità, p. 74 - 4. In particolare, del regno d’Inghilterra: continuità con la visione e l’esperienza medievali. Alle origini del «common law», p. 78 - 5. Una frattura ideologica con il passato nel solco della liberazione individuale: Umanesimo, riforma religiosa, pre-capitalismo, rivoluzione scientifica, p. 83 - 6. In particolare: riforma religiosa e ordine giuridico, p. 88 - 7. In particolare: l’umanesimo giuridico e le sue due anime: a) l’anima razionalista; b) l’anima storicista, p. 90 - 8. Il giusnaturalismo, p. 96 - 9. L’illuminismo giuridico. Legalismo e legolatria. L’età dell’assolutismo giuridico, p. 104 - 10. L’età dell’individualismo proprietario. Liberalismo economico e assolutismo giuridico, p. 113 - 11. L’età del costituzionalismo. Il costituzionalismo moderno tra mito e storia, p. 115 - 12. Il regno di Francia nei secoli XVII e XVIII e la costruzione di un «droit français», p. 120 - 13. Il regno d’Inghilterra: turbolenze e mutamenti costituzionali al di sopra della stabile continuità del «common law», p. 125 - 14. Il messaggio giuridico della rivoluzione francese, p. 129 - 15. L’età del Codice, p. 135 - 16. In particolare: della codificazione francese, ai primi del secolo XIX, p. 140 - 17. E della codificazione austriaca, p. 145 - 18. Legge, scienza giuridica, prassi giuridica nell’Europa dei Codici, p. 149 - 19. Legge, scienza giu-

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ridica, prassi giuridica nell’area germanica durante la prima età moderna, p. 155 - 20. Legge, scienza giuridica, prassi giuridica nell’area germanica durante l’Ottocento. Scuola storica del diritto e Pandettistica. L’edificazione del sistema giuridico, p. 160 - 21. Fondazioni germaniche di un’autonoma scienza di diritto pubblico, p. 170 - 22. Pandettistica e germanistica verso il «Bürgerliches Gesetzbuch» dell’Impero tedesco. Un Codice speculare alla scienza: il BGB del 1896-1900, p. 175 - 23. Una codificazione singolare: il Codice civile svizzero del 1907, p. 178 - 24. Pesantezze legalistiche in Francia. Il potere ‘pretorio’ della giurisprudenza pratica. Insofferenze e proposte: Raymond Saleilles e François Gény, p. 180 - 25. La ventata giusliberistica: un modernismo giuridico, p. 186 26. Solidarismo giuridico di fine Ottocento: le cosiddette «leggi sociali», p. 189 - 27. Solidarismo giuridico di fine Ottocento: il cosiddetto «socialismo giuridico», p. 194 - 28. Alle origini della comparazione giuridica, p. 198 - 29. Alle origini del diritto del lavoro, p. 201 - 30. Il diritto commerciale tra legislazione, scienza e prassi, p. 208 - 31. La prima codificazione del diritto canonico nel 1917, p. 213

III. Itinerarii contemporanei. Vecchi e nuovi modelli a confronto 217 1. Novecento giuridico: crisi dello Stato e riscoperta della complessità, p. 219 - 2. Corporativismi europei, p. 223 - 3. La prima guerra mondiale e la sua incidenza nell’ordine giuridico europeo, p. 229 - 4. Il comunitarismo weimariano, p. 232 - 5. L’Unione Sovietica e la costruzione di un diritto socialista, p. 238 - 6. Il diritto nei regimi totalitarii italiano e tedesco, p. 242 - 7. Dopo il 1945. Nuove costituzioni e vecchi codici. L’avvìo del processo di unificazione europea, p. 249 8. Qualche considerazione finale tra un millennio e l’altro, p. 254

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