Giuseppe. Storia di fratellanza e amicizia. Psicologia e Bibbia in dialogo 8846508262, 9788846508263

Questo volume propone un percorso psicologico e spirituale sulla relazione tra fratelli e sorelle e sul sentimento di fr

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Giuseppe. Storia di fratellanza e amicizia. Psicologia e Bibbia in dialogo
 8846508262, 9788846508263

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RESS

RESS

SALVATORE CAPODIECI

GIUSEPPE Storia di fratellanza e amicizia Psicologia e Bibbia in dialogo

L AT E R A N U N I V E R S I T Y P R E S S

Vivae voces 6

Giuseppe

Storia di fratellanza e amicizia

www.e-lup.com ISBN ePub 978-88-465-0880-5 ISBN PDF 978-88-465-0881-2 © Copyright 2012 – ISBN 978-88-465-0826-3 Lateran University Press Pontificia Università Lateranense Piazza san Giovanni in Laterano, 4 Città del Vaticano

Salvatore Capodieci

Giuseppe Storia di fratellanza e amicizia Psicologia e Bibbia in dialogo

Presentazione di Gianluigi Pasquale OFM Cap.

Presentazione

Lo scenario psichico dei personaggi biblici: prototipi di vita spirituale

Nel linguaggio comune, come pure in quello più dichiaratamente letterario, vengono spesso utilizzate figure di personaggi della Bibbia per indicare stati d’animo interiore o atteggiamenti psichico-temperamentali caratteristici della nostra personalità. Così, per esempio, anche oggi, guardando all’Antico Testamento, si usa dire che uno può credere «con la fede di Abramo» (Gen 15,1-6; Rm 4,20) – il che significa con una fede scevra dal puntello di qualsiasi motivazione che non sia soltanto il credere genuino –, oppure che un altro persevera nella preghiera con la «pazienza di Mosé», il quale rimase a lungo con le braccia alzate, benché per questo aiutato da Aronne e da Cur, fintantoché gli Israeliti non vinsero la battaglia contro gli Amaleciti (Es 17, 8-16). D’altro canto, se si pensa al Nuovo Testamento è ancora d’uso comune affermare: «sei un incredulo come Tommaso» l’Apostolo (Gv 20, 24-25), oppure: «sei un [traditore come] Giuda», indicando, in questo caso, l’Iscariota, l’ultimo degli Apostoli, il quale concluse la sua esistenza con un suicidio (Gv 13, 30). 5

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Nella lingua italiana, anzi, dire a qualcuno «sei un Giuda» non richiede altri commenti interpretativi per determinare ulteriormente la caratteristica temperamentale di quella persona, di cui non ci si può proprio fidare. I personaggi – non solo i protagonisti – della Sacra Scrittura sono, dunque, ottime metafore per indicare i più svariati atteggiamenti temperamentali all’interno di uno dei quali ciascuno di noi si può riconoscere. Sono, infatti, altrettanti prototipi di “figure psichiche” che oltrepassano – se così ci si può esprimere – lo scenario divinamente ispirato in cui essi si stagliano, essendo facilmente rintracciabili e rubricabili anche attraverso la comparazione con altre religioni, come questo libro su Giuseppe. Storia di fratellanza e di amicizia che presentiamo osa argutamente insinuare. E questo sia per ciò che riguarda i personaggi maschili, come anche per quelli femminili per sé presi, se guardiamo, per esempio, alla relazione sussistente fra Davide e Gionata (1Sam 18,2), e alla rivalutazione che ne fa la Bibbia, in questo caso all’interno del protocollo di un’autentica amicizia, la quale, imbrigliando l’eterogenesi dei fini, dichiara del legame in sé tutta la sua implicita gratuità, cosa che si rende perspicua nella solidità di un’amicizia spirituale. La possibilità di studiare l’indole psichica dei numerosi personaggi, di cui i libri ispirati della Sacra Scrittura sono costellati, all’interno del grembo scritturistico e letterario in cui essi sono nati, è un’intuizione del Prof. Dr. Giuliano Franzan OFM Cap., Docente assieme allo scrivente nello Studio Teologico Interprovinciale «Laurentianum» dei Frati Cappuccini di Venezia, intuizione ora sfociata in questo nuovo libro della Lateran University Press (Città del Vaticano) che, per questo, si presenta al pubblico in tutta la 6

Presentazione

sua originalità, essendo quella intuizione, per quanto costa allo scrivente, del tutto inedita nel panorama editoriale italiano. Evidentemente, nella sua veste di psicologo, non sono sfuggiti al Prof. Giuliano Franzan almeno due dettagli che conferiscono a questo libro un pregio del tutto singolare. Innanzitutto, e a partire dalla prospettiva del recente riordino degli studi ecclesiastici, emerge l’esigenza imprescindibile di stabilire un’effettiva interdisciplinarietà – oggi si parla anche della transdisciplinarietà – all’interno dell’“universitas scientiarum” mediante il ricorso, in particolare, alle “scienze umane” all’interno delle quali la psicologia polarizza oggi l’attenzione di molti. Da quest’angolo visuale le pagine che seguono trattengono senz’altro uno specimen dichiaratamente accademico. Il secondo dettaglio, poi, ne esibisce la destinazione “pastorale” perché mai come in quest’ultimo periodo proprio i sacerdoti si sono resi conto – come peraltro da anni il Magistero sottolinea – di quanto l’accompagnamento spirituale e pastorale dei fedeli loro affidati necessiti anche di una sana ed equilibrata psicologia, volta non solo al bene delle “anime”, bensì del nostro essere “persone integrali” come l’esempio veterotestamentario di Giuseppe e dei suoi fratelli ci insegna. Ho avuto modo di leggere questo avvincente volume, scritto dal Prof. Salvatore Capodieci, nel silenzio incusso della Facoltà di Teologia Cattolica nella Westfälische Wilhelms-Universität di Münster (Germania) nel semestre estivo della lunga estate 2012. E, quindi, di meditarlo a lungo e, per questo, di apprezzarne il contenuto assai profondo, gli stimoli alla riflessione, le piste di ricerca e, soprattutto, i protocolli esistenziali all’interno dei quali, senza dubbio, ciascun lettore troverà, in questo caso attraverso la storia di Giuseppe figlio 7

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di Giacobbe, tratti della propria storia e possibili soluzioni ai grovigli esistenziali dai quali nessuno è così “poco umano” da potersene considerare immune. Non credo, infatti, sia un caso che l’Autore, abbia voluto emblematicamente scegliere proprio la figura di Giuseppe, che, nonostante il tradimento dei fratelli, in Egitto riuscì a diventare secondo soltanto al faraone. Questo libro del professor Salvatore Capodieci, psichiatra e psicoterapeuta, attualmente Docente di Psicopatologia generale e Descrittiva e di Sessualità umana al Corso di laurea in Psicologia dell’Educazione dello IUSVE (Istituto Universitario Salesiano di Venezia), aggregato all’Università Pontificia Salesiana di Roma, ricalca sullo schema biblico della “Storia di Giuseppe venduto dai fratelli” una problematica umana molto intensa, sentita da tutti gli uomini e da tutte le donne come una delle dinamiche più importanti della loro esistenza. Da qualificato psichiatra e psicoanalista, Capodieci conosce la dimensione umana della fratellanza che accompagna, nelle famiglie, la crescita di ogni persona. Con sfumature diverse al maschile e al femminile la relazione genera sempre “tensioni” alle quali l’uomo deve dare una risposta comportamentale. Tensioni che, al negativo, sono espresse nei sentimenti di invidia che quasi tutti i bambini hanno verso il fratellino che nasce, percepito come intruso nella relazione triangolare, fonte di ansie e di regressioni: le ansie di essere messo da parte, le percezioni di essere il meno amato (o il desiderio di essere il più amato), esibite, poi, nelle “aggressioni” infantili che accompagnano la crescita tra fratelli e che scandiscono – se non proprio declinano – momenti di rivalità assai visibili specialmente nell’adolescenza: i dispetti tra fratelli, le proiezioni e le accuse reciproche, le 8

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lamentele, et cetera. Le stesse “tensioni” al positivo, come sottolinea argutamente l’Autore, generano fin dall’infanzia alleanze indimenticabili, confronti produttivi alla strutturazione della personalità, strategie di sostegno, rivalità volte a dimostrare il proprio valore, aiuti svariati, rassicurazioni, e altri tipologie strategiche e sentimentali che, a suo tempo, il soggetto interessato saprà utilizzare nell’età adulta. Come si avrà modo di leggere in questo libro, l’analisi delle dinamiche di relazioni fraterne e amicali del Professore Capodieci è precisa e ben documentata con citazioni prese da autori classici e da autori a noi contemporanei, che lavorano sul campo pedagogico e psicoterapeutico. Fino a questo limitare tutti gli psicologi e gli psichiatri – ma anche gli educatori e i genitori – non possono che assentire, anche se gli addetti ai lavori non dovessero, per questo, scovare nel lavoro di Capodieci nulla di esplicitamente nuovo. Ciò che, invece, in questa pubblicazione di Capodieci appare subito come novità specifica è il fatto che la dimensione di crescita fratellanza/sorellanza umana trova un riscontro perfetto nel racconto biblico di Giuseppe, chiaramente presentato nel libro della Genesi e ricalcato, poi, in molti altri libri della Sacra Scrittura. Volutamente, e pertanto sapientemente, l’Autore insinua al lettore l’interrogativo se la Bibbia confermi o meno l’approccio scientifico alla realtà relazionale, o viceversa lo studio approfondito delle relazioni umane porti – anche se in modo non sempre cosciente – alla realtà biblica che sta all’origine dell’umanità. Giuseppe invidiato nella casa di suo padre, rivale tra fratelli e fratellastri, portatore di valori eccezionali (correlati al suo carisma profetico), viene perciò prima isolato dai fratelli, poi maltrattato e odiato a morte; quindi, come è risaputo, 9

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viene venduto e fatto passare per ucciso da una bestia feroce. Qui si raggiunge il gheriglio di differenziazione tra essi (i fratelli) e il padre (Giacobbe). Il destino e le vicende della vita sono diversi, ma si ricongiungono quando viene “riconosciuto” come portatore di grazia. La Bibbia fa, dunque, della storia di Giuseppe un vero e proprio archetipo delle relazioni familiari e sociali, viste sia nell’aspetto negativo di distorsione, ma soprattutto nell’aspetto positivo di risanamento, come avviene, per esempio con l’amicizia, modello vero e proprio di psicoterapia Non si può che concordare con quanto scrive, a questo proposito l’Autore a pagina 92: «In una società dove il “partito degli ex” (ex-marito, ex-moglie) sta diventando di maggioranza, solo gli amici rimangono genuini e autentici. Se un’amicizia si rompe, infatti, il rapporto amicale si dissolve; in certi casi ha il sopravvento l’indifferenza, in altre situazioni si manifesta l’odio e l’amico di prima diventa “nemico”. Ma gli amici non saranno mai degli “ex” perché nei rapporti di vera amicizia non c’è nessun legame che ci obblighi a mantenere un rapporto con chi non è più un amico come invece capita con gli altri “ex”». Senza doversi necessariamente richiamare al Laelius de amicitia di Cicerone, lo schema biblico ricavabile dalla storia di Giuseppe elaborato dal Professore Capodieci può a tutti gli effetti confermare e guidare un processo di crescita e di risanamento a tutte le vicende umane che si vivono in famiglia, nella società e, ultimamente, nel consorzio dei rapporti civili ed economici. In realtà, l’Autore, pur non essendo teologo né biblista, maneggia molto bene il testo biblico, del quale coglie le sfumature, sapendole agganciare con competenza alla realtà relazionale studiata nella psicoanalisi, presentando, così, il 10

Presentazione

racconto biblico come un archetipo dell’agire umano, dove Giuseppe è simbolo di ricostruzione e di perdono. Da questa prospettiva, questo nuovo libro della Lateran University Press attraverso il lavoro di Salvatore Capodieci offre a ogni lettore la risposta a parecchi interrogativi che da tanto tempo il nostro cuore e la nostra mente si attendono di sentire. Westfälische Wilhelms-Universität Münster (D), 18 Agosto 2012 Gianluigi Pasquale OFM Cap. Professore nella Pontificia Università Lateranense

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Introduzione

Ecco, com’è bello e com’è dolce  che i fratelli vivano insieme! È come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne,  che scende sull’orlo della sua veste. È come la rugiada dell’Ermon, che scende sui monti di Sion. Perché là il Signore manda la benedizione,  la vita per sempre. Salmo 132 (133) Gioia dell’amore fraterno

0.1 Premessa La tematica relativa alla relazione tra fratelli e sorelle fa parte della storia dell’Umanità. La mitologia testimonia una costante antropologica che attribuisce al fratello e alla sorella un ruolo significativo nell’origine del mondo (la “mitologia di fondazione” dei 13

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Dogon1), nel principio della società e della violenza (Romolo e Remo: la coppia gemellare fratricida), nella fonte del desiderio sessuale (il mito di Iside e Osiride2, le differenti versioni del mito di Narciso3). Le tre religioni monoteistiche collocano la questione del fratello e della sorella, nelle forme dell’incesto e del fratricidio, in relazione alla figura del Padre. Il racconto biblico insiste particolarmente sulla rivalità tra fratelli e la spinta fratricida, e colloca queste dinamiche all’origine dell’umanità, ripetendone la tematica a più riprese, nei momenti in cui si prepara un cambiamento decisivo: così, dopo il famoso episodio di Caino e Abele (Cain ed Hével nella Torah), seguono le vicende di Isacco e Ismaele, poi Esaù e Giacobbe, infine Giuseppe venduto dai fratelli. L’aspetto incestuoso con la sorella è presente in altri luoghi del racconto biblico: Assalonne uccide il fratello Ammone perché ha violentato la loro sorella Tamara. Nel racconto del Corano (V, 27-31), invece, è la questione dell’incesto tra fratello e sorella alla genesi del fratricidio originario; la tradizione islamica attribuisce infatti delle sorelle gemelle ai figli di Adamo. Kabil, geloso e impulsivo, si rifiuta di sposare la sorella gemella di Habil che il padre gli aveva 1

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Secondo la complessa mitologia Dogon, popolo africano stanziato nell’attuale Mali, Amma è il creatore dell’Universo e colui che diede vita a Nommo, essere anfibio inviato sulla Terra dal sistema stellare di Sirio; dall’energia vitale del primo Nommo è stata originata la prima coppia di gemelli, fratello e sorella. Iside e Osiride, sorella e fratello, divenuti sposo e sposa in una riunione eternamente disfatta e rinnovata. Osiride, disperso in quattordici pezzi da suo fratello Seth, risuscita dal suo smembramento attraverso l’amore di Iside. Quest’ultima, sorella, madre, amante e morte di Osiride, rappresenta per lui tutti i valori riguardanti l’investimento amoroso della donna. La versione del mito di Narciso di Pausania propone un Narciso inconsolabile per la morte della sorella gemella.

Introduzione

assegnato in sposa. Per risolvere il conflitto, Adamo propone che i figli portino un’offerta a Dio che farà da arbitro. Habil offre un agnello e Kabil del grano, ma Allah non accetta il sacrificio di Kabil perché si era rifiutato di sposare la sorella di Habil. Nel racconto coranico la via d’uscita dal conflitto tra fratelli è proposta dal Padre, non nella separazione dalla gemella, ma nella concorrenza dei loro doni a Dio. Il cristianesimo privilegia, invece, il Dio-Amore che, sul sacrificio dell’unico Figlio, fonda la fraternità spirituale di uomini e donne in Cristo, fraternità desessualizzata, all’insegna dell’inflessione paolina della cristologia4. Molte volte nell’Antico Testamento il termine “fratello” assume un significato più ampio di quello corrente, indicando semplicemente un parente o un membro della medesima famiglia; per estensione, sono spesso chiamati fratelli i membri della stessa tribù o del popolo di Israele. Il pensiero fratricida e quello incestuoso sono solo due delle fantasie che riguardano la relazione tra fratelli e sorelle; le altre, che percorrono la mitologia, le fiabe e le vicende bibliche5, sono le seguenti: a) fantasia fratricida (Caino e Abele), b) fantasia di inganno e espulsione (Giacobbe e Esaù), c) fantasia di solidarietà (Hansel e Gretel), d) fantasia di essere gemelli (i Dioscuri: Castore e Polluce), e) fantasia di rivalsa e rivendicazione (Cenerentola e le sorellastre), 4 5

R. Kaës, Il complesso fraterno. Aspetti della sua specificità, in «Interazioni», 1 (2006), pp. 39-40. S. Capodieci, Fratelli & Sorelle. Hansel e Gretel o Caino e Abele?, Edizioni San Paolo, Milano 2003, p. 310.

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f ) fantasia di complementarità (Mosè e Aronne), g) fantasia di fratellanza (la riconciliazione di Giuseppe con i suoi fratelli). La maggior parte di queste fantasie è personificata in modo eloquente, come vedremo, nel personaggio biblico di Giuseppe, la cui vita è stata caratterizzata dalla presenza di diversi tipi di legami fraterni e tramandata alle generazioni successive di figli e nipoti. È proprio grazie alla vicenda di Giuseppe che la parola “fratello” ha acquisito con chiarezza il significato che abitualmente le conferiamo all’interno della famiglia, con le sue tipicità e diversità; la dimensione “fraterna” si è poi estesa alla vita della tribù o del clan, del popolo e, quindi, dell’intera società. Il racconto della relazione di Giuseppe con i suoi fratelli è quello che più di ogni altro si avvicina al senso universale di fratellanza: differenziare gli uomini tra loro perché possano ritrovarsi in virtù della capacità di accettare le diversità che caratterizzano ogni individuo. Il concetto di fratellanza è stato espresso chiaramente nelle parole della Rivoluzione francese (1789): “Liberté, Égalité, Fraternité”. Il XIX secolo ha portato alla realizzazione, in molte società occidentali, del principio della libertà; il secolo scorso ha visto il raggiungimento presso molti popoli delle garanzie di uguaglianza, ma la “Fraternità” quando sarà realizzata? L’economista Luigino Bruni6 sostiene che: il nuovo patto sociale mondiale dovrebbe essere un patto della fraternità dopo l’uguaglianza e la libertà: queste ultime sono state la 6

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L. Bruni, L’economia alle prese con i beni comuni. Il caso dell’acqua, in «Nuova Umanità», 33, 1/193 (2011), p. 56.

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grande conquista della modernità, che hanno creato la democrazia, i diritti …, ma si stanno, da sole, rivelando incapaci di gestire i beni comuni dai quali dipenderà molto, forse quasi tutto, del presente e del futuro. Liberté ed égalité dicono individuo; fraternità dice invece legame tra le persone, e senza legami, senza riconoscere che siamo legati perché insistiamo sulle stesse risorse comuni, non si esce dalla tragedia dei commons.7

Senza la fratellanza, quindi, nessun uomo e nessun popolo sarà veramente libero e uguale. 0.2 Il complesso fraterno Il termine “complesso” è definito da Laplanche e Pontalis8 come un «insieme organizzato di rappresentazioni e ricordi con forte valore affettivo, parzialmente o totalmente inconsci» avente una «funzione strutturante in determinate fasi dello sviluppo umano». Il complesso fraterno è un complesso a sé stante; non è, cioè, semplicemente un evitamento del complesso di Edipo9, che viene spostato sui fratelli. 7 8 9

Chi parlò per primo della «tragedia dei beni comuni [commons]» è stato il biologo G. Hardin, The tragedy of commons, in «Science», 162/3859 (1968), pp. 1243-1248. J. Laplanche – J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 74. Il complesso di Edipo rappresenta il nucleo fondante degli studi di Sigmund Freud: l’espressione designa l’insieme delle rappresentazioni affettive riguardanti una delle principali esperienze pulsionali dell’infanzia, ovvero il sentimento di amore rivolto verso la figura materna

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Laplanche10 specifica, infatti, che il triangolo della rivalità fraterna è formato da bambino (o bambina), genitori e fratello o sorella, mentre il triangolo edipico è costituito da bambino, madre e padre. I legami fraterni si manifestano sia «nell’apparente semplicità delle situazioni normali, sia anche nei clamori delle situazioni patologiche»11, ma in modo differente da come si manifestano invece le relazioni dei figli con i genitori. Il complesso fraterno o adelfico possiede una struttura, una dinamica e una economia specifiche e si struttura su vari livelli. A un livello intrapsichico, il fratello appare come un doppio troppo doppio ed è al contempo la prima apparizione dell’estraneo nell’infanzia: il confronto con l’altro, l’intruso, il doppio, comporta considerevoli compromessi sul piano del narcisismo, ovvero dell’amore per la propria persona e per l’immagine di se stesso, e può riattivare i conflitti edipici. Lacan12 lo equipara al complesso dell’intruso e sostiene che il fratello può giungere a rappresentare il rivale perturbante, nella misura in cui può «desiderare la madre». Il complesso adelfico possiede, inoltre, gli effetti organizzatori dei legami intersoggettivi tra fratelli e sorelle, cioè i rapporti di amore e odio, gelosia e invidia, rivalità. Esistono alleanze inconsce che legano fra di loro i membri della frae il concomitante sentimento di odio indirizzato verso la figura del padre. 10 J. Laplanche, Vita e morte in psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1970. 11 S. Freud (1914), Totem e tabù. Alcune concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici, Opere, vol. 7, Boringhieri, Torino 1977, p. 147. 12 J. Lacan (1938), I complessi familiari nella formazione dell’individuo, Einaudi Editore, Torino 2005.

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Introduzione

tria e che si possono evidenziare nel caso della morte di uno dei fratelli. Questo legame può anche andar incontro a trasformazioni in seguito al decesso dei genitori. Il gruppo fraterno costituisce infine un insieme, rappresentato dalle soggettività di tutti i suoi partecipanti, nel quale si sviluppa una realtà psichica che connota l’intero contesto familiare influenzandolo nei suoi vari ambiti. Kaës13 sottolinea che è attraverso lo schema immaginario del complesso adelfico che il soggetto organizza le sue relazioni umane, la scelta dell’oggetto e la sua posizione nei gruppi. Il complesso fraterno è, infatti, anche un fondamentale elemento organizzatore della dimensione gruppale e i suoi effetti si diramano nelle istituzioni e nell’insieme della società. In sintesi, il complesso fraterno può essere definito come: «un complesso organizzato di desideri ostili e amorosi che il bambino sperimenta rispetto ai suoi fratelli»14 e svolge quattro funzioni principali: sostitutiva di funzioni parentali deficitarie, difensiva rispetto ai conflitti edipici o narcisistici non risolti, elaborativa dei residuati delle dinamiche edipica e narcisistica, strutturante nell’organizzazione della vita interiore dell’individuo, ma anche dei popoli e delle culture.

13 op. cit. 14 L. Kancyper, Il risentimento e il rimorso, Franco Angeli, Milano 2003.

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Capitolo 1

Il racconto biblico

I concetti di “complesso” e legame fraterno possono essere compresi nel loro significato più profondo solo se si prendono in considerazione gli intrecci specifici e singolari di ogni famiglia, che riguardano legami verticali, tra genitori e figli, e orizzontali, tra gli appartenenti alla stessa generazione. In questo senso la storia della famiglia di Giuseppe è un condensato di avvenimenti riguardanti le relazioni all’interno del gruppo dei fratelli e offre al lettore e al credente lo spunto per importanti riflessioni. 1.1 Premessa Giacobbe ha dodici figli maschi avuti da quattro mogli. I figli di Lia sono: Ruben, il primogenito, Simeone, Levi, Giuda, Issacar e Zàbulon; i figli di Zilpa, schiava di Lia: Gad e Aser; i figli di Bila, schiava di Rachele: Dan e Nèftali, e i figli di Rachele: Giuseppe e Beniamino.  Nella Genesi è menzionata anche una figlia, Dina, avuta da Lia. 21

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Il racconto di Giuseppe, penultimo dei dodici figli di Giacobbe e primogenito dei due figli di Rachele (il secondo era Beniamino), è senz’altro uno dei più affascinanti che la Bibbia ci ha tramandato. Nei secoli la storia ha incuriosito grandi e piccoli, per la semplicità con cui viene raccontata, per gli aspetti relazionali che è possibile cogliervi e per l’importante percorso spirituale che propone. È noto, infatti, che Giuseppe ebbe tanti “affanni” a causa del rapporto con i fratelli ma Dio, che egli aveva servito con fedeltà, lo ricompensò facendogli «dimenticare ogni suo affanno e tutta la casa di suo padre» (Gen 41, 51). Nel libro della Genesi, che contiene la gran parte della storia (alcuni riferimenti si trovano anche nell’Esodo e nel libro di Giosuè), Giuseppe è descritto come il figlio prediletto del padre che aveva riversato su di lui l’amore provato per la moglie Rachele, morta con la nascita di Beniamino. La prima evidenza di questo rapporto privilegiato con il padre è rappresentata dalla tunica che Giuseppe riceve all’età di diciassette anni; regalo che fa nascere la gelosia dei fratellastri (half-sibling, diremmo oggi utilizzando un termine più elegante). L’invidia è alimentata anche dai sogni di Giuseppe: nel primo dei quali compaiono undici covoni di grano (rappresentanti gli undici fratelli) che si inchinano davanti al covone di grano confezionato da Giuseppe; nel secondo undici stelle, il sole (che rappresenta il padre Giacobbe) e la luna (la matrigna Lia) si prostrano davanti a Giuseppe (Gen 37, 2-10). 1.2 La vicenda biblica Un giorno i fratelli di Giuseppe stanno pascolano i greggi e, vedendo da lontano che Giuseppe si sta avvicinando, de22

Il racconto biblico

cidono di ucciderlo. Si dissero l’un l’altro: «Ecco, il sognatore arriva! Orsù, uccidiamolo e gettiamolo in qualche cisterna! Poi diremo: una bestia feroce l’ha divorato! Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!» (Gen 37, 19-20). Il primogenito Ruben si oppone suggerendo di gettarlo in fondo a un pozzo vuoto, senza però fargli alcun male. Il suo pensiero è di salvarlo e riportarlo dal padre. Quando Giuseppe arriva, i fratelli lo spogliano della sua tunica e lo gettano in una cisterna vuota. Poi, però, vedendo arrivare una carovana di mercanti ismaeliti, Giuda propone di venderlo per venti sicli d’argento. Non trovando più Giuseppe nella cisterna, Ruben si straccia le vesti e, tornato dai fratelli, dice: «Il ragazzo non c’è più, dove andrò io?» (Gen 37, 30). I fratelli prendono allora la tunica di Giuseppe e, scannato un capro, la intingono nel sangue, facendola arrivare al padre con queste parole: «L’abbiamo trovata; riscontra se è o no la tunica di tuo figlio». Giacobbe la riconosce e dice: «È la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l’ha divorato. Giuseppe è stato sbranato». Giacobbe si straccia le vesti, indossa un cilicio attorno ai fianchi e inizia un prolungato lutto per il figlio (Gen 37, 31-34). Intanto Giuseppe, fatto schiavo, viene condotto dai mercanti in Egitto e venduto a Potifar, consigliere del faraone e comandante delle guardie. Giuseppe lo aiuta negli affari, conseguendo ottimi risultati, e ne diventa l’intendente per molti anni. Giuseppe è vittima di un tentativo di seduzione e di ingiuria: La moglie di Potifar tenta di sedurre Giuseppe che, però, la respinge, per non tradire la fiducia del suo padrone; «Benché lei 23

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gliene parlasse ogni giorno, Giuseppe non acconsentì a unirsi né a stare con lei» (Gen 39, 10). Un giorno la donna si accorge che Giuseppe, scappando da lei, aveva lasciato la veste nelle sue mani; chiama allora la gente di casa e dichiara: «egli è venuto da me per unirsi a me, ma io ho gridato a gran voce. E com’egli ha udito che io alzavo la voce e gridavo, mi ha lasciato qui la sua veste ed è fuggito». Tiene così la veste finché non torna a casa il padrone che, alle parole della moglie: «Il tuo servo mi ha fatto questo!», si irrita e rinchiude Giuseppe nella prigione dove erano detenuti i carcerati del re (Gen 39, 13-20).

Qui Giuseppe divide la cella col coppiere e col panettiere caduti in disgrazia agli occhi del faraone. Un mattino, questi due compagni si svegliano, dopo aver fatto ciascuno un sogno. Il capo dei coppieri racconta il suo a Giuseppe: Nel mio sogno, mi stava davanti una vite; in quella vite c’erano tre tralci; mi pareva che essa germogliasse, poi fiorisse, e desse infine dei grappoli d’uva matura. Io avevo in mano la coppa del faraone; presi l’uva, la spremetti nella coppa del faraone e diedi la coppa in mano al faraone (Gen 40, 9-11).

Giuseppe illustra i sogni: Questa è l’interpretazione del sogno: i tre tralci sono tre giorni; fra tre giorni il faraone ti farà rialzare il capo, ti ristabilirà nel tuo incarico e tu darai in mano al faraone la sua coppa, come facevi prima, quando eri suo coppiere. Ma ricordati di me, quando sarai felice, e sii buono verso di me, ti prego; parla di me al faraone e fammi uscire da questa casa, perché io fui portato via di nascosto dal paese degli Ebrei e anche qui non ho fatto nulla per essere messo in questo sotterraneo (Gen 40, 12-15).

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Il racconto biblico

Il capo dei panettieri, vedendo che l’interpretazione era favorevole, chiede a Giuseppe: Anch’io! Nel mio sogno avevo tre canestri di pane bianco sul capo; nel canestro più alto c’era per il faraone ogni sorta di vivande cotte al forno; e gli uccelli le mangiavano dentro al canestro sul mio capo». Giuseppe risponde: «Questa è l’interpretazione del sogno: i tre canestri sono tre giorni. Ancora tre giorni e il faraone alzerà la tua testa, ti farà impiccare a un albero e gli uccelli mangeranno la tua carne addosso a te (Gen 40, 16-19).

Tre giorni più tardi queste interpretazioni dei sogni si realizzano, ma il gran coppiere si dimentica di Giuseppe (Gen 40, 9-23); solo due anni più tardi se ne sovviene, in occasione di due sogni fatti dal faraone che nessuno dei maghi riusciva a interpretare. Giuseppe viene fatto uscire di prigione e il faraone gli racconta: Nel mio sogno io stavo sulla riva del fiume; quand’ecco salire dal fiume sette vacche grasse e di bell’aspetto e che si misero a pascolare nella giuncaia. Dopo quelle, ecco salire altre sette vacche, magre, di bruttissimo aspetto e scarne: tali che non ne vidi mai di così brutte in tutto il paese d’Egitto.  Le vacche magre e brutte divorarono le prime sette vacche grasse; e queste entrarono loro in corpo e non si riconobbe che vi erano entrate; erano di brutto aspetto come prima. E mi svegliai. Poi vidi ancora nel mio sogno sette spighe venire su da un unico stelo, piene e belle; ed ecco germogliare altre sette spighe, vuote, sottili e arse dal vento orientale, dopo quelle altre. Le spighe sottili inghiottirono le sette spighe belle. Io ho raccontato questo ai maghi, ma non c’è stato nessuno che abbia saputo spiegarmelo (Gen 41, 17-24).

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Allora Giuseppe spiega al faraone: Ciò che il faraone ha sognato è una stessa cosa. Dio ha indicato al faraone quello che sta per fare. Le sette vacche belle sono sette anni e le sette spighe belle sono sette anni; è uno stesso sogno. Le sette vacche magre e brutte che salivano dopo quelle altre, sono sette anni; come pure le sette spighe vuote e arse dal vento orientale saranno sette anni di carestia. Questo è quello che ho detto al faraone: Dio ha mostrato al faraone quello che sta per fare. Ecco, stanno per venire sette anni di grande abbondanza in tutto il paese d’Egitto. Dopo verranno sette anni di carestia; tutta quell’abbondanza sarà dimenticata nel paese d’Egitto e la carestia consumerà il paese (Gen 41, 25-30).

Giuseppe propone allora di raccogliere delle scorte negli anni di abbondanza da utilizzare in quelli di carestia; convinto da questa proposta, il faraone decide di metterlo a capo del paese. Lo chiama Safnat-Paneac e gli dà in moglie Asenat, figlia di Potifera, sacerdote di On. Nascono due figli. Giuseppe chiama il primogenito Manasse, perché dice: «Dio mi ha fatto dimenticare ogni mio affanno e tutta la casa di mio padre»; al secondo dà il nome di Efraim, perché dice: «Dio mi ha reso fecondo nel paese della mia afflizione» (Gen 41, 51-52). Dopo i sette anni di abbondanza, durante i quali Giuseppe organizza la raccolta di riserve alimentari, la fame si abbatte su tutta la regione e costringe le popolazioni a venire in Egitto per approvvigionarsi. Anche Giacobbe manda i suoi figli a comprare del grano, eccetto Beniamino, il fratello di Giuseppe, affinché: «non gli succeda qualche disgrazia!» (Gen 42, 4). Giuseppe li riconosce senza essere a sua volta riconosciuto, si ricorda dei sogni che li riguardavano e li accusa: «Voi siete 26

Il racconto biblico

delle spie! Siete venuti per vedere i luoghi indifesi del paese!». I fratelli rispondono: «No, mio signore, i tuoi servi sono venuti a comprare dei viveri. Siamo tutti figli di uno stesso uomo. Siamo gente sincera. I tuoi servi non sono delle spie». Giuseppe allora replica: «No, siete venuti per vedere i luoghi indifesi del paese!» e i fratelli di rimando: «Noi, tuoi servi, siamo dodici fratelli, figli di uno stesso uomo, del paese di Canaan. Ecco, il più giovane è oggi con nostro padre, e uno non è più» (Gen 42, 9-13). Giuseppe dice loro: La cosa è come v’ho detto; siete delle spie! Ecco come sarete messi alla prova: per la vita del faraone, non uscirete di qui fin tanto che non sarà arrivato il vostro fratello più giovane. Mandate uno di voi a prendere vostro fratello e voi resterete qui in carcere, perché le vostre parole siano messe alla prova e si veda se c’è del vero in voi; se no, per la vita del faraone, siete delle spie! (Gen 42, 14-16).

E li fa rinchiudere in prigione per tre giorni, trascorsi i quali dice loro: Fate questo e vivrete; io temo Dio! Se siete gente sincera, uno di voi fratelli resti qui incatenato nella vostra prigione; e voi andate, portate il grano necessario alle vostre famiglie. Poi conducetemi il vostro fratello più giovane; così le vostre parole saranno verificate e voi non morirete. (Gen 42, 18-20).

I fratelli eseguono l’ordine di Giuseppe confidandosi fra loro: «Sì, noi fummo colpevoli verso nostro fratello, giacché vedemmo la sua angoscia quando egli ci supplicava, ma non gli demmo ascolto! Ecco perché ci viene addosso quest’angoscia». Ruben obietta: «Non ve lo dicevo io: “Non commettete questo 27

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peccato contro il ragazzo? Ma voi non voleste darmi ascolto. Perciò, ecco, il suo sangue ci è ridomandato» (Gen 42, 21-22) Dal momento che era presente un interprete,  i fratelli ignoravano che Giuseppe potesse capirli; Giuseppe allora si allontana e piange. Ritorna poi per parlare con loro e fa prendere Simeone, che viene incatenato sotto i loro occhi (Gen 42, 9-24). Quando i fratelli fanno ritorno in Egitto, Giuseppe è contento di rivedere il suo fratello più piccolo e ordina al maggiordomo: «Conduci questi uomini in casa, macella e prepara tutto, perché questi uomini mangeranno con me a mezzogiorno». L’uomo li conduce in casa di Giuseppe dove i fratelli si spaventano e si lamentano: «Siamo portati qui a motivo di quel denaro che ci fu rimesso nei sacchi la prima volta; egli vuole darci addosso, piombare su di noi e prenderci come schiavi, con i nostri asini». Il maggiordomo li rassicura: «Datevi pace, non temete; il vostro Dio e il Dio di vostro padre ha messo un tesoro nei vostri sacchi. Io ho avuto il vostro denaro» e, fatto uscire Simeone, lo accompagna da loro. Il maggiordomo offre loro acqua e foraggio per gli asini. Quando Giuseppe giunge a casa, i fratelli gli offrono il dono, che hanno portato con sé, e s’inchinano fino a terra davanti a lui. Egli si informa di come stiano e chiede: «Vostro padre, il vecchio di cui mi parlaste, sta bene? Vive ancora?». I fratelli rispondono: «Nostro padre tuo servo sta bene, vive ancora». Allora Giuseppe, alzando gli occhi, vede il figlio di sua madre, suo fratello Beniamino, e chiede: «È questo il vostro fratello più giovane di cui mi avete parlato?». Rivolto a lui gli dice: «Dio ti sia propizio, figlio mio!» e, commosso per averlo rivisto, s’affretta a uscire per cercare un luogo dove piangere; entra nella sua camera e scoppia in pianto. Poi si lava la faccia ed esce; quindi si fa 28

Il racconto biblico

forza e ordina: «Portate il pranzo». Giuseppe fa servire delle vivande e offre a Beniamino una porzione cinque volte maggiore di quella degli altri: rimangono tutti insieme a bere allegramente (Gen 43, 15-34). Giuseppe li lascia partire ma, di nascosto, fa collocare una coppa nel sacco di Beniamino, per poterlo accusare di furto e trattenerlo in prigione. Giuda però si offre al suo posto perché Beniamino possa tornare dal padre. Appurando che i suoi fratelli hanno appreso la lezione e si comportano con Beniamino diversamente da come hanno fatto con lui, egli rivela la sua identità e li perdona. Giuseppe dice allora ai suoi fratelli: Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse portato in Egitto. Ma ora non vi rattristate, né vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi portato qui; poiché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. Infatti, sono due anni che la carestia è nel paese e ce ne saranno altri cinque, durante i quali non ci sarà raccolto né mietitura (Gen 45, 4-5).

Invita quindi tutta la sua famiglia a risiedere in Egitto. Poi, piangendo, si getta al collo di Beniamino che piange a sua volta; bacia anche gli altri fratelli che si mettono a parlare con lui (Gen 45, 4-15). Quando, arrivato in Egitto, Giacobbe rivede il figlio esclama: «Ora, che io muoia pure, giacché ho visto il tuo volto, e tu vivi ancora!» (Gen 45, 30); Giuseppe fa abitare suo padre e i fratelli nella parte migliore del paese, nel territorio di Ramses, come il faraone aveva ordinato e fornisce a tutti il pane (Gen 47, 11-12). Alla vigilia della sua morte, Giacobbe adotta come figli Efraim e Manasse e li benedice. Quando Giuseppe vede suo 29

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padre posare la mano destra sul capo di Efraim, anziché su quella di Manasse, se ne dispiace. Prende allora la mano di Giacobbe per levarla dal capo di Efraim e metterla sul capo di Manasse dicendogli: «Non così, padre mio, perché questo è il primogenito; metti la tua mano destra sul suo capo». Suo padre però si rifiuta e risponde: «Lo so, figlio mio, lo so; anch’egli diventerà un popolo; anch’egli sarà grande; nondimeno il suo fratello più giovane sarà più grande di lui e la sua discendenza diventerà una moltitudine di nazioni» (Gen 48, 18-19).  Quel giorno benedicendoli dice: «Di te si servirà Israele per benedire, e dirà: “Dio ti faccia simile a Efraim e a Manasse!”» e mette Efraim prima di Manasse. Poi Israele1, così era soprannominato Giacobbe, predice a Giuseppe: «Ecco, io muoio; ma Dio sarà con voi e vi farà ritornare nel paese dei vostri padri. Io ti do una parte di più che ai tuoi fratelli: quella che conquistai dalle mani degli Amorei, con la mia spada e con il mio arco» (Gen 48, 20-22). Giuseppe e i suoi fratelli fanno seppellire Giacobbe in terra di Canaan. I fratelli di Giuseppe, quando vedono che il padre è morto, si domandano: «Chi sa se Giuseppe non ci porterà odio e non ci renderà tutto il male che gli abbiamo fatto?» Mandano allora a dire a Giuseppe: «Tuo padre, prima di morire, diede quest’ordine: “Dite così a Giuseppe: Perdona ora ai tuoi fratelli 1

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Giacobbe significa “il soppiantatore”, il nome deriva da ageb ossia “tallone”, “calcagno” e più specificamente “afferrare per il calcagno o soppiantare”; è stato chiamato così poiché, «al momento del parto, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello, nato per primo e quindi destinatario del diritto di primogenitura» (Gen 25, 26). Giacobbe fu soprannominato “Israele” in quanto “lottò col Signore e vinse” (Gen 32, 29), dalla radice shr, lottare, ed El, Signore. 

Il racconto biblico

il loro misfatto e il loro peccato; perché ti hanno fatto del male”. Ti prego, perdona dunque ora il misfatto dei servi del Dio di tuo padre!» (Gen 50, 15-17). A queste parole, Giuseppe si commuove e piange; i fratelli si inchinano ai suoi piedi e gli dicono: «Ecco, siamo tuoi servi». Giuseppe risponde: «Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso. Ora dunque non temete. Io provvederò al sostentamento per voi e i vostri figli». Così li conforta e parla al loro cuore (Gen 50, 19-21). Giuseppe vivrà fino a centodieci anni potendo vedere fino alla terza generazione dei suoi discendenti; in punto di morte predice ai suoi fratelli: «Io sto per morire, ma Dio per certo vi visiterà e vi farà salire, da questo paese, nel paese che promise con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe». Quando muore, viene imbalsamato e deposto in un sarcofago in Egitto (Gen 50, 22-26). Nell’Esodo è scritto che Mosè prende con sé le ossa di Giuseppe perché così egli ha fatto giurare ai figli d’Israele, dicendo loro: «Dio certamente vi visiterà; allora, porterete con voi le mie ossa da qui» (Es 13, 19); Giuseppe verrà sepolto nella terra di Canaan durante l’esodo.

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Capitolo 2

La dimensione fraterna nella storia di Giuseppe

La vicenda biblica sulla vita di Giuseppe e sulle sue relazioni con i fratelli offre numerosi spunti per comprendere l’affascinante mondo delle relazioni fraterne, dai suoi aspetti più drammatici a quelli più elevati dell’amore e della solidarietà che connotano il sentimento della fratellanza. Gli aspetti psicologici della storia sono numerosi, si prenderanno qui in esame i principali: essere il figlio preferito, possedere l’oggetto invidiato, il rituale del mangiare, l’interpretazione dei sogni, l’incapacità a riconoscere il fratello, superare il complesso fraterno, la nascita del sentimento di fratellanza, la morte di un genitore e la lealtà reciproca tra i fratelli. 2.1 Essere il figlio preferito Giacobbe, padre di dodici figli, ha una chiara preferenza per Giuseppe, probabilmente perché lo aveva avuto dall’amata Rachele, in tarda età. La preferenza, che esiste in tutte le famiglie e caratterizza i rapporti tra genitori e figli, 33

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spesso non ha una spiegazione esplicita, ma può diventare una delle principali cause di rivalità e gelosia tra fratelli e sorelle. La prima testimonianza è offerta dalla storia di Caino e Abele, dove la preferenza manifestata da Dio per Abele diventa causa del primo fratricidio. Come nasce la preferenza? Solitamente la preferenza è rivolta a colui che più si avvicina al figlio “ideale” che i genitori desideravano oppure a chi occupa lo stesso posto di genitura posseduto dal genitore: Giuseppe era l’undicesimo figlio, era però, al contempo, il primogenito dei due figli che Giacobbe aveva avuto dalla donna più amata, Rachele. Giacobbe si identificava forse con Giuseppe per il suo desiderio di primogenitura nei confronti del fratello Esaù? Desiderio che era stato così intenso da portarlo a ingannare il padre Isacco pur di ottenerla. Come in tutte le famiglie, anche in quella di Giuseppe, la storia si ripete: suo nonno Isacco preferiva Esaù, mentre Giacobbe era il preferito di sua nonna Rebecca. La trasmissione transgenerazionale1, come spiega la psicoanalisi, fa sì che sia Giuseppe il preferito di Giacobbe. I fratelli che non accettano le diversità esistenti tra i vari membri della fratria vivono la preferenza come un’ingiustizia e non riescono a capire che i genitori possono avere diversi modi di amare i figli. Se un figlio è soddisfatto di come il padre o la madre lo amano, non ha difficoltà a con1

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Nella trasmissione transgenerazionale i vissuti psichici trasmessi sono impensabili; avviene un «attraversamento tra le generazioni e tra gli spazi emotivi di contenuti la cui elaborazione e trasformazione non è stata possibile» (A.M. Nicolò, La memoria nella trasmissione generazionale della famiglia, in «Psiche: rivista di cultura psicoanalitica», VIII, 2 (2000), pp. 111-122). A dominare è il non rappresentabile, l’impensabile, l’indicibile con la sua corte di segreti, di non detti, di pseudoverità.

La dimensione fraterna nella storia di Giuseppe

statare che i fratelli e le sorelle possono essere amati in modo diverso e non sulla base di una presunta preferenza. Per riuscire a integrare questi vissuti un individuo deve avere una buona stima di sé che lo porta a essere contento di come è. Se invece insorgono rivalità, invidia e gelosia, significa che c’è un problema di relazione tra i fratelli e una difficoltà ad accettare l’amore della madre e del padre. 2.2 Possedere l’oggetto invidiato: la tunica Giuseppe riceve in dono dal padre una tunica particolare, dalle lunghe maniche, che diventa l’oggetto dell’invidia da parte dei fratelli. L’invidia, quale manifestazione della distruttività primaria, è presente fin dalla nascita in ogni essere umano; compare prima della gelosia, è sempre sperimentata nei confronti di un oggetto parziale2 e non è conseguente a una relazione triangolare, come lo è invece la gelosia che si sostanzia dell’odio per il rivale e dell’amore per l’oggetto del desiderio. L’invidia va distinta anche dall’avidità che mira al possesso di tutto ciò che è percepito come avente valore nell’oggetto, al di là delle proprie necessità. Il vissuto provato dai fratelli verso Giuseppe è dunque di invidia: un sentimento ostile, culminante in cattiveria e malizia, che origina dalla percezione della superiorità o di un 2

L’oggetto parziale è tanto una parte del corpo (seno, pene, ecc.) quanto un suo equivalente simbolico; può essere anche una persona nella sua totalità, come la madre, ma visualizzata come fosse un oggetto che esiste solo per soddisfare i propri bisogni.

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qualche vantaggio posseduto dall’altro. L’invidia si caratterizza pertanto per la percezione di una differenza: esiste una situazione nella quale alcuni hanno qualcosa e altri no! Lo psicoanalista Karl Abraham3 sostiene che l’invidioso non mostra soltanto di desiderare quel che l’altro possiede, ma unisce a questo desiderio impulsi di odio contro il privilegiato. In questo modo si sintetizza il vissuto dei fratelli di non essere i preferiti dal padre con l’invidia per la tunica ricevuta da Giuseppe in regalo. Nella descrizione che Abraham fornisce del vissuto invidioso emerge soprattutto il sentimento di esclusione che il soggetto prova quando un fratello più piccolo gli subentra nell’allattamento. Ricordiamo che Giuseppe arriva come undicesimo fratello e questo causa un riverbero del sentimento di esclusione fra tutti i suoi fratellastri, tranne che in Ruben (anch’egli primogenito come Giuseppe lo è nei confronti di Beniamino), il quale cerca, senza successo, di mediare tra i fratelli e Giuseppe (Ruben sentì e volle salvarlo dalle loro mani, dicendo: «Non togliamogli la vita», Gen 37, 21). Abraham sostiene che, in assenza di uno stimolo specifico esterno, non sorge l’invidia, che si manifesterebbe soltanto quando le circostanze esterne ne sollecitano la comparsa, di solito contemporaneamente a un insieme di vissuti aggressivi come rancore, gelosia, ostilità, avidità, desiderio di possesso e di controllo. Ruben e Giuda esprimono una forma diversa di odio, meno intensa di quella che conduce all’omicidio, propo3

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K. Abraham, Ergänzungen zur Lehre vom Analcharakter, in «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse», IX, 1 (1923), pp. 24-47; tr. it. Supplementi alla teoria del carattere anale, Opere, I (1987), p. 181.

La dimensione fraterna nella storia di Giuseppe

nendo di gettare Giuseppe nella cisterna. L’arrivo della carovana favorisce la trasformazione della fantasia fratricida in un gesto simbolico: la vendita. Il simbolo funziona come sostituto dell’oggetto del desiderio: vendere Giuseppe vuol dire eliminarlo; è, quindi, come farlo morire. Wilfred Bion4, a questo proposito, indica un’importante conseguenza del fenomeno invidioso anche nella dinamica di gruppo: all’interno di un tipo di gruppo particolare, che l’autore definisce “parassitario”, l’emozione dominante è proprio l’invidia, attraverso la quale il gruppo tenta di distruggere colui che, al suo interno, si fa portatore della creatività e di idee nuove, personaggio che Bion definisce il “mistico”. Possiamo ritenere senz’altro Giuseppe un mistico, nel senso indicato da Bion! 2.3 Il rituale del mangiare Bruna Costacurta5 suggerisce un’importante riflessione: «dopo averlo gettato nella cisterna, dopo aver compiuto un fatto veramente agghiacciante – questi che sono dei fratelli – si mettono a mangiare». Giuseppe è chiuso in una cisterna vuota, il padre saprà che è stato sbranato da una belva feroce e i fratelli, soddisfatta la loro crudeltà, «sedettero per prendere 4 5

W. R. Bion, Experiences in groups, and other papers, Tavistock Publications, New York 1961; tr. it. Esperienze nei gruppi e altri saggi, Armando, Roma 1972. B. Costacurta, “Giuseppe e i suoi fratelli (Gen. 37-50)”, riflessione tenuta ai preti del settore Sud della Diocesi di Roma, 27 maggio 2004, pubblicata sulla Rivista Telematica “Gli scritti Centro Culturale”, www. gliscritti.it/approf/conferenze/giuse_frat.htm

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cibo». Che significato ha questo mettersi tranquillamente a mangiare? È lo spostamento della fantasia fratricida su una di tipo “cannibalico”? Oppure il bisogno di riempire il vuoto per un fratello che non c’è più? O, ancora, il pranzo è la celebrazione di un cambiamento: non sono più fratelli ma complici di un’azione delittuosa? Costacurta ipotizza che questo “mettersi a mangiare” crei una sorta di gioco paradossale: «loro lo gettano nella cisterna e mangiano e poi quando non ci sarà proprio più niente da mangiare, essi dovranno andare in Egitto e lì se lo ritroveranno davanti, vivo, senza saperlo, loro che pensavano in questo modo di essersene liberati per sempre. C’è dunque il cibo che fa da filo conduttore». Quando Giuseppe li perdona offrirà, in effetti, delle pietanze e quando ritornano in Egitto fornirà loro il pane. 2.4 L’interpretazione dei sogni L’Antico Testamento narra di diversi sogni, il più conosciuto è proprio quello del faraone egizio, riguardante sette vacche grasse e sette vacche magre, che nessuno sa interpretare, tranne Giuseppe. È questa sua capacità di interpretare i sogni che lo porterà a diventare famoso in Egitto, secondo solo allo stesso Faraone. Giuseppe sollecita l’invidia e l’odio dei fratelli proprio quando racconta loro i suoi sogni6. I fratelli si sentono mi6

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«Ascoltate questo sogno che ho fatto. Noi stavamo legando covoni in mezzo alla campagna, quand’ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni vennero intorno e si prostrarono davanti al mio». I fratelli gli rispon-

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nacciati e, spinti dall’odio e dalla rabbia, pensano all’omicidio come soluzione per liberarsi di Giuseppe e sfuggire al rischio che i sogni abbiano carattere premonitore e possano avverarsi. In tutte le famiglie c’è chi si fa interprete del destino comune. Spesso è un primogenito che suscita l’opposizione di tutti gli altri che lo considerano di volta in volta un presuntuoso, un menagramo, una sorta di Cassandra che vuole condizionare il gruppo familiare con le sue “profezie”. I primogeniti sono, in realtà, più “intelligenti” degli altri figli? Un importante studio7 su 241.310 giovani norvegesi dai 18 ai 19 anni di età evidenzia che non è solo la primogenitura a determinare un migliore sviluppo intellettivo di alcuni figli rispetto agli altri quanto il “rango sociale” all’interno della famiglia. Quest’ultimo è, a sua volta, determinato da molte variabili, tra le quali l’ordine di nascita, perché, con qualche eccezione, è il primogenito il figlio più desiderato, quello cui i genitori (e spesso i nonni) dedicano maggiori attenzioni. Rappresenta anche il figlio su cui si polarizzano le più alte aspettative, che possono essere fonte di stimolo oppure, se il figlio sente di dover realizzare quello che i genitori non hanno ottenuto, causa di frustrazione. Quando il primogenito è sereno e capace, la sinergia con le attese ge-

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dono: «Vorrai forse regnare su di noi o ci vorrai dominare?». Egli fa un altro sogno e lo raccontò ai suoi fratelli, dicendo: «Ho fatto un altro sogno! Il sole, la luna e undici stelle si inchinavano davanti a me». Egli lo raccontò a suo padre e ai suoi fratelli; suo padre lo sgridò e gli disse: «Che significa questo sogno che hai fatto? Dovremo dunque io, tua madre e i tuoi fratelli venire a inchinarci fino a terra davanti a te?» (Gen 37, 5-10). P. Kristensen – T. Bjerkedal, Explaining the relation between birth order and intelligence, in «Science», 136 (2007), p. 1.717.

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nitoriali positive, gli incoraggiamenti e le ricompense, possono far emergere il talento del ragazzo con risultati molto soddisfacenti in vari ambiti. Nel momento in cui nascono altri figli, i risultati positivi dell’investimento prioritario che i genitori hanno realizzato sul primo portano a mantenere in qualche modo un’attenzione privilegiata su questo figlio. Se, infine, le aspettative sono coniugate con un amore solido e sano, la primogenitura tenderà ad associarsi a una vita mediamente più solida e serena. L’investimento dei genitori si allenta per i figli successivi fino ad attenuarsi con l’ultimogenito, specie se nato a diversi anni di distanza. Questa potrebbe essere una spiegazione al fatto che gli ultimi nati conseguono mediamente risultati scolastici più modesti, ma sono più “simpatici”, divertenti, curiosi e tentati da professioni meno formali. I figli intermedi presentano collocazioni diverse in base al talento personale e al “rango” acquisito in famiglia. Per vari motivi, comunque, il primogenito può non essere il figlio più dotato: a causa di minori affinità emotive e caratteriali con uno o entrambi i genitori, per il fatto di possedere una personalità particolare o, semplicemente, per minor talento o simpatia rispetto ai figli nati dopo. In questo caso potrà essere il secondogenito, o l’ultimo, ad assumere quel rango di figlio primus inter pares, a prescindere dall’ordine di nascita. A ogni figlio che nasce, due forze opposte vanno ad agire sullo sviluppo intellettuale del primo: da un lato, il suo ambiente intellettuale ed emotivo è “diluito” e ulteriormente diviso a seconda del numero di fratelli che lo seguono; dall’altro, egli perde il privilegio posseduto dall’essere “l’ultimo nato” dovendo fungere da esempio e stimolo per il fratellino o i fratellini più piccoli. 40

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Frank Sulloway8 sostiene: «Il maggiore si stacca dagli altri forse perché è costretto a far ai minori da guida e in questo processo impara ad organizzare ed elaborare meglio il pensiero». Gli studiosi sembrano aver dato voce a quei primogeniti costretti a farsi carico di responsabilità e a prendersi cura, in età precoce, dei fratelli minori un po’ “viziati”. In tutto ciò appare fondamentale il clima emotivo presente nella famiglia e l’adeguatezza dei genitori nel favorire le abilità intellettuali ed emotive dei figli, in modo che riescano a sintonizzarsi sui vissuti e le sensazioni provate dagli altri, rappresentati in un primo momento dai fratelli e successivamente dagli amici e i compagni di gioco. Questa capacità si coniugherà in età giovanile alla capacità di stabilire relazioni affettive e impegni d’amore, premessa indispensabile per una vita più felice. La primogenitura non è in se stessa un destino immodificabile, ma un’occasione per l’ottimizzazione dei talenti. 2.5 L’incapacità di riconoscere il fratello I fratelli di Giuseppe lo hanno voluto morto e per loro è veramente morto; quando, perciò, se lo ritrovano davanti vivo, non riescono a riconoscerlo. Il significato di questo evento è simbolicamente molto importante: Giuseppe decide di recuperare i fratelli, aiutandoli a ridiventare tali. In una sorta di intervento psicopedagogico, Giuseppe sottopone i fratelli a un lavoro di consapevolezza che favorirà in 8

F.J. Sulloway, Fratelli maggiori, fratelli minori. Come la competizione tra fratelli determina la personalità, Mondadori, Milano 1997.

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loro il superamento del “complesso fraterno” nei suoi confronti. Li mette, dapprima, in situazione di difficoltà, non per vendetta ma allo scopo di far rivisitare loro il percorso che hanno attraversato perché, solo passando attraverso la sofferenza, potranno raggiungere la capacità di amare. Chi non soffre rimane superficiale ed emotivamente incapace di mettersi in sintonia con le proprie emozioni. La sofferenza, infatti, porta a una maturità più profonda e autentica che si evidenzia nella capacità di trasformare ciò che è male in bene, non solo per se stessi, ma anche per gli altri. Giuseppe li mette in carcere e li accusa di essere delle spie: «voi resterete qui in carcere, perché le vostre parole siano messe alla prova e si veda se c’è del vero in voi; se no, per la vita del faraone, siete delle spie!» (Gen 42, 14-16). Il termine “spia” ha un’etimologia controversa: secondo alcuni deriverebbe dal gotico spaiha, da cui la parola tedesca speha (“esplorazione”), di origine indoeuropea; secondo altri dal francone spehour attraverso il francese antico espie. Oltre al significato esplicito a cui fa riferimento Giuseppe, si possono intravedere anche altre accezioni del termine, segnalate dal Grande Dizionario della lingua Italiana Utet: «chi dà spiegazioni o chiarimenti» oppure «segnale, indizio esteriore, talora appena percettibile di una condizione morale o psicologica». Giuseppe, in realtà, vuole che i fratelli diano spiegazioni e manifestino la loro condizione morale e psicologica: solo così potrà iniziare per loro un cammino di conversione. Di fronte a questa accusa, i fratelli sono costretti a rivelarsi e a dire chi sono: «Noi, tuoi servi, siamo dodici fratelli, figli di uno stesso uomo, del paese di Canaan. Ecco, il più giovane è oggi con nostro padre, e uno non è più» (Gen 42, 13). 42

La dimensione fraterna nella storia di Giuseppe

I fratelli sono profondamente spaventati e, finalmente, parlano raccontando ogni cosa di loro: siamo figli di un solo padre, eravamo dodici, adesso un fratello non c’è più e l’altro è rimasto con il padre. La risposta dei fratelli non è coerente con l’accusa di essere delle spie, rappresenta piuttosto il desiderio di rivelare il segreto della loro colpa a quest’uomo potente e, spostando il discorso su un piano familiare, riescono a confessare9. Giuseppe, avvertendo che il processo di chiarimento si sta avviando, pensa di farli stare tre giorni in prigione dove hanno modo di trasformare la supplica in una riflessione e in un vero pentimento. Giuseppe è forse influenzato dal desiderio di rivedere Beniamino, il fratello minore e l’unico vero fratello rispetto agli altri che sono fratellastri; in effetti cambia il suo progetto due volte: prima ordina che uno solo vada a prendere l’altro fratello, poi li lascia in prigione e, infine, decide che sarebbero andati via tutti, tranne Simeone che viene incatenato. L’azione di Giuseppe è pertinente con l’asse orizzontale delle relazioni fraterne e l’evidenza si ha quando pronuncia la frase: «conducetemi il vostro fratello più giovane; così le vostre parole saranno verificate e voi non morirete» (Gen 42, 20). 9

Confessare vuol dire ammettere e riconoscere le proprie colpe. Carl Gustav Jung considera la confessione il primo stadio del processo psicoterapico a cui seguono la chiarificazione, l’educazione e la trasformazione. Il sollievo che la confessione comporta è motivato dal riconoscimento della parte oscura di sé con conseguente ritrovamento della propria interezza che era venuta meno con la scissione dalla propria coscienza dei contenuti inaccettati. Liberato dall’esilio in cui i propri segreti lo avevano relegato, il soggetto ha la possibilità di entrare in relazione con tutte le parti di sé realizzando quello che, per Jung, è lo scopo del trattamento analitico, a cui si perviene procedendo negli stadi successivi a quello della confessione, che è iniziale e preparatorio (U. Galimberti, Dizionario di Psicologia, UTET, Torino 1992).

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Questo conferma la sua accezione all’accusa di essere delle spie come bisogno di avere spiegazioni e chiarimenti. I fratelli hanno la sensazione di essere in balia di quest’uomo potente e ciò accresce in loro l’angoscia, come si comprende dal fatto che si dicono l’un l’altro: «Sì, noi fummo colpevoli verso nostro fratello, giacché vedemmo la sua angoscia quando egli ci supplicava, ma non gli demmo ascolto! Ecco perché ci viene addosso quest’angoscia» (Gen 42, 21). Essi provano vissuti di identificazione con Giuseppe: la loro angoscia è quella che Giuseppe aveva provato avendoli tutti contro, quando si trovava in fondo alla cisterna e veniva venduto come un oggetto. Come un bravo psicoterapeuta, anche Giuseppe è soddisfatto, perché nei fratelli affiora la consapevolezza e il vissuto di colpa dei loro agiti fratricidi, come infatti si comprende dalle parole di Ruben che ricorda di aver detto loro: «Non commettete questo peccato contro il ragazzo. Ma voi non voleste darmi ascolto. Perciò, ecco, il suo sangue ci è ridomandato» (Gen 42, 22). Solo a questo punto Giuseppe può cominciare a prendersi cura di loro donando grano e il permesso di tornare a Canaan per aiutare le loro famiglie e il padre Giacobbe. 2.6 Superare il “complesso fraterno” Le strategie “terapeutiche” di Giuseppe continuano nella situazione, che si ripete due volte, dei fratelli che aprono il sacco e trovano dentro il denaro. Dopo l’accusa di essere spie, devono ora dimostrare di non essere ladri. Anche in questo caso l’etimologia può aiutarci a decodificare il comporta44

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mento di Giuseppe. In origine, infatti, il termine “ladro” indicava l’uomo che scortava una persona di alto rango: era una sorta di guardia del corpo di personaggi importanti. Il ladro, dal latino  latro, tratto da  latus  (fianco, lato), era la persona che camminava a lato di un’altra per proteggerla da eventuali aggressori. Forse Giuseppe voleva che i fratelli diventassero ladri, ovvero “le guardie del corpo” del suo amato fratello Beniamino e scortarlo da lui? L’azione terapeutica di Giuseppe si muove comunque nel senso di far rivivere ai fratelli una situazione già sperimentata: tornare dal padre e ancora una volta con un fratello in meno. Se la prima volta Giuseppe era mancato e di lui avevano detto che era stato sbranato da una belva feroce, adesso non c’è Simeone. Giuseppe fa rivivere al gruppo dei fratelli l’angosciante esperienza della solidarietà fraterna: occorre essere sempre tutti, perché se manca anche uno solo, la dinamica non è più la stessa! A questo punto del racconto si inserisce l’asse verticale delle relazioni familiari: Giacobbe rifiuta che il figlio più piccolo, Beniamino, parta con il resto dei fratelli («Che non gli succeda qualche disgrazia», Gen 42, 4) e, angosciato e amareggiato, dice: «Voi mi avete privato dei miei figli! Giuseppe non è più, Simeone non è più, e mi volete togliere anche Beniamino!» (Gen 42, 36). Giacobbe non vuole mandare Beniamino perché, convinto che Giuseppe sia morto, teme di perdere anche l’unico altro figlio di Rachele. Giuseppe riesce, però, a organizzare una sorta di intervento paradossale che mette il suo gruppo familiare in scacco: se Giacobbe non lascia partire Beniamino, Simeone rimarrà prigioniero in Egitto, ma se il resto della 45

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famiglia rimane a casa, la loro sopravvivenza durerà fino a che avranno scorte di grano. Solo dopo aver valutato quale sia il male minore per i suoi figli, Giacobbe lascia partire anche Beniamino in modo che vadano in Egitto a rifornirsi di altro grano. Tornati in Egitto, i fratelli vivono una mescolanza di sentimenti, dal timore di essere nuovamente accusati di avere rubato il denaro trovato nei loro sacchi alle rassicurazioni del maggiordomo, ai dubbi sulla loro sorte quando sono invitati al banchetto. Sorge in essi lo smarrimento quando Giuseppe «fece portare loro porzioni prese dalla propria mensa, ma la porzione di Beniamino era cinque volte più abbondante di quella di tutti gli altri. E con lui bevvero fino all’allegria» (Gen 43, 34). Quando i fratelli rassicurati e con i sacchi pieni di cibo ripartono per l’Egitto, accade l’ennesimo capovolgimento: il maggiordomo, da affettuoso e rassicurante, diventa autoritario e li accusa di aver rubato la coppa con cui Giuseppe interpreta i sogni. Aperti i sacchi, il colpevole risulta Beniamino. Finalmente arriva il momento catartico che Giuseppe aveva creato ad arte: questa volta il gruppo dei fratelli non è incline a fantasie fratricide nei confronti del loro fratellastro, ma dinnanzi al rischio che Beniamino possa diventare schiavo o essere condannato a morte, i fratelli sono disposti a sacrificarsi tutti insieme. La vecchia complicità omicida è diventata solidarietà fraterna! 2.7 La nascita del sentimento di fratellanza L’aspetto catartico del racconto è rappresentato, per tutti i fratelli, dalla confessione di Giuda che racconta al fratello 46

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non riconosciuto ciò che avevano fatto a Giuseppe. È quello che Giuseppe aspettava: propone perciò la libertà per tutti in cambio di Beniamino. Giuda parla nuovamente per gli altri, spiegando che non possono ritornare se non c’è con loro il fratello minore. Non sarebbero ammessi alla presenza del padre senza Beniamino. L’amore per il padre ritorna ora come elemento decisivo nella sorte del gruppo dei fratelli. I vissuti di rivalità e gelosia, provati nei confronti di Giuseppe, si sono trasformati in un amore adulto, capace di affetto verso il fratello più piccolo e di profonda empatia nei confronti del padre che non sopporterebbe un altro lutto. Non c’è vicenda che possa rappresentare meglio il sentimento di fratellanza di questa che i fratelli realizzano in tale contesto! Giuseppe può allora svelarsi e i fratelli possono finalmente riconoscerlo. Il cammino di conversione diventa capacità di liberarsi del complesso fraterno e riuscire a “chiamare per nome” i fratelli, a riconoscerli e amarli. Giuseppe ha compiuto prima di loro un percorso che lo ha portato a una delle capacità più evolute e mature che una persona possa raggiungere: tollerare i sentimenti ambivalenti (voglia di vendetta e desiderio di perdonare) e riuscire ad autorealizzarsi. Costacurta10 suggerisce che l’elemento cardine della storia sia il perdono di Giuseppe: Il senso che il testo rivela e che è significativo per le nostre famiglie è che, perché le famiglie siano tali, perché possano restare unite 10 B. Costacurta, op. cit.

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e perché possano eventualmente ricomporsi dopo la frattura, bisogna che ci sia qualcuno che perdona! Bisogna che ci sia qualcuno che rinuncia alle proprie rivendicazioni per far prevalere il bene dell’altro e il bene comune. Bisogna che ci sia qualcuno che cede, ma non per debolezza, quanto perché portatore di una forza più grande. Bisogna che il più forte, quello cioè che è capace di amare di più, perché quella è la vera forza, accetti di cedere. Il più forte accetti di difendere la debolezza, accetti di perdonare, di rinunciare anche ai propri diritti per salvaguardare invece il bene comune.

Questi aspetti sono alla base del vissuto di fraternità di cui si parlava nell’Introduzione e si allargano al vivere nei gruppi, in società e, per il credente, all’interno del popolo della Chiesa. 2.8 La morte di un genitore In ambito psicoanalitico, la questione fraterna trova le sue radici nell’opera di Sigmund Freud “Totem e Tabù”11 che mostra come la condizione di fratello sia inscindibile dalla morte per assassinio del padre delle origini. Assassinio che acquisisce valore di atto fondatore della cultura e organizzatore del legame sociale. Freud fa nascere, dunque, i fratelli dall’orda primitiva e dall’uccisione del padre; quest’atto originario, instaurando il padre, instaura al contempo come tali i fratelli. Nella vicenda di Giuseppe “l’orda primitiva” uccide metaforicamente il padre eliminando il figlio preferito: «I suoi 11 S. Freud (1914), op. cit.

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fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente» (Gen 37,4). I fratelli di Giuseppe, inoltre, quando vedono che il padre è morto, si chiedono: «Chi sa se Giuseppe non ci porterà odio e non ci renderà tutto il male che gli abbiamo fatto?». Mandano allora a dire a Giuseppe: «Tuo padre, prima di morire, diede quest’ordine: “Dite così a Giuseppe: Perdona ora ai tuoi fratelli il loro misfatto e il loro peccato; perché ti hanno fatto del male”. Ti prego, perdona dunque ora il misfatto dei servi del Dio di tuo padre!». Quando sente i suoi fratelli parlare in questo modo, Giuseppe si commuove e piange; i fratelli si inchinano allora ai suoi piedi e gli dicono: «Ecco, siamo tuoi servi». Giuseppe risponde: «Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso. Ora dunque non temete. Io provvederò al sostentamento per voi e i vostri figli». Così li conforta e parla al loro cuore (Gen 50, 15-21). Giuseppe, nel momento in cui realizza il suo sogno12, propone ai fratelli il sentimento più elevato della relazione umana: la lealtà reciproca. Quando si raggiunge questa dimensione, nella quale i fratelli si interessano l’uno dell’altro, l’aiuto è bilaterale e si viene ripagati della propria disponibilità e collaborazione. Se il prendersi cura va in entrambe le direzioni, i fratelli si sacrificano volentieri l’uno per l’altro. 12 Giuseppe aveva detto dunque loro «Ascoltate questo sogno che ho fatto. Noi stavamo legando covoni in mezzo alla campagna, quand’ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni vennero intorno e si prostrarono davanti al mio» (Gen 37, 6-7). 

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2.9 La lealtà reciproca tra i fratelli Le caratteristiche della lealtà reciproca tra fratelli13 sono le stesse qualità che ritroviamo nell’amicizia vera, disinteressata e profonda: –– i fratelli si addolorano quando vengono allontanati l’uno dall’altro; –– i fratelli dispongono di una specie di codice privato e speciale che è comprensibile solo da loro e che ha un senso solo all’interno della relazione fraterna; questo linguaggio li distingue dagli altri parenti e dagli amici; –– i fratelli si difendono l’un l’altro dagli attacchi fisici e psicologici degli estranei; –– i fratelli hanno un atteggiamento di cooperazione e di aiuto reciproco; –– i fratelli risolvono i conflitti, contengono la loro aggressività entro limiti ben precisi, sviluppano una buona capacità di perdonarsi e capirsi; l’armonia di gruppo ha un peso maggiore della ricerca di vantaggi individuali; –– i fratelli apprezzano e favoriscono la crescita delle loro distinte personalità; sulla base dei ruoli e delle identità sono capaci di andare d’accordo e di essere complementari gli uni con gli altri. Farsi carico dei fratelli ha assunto sempre più importanza nella nostra epoca: infatti, man mano che le generazioni del 13 W. Hartup, The origins of friendship, in M. Lewis – L.A. Rosenblum (edd.), Friendship and peer relations, John Wiley, New York 1975.

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“baby boom” (persone nate negli anni ’60) sono diventate adulte, hanno costituito un gruppo caratterizzato dall’avere più fratelli di tutte le generazioni precedenti e di quelle successive. Dal momento, inoltre, che questo gruppo è quello che tende ad avere la minor stabilità matrimoniale e il minor numero di figli, è anche la generazione che, quando i genitori non ci sono più, sperimenta più di ogni altra la reciproca dipendenza tra fratelli e sorelle14.

14 V.G. Cicirelli, Sibling relationship across the lifespan, Plenum Press, New York 1995. I.A. Connidis, Siblings as friends in later life, in «American Behavioral Scientist», 33 (1989), pp. 81-93.  I.A. Connidis, Sibling support in older age, in «The Journals of Gerontology», 49 (1994), pp. 309-317.

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Capitolo 3

Il legame fraterno

3.1 Premessa Le organizzazioni familiari sono articolate attorno a due assi principali, da una parte quello verticale della relazione genitori-figli, dall’altro quello orizzontale delle relazioni fraterne. La struttura della famiglia ha una sua equivalenza nel funzionamento della mente che ha anch’essa due assi portanti: quello gerarchico e quello di equivalenza. Il primo si riferisce alla dimensione delle generazioni, quella dei genitori, caratterizzata dall’atteggiamento precettivo del padre e della madre sui figli e dal testimoniare la differenza tra i sessi. Il secondo asse è riferito alla dimensione fraterna caratterizzata dalla capacità di promuovere lo sviluppo e la differenziazione delle capacità all’interno del gruppo dei pari, dove viene valorizzata la pariteticità, sia collaborativa sia competitiva. La figura del fratello o della sorella può assumere di volta in volta, nella vita di un bambino, le sembianze dell’usurpa53

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tore, dell’intruso, del compagno di giochi, del depositario delle parti scisse della personalità del soggetto (ognuno di noi contiene, infatti, dentro di sé anche “qualcosa” che appartiene ai propri fratelli), o di parti della madre e perciò tali da essere invidiabili, ecc. Nei primi tempi della strutturazione psichica del soggetto, il fratello (o la sorella) svolgono la funzione di aiuto nella pulsione della scoperta e della conoscenza. È proprio la nascita di un fratellino o una sorellina, infatti, che sollecita il bambino alla scoperta del suo essere venuto al mondo e di conseguenza alla pulsione del sapere. In adolescenza, invece, ci possono individuare tre assi attorno ai quali si sviluppa la relazione fraterna: quello della rivalità, della prossimità-intimità e dell’identificazione. I dati esistenti sulla relazione fraterna danno le seguenti indicazioni: 1. L’affetto e l’ammirazione aumentano progressivamente dall’adolescenza all’età senile, mentre gli atteggiamenti di sostegno diminuiscono passando dall’età giovanile all’età più avanzata. Questo significa che l’affetto tra fratelli aumenta nel tempo, mentre la dipendenza che ognuno prova verso l’altro decresce con il passare degli anni. 2. La litigiosità, l’antagonismo, la competitività e il tentativo di predominare sugli altri decrescono con il passare da una fase all’altra della vita. 3. L’elemento di maggiore significato è la misura della rivalità nelle varie fasi dell’esistenza. Molti fratelli adulti evidenziano difficoltà correlate al non riuscire a essere imparziali nei confronti del padre o della madre o al sentirsi bloccati nel dire qualcosa di negativo su un genitore deceduto. 54

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In sintesi, si può affermare che la relazione fraterna diviene progressivamente più serena e arricchente passando dalla prima età giovanile all’età avanzata, poiché il livello di conflitto si abbassa notevolmente quando una persona invecchia e diventa più matura; infine, il calore umano, l’affetto e l’ammirazione crescono con il passare degli anni. Esistono tre Scale che valutano la relazione attuale e quella passata tra fratelli adulti. La relazione fraterna, secondo questi questionari1, divide i fratelli e le sorelle in cinque tipi di raggruppamenti: Supportivo, Bramoso, Apatico, Competitivo, Ostile. Le differenze sono le seguenti: 1. Il gruppo “Supportivo” è rappresentato da fratelli che vivono in zone geografiche vicine l’una all’altra, si incontrano mediamente una volta la settimana e si sentono telefonicamente quasi tutti i giorni. In questo tipo di relazione, la conflittualità può insorgere con l’intensificarsi della vicinanza e del numero di incontri di persona. Nel gruppo “Supportivo” si trovano i fratelli con alta reciprocità, confidenza e sostegno. 2. Il gruppo “Apatico” è formato da fratelli che risiedono a grande distanza l’uno dall’altro e che vivono l’opportunità di incontrarsi di persona una volta l’anno o in occasione di particolari ricorrenze; solitamente si telefonano una volta al mese o poche volte all’anno, in concomitanza di compleanni, festività o anniversari. Questo gruppo ha un basso 1

R. Lanthier – C. Stocker – W. Furman, Adult Sibling Relationship Questionnaire, in J. Touliatos et al., (edd.), Handbook of Family measurement techniques, vol. 3 (2001), Measures, pp. 7-10. Ivi, vol. 2, pp. 53-54.

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livello sia di calorosità sia di conflittualità a causa della scarsa interazione, che fa sì che condividano poco tra di loro sul piano della reciprocità e della confidenza. 3. Il gruppo “Competitivo” è costituito da fratelli che, vivendo nella stessa casa e avendo quotidiani incontri visà-vis, non sentono la necessità di telefonarsi e sperimentano una relazione con un alto livello di calorosità dovuto alle numerose possibilità di incontro. Il gruppo “Competitivo” presenta, quindi, un livello da medio a elevato di critica e competitività e un livello medio di reciprocità e desiderio. 4. Il gruppo “Ostile” e quello “Bramoso” non evidenziano chiari patterns che consentano la valutazione del loro legame, sebbene il gruppo “Bramoso” sperimenti il più alto livello di calorosità durante le telefonate. Sinteticamente, nel gruppo “Ostile” i fratelli mostrano un livello di critica e indifferenza molto alto e una mutualità, confidenza e desiderio estremamente bassi; il gruppo “Bramoso”, invece, è caratterizzato da un alto livello di mutualità, confidenza e sostegno tra fratelli, che si desiderano molto l’un l’altro. Nel corso della vita, in base a situazioni lavorative o familiari, i fratelli possono trovarsi in un gruppo o in un altro e sperimentare diverse qualità di relazione fraterna. 3.2 Lo studio della relazione fraterna Il progresso nello studio e nella comprensione dei meccanismi che riguardano la relazione fraterna procede in modo più lento rispetto alla ricerca su relazione di coppia, famiglia e rapporto genitori-figli, dal momento che è stata capita solo 56

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recentemente la grande importanza che il rapporto tra fratelli esercita nella vita di un individuo. In passato i genitori, e più in generale l’ambiente di caregiving, erano ritenuti il principale fattore, se non l’unico, che potesse influenzare lo sviluppo, il mondo interno e i comportamenti di un figlio durante l’infanzia e la pubertà, mentre il rapporto con i coetanei diventava prioritario nell’età adolescenziale, adulta e in quella avanzata. La possibilità che, durante l’infanzia, i rapporti all’interno della fratria potessero avere delle conseguenze di lunga durata era trascurata e si riteneva che i fratelli non avessero contatti significativi tra loro nell’età adulta. Solo di recente è stato evidenziato che l’interazione tra i membri della fratria esercita un’importante influenza sulla personalità e l’evoluzione di ogni singolo individuo. Parte della responsabilità nel ritardo dello studio della relazione fraterna va imputata agli psicoanalisti che hanno ignorato (nelle loro analisi con i pazienti adulti) il ruolo delle esperienze infantili interiorizzate relative al rapporto con i fratelli. Il fratello, in quanto rappresentante dell’altro, è presente sin dall’inizio della vita psichica «come modello, come oggetto, come soccorritore e come nemico»2. Freud3 aveva parzialmente riconosciuto che la relazione fraterna gioca un ruolo tanto nell’evoluzione di un individuo quanto nell’insorgenza della sua psicopatologia. In un suo articolo, egli sottolineava la funzione essenziale che il 2 3

S. Freud (1926), Psicologia di massa e analisi dell’Io, Opere, X, 1977, p. 261. Id. (1920), Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile, Opere, IX, 1977, pp. 141-167.

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confronto generazionale e quello fraterno esercitano nella formazione dell’identità dell’adolescente e, nella parte finale della sua opera, riconosceva l’importanza del “complesso fraterno” anche se non gli dedicò lo stesso studio sistematico che aveva destinato al complesso di Edipo4. La voce bibliografica “nascita di un fratello” non è menzionata nell’indice delle Opere di Sigmund Freud e neppure “ordine di nascita”; la “relazione tra fratelli” è citata solo sei volte. La situazione non è migliore nella maggior parte dei testi di psicoanalisi che solo raramente contengono riferimenti alla relazione fraterna5. Agger6 ipotizza che, avendo avuto Freud una relazione conflittuale con i suoi fratelli, possa per questo aver dato minore importanza al ruolo della relazione fraterna nella formazione di sintomi psicopatologici. Graham7 spiega come difficoltà controtransferali gli abbiano impedito di percepire il ruolo della rappresentazione fraterna nella mente dei suoi pazienti adulti. Sharpe e Rosenblatt8 affermano che i motivi per cui gli psicoanalisti possono trascurare gli aspetti riguardanti i fratelli non si basano solo su un pregiudizio teorico, ma sono dovuti ad «aspetti controtransferali correlati a personali conflitti con i fratelli». 4 5 6 7 8

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Id., Lettera a Thomas Mann (29 novembre 1936), in E. Jones, Vita e opere di Freud, vol. 3, il Saggiatore, Milano 1962, pp. 242-256. A.B. Colonna – L.M. Newman, The psychoanalytic literature on siblings, in «Psychoanalytic Study of the child», 38 (1983), pp. 285-309. E.M. Agger, Psychoanalytic perspective on sibling relationship, in «������� Psychoanalytic Inquiry», 8 (1988), pp. 3-30. I. Graham, The sibling object and its transferences: alternate organizer of the middle field, in «Psychoanalytic Inquiry», 8, 1988, pp. 88-107. S.A. Sharpe – A.D. Rosenblatt, Oedipal sibling triangles, in «Journal of the American Psychoanalytic Association», 42, 1994, pp. 491-523.

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Waugaman9 descrive casi clinici di pazienti adulti che, parlando di un fratello, evitano di chiamarlo per nome, ma si limitano a dire “mia sorella” o “mio fratello”; nel momento in cui finalmente il paziente fa riferimento al fratello facendone il nome, si ha – secondo questo studioso – l’emergere nel transfert dell’aspetto centrale del conflitto correlato al fratello. Tale “apertura” può essere accompagnata da libere associazioni che il paziente riporta sui primi importanti rapporti con un fratello e che in seguito erano state dimenticate quando i fratelli avevano preso strade diverse. Anche Waugaman conferma che, nelle analisi di adulti, il transfert riferito ai fratelli è stato in gran parte ignorato. È opportuno precisare che la relazione di un bambino o di un adolescente con un fratello o una sorella comprende un’ampia gamma di esperienze. Non avere fratelli comporta che il bambino non sia destituito da nessun altro nel suo ruolo esclusivo di figlio, ma lo espone altresì a potersi ritrovare da solo; avere dei fratelli ha dunque dei vantaggi e degli svantaggi. I vantaggi sono relativi all’opportunità di condividere, collaborare, elaborare fantasie, potersi appoggiare o essere di aiuto e socializzare con altre persone oltre ai genitori. Gli aspetti negativi fanno riferimento al fatto che la relazione tra fratelli crea un terreno fertile per gelosia, invidia, rivalità sleale, risentimento e spesso anche per l’odio10. Nella maggior parte dei casi, la 9

R.M. Waugaman, On patients’ disclosure of parents’ and siblings’ names during treatment, in «����������������������������������������������� Journal of the American Psychoanalytic Association», 38, 1990, pp. 167-194. 10 S. Capodieci, Il contributo psicoanalitico al rapporto nonno-nipote, in Id, L’età dei sentimenti, Città Nuova, Roma 1996, pp. 179-184.

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bilancia delle relazioni fraterne sta in equilibrio perché ci sono numerose esperienze positive e altrettante negative; il più delle volte prevale l’ambivalenza e la relazione si evolve dall’infanzia, attraverso l’adolescenza, fino all’età adulta e in certi casi anche molto avanti negli anni. È possibile sostenere che la dimensione fraterna svolge sin dagli arbori una funzione strutturante nella vita psichica di un soggetto. Il fratello, in quanto simile, è inoltre il primo “oggettosimile” con il quale viene intrattenuta una relazione di reciprocità. È questo altro-simile, questo doppio speculare che diventa il punto di origine del complesso fraterno, perché possiede in se stesso la relazione con l’altro che è al contempo oggetto somigliante ed estraneo (o intruso). L’arrivo di un fratellino fa sì che nulla sia più come prima, benché il bambino possa superare naturalmente ciò che viene da Winnicott definito come trauma. Nel resoconto di un bambino malato ossessionato dalle corde, Winnicott11 considera traumatica la separazione del bambino dalla madre gravemente depressa, ma vi legge anche il problema della sorella minore: «[...] la madre si era presa cura del bambino fino alla nascita della sorellina, avvenuta quando egli aveva tre anni e tre mesi. Questa fu la prima separazione importante». A questa fanno seguito un certo numero di separaV.D. Volkan – G. Ast, Siblings in the unconscious and psychopatology, International Universities Press, Madison (CT) 1997. P.B. Neubauer, The importance of the sibling experience, in «Psychoanalytic study of the child», 38 (1983), pp. 326-327 11 D.W. Winnicott (1965), Classificazione: esiste un contributo psicoanalitico alla classificazione psichiatrica?, in Id, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma 1970, pp. 157-176.

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zioni, come quando la madre viene ricoverata in ospedale. È l’eccessivo susseguirsi di deprivazioni che rende irreversibile la deprivazione originaria. Spaventato dalle separazioni da sua madre, il bambino usa le corde per legare tutti gli oggetti insieme, finché un giorno: «[...] l’interesse del bambino per le corde era venuto gradualmente assumendo una nuova caratteristica, che li aveva molto preoccupati: recentemente egli aveva legato una corda attorno al collo della sorella (quella la cui nascita aveva determinato la sua prima separazione dalla madre)». Nel chiaro resoconto di Winnicott, la corda rappresenta lo sforzo positivo di stabilire un legame, ma la corda non è del tutto “benigna”: unirebbe lui a sua madre e strozzerebbe sua sorella. Winnicott, seppur in modo pionieristico, suggerisce la fondante importanza che il fratello ha nello svolgersi della successiva vita individuale del soggetto e nella sua percezione di Sé e dell’Altro. Brunori12, nel volume “Gruppo di fratelli. Fratelli di gruppo”, sottolinea la possibilità che il fratello e/o la sorella possano giocare un ruolo “transizionale”13, nel senso inteso da Winnicott, tra famiglia e mondo esterno, come pure tra presente e passato. 12 L. Brunori, Gruppo di fratelli. Fratelli di gruppo, Borla, Roma 1996. 13 Questo termine definisce un oggetto acquisito dal bambino per aiutarsi nel suo sviluppo psicologico ed è il primo oggetto assimilato dal bambino come “non-me”. Tale oggetto, rappresentando l’unione con la madre, ne permette anche il distacco e l’autonomizzazione mediante un processo chiamato individuazione-separazione. L’oggetto, oltre che da un peluche, un pazzo di stoffa, di coperta … può essere rappresentato anche da una persona, come nel caso del fratello o della sorella.

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Bourguignon14 propone tre funzioni psichiche prioritarie svolte dal legame fraterno: 1. Il versante rassicurante e protettivo dell’esperienza fraterna diventa uno stimolo alla costruzione della personalità. 2. La funzione di contenimento svolta dalla fratria permette la scarica delle pulsioni. 3. Svolge una funzione di appoggio. Brusset15, che lavora su psicoterapie individuali riguardanti le relazioni fraterne, evidenzia come una delle configurazioni – insieme al fantasma del gemello – che mettono in luce l’idealizzazione della coppia fraterna è quella relativa alla figura dei “vasi comunicanti”. Secondo Brusset questa configurazione è usata dai pazienti per esprimere il loro vissuto di alternanza di successi e fallimenti nella vita, sentimenti positivi e negativi, salute e malattia, ecc. È come se ci fosse posto solo per uno dei due. L’analogia dei vasi comunicanti esprime il pensiero che, senza il fratello, un individuo avrebbe tutto per sé. Secondo Yahyaoui16 la fratria è un gruppo con una propria organizzazione, diverso da quello genitoriale o familiare, e che ha una serie di funzioni: –– omeostatica, ovvero mantenere costanti le condizioni di vita dell’ambiente dei fratelli; 14 O. Bourguignon, Le fraternel, Dunod, Paris 1999, pp. 5-80. Id, Le complexe fraternel, in «Journal de la Psychoanalyse de l’Enfant», 27 (2000), pp. 63-81. 15 B. Brusset, Le vases communicants, in «Le Divan Familial», 10 (2003), pp. 19-32. 16 A. Yahyaoui, Fratrie en chantier. Relations en souffrance et force du lien, in «Le Divan familial», 10 (2003), pp. 119-120.

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–– di deposito delle scariche pulsionali dei membri della fratria, riuscendo a ridurre i carichi emozionali troppo intensi e anche a risolvere situazioni di conflitto inconsce; –– di contenimento, offrendo a fratelli e sorelle un ambiente emotivo rassicurante che compensi la frustrazione che i singoli membri sperimentano a causa di stimoli interni ed esterni; –– di para-eccitazione, ovvero trasforma i contenuti concreti in elementi psichici che vengono fatti propri da ogni membro della fratria. Il gruppo dei fratelli protegge dalla violenza degli stimoli esterni e dalle eccitazioni pulsionali attraverso meccanismi di omeostasi e feed-back; –– di simbolizzazione, ovvero favorisce il processo di formazione simbolica che avviene nella mente di ogni individuo; –– di differenziazione, individuazione, socializzazione; –– di trasmissione, conferma e circolazione dei legami genealogici e delle differenze organizzatrici: sessi, generazioni, culture; –– di trasmissione, conferma e circolazione delle regole comuni alla fratria, alla famiglia e al gruppo sociale; –– di riciclaggio e riabilitazione della genitorialità e delle funzioni genitoriali; –– mitopoietica: offre la possibilità di accedere ai nuovi miti fondatori dei legami di fratelli e sorelle e di quelli di tutta la famiglia, che fanno sì che l’insieme del gruppo familiare si senta iscritto nella vita sociale. Nel gruppo di adolescenti, il mito della “fratria ideale unita” funge da ponte fra il mito di una matrice familiare idealizzata, ma imprigionante e i miti legati alle angosce esistenziali di separazione. 63

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3.3 I meccanismi psichici del legame fraterno in età adulta Il racconto biblico descrive le vicende riguardanti le relazioni tra Giuseppe e i suoi fratelli dalla giovinezza fino all’età matura. Si approfondiranno ora i meccanismi psichici relativi alla relazione tra fratelli adulti. Alcuni di essi non sono caratteristici di questa fascia di età, ma riguardano tutte le fasi della vita: la rivalità, l’invidia, la gelosia o la competitività; altri vissuti, invece, riflettono in modo caratteristico il rapporto tra fratelli di età più avanzata. I principali meccanismi mentali presenti nel rapporto tra sorelle e fratelli sono: l’idealizzazione, l’identificazione, la de-identificazione, la dipendenza reciproca, gli aspetti di tipo sadomasochistico e costruttivo17. 3.3.1 L’idealizzazione L’idealizzazione: “Ti ammiro al punto da voler diventare come te!” Un adolescente può idealizzare un fratello più vecchio, che ha delle evidenti caratteristiche positive, e desiderare di emularlo. Questa è la condizione vissuta da Beniamino nei confronti del fratello maggiore Giuseppe. Solitamente questo tipo di legame comporta dei vantaggi reciproci, che riscontriamo in alcuni passi della storia: –– Beniamino riceve una porzione di vivande cinque volte maggiore di quella degli altri; 17 S. Capodieci, Disabilità e relazione fraterna in età adulta, in «Spazi e modelli», 2 (2006), pp. 90-96.

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–– Beniamino è l’unico ad avere nel suo sacco la “coppa d’argento”, quella attraverso cui Giuseppe fa le divinazioni e interpreta i sogni. –– Giuseppe si getta al collo di Beniamino e piange. 3.3.2 L’identificazione L’identificazione: “Siamo proprio uguali!” Lo sviluppo graduale di identità separate rappresenta un processo di continuo cambiamento per ciascun individuo; i fratelli solitamente hanno destini separati e imboccano strade diverse nella vita. Influenzati da continui cambiamenti tanto del sistema familiare quanto della vita di ognuno, i sentimenti di un fratello per l’altro possono essere simili o diversi. Ciascun fratello interpreta a modo suo chi l’altro sia, così che uno può sostenere: “Abbiamo tantissimo in comune”, mentre l’altro può ritenere che ognuno vive nel proprio mondo. Il modo in cui un fratello si identifica con un altro può fornire delle indicazioni per scoprire se c’è una mutualità di reciproco scambio (interprestazione) o se, invece, uno dei due o entrambi mantengono rigidamente la propria posizione e a che stadio dello sviluppo è avvenuta una differenziazione della crescita con il totale o parziale abbandono del processo di identificazione18. 18 L’identificazione è un processo psicologico mediante il quale un individuo assimila una caratteristica, un aspetto, una proprietà di un’altra persona e si trasforma totalmente o parzialmente sul modello di quest’ultima. Attraverso questo processo un fratello può interiorizzare uno o più membri della fratria diventando simile a loro nel proprio modo di pensare, comportarsi o provare emozioni.

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I fratelli di Giuseppe si identificano tra loro nel momento in cui decidono di ucciderlo, gettarlo nella cisterna e venderlo ai mercanti di passaggio, ma anche quando sono disposti a sacrificarsi tutti insieme per salvare Beniamino, accusato di aver rubato la coppa d’argento, dalla schiavitù. 3.3.3 Il processo di de-identificazione Il processo di de-identificazione: “Siamo completamente diversi. Io non ho bisogno di te, non mi interesso a te e non desidero rincontrarti”. In età avanzata, le circostanze della vita possono portare i fratelli a una modalità di rapporto che si definisce de-identificazione. Questa relazione si caratterizza per il fatto che, quando i fratelli si incontrano, uno dei due diventa ansioso e desideroso di scappar via oppure esplode in crisi di rabbia e frustrazione. Quando questo meccanismo coinvolge due persone che in precedenza avevano sperimentato un intenso scambio con reciproca identificazione, riuscire a separarsi diventa come staccarsi da una parte di sé. Usando il linguaggio della relazione oggettuale, si potrebbe affermare che il fratello interiorizzato viene “dissociato” dal Sé19. Se questo processo si verifica in modo bilaterale nei due fratelli, la relazione può interrompersi in modo definitivo e gli incontri tra fratelli possono cessare del tutto. 19 Il termine “oggetto” si riferisce tanto all’immagine internalizzata quanto alla persona reale ed è il referente privilegiato di una relazione affettiva. La dissociazione è, invece, un mezzo attraverso il quale un essere umano mantiene la continuità personale, la coerenza e l’integrità del senso del Sé.

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Se la de-identificazione avviene precocemente, durante l’adolescenza, essa impedisce che in età adulta possa esserci un rapporto di intimità e confidenza tra fratelli, spesso determina anche l’insorgenza di dispetti, pregiudizi, sofferenza e incomprensione. Solitamente questi fratelli sono sicuri che le loro strade non si incontreranno mai, spesso vanno a vivere in posti lontani, operano scelte diverse e svolgono lavori che non hanno nulla in comune tra loro. Avere la possibilità di capire questo processo di de-identificazione, il modo in cui si verifica e come può influenzare l’identità di ognuno, può portare a un’importante consapevolezza di se stessi. La determinazione a non voler diventare come un fratello (o una sorella) significa il rifiuto di certe modalità di comportamento, che vengono attribuite al fratello. Nonostante ciò, è importante che ogni persona riconosca che ciascuno porta dentro di sé alcune “parti” degli altri familiari, fratelli e sorelle compresi. Nel cercare di stabilire l’influenza che un fratello esercita nella formazione dell’identità, oltre alla valutazione della quantità di anni in cui due fratelli sono vissuti insieme, occorre tener conto che esistono anche delle situazioni estreme, che vanno dal restare legati per tutta la vita al vivere separati senza avere alcun contatto. L’identità di un individuo è, comunque, intrecciata in modo inestricabile con quella dei propri fratelli, a prescindere dalla quantità di tempo in cui hanno vissuto insieme. Questo processo è forse quello che più di tutti caratterizza il rapporto dei fratellastri nei confronti di Giuseppe: non avrebbero mai immaginato di rincontrarlo e, quando questo avviene, non lo riconoscono («Giuseppe riconobbe i suoi fratelli, ma essi non riconobbero lui», Gen 42,8). 67

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3.3.4 La dipendenza reciproca La dipendenza reciproca: “Ci assomigliamo in molti aspetti. Ci ascoltiamo spesso e ci aiutiamo l’un l’altro nonostante le nostre diversità”. Quando i fratelli accettano le proprie differenze e trovano anche punti in comune possono essere generosi e incoraggiarsi l’un l’altro. Questo tipo di legami rispetta pienamente i criteri di una relazione fraterna adulta e matura, nella quale i sentimenti ambivalenti sono sperimentati e riconosciuti. La leale accettazione, che porta a questa forma di reciproco rispetto, è senz’altro una delle più desiderabili forme di relazione fraterna, perché quasi sempre risulta piacevole nella sua connotazione affettiva ed esaudisce l’ideale di fraternità. Questa positiva percezione del fratello presenta, però, il rischio di diventare statica con il tempo. Può accadere che un fratello raggiunga il successo o un elevato livello sociale, mentre un altro ha minor fortuna; in questo caso ognuno dei due si colloca in una propria nicchia, separata e diversa. I fratelli che hanno goduto di minor successo tendono a dipendere da quelli più fortunati e i cambiamenti nella relazione risultano difficili perché ognuno trae vantaggio dalla propria situazione. Il fratello di “successo” può trovare soddisfazione nel dare, mentre l’altro è avvantaggiato dal ricevere. Questo accade nei fratelli che, riconoscendo l’identità dell’altro come qualcosa di fisso e immodificabile, tendono a non fare troppe domande e a mantenere ben solidi gli aspetti di rispetto e lealtà. Questa relazione tra fratelli presenta il più basso livello di conflittualità e problematicità. Ma, dal momento che la visione che uno ha dell’altro rimane piuttosto statica, questo tipo di rapporto non sperimenta gli scontri, l’eccitamento, 68

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le richieste, le tensioni che altre persone vivono nella relazione con fratelli e sorelle. Tale è la condizione che si realizza quando avviene la rappacificazione tra Giuseppe e i fratelli, come nei momenti in cui Giuseppe dice ai fratelli: «“Avvicinatevi a me!”. Si avvicinarono e disse loro: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello, che voi avete venduto per l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita”» (Gen 45, 4-5), o quando Giuseppe risponde: «Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso. Ora dunque non temete. Io provvederò al sostentamento per voi e i vostri figli». Così li conforta e parla al loro cuore (Gen 50, 19-21). 3.3.5 La relazione sadomasochistica La relazione sadomasochistica: “Ho bisogno del tuo aiuto, ma lo rifiuto. Vorrei aiutarti, ma non so come fare. Non riesco a liberarmi di te”. Kasten20, attraverso la valutazione di diverse ricerche sullo svolgimento delle relazioni tra fratelli lungo tutta la vita, riporta nel suo studio che «solo rarissimamente avviene una definitiva archiviazione del contatto». Le cause scatenanti di un conflitto tra fratelli adulti possono essere correlate a un bilancio esistenziale estremamente negativo. Il fallimento del proprio progetto di vita può riproporre in età avanzata una 20 H. Kasten, Die Geschwisterbeziehung, Hogrefe - Verlag, FrankFurt 1993.

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crisi acuta proprio perché non più mascherato dall’illusione di futuri cambiamenti. Chi ne è colpito di solito diventa un “problema” e progressivamente risulterà sempre più dipendente dalla comprensione, l’affetto e l’aiuto concreto e assistenziale degli altri familiari. In queste situazioni può svilupparsi tra fratelli una particolare conflittualità nella quale, a causa di sensi di colpa e vergogna, viene spesso rifiutato l’aiuto, perchè un’accettazione significherebbe riconoscere pubblicamente il proprio fallimento e implicherebbe, d’altronde, una condizione di dipendenza; quella stessa dipendenza dalla quale il fratello “problema” aveva cercato di liberarsi lungo il corso della sua vita e che, per di più, lo obbligherebbe a un sentimento di gratitudine; «solo con un orgoglioso rifiuto – quindi – si può rendere sopportabile l’offesa e conservare la propria autostima»21. Accanto al rifiuto, emerge il desiderio di comprensione e sostegno che connota di ambivalenza questa relazione tra fratelli adulti. Altrettanto complicato è il vissuto interiore del fratello “forte”, che si chiede in che modo possa aiutare il congiunto. La domanda “Ma io voglio davvero aiutarlo?” si pone quando le offerte di aiuto sono ripetutamente respinte e il rifiuto è percepito come una limitazione di sé, risentita e infuriata. In tal modo si rafforzano anche lo stato di impotenza e il senso di inadeguatezza nel dover aiutare qualcuno senza sentirsi in grado di farlo. Il rapporto tra il fratello che ha bisogno e quello che si prende cura entra quindi in circoli viziosi e rischia di ali21 H. Petri, Conflitti tra fratelli nell’età intermedia e in età avanzata, in Id, Fratelli: amore e rivalità, Koinè, Roma 1994.

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mentare una relazione perversa di tipo sadomasochistico. Solitamente questi rapporti terminano con la completa rottura dei contatti. Neppure tale soluzione, però, risolve nulla, anzi lega ancora più strettamente i fratelli in una relazione fatta di solitudine e colpa …, finché morte non li separi! Il rapporto tra Giuseppe e i suoi fratelli ha presentato il rischio di assumere le caratteristiche della relazione perversa; i fratelli, infatti, quando vedono che il loro padre è morto, dicono: «Chi sa se Giuseppe non ci porterà odio e non ci renderà tutto il male che gli abbiamo fatto?» (Gen 50, 15). È solo la grande maturità di Giuseppe a evitare che la relazione diventi di tipo sadomasochistico; egli infatti risponde: «Non temete. Sono io forse al posto di Dio?» (Gen 50, 19) e in tal modo la relazione con i fratelli diventa “costruttiva” e così resterà nel periodo in cui vissero tutti insieme in Egitto; anche in punto di morte Giuseppe si preoccuperà per loro: «Io sto per morire, ma Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire da questo paese verso il paese ch’egli ha promesso con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe» (Gen 50, 24). 3.3.6 La relazione costruttiva La relazione costruttiva: “Siamo simili, ma diversi. Questo è un fatto stimolante e dà l’opportunità a entrambi di continuare a crescere”. Alcune relazioni fraterne appaiono basate su un buon equilibrio, caratterizzato dall’uguaglianza tra fratelli e sorelle, da un rapporto fondato su una leale e continua competitività e sull’opportunità di essere l’uno di stimolo per l’altro. L’insorgere delle differenze è attenuato da un senti71

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mento di affinità e rispetto. Tra le relazioni adulte, questa è la migliore, perché consente cambiamenti, vicinanza emotiva e salutari sfide, nel periodo che va dalla tarda adolescenza fino alle età estreme della vita. Questa forma di rapporto, inoltre, ha caratteristiche dinamiche e non corre il rischio di diventare statica; questi fratelli hanno avuto una precoce e fortunata opportunità di entrare in contatto emotivo tra di loro e questa intimità si è mantenuta nel corso del tempo. I fratelli che vivono questo tipo di legame sono capaci di equivocare consapevolmente e in modo raffinato sulla loro capacità di riconoscere somiglianze e differenze, dal momento che non vogliono ammettere, di volta in volta, di essere troppo dipendenti o eccessivamente indifferenti l’uno verso l’altro o l’altra. In questo tipo di relazione nessun fratello vuole sentirsi inferiore, né per troppo tempo in posizione dominante. Nel cuore di questo rapporto c’è, infatti, troppo rispetto per permettere alcun tipo di esclusione. Il permanere della superiorità di uno sull’altro avrebbe il solo significato di impoverire il legame della sua vitalità. In questa relazione la leale competitività, la generosità e il senso di uguaglianza rappresentano la centralità del sentimento fraterno. Questi fratelli si amano e rispettano reciprocamente, anche quando un anziano primogenito può esprimere il suo affettuoso risentimento verso un fratello o una sorella particolarmente competitivi, indipendenti o un po’ permalosi.

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Capitolo 4

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4.1 Premessa Ogni rapporto umano necessita della presenza di un altro, personificato nell’età infantile da un fratello reale, immaginario o simbolico, la cui presenza diventa man mano fondamentale, assegnando un nuovo significato all’illusione inconscia di essere il figlio unico e perfetto che deve salvare i genitori e, al tempo stesso, salvarsi da questi ultimi. La relazione fraterna è orizzontale e si riferisce a un “altro fraterno” che compie la funzione di io ausiliario, modello e oggetto di completamento e riconoscimento. È attraverso il “contropotere”, che nasce dall’alleanza tra fratelli, che si ottiene l’opposizione al mitico Crono1, che tenta di riappropriarsi dei figli divorandoli. 1

Crono scacciò i fratelli e, in seguito, sposò la sorella Rea, con la quale generò i principali dei del Pantheon greco. Avevano predetto a Crono che sarebbe stato detronizzato da uno dei suoi figli. Per evitare di perdere il

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La fraternità ha poi una dimensione liberatrice e democratica che, instaurando un ordine etico e sociale, consente di far fronte al potere autoritario della generazione che detiene il potere verticale. In questo senso, Antigone rappresenta la sorella che rivendica i diritti della fratria e affronta il cieco potere di Creonte2. Il complesso fraterno è un insieme organizzato di desideri ostili e amorosi che un bambino prova nei confronti dei suoi fratelli. Esso oltrepassa il reale vissuto dell’individuo e, infatti, anche il figlio unico non è esente dagli effetti che questo complesso determina in ogni persona. Si possono distinguere quattro funzioni del complesso fraterno: sostitutiva, difensiva, elaborativa, strutturante. 1. Sostitutiva: rappresenta un’utile alternativa che sostituisce e compensa i fallimenti delle funzioni dei genitori. 2. Difensiva: può servire a nascondere situazioni conflittuali nei confronti dei genitori o a eludere un confronto generazionale. A volte è il risultato dell’azione messa in atto da quei padri che promuovono la rivalità ostile tra i figli per mantenere incontrastato il proprio potere all’interno della famiglia.

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potere, così come era capitato a suo padre Urano (spodestato da Crono stesso), il titano prese a divorare i piccoli figli via via che Rea li partoriva. Nella tragedia di Sofocle, Antigone decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice contro la volontà del nuovo re di Tebe, Creonte. Scoperta, Antigone è condannata dal re a vivere il resto dei suoi giorni imprigionata in una grotta. Quando, dopo le profezie dell’indovino Tiresia, Creonte decide di liberarla, è troppo tardi, perché Antigone si è impiccata. Questo porterà al suicidio del figlio del re, Emone (promesso sposo di Antigone), e della moglie, Euridice, che lasciano così Creonte da solo a maledire i suoi errori. La ribellione di Antigone non è finalizzata a scardinare le leggi su cui si fonda la polis, ma è indirizzata a proteggere gli affetti familiari e, in particolare, il fratello.

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3. Elaborativa: interviene nello sviluppo e nel distacco dal potere verticale detenuto dai genitori e pone un limite alla presunzione del figlio relativa alla sua fantasia di “unicità”. 4. Strutturante: è indispensabile nello strutturare la vita psichica dell’individuo, del gruppo, della società, della cultura e nella scelta dell’oggetto d’amore. Kancyper3 sostiene che il complesso fraterno ha un’importanza strutturale e che i suoi effetti raggiungono un grado così elevato da poter segnare la vita di una persona e dei suoi discendenti. Il complesso fraterno non è il semplice spostamento di quello edipico sui fratelli, come la psicoanalisi ha sostenuto per molto tempo, ma presenta una sua specificità irriducibile e si articola, allo stesso tempo, con le dinamiche riguardanti la relazione con i genitori e la struttura narcisistica dell’individuo. Si descrivono di seguito due interessanti percorsi che hanno compiuto due personaggi famosi proprio in relazione all’influenza esercitata su di loro dal complesso fraterno: Napoleone Bonaparte e James Barrie (l’autore di Peter Pan). 4.2 Napoleone Nel 1936 Freud scriveva a Thomas Mann4 che, leggendo il suo libro sulla storia di Giuseppe, gli era nato il seguente interrogativo: «Esiste un personaggio storico per il quale la 3 4

L. Kancyper, Il complesso fraterno. Studio psicoanalitico, Borla, Roma 2008. Thomas Mann ha pubblicato una tetralogia “Giuseppe e i suoi fratelli” (titolo originale: Joseph und seine Brüder) tra il 1933 e il 1943.

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vita di Giuseppe ha rappresentato un modello e che ci permette di individuare nella storia il movente dinamico segreto di tutta la sua vita?5». Freud si risponde «Secondo me questo personaggio è Napoleone». L’ipotesi di Freud si basava sull’influenza determinante che aveva esercitato il complesso fraterno del famoso condottiero nella scelta di Giuseppina e nella sua vocazione alle armi e ai desideri imperialistici. Napoleone era, infatti, il secondo di tredici fratelli, dei quali solo otto sopravvissero; il maggiore si chiamava Giuseppe e, nelle famiglie della Corsica, il primogenito aveva dei privilegi notevoli. Eliminare Giuseppe, mettersi al suo posto e diventare Giuseppe, doveva essere stato per il piccolo Napoleone una potente emozione. Per quanto possa sembrare strano, è stato dimostrato che gli impulsi infantili così intensi tendono a trasformarsi nel loro opposto. Il rivale odiato diventa così il più amato da Napoleone; se prima aveva odiato Giuseppe con tutte le sue forze, successivamente lo amerà più di ogni altro, perdonandogli la sua mediocrità e inaffidabilità. Napoleone era molto legato alla madre e si impegnava a sostituire il padre morto nel compito di proteggere i fratelli. Una volta diventato generale, gli era stato consigliato di sposarsi con una vedova, più anziana di lui, ma di alto livello sociale. Doveva essere stato decisivo, per Napoleone, che si chiamasse Giuseppina! Lei lo trattava male, ingannava, ma lui, amandola profondamente, le perdonava tutto, probabilmente perché trasferiva su di lei parte dell’affetto che lo vincolava al fratello maggiore Giuseppe. 5

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S. Freud, Lettera a Thomas Mann, op. cit. pp. 538-540.

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L’identificazione con il personaggio biblico raggiungeva, però, la sua massima espressione nella famosa spedizione in Egitto di Napoleone. Dove avrebbe potuto andare, d’altronde, uno che si identificava con Giuseppe e voleva apparire grande agli occhi dei fratelli, se non in Egitto? Il suo proposito di fratellanza si realizzerà in seguito in Europa, quando si prenderà cura dei fratelli, concedendo loro titoli di principi e re. L’insignificante Girolamo deve essere stato per lui, probabilmente, come Beniamino; a quel punto Napoleone potrà anche ripudiare la moglie Giuseppina6. 4.3 James Barrie Non so se avete mai visto la mappa della mente di una persona Talvolta i dottori disegnano mappe … ma provate a sorprenderli mentre cercano di disegnare la mappa della mente di un bambino, che non solo è confusa, ma continua a girare intorno per tutto il tempo! J. Barrie, Peter e Wendy7

«Molto tempo fa – disse – pensavo anch’io come voi che mia madre avrebbe tenuto la finestra aperta per me; così rimasi fuori per lune e lune, e poi feci ritorno: ma la fine6 7

M. Sommantico – G. Tavazza (edd.), Fratelli: vincolo e risorsa, in «Interazioni», 1 (2006), pp. 100-101. J.M. Barrie (1911), Peter e Wendy, Lanterna Magica, Pordenone 1994.

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stra era chiusa, perché mia madre mi aveva completamente dimenticato, e c’era un altro bambino che dormiva nel mio letto». Tutti sanno chi è Peter Pan, ma per conoscere la storia della nascita di questo personaggio delle fiabe, bisogna risalire alla vita del suo creatore. James Barrie nacque nel 1860, terzogenito di sette figli, dopo il secondogenito, David, prediletto dalla madre Margaret. Quando David morì tragicamente in un incidente di pattinaggio a quattordici anni non ancora compiuti, la madre sprofondò in una grave depressione. James, a sei anni, in un sol colpo perdeva il fratello e la madre, che si rinchiudeva in una stanza buia con la sola compagnia del ricordo del figlio morto. L’autore di Peter Pan ricostruì così un episodio di quel drammatico periodo: «Mia sorella mi disse di andare nella stanza di mia madre e di dirle che aveva anche un altro bambino. Entrai eccitato, ma la stanza era buia, e quando udii la porta chiudersi e nessun suono provenire dal letto ebbi paura e rimasi immobile […] dopo un po’ di tempo udii una voce sconsolata, mai prima d’allora così sconsolata, che mi disse: “Sei tu?”. Credo che il tono mi ferì perché non risposi. Poi la voce, ancora più ansiosamente, ripeté: “Sei tu?”. Pensai che stesse rivolgendosi al ragazzo morto e dissi con vocina derelitta: “No, non è lui, sono solo io”»8. La madre sembrò accettarlo e James fece di tutto per rallegrarla e farla sorridere. Corse ad avvertire gli altri familiari di quell’accenno di miglioramento, ma al suo rientro la mamma era in pianto e ancora molto triste. «James cerca un’altra soluzione: fa parlare 8

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J.M. Barrie (1906), Peter Pan nei giardini di Kensington, Rizzoli, Milano 1981.

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la madre di suo fratello morto; sembra avido di ogni dettaglio: come si comportava, come giocava, cosa gli piaceva. Fino al giorno in cui egli si ritrova vestito degli abiti di David. Assume la postura esatta di suo fratello, la testa alta, fischia e Peter è nato». La trasformazione è avvenuta: è nato il bambino saggio. La “morte” di James fa rinascere David e, nello stesso tempo, segna la nascita dello scrittore e della storia che collegherà tutte le sue opere. Questi avvenimenti ebbero un significato profondo nella sua vita lasciandogli il vuoto di un’esistenza mai vissuta, se non attraverso il suo amore per i bambini; diventerà allora, tramite il suo personaggio, il loro compagno di giochi o il consolatore di intere generazioni di bambini soli, “perduti” e “senza cuore”, cioè con la necessità di privarsi della loro affettività. Attraverso il racconto di Peter Pan, James Barrie ci offre una precisa descrizione di cosa succede nel mondo interno del bambino costretto a “perdersi” per fare spazio dentro di sé al corpo del fratello morto; nel mondo-che-non-c’è il bambino si ritrova a vivere nella fantasia ciò che gli è stato impedito di vivere nella realtà9. Questa affascinante e suggestiva storia dell’autore di Peter Pan descrive bene una delle modalità di reazione alla perdita di un fratello e sottolinea come la morte ponga fine alla vita, ma non alla relazione10. La morte di un fratello o di una sorella, non importa di quale età, spinge il gruppo dei fratelli a riorganizzare la 9

K. Kelley-Lainè, L’enfant qui pleure dans l’adulte: “Le complexe de Peter Pan”, in «Revue Francaise de Psychanalyse», 58 (1994), pp. 875-883. 10 F. Mancuso, Peter Pan e il mondo-che-non-c’è. Ipotesi psicoanalitiche su una particolare risposta ai traumi precoci, in «Rivista di Psicoanalisi», 4 (1997), pp. 559-581.

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relazione tra di loro e con i genitori. In certi casi, lo shock della morte spinge gli altri fratelli a essere più attenti, sensibili e a occuparsi degli altri come non avevano mai fatto prima. Tale atteggiamento può insorgere quando i fratelli sopravvissuti avvertono che avrebbero in qualche modo potuto prevenire la morte o che avrebbero potuto dedicare più tempo al fratello scomparso. Alcuni figli ancora giovani avvertono una sorta di obbligo di stare bene per non procurare ulteriori dolori ai genitori quando un fratello non c’è più, altri sviluppano l’idea di essere vissuti fino a quel momento al di sopra delle loro possibilità, altri ancora pensano di aver vissuto in modo superficiale o di essere sempre stati inetti. Tutte queste opportunità di riflessione possono rappresentare un’occasione per raggiungere una maggiore maturità e prendersi carico della propria vita e di quella degli altri diventando delle persone più impegnate11. 4.4 Il complesso fraterno: casi clinici Nella pratica clinica, lo psicoterapeuta può trovarsi frequentemente a dover lavorare su situazioni che hanno come aspetto centrale il complesso fraterno. Si riportano due storie cliniche che esemplificano l’influenza dei meccanismi di idealizzazione e di identificazione patologica nella relazione fraterna: i casi di Giovanni e Silvia.

11 S. Capodieci, Vivere il lutto. Lasciarli andare, rimanere insieme, Relazione presentata all’Associazione ADVAR, Treviso, 26 maggio 2001.

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4.4.1 Giovanni Studente universitario di psicologia, ha idealizzato Carla, la sorella più vecchia di circa quindici anni, che lavora come assistente sociale. La sorella maggiore era diventata per lui una vera e propria figura genitoriale, dopo che la madre era deceduta, quando Giovanni aveva solo cinque anni. Il padre, spesso stanco e poco presente, viene descritto così da Giovanni: «Il papà lavora troppo, si alza presto al mattino e, quando ritorna a casa la sera, è senza forze». La sorella, invece, era sempre disponibile e ancora adesso, che vive a circa 600 Km di distanza, passa parecchio tempo al telefono con lui. La scelta della facoltà fatta da Giovanni è legata «all’importante lavoro che Carla svolge nell’aiutare altre persone»; un po’ timidamente egli confida: «Mia sorella è la prima persona alla quale mi rivolgerei se dovessi trovarmi in difficoltà» e aggiunge che vorrebbe avere una vita simile alla sua. Solitamente, se questo tipo di identificazione arriva fino a un’età avanzata, un fratello cerca di perdonare o evita di sottolineare gli errori commessi dall’altro. Non è un caso se Giovanni e Carla, vivendo distanti e incontrandosi solo un paio di volte l’anno, riescono a mantenere un’immagine idealizzata l’uno dell’altra anche dopo parecchi anni. Questo meccanismo psichico è frequente nella relazione con un fratello affetto da ritardo mentale o da disturbi quali, ad esempio, la sindrome di Down. L’idealizzazione vissuta dal fratello disabile verso il fratello o la sorella più anziani favorisce la collaborazione e rappresenta la garanzia per il fratello più sfortunato di poter confidare nell’assistenza da parte dei fratelli più vecchi quando i genitori non ci saranno più. In queste situazioni è frequente che il fratello disabile 81

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vada a vivere nella stessa casa del fratello normodotato o nelle vicinanze della sua abitazione in modo da usufruire di una affettuosa “supervisione”. 4.4.2 Silvia Era stata combattuta per molti anni tra il dover essere una brava bambina per i genitori e il doversi occupare di suo fratello Giuseppe, più vecchio di tre anni, che aveva sempre procurato a tutta la famiglia molte preoccupazioni e dispiaceri a causa dei suoi disturbi psichici. Quando Silvia e Giuseppe erano ancora bambini, i genitori si separavano ed entrambi i figli venivano affidati alla madre, che soffriva di una forma cronica di depressione. Da quell’epoca i due fratelli diventavano molto uniti e Silvia, in particolare, aveva sviluppato una forma di intensa dipendenza nei confronti di Giuseppe; era diventata la sua compagna di giochi, ma doveva anche sopportare il peso delle sue prese in giro, delle canzonature e degli oltraggi. Era diventata l’oggetto verso il quale il fratello dirigeva la sua rabbia e sul quale proiettava i suoi sentimenti di disperazione. Silvia adorava Giuseppe che era vivace, sveglio, agile e affascinante, quando non era causa di sofferenza per lei. Silvia, negli anni, continuava a idealizzarlo, identificandosi con lui, prendendo le sue difese o diventando il suo alter-ego ogni qualvolta il fratello si trovava in difficoltà. Quando Silvia dovette lasciare la casa per una specializzazione universitaria in un’altra città, avvertì la sensazione di aver perso Giuseppe che aveva sempre rappresentato il motivo della sua esistenza: si sentiva in colpa e, preoccupata, si rimproverava di averlo 82

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abbandonato al suo infelice destino. Questo pensiero era insorto in modo talmente angosciante e ossessivo che comportò il ricovero di Silvia in un servizio psichiatrico per circa quindici giorni. Successivamente Silvia si sposò e riuscì a conseguire brillanti risultati nel suo lavoro, nonostante l’idea fissa del fratello le avesse causato alcune difficoltà professionali e conflittualità coniugali. Negli anni successivi aveva incontrato il fratello solo in occasione delle vacanze estive e delle festività di Natale. Silvia, all’età di quarantatre anni, aveva deciso di iniziare una psicoterapia psicoanalitica perché, nonostante fosse riuscita a distaccarsi da Giuseppe, quando i due fratelli si frequentavano per un periodo più lungo, lei ritornava al vecchio stile di relazione improntato alla dipendenza e all’identificazione. Tollerava di essere ancora presa in giro e derisa, tenendo nascosto il suo risentimento, pur di continuare a frequentare il fratello. Nel corso della psicoterapia cominciò a sentirsi delusa del tipo di relazione che aveva con Giuseppe e iniziò a riconoscere le profonde diversità che esistevano tra loro. Silvia aveva la consapevolezza, mista a rabbia e risentimento, di essere stata molte volte strumentalizzata dal fratello. Era arrabbiata con lui e con se stessa. In seguito, superata questa fase di intensa irritazione, aveva pensato che Giuseppe era stato per lei anche molto importante: «Ho sviluppato una particolare capacità di ‘sentire’ profondamente le altre persone e di sperimentare e percepire emozioni intense: felicità, odio, rabbia … e ho capito che la vera ricchezza si trova dentro le persone». L’esperienza di Silvia indica quanto sia rischiosa e tormentata una relazione basata su una profonda identificazione con un fratello emotivamente disturbato. Lo sviluppo dell’identità di Silvia aveva rischiato di venire “ipotecato” 83

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dall’eccessivo coinvolgimento nella vita del fratello, a causa di momenti di profonda angoscia di tipo autodistruttivo e isolamento sociale. In rapporto al tipo di complesso fraterno vissuto, si può dire che Silvia manifesta alcune caratteristiche dei cosiddetti “Prometei”. Partiamo dal mito: Epimetèo, fratello di Prometeo, è raffigurato tanto sciocco e imprudente quanto Prometeo era ingegnoso e saggio. Epimetèo rappresenta il fratello che viene portato in consultazione, il figlio di cui i genitori parlano, il paziente di cui i terapeuti si occupano. Questo fa sì che spesso ci si dimentichi di Prometeo, il fratello (etimologicamente: “che pensa prima”) che salva, rimedia, produce e – come nel mito – porta il fuoco all’umanità. Come nel mito, anche in famiglia Prometeo si trova incatenato al suo ruolo: è il fratello di cui i genitori non parlano se non per dire che sta bene e non presenta problemi. La condizione di “Prometeo” si manifesta per lo più in fratelli di soggetti con malattie croniche, disabili o psicotici. A volte è il fratello non sintomatico di quello che in famiglia è il paziente designato: il figlio che non parla il linguaggio dei sintomi e che è obbligato a stare bene. Prometeo ed Epimetèo assumono così una peculiare complementarità: l’uno esiste in quanto esiste l’altro. Fino ad oggi sono stati studiati poco i fratelli dei pazienti. In una famiglia con un figlio disturbato, il fratello (o i fratelli) sano può creare una complicità con i genitori, mettendo in atto una disidentificazione che arriva all’estraneità verso il fratello malato. La regola è che una grave sofferenza in un fratello non può non modificare l’altro. Il profilo di personalità di questi “Prometeo” è in sintesi il seguente: è spesso un ipermaturo che si occupa dei bisogni degli altri nei 84

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loro vari ambienti, presenta profondi sensi di colpa («è capitato a lui, ma poteva capitare a me!») e spesso la sua scelta del partner è influenzata dal rapporto avuto con il fratello o la sorella.

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Capitolo 5

La dimensione fraterna extra-familiare: amicizia e fratellanza

E un giovane disse: «Parlaci dell’Amicizia». Ed egli rispose, dicendo: Il vostro amico è i vostri bisogni esauditi. È il vostro campo, che seminate con amore e che mietete con gratitudine. Egli è la vostra mensa e l’angolino accanto al fuoco. Perché vi recate da lui con la fame, e lo cercate per avere pace. Se il vostro amico vi apre la mente, non temete il “no” nella vostra, né trattenete il vostro “sì”. dal racconto “L’Amicizia” di Kahlil Gibran

5.1 Premessa Le parole di Genesi: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2, 18) potrebbero essere estese alla necessità, per ogni individuo, di avere delle persone con le quali vivere una relazione basata su un affetto profondo, all’importanza di per87

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cepire la presenza di qualcuno che sia vicino nei momenti di difficoltà e alla sensazione di sentirsi affidabile per un altro. Questo è il rapporto che si instaura con un amico! L’affermazione di Genesi ha un riscontro scientifico negli studi della Psicologia e della Sociologia. Abraham Maslow1, uno psicologo statunitense di origine russa e primogenito di sette figli, ha stilato una graduatoria dei bisogni dell’individuo che, in ordine crescente di importanza, sono: –– movimento: l’esigenza di cambiare il proprio posto nello spazio; –– fantasia: l’esigenza di immaginare, rappresentare, sognare a occhi aperti; –– costruzione: il bisogno di uno scopo da perseguire per lasciare una traccia del proprio passaggio; –– esplorazione: l’esigenza interiore di ricerca di situazioni nuove e stimolanti; –– avventura: la necessità di provare cose nuove, in parte rischiose, che generano anche conflitti e tensioni emotive e comportano capacità di impegno, sforzo, coraggio; –– affermazione di sé (competitività): la necessità di ottenere successo e gratificazioni personali; –– aggressività: l’esigenza di emergere, dominare, prevalere sull’altro inteso come estraneo contrapposto a sé; –– nutrizione: il bisogno base legato alla sopravvivenza; –– sessualità: il desiderio di conoscere, avere rapporti e intimità con un partner; –– socialità: il bisogno di avere rapporti con gli altri. 1

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A.H. Maslow, Motivation and Personality, Harper & Brother, New York 1954, trad. it. Motivazione e Personalità, SEI, Torino 1970.

La dimensione fraterna extra-familiare: amicizia e fratellanza

Come si vede, il bisogno di relazioni sociali appartiene a quelli fondamentali come lo sono la fame e la sessualità; la relazione amicale è, però, qualcosa che va al di là della necessità di socializzare. Sin da neonati il bisogno più grande è quello del contatto fisico, dovuto probabilmente al desiderio di prolungare l’esperienza della vita intrauterina; questa condizione – grazie a recenti studi – sta assumendo sempre più rilevanza e si va configurando come una pre-relazione, tale da giocare un ruolo essenziale per la futura esistenza dell’individuo. Nell’infanzia, il gioco e la lotta con i coetanei rappresentano un’esigenza insostituibile e sono indice di un sano sviluppo psicofisico. Tra le relazioni umane, sin dai primi anni di vita, assume sempre più rilievo quella con gli amici, in particolare per i figli unici che sono in costante aumento. Secondo l’ISTAT2, tra il 1998 e il 2011, la quota di minori figli unici è salita dal 23,8% al 25,7% e i minori con due o più fratelli sono diminuiti dal 23,1% al 21,2%; sostanzialmente stabili al 53,1% coloro che hanno un solo fratello, che rappresentano il caso più frequente. Nel Nord la percentuale di figli unici supera il 30%, nel Centro si attesta al 26,4%, mentre nel Sud e nelle Isole le quote scendono rispettivamente al 18,6% e al 21,6%. L’età in cui la “fame” di rapporti con i coetanei e vita di gruppo raggiunge la sua massima espressione è senz’altro l’adolescenza; gli aspetti relazionali dei nuovi adolescenti, figli della rivoluzione informatica e tecnologica, stanno as2

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Statistiche Report ISTAT, Anno 2011 Infanzia e vita quotidiana, 18 novembre 2011.

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sumendo caratteristiche inedite e impensabili fino a qualche anno fa. Queste nuove modalità di relazione dei giovani porteranno a nuovi assetti anche nella ricerca del partner e della cerchia di amici che ruota intorno alla coppia: i social network stanno prendendo il posto del cortile, della piazza o del patronato. Nel 2011, il 92,7% dei ragazzi di 11-17 anni ha usato il cellulare; l’82,7% ha navigato su Internet. Nonostante questa crescita esponenziale dell’utilizzo delle relazioni “virtuali”, risulta che tra il 1998 e il 2011 i bambini e i ragazzi che frequentano coetanei sono aumentati passando dal 76,1% al 78,1%. Quello che rimane invariato è il numero medio di amici che vengono frequentati e la frequenza degli incontri. Il bisogno di amicizia, dopo la pausa dell’età di mezzo, quando la carriera professionale e le priorità legate alla crescita dei figli prendono il sopravvento riducendo il tempo libero da dedicare agli amici, ha una sua rinascita nell’età più avanzata quando si riscopre l’importanza degli altri con un rinnovato interesse. L’esigenza di avere degli amici si manifesta anche nel desiderio di esprimere i propri aspetti costruttivi, creativi, competitivi e, in particolare, nel bisogno/piacere di “condividere”. Che senso hanno un bel film, un incantevole panorama, una pietanza gustosa, senza una persona amica a cui comunicare le proprie impressioni nel piacere della condivisione? Come è possibile allora che l’uomo, che per motivi tanto innati quanto acquisiti ha bisogno della relazione con l’altro, si trovi invece a vivere sempre più da solo? Il consiglio “biblico” appare, oggi come non mai, attuale. Fino a qualche decennio fa, infatti, la maggior parte delle persone viveva in grandi case che erano teatro di gioie, tra90

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gedie, feste, sofferenze, nascite, lutti … Oggi, invece, ce lo ricordano le recenti ricerche del CENSIS3, quasi 7 milioni di italiani vivono da soli, ovvero il 13,6% della popolazione con più di 15 anni, in quella che viene chiamata con una sorta di ossimoro la “famiglia mononucleare”. Se in Italia non raggiungiamo ancora le percentuali di alcuni quartieri di New York, dove circa il 60% degli abitanti vive da solo, la tendenza va comunque inesorabilmente in quella direzione e in particolare nelle grandi città, tanto che, oltre ai sociologi, anche gli architetti si occupano di quella che è chiamata la “singletown”. Se poi la solitudine abitativa nel nostro Paese riguarda sette milioni di individui, quella affettiva raggiunge percentuali molto più alte. Nell’era della crisi della famiglia, della denatalità, del predominio dei figli unici, dell’esponenziale aumento di separazioni e divorzi, il rischio di trovarsi soli è in continua crescita. Proprio per questo la presenza di un amico, oltre che un bisogno, diventa una sorta di salvagente di fronte al pericolo di naufragare in una solitudine senza speranze. Infatti, anche se viviamo in una dimensione di rapporti umani sempre più frequenti, a causa dei cambiamenti dell’organizzazione del lavoro, si tratta tuttavia quasi sempre di contatti che escludono l’aspetto empatico e amicale a favore del business o delle “public relations”. Sono numerose, infine, le persone che, per delusioni e fallimenti in campo sentimentale, si chiudono in una disillusione che le spinge a consumare “storie” relazionali super3

Italiani, individualisti pentiti, Ricerca del Censis su «I valori degli italiani» realizzata nell’ambito delle attività per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, 13 marzo 2012.

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ficiali e inconcludenti. In una società dove il “partito degli ex” (ex-marito, ex-moglie) sta diventando di maggioranza, solo gli amici rimangono delle presenze genuine e autentiche. Se un’amicizia si rompe, infatti, il rapporto amicale si dissolve; può avere il sopravvento l’indifferenza e, in alcune situazioni, l’odio che trasforma l’amico di prima in un “nemico”. Gli amici, tuttavia, non saranno mai degli “ex”, perché nelle relazioni di amicizia autentica non c’è nessun vincolo che obblighi a mantenere un rapporto con chi non è più un amico, a differenza di quello che accade, invece, con gli altri “ex”. 5.2 Cos’è la relazione amicale? Ecco una bella descrizione che ci fornisce Saint-Exupery4 nel suo Il piccolo principe. La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: “Per favore ... addomesticami”, disse. “Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”. “Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!” “Che bisogna fare?”, domandò il piccolo principe. “Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la 4

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A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Bompiani, Milano 1994, cap. XXI.

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coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino …”. Il piccolo principe ritornò l’indomani. “Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore ...”.

La relazione d’amicizia è un sentimento di vero e profondo affetto che può nascere tra due o più persone; se questo vissuto è autentico, riesce a far germogliare emozioni sincere, profonde ispirazioni e pensieri intimi e gioiosi. L’amicizia è una traccia di eternità in terra e, anche quando gli amici si parlano da lontano, non c’è distanza, neppure quella imposta dalla morte, che possa interrompere questo dialogo. È proprio nei momenti più difficili che la propria capacità di amare si rinforza, messa alla prova da lontananza e nostalgia. I rapporti amicali, quando si basano sull’amore, fanno sì che le aspettative ideali reciproche tra gli amici si ridimensionino gradualmente, favorendo la possibilità di amarsi così come si è con pregi e difetti. La relazione amicale rappresenta un percorso che, iniziato per lo più nell’epoca dell’infanzia e adolescenza, procede nella sua spontanea evoluzione fino a età molto avanzate. Il figlio unico, che non ha potuto sperimentare una relazione fraterna, quando è coinvolto in un’esperienza di amicizia, può passare da uno stato di idealizzazione infantile, che lo porta a vedere ovunque amici “fraterni” e segni di amore autentico, al riconoscimento delle diversità dell’altro. 93

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Condizione, quest’ultima, che lo aiuta a capire che, nonostante le differenze, si possono esperire con gli altri momenti di sintonia inattesi e profondi vissuti di fratellanza che favoriscono, tra amici, il passaggio dall’io al “noi”. Il sentimento di amicizia diventa solido e fortissimo nel momento in cui si riconoscono le fragilità dell’altro e si riesce ad amarle. Nel percorso compiuto insieme, quando l’uno diventa il coerente completamento dell’altro e si avverte la simultanea eccitazione del sentire la profondità di questo contatto emotivo, si raggiunge la massima sintonia possibile tra due persone. La traduzione in gesti e comportamenti del vissuto di amicizia dà significato all’esistenza e rappresenta uno dei messaggi più importanti della fede cristiana. Solo se si riesce a vivere appieno questi legami si potrà percepire il senso della gratuità e dell’amore che sono gli ingredienti essenziali di una vera amicizia. 5.3 La fratellanza La dimensione della fratellanza è una qualità dell’amicizia che struttura un legame “come se” si fosse realmente fratelli o sorelle; le condizioni esistenziali di un individuo che possono richiamarla sono numerose. La prima è senz’altro quella vissuta da un figlio adottivo che entra a far parte di una famiglia, dove può trovare altri bambini che lo accolgono e diventano suoi fratelli. Possiamo immaginare che il gruppo dei fratelli, che il bambino adottivo trova nella nuova famiglia, abbia delle sue leggi ben precise, anche se non esplicite, contro lo “straniero”. Il bambino 94

La dimensione fraterna extra-familiare: amicizia e fratellanza

è “straniero” perché è estraneo alla famiglia in cui viene inserito come “figlio” e, spesso, perché proviene da un paese molto distante5. Il bambino adottivo ha, poi, qualità fondamentali che lo distinguono dai figli naturali: viene da fuori, ha caratteristiche personali che non sono confondibili e non appartengono alla trasmissione di legami e fantasie inconsce della famiglia a cui apparterà per richiesta dei genitori e decisione di un Tribunale. Claudia Artoni Schlesinger e Annalisa Chierici6 lo paragonano a un organo che proviene da un altro corpo e che, come succede nei trapianti, è suscettibile di determinare nell’organismo-famiglia una reazione di rigetto. Il difficile e doloroso lavoro che occorre affrontare per evitare i fallimenti adottivi è legato alla possibilità di operare un’integrazione che consenta il crearsi di un ambiente interno compatibile tra il tessuto della famiglia adottiva e quello, ancora tutto da scoprire, del bambino che deve riuscire a inserirsi realizzando un rapporto di fratellanza con i fratelli e le sorelle che ha acquisito7. Una situazione condivisa da tutti i bambini è l’inizio della scuola e l’entrare a far parte di una classe dove sarà necessario confrontarsi con compagni e compagne, vissuti talvolta come fratelli rivali che sottraggono l’attenzione delle maestre. Il bambino deve riuscire a creare un rapporto di 5 6 7

C. Artoni Schlesinger – A. Chierici, Diventare fratelli in una famiglia adottiva, in M.L. Algini (ed.) «Fratelli, Quaderni di Psicoterapia Infantile», 47 (2003), pp. 72-90. Ivi, p. 81. S. Capodieci, Fratelli & Sorelle, op. cit., pp. 220-225.

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fiducia con gli insegnanti e gli altri scolari che gli permetta di chiedere e accettare l’aiuto degli altri e beneficiare del rapporto con i compagni. In tutti i bambini è forte il bisogno di essere accettati e considerati per le proprie capacità e di iniziare a costruire la propria identità. I compagni, diventando nel tempo dei buoni alleati con i quali giocare piacevolmente insieme, consentono, in una reciprocità condivisa, la strutturazione di una identità di gruppo. Elemento quest’ultimo che si colloca alla base del sentimento di fratellanza che si esprimerà con più forza a partire dall’adolescenza, quando nascono le relazioni di amicizia più importanti. È a questa età, infatti, che prevalgono quei rapporti di tenerezza che fanno nascere legami particolarmente stabili tra gli esseri umani all’insegna di un’amicizia “fraterna”, caratterizzata dall’assoluta gratuità del rapporto e vincolata al solo piacere di stare insieme. Borges descrive questa modalità di relazione in modo mirabile in un verso della sua poesia “La felicità”: «Sia lodato l’amore che non ha né possessore né posseduta, ma in cui entrambi si donano»8. Solo l’amore che è alla base dell’amicizia presenta questa dimensione, mentre nell’amore coniugale o tra genitori e figli si riattivano le relazioni di dominio e possesso9. Nell’età giovanile sono numerose le opportunità di vivere l’esperienza della fratellanza; in alcuni gruppi si utilizza proprio il termine “fratello” o “sorella”, come nel caso 8 9

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J.L. Borges, La cifra, in D. Porzio (ed.), Jorge Louis Borges, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1985, vol. II. L. Kancyper, El burrito carguero, in «Revista de Psicoanàlisis», T. LVI, n. 6 (1999), p. 891.

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del movimento dello scoutismo, per definire il rapporto tra gli appartenenti a questa associazione. Il concetto di fraternità fa anche riferimento all’appartenenza a un ordine religioso, come nel caso dei francescani, dove i rapporti tra le persone dispiegano la dimensione della relazione fraterna. Hugo Mujica10 definisce l’amicizia come una forma di amore che dà intimità, ma nella distanza. La equipara a un puro “slegame” e a un patto senza condizioni che implica un lasciarsi preferire, un consegnarsi senza alienarsi. Kancyper11 considera l’amicizia una relazione di fraternità eletta, non imposta dai vincoli della consanguineità. In essa il soggetto si emancipa dai desideri edipici e fraterni che lo lascerebbero in balia dell’aspirazione a essere per sempre il figlio unico preferito e prediletto di un padre-madre-Dio. L’amicizia dà luogo a relazioni con persone scelte all’esterno del gruppo di appartenenza, dove i rapporti di consanguineità lasciano il posto a quelli ideali e sublimati. L’amico è presente nei momenti di solitudine e nei conflitti coniugali e familiari. L’amicizia, infine, svolge una funzione di nutrimento nelle diverse fasi di creatività di un individuo grazie ai meccanismi di identificazione, confronto, complementarità, differenza e somiglianza.

10 H. Mujica, No se elige, se acontece, in «Revista Viva del diario Clarìn», 1, 6 (2000), p. 19. 11 L. Kancyper, Complesso edipico e complesso fraterno nell’opera di Jorge Luis Borges, in M.L. Algini (ed.), «Fratelli. Quaderni di Psicoterapia Infantile», 47 (2003), pp. 252-290.

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5.4 Conclusioni In Italia avere tanti fratelli (e/o sorelle) è diventato un “privilegio” riservato a pochi: dal 1998 al 2003, il numero medio di fratelli viventi è sceso da 2,4 a 1,9. Tra le persone che hanno fratelli viventi, il 35,7% ne ha uno e soltanto il 21,9% ne ha due. Il numero medio di fratelli viventi è pari a 2,5 tra le persone di 55-64 anni e scende a 1 tra gli individui con meno di 15 anni. Tra gli anziani (almeno 65 anni), a causa della loro più elevata mortalità, il numero medio di fratelli viventi è leggermente più basso (2,1) di quello che si registra nella classe di età immediatamente precedente12. L’amico diventa allora un prezioso e indispensabile sostituto della relazione fraterna quando i fratelli non ci sono mai stati o non ci saranno più. I rapporti amicali, infatti, se vissuti con affetto profondo e capacità di empatia, possono essere caratterizzati da un vissuto di autentica fratellanza. Le parole di Aristotele13 sintetizzano bene i concetti appena esposti: «Nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, neppure se avesse tutti gli altri beni messi insieme», «Il desiderio di amicizia è rapido a nascere, l’amicizia no», «L’amico è un altro se stesso». Aristotele14 diceva, infine, che l’amore e l’amicizia del massimo livello e della migliore qualità «richiede tempo e consuetudine di vita comune: secondo il pro12 Parentela e reti di solidarietà, Indagine multiscopo sulle famiglie «Famiglia e soggetti sociali», Anno 2003, ISTAT, Roma 2006. 13 Aristotele, Etica a Nicomaco, 8, 1155a 5-6; 1156b 31-32;1166a 31, Opere, vol. VII, Bari, Laterza, 1983, cap. 1. 14 Id, Etica a Nicomaco, Opere, libro VIII, Bari, Laterza, 1983, cap. 3, «Le tre specie dell’amicizia».

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verbio15, infatti, non è possibile conoscersi reciprocamente finché non si è consumata insieme la quantità di sale di cui parla appunto il proverbio. Per conseguenza, non è possibile accogliersi come amici, né essere amici, prima che ciascuno si sia manifestato all’altro degno di essere amato e prima che ciascuno abbia ottenuto la confidenza dell’altro». La società attuale, nella misura in cui proclama l’uguaglianza tra tutti i cittadini, privilegia la dimensione “orizzontale” con conseguente indebolimento della relazione d’autorità tra genitori e figli. Alcuni psicoanalisti ipotizzano a questo proposito un «declino del complesso di Edipo» e il prevalere di una «comunità fraterna costituita da simili»16, nella quale i limiti e le differenze forniti dai sessi e dalle generazioni – che hanno un carattere organizzatore – tendono progressivamente a sfumare in favore di una omogeneizzazione che, a sua volta, provoca una serie di conseguenze nella formazione dell’identità del soggetto e del tessuto sociale. Il rischio, sostiene Monzani17, è che si stabilisca una specie di “utopia del fratriarcato”. Sommantico, nelle conclusioni del suo volume il Fraterno, mette in evidenza che il disagio della civiltà si caratterizza, in questa epoca, per una profonda trasformazione dei “garanti metasociali”, che risultano alterati, disorganizzati, con un conseguente effetto sui “garanti metapsichici”, secondo un processo che genera incertezza nei riferimenti d’appartenenza, nei marchi simbolici, nella funzione e af15 «Prima di scegliere l’amico bisogna averci mangiato il sale sette anni». 16 G. Rubin, Le déclin du modèle œdipien, L’Harmattan, Paris 2004. 17 S. Monzani, L’utopie du Fratriarcat: fraternel et fraternità dans l’œuvre de B.M. Koltès, in «Cahier de Psychologie Clinique», 27 (2006), pp. 141-162

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fidabilità delle istituzioni, nei sistemi metainterpretativi18. Il rischio sarebbe quello di una “omogeneizzazione” dei legami dell’umano su di un unico livello, quello “fraternogenitoriale” incapace di aprire all’alterità, che può render conto di quelle che vengono chiamate oggi le “patologie 18 Käes ha introdotto due concetti, quello di “garante metasociale” e quello di garante “metapsichico”, per correlare i cambiamenti delle grandi strutture, che inquadrano e regolano le formazioni del processo sociale (miti e ideologie, credenze e religione, autorità e gerarchia), con la sofferenza psichica individuale. La funzione dei garanti metasociali è di garantire una sufficiente stabilità delle formazioni sociali, quando vanno incontro a una trasformazione destabilizzante, come l’industrializzazione, l’urbanizzazione e le migrazioni. Le grandi ideologie e le religioni del progresso non governano le certezze, i sistemi di rappresentazione, i valori e i riferimenti dell’azione collettiva: in tali condizioni, le leggi e le interdizioni diventano indefinite, contraddittorie, paradossali e inefficaci. Secondo Käes, la psicopatologia moderna, le strutture psichiatriche e, persino, la stessa psicoanalisi sono nati da questa crisi dei garanti metasociali: «Con il venir meno dei garanti metasociali, viviamo la trasformazione critica delle grandi matrici di simbolizzazione quali la cultura, la creazione artistica, i riferimenti di senso, in breve tutto ciò che è conquistato mediante le sublimazioni e mediante ciò che, nel 1929, Freud ha denominato lavoro di civilizzazione». I “garanti metapsichici” sono costituiti, invece, dalle interdizioni fondamentali e dai contratti intersoggettivi che contengono i principi organizzatori della strutturazione dello psichismo. I patti, le alleanze e i contratti esercitano questa funzione “meta”, per ogni singola psiche e per tutti i soggetti di un insieme. Alcuni di essi sono “strutturanti”: la rinuncia alla realizzazione diretta delle mete pulsionali, il patto con la funzione paterna, il contratto narcisistico, contengono i principi organizzatori dello psichismo e sono alla base delle principali interdizioni. Esistono, invece, altre alleanze che hanno una funzione difensiva e comportano conseguenze patologiche, come il patto di comune diniego e il contratto perverso (R. Käes, Il disagio del mondo moderno e la sofferenza del nostro tempo. Saggio sui garanti metapsichici, in «Psiche», 2 (2005), pp. 57-65).

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della soggettivizzazione”19. Queste considerazioni sugli aspetti sociali della dimensione fraterna sollecitano importanti interrogativi sulla progressiva orizzontalizzazione dei legami tra le persone e aiuteranno a comprendere come la funzione psichica e quella culturale della relazione fraterna siano intrecciate tra loro.

19 M. Sommantico, il Fraterno. Teoria, Clinica ed Esplorazioni culturali, Borla, Roma 2012, p. 322.

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Conclusioni

La storia di Giuseppe, connotata dalla relazione con i fratelli, obbliga a riflettere su questo rapporto unico e speciale che caratterizza il vivere o l’aver vissuto con fratelli e sorelle. La struttura familiare fornisce dei confini, diversi per ogni famiglia, che vengono vissuti in modo differente dagli appartenenti alla fratria, in base all’età e al carattere di ognuno. In ogni caso, però, i confini individuali si indeboliscono all’interno dell’identificazione condivisa. I giochi tra fratelli e sorelle, specialmente se vicini di età, possono comportare l’attivismo dell’uno e l’imitazione, la sottomissione e la passività dell’altro. È il piacere che trovano nello stare insieme che permette loro di accettare quello che, in ogni altra situazione relazionale, sarebbe rifiutato. Nell’infanzia il legame tra fratelli, che è intenso, forte e, in un certo senso, inevitabile e costrittivo, conferisce alla relazione un carattere evolutivo e l’occasione per “impastare”, attraverso il gioco, le pulsioni infantili. Essere stato il figlio 103

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preferito ha rappresentato senz’altro motivo di rivalità, tensioni e competitività tra il gruppo dei fratelli e Giuseppe. Il suo atteggiamento, sempre così deciso e determinato, non è stato sicuramente di aiuto nel trovare una soluzione alle loro conflittualità; i sogni che raccontava, nei quali primeggiava sul resto della famiglia, l’avranno reso ancora più “antipatico”. Sarà, comunque, questa sua personalità che gli consentirà di passare dalla condizione di schiavo, in Egitto, alla più alta carica del paese dopo il Faraone. Walter Toman1 delinea i profili di personalità, in base all’ordine di nascita, considerandoli come l’insieme dei ruoli che la persona ha appreso all’interno della famiglia e che tende ad assumere in situazioni esterne. La descrizione che questo studioso fornisce del figlio primogenito sembra adattarsi bene al profilo personologico di Giuseppe: ama guidare altre persone assumendosene la responsabilità, più di altri si preoccupa del futuro e, come leader, crede di essere insostituibile. Si identifica facilmente con le persone che hanno autorità e potere e la sua reputazione è quella di un uomo affidabile che predilige ordine e disciplina. La vicenda di Giuseppe è la storia di fratelli che si perdono, si rincontrano senza riconoscersi e, infine, superando il “complesso fraterno”, riescono a ristabilire un legame basato su un profondo e sincero sentimento di fratellanza; alcuni aspetti di questa relazione rappresentano la modalità con cui ogni fratello vive dentro di sé i conflitti con gli altri membri della fratria. La comune identità, data dall’essere fratelli, illustra bene il concetto di consanguineità: fratelli e sorelle sono, infatti, altrettanti alter-ego dell’individuo 1

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W. Toman, Costellazione familiare, Red, Como 1995.

Conclusioni

all’interno della sua personalità. Ogni fratello vive, inoltre, tutte le fantasie che caratterizzano il legame fraterno. L’obiettivo del gruppo dei fratelli è di partecipare a un’attività fantasmatica2 che viene messa in comune e, nei confronti della quale, ogni fratello si impegna con la finalità di mettere in scena e far diventare un’attività condivisa il proprio mondo immaginario. Questa dimensione della relazione fraterna, quando è vissuta o drammatizzata in età adulta, ha i suoi precursori nell’esperienza vissuta durante l’infanzia e l’adolescenza; in ogni caso, situazioni collettive di rapporto tra fratelli adulti hanno le loro radici nei miti, nelle fiabe, nelle leggende e, appunto, nella stessa vicenda biblica dei figli di Giacobbe. Come sostiene Aulagner3: «Il fratello, o la sorella, esercitano un’azione su di sé tanto più forte quanto più difficilmente identificabile in quanto tale, confusa com’è con le proiezioni e con i fenomeni d’identità condivisa, nella labilità e nell’interscambiabilità delle identificazioni». Ciò sembra riferirsi proprio all’identità dei fratelli di Giuseppe e fornisce un interessante contribuito alla spiegazione dei loro comportamenti. L’aspetto più significativo di tutto il racconto è rappresentato dalla confessione di Giuda che racconta al “fratello, non riconosciuto”, ciò che avevano fatto; questo comporta che Giuseppe offra la libertà per tutti in cambio di Beniamino. 2

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Il termine ha in psicoanalisi un uso esteso perché indica il mondo immaginario, i suoi contenuti, l’attività creativa che lo anima. L’attività fantasmatica sottende, modella e struttura gli atteggiamenti manifesti del soggetto e influenza la sua vita reale. P. Aulagnier, I destini del piacere. Alienazione, amore, passione, La Biblioteca, Bari-Roma 2002.

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Giuda, però, parlando nuovamente per tutti, spiega che non possono ritornare se non c’è con loro il fratello minore; non sarebbero ammessi alla presenza del padre. La rivalità e la gelosia, che erano state provate nei confronti di Giuseppe, sono diventate adesso una relazione matura, capace di affetto verso il fratello più piccolo e, al tempo stesso, di profonda empatia nei confronti del padre che non potrebbe sopportare un altro lutto. Questo è il momento in cui i fratelli possono riconoscersi e abbracciarsi. Nessun altro racconto biblico riesce a rappresentare meglio il sentimento della fratellanza! Se si potesse fare la foto della veduta aerea della relazione tra fratelli e sorelle avremmo zone e territori con una notevole varietà di paesaggi e diversi tipi di natura; nel corso della vita, infatti, nel rapporto fraterno intervengono diversi fattori: la presenza dei genitori, il tipo di legame che i fratelli stabiliscono, il comportamento dei genitori nei confronti dei figli, la relazione tra fratelli consanguinei con quelli adottivi o con gli stepsibling, il rapporto tra due fratelli gemelli con gli altri fratelli, le relazioni che si instaurano tra fratelli dello stesso sesso e con quelli di sesso opposto, le differenze di età tra i fratelli e una particolare condizione (disabilità, malattia fisica o mentale, alcolismo oppure un talento eccezionale) di uno dei fratelli. Tutti questi e altri aspetti evidenziano la particolarità del legame fraterno e le vicissitudini che questa relazione ha nella fantasia, nei sentimenti, nelle emozioni e, più di tutto, nella vita di ogni fratello e sorella. Il benessere relazionale di un individuo è garantito, pertanto, oltre che da un buon rapporto coniugale e da una serena relazione tra genitori e figli, anche dalla possibilità di poter vivere un affettuoso legame fraterno, all’interno della 106

Conclusioni

fratria, e un sentimento di fratellanza e amicizia con le altre persone. È auspicabile che le analisi su relazione e complesso fraterno, che sono state discusse nei capitoli precedenti, sollecitino nuove indagini in questo affascinante ambito e che le questioni teoriche e cliniche sollevate possano suscitare l’interesse dello psicoterapeuta, dell’educatore e di chiunque viva la condizione di essere un fratello o una sorella. Navelet4 propone la seguente definizione del legame fraterno: Relazione psichica tra due o più soggetti che si prendono l’un l’altro per una proiezione scissa di se stessi (io-sono/non-sono come lui o lei). Relazione potenzialmente strutturante, addirittura terapeutica, quando è riferita ad un elemento terzo che organizza la relazione sotto l’egida della differenziazione, e che attiva quindi tutti i processi pulsionali ed i meccanismi di difesa solitamente coinvolti nella costituzione soggettiva (in particolare identificazione/proiezione). Relazione patologica o patogena quando si esprime nel registro della confusione, dell’indifferenziazione, che ecciterebbe prioritariamente i processi pulsionali coinvolti nell’autoconservazione e i meccanismi di difesa coinvolti nella distruzione dell’oggetto.

Questa definizione riassume i principali meccanismi relazionali presenti nella relazione tra Giuseppe e i suoi fratelli: proiezioni scisse di se stessi, relazione strutturante quando predomina la differenziazione e patologica nelle situazioni distruttive. 4

C. Navelet, Fratello, fratria e legami fraterni: dalle parole al concetto, in G. Trapanese - Sommantico M. (edd.), la dimensione fraterna in psicoanalisi, Borla, Roma 2008, p. 237

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Per concludere, si può dire che essere fratelli e sorelle è un “confortante conflitto” che risulta evidente tutte le volte che, come nel caso della storia di Giuseppe, la relazione si conclude con il superamento dei contrasti e il recupero di un legame autentico. La dimensione raggiunta o ritrovata della fratellanza si allarga anche alla dimensione sociale dell’individuo consentendogli di evitare i conflitti più disgreganti con i suoi simili. Questo fenomeno può essere osservato, non solo quando si crea un’amicizia, ma anche in tutte quelle condizioni sociali in cui si verifica una “nascita”: l’iniziativa di un gruppo di persone, l’affermarsi di una disciplina scientifica, un nuovo movimento (culturale, religioso, politico, ecc.), un popolo… La fratellanza fa parte, oltre che del mito delle origini, anche del “mito scientifico fondante”5, nella misura in cui porta al prodursi di una “comunità fraterna” che dà inizio a qualcosa di nuovo superando i conflitti interni dei singoli partecipanti. Il rapporto con la Natura (e con Dio) e, in senso introspettivo, con la parte inconscia della mente producono in ogni individuo il bisogno di mantenere, dentro e fuori di sé, un percorso generativo che garantisca un reciproco riconoscimento tra le persone e la possibilità a stabilire un legame duraturo. Questo rappresenta senza dubbio uno dei significati più profondi dell’esistenza!

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Il mito è fondante quando in esso si concentrano ideali in cui si riconosce una comunità.

Glossario

Adelfo: deriva dal greco αδελφός e significa fratello: è composto dalla particella α (con) e δελφἱς (utero, ventre). In botanica sono chiamati così gli stami, riuniti per i loro filamenti, cioè in fratellanza. È anche nome proprio di persona: Adelfo, Adelfa. Amico, Amicizia: φἱλοσ e φιλἱα sono le parole usate da Aristotele per indicare: amico e amicizia. La gamma di termini coniati sulla base della radice φἱλοσ è, senza dubbio, più articolata e complessa di quanto non accada in italiano per la parola amico, che deriva da amicus, dalla stessa radice di amare. Il Dictionnaire étymologique de la langue grecque1, alla voce φἱλоσ, rubrica étymologie, ci informa che “Non c’è niente di paragonabile alla radice φιλ- (o φιλο-) nelle altre lingue indoeuropee”. L’etimologia del vocabolo è quindi ignota. Come sostantivo, il termine φἱλοσ non esprime propriamente una relazione sentimentale, ma “l’appartenenza a un gruppo sociale”. 1

M. P. Chantraine, vol. IV, Paris 1980, pp. 1204-1206.

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Esistono numerosi derivati di φἱλοσ: i principali sono φιλότης, ovvero “amicizia”, o meglio “affetto”, “tenerezza”, che Chantraine descrive come «fondata sui legami dell’ospitalità, del sangue o del cameratismo» e tale che «presuppone spesso una comunità concreta». Troviamo quindi φιλἱα, “amicizia, inclinazione, amore”, ma anche “passione amorosa, innamoramento” in senso erotico. Questo non sorprende; l’amicizia, lo sappiamo, è una delle forme dell’amore, una forma che dà intimità, pur nella distanza. Dalla stessa radice viene anche “ama”, nel senso di madre. Neppure questo dovrebbe sorprendere, se pensiamo che l’amicizia, come ogni forma di amore, dispiega una capacità di fecondare, genera cioè una nuova individualità. Scrive Mujica2: «Si potrebbe dire che l’amicizia è precisamente il dono dell’individualità: qualcuno mi predilige, mi sottrae dal tumulto delle altre relazioni umane, mi fa e basta, senza però farmi suo. In questo senso l’amicizia è un puro “slegame”, un patto senza condizioni. È un evento non solo dell’amore, ma anche della libertà, di una libertà che però si compromette nella storia dell’altro, dell’altro amico, dell’individuale». Questo «senza farmi suo» differenzia l’amicizia dall’amore di coppia: include gli altri senza fusione fisica o spaziale. L’amicizia è perciò “disinteresse”: non toglie e non conserva nulla di sé, eccetto la gratificazione affettiva, il sentimento e la disponibilità a compromettersi nell’umano per l’umano. Aggiunge Mujica: «L’amicizia appartiene alla logica del dono. Non è un atto della mia volontà, non decido di essere amico del tale o del tal’altro, essa semplicemente accade. Ti dà, mi dà. Poi posso cercare ragioni, spiegare, ma relativamente a qualcosa di già accaduto, già sentito. L’origine dell’amicizia, come ogni forma di 2

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H. Mujica, No se elige, se acontece, op. cit., p. 19.

Glossario

amore, s’impone, o almeno si propone, alla mia risposta, alla mia sensibilità. Per questo l’amicizia è anche un lasciarsi prediligere. Una disponibilità a darmi, a coinvolgermi, ad arrischiarmi in una relazione. Aprirmi e lasciar entrare. Come dono, l’amicizia è una grazia: la grazia di poter essere grazia per gli altri, dare amicizia a chi mi cerca come amico3». Fratellanza: è la relazione naturale e civile, che intercorre tra fratelli oppure il reciproco sentimento di affetto e solidarietà che lega più persone tra loro come fossero fratelli. Può indicare, infine, comunanza di ideali e di intenti: ad esempio, la fratellanza tra i popoli. Fratello: la parola fratello appare nell’XI secolo e deriva dal latino frater e dal sanscrito bhrâter, colui che porta la sorella4. I dizionari5 mettono in prima posizione una definizione di ordine biologico e giuridico: “fratello” è «chi è nato dallo stesso padre e dalla stessa madre, detti anche bilaterali, o soltanto da uno dei due» o «persona di sesso maschile considerata relativamente ai figli degli stessi genitori (fratelli germani o carnali), dello stesso padre (fratello consanguineo), della stessa madre (fratello uterino)». I dizionari indicano i gradi di fratellanza in base a indicazioni genealogiche. I fratelli possono così essere: –– naturali; –– adottivi o per adozione: due fratelli adottivi possono essere stati adottati dalle stesse persone ma avere diversi geni3 4 5

Ibidem. C. Navelet, Frères, fratrie et lien fraternel: des mots au concept, in O. Bour­guignon et al. (edd.), Le fraternel, Dunod, Paris 1999. Grande Dizionario Italiano, Hoepli, Milano 2011; G. Devoto - G.C. Oli, Il Devoto-Oli. Vocabolario della lingua Italiana, Le Monnier, Milano 2011.

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tori oppure essere l’uno il figlio naturale e l’altro quello adottivo; –– gemelli, nati dallo stesso parto; –– unilaterali (fratellastri), in questo caso si ha in comune un solo genitore; –– in base all’ordine di nascita: primogenito, fratello minore, intermedio; –– su referenze analogiche: fratello di latte, se allattati dalla stessa nutrice. Solo in un secondo piano si collocano le definizioni metaforiche, che pongono cioè l’accento sull’appartenenza a una comunità di origine, sentimenti, preferenze, idee, fede, interessi, sorte, o di legame affettivo e intellettuale. I fratelli “fittizi” sono persone che, pur non appartenendo alla stessa famiglia, vengono accolte come “fratelli” sulla base del desiderio, di un’usanza, oppure di un legame di sangue o di un criterio giuridico. I candidati in analisi delle società psicoanalitiche, che compiono lo stesso training, rappresentano una speciale varietà di fratelli “fittizi”6. In relazione a una moltitudine di fattori, le loro relazioni possono essere tanto caratterizzate da sentimenti di gelosia e competitività, quanto permeate da un vissuto di fraternità. Spesso questi sentimenti si sovrappongono e necessitano di un lungo lavoro per essere interpretati. Numerosi esempi del fallimento di questo processo possono essere ritrovati tra i pionieri della psicoanalisi, specialmente tra coloro che erano stati analizzati da Freud, i quali si boicottarono l’un l’altro allo scopo di ottenere l’approvazione del maestro, anche molto tempo dopo la fine della loro analisi con lui7. 6 7

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S. Capodieci, Fratelli & Sorelle, op. cit., p. 240. S. Akhtar – S. Kramer, Beyond the parental orbit: Brothers, sisters, and others, in Id (edd.), Brothers and Sisters, Jason Aronson Inc., Northvale (NJ), London 1999, p. 9.

Glossario

“Fratello” può anche essere sinonimo di compagno: in questo caso si parla di fratelli di sventura o fratelli di una stessa patria. Il Cristianesimo estende il termine “fratelli” a tutti gli uomini, in quanto figli di uno stesso Padre. “Fratelli separati” è l’espressione con cui i cattolici indicano gli eretici e gli scismatici, locuzione che è entrata maggiormente in uso dopo il Concilio Vaticano II. Si definiscono fratelli anche gli appartenenti alla stessa comunità religiosa, politica, ecc.: ad esempio, i fratelli francescani, i fratelli massoni, gli enciclopedisti, i fratelli della Misericordia o i fratelli musulmani. È anche un titolo usato in certi ordini religiosi: fratello converso, fratello laico ... Come curiosità storica si ricorda che i bucanieri e i filibustieri si definivano romanticamente come “Fratelli della Costa”, in riferimento al fatto di essere marinai di tutte le nazionalità che navigavano per proprio conto nei Caraibi e nel Pacifico durante il secolo XVII. In alcune culture antiche o arcaiche, caratterizzate da strutture familiari molto allargate, si chiamavano fratelli anche i figli di fratelli dei genitori (figli degli zii), quelli che oggi si chiamano abitualmente cugini. Fraternità: il termine, apparso intorno al XII secolo, definisce prima il legame di parentela, poi lo stretto rapporto tra coloro che si trattano come fossero fratelli e, infine, l’accordo perfetto che dovrebbe esistere tra gli uomini all’interno della famiglia umana. In particolare, l’idea di famiglia umana, da un punto di vista sociologico, compare sin dall’antichità; la morale cristiana riprende, sul versante sentimentale della carità e dell’amore del prossimo, le tesi stoiche che condannavano la schiavitù in nome della comune origine umana e sostenevano la partecipazione degli schiavi alla ragione universale. 113

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Il termine comprende, quindi, tre definizioni: una biologicogiuridica, con riferimento al legame di parentela dato dall’essere fratelli e sorelle; una di tipo metaforico, in cui la fraternità dipende da una posizione che implica analogia, somiglianza, appartenenza a una regione, a un’epoca, a un’istituzione o comunità di beni; infine, una definizione in cui la fraternità esprime amore per il prossimo: per esempio, nelle locuzioni fraternizzare con il nemico, essere fratello degli uomini. Ha come sinonimi: altruismo, amore, carità, concordia, intesa, solidarietà, unione. Gli antonimi sono: conflitto, disunione, guerra, odio, ostilità, inimicizia. Fraternizzare: il verbo significa «stringere rapporti di amicizia, specialmente con chi prima era ostile o nemico», «riunirsi per qualche solennità», «fare atto di fraternità, riconciliazione, simpatia o di solidarietà nei confronti di qualcuno che si riconosce come confratello, compagno». Sinonimi sono: affratellarsi, fare amicizia, provare familiarità, sentirsi in unione. Antonimi sono: battersi, litigare, detestarsi, odiarsi. Fraterno: anche questo termine appare solo nel XII secolo e fa riferimento all’appartenere a una comunità di fratelli, a qualcosa che riguarda le relazioni tra fratelli o, per analogia, al concetto di affettuoso, amichevole, generoso, caritatevole. Deriva dal latino “fraternus” composto di “frater”, fratello, ed “ernus”, terminazione propria di aggettivi indicanti appartenenza. È questo il termine che allude maggiormente a un clima amichevole condiviso dai fratelli e da coloro che si trattano come tali. “Fraterno” si colloca, infatti, all’apice delle relazioni di amicizia 114

Glossario

che uniscono i fratelli, al cuore dell’amore per il prossimo e al parossismo della tenerezza, da cui la “correzione fraterna”, pratica di vita cristiana insegnata da Gesù,8 come un rimprovero dolce, segreto e dettato dallo spirito di carità che si deve avere nei confronti dei fratelli. Sono sinonimi di fraterno: affettuoso, amichevole, amoroso, benevolo, familiare; il termine non conosce, invece, antonimi. Fratria: è la società formata dai fratelli e dalle sorelle, nati dalla coppia genitoriale con la quale compongono la famiglia “biologica”. Presso gli antichi Greci, era una specie di confraternita (φρατρια), i cui componenti pensavano di derivare da un comune capostipite e si sentivano perciò legati da vincoli “fraterni”. La fratria aveva un proprio ordinamento, un capo rinnovato annualmente (fratriarco), alcune divinità protettrici, tra le quali Zeus e Atena. Ogni individuo doveva essere presentato alla fratria appena nato, poi intorno ai cinque anni e,infine, a circa diciassette anni, quando avveniva la solenne iscrizione alla fratria9. Il termine è in uso nelle associazioni religiose e, per estensione sociologica, ai gruppi di clan di una tribù. L’uso sociologico del termine è molto recente e, viene da chiedersi, come mai l’emergenza lessicale non coincida con un reale interesse della società, nelle sue diverse istituzioni, alla questione stessa della fratria, la quale rappresenta una risorsa per fronteggiare situazioni individuali e sociali, normali e straordinarie, e un modello non solo per le relazioni familiari, ma per ogni esperienza sociale dell’individuo. 8

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“Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni” (Mt 18, 15-16). L’enciclopedia italiana, www.treccani.it

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Il termine consente di associare in modo significativo due campi di indagine: il sociale e il biologico, a cui sottostà il regime giuridico che organizza sia la filiazione sia la società. Questa definizione triangolare (socio-bio-giuridica) conferma le varie definizioni date alla parola “fratello”. Fratricidio: significa «uccisione del proprio fratello o della propria sorella», mentre fratricida è colui che uccide suo fratello o sua sorella. Il primo termine deriva dal latino fratricidium, che indica l’omicidio del fratello o della sorella, il secondo da fratricida indicante colui che uccide. La letteratura europea è intrisa di amore e di odio fraterni: da Shakespeare a Goethe, da Dostoevskij ai Grimm, ma si possono menzionare anche le sorelle Brontë, i fratelli James, il fratello e la sorella Mann e tanti altri. Fratricida può essere considerato l’antonimo di “fratello”. Sorella: «parente di sesso femminile in linea collaterale di secondo grado», «che ha relazione di affinità con un’altra cosa simile» come, ad esempio, città sorelle, nazioni sorelle. Il termine deriva dal latino soror e, passando dal latino all’italiano, come nel caso di fratello, il diminutivo ha prevalso sul termine originale: così, come da frater è nato fratello, da soror si è arrivati a “sorella”. “Sorella di latte” è colei che è allattata dalla medesima balia che allatta un’estranea.10 Sorellanza: è la relazione che intercorre tra sorelle. Insieme a sorellevolezza e sororanza è un termine poco usato e corrispon10 La parola sorella ha definizioni equivalenti, al femminile, della parola “fratello” a cui si rinvia.

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Glossario

dente a “fratellanza”. Indica anche «reciproco legame tra cose simili». Sororale: il vocabolo è stato coniato da Gabriele D’Annunzio con l’aggiunta del suffisso –ale alla parola latina soror. Il termine indica ciò che è relativo a una sorella, in senso affettuoso: amica sororale, amicizia sororale. Vocaboli anglosassoni: numerosi termini sono stati coniati, dalla letteratura inglese, per definire i diversi membri della fratria: –– siblings: sono i “fratelli biologici” che hanno gli stessi genitori; –– stepsiblings: “fratelli acquisiti”, non correlati biologicamente, senza nessun genitore in comune; stepbrothers e stepsisters sono rispettivamente i fratelli e le sorelle; –– half-siblings: “fratelli della seconda unione” o “semi-fratelli”, parzialmente correlati biologicamente in quanto hanno solo un genitore in comune; si parla, in specifico, di half-brothers in caso di fratelli e di half-sisters in caso di sorelle;11 –– mutual children: sono i figli nati dalla nuova coppia ricostituita. Questi vocaboli presentano il vantaggio di evitare l’utilizzo di termini come fratellastro o sorellastra, che mantengono una connotazione dispregiativa data dal suffisso -astro, -astra, posto alla fine della parola fratello e sorella. Si conclude questo piccolo glossario riassumendo i vari termini descritti all’interno del concetto di legame fraterno. Innan11 W.R. Beer, Strangers in the House. The World of Stepsiblings and Halfsiblings, Transaction Publisher, New Brunswick (NJ) 1989, pp. 63-85.

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zitutto occorre ricordare che la nozione di legame è diffusa nel campo della psicologia per spiegare le relazioni intrapsichiche e interpersonali. L’uso origina dai lavori dell’etologia applicata al genere umano e fa riferimento al concetto di attaccamento che, a sua volta, deriva dai lavori che vanno dalla ricerca sull’imprinting all’osservazione dei neonati, per arrivare alle relazioni familiari e a quelle tra fratelli e sorelle. Se riflettiamo sui significati che normalmente vengono attribuiti all’uso di termini come “fratello”, “fraterno”, “fraternizzare”, appare che “fratello” è considerato, oltre al figlio degli stessi genitori, anche colui che condivide con altri un sentimento, delle idee, una sensibilità; “fraternità” richiama poi l’altruismo, la concordia, la solidarietà, e “fraternizzare” significa stringere rapporti cordiali e amichevoli. Nel linguaggio e nell’uso comune, dunque, “fraterno” evoca l’idea della concordia e civiltà. Il ricorso ai termini che abbiamo descritto fornisce una rappresentazione rassicurante del legame fraterno, il quale può essere riassunto in questo modo: il fratello è colui che amiamo, ci assomiglia, ha la nostra stessa origine o occupa lo stesso nostro posto.

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Proverbi

Un proverbio non è che una massima contenente dettami, norme o consigli in forma sintetica, tratta da esperienze. La saggezza popolare è la fonte dei proverbi, i quali solitamente riportano quello che si ritiene vero; spesso contengono similitudini o metafore. Il più conosciuto, tra quelli riferiti ai fratelli, è senz’altro “fratelli coltelli”, che ha ispirato anche un film e un libro famosi; se ne riportano di seguito altri che sembrano riepilogare buona parte degli aspetti trattati della relazione fraterna: da quella fratricida (diavolo, flagello) a quella dell’affetto più profondo (concordia, amore), passando per una gamma di situazioni intermedie allargate all’ambito sociale. 1. 2. 3. 4. 5.

Cattivo fratello non ha amici. Contro due fratelli non ne volle il diavolo. Corruccio di fratelli fa più che due flagelli. Fratelli, flagelli. Ricchezza e sopruso son fratelli. 119

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6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.

Fidati e non ti fidare erano fratelli. Quando i fratelli sono disuniti, gli altri dettano loro la legge. Se i fratelli son d’accordo, il patrimonio non si divide. Si può vivere senza fratelli, ma non senza amici. Al fratello piace più veder la sorella ricca, che farla tale. Tre fratelli, tre castelli. Di tre cose si rallegra il cuore: la concordia dei fratelli, l’amore dei vicini, l’accordo di marito e moglie. Quando l’albero è fiorito siamo tutti sordi e muti. Quando l’albero è spoglio siamo tutti sorelle e fratelli.

Quest’ultimo proverbio è una metafora elaborata e affascinante. Quando si è in periodo di “fioritura”, abbondanza e benessere tutti diventano “sordi e muti” nei riguardi delle altre persone, ponendosi con comportamenti egoistici e spesso anche prepotenti. Nel momento, invece, in cui l’albero diventa spoglio, e al periodo di abbondanza segue quello di povertà e bisogno, tutti si riscoprono fratelli, come nel caso della carestia in Egitto che ha favorito il reincontro di Giuseppe e i suoi fratelli.

120

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Indice dei nomi

Abraham K., 36 Agger E.M., 58 Akhtar S., 112 Aristotele, 98 Artoni Schlesinger C., 95 Ast G., 60 Aulagnier P., 105 Barrie J.M., 77, 78, 79 Beer W.R., 117 Bion W.R., 37 Bjerkedal T., 39 Borges J.L., 96 Bourguignon O., 62, 111 Bruni L., 16 Brunori L., 61 Brusset B., 62 Capodieci S., 15, 59, 64, 80, 95, 112

Chantraine M.P., 109, 110 Chierici A., 95 Cicirelli V.G., 51 Colonna A.B., 58 Connodis I.A., 51 Costacurta B., 37, 38, 47 De Saint-Exupéry A., 92 De Voto G., 111 Freud S., 18, 48, 57, 58, 75, 76 Furman W., 55 Galimberti U., 43 Gibran K., 87 Graham I., 58 Hardin G., 17 Hartup W., 50 Kaës R., 15, 19, 100 Kancyper L., 19, 75, 96, 97 Kasten H., 69 127

Giuseppe

Kelley-Lainé K., 79 Kramer S., 112 Kristensen P., 39 Lacan J., 18 Lanthier R., 55 Laplanche J., 17, 18 Mancuso F., 79 Mann T., 75 Maslow A.H., 88 Monzani S., 99 Mujica H., 97, 110 Navelet C., 107, 111 Neubauer P.B., 60 Newman L.M., 58 Nicolò A.M., 34 Oli G.C., 111

128

Petri H., 70 Pontalis J.B., 17 Rosenblatt A.D., 58 Rubin G., 99 Sharpe S.A., 58 Sommantico M., 77, 99, 101, 107 Stocker C., 55 Sulloway F.J., 41 Tavazza G., 77 Toman W., 104 Trapanese G., 107 Volkan V.D., 60 Waugaman R.M., 59 Winnicott D.W., 60, 61 Yahyaoui A., 62

Indice

Presentazione del prof. Gianluigi Pasquale OFM Cap. Lo scenario psichico dei personaggi biblici: prototipi di vita spirituale.........................................................5 Introduzione...........................................................................13 0.1 Premessa..........................................................................13 0.2 Il complesso fraterno.........................................................17 Capitolo 1 Il racconto biblico...................................................................21 1.1 Premessa..........................................................................21 1.2 La vicenda biblica...........................................................22 Capitolo 2 La dimensione fraterna nella storia di Giuseppe.....................33 2.1 Essere il figlio preferito......................................................33 2.2 Possedere l’oggetto invidiato: la tunica...............................35 2.3 Il rituale del mangiare......................................................37 129

Giuseppe

2.4 L’interpretazione dei sogni................................................38 2.5 L’incapacità di riconoscere il fratello..................................41 2.6 Superare il “complesso fraterno”.........................................44 2.7 La nascita del sentimento di fratellanza.............................46 2.8 La morte di un genitore....................................................48 2.9 La lealtà reciproca tra i fratelli..........................................50 Capitolo 3 Il legame fraterno...................................................................53 3.1 Premessa..........................................................................53 3.2 Lo studio della relazione fraterna......................................56 3.3 I meccanismi psichici del legame fraterno in età adulta.......64 3.3.1 L’idealizzazione.........................................................64 3.3.2 L’identificazione.........................................................65 3.3.3 Il processo di de-identificazione.................................66 3.3.4 La dipendenza reciproca.............................................68 3.3.5 La relazione sadomasochistica.....................................69 3.3.6 La relazione costruttiva..............................................71 Capitolo 4 Il complesso fraterno..............................................................73 4.1 Premessa..........................................................................73 4.2 Napoleone.......................................................................75 4.3 James Barrie....................................................................77 4.4 Il complesso fraterno: casi clinici........................................80 4.4.1 Giovanni..................................................................81 4.4.2 Silvia.........................................................................82 Capitolo 5 La dimensione fraterna extra-familiare: amicizia e fratellanza...87 5.1 Premessa..........................................................................87 130

Indice

5.2 Cos’è la relazione amicale?................................................92 5.3 La fratellanza..................................................................94 5.4 Conclusioni.....................................................................98 Conclusioni..........................................................................103 Glossario...............................................................................109 Proverbi................................................................................119 Bibliografia...........................................................................121 Indice dei nomi.....................................................................127

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Collana Vivae voces 1. R. Tremblay – S. Zamboni, Ritrovarsi donandosi. Alcune idee chiave della teologia di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI 2. M. Cozzoli (ed.), Pensare professare vivere la fede. Nel solco della lettera apostolica “Porta Fidei” 3. C. L. Rossetti, La pienezza di Cristo. Verità, comunione e adorazione. Saggio sulla cattolicità della Chiesa 4. F. Felice – J. Spitzer (edd.), Il Ruolo delle Istituzioni alla Luce dei Principi di Sussidiarietà, di Poliarchia e di Solidarietà. Atti del Colloquio Internazionale di Dottrina Sociale della Chiesa 5. S. Lanza, Opus Lateranum. Saggi di teologia pastorale 6. S. Capodieci, Giuseppe. Storia di fratellanza e amicizia