Gioventù di piombo. Rappresentazione e autorappresentazione nei documenti ufficiali delle Br, 1970-1978 8898615655, 9788898615650

Negli anni settanta, tra i migliaia di ragazzi che scelsero di impugnare le armi, molti si unirono alle Brigate Rosse, s

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Gioventù di piombo. Rappresentazione e autorappresentazione nei documenti ufficiali delle Br, 1970-1978
 8898615655, 9788898615650

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Negli anni settanta, tra i migliaia di ragazzi che scelsero di impugnare le armi, molti si unirono alle Brigate Rosse, segnando indelebilmente la loro vita e la storia italiana. Ma chi erano i brigatisti? Quale immagine di sé volevano trasmettere all'esterno? Quali nemici credevano di dover combattere? Qual è stato il loro rapporto con la violenza e con la morte? Nel volume, oltre ad analizzare le cause che hanno portato, tra gli anni '60 e '70, alla nascita della lotta armata nel nostro paese, l'autore indaga l'autorappresentazione e la rappresentazione dei brigatisti. Attraverso l'analisi dei documenti ufficiali delle Brigate Rosse, vengono delineate così una serie di figure che evidenziano i diversi aspetti dell'essere un brigatista. I..:autore, mettendo in luce lo stile di vita dei militanti, si sofferma inoltre su come questi si presentavano al mondo esterno e come si volevano differenziare dagli altri gruppi della loro stessa area politica. Uno studio puntuale e per molti versi innovativo, che mira a riaccendere i riflettori su un periodo storico sofferto e ancora parzialmente incompreso.

I volti di Clio Collana fondata e diretta da Marco Severini V _________________________________________________________________________________

Omar Colombo

GIOVENTÙ DI PIOMBO Rappresentazione e autorappresentazione nei documenti ufficiali delle Br 1970-1978

Collana: I volti di Clio Direttore di collana: Marco Severini (Università di Macerata) Comitato scientifico: Marco Severini (Università di Macerata), Silvia Boero (Portland State University), Fulvio Conti (Università di Firenze), Arianna Fognani (Rutgers - State University of New Jersey), John Kinder (The University of Western Australia), Lidia Pupilli (Università di Macerata), Darrow Schecter (University of Sussex), Ilaria Serra (Florida Atlantic University), Silvia Serini (Associazione di Storia Contemporanea), Fiorenza Taricone (Università di Cassino).

Il volume è stato realizzato dall’Associazione di Storia Contemporanea, in collaborazione con il Centro Cooperativo Mazziniano “Pensiero e Azione” di Senigallia.

TUTTI I DIRITTI RISERVATI Vietata la riproduzione anche parziale © Aras Edizioni 2015 ISBN 9788898615650 Aras Edizioni srl, Fano (PU) www.arasedizioni.com – [email protected] © In copertina: immagine realizzata da Filippo Chittolini.

A mio nonno Renzo e al suo sorriso, che oggi splende da lassù.

Indice

Introduzione 9 La nascita della lotta armata in Italia 15 La prima fase del brigatismo (1970-1974) 57 La seconda fase del brigatismo (1974-1978) 101 Ringraziamenti 143 Indice dei nomi

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Introduzione

Gli «anni di piombo» hanno segnato in maniera evidente la storia della Repubblica italiana. Per comprendere quanto fu difficile quel periodo, basta analizzare i dati pubblicati dal Ministero dell’Interno, che svelano il terribile bilancio di una stagione drammatica. Tra il 1969 e il 1987 si contarono ben 491 morti, 1.181 feriti e gli atti di violenza «politicamente motivati» – di destra e di sinistra – contro cose e persone furono addirittura 14.5911. In questo scenario, giocarono un ruolo di primo piano le organizzazioni armate di sinistra, che nel ventennio 1969-1989 colpirono mortalmente 128 persone, tra cui anche una donna, Germana Stefanini, una vigilatrice del carcere femminile di Rebibbia, uccisa a Roma il 28 gennaio 1983. Analizzando i dati statistici riferiti alle vittime di azioni armate di sinistra emerge come, dopo un picco rilevante nel 1976, gli anni più violenti furono quelli dal 1978 al 1982. Nel 1978 – anno del rapimento e dell’omicidio del presidente dalla Democrazia Cristiana Aldo Moro – i morti furono 28, il numero più alto fatto registrare dalle formazioni armate di sinistra durante gli «anni di piombo»2. Sebbene questa stagione racchiuda in sé, allo stesso tempo, esperienze innovative e drammatiche, che hanno marcato in profondità la storia dell’Italia contemporanea, la ricerca storiografica su questo periodo è ancora agli inizi. Come ha osservato lo storico Angelo Ventrone, la ragione principale di questo ritardo risiede nella forza con cui il 1968 e il 1978 – i momenti più intensi di questa stagione – sono riusciti a catalizzare su di sé praticamente tutta l’attenzione3. Si è 1 C. Fiuman, Gli anni dell’impunità, Prefazione a A. Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, Donzelli editore, Roma 2010, p. XV. 2 Per i dati statistici sopra riportati, si veda Progetto Memoria, La mappa perduta, Sensibili alle foglie, Dogliani 2006 (1° edizione 1994), pp. 366, 493. 3 A. Ventrone, “Vogliamo tutto”. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 19601988, Laterza, Roma-Bari 2012, p. VIII.

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dunque preferito dare maggior risalto alla politica, alle polemiche e al gusto per la dietrologia, piuttosto che lasciare spazio ad una riflessione storica sulle radici di un fenomeno complesso come quello della lotta armata e sui giovani, che sono stati protagonisti indiscussi di quel periodo. I numeri sopracitati, ai quali si devono aggiungere gli oltre 20.000 inquisiti e i 4.200 incarcerati, dimostrano che in Italia si sviluppò un fenomeno unico, che per intensità e durata si discosta dalle altre esperienze europee di quegli anni4. L’attività terroristica nel paese è stata infatti di proporzioni drammaticamente superiori. Tra le varie formazioni armate che si trovarono ad operare in questo quadro, le Brigate Rosse sono diventate indubbiamente l’emblema dei continui spargimenti di sangue che hanno caratterizzato gli anni settanta. La forza mostrata da questa organizzazione, gli obiettivi che è riuscita a colpire e le azioni che ha portato a termine hanno infatti suscitato un clamore che non ha trovato eguali nella storia delle altre formazioni armate. Hanno contribuito al raggiungimento di questo risultato anche i mass media, che, fungendo da cassa di risonanza, hanno giocato un ruolo importante nella spettacolarizzazione del gesto violento. Le Brigate Rosse sono dunque riuscite ad affascinare migliaia di ragazzi che, in quegli anni, si sono avvicinati alla lotta armata. Gli stessi dati statistici sembrano confermare il ruolo da protagonista che l’organizzazione dalla stella a cinque punte ha ricoperto durante gli «anni di piombo». Delle 128 persone decedute per responsabilità delle formazioni armate di sinistra dal 1969 al 1989, ben 52 – il 40,7% del totale – sono rimaste vittima di azioni firmate dalle Brigate Rosse5. Ma chi erano i brigatisti? Analizzando i dati riferiti alle 911 persone che sono state sottoposte a inchiesta nell’indagine sulle Brigate Rosse, due elementi di rilevanza assoluta balzano subito agli occhi. In primis, la distribuzione per genere di appartenenza degli inquisiti mostra che la componente maschile non aveva di certo monopolizzato l’intera organizzazione. La storia della principale formazione armata di sinistra in Italia non è quindi esclusivamente – come si tenderebbe a pensare – una storia di uomini, ma anche una storia di donne, soprattutto ragazze, che impugnarono le armi per cambiare il mondo che avevano ereditato dai loro genitori. L’altro elemento che merita una certa attenzione riguarda invece la distribuzione per classi d’età. I dati raccolti svelano, in particolar modo, la giovane età dei militanti: il 73% dei brigatisti inquisiti aveva infatti un’età compresa tra i 21 e i 35 anni6. 4 M. Galfré, La lotta armata. Forme, tempi, geografie, in S. Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, il Mulino, Bologna 2012, p. 64. 5 Per i dati statistici, si veda Progetto Memoria, La mappa perduta, cit., pp. 495-496. 6 Per i dati statistici sulle 911 persone inquisite per le Brigate Rosse, si veda Progetto Memoria,

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Infine, esaminando i dati relativi all’estrazione sociale degli indagati, si nota come «ricchi» e «poveri» si siano trovati a combattere insieme nelle fila delle Brigate Rosse. Tra i brigatisti non vi sono stati quindi soltanto operai e studenti – come Renato Curcio e Mara Cagol –, ma anche impiegati e insegnanti, come Maria Rosaria Roppoli, imprenditori e persino professori universitari, come Enrico Fenzi. Ad unirli, il desiderio di poter vivere una vita autentica, di potersi realizzare insieme, di riuscire finalmente a superare un mondo dominato dagli «squallidi» valori materiali della borghesia. Limitarsi esclusivamente allo studio dei dati statistici impedirebbe tuttavia di analizzare a fondo un fenomeno complesso come quello del brigatismo, e di scoprirne le radici. Scegliendo di proseguire su questa strada – oltre al rischio di decontestualizzare lo studio del fenomeno brigatistico dal quadro storico in cui ha preso vita – si lascerebbero senza risposta alcune domande fondamentali: da dove nascono i brigatisti? Quali nemici volevano combattere? Perché hanno scelto di uccidere? Come è stata condizionata la loro vita dalla decisione di praticare la lotta armata? Per cercare di rispondere a questi ed altri quesiti, si è deciso in questo libro di prendere in esame l’autorappresentazione dei brigatisti, analizzando soprattutto i documenti che i militanti delle Brigate Rosse hanno pubblicato tra la fine degli anni ’60 e il 1978. Insieme ai comunicati e ai volantini, sono state utilizzate anche diverse memorie e testimonianze di ex combattenti, nel tentativo di valorizzare gli aspetti introspettivi. Il lavoro è stato quindi suddiviso in tre capitoli. Nel primo, si è provato a ricostruire le cause che hanno portato alla nascita del fenomeno della lotta armata nella sinistra extraparlamentare. Ci si è quindi soffermati sugli eventi nazionali e internazionali, sulla contestazione sociale e sulle prime formazioni armate che hanno caratterizzato sia il panorama italiano che quello mondiale. Nei capitoli restanti, ci si è invece concentrati sull’autorappresentazione del brigatista, evidenziandone l’evoluzione lungo le prime due fasi della storia delle Brigate Rosse. Come data periodizzante è stata utilizzata quella del primo omicidio compiuto dai brigatisti il 17 giugno 1974, nella sede del Movimento Sociale Italiano di Padova. L’omicidio rappresenta infatti un indiscutibile salto di qualità nella storia dell’organizzazione. Più nello specifico, il secondo capitolo si propone di mettere in luce la figura del brigatista nella prima fase (1970-1974), ponendo particolare attenzione alla sua iniziale vicinanza alla realtà di fabbrica e all’importanza di un mito radicato come quello della «Resistenza tradita». Ci si è soffermati perciò sul sogno di quei ragazzi che scelsero la lotta armata e su chi essi giudicavano esserne i nemici. Si La mappa perduta, cit., pp. 60-64.

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sono studiati quindi la concezione che i brigatisti avevano del nemico, il rapporto che essi intrattenevano con i loro avversari e le strategie che adottavano per neutralizzarli. Particolare rilievo è stato dato inoltre al tema della violenza, le cui trasformazioni, in special modo il passaggio dalla violenza contro le cose a quella contro le persone, hanno segnato marcatamente la figura del brigatista. Si sono analizzati poi alcuni aspetti della vita clandestina, quali, ad esempio, il rapporto con le rapine e con le armi. Nella parte conclusiva del capitolo, si è infine cercato di rispondere alla domanda: il brigatista si sentiva un terrorista? Nel terzo capitolo, è stata invece affrontata la seconda fase del brigatismo (1974-1978), allo scopo di studiare la figura del brigatista omicida. Dopo un’analisi delle novità emerse nella percezione brigatista del nemico e dopo una riflessione sugli alleati della rivoluzione, ci si è soffermati quindi sulla scelta dei militanti – maturata proprio nella seconda metà degli anni di settanta – di uccidere degli esseri umani, ritenuti responsabili di quello stato di cose. Grazie anche alle testimonianze degli stessi protagonisti, si è cercato soprattutto di tratteggiare il percorso interiore che ha portato dei ragazzi comuni a diventare, allo stesso tempo, carnefici e vittime. Oltre all’autorappresentazione, in questo capitolo, si è voluto sottolineare anche un altro aspetto di particolare interesse, quello della rappresentazione dei brigatisti verso l’esterno. Si è cercato quindi di studiare l’immagine che i militanti volevano dare di sé per differenziarsi dagli altri gruppi della loro stessa area politica, e di comprendere come i brigatisti si presentavano al mondo esterno, attraverso l’analisi di tutte quelle precauzioni che essi dovevano seguire per evitare di destare sospetti tra i non appartenenti all’organizzazione. Questo libro vuole essere comunque solo un punto di partenza. L’autorappresentazione dei brigatisti è stata infatti indagata unicamente attraverso l’analisi dei documenti ufficiali delle Brigate Rosse. La consultazione di riviste quali «Corrispondenza Internazionale», «Controinformazione» e «Nuova resistenza», farebbe probabilmente emergere altre figure che meritano altrettanti approfondimenti. Interessante sarebbe poi analizzare i documenti di altri movimenti europei, come la Rote Armee Fraktion e l’Irish Republican Army, di movimenti nordamericani, come il Black Panther Party, ma anche di movimenti brasiliani, per scoprire tutti i modelli a cui i brigatisti si sono ispirati. Un’altra direttrice di sviluppo potrebbe infine essere rappresentata dall’estensione del periodo oggetto di studio al dopo Moro. Negli anni successivi all’omicidio del presidente della Democrazia Cristiana, l’autorappresentazione dei brigatisti ha subìto infatti un’importante trasformazione, sia per quanto concerne la percezione del nemico, che per l’individuazione dei propri alleati. L’analisi di

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alcuni documenti, come L’ape e il comunista 7 e L’albero del peccato8, permetterebbero sicuramente di cogliere moltissime novità rispetto al periodo che è stato studiato in questa sede.

7 Il riferimento è a Collettivo prigionieri comunisti Br, L’ape e il comunista, in «Corrispondenza internazionale», numero speciale, Milano 1980, oggi in L’ape e il comunista. Il più importante documento teorico scritto dalle Brigate Rosse, a cura del Gruppo di studio Resistenze Metropolitane, Pgreco Edizioni, Milano 2013. 8 Collettivo prigionieri comunisti delle brigate rosse, L’albero del peccato, Parigi 1983.

La nascita della lotta armata in Italia

L’operaismo italiano: «Quaderni rossi» Per cercare di comprendere il contesto politico e il retroterra culturale nel quale si svilupparono le formazioni armate della sinistra extraparlamentare, risulta imprescindibile un richiamo all’operaismo italiano e alla situazione di conflittualità, di cui fu protagonista la classe operaia negli anni ’60. Il contributo degli operaisti si rivelò infatti decisivo affinché gli operai prendessero coscienza della loro condizione subordinata sia all’interno della fabbrica, che nella società. L’operaismo si fece quindi promotore di un radicale cambiamento sociale, stimolando l’esplosione delle lotte operaie. Fu proprio all’interno di questo contesto, caratterizzato dall’estensione della rabbia operaia, che nel decennio successivo prese vita il fenomeno della lotta armata. Desiderose di realizzare finalmente quel tanto auspicato mutamento sociale, le nuove formazioni armate di sinistra avrebbero ripreso, come vedremo meglio più avanti, diverse riflessioni elaborate proprio dagli intellettuali operaisti. Nella corrente operaista ricoprì un ruolo fondamentale la rivista torinese «Quaderni rossi» (Qr), nata nel 1961. La rivista, promossa principalmente da Raniero Panzieri, era animata anche da altre personalità di spicco, come quella di Mario Tronti. Al centro dell’analisi proposta da questi intellettuali vi era l’insubordinazione della classe operaia italiana, che improvvisamente – dopo quasi 10 anni di latenza – aveva dato vita a grandi scioperi nel ’59 e nel ’60. L’obiettivo era quello di lavorare a strettissimo contatto con la realtà di fabbrica, per comprendere quello che stava accadendo nelle aziende cardine del capitalismo italiano. Secondo gli intellettuali di Qr era infatti palese che la vitalità dell’intero sistema dipendesse dalla capacità di assorbire qualsiasi forma di antagonismo e di imprevedibilità; un obiettivo che, nei piani del capitale, sarebbe stato raggiun-

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to aumentando i salari e soddisfacendo tutte le esigenze materiali dell’operaioconsumatore. La principale preoccupazione per i rivoluzionari era quindi che il sistema capitalistico potesse vincere la solidarietà di classe, sfruttando la «mitologia del benessere». Gli operaisti ripresero quindi da Marx il concetto di «capitale sociale» per spiegare come, in realtà, fosse al di fuori della fabbrica che «il potere del padrone» voleva affondare le sue radici, in un’aspirazione che diventava pertanto totalitaria1. Di fronte ad un piano di questa portata, l’unica alternativa era quella di rovesciare il sistema attraverso una rivoluzione. Infatti, pianificazione e programmazione dello sviluppo non sarebbero serviti a nulla, dal momento che il capitale – avendo il tempo per organizzarsi – ne avrebbe tratto soltanto dei vantaggi. Il nemico numero uno diventava così il riformista, colui che frenando l’esacerbazione dello scontro, ostacolava anche il collasso del sistema stesso. Collaborare con i capitalisti significava infatti garantire «catene dorate» – ma pur sempre catene – alla classe operaia, rinunciando così a mettere in discussione le fondamenta del sistema capitalistico2. A dimostrazione dell’inevitabilità della rivoluzione vi era la disumana esperienza vissuta dalla classa operaia, che sperimentava quotidianamente, sulla sua pelle, l’essenza brutale e oppressiva della società contemporanea3. Luogo privilegiato dell’attività di contrasto del piano del capitale diventava la fabbrica capitalistica, proprio lì dove il padrone aveva cercato di eliminare ogni sorta di imprevedibilità. All’interno della fabbrica, gli intellettuali di Qr – utilizzando il metodo della «con-ricerca» – andarono alla scoperta della rabbia operaia. Nelle inchieste avviate dagli operaisti, lavoratore ed intellettuale davano vita ad un binomio imprescindibile che permetteva di comprendere in maniera più chiara i disegni del capitale. Il contributo del lavoratore era infatti necessario per far capire a chi si trovava all’esterno come funzionasse la fabbrica; lo stesso lavoratore aveva però bisogno del contributo dell’intellettuale per collegare il proprio malcontento con una visione più ampia, al fine di comprendere la necessità di dar vita ad un’organizzazione rivoluzionaria4. Fu proprio attraverso queste indagini – condotte con il metodo della «conricerca» – che gli operaisti capirono che la classe operaia italiana non era completamente integrata nel sistema.

1 A. Ventrone, “Vogliamo tutto”. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 19601988, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 27. 2 Ibidem, p. 30. 3 Ibidem, p. 32. 4 Ibidem, p. 40.

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Gli scontri di Genova e di piazza Statuto Gli italiani degli anni ’60 iniziarono a conoscere la conflittualità della classe operaia durante due violente contestazioni che inaugurarono quel decennio. La prima occasione si ebbe a Genova nel luglio del 1960, quando la città divenne l’epicentro di una serie di scontri che raggiunsero un livello di violenza mai sperimentato dopo il ritorno della democrazia. Al centro della protesta che infiammò il capoluogo ligure vi era l’autorizzazione concessa dal governo allo svolgimento del Congresso del Movimento sociale italiano (Msi), proprio nella città che era stata uno dei baluardi della Resistenza. I neofascisti avevano inoltre annunciato la partecipazione al Congresso di Carlo Emanuele Basile, prefetto di Genova durante la Repubblica di Salò e responsabile della deportazione di moltissimi operai e antifascisti genovesi5. L’allora presidente del Consiglio, il democristiano Tambroni6 – che, tra l’altro, aveva ottenuto la fiducia in Parlamento grazie ai voti dei neofascisti – venne così accusato di voler imprimere una palese svolta a destra al sistema politico italiano. Il 30 giugno del 1960 venne quindi indetto uno sciopero generale, che fu animato da scontri durissimi tra i manifestanti e le forze dell’ordine. Nel pomeriggio di quel giorno migliaia di persone attraversarono le strade di Genova, muniti anche di pietre, bulloni e sbarre di ferro7. Alcune jeep della polizia vennero addirittura rovesciate e date alle fiamme8. A Torino – dove si svolse uno sciopero di solidarietà – arrivarono anche alcuni partigiani armati, che si schierarono a fianco dei giovani manifestanti9. Per sedare il clima di tensione che si era generato, il governo decise di rinviare il congresso del Msi. Ciononostante gli scontri proseguirono, provocando ulteriori spargimenti di sangue. Tambroni diede infatti alla polizia il permesso di sparare contro i manifestanti antifascisti, nel caso in cui si fossero create delle situazioni di emergenza. Il 5 luglio la polizia uccise così un manifestante e ne ferì altri 5 a Licata, in Sicilia. Due giorni più tardi, gli scontri raggiunsero il culmine a Reggio Emilia, dove la polizia sparò di nuovo, uccidendo 5 operai. L’8 e l’11 luglio altri 5 operai vennero poi uccisi a Palermo e a Catania. L’epilogo si ebbe infine il 19 luglio con le dimissioni di Tambroni. 5 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 2006 (1°edizione 1989), p. 346. 6 Nella primavera del 1960, l’avvocato sessantenne Fernando Tambroni era stato scelto dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi per formare il nuovo governo, dal momento che la caduta del governo Fanfani aveva generato una fase di stallo, cfr. Ibidem. 7 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 47. 8 Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 347. 9 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 47.

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I fatti di quei giorni segnarono profondamente diversi ragazzi, tra i quali anche il futuro brigatista Prospero Gallinari, che – a soli 9 anni – partecipò ai funerali dei caduti di Reggio Emilia: Non era la prima volta che andavo in piazza, ma così tanta gente non l’avevo mai vista. La città era troppo piccola per contenere la massa dei manifestanti. E la cosa che mi stupì, più ancora della quantità delle persone, fu il pianto che vedevo scorrere su quei volti. […] rimasi soprattutto impressionato dalle lacrime di tutta quella gente. In genere sono i bambini che piangono. Vedere uomini forti, giovani e anziani, vedere donne, sommersi da quelle lacrime mi colpì moltissimo.

Quella rabbia e quel dolore – ha aggiunto Gallinari – «finiranno per essere un mio bagaglio»10. Gli scontri che si verificarono nell’estate del 1960 assumono una rilevanza fondamentale non soltanto come testimonianza di un inequivocabile risveglio della classe operaia, ma anche come cesura nella storia del rapporto tra gli operai e le principali organizzazioni che li rappresentavano. Va infatti sottolineato che la maggior parte dei manifestanti si rifiutò di seguire le direttive dei partiti di sinistra, che avevano cercato di preservare la legalità della protesta. Un altro dato interessante riguarda infine il ruolo svolto dagli studenti nelle mobilitazioni antifasciste e antigovernative che si svolsero in quei giorni di luglio. «I giovani dalle magliette a strisce» – così li definì la stampa, per via delle loro magliette bianche con righe colorate – riuscirono infatti a collegarsi con il malcontento operaio, trainato in primis dai nuovi lavoratori emigrati dal meridione, che, in quelle proteste, avevano visto l’occasione per esprimere violentemente tutta la distanza che li separava dalle organizzazioni istituzionali dei lavoratori11. La sensazione di cambiamento che era nata con gli scontri di Genova nel luglio del 1960 trovò una nitida conferma due anni più tardi nella torinese piazza Statuto. Nel 1962 giunse infatti il momento di rinnovare il contratto dei metalmeccanici e Torino divenne il centro delle principali proteste. Il capoluogo piemontese aveva visto l’esplosione di numerosi scioperi anche negli anni precedenti, ma i manifestanti non avevano potuto contare sull’appoggio della classe operaia della FIAT. Grazie infatti alla politica intrapresa dall’amministratore dell’azienda, Vittorio Valletta, gli operai dell’industria automobilistica torinese erano i meglio pagati della città, potevano usufruire dell’efficiente politica sociale e assistenziale dell’azienda e, inoltre, tra di loro vi erano pochi meridionali12. Quando però nella mattinata del 7 luglio del 1962 si diffuse la notizia che la 10 P. Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Bompiani, Milano 2014 (1° edizione 2006), p. 29. 11 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., pp. 48-49. 12 Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 341.

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Uil e il Sindacato italiano dell’automobile (Sida) – il sindacato giallo padronale – avevano raggiunto un accordo separato con la direzione FIAT che non prevedeva alcuna revisione dei ritmi e dei tempi di lavoro, la tensione raggiunse l’apice. Da quel momento, la classe operaia della FIAT, che aveva già contribuito agli scioperi dei giorni precedenti con i suoi elementi più politicizzati, avrebbe ricoperto un ruolo decisivo nelle lotte operaie fino alla fine degli anni ’7013. Nel pomeriggio del 7 luglio, diversi manifestanti si riunirono in piazza Statuto, proprio davanti alla sede della Uil. Per tre giorni la piazza ospitò una serie di scontri durissimi con le forze dell’ordine. Di fronte ad operai – per la maggior parte giovanissimi e di origine meridionale – armati di fionde, bastoni e catene, che rompevano vetrine e finestre, che disselciavano le strade per lanciare alla polizia i cubi di porfido, che sradicavano pali segnaletici e rovesciavano automobili; le forze dell’ordine risposero con violenti cariche, con l’uso di lacrimogeni e picchiando i dimostranti con i calci dei fucili. Si contarono così 169 feriti tra le forze dell’ordine e ancora di più tra i manifestanti, molti dei quali furono picchiati in strada, oppure successivamente nelle caserme14. L’efferatezza degli scontri di piazza Statuto ha però oscurato altri episodi simili che in quel periodo si verificarono nella realtà industriale italiana. Negli stessi giorni delle lotte torinesi, ad esempio, raggiunse il suo culmine il conflitto iniziato alcuni mesi prima in una delle roccaforti dell’autoritarismo padronale, la Piaggio di Pontedera, in provincia di Pisa. Qui lo sciopero vide la partecipazione di oltre 5 mila persone, fra cui anche donne, vecchi e bambini. Lotte intense si verificano poi alla Sit-Siemens di Milano, all’Alfa Romeo e alla Borletti, dove il proprietario chiese prima l’intervento della polizia, per poi decidere la serrata, un atto illegittimo secondo le norme costituzionali15. I giorni di lavoro persi per sciopero nel 1962 ammontarono così a 182 milioni, contro i 46 milioni del 1960 e i 79 milioni del 196116. Tuttavia, proprio quando le lotte sembravano aver preso il sopravvento, l’avvio di una nuova fase politica di centro-sinistra – segnata dall’ingresso del Psi al governo nel dicembre del 1963 – riuscì a minare la solidità delle forze rivoluzionarie. Solidità che venne ulteriormente indebolita nel 1964, quando Cgil, Cisl e Uil firmarono il contratto dei metalmeccanici. In quel momento, Raniero Panzieri capì che era stato un errore illudersi che la classe operaia italiana fosse pronta per abbattere il sistema. Se, da un lato, il 13 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 50. 14 Per una breve cronaca degli scontri di piazza Statuto, si vedano Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 51; Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 343. 15 G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2003, pp. 44-46. 16 Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 366.

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principale promotore dei Qr riteneva che la rivoluzione necessitasse di tempi lunghi; dall’altro, Mario Tronti – insieme ad altri intellettuali, come Asor Rosa e Toni Negri – era invece convinto che la classe operaia italiana, in gran parte ancora non integrata, fosse disponibile alla sovversione del sistema. L’obiettivo – secondo l’intellettuale romano – doveva essere quello di superare la spontaneità delle lotte operaie, dando loro un’organizzazione politica, che sarebbe diventata lo strumento principale per far naufragare il piano del capitale. La distanza che separava le posizioni di Panzieri da quelle di Tronti portò alla prima scissione dei Qr. Nel 1963 Tronti e gli altri fuoriusciti diedero infatti vita ad una nuova rivista: «Classe operaia». Una nuova scissione all’interno della rivista torinese si ebbe poi nel 1966, quando il gruppo dei toscani – nel quale spiccava la figura di Adriano Sofri – uscì dai Qr per fondare Potere Operaio toscano (Pot). Dal filone di «Classe operaia» sarebbe poi nato nel 1969 Potere Operaio (Po), mentre il gruppo di Sofri avrebbe dato vita – sempre in quell’anno – a Lotta Continua (Lc). Queste organizzazioni avrebbero quindi fornito un discreto numero di militanti alle principali formazioni armate della sinistra extraparlamentare, quali, ad esempio, le Brigate Rosse (Br), i Nuclei Armati Proletari (Nap) e Prima Linea (Pl). Una drammatica congiuntura internazionale La rinnovata conflittualità della classe operaia italiana si inserì all’interno di un quadro internazionale davvero particolare, che contribuì certamente alla diffusione degli ideali rivoluzionari. Alcuni eventi drammatici di quegli anni sensibilizzarono infatti migliaia di ragazzi del nostro paese. Molti di loro ricevettero così la spinta decisiva per convincersi che rovesciare il sistema borghese non fosse soltanto giusto, ma anche possibile. Tra gli avvenimenti che trovarono maggiore eco in Italia, spicca soprattutto l’esplosione dei ghetti neri, registrata in alcune città americane. Dopo la grande marcia su Washington del 1963 – quando Martin Luther King pronunciò il celebre discorso «I have a dream» – scoppiarono infatti una serie di scontri, che fecero registrare un livello di violenza davvero elevato. Nel giugno del 1964, ad esempio, tre militanti per i diritti civili, arrestati dalla polizia del Mississippi, vennero trovati privi di vita in fondo ad una scarpata17. Scontri brutali sarebbero poi scoppiati ad Harlem, a Chicago, a Los Angeles e altrove. Quello che stava accadendo negli Stati Uniti, il cuore dell’imperialismo, trovò spazio sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo. In Italia, nel marzo 17 Crainz, Il paese mancato, cit., p. 124.

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del 1964, «Il Giorno» pubblicò un articolo, intitolato Fuoco razzista su tutto il sud, in cui veniva data notizia dell’uccisione di una donna di colore. Qualche giorno più tardi, l’opinione pubblica sarebbe rimasta ancor più impressionata da una foto apparsa in prima pagina sullo stesso quotidiano. Sotto il titolo, L’antirazzista ucciso dal bulldozer, l’immagine di un pastore bianco del Cleveland che si era opposto alla costruzione di una scuola per soli neri18. In questo contesto, caratterizzato da continui spargimenti di sangue, i discorsi del leader dello Students’ National Coordinating Committee, H. Rap Brown, che invitavano a prendere le armi e a sparare19, colpirono senza dubbio i rivoluzionari di tutto il mondo. Quelle lotte dimostravano infatti che la prospettiva rivoluzionaria si adattava anche ai paesi a capitalismo avanzato. Un altro avvenimento che venne seguito con estrema attenzione dai rivoluzionari italiani e da migliaia di giovani che avrebbero poi scelto la lotta armata, fu la guerra in Vietnam. La solidarietà nei confronti dei vietnamiti nasceva soprattutto dalla torbida indifferenza dell’opinione pubblica, che accompagnava uno scontro diventato sempre più «metafora della battaglia di Davide contro Golia»20. Sergio Segio, militante di una formazione armata come Pl, ha voluto ricordare così il ruolo che quello scontro impari giocò nella sua scelta di provare a rovesciare il sistema: A quel tempo ci parve necessario e possibile rompere questa eterna cappa di ipocrisia, prendere le parti di queste morti leggerissime, che avvenissero nelle foreste dell’Indocina o nei cantieri italiani. Sbagliando spesso obiettivi e soprattutto modi. Ma quella era l’intenzione e il sentimento21.

Il fatto poi che la vittoria per gli Stati Uniti tardasse ad arrivare, convinse molti rivoluzionari che l’imperialismo non fosse un nemico così invincibile. Questa sensazione venne colta anche da alcuni giornalisti dell’epoca, che sottolinearono l’efficacia della guerriglia vietnamita. Nel maggio del 1965 comparve, ad esempio, un interessante articolo di Guido Nozzoli, intitolato Una mazza contro una farfalla: […] Un’enorme, splendida mazza d’acciaio in lotta contro una farfalla. Quando il suo colpo, sempre violentissimo, si abbatte sul bersaglio, la farfalla è già volata via. La mazza pesa, costa cara e consuma molto: la farfalla succhia il miele dove lo trova, non ha che il suo peso da portare nella giungla e […] può sempre trovare una foglia sotto cui posarsi al passaggio dell’uragano, o una pianta in cui deporre le larve, che metterebbero presto le ali per volare sulle risaie anche se lei fosse schiacciata22. 18 Ibidem. 19 Si veda un estratto del discorso tenuto il 17 agosto 1967 a Los Angeles, riportato in Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 89. 20 Crainz, Il paese mancato, cit., p. 127. 21 Cit. in Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., pp. 94-95. 22 Cit. in Crainz, Il paese mancato, cit., p. 127.

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Intanto, nei paesi occidentali iniziarono a diffondersi le prime proteste contro l’intervento statunitense in Vietnam. Erano gli anni delle canzoni contro la guerra, firmate da autori diventati poi celebri, come Bob Dylan, Joan Baez e Barry Mc Guire23. I rivoluzionari italiani guardarono all’estero anche per individuare un modello da seguire. Questo venne ravvisato nella Cina di Mao, un paese che – a detta dei rivoluzionari di quegli anni – aveva superato il modello sovietico, considerato invece un capitalismo di Stato a tutti gli effetti. La Rivoluzione culturale in Cina veniva idolatrata per il suo carattere antiautoritario e veniva letta come un movimento di massa spontaneo24. Il richiamo a quell’esperienza sembrava inoltre lo strumento più adatto per sconfiggere la mentalità e le abitudini borghesi25. Il fascino dell’esperienza cinese giunse nel nostro paese grazie anche ad alcuni libri che furono pubblicati nel periodo della Rivoluzione culturale. È il caso di L’altra riva del fiume, un’opera che apparve in Italia proprio nel 1966. L’autore, Edgar Snow, interpretava l’esperienza cinese come un ritorno al comunismo delle origini, un comunismo egualitario e antiburocratico26. Accanto ai libri che mitizzavano la Cina, iniziarono poi a diffondersi anche le suggestive parole d’ordine di Mao: «Bombardate il quartier generale!» e, soprattutto, «Ribellarsi è giusto!» affascinarono sicuramente i ragazzi di quella generazione27. Dal Sudamerica proveniva infine il più grande mito di tutti i rivoluzionari italiani: Ernesto Che Guevara. Il celebre comandante della Rivoluzione cubana, che aveva sollecitato i rivoluzionari di tutto il mondo a trasformare «ogni paese in un altro Vietnam»28, simboleggiava «la legittimità e la possibilità di ribellarsi in qualunque situazione […] anche quando la rivoluzione sembrava sconfitta»29. Si pensi inoltre all’influenza esercitata sulle future formazioni armate da un testo, edito nel 1963, come La guerra di guerriglia: un metodo: La violenza non è un patrimonio degli sfruttatori, gli sfruttati possono impiegarla al momento giusto […]. La dittatura cerca sempre di conservarsi senza troppo mostrare che usa la forza; costringerla a togliersi la maschera, a mostrarsi col suo vero volto di dittatura violenta delle classi reazionarie è un fatto che contribuisce a mostrarne al popolo la sua vera natura30. 23 Ibidem, p. 128. 24 Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 409. 25 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., pp. 99-100. 26 Crainz, Il paese mancato, cit., p. 142. 27 Ibidem. 28 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 97. 29 Crainz, Il paese mancato, cit., p. 149. 30 Cit. in Crainz, Il paese mancato, cit., p. 145.

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Le riflessioni formulate all’interno delle prime Brigate Rosse, come vedremo, avrebbero ripreso alla lettera gran parte di queste indicazioni. Anche lo scritto Il socialismo e l’uomo a Cuba, pubblicato in Italia nel ’67, catturò le coscienze di moltissimi giovani di quegli anni. Il Che scriveva che «per costruire il comunismo assieme alla base materiale bisogna costruire l’uomo nuovo». Sottolineava inoltre che «il compito del rivoluzionario d’avanguardia è insieme magnifico e angoscioso», questo perché «il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore»31. La sua morte, avvenuta nell’ottobre del 1967, provocò sentimenti di rabbia e desideri di vendetta, ma stimolò anche una serie di riflessioni – soprattutto all’interno del mondo cattolico – sulle sofferenze vissute nei paesi del Terzo Mondo. Quella morte coincise peraltro con le grandi occupazioni degli atenei italiani, che avrebbero segnato profondamente l’anno accademico ’67-’68. Il ’68 giovanile e studentesco Al clima turbolento degli anni ’60, segnato dalle proteste operaie e da un gran numero di suggestioni internazionali, si aggiunse l’esplosione della contestazione giovanile. Non è infatti certamente un caso se la maggior parte dei ragazzi che avrebbero poi militato nelle formazioni armate della sinistra extraparlamentare, era stata in precedenza travolta dall’impeto del ’68 italiano; un fenomeno che aveva nella generazione giovane – tra i 16 e i 30 anni – non un settore particolarmente attivo, ma l’intera base sociale32. L’ondata contestataria era animata, in primis, da una feroce critica all’individualismo. Questa rivestiva, tra l’altro, un ruolo centrale nei testi di don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana che sarebbe diventato un vero e proprio modello per i giovani italiani del ’68. Don Lorenzo Milani sottolineava infatti che nella società contemporanea stavano scomparendo alcuni valori fondamentali, quali, ad esempio, la solidarietà. Partendo proprio dai suoi testi, come Lettera a una professoressa, i giovani di quella generazione arrivarono a teorizzare gli assi portanti della loro contestazione: il rifiuto di diventare una merce da scambiare sul mercato; la critica all’autoritarismo; l’affermazione della liberazione sessuale e la conquista di un’emancipazione individuale, che diventasse anche collettiva33. Le proteste prendevano di mira ovviamente anche la situazione universitaria italiana, alle prese con un eccessivo aumento degli iscritti: i 250 mila studenti uni31 Ibidem, pp. 146-147. 32 P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America. Con un’antologia di materiali e documenti, Editori riunti, Roma 1988, p. 42. 33 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 121.

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versitari del 1961 erano infatti diventati 550 mila nel 196834. Questo numero era inoltre destinato a salire ancora, dal momento che nel dicembre del 1969 l’università italiana sarebbe stata aperta a tutti i diplomati. Si pensi inoltre che, nel 1968, le università di Roma, Napoli e Bari contavano rispettivamente 60 mila, 50 mila e 30 mila iscritti, quando la loro portata massima era invece di 5 mila studenti35. Al problema della liberalizzazione dell’accesso ad un sistema universitario davvero arretrato – l’ultima seria riforma universitaria risaliva infatti al 192336 –, si aggiungevano le difficoltà economiche della maggior parte degli studenti. Per mantenersi agli studi, molti di loro intraprendevano infatti un’attività lavorativa, rischiando così di dover dire addio al titolo di laurea. All’interno del movimento si potevano quindi scorgere due opposte preoccupazioni: da un lato, la crisi degli sbocchi occupazionali (anche con la laurea il posto di lavoro non era infatti garantito); dall’altro, il timore che l’università fosse diventata ormai parte integrante del sistema37. Giunti all’università con ambizioni di carriera, molti studenti non solo si resero conto che il lavoro certo era solo un’utopia, ma iniziarono anche a domandarsi se quella carriera che avevano progettato, fosse realmente ciò che desiderassero. Il timore era soprattutto quello di vedersi ridotti a semplice merce, che, una volta immessa sul mercato, sarebbe poi stata scambiata in base alle esigenze dello stesso. Tra le conferme della fondatezza di queste preoccupazioni vi era il Ddl 2314, presentato nel maggio del 1965 dal ministro Gui. Questo disegno di legge – noto come «piano Gui» – introduceva, a detta degli studenti, una differenziazione classista dei titoli di studio, dal momento che prevedeva il diploma biennale per i «tecnici», che sarebbero dovuti entrare rapidamente nel mondo del lavoro, la laurea tradizionale ed infine il dottorato per una ristretta élite, che avrebbe consentito un’ulteriore specializzazione38. La sensazione era quella che il governo continuasse a guardare esclusivamente agli interessi del mercato. Nella primavera del 1967 la mobilitazione studentesca si intrecciò poi con le proteste che riguardavano il conflitto in Indocina. In molte città italiane presero vita delle manifestazioni congiunte, la maggior parte delle quali venne però interrotta dall’intervento della polizia. L’intervento delle forze dell’ordine contribuì così ad accelerare la transizione – che era comunque già in corso – verso uno stadio più avanzato della lotta: da una fase di tipo sindacale, si passò quindi ad una fase politica, «che permettesse di partire dall’università per mettere in discussione l’intero assetto sociale»39. 34 Crainz, Il paese mancato, cit., p. 208. 35 Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 405. 36 Ibidem. 37 Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968, cit., p. 63. 38 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., pp. 134-135. 39 Ibidem, p. 121.

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È proprio in questa fase maggiormente politicizzata della lotta che incontriamo i primi ragazzi che – qualche anno più tardi – avrebbero scelto la strada della lotta armata. Nell’autunno del 1967, ad esempio, Renato Curcio – futuro fondatore delle Br – e Mauro Rostagno – uno dei leader di Lc – scrissero il Manifesto dell’università negativa. Gli studenti – attivi all’interno dell’Ateneo di Trento – partivano dalla considerazione che l’università avesse come obiettivo principale quello di inserire sul mercato degli «ingranaggi» perfettamente funzionali a quel «gigantesco meccanismo impersonale» che era il sistema. L’università, soddisfacendo i «bisogni tecnici della società», contribuiva così a tutelare il dominio di una classe su tutte le altre, garantendo inoltre la subordinazione e l’obbedienza degli strati meno privilegiati. Curcio e Rostagno erano infatti convinti che il potere, attraverso il suo «apparato tecnologico», riuscisse a controllare ogni forma di dissenso e a eliminare ogni residuo spirito critico. Il problema cruciale non era però la tecnica in sé, ma il fatto che dietro la tecnica ci fosse la regia della classe dominante. Le riflessioni formulate nel Manifesto erano chiaramente influenzate dal pensiero del filosofo tedesco Herbert Marcuse. Proprio nel 1967 uscì infatti in Italia L’uomo a una dimensione, libro che lo stesso Marcuse aveva pubblicato tre anni prima negli Stati Uniti e che aveva fatto registrare più di centomila copie vendute in un solo anno40. Secondo Marcuse la solidità della società contemporanea poggiava sul concetto di «tolleranza repressiva»: premendo sulla crescita dei consumi, le persone si sarebbero illuse di avere tutto a disposizione e avrebbero così accettato il sistema attuale. Se però L’uomo a una dimensione presentava una chiosa pessimistica, dal momento che – a detta dello stesso Marcuse – la società industriale disponeva di tutti gli strumenti per impedire ogni sorta di trasformazione sociale; i giovani autori del Manifesto sostenevano invece che la rivoluzione fosse effettivamente possibile. Curcio e Rostagno lanciarono allora l’idea di una «università negativa», che proponesse nelle «università ufficiali la necessità di un pensiero teorico, critico, dialettico, negativo», e che rendesse possibile l’avvio di un «lavoro politico, creativo, antagonista ed alternativo»41. In questa fase esplicitamente politica della contestazione studentesca, l’obiettivo non era più quello di mettere in discussione «l’università in quanto tale, ma il rapporto tra sapere e potere, e quello tra capitale e lavoro»42. L’università diventava allora un punto di partenza, dal quale bisognava partire per realizzare un radicale mutamento sociale.

40 Crainz, Il paese mancato, cit., p. 187. 41 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 128. 42 Ibidem, p. 126.

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Uscire dall’università per rovesciare l’intero sistema, significava però cercare anche dei validi alleati che potessero battersi per la medesima causa. Le riflessioni e i dibattiti che si svilupparono all’interno del movimento studentesco, arrivarono ad identificare nella classe operaia l’elemento più interessante e più vicino alle posizioni degli studenti. Proprio in quel periodo gli operai italiani erano infatti tornati a protestare, e gli studenti scorsero in loro – soprattutto negli operai più giovani e meno sindacalizzati – delle grandi potenzialità. Studenti e operai uniti nella lotta divenne così lo slogan più suggestivo di quegli anni43. Il periodo della contestazione universitaria portò inoltre molti ragazzi a fare anche la loro prima esperienza con gli scontri di piazza, imparando a conoscere e a praticare la violenza. Le occupazioni e le lotte nelle università italiane erano già scoppiate nel 1966, ma, dal punto di vista della durezza dello scontro e dello spargimento di sangue, il vero salto di qualità si ebbe il 1° marzo del 1968. Il mattino di quel giorno infatti, dopo essere stati cacciati da varie facoltà, gli studenti di Roma – partiti in corteo da piazza di Spagna – sfidarono le forze dell’ordine e riuscirono ad occupare la Facoltà di Architettura, a Valle Giulia. Il bilancio dello scontro suonava quasi come un bollettino di guerra: 140 poliziotti e 50 studenti rimasero contusi, i fermi ammontarono a più di 250 e furono incendiate decine di camionette della polizia. Valle Giulia fu un punto di svolta, perché fino a quel momento il movimento studentesco era stato relativamente pacifico. Da allora, invece, polizia e studenti svilupparono un odio reciproco e molti ragazzi iniziarono a sfilare in corteo indossando caschi da motociclista per difendersi44. L’illegalità diventò così lo strumento privilegiato per difendere la propria libertà. I fatti di Valle Giulia e l’infuocato maggio francese45 provocarono quindi un sensibile aumento delle proteste, che avrebbero interessato diverse città italiane. Molti studenti si convinsero così che, uscendo dall’università e stringendo rapporti con la classe operaia, la rivoluzione fosse realmente possibile. Dalle università ai cancelli delle fabbriche Dopo gli scontri di piazza Statuto del 1962, la situazione all’interno delle fabbriche italiane aveva registrato una serie di trasformazioni. La grande ristrutturazione, seguita alla crisi del ’64-’65, aveva infatti introdotto una maggiore meccanicizzazione, 43 Crainz, Il paese mancato, cit., p. 243. 44 Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 411. 45 Nella notte tra il 10 e l’11 maggio del 1968 anche gli studenti francesi iniziarono ad erigere barricate.

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che, a sua volta, aveva provocato un vistoso aumento dei ritmi di lavoro46. Il quadro – contrassegnato dalla diffusione del cottimo e dall’intensificazione della sorveglianza padronale sui lavoratori – era quindi completato dall’elevato tasso di emigrazione meridionale, che riversava annualmente migliaia di giovani nelle città del Nord. L’impatto con la realtà dell’Italia settentrionale, per molti di loro, fu davvero terribile: ai frenetici ritmi di lavoro, si aggiungevano le pesanti discriminazioni territoriali e il caro degli affitti, che costringeva la maggior parte dei nuovi arrivati a passare la notte in stazione, o nelle aree decrepite dei centri cittadini. Desiderosi di migliorare le condizioni nelle quali si trovavano a lavorare, gli operai tornarono a protestare nel 1968. A differenza delle lotte operaie di sette anni prima, questa volta i lavoratori poterono però contare sull’appoggio degli studenti, che, usciti dalle aule degli Atenei, accorsero ai cancelli delle fabbriche, ansiosi di realizzare un profondo mutamento sociale. Il 7 marzo 1968, giorno dello sciopero nazionale per le pensioni, divenne la prima vera grande occasione sia per rilanciare il ruolo di guida della classe operaia della FIAT, che per invitare gli studenti ad unirsi nella lotta, a fianco dei loro compagni operai47. La risposta operaia superò ogni attesa e, solo a Milano, aderirono 300 mila metalmeccanici, insieme ad un buon numero di impiegati48. Da quel momento, gli operai e gli studenti sarebbero diventati i grandi protagonisti di un’escalation di proteste, che raggiunse l’apice durante l’anno successivo, e che trovò in Torino il suo epicentro. A rafforzare l’alleanza tra gli operai e gli studenti vi era poi una profonda ostilità nei confronti dei sindacati, accusati di essere un mero strumento nelle mani dei padroni, il cui obiettivo era quello di condurre le protesta su dei binari ben precisi. Proprio da questo sentimento di diffidenza verso i sindacati, nacquero, in quel periodo, diverse esperienze di sindacalismo di base, che sarebbero poi culminate nell’attività del Comitato unitario di base (Cub) della Pirelli di Milano. Qui, nel febbraio del 1968, i sindacati avevano contrattato con i dirigenti dell’azienda dei lievi aumenti di stipendio, senza però riuscire ad ottenere dei significativi miglioramenti per quanto riguardava le condizioni di lavoro. Avendo perso ormai fiducia nell’attività sindacale ufficiale, un gruppo di operai e di impiegati della fabbrica milanese decise allora – seguendo l’esempio di quanto stava avvenendo in altre fabbriche di Milano – di fondare il Cub, con l’obiettivo di sostenere le proprie rivendicazioni. Il Cub nasceva quindi per costringere il sindacato a seguire tutte le indicazioni che emergevano dagli incontri tra gli operai e gli studenti. Questi ultimi erano infatti diventati una presenza costante 46 Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 421. 47 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 143. 48 Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 422.

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agli ingressi delle fabbriche, convinti che lì si trovasse il cuore del movimento di protesta. Come era scritto su un volantino apparso a Trento nel ’68, la finalità del Cub non era quella di sostituirsi al sindacato, ma di condizionare la sua strategia: Il CUB ha fatto delle critiche al sindacato, NON per distruggerlo, ma per metterlo al servizio degli operai. Una cosa è criticare, un’altra cosa del tutto diversa è distruggere. Il CUB ha cercato di fare delle critiche costruttive: cioè di criticare il sindacato solo quando questo sbagliava a danno degli operai. Però ha lottato fianco a fianco del sindacato quando questo esprimeva in modo giusto le esigenze della base operaia. AL CUB INTERESSA NON DISTRUGGERE IL SINDACATO MA COSTRUIRE L’UNITA’ OPERAIA PIÙ VASTA POSSIBILE, di tutte le tessere e dei senza tessere. Al CUB interessa che il sindacato ci sia e agisca, ma non di testa sua, bensì solo seguendo la volontà operaia delle assemblee49.

Questo modello di sindacalismo dal basso venne presto adottato anche da altre fabbriche dell’Italia settentrionale. Tra le principali richieste sindacali avanzate dai Cub vi erano: il miglioramento delle condizioni di lavoro, insistendo soprattutto sull’abolizione dei lavori nocivi; la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario; la concessione di aumenti salariali, slegati però dall’aumento della produttività; l’abolizione delle «gabbie» salariali, che stabilivano una differente retribuzione per il medesimo lavoro, in base alla zona del paese in cui questo veniva svolto; ed infine la richiesta di nuove assunzioni. Le istanze corporative venivano spesso integrate con proposte maggiormente radicali, quali, ad esempio, l’introduzione di una nuova «giustizia proletaria», che avrebbe dovuto colpire i «quadri padronali particolarmente zelanti e ostili»50. Queste nuove idee si inserivano in un contesto che, rispetto agli anni precedenti, era sensibilmente mutato. La nascita di una reale solidarietà di reparto aveva infatti permesso di organizzare gli scioperi in maniera molto più combattiva. Proprio in questa fase della contestazione si erano infatti diffusi gli scioperi «a gatto selvaggio», gli scioperi «a singhiozzo» e quelli «a scacchiera»51. Non furono esclusi da questo fenomeno di sindacalismo di base nemmeno i colletti bianchi, che – unendosi alle lotte operaie – avrebbero dato vita, in molte fabbriche milanesi, ai Gruppo di studio (Gds), un’esperienza che si poneva sulla stessa lunghezza d’onda di quella dei Cub52. Come ha spiegato Mario Moretti – uno dei futuri leader delle Brigate Rosse –, «il tecnico», soprattutto se lavorava in fabbriche ad 49 Volantino dal titolo Che cos’è il Comitato Unitario di Base Operai-Studenti, Che cos’è il CUB?, Trento, 15 luglio 1968, in www.nelvento.net/archivio/68/autonomia/cub.htm. 50 M. Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek, Roma 2007, p. 12. 51 Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 427. 52 Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 12.

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alto contenuto tecnologico come la Siemens, cominciava infatti a rendersi conto che «stava dentro un processo di produzione che faceva di lui una parcella del ciclo». Una posizione, questa, che «non era granché diversa da quella degli operai»53. All’interno dei Cub e dei Gds, risultava determinante – come già anticipato – la collaborazione tra gli operai e gli studenti, sempre più interessati a confrontarsi con la realtà di fabbrica, luogo della massima alienazione dell’uomo contemporaneo. L’importanza di questo binomio operai-studenti, veniva rimarcata nel volantino di Trento citato in precedenza: Gli studenti hanno molto da imparare dalle lotte operaie e dalla condizione di sfruttamento da chi lavora in fabbrica. Ma anche noi operai abbiamo molto da imparare dalle lotte degli studenti. Infatti in questa società quello che è saputo dall’operaio non è saputo dallo studente e quello che è saputo dallo studente non è saputo dall’operaio. È IL PADRONE CHE CI VUOLE DIVIDERE. NOI INVECE CREDIAMO CHE DUE È MEGLIO DI UNO, E CHE SIAMO PIÙ FORTI OPERAI E STUDENTI UNITI, invece che separati54.

Tra gli studenti che in quel periodo uscirono dalle Facoltà universitarie per approfondire la conoscenza della condizione della classe operaia italiana, vi furono alcuni studenti di Trento, che – nel 1967 – avevano contribuito alla stesura del Manifesto dell’università negativa. Due di loro, Renato Curcio e Mara Cagol, si trasferirono infatti a Milano. Approdati in una città metropolitana, completamente diversa dalla più marginale località trentina, i due giovani studenti iniziarono a prendere contatti proprio con il Cub della Pirelli. La collaborazione tra operai e studenti funzionò anche a Torino. Alla FIAT Mirafiori – nel maggio e nel giugno del 1969 – si verificarono infatti una serie di scioperi, che avevano come obiettivo quello di ottenere delle migliori condizioni di lavoro. Le lotte, guidate da giovani operai, in gran parte meridionali, erano coordinate da un’assemblea di studenti e operai che si riunivano, al termine dei turni, nella Facoltà di Medicina55. Il confronto con gli operai permetteva agli studenti di raccogliere preziose informazioni, poi divulgate attraverso dei volantini, che – dalla fine di maggio del ’69 – iniziarono a circolare con l’intestazione «Lotta Continua»56. Le violenti proteste della primavera-estate di quell’anno culminarono infine nella «battaglia di corso Traiano». L’«assemblea operai-studenti» di Torino lanciò l’idea di organizzare un corteo per il 3 luglio, data in cui i sindacati avevano indetto uno sciopero generale contro il caro-affitti. Convinti che l’obiettivo dello sciopero fosse quello di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal clima 53 M. Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2007, p. 7. 54 Che cos’è il Comitato Unitario di Base, cit. 55 Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 428. 56 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 152.

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rovente che si respirava in quei mesi alla FIAT, per via delle proteste operaie, l’assemblea decise di dare vita ad una grande manifestazione. Il pomeriggio del 3 luglio, migliaia di operai della FIAT – ma anche di altre fabbriche torinesi – scioperarono per unirsi alle proteste. Allo slogan ufficiale dello sciopero indetto dai sindacati – «blocco degli affitti» –, venne contrapposto un altro slogan, diventato poi celebre: «Che cosa vogliamo? Tutto!». Caricato violentemente dalla polizia, il corteo riuscì a riunirsi più e più volte; in corso Traiano – diventato poi il simbolo di questa protesta – furono erette delle barricate. Gli scontri si chiusero con un bilancio davvero drammatico: 70 feriti, 29 dimostranti arrestati e 165 denunciati a piede libero57. La «battaglia di corso Traiano», che a molti aveva ricordato quanto accaduto sette anni prima in piazza Statuto, diventò così «il terzo caposaldo della mitologia operaia», dopo gli scontri di Genova del 1960 e quelli di Torino del 196258. Al termine delle ferie estive, gli scioperi aumentarono in maniera consistente, e la risposta della classe imprenditoriale non si fece di certo attendere. Alla FIAT di Torino, alcuni scioperi di reparto causarono la sospensione di 20 mila operai; mentre a Milano, la Pirelli rispose agli scioperi con la serrata59. L’entusiasmo dei gruppi rivoluzionari, cresciuto a dismisura in questa fase della contestazione – passata poi alla storia con il nome di autunno caldo –, incontrò però sulla sua strada un ostacolo insidioso: la firma del nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici. Nel dicembre del 1969, i sindacati e l’associazione delle imprese a partecipazione statale (Intersind) trovarono infatti un accordo, che sarebbe poi stato firmato anche da Confindustria. Sulla base di questa intesa, venivano garantiti salari uguali per tutti; si introduceva nei tre anni successivi la settimana lavorativa di 40 ore; venivano assicurate delle particolari concessioni agli apprendisti e ai lavoratori studenti; e, infine, i sindacati ottenevano il diritto di organizzare assemblee all’interno della fabbrica, pagate dai datori di lavoro fino ad un massimo di 10 ore all’anno60. La firma del contratto, bollato dai giovani rivoluzionari come un «contratto bidone»61, vide la riaffermazione della leadership sindacale e segnò un chiaro rafforzamento della classe lavoratrice. Nel 1970 i salari industriali aumentarono infatti del 18,3%, per poi continuare a crescere anche nei due anni seguenti. Alle conquiste sindacali si aggiunse, sul piano delle riforme, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, avvenuta nel maggio del 197062. 57 Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 16. 58 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 153. 59 Crainz, Il paese mancato, cit., p. 352. 60 Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 430. 61 Ibidem. 62 A. Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, Donzelli editore, Roma 2010, pp. 6-7.

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Oltre alla vittoria dei sindacati, l’autunno caldo lasciò in eredità anche uno svariato numero di gruppi rivoluzionari, nati proprio nei mesi delle intense contestazioni degli operai e degli studenti. In questo quadro davvero eterogeno, Potere Operaio e Lotta Continua avrebbero certamente ricoperto un ruolo di fondamentale importanza e sarebbero diventate – insieme ad Avanguardia Operaia e all’Unione dei comunisti italiani – le principali organizzazioni rivoluzionarie della sinistra extraparlamentare. Il nome dei gruppi nati in quei mesi dimostra – come ha osservato lo storico Angelo Ventrone – che il carattere sempre più politico che la lotta studentesca aveva acquisito negli ultimi mesi contribuì ad appiattire le proteste degli studenti su quelle operaie63. Gli studenti che arrivavano davanti ai cancelli delle fabbriche – ha raccontato Mario Moretti – assumevano «di colpo il punto di vista operaio, l’interesse degli operai soverchiava tutto, al limite della piaggeria; lo studente smetteva di essere studente oppure se andava»64. Dalle lotte dell’autunno del 1969 nacque anche il Collettivo Politico Metropolitano di Renato Curcio e Mara Cagol, che, di lì a pochi mesi – insieme ad Alberto Franceschini –, avrebbero fondato le Brigate Rosse. Mara Cagol e Renato Curcio. Tra sociologia e istinto missionario Renato Curcio era nato a Monterotondo, vicino Roma, il 23 settembre 1941. L’infanzia, trascorsa lontano dalla madre, era stata segnata da un gran numero di trasferimenti, che gli avevano causato diversi problemi dal punto di vista del rendimento scolastico. Dopo aver interrotto gli studi, Curcio si dedicò a qualche lavoretto precario. Quando però la madre gli chiese di tornare a studiare a Sanremo, dove aveva ritirato una piccola pensione, lui accettò. In Liguria, Curcio tornò quindi a scuola, riuscendo così ad ottenere il diploma di perito chimico nel 196165. Un diploma che aveva conquistato con il massimo dei voti, ma che tuttavia gli impediva di accedere alle Facoltà umanistiche, l’unico percorso universitario che gli interessasse veramente. Almeno fino a quando, nel 1962, non aprì la prima Facoltà italiana di Sociologia: l’Istituto superiore di Scienze sociali (Isss) di Trento. Qui, come abbiamo già visto, Renato Curcio sarebbe poi entrato nel gruppo di studio Università Negativa, collaborando alla stesura di uno dei documenti più importanti dell’intero movimento studentesco. Il periodo trascorso nella città 63 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 144. 64 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 10. 65 P. Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse. Gli episodi e le azioni della più nota organizzazione armata, dall’autunno del 1970 alla primavera del 2012, Newton Compton editori, Roma 2012, p. 17.

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trentina si rivelò quindi determinante per il futuro di Curcio. I dibattiti e i confronti con gli altri studenti dell’università, lo avrebbero infatti spinto a sviluppare una serie di riflessioni sulla società contemporanea e, di conseguenza, sugli strumenti più adatti a cambiarla. L’esplosione dei ghetti neri negli Stati Uniti, la guerra in Vietnam, le lotte degli operai e, da ultimo, la tragedia di Avola66, convinsero Renato Curcio – e gran parte degli altri studenti – che alla violenza della classe dominante si potesse rispondere soltanto con altra violenza. Violenza, che, perlomeno inizialmente, sfocerà “soltanto” in attentati contro le cose. A Trento, Renato Curcio avrebbe conosciuto anche la ragazza che sarebbe poi diventata sua compagna nella vita, oltre che nella militanza: Margherita Cagol. Mara – come tutti la chiamavano – era nata a Sardagna di Trento, l’8 aprile del 1945, da una famiglia borghese: la madre era farmacista, mentre il padre era proprietario di una profumeria67. Dopo aver frequentato le scuole a Trento, Mara Cagol si diplomò in ragioneria nel 1964. Terminati gli studi superiori, si iscrisse a Sociologia, dal momento che la Facoltà si trovava proprio nella sua città. All’università si inserì nel gruppo degli studenti più attivi, dove incontrò appunto Renato Curcio, l’uomo con il quale avrebbe condiviso la sua vita. Nel periodo della contestazione studentesca, la giovane trentina – che proveniva da una famiglia molto religiosa - si avvicinò al gruppo cattolico Mani Tese per il Terzo Mondo, pronta a dare il suo contributo agli oppressi e ai più sfortunati68. Le lettere indirizzate alla madre in quei mesi, tratteggiano i lineamenti di una ragazza profondamente delusa dal mondo che la circondava. Interessante, a questo proposito, una riflessione sulla società contemporanea, contenuta in un suo scritto del 1969: […] Questa società, che violenta ogni minuto tutti noi, togliendoci ogni cosa che possa in qualche modo emanciparci o farci sentire veramente quello che siamo (ci toglie la possibilità di coltivare la famiglia, di coltivare noi stessi, le nostre esigenze, i nostri bisogni, ci reprime a livello psicologico, fisiologico, etico, ci manipola nei bisogni, nell’informazione, ecc. ecc.) ha estremo bisogno di essere trasformata da un profondo processo rivoluzionario. La violenza del sistema ormai è recepita da grandi masse e non è più sopportata […]69.

66 Il 2 dicembre 1968 la cittadina sicula di Avola divenne lo scenario di un fatto terribile. Di fronte ad un blocco stradale, organizzato dai braccianti locali, in sciopero per il rinnovo del contratto di lavoro, la polizia reagì sparando ad altezza uomo. Il bilancio fu di 2 vittime e 48 feriti, di cui 5 in modo grave. 67 Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, cit., p. 22. 68 Ibidem, p. 20. 69 M. Cagol, Lettera alla madre, Milano, 28 novembre 1969, in Progetto memoria, Sguardi ritrovati, Sensibili alle Foglie, Roma 1995, p. 70.

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Spinta da un istinto quasi missionario, la giovane cattolica capì che l’unica soluzione per salvare l’uomo dal peso della società contemporanea, era quella di ribellarsi. Di fronte ad uno Stato disumano, che praticava quotidianamente l’illegalità, gli strumenti proposti dal Vangelo risultavano però obsoleti. Messa in disparte la parola di Dio, Mara Cagol decise allora di affidarsi allo spietato linguaggio del fucile. Come avrebbe spiegato – di lì a qualche anno – in una lettera ai genitori, la strada della lotta armata era infatti l’unica via che si potesse seguire: «[…] Ma voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi non ce ne sono altri. Questo stato di polizia si regge sulla forza delle armi e chi lo vuol combattere si deve mettere sul suo stesso piano […]»70. Il percorso intrapreso da Mara Cagol non fu certamente un unicum. Diversi giovani, negli anni ’60 – come è stato ampiamente evidenziato da Guido Panvini –, si avvicinarono alla lotta armata partendo proprio dal racconto delle esperienze missionarie. Le nuove comunicazioni di massa contribuirono infatti, in maniera decisiva, a diffondere i resoconti provenienti dalle missioni in Africa, Asia e America Latina. In molte case entrarono così «le immagini e le denunce delle miserie e dell’oppressione che pesavano sui popoli del Terzo Mondo»71. Queste esperienze, che favorirono lo sviluppo di riflessioni sulle cause politiche ed economiche dell’oppressione delle popolazioni più povere, portarono alcuni giovani a condannare fermamente il conformismo e l’individualismo, due fenomeni chiaramente rintracciabili nei paesi capitalistici. Nasceva così una feroce critica nei confronti della società dei consumi; una società che – come recitava una celebre canzone di Francesco Guccini – era responsabile della morte di Dio: «essere contro od ingoiare la nostra stanca civiltà […]/ una politica che è solo far carriera/ il perbenismo interessato/ la dignità fatta di vuoto […]/ ai bordi delle strade dio è morto/ nelle auto prese a rate dio è morto/ nei miti dell’estate dio è morto». Una canzone estremamente significativa che si chiude con l’ottimismo di chi vuole provare a cambiare il mondo: «in ciò che noi crediamo dio è risorto/ in ciò che noi vogliamo dio è risorto/ nel mondo che faremo dio è risorto»72. La canzone, scritta nel 1965 ed eseguita dai Nomadi nel 1967, venne censurata dalla Rai, ma fu trasmessa dalla Radio Vaticana. Le sue note avrebbero guidato la protesta dei giovani cattolici. Infine, tra le figure che influenzarono maggiormente i giovani cattolici di quegli anni ci fu sicuramente quella dell’Abbé Pierre, che collaborava con l’associazione di volontariato Mani Tese. Questo frate cappuccino – diventato un eroe 70 Id., Lettera ai genitori, senza luogo, autunno 1974, in Progetto memoria, Sguardi ritrovati, cit., p. 71. 71 G. Panvini, Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano, Marsilio Editori, Venezia 2014, pp. 158, 160. 72 F. Guccini, Dio è morto, 1965.

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della Resistenza francese e grande promotore di missioni umanitarie nel mondo – si era convinto che «la violenza potesse costituire una risposta possibile alle situazioni di oppressione e sfruttamento». Insomma, a detta dell’Abbé Pierre, rivoltarsi contro la civiltà globale del consumo era «lecito», e la violenza, sebbene fosse «generatrice di corruzione nell’animo umano», era ritenuta necessaria. L’Abbé Pierre, che tenne diverse conferenze in Italia, avrebbe poi avuto rapporti con alcuni brigatisti73. Il Cipiemme Mara Cagol si laureò il 26 luglio del 1969, discutendo i Gründisse di Marx, che si stavano diffondendo in occidente proprio alla fine degli anni ’60. Concluso il percorso accademico, si unì in matrimonio con Renato Curcio, il primo agosto del 1969, a San Romedio, un piccolo paesino della Val di Non. Il diploma di laurea, ottenuto con il massimo dei voti, garantì alla Cagol una borsa di studio per un corso biennale di sociologia a Milano74. La giovane coppia partì così, all’indomani delle nozze, alla volta della città meneghina. Milano, la grande metropoli dell’Italia settentrionale, alle prese con le tensioni sociali dell’autunno caldo, era – a detta dei due giovani studenti di sociologia – il contesto perfetto per analizzare e mettere in luce tutte le contraddizioni del sistema capitalistico. Qui, Mara Cagol e Renato Curcio stabilirono le prime relazioni con le assemblee operai-studenti e, in particolar modo, con il Cub della Pirelli. Inseritisi pienamente nella realtà milanese di fine anni ’60, Curcio e la Cagol avrebbero quindi dato un contributo decisivo alla fondazione del Collettivo politico metropolitano (Cpm). L’8 settembre 1969, in un vecchio teatro – caduto ormai in disuso – di via Curtatone, a Milano, nacque così il Cpm, un’esperienza che può essere considerata propedeutica a quella delle Br. A fondamento dell’istituzione di questo nuovo collettivo, vi era la necessità di coordinare una serie di gruppi, scaturiti dall’ondata contestataria milanese. Tra questi, vi erano sicuramente le principali realtà di base di Milano – i Cub e i Gds –; i comitati operai-studenti di matrice cattolica, che si attestavano su posizioni particolarmente radicali; ed infine alcuni gruppi rivoluzionari che provenivano da realtà più marginali rispetto al contesto metropolitano milanese75. I leader del Cpm – Renato Curcio e Corrado Simioni, che era stato espulso dal Psi nel ’65 e, in seguito, sarebbe stato fortemente so73 Panvini, Cattolici e violenza politica, cit., pp. 161-162. 74 Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, cit., p. 22. 75 Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 13.

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spettato di essere un uomo dei servizi segreti76 – erano affiancati da militanti che provenivano soprattutto dal Cub della Pirelli, la maggior parte dei quali sarebbe poi entrata anche nelle Br. Era già attivo nel Cpm, ad esempio, Mario Moretti, tecnico della Sit-Siemens, che, nella seconda metà degli anni ’70, sarebbe diventato il leader delle stesse Br. Il Cpm si considerava come il passaggio necessario che avrebbe poi permesso la costituzione di un’organizzazione concretamente rivoluzionaria. Coordinando una realtà variegata come quella della contestazione milanese, il Collettivo si proponeva di estendere le lotte al di fuori delle fabbriche, diffondendole così nella metropoli, là dove il Cpm individuava il cuore del sistema capitalistico77. Teorizzando la necessità di una lotta armata di lunga durata, Curcio e compagni erano convinti che il movimento rivoluzionario sarebbe cresciuto di pari passo con gli ostacoli che avrebbe incontrato sul suo cammino. Scegliendo la lotta armata, il sistema sarebbe stato infatti costretto ad un dura reazione, e avrebbe dovuto rinunciare alla sua parvenza democratica. Una volta svelata l’illegalità dello Stato, il movimento si sarebbe quindi compattato, per scagliarsi poi violentemente contro il suo nemico78. Queste prime riflessioni sarebbero state ulteriormente sviluppate nel primo importante convegno del Cpm, tenutosi all’inizio di novembre del ’69 nella cittadina ligure di Chiavari, presso il pensionato cattolico Stella Maris, un albergo gestito dalla locale curia arcivescovile, che aveva ospitato molti seminari e dibattiti79. Al termine dell’incontro, venne redatto un documento finale di 28 pagine, intitolato Lotta sociale e organizzazione nella metropoli. Conosciuto comunemente come “libretto giallo”, il suddetto documento analizzava in maniera approfondita il problema dell’organizzazione rivoluzionaria in un contesto nuovo e decisivo come quello della metropoli. Svelando l’influenza operaista dei Qr, l’analisi qui elaborata partiva dalla convinzione che la società contemporanea tendesse a «modellarsi sullo schema di funzionamento e di potere delle aziende ad alto livello tecnologico»80. Questa tendenza era facilmente rintracciabile nella «metropoli», luogo in cui venivano a confluire le principali tensioni insite nel sistema di produzione capitalistico. Come ha scritto 76 Dopo essere stato espulso dal Psi per “indegnità politica”, Simioni lavorò per l’Usis (United States Information Service), un’istituzione americana in contatto con la Cia. 77 Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 13. 78 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 276. 79 Panvini, Cattolici e violenza politica, cit., pp. 295-296. 80 Collettivo politico metropolitano, Lotta sociale e organizzazione nella metropoli, redatto nel novembre-dicembre 1969, stampato e diffuso a Milano nel gennaio 1970, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975. La lotta armata nei documenti e nei comunicati delle prime Br, a cura di L. Ruggiero, Kaos edizioni, Milano 2007, p. 26.

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Prospero Gallinari, «il luogo centrale dello scontro è la metropoli. Lì si esprimono a pieno le contraddizioni sociali. Lì si trovano accanto la polvere e la miccia del futuro dello scontro già iniziato. È il fiammifero che va costruito»81. Dopo aver preso atto che i gruppi nati dalla contestazione operaia e studentesca, come i Cub e i Gds, non fossero più sufficienti per sostenere la portata delle lotte in corso; il Cpm spiegava che, per sviluppare i contenuti dell’autonomia proletaria, si rendeva necessario un «salto politico organizzativo», che permettesse il passaggio «da un movimento spontaneo di massa» a un «movimento rivoluzionario organizzato». All’interno del documento, venivano inoltre duramente criticati il sindacato e il Pci, accusati di essere parte integrante del disegno del capitale. Lotta sociale e organizzazione nella metropoli parlava, a questo proposito, dell’esistenza di un «progetto socialcapitalista», che aveva come obiettivo quello di «pianificare il comportamento della forza lavoro sia dentro che fuori la fabbrica, nel momento della produzione come in quello del consumo e in tutte le espressioni della vita sociale e dei rapporti umani»82. In questa strategia, il compito del partito e del sindacato era quello di istituzionalizzare le lotte, sfruttando appieno lo strumento delle riforme. Per il capitale era infatti indispensabile riuscire a controllare l’esito della contestazione – facendo anche qualche concessione al movimento di protesta –, al fine di garantire la conservazione della pace sociale e di scongiurare la rivoluzione. Da questa attenta analisi – fortemente debitrice dell’esperienza operaista dei Qr –, discendeva il primo comandamento del Cpm, che sarebbe stato ripreso anche le Br: attaccare il riformismo. Il progetto dei riformisti, considerati «la parte più avanzata del capitale internazionale», si scontrava però, a detta del Cpm, con la strategia dei settori più conservatori dello Stato. Questi ultimi, per tenere sotto controllo le lotte operaie, si ispiravano infatti ai metodi che la destra internazionale aveva utilizzato negli ultimi anni (il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia, gli attentati ai Kennedy e l’emanazione di leggi severe e autoritarie). Lo scontro fra queste due anime del capitale avrebbe quindi provocato lo scoppio di una vera e propria guerra civile. La lotta avrebbe investito tutta l’Europa, ma si sarebbe concentrata soprattutto in Italia, perché nella penisola le contraddizioni sembravano esplodere con maggiore violenza. Attaccando il progetto dei riformisti, il Cpm contrastava di conseguenza anche il disegno del capitale, che, altrimenti, avrebbe portato alla costruzione di una «società totalitaria», le cui strutture portanti erano: «centralizzazione del potere, organizzazione del consenso, contestazione istituzionalizzata, legalità repressiva»83. 81 Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit., p. 66. 82 Collettivo politico metropolitano, Lotta sociale e organizzazione nella metropoli, cit., p. 36. 83 Ibidem, p. 38.

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In questa situazione si rendeva necessario un salto politico della lotta. Secondo i militanti del Collettivo, non ci si doveva più limitare ad attaccare la condizione di sfruttamento nelle fabbriche, ma bisognava essere in grado di estendere l’attacco alla più generale condizione di sfruttamento, di cui l’uomo era vittima nella società. Citando Marx, il Cpm proponeva, ad esempio, di passare direttamente dalla richiesta di «un equo salario per un’equa giornata lavorativa», alla «soppressione del lavoro salariato». Il salario, infatti, essendo legato sia alla sfera della produttività che a quella del consumo, determinava lo sfruttamento del proletariato non soltanto all’interno della fabbrica, ma anche al suo esterno, nella società. Bisognava quindi portare l’attacco alla struttura politica del salario. Così facendo, il proletariato avrebbe compreso appieno la sua condizione subordinata e, a quel punto, avrebbe deciso se accettare lo sfruttamento, o rifiutare la società capitalistica. Questa presa di coscienza del proletariato non sarebbe tuttavia maturata da «prediche, dibattiti, discussioni e volantini», ma unicamente dalla lotta. Una lotta che sarebbe risultata vincente soltanto se si fosse rivelata «generale, continua e organizzata»84. La strategia del capitale, fondata sulla combinazione dell’attività sindacale con quella repressiva, aveva infatti sconfitto il carattere spontaneo delle lotte operaie e studentesche. L’organizzazione era così diventata la chiave di volta per abbattere il potere borghese. Il Cpm considerava Cub e Gds come degli organismi ormai obsoleti, dal momento che le lotte avevano superato la loro dimensione settoriale e si erano definitivamente generalizzate, investendo l’intera struttura sociale del sistema. In questa nuova dimensione, risultava necessario creare dei «nuclei organizzativi», che, superando le rivendicazioni parziali, fossero in grado di affrontare dei «problemi sociali complessivi»85. Il salto politico e quello organizzativo della lotta diventavano così le premesse necessarie per la costruzione di un processo rivoluzionario che riuscisse a smantellare il potere costituito. Alla base, tuttavia, ci doveva essere una ridefinizione del concetto stesso di rivoluzione. Secondo il Cpm non si doveva infatti seguire il modello di rivoluzione diffusosi in Italia, secondo cui bisognava prima infondere nelle masse una coscienza rivoluzionaria, perché così la rivoluzione veniva proiettata in un futuro indeterminato. Una concezione di questo genere autorizzava quindi a fare politica in modo tradizionale, rinunciando – pressoché definitivamente – all’idea di rivoluzione. Al contrario, i militanti del Collettivo ritenevano che nella metropoli esistessero già «le condizioni oggettive per il passaggio al comunismo». Pertanto, creando le 84 Ibidem, p. 40. 85 Ibidem, p. 54.

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«condizioni soggettive», si poteva realmente dare vita ad un processo rivoluzionario. Sovvertire il sistema significava però – come aveva scritto il rivoluzionario brasiliano Marcelo de Andrade – scegliere la strada della lotta armata, dal momento che soltanto un’alternativa proletaria del potere che fosse stata, sin da subito, politico-militare, poteva rivelarsi vincente. La città, considerata il cuore del sistema capitalistico, sarebbe diventata il luogo principale dello scontro, perché era proprio qui, nel «centro organizzatore dello sfruttamento», che il proletariato prendeva coscienza della sua unità. La città doveva quindi diventare un «terreno infido» per l’avversario. Bisognava «agire nelle masse come i pesci nell’acqua» – affermava il documento –, minando le convinzioni di supremazia del potere, braccandolo «nelle sue tane» e rivolgendo «contro di esso e i suoi rappresentanti […] tutta la violenza che esso sputa ininterrottamente contro la grande maggioranza del popolo»86. Il Cpm si inseriva nel quadro sopra descritto in qualità di «nucleo agente», rifiutando ogni funzione dirigente. Il suo compito era quello di lavorare per abbattere il sistema borghese, esercitando un’azione dialettica, che contribuisse alla generalizzazione delle lotte. Distruggere il potere borghese significava anche superare la legge di separazione che contraddistingueva la società contemporanea: «separazione tra pubblico e privato, separazione tra essere e coscienza, separazione tra la testa e le palle» (vale a dire, tra la mente e il corpo). All’alienazione dell’uomo contemporaneo, il Cpm contrapponeva il lavoro collettivo, con l’obiettivo di creare un «uomo nuovo» che si distinguesse dall’ «io ultradebole, nevrotico, alienato, egoista, individualista, manipolato» di questa società. Un lavoro, quello collettivo, che permetteva al militante di superare ogni parzialità e di guardare ai problemi complessivi di tutta la società. Il lavoro collettivo richiedeva tuttavia due caratteristiche particolari, che sarebbero poi diventate fondamentali anche nella futura organizzazione delle Br: la fiducia – intesa come fiducia politica, da conquistare con la pratica comune – e la disponibilità reciproca. Quest’ultima coincideva, di fatto, con la disciplina collettiva, una grande novità rispetto all’improvvisazione tipica dello spontaneismo. Parlare di disciplina, per il Cpm, non significava comunque rinunciare alla libertà. Questo perché il Collettivo introduceva una netta distinzione tra la libertà illusoria della borghesia – considerata come «la libertà dell’individuo isolato nei confronti di altri individui isolati» – e la libertà reale, che si fondava invece sulla partecipazione cosciente di ognuno al lavoro collettivo. Il convegno di Chiavari fu una tappa importante nella storia del Cpm anche perché, proprio in quell’occasione, venne deciso di mutarne il nome in Sinistra proletaria. Nel luglio del ’70 sarebbe poi nata la rivista del gruppo, chiamata 86 Ibidem, p. 51.

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anch’essa «Sinistra proletaria»; ne sarebbero usciti due numeri, l’ultimo dei quali apparve nel settembre di quell’anno. Il “gruppo dell’appartamento” A partire dalla fine del ’69, il gruppo di Sinistra proletaria avrebbe cominciato ad intessere delle relazioni con un gruppo di ragazzi reggiani, molti dei quali erano usciti dal Pci e dalla Fgci. Questi giovani, durante i mesi turbolenti dell’autunno caldo, avevano dato vita ad un collettivo politico operai-studenti, che sarebbe poi passato alla storia con il nome di “gruppo dell’appartamento”, dal momento che le riunioni si tenevano in un appartamento di Reggio Emilia, sito in via Emilia San Pietro 25. Qui si incontravano giovani che provenivano da esperienze diverse: oltre ai ragazzi che avevano avuto un trascorso nel Partito, vi erano anche gli anarchici – tra i quali va ricordato Fabrizio Pelli, brigatista che avrebbe poi trovato la morte in carcere a causa di una leucemia – e persino i cattolici di One Way87, come Roberto Ognibene, pure lui futuro brigatista88. Anche la componente socialista e comunista del gruppo presentava tra le sue fila nomi che avrebbero poi fatto la storia delle Br: tra questi troviamo Prospero Gallinari e, soprattutto, Alberto Franceschini. Alberto Franceschini era nato a Reggio Emilia il 26 ottobre 1947, da una famiglia comunista e profondamente antifascista. Suo padre, Carlo, era stato membro della cellula comunista del Pci alle Reggiane, una fabbrica di 10 mila operai che produceva aerei e carrarmati; mentre suo nonno figurava tra i fondatori del Pcd’I nel 1921, e aveva combattuto, sebbene non fosse più giovanissimo, la guerra partigiana. Infine, anche il matrimonio dei suoi genitori era stato un’unione a tinte comuniste, dal momento che la loro prima casa, dove poi sarebbe nato il piccolo Alberto, fu una stanza presso la federazione del Partito89. Entrato giovanissimo nelle file della Fgci, Alberto avrebbe incontrato le prime frizioni con la casa madre a partire dal ’68. Il dissenso nasceva dall’atteggiamento contraddittorio del Partito: il Pci – secondo molti ragazzi di quegli anni – continuava a dire di voler fare la rivoluzione, ma poi, in realtà, quando si presentava 87 Il gruppo One Way era nato nel 1968 ed era orientato verso l’estrema sinistra, ma – come ha spiegato Guido Panvini – su «posizioni religiose integriste». Un ruolo importante nella storia di questo movimento fu ricoperto dal confronto tra i giovani di One Way e i ragazzi di ritorno dalle missioni nel Terzo Mondo. Su One Way si veda Panvini, Cattolici e violenza politica, cit., pp. 291-292. 88 Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 14. 89 A. Franceschini, P. V. Buffa, F. Giustolisi, Mara Renato e io. Storia dei fondatori delle BR, Arnoldo Mondadori, Milano 1991 (1° edizione 1988), pp. 25-26.

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l’occasione per estendere le lotte, era solito tirarsi indietro, preferendo il compromesso alla svolta rivoluzionaria. Le tensioni raggiunsero l’apice a Miramare, località romagnola in cui la Fgci aveva organizzato una manifestazione contro l’Alleanza atlantica, visto la presenza in loco di una base militare. Nelle settimane che precedettero la protesta, diversi dirigenti del Partito avevano parlato con gli organizzatori, perché volevano evitare qualsiasi tipo di scontro violento. Ovviamente, Franceschini e compagni erano invece di tutt’altro avviso. Così, quando arrivarono a Miramare, cercarono di sfilare la rete che circondava la base militare e organizzarono anche un sit-in nei pressi dell’ingresso per bloccare l’accesso ai mezzi militari. A quel punto, furono bloccati dal servizio d’ordine del Pci, che li invitò a trasferirsi in un’altra sede per discutere della questione. Il confronto, svoltosi in un teatro, confermò le sensazioni di quei ragazzi: «Il partito – come avrebbe poi ricordato Franceschini –, a parole, continuava a opporsi alla Nato e all’imperialismo, ma le unghie, quando servivano, le teneva inguainate»90. I fatti di Miramare segnarono, per molti giovani della Fgci, la fine della loro esperienza nel Partito. Come abbiamo già anticipato, Franceschini e compagni fondarono il “gruppo dell’appartamento” e, dalla fine del ’69, iniziarono a fare la spola tra Milano e Reggio, per relazionarsi con il gruppo che discendeva dal Cpm. I ragazzi reggiani arricchirono l’esperienza di Sinistra proletaria con il loro marcato sentimento antifascista, che si andava così ad aggiungere alla loro dichiarata ostilità nei confronti del Pci. L’antifascismo del “gruppo dell’appartamento” era strettamente collegato al grande mito della «Resistenza tradita», che – in una terra rossa come quella reggiana – aveva catturato moltissimi giovani. Alberto Franceschini, ad esempio, era solito incontrarsi con ex-partigiani, con i quali affrontava discorsi di politica, ascoltando le loro storie di guerra e le loro parole di rabbia nei confronti del Pci. Risulta certamente significativo, a proposito di questo filo rosso che legava il “gruppo dell’appartamento” al mito della Resistenza, quanto raccontato successivamente dallo stesso Franceschini. Un giorno Alberto era stato invitato a casa di un ex-partigiano, con il quale era solito discutere di politica. L’anziano era infatti venuto a sapere della sua scelta di intraprendere la strada della lotta armata e, dopo avergli mostrato tutta la sua vicinanza, gli affidò due pistole delle Seconda guerra mondiale. La prima era una Browning, che i partigiani avevano sottratto ad un ufficiale tedesco dopo averlo ucciso, mentre la seconda era una Luger. Quel gesto, per il giovane Alberto, non fu una semplice consegna di armi, ma un vero e proprio passaggio di consegne91. 90 Ibidem, p. 28. 91 Ibidem, p. 3-4.

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La Resistenza, tradita dall’attuale regime democratico in cui il Pci si era perfettamente integrato, tornava così a vivere nella scelta di questi ragazzi, che erano pronti ad usare anche le armi pur di costruire un mondo nuovo. L’antifascismo del “gruppo dell’appartamento” avrebbe poi contaminato – insieme al mito della «Resistenza tradita» – anche la futura esperienza delle Br92. Non è infatti un caso che il giornale del gruppo, che avrebbe poi sostituito «Sinistra proletaria», si sarebbe chiamato «Nuova Resistenza. Giornale comunista di nuova resistenza». Nell’appartamento di via Emilia San Pietro, i ragazzi reggiani iniziarono inoltre a studiare Mao, le opere del Che e il terzomondismo di Fanon, del quale si leggeva soprattutto I dannati della terra, un’opera che – come ha sottolineato Angelo Ventrone – arrivò ad influenzare anche un leader del movimento nero americano come Malcom X. Secondo Fanon, le lotte terzomondiste e quelle che prendevano vita nei Paesi capitalistici perseguivano lo stesso scopo: trasformare gli «ultimi» nei «primi». Per raggiungere questo obiettivo era però necessario affidarsi alla violenza, la sola che avrebbe permesso agli oppressi di recuperare quell’umanità che i loro oppressori gli avevano sottratto93. Come ha ricordato Prospero Gallinari, il gruppo diede vita anche ad «una ricerca allargata nell’orto di casa», confrontandosi con esperienze come quelle dei «Quaderni rossi» di Panzieri e di «Classe Operaia» di Tronti94. La fine dell’innocenza Le riflessioni elaborate dal gruppo di Sinistra proletaria si radicalizzarono ulteriormente dopo il 12 dicembre del 1969, giorno della strage di piazza Fontana; un avvenimento drammatico che avrebbe convinto molti ragazzi a scegliere la strada della lotta armata. Le tensioni sociali che erano esplose in Italia nel 1969 portarono ad un evidente innalzamento del livello di violenza, tanto che alcune bombe erano già esplose nei primi mesi dell’anno. Il 28 febbraio, ad esempio, il presidente americano Richard Nixon fu accolto a Roma dallo scoppio di una bomba nei pressi del Senato. Le bombe continuarono ad esplodere anche nel mese successivo, prendendo di mira il ministero della Pubblica Istruzione, la sede del Msi e quella del Psiup a Padova, e il Palazzo di Giustizia a Roma95. 92 Sulla presenza di una forte «ispirazione resistenziale» nelle prime Br, si veda L. Manconi, Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale 1970-2008, Rizzoli, Milano 2008, pp. 59-66. 93 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 93. 94 Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit., pp. 55-56. 95 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 147.

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Anche il mese di aprile si aprì con la diffusione di nuove ondate di violenza, che colpirono Vibo Valentia, Trento, Napoli e, di nuovo, Padova; ma il primo salto di qualità, per quanto riguarda gli attentati, si verificò nella giornata dell’anniversario della liberazione, quando una bomba ad alto potenziale esplose nella zona della Fiera di Milano. Proprio in quei giorni veniva messa a punto una nuova strategia per arrestare l’ondata contestatrice e per bloccare la crescita del Pci nell’assetto politico del nostro paese. Il piano – conosciuto con il nome di «strategia della tensione» – vedeva il coinvolgimento di alcuni settori deviati dei servizi segreti. La strategia, che si basava sul ricorso alla manovalanza fascista, consisteva nell’organizzazione di attentati, da attribuire poi alla sinistra. Qualcuno comprese infatti che attaccare il movimento di protesta direttamente da sinistra sarebbe stato sicuramente più efficace. Per la bomba alla Fiera di Milano, ad esempio, venne ritenuto colpevole – praticamente senza prove – un gruppo di anarchici, nonostante la polizia fosse perfettamente informata della crescita di varie formazioni fasciste, pronte ad organizzare svariati attacchi dinamitardi96. Persino le bombe che scoppiarono su sette treni italiani nell’agosto di quell’anno vennero additate come anarchiche, quando i collegamenti con il neofascismo sembravano invece abbastanza chiari ed evidenti. Il clima di violenza, che aveva caratterizzato praticamente tutti i mesi del ’69, raggiunse il suo apice a Milano, il 12 dicembre di quell’anno. Erano le 16,37 quando una bomba esplose alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, causando la morte di 16 persone e il ferimento di altre 88. Le vittime erano soprattutto agricoltori e commercianti, giunti nel capoluogo lombardo per la loro consueta visita settimanale alla banca. Quello stesso giorno scoppiarono altri due ordigni dello stesso tipo a Roma, ferendo 18 persone97. Alle 22, soltanto poche ore dopo lo scoppio della bomba di piazza Fontana, il prefetto di Milano Libero Mazza inviò un telegramma al Presidente del Consiglio e al Ministro dell’Interno, in cui comunicava che le indagini avrebbero seguito la pista anarchica98. Le tappe successive furono l’arresto del ballerino anarchico Pietro Valpreda – condannato senza appello dalla maggior parte della stampa italiana – e la morte di Giuseppe Pinelli. Quest’ultimo, ferroviere anarchico di 41 anni, era stato fermato dalla polizia proprio durante le indagini per la strage di piazza Fontana. Dopo aver trascorso 48 ore nella questura milanese, il 15 dicembre Pinelli morì precipitando – in circostanze chiarite dall’inchiesta, anche se non convincenti per tutti – dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi, posto al quarto piano dell’edificio. 96 Sul metodo surreale, con il quale vennero condotte le indagine sulla bomba alla Fiera di Milano, si veda Crainz, Il paese mancato, cit., pp. 342-344. 97 Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 450. 98 Per il telegramma, si veda Crainz, Il paese mancato, cit., p. 364.

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La tragica morte di Pinelli – che si aggiunse all’ingiusta detenzione di Valpreda e al sospetto, sempre più fondato, che i responsabili dell’attentato milanese fossero i neofascisti – contribuì certamente a surriscaldare un clima che era già infocato. Con la strage del 12 dicembre entrò nel vivo la «strategia della tensione», che vide impegnati alcuni settori dello Stato in un lavoro di occultazione della verità e di fiancheggiamento delle formazioni armate. Le «stragi di Stato» costituirono così la vera peculiarità del fenomeno terroristico italiano, rispetto al contesto internazionale di quegli anni. In Italia, come ha scritto Marco Grispigni, vi fu una classe dirigente, un ceto politico che «giocò con il fuoco», che fu «corresponsabile delle stragi», o che per lo meno «fece finta di non vedere, di non capire». Le bombe che esplodevano in quegli anni servivano per «riportare quelle centinaia di migliaia di persone che rifiutavano di stare al loro posto a casa, in silenzio, davanti alla televisione»99. L’obiettivo non venne comunque centrato e quegli attentati non fecero altro che innalzare il livello di violenza dello scontro. Non è certamente un caso, ad esempio, che, all’indomani degli attentati del ’69, organizzazioni come Lc e Po si dotarono di un proprio servizio d’ordine; mentre il gruppo di Sinistra proletaria istituì una prima Brigata rossa. Renato Curcio ha poi ricordato che, nel suo gruppo, le armi iniziarono a girare proprio dopo la strage di piazza Fontana; erano alcuni mitra Mab e altre pistole usate durante la Seconda guerra mondiale, ancora perfettamente funzionanti100. La strage di piazza Fontana – prova di uno Stato che, dietro la sua maschera democratica, celava oscure trame criminali – contribuì in maniera decisiva a trascinare molti ragazzi sulla strada della lotta armata. Parecchi giovani si convinsero infatti che l’innocenza non pagasse, e che l’unica via percorribile fosse quella della violenza. Fino alla bomba del 12 dicembre, il livello di violenza del conflitto sociale italiano si era invece attestato su livelli simili a quelli degli altri paesi. Fu con la strage di piazza Fontana che cambiò tutto. Da quel momento, lo scontro superò infatti il confine dell’insopprimibilità della vita umana e la morte divenne parte integrante dell’agire politico. Se in precedenza i morti nelle manifestazioni non venivano messi anticipatamente in conto, a partire dal 12 dicembre 1969 questi diventarono invece una drammatica costante101. Fu così che nei mesi seguenti presero vita, in seno alle organizzazioni della sinistra extraparlamentare, lavori di mappatura e di schedatura del nemico. Al 99 M. Grispigni, La strage è di stato. Gli anni Settanta, la violenza politica e il caso italiano, in S. Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, il Mulino, Bologna 2012, p. 116. 100 R. Curcio, A viso aperto. Intervista di Mario Scialoja, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993, p. 71. 101 Manconi, Terroristi italiani, cit., p. 28.

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nemico veniva innanzitutto dato un volto, in modo tale da renderlo perfettamente individuabile, trasformandolo così in un facile bersaglio di gesti violenti. All’identificazione del nemico seguiva poi la detrazione delle sue qualità politiche e umane, che attivavano dei meccanismi di giustificazione della violenza; una giustificazione che non era soltanto politico-sociale, ma anche morale e personale102. Gli scontri di piazza degli anni precedenti lasciarono così il posto a dei veri e propri agguati, in cui ogni minimo particolare veniva studiato per colpire premeditatamente il proprio nemico103. I servizi d’ordine cominciarono inoltre ad acquisire una loro «autonomia» e «separatezza» rispetto al vertice delle decisioni politiche, provocando i primi contrasti con la direzione politica centrale. La partecipazione ai servizi d’ordine – ha spiegato Raimondo Catanzaro – socializzò quindi «un nutrito gruppo di giovani militanti» ad una pratica della violenza che trovava in sé stessa le proprie giustificazioni104. Secondo Mario Moretti, le bombe di Piazza Fontana tolsero ogni «illusione» su un possibile sviluppo «lineare e pacifico» delle lotte: È il primo episodio di terrorismo che sentiamo di stato o coperto dallo stato da dentro lo stato. Ed è terribile non solo per i sedici morti nella Banca dell’Agricoltura, ma perché da quel momento sappiamo che ogni cambiamento dovrà fare i conti con qualcosa di oscuro di cui percepiamo soltanto la potenza. Da quel momento ci sentiremo sempre, e non a torto, sovrastati da forze capaci di determinare quel che veramente conta. Ogni volta che si arriva a un certo punto, succede qualcosa che ridetermina gli spazi dall’esterno, da fuori, e non vedi da dove105.

Come ha osservato Luigi Manconi, alle origini della lotta armata in Italia, nella percezione di numerosi militanti, sembra dunque esserci una sorta di «trauma originario». Con la strage di Piazza Fontana si diffuse infatti la sensazione di una stretta «integrazione» tra «gruppi terroristici di estrema destra» e «segmenti delle strutture statali». La bomba del 12 dicembre 1969 portò i giovani di quegli anni a scoprire l’«ingiustizia assoluta»106. 102 B. Armani, La retorica della violenza nella stampa della sinistra radicale (1967-77), in Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata, cit., p. 257. 103 Sulla schedatura del nemico, si veda anche G. Panvini, Schedare il nemico. La militarizzazione della lotta politica nell’estrema sinistra (1969-75), in Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata, cit., pp. 305-325. 104 R. Catanzaro, Il sentito e il vissuto. La violenza nel racconto dei protagonisti, in Id. (a cura di), La politica della violenza, il Mulino, Bologna 1990, p. 214. 105 Moretti, Brigate Rosse, cit., pp. 41-42. 106 L. Manconi, Il nemico assoluto. Antifascismo e contropotere nella fase aurorale del terrorismo di sinistra, in Catanzaro (a cura di), La politica della violenza, cit., pp. 54-59.

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«Da quel momento» – ha dichiarato il futuro brigatista Alfredo Buonavita – «ho deciso che avere in tasca una pistola non era un reato, visto che serviva»107. La strage di piazza Fontana aprì quindi le porte agli anni «di piombo», che furono segnati dall’attività terrorista delle Brigate Rosse, «la prima organizzazione “offensiva” della sinistra rivoluzionaria italiana», nata per volontà della maggior parte dei militanti di Sinistra proletaria108. Le prime formazioni armate di sinistra in Italia Le Br non furono però la prima formazione armata di sinistra del nostro paese. In Italia, erano già nate infatti nell’immediato secondo dopoguerra alcune formazioni comuniste che avevano scelto di usare le armi per conseguire i propri progetti. Analizzare le caratteristiche di queste prime formazioni armate, soffermandoci brevemente sulla loro storia, ci permette di conoscere uno dei serbatoi da cui le Br hanno attinto per costruire la loro organizzazione e, soprattutto, per realizzare alcune delle loro azioni. La prima formazione comunista armata a nascere nel nostro paese è stata la Volante Rossa. Questa formazione discendeva direttamente dalla Resistenza ed era formata da gruppi di partigiani che avevano rifiutato l’invito di Togliatti di consegnare le armi. La formazione, che assunse il nome di un gruppo partigiano attiva nell’Ossola e nell’Oltrepò pavese durante la Seconda guerra mondiale, aveva continuato a svolgere clandestinamente la sua attività anche dopo la liberazione. I principali obiettivi della Volante Rossa erano ovviamente i fascisti e i militanti delle nuove organizzazioni di estrema destra, che – nella maggior parte dei casi – venivano individuati, interrogati e poi invitati ad interrompere la loro attività politica. La Volante Rossa si rese però protagonista anche di azioni più eclatanti, quale, ad esempio, l’omicidio del giornalista neofascista Franco de Agazio, direttore del settimanale di estrema destra «Meridiano d’Italia». Il gruppo fu poi responsabile anche dell’esecuzione del generale Ferruccio Gatti, reo di aver dato vita ad organizzazione paramilitare neo fascista. Vittime di questa formazione armata non furono soltanto gli uomini legati al mondo eversivo di destra, ma anche i dirigenti di fabbrica che erano particolarmente invisi agli operai. Proprio in questo contesto, la Volante Rossa riuscì a portare a termine un’azione intimidatoria nei confronti di Italo Toffanello, vicedirettore di uno stabilimento della Falk. L’ingegnere venne prelevato da 107 Intervista ad Alfredo Buonavita, in S. Zavoli, La notte della Repubblica, Mondadori, Milano 1995 (1° edizione 1992), p. 95. 108 Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 17.

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casa e condotto in una piazzetta adiacente al Duomo di Milano; lì venne denudato e lasciato in mutande sotto la neve. È interessante notare che diversi anni più tardi, il 12 febbraio del 1973, anche le Br avrebbero organizzato un’azione simile; la vittima, in quel caso, fu il sindacalista del Cisnal Bruno Labate. L’attività illegale della Volante Rossa continuò poi per gran parte della seconda metà degli anni ’40, fino allo scioglimento del gruppo, avvenuto nel 1949109. Successivamente, negli anni ’60, nacque una nuova formazione comunista armata, che presentava però delle caratteristiche diverse rispetto a quelle della Volante Rossa. L’Anonima rapinatori – come poi è passata alla storia –, fondata da Pietro Cavallero e Sante Notarnicola, fu attiva tra il ’63 e il ’67. Il gruppo si rese protagonista di una lunga serie di rapine ai danni delle banche, con l’obiettivo di finanziare un progetto comunista eversivo110. La rapina non veniva quindi intesa come semplice reperimento di denaro fine a se stesso, ma come un esproprio che colpiva uno Stato, considerato tutore degli interessi e del denaro. L’ultima rapina, che segnò anche la fine della storia dell’Anonima rapinatori, si svolse il 25 settembre del 1967 a Milano, in una filiale del Banco di Napoli. Durante la fuga di Cavallero e compagni, inseguiti dalla polizia per le vie della città meneghina, morirono 4 persone e altre 21 rimasero ferite. L’epilogo si ebbe con l’arresto dei componenti della banda, che furono condannati all’ergastolo. Al processo, Cavallero e Notarnicola salutarono la Corte con il pugno chiuso, intonando Figli dell’officina, un classico dell’anarchia. Quelle immagini colpirono molti ragazzi che avrebbero poi militato nelle Brigate Rosse; su tutti, Alberto Franceschini, che durante le rapine – lo strumento che le Br avrebbero utilizzato per autofinanziarsi – era solito ispirarsi proprio alla banda di Cavallero. Lo stesso Franceschini ha descritto la forte attrazione che l’Anonima rapinatori di Cavallero aveva esercitato sulle Br: La foto che pubblicarono tutti i giornali, quella di lui in tribunale con indosso una giacca un po’ corta divenne storica. Rapinava ma era comunista, agli «ostaggi» regalava qualche biglietto di banca per il fastidio e io ero convinto che i morti della sua ultima rapina li aveva fatti più la polizia che lui e Notarnicola, anch’egli immortalato in tribunale con il pugno alzato, al fianco di Cavallero111.

Franceschini ha poi ricordato l’emozione e il piacere con cui lui e Curcio lessero una lettera che Cavallero gli aveva indirizzato nel 1971. Nella lettera, scritta dal carcere di San Vittore, Cavallero si complimentava per il giornale «Nuova Resistenza», diventato il nuovo organano di informazione delle Br. 109 Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, cit., pp. 29-30. 110 Ibidem, pp. 30-31. 111 Franceschini, Buffa, Giustolisi, Mara Renato e io, cit., p. 139.

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Nuove formazioni rivoluzionarie sorsero poi in concomitanza con l’esplosione delle tensioni sociali dell’autunno caldo; una di queste fu il Gruppo XXII Ottobre, costituito a Genova il 22 ottobre del 1969, su iniziativa di alcuni militanti di formazione marxista-leninista. Il modello organizzativo adottato dal gruppo era quello lotta partigiana, e, presentandosi appunto come «avanguardia partigiana», la formazione puntava a «scatenare la guerra partigiana rivoluzionaria»112. Altra fonte di ispirazione per la XXII Ottobre erano le azioni di guerriglia che erano state accuratamente descritte in alcuni manuali dal rivoluzionario brasiliano Carlos Marighella. Il gruppo riteneva infatti che, attraverso la pratica della guerriglia urbana, fosse più semplice colpire lo Stato e mettere in evidenza la staticità del Pci113. Nell’attività della XXII Ottobre spiccano soprattutto due azioni di autofinanziamento, una delle quali assunse dei toni davvero drammatici. La prima fu il sequestro di Sergio Gadolla, figlio di un noto industriale genovese; un sequestro che fruttò alle casse della XXII Ottobre un riscatto di ben 200 milioni di Lire. La seconda fu invece una rapina ai danni dell’Istituto Autonomo Case Popolari, eseguita il 26 marzo del 1971. La rapina, organizzata grazie alla presenza di una talpa presso l’Istituto, si rivelò però una scelta disastrosa. Nel corso dell’azione venne infatti ucciso il fattorino Alessandro Floris, che aveva con sé la borsa contenente il denaro e che oppose resistenza agli aggressori. L’esito dell’azione, così come la contraddizione di aver scelto come obiettivo un Istituto che tutelava gli interessi della classe operaia genovese, segnarono di fatto la fine dell’esperienza della XXII Ottobre. La vicenda giudiziaria che ne derivò vide come protagonista uno dei fondatori del gruppo, Mario Rossi, accusato, tra l’altro, di aver sparato a Floris. Il processo, come vedremo, si sarebbe intrecciato con la storia delle Br e, in particolar modo, con il sequestro del giudice Sossi. Durante la sua attività sovversiva, la XXII Ottobre aveva potuto contare anche sulla collaborazione dei Gruppi d’Azione Partigiana (Gap), la prima organizzazione armata clandestina italiana, nata dal clima rovente dell’autunno caldo, per volontà dell’editore Giangiacomo Feltrinelli. Dopo lo scoppio della bomba di piazza Fontana e l’avvio delle prime indagini sugli ambienti eversivi di sinistra, l’editore – certamente legato a quegli stessi ambienti – aveva iniziato a temere di essere finito nelle mire dei servizi segreti, in particolar modo della Cia. A quel punto, Feltrinelli decise di entrare in clandestinità, adottando il nome di Osvaldo. L’editore milanese costituì così i Gap, che comparvero sulla scena italiana nella primavera del 1970 con una serie di attentati dinamitardi e di intromissioni pirata, con finalità propagandistiche, alla radio e alla TV. 112 Progetto Memoria, La mappa perduta, Sensibili alle foglie, Dogliani 2006 (1° edizione 1994), p. 41. 113 Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, cit., p. 32.

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I Gap avevano come obiettivo principale quello di propagandare i fondamenti strategici e i principi organizzativi della guerriglia urbana114. L’editore milanese, affascinato dai terzomondismi cinese e cubano, sarebbe quindi diventato un punto di riferimento per tutte le nuove formazioni rivoluzionarie. Fu proprio Feltrinelli, ad esempio, a mettere a disposizione di Renato Curcio gli opuscoli sui rivoluzionari uruguaiani Tupamaros e i manuali di guerriglia di Carlos Marighella. L’editore tenne inoltre ai giovani militanti una serie di lezioni di guerriglia, spiegando loro quali erano le tecniche per falsificare i documenti, per affittare gli appartamenti senza destare sospetti e quali caratteristiche doveva avere un buon rifugio clandestino115. Feltrinelli iniziò così a relazionarsi anche con le neonate Br, alle quali propose – più e più volte – lauti finanziamenti. Tuttavia, Curcio e compagni avrebbero sempre rifiutato le proposte dell’editore, dal momento che i suoi progetti non li convincevano del tutto. Feltrinelli, a differenza delle Br, era infatti convinto che l’involuzione della democrazia italiana suggerisse una prospettiva rivoluzionaria immediata, che univa le forze in campo e che poteva contare anche sulla partecipazione di una parte consistente del Pci. La differenza tra i Gap e le Br, come ha poi sottolineato Alberto Franceschini, riguardava proprio la tempistica della rivoluzione: «Feltrinelli era l’unico a pensare alla rivoluzione in termini contestuali, ora o mai più»116. Le Br, in altri termini, non volevano costruire un esercito, ma un partito armato, la cui attività politico-militare avrebbe permesso gradualmente, in una guerra di lunga durata, la distruzione del potere borghese. Giangiacomo Feltrinelli morì il 15 marzo del 1972 a Cascina Nuova, nei pressi di Segrate, nel milanese, a causa dello scoppio accidentale di un ordigno che stava collocando su di un traliccio. La sua morte avrebbe colpito tutto il movimento rivoluzionario e, in modo particolare, le Br, che salutarono per l’ultima volta il compagno Osvaldo con la pubblicazione di due opuscoli117. Nell’aprile successivo la maggior parte dei militanti dei Gap confluì nelle Brigate Rosse, divenute ormai la punta di diamante della sinistra rivoluzionaria. Le Brigate Rosse La data di nascita delle Br può essere fatta risalire al convegno di Pecorile, tenutosi nell’agosto del 1970. Il convegno, che si svolse nella frazione di Costaferrata, sull’appennino reggiano, venne organizzato dal gruppo di Sinistra prole114 Progetto Memoria, La mappa perduta, cit., p. 33. 115 Curcio, A viso aperto, cit., p. 57. 116 Cit. in G. Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Baldini&Castoldi, Milano 2013, p. 13. 117 Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 41.

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taria. Tra i partecipanti vi furono sicuramente Renato Curcio e Corrado Simioni; non era invece presente Mario Moretti, che, uscito dal gruppo per continuare l’attività politica all’interno della Sit-Siemens, si sarebbe riunito a Curcio e compagni soltanto dopo le prime azioni firmate dalle Br. In quell’agosto del 1970, Curcio e Simioni annunciarono l’istituzione di alcuni nuclei di fabbrica, chiamati Brigate rosse, che dovevano operare in maniera semiclandestina nelle più importanti fabbriche milanesi. Si trattava di avanguardie armate, la cui nascita era finalizzata all’obiettivo di coniugare la politica con la guerra rivoluzionaria118. Durante la riunione Simioni informò i partecipanti anche della necessità di dare vita ad un’organizzazione superclandestina, che non dovesse praticare alcuna attività politica, ma che agisse esclusivamente sul piano militare. Una proposta, dettata dalle numerose stragi di Stato di quei mesi, che venne assecondata – quanto meno inizialmente – dalla maggior parte del gruppo. Al termine del convegno di Pecorile, Sinistra proletaria costituì un suo comitato di coordinamento; tra i suoi membri, oltre a Curcio e Simioni, figuravano anche Mara Cagol e Alberto Franceschini. Nei mesi seguenti si delineò però una spaccatura all’interno del gruppo, dal momento che la linea politicomilitare di Curcio divenne sempre meno conciliabile con le idee superclandestine di Simioni. Quest’ultimo, insieme a Prospero Gallinari e Vanni Mulinaris, decise così di abbandonare Sinistra proletaria per fondare un vero e proprio superclan119. Con Simioni e compagni – ha ricordato Renato Curcio – c’erano anche Duccio Berio e Françoise Tuscher, nipote dell’Abbé Pierre120. Le prime Brigate Rosse, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, non furono quindi un’organizzazione armata settaria, ma delle formazioni offensive che praticavano la propaganda armata e che promettevano di punire tutti i nemici della classe operaia. E proprio alla classe operaia è necessario guardare per comprendere la fisionomia di questa nuova formazione armata. Non va infatti dimenticato che progenitore delle Brigate Rosse fu il Cpm, un collettivo che aveva come obiettivo quello di collegare le tante realtà di base che erano nate nelle fabbriche milanesi durante l’autunno caldo. Prima che le Br scegliessero la clandestinità, sarebbero trascorsi ancora dei mesi, un lungo ed intenso periodo durante il quale avrebbero lavorato a stretto contatto con la classe operaia milanese, ascoltando i suoi malumori e colpendo i suoi stessi 118 Ibidem, p. 18. 119 Il riferimento è a Hyperion, una scuola di lingue fondata a Parigi negli anni ’70 da alcuni cittadini francesi e italiani. La struttura, sospettata di essere collegata ai servizi segreti, è stata chiamata in causa nel procedimento 298/81A del Tribunale Penale di Venezia. La causa giudiziaria era incentrata soprattutto sui rapporti internazionali delle Br, cfr. Progetto Memoria, La mappa perduta, cit., p. 264. 120 Curcio, A viso aperto, cit., p. 66.

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nemici. Le prime azioni, ad esempio, furono degli attentati incendiari – poi rivendicati attraverso dei volantini – ai danni dei capi del personale e dei quadri dirigenziali di importanti aziende dell’Italia settentrionale. Le finalità degli attacchi al padronato sono state ulteriormente chiarificate da Renato Curcio: I micro-attentati servivano a sottolineare la nostra presenza, ma anche a rendere più efficaci e credibili i discorsi politici che portavamo avanti attraverso il volantinaggio e il lavoro in fabbrica. E poi sentivamo che era necessario inventare qualcosa di nuovo […]. Non volevamo ispirarci alle azioni partigiane e nemmeno a quelle del movimento operaio tradizionale, sia pure rivoluzionario. Noi volevamo imparare dalle esperienze nuove che si agitavano nel mondo: guardavamo ai Black Panthers, ai Tupamaros, alla Cuba e alla Bolivia di Che Guevara, al Brasile di Carlos Marighella121.

È bene inoltre sottolineare che le prime azioni delle Br consistettero in attentati ai beni privati dei dirigenti di fabbrica; almeno inizialmente, la violenza non era infatti diretta contro le persone. Come avrebbe spiegato diversi anni più tardi Alberto Franceschini, attendere i capi fuori dalle loro abitazioni e picchiarli «era cosa da fascisti e gli operai non avrebbero ben capito cosa volevamo». L’uomo andava sì colpito, ma simbolicamente122. Furono gli stessi operai ad indicare allora alle Br il primo obiettivo da colpire: le auto dei dirigenti delle fabbriche. Il gruppo di Sinistra proletaria continuò così, anche dopo il convegno di Pecorile, ad occuparsi dei problemi delle fabbriche, mettendo in evidenza tutta la distanza che lo separava da un’organizzazione superclandestina come quella di Simioni. Il superclan riteneva infatti che bruciare le macchine dei capi delle fabbriche non fosse funzionale alla rivoluzione; la lotta armata doveva invece colpire l’imperialismo americano, che costituiva la contraddizione principale di tutto il sistema. La distanza tra la linea di Simioni e quella di Curcio, Franceschini e Cagol emerse in tutta la sua evidenza durante una riunione di Sinistra proletaria, quando i superclandestini non erano ancora usciti dal gruppo. In quell’occasione, mentre Simioni stava esponendo il suo progetto di attacco alla Nato, Franceschini lo interruppe esclamando: Ma perché le spari sempre così grosse se non sai nemmeno come la pensano gli operai? Tu dici che bisogna attaccare la Nato e loro non vogliono nemmeno fare una scritta sui muri in cui si parli di violenza proletaria. Vai in fabbrica, vacci almeno una volta per capire come stanno realmente le cose…123.

121 Ibidem, pp. 53-54. 122 Franceschini, Buffa, Giustolisi, Mara Renato e io, cit., pp. 32-33. 123 Ibidem, pp. 43-44.

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Nei mesi seguenti le Brigate Rosse avrebbero quindi rafforzato la loro presenza nelle fabbriche milanesi. Renato Curcio, Mara Cagol e Alberto Franceschini, diventati ormai i leader dell’organizzazione dopo l’uscita del gruppo di Simioni, scelsero anche il simbolo che avrebbe contraddistinto le azioni delle Br: la stella a cinque punte, un evidente richiamo alle brigate Garibaldi, all’Armata Rossa, alla bandiera dei Vietcong e, soprattutto, ai Tupamaros124. Uno sguardo alle altre formazioni armate degli anni ’70 Le Brigate Rosse non furono però l’unica formazione armata nata dal clima di tensione dell’autunno caldo e della strage di piazza Fontana. Nell’Italia degli anni ’70 possiamo infatti distinguere, come ha asserito lo storico Neri Serneri, quattro percorsi di militarizzazione. Il primo, caratterizzato dalla scelta della clandestinità, vide coinvolti i Gap di Feltrinelli e le Br di Curcio, Cagol e Franceschini, che – dopo aver subìto diversi arresti nel ’72 – avrebbero scelto, come vedremo nel prossimo capitolo, la strada della clandestinizzazione. Il secondo percorso fu quello intrapreso dai Nuclei Armati Proletari (Nap), un’organizzazione clandestina interessata a radicalizzare le lotte di soggetti particolarmente emarginati, come – ad esempio – i proletari prigionieri. A questi si aggiunse il percorso che portò alla nascita di Prima Linea (Pl), un gruppo caratterizzato dal tentativo di preservare il legame tra l’attività politica e quella militare, mantenendo un grande equilibrio tra le due. Le formazioni di questo stampo cercarono così di rimanere in contatto con le realtà di fabbrica, concentrandosi sulla conflittualità operaia. Tuttavia, al di là delle premesse e gli obiettivi iniziali, anche questi gruppi avrebbero comunque raggiunto un livello di clandestinità estremamente elevato. Il quarto percorso fu invece quello della militarizzazione delle mobilitazioni di massa, una via indicata dall’Autonomia operaia organizzata (Autop), che molti giovani avrebbero poi seguito nel 1977125. Va inoltre segnalato che nei primi anni ’70 il discorso sulla violenza acquisì maggiore rilevanza anche all’interno di due organizzazioni rivoluzionarie legali come Po e Lc. Infatti, secondo le organizzazioni rivoluzionarie della sinistra extraparlamentare, l’efficace risposta riformista alle tensioni sociali dell’autunno caldo, la strategia della tensione, la morte di Pinelli e la reclusione di Valpreda erano la chiara dimostrazione che le lotte operaie e proletarie non fossero in grado, da sole, di smantellare il sistema borghese. Si diffuse quindi la convinzione 124 Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, cit., p. 48. 125 Neri Serneri, Contesti e strategie della violenza e della militarizzazione nella sinistra radicale, in Id. (a cura di), Verso la lotta armata, cit., pp. 52-53.

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che soltanto l’intervento di un’avanguardia potesse far scoppiare la rivoluzione. La violenza di piazza doveva quindi lasciare il posto alla violenza studiata e pianificata dall’organizzazione, che avrebbe deciso modalità e tempistiche d’intervento, a seconda della loro efficacia. Le organizzazioni iniziarono così a clandestinizzare alcune delle loro funzioni, creando delle vere e proprie strutture clandestine, finalizzate al reperimento di armi e alla predisposizione di documenti falsi; strutture slegate dall’impegno politico, che si muovevano esclusivamente sul piano militare126. Emblematico, a questo riguardo, ciò che avvenne durante la III Conferenza nazionale di Potere Operaio; in quell’occasione, l’organizzazione diede infatti vita ad una struttura clandestina, nota con il nome di Lavoro Illegale. Questo nuovo organismo, affidato al futuro brigatista Valerio Morucci, aveva il compito di reperire le armi e di organizzare delle «iniziative esterne», che dovevano affiancare il lavoro di autodifesa, già praticato dal livello legale dell’organizzazione127. Come ha raccontato il militante Andrea Leoni – che, nel 1974, avrebbe fondato con Oreste Scalzone e Piero Del Giudice il giornale «Senza Tregua» –, la novità non era rappresentata tanto dal “lavoro illegale”, poiché, come ha spiegato lo stesso Leoni, «il nostro concetto di legalità era deposto, come recitava un famoso slogan, “sulla canna del fucile degli operai”». Innovativo era piuttosto il fatto che, con la nascita di questo nuovo organismo, erano entrati in campo «gli specialisti». Chi faceva parte di Lavoro Illegale aveva infatti «un’aria molto seria e professionale»: era nato un «settore specifico»128. La struttura era «blindata dall’interno» e i militanti che ne facevano parte erano tenuti segreti. Dalla testimonianza di un ex militante di Potere Operaio, Andrea Barzini, è emerso che l’unico modo di entrare in Lavoro Illegale era quello di attendere una misteriosa chiamata da parte di qualcuno. La struttura clandestina di Potere Operaio iniziò quindi ad esercitare un certo fascino soprattutto sui militanti più giovani: «Li immaginavamo, i nostri compagni già entrati, vivere vite avventurose, attraversare frontiere sotto falso nome, incontrare in luoghi impervi altri misteriosi personaggi, insomma, li mitizzavamo», ha dichiarato Barzini; «di questo Lavoro Illegale non sapevamo assolutamente nulla, ma ci attraeva»129. L’esperienza di Lavoro Illegale durò soltanto qualche mese, perché nel dicem126 M. Scavino, La piazza e la forza. I percorsi verso la lotta armata dal Sessantotto alla metà degli anni Settanta, in Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata, cit., p. 148. 127 A. Grandi, La generazione degli anni perduti. Storie di Potere Operaio, Einaudi, Torino 2003, pp. 216-217. 128 Testimonianza di Andrea Leoni, in Grandi, Insurrezione armata. Per la prima volta parlano i protagonisti di Potere operaio. La storia di uno dei momenti più difficili della nostra Repubblica, BUR Futuropassato, Milano 2005, p. 179. 129 Testimonianza di Andrea Barzini, in Grandi, Insurrezione armata, cit., p. 17.

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bre del 1971, prima della manifestazione organizzata per l’anniversario della strage di piazza Fontana, venne scoperto un deposito di molotov. L’anno successivo Lavoro Illegale sarebbe stato quindi sostituito dal Fronte Armato Rivoluzionario Organizzato (Faro), una struttura che si rese protagonista di diversi attentati. In quegli anni prese vita una vera e propria corsa per entrare nella struttura clandestina di Potere Operaio; una corsa che avrebbe prodotto delle conseguenze drammatiche. Come ha spiegato Francesco “Cecco” Bellosi – uno dei militanti più noti di Potere Operaio e attivo in Lavoro Illegale –, gli adepti delle strutture clandestine apparivano ai giovani militanti come un’élite e questo scatenava diversi tentativi di emulazione. Se questi giovani apprendisti erano «drogati» – ha chiarito Bellosi –, i militanti più noti e vicini alle strutture clandestine erano però i loro «pusher», perché tutti erano «contenti dell’ampiezza della domanda»130. Tra le atrocità commesse da questi giovani va certamente segnalato il cosiddetto «rogo di Primavalle», l’incendio appiccato, nella notte del 16 aprile 1973, da alcuni militanti di Porte Operaio all’abitazione del segretario della locale sezione missina; un incendio che causò la morte dei suoi due figli, Stefano e Virgilio Mattei, rispettivamente di 8 e 22 anni131. Dobbiamo infine sottolineare – come ha puntualmente ricordato lo storico Angelo Ventrone – che queste strutture clandestine iniziarono a collaborare con moltissime formazioni armate. I rapporti andavano dallo scambio di armi, al passaggio di militanti da un’organizzazione all’altra; un filo rosso che non si limitava ad unire le formazioni rivoluzionarie italiane, ma che interessava anche alcune organizzazioni straniere132. Tra queste spiccava certamente la Rote Armee Fraktion (Raf ), un’organizzazione terroristica tedesca nata tra la primavera e l’estate del 1970, il cui quartetto dirigente era costituito dall’avvocato Horst Mahler, dalla giornalista Ulrike Meinhof, dalla dottoranda Gudrun Ensslin e da Andreas Baader, che in un saggio di Wolfgang Kraushaar è stato descritto come «un dandy alla ricerca di relazioni, un desperado, un tipo dedito alla piccola criminalità»133. I militanti della Raf, come quelli delle formazioni armate italiane, erano affascinati dai Tupamaros e dalle idee guerrigliere di Carlos Marighella. Tra il ter130 Testimonianza di Francesco “Cecco” Bellosi, in Grandi, Insurrezione armata, cit., p. 41. 131 Galli, Piombo rosso, cit., pp. 37-38. 132 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., pp. 200-201. Lo stesso Francesco “Cecco” Bellosi ha dichiarato che potevano contare su una «rete amica» di un centinaio di persone. All’interno di questa rete rientravano anche i contatti con le Brigate Rosse. Bellosi ha parlato di diverse «riunioni» con «Moretti e Franceschini». Su questo si veda Testimonianza di Francesco “Cecco” Bellosi, cit., pp. 44-45. 133 W. Kraushaar, Il ’68 e gli inizi del terrorismo tedesco occidentale, in C. Cornelißen, B. Mantelli, P. Terhoeven (a cura di), Il decennio rosso. contestazione sociale e conflitto politico in Germania e in Italia negli anni Sessanta e Settanta, Il Mulino, Bologna 2012, p. 212.

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rorismo tedesco e quello italiano emergeva tuttavia una profonda differenza: in Germania, la strada della lotta armata venne seguita soltanto da un gruppo ristretto di persone e furono davvero pochi i ragazzi del ’68 che si dimostrarono disponibili ad assecondare una scelta di questo genere134. Ne derivò quindi una situazione di isolamento sociale dei gruppi armati tedeschi, la crescita dei quali non dipendeva, come in Italia, da adesioni politicamente motivate alla loro strategia, bensì dai risultati che queste formazioni riuscivano ad ottenere nella loro sfida alle istituzioni135. Il caso tedesco fu inoltre sprovvisto di un filone eversivo di matrice neofascista, che nell’Italia degli anni ’70 si affiancò invece al fenomeno rivoluzionario di sinistra. Indipendentemente dalle differenze che connotavano i due terrorismi, la Raf e le formazioni armate italiane – le Br in testa – costruirono una fitta rete di collegamento, utilizzata soprattutto per scambiarsi le armi. Queste relazioni furono fondamentali principalmente per la Raf, che trovò in Italia quei modelli da seguire che in Germania mancavano. L’organizzazione osservò soprattutto le Br, subendo il fascino delle loro prime azioni eclatanti. Le Brigate Rosse, viceversa, si fecero sedurre solo limitatamente dal terzomondismo e dalla strategia antimperialista della formazione armata tedesca, soffermandosi invece sulla dura politica carceraria che colpì i suoi militanti. Convinte infatti che la Germania costituisse l’anello forte dell’assetto imperialista, le Br avrebbero analizzato la situazione tedesca in alcuni documenti, spiegando che la Repubblica federale si configurava come la principale forza repressiva d’Europa. Ciò che stava avvenendo in Germania, secondo Curcio e compagni, doveva essere studiato nei minimi particolari; le Br ritenevano infatti che l’efficientissimo modello tedesco, in grado di spegnere qualsiasi focolaio di ribellione, presto sarebbe stato adottato anche in Italia. Così, quando nel nostro paese sarebbero nati i primi carceri speciali, le Br chiamarono spesso in causa nei loro documenti il modello tedesco e le atrocità subite dai militanti della Raf. Conclusioni Il nostro paese, come abbiamo visto, fornì un terreno fertile per la nascita e la diffusione del fenomeno della lotta armata. Il percorso che si concluse con la nascita delle formazioni armate scaturì dal 134 Terhoeven, Germania e Italiana nel «decennio rosso»: per un’introduzione, in Cornelißen, Mantelli, Terhoeven (a cura di), Il decennio rosso, cit., p. 24. 135 M. Tolomelli, Terrorismo e informazione nella Germania degli anni Settanta, in M. Dondi, I neri e i rossi. Terrorismo, violenza e informazione negli anni Settanta, Controluce, Nardò 2013, p. 259.

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clima delle lotte operaie che, stimolate dalle riflessioni degli operaisti, dilagarono nell’Italia degli anni ’60. La conflittualità operaia venne poi contaminata dalle nuove istanze della contestazione giovanile e studentesca, che connotarono il ’68 italiano. Sospinti dalla rivolta dei ghetti neri negli Stati Uniti, inquietati dai crimini americani in Vietnam, incoraggiati infine dalla Cina di Mao e dagli insegnamenti del Che, i giovani italiani di quella generazione non si limitarono soltanto ad avanzare delle richieste sindacali, ma iniziarono invece a pensare ad un radicale mutamento sociale. Si collegarono quindi con il malcontento operaio, dando vita ad una potente combinazione di tensioni, che esplose violentemente durante l’autunno caldo. Questa fase della contestazione si chiuse però con un epilogo amaro, caratterizzato da due importanti elementi. Il primo fu la vittoria della forze riformiste, che con la firma del contratto dei metalmeccanici e l’approvazione dello Statuto dei lavoratori riuscirono, ancora una volta, ad istituzionalizzare le lotte. Il secondo elemento fu invece l’esordio della «strategia della tensione», che – dopo essere stata collaudata nei mesi precedenti – fece registrare il suo primo acuto con la strage di piazza Fontana. La vittoria dei riformisti e le «stragi di Stato» radicalizzarono ulteriormente i dibatti sulla violenza che si erano già sviluppati all’interno del movimento rivoluzionario. Fu così che alcuni giovani, molti dei quali erano attivi nelle realtà sindacali di base oppure nei collettivi operai-studenti nati durante il conflitto sociale dell’autunno del 1969, iniziarono a pensare che il sistema borghese poteva essere smantellato soltanto con la lotta armata. In un contesto come quello italiano, si convinsero infatti che solo la violenza organizzata – non quella spontanea dei mesi precedenti – avrebbe permesso la costruzione di un mondo nuovo, finalmente affrancato dalle contraddizioni del sistema capitalistico. Affidarsi ancora una volta alle organizzazioni ufficiali significava infatti tutelare gli interessi di quello stesso sistema che si voleva rovesciare, dal momento che il Pci e il sindacato avevano dimostrato – più e più volte – di essere completamente integrati nel disegno del capitale. Molti pensarono così che l’unica opzione ancora valida fosse quella della lotta armata. Come ha scritto Fabrizio Fiume, i ragazzi di quegli anni capirono che dire «rivoluzione», significava dire «domani», dire «lotta armata» significava invece dire «oggi e subito»136.

136 F. Fiume, I dibattiti ideologici della nuova sinistra in Italia. Lotta Continua e Potere Operaio all’inizio degli anni Settanta, in Cornelißen, Mantelli, Terhoeven (a cura di), Il decennio rosso, cit., p. 190.

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Alla ricerca di un mondo nuovo La scelta di intraprendere la strada della lotta armata, come già si evidenziava nelle riflessioni di Mara Cagol, non dipese esclusivamente dal contesto politico di quegli anni, ma fu anche una scelta di vita. Molti ragazzi videro infatti in essa la possibilità di costruire un mondo nuovo, che riuscisse finalmente a vincere l’alienazione della società contemporanea, superando così quella separazione tra la mente e il corpo di cui il Cpm aveva parlato nel ’69. C’era quindi la volontà di tornare a vivere una vita piena, che sostituisse l’individualismo borghese con quello spirito di comunanza, di unione, di solidarietà che emergeva anche dagli scritti di don Lorenzo Milani. L’individuo contemporaneo, un essere «nevrotico», «egoista» e «manipolato», avrebbe quindi lasciato il posto ad un uomo nuovo. La voglia di cambiare il mondo attuale, il rifiuto degli squallidi valori materiali della società borghese, il desiderio di costruire dei rapporti autenticamente umani sono dunque elementi fondamentali per riuscire a comprendere la scelta radicale che in migliaia fecero in quegli anni. Furono infatti moltissimi i ragazzi che abbandonarono lavoro e affetti, in nome di una lotta che sola avrebbe potuto superare quello svuotamento del senso di sé che contraddistingueva la società borghese. Diversi militanti scelsero di abbracciare la lotta armata partendo proprio da una riflessione critica nei confronti della società esistente. Questo è il caso di Mara Cagol, così come del giovane brigatista Walter Alasia, che a soli 20 anni rimase vittima della polizia, mentre stava fuggendo dopo aver ucciso due agenti. In una lettera indirizzata ad un’amica nell’ottobre del ’75 scriveva: […] E non è neanche immergendosi nello studio e nei “lavori di casa” che ti liberi e ti realizzi diversamente. Le cose che si vogliono bisogna sapere prendersele, vorrei riuscire una volta a parlare con te della famiglia – di cosa tu ne pensi –

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e del rapporto che deve esistere tra due che si amano. Se no ci riduciamo alla famiglia classica. La donna sottomessa a far calzetta o sui fornelli – l’angelo della casa – l’uomo, il duro, quello che mantiene, quello che detiene il potere perché possiede la cultura. […] io sono uno dei tanti che pensano di cambiare qualcosa – e non ritengo di essere un utopista come dice mio padre – quelli che dicono così vogliono nascondere la loro paura e il loro egoismo1.

Che alla base della scelta di militanza ci fosse il desiderio di un mondo nuovo è ribadito anche dalle parole di Valerio Morucci: Dopo un po’ di vita raminga, comoda perché un po’ di soldi che non servivano più a niente li avevo, ero arrivato ad avere vergogna di me stesso. Il mondo continuava ad essere uno schifo. Violenza dopo violenza e sopruso dopo sopruso. E io me ne stavo lì a pensare solo ai cazzi miei. Non andava. C’era una spinta dentro, una commozione da portarmi alle lacrime, che non era più neanche ideologica. Veniva prima. Da più lontano. Non potevo restare indifferente. Un vecchio tarlo. Un tarlo culturale. L’uomo «deve» agire per modificare il mondo. Per «migliorarlo». Deve essere soggetto attivo nella storia. Costi quel che costi. Tutto sulle sue spalle, perché lui è l’incarnazione del divino. Il re dell’universo. La rottura dello statico e soffocante equilibrio piramidale Dio-Chiesa-Uomo ci ha dato cose magnifiche ma, nel suo ristagno, la non troppo sottintesa alterigia si è portata appresso come residuo la sottomissione, o eliminazione, di tutto ciò che è ostacolo. Le cose, poco male, la natura, obbligatorio ma entro certi limiti, e gli uomini stessi. Il fanatismo di una nuova religione2.

Il sogno era quello di un uomo nuovo, che vivesse in maniera piena la sua vita, assaporandone ogni istante. Questo ben si evince dalle parole contenute nel diario di Alberto Graziani, un militante dei Collettivi Politici del Veneto che sarebbe poi morto per lo scoppio accidentale di un ordigno che stava confezionando: Paura delle scelte, paura di vivere, paura di morire: è questo che ci fa correre dritti, senza mai guardarci intorno. È la paura di morire che ci impedisce di vivere e di scegliere, in cambio di una banale sicurezza. Ci impedisce di pensare e di volere. Invece bisogna morire ogni momento. Bisogna distruggere il vecchio che è in noi per far rinascere l’uomo nuovo3.

La voglia di costruire un mondo nuovo e di dare vita ad un uomo nuovo erano state centrali anche nella scelta rivoluzionaria dei Tupamaros, l’organizzazione sudamericana dalla quale presero spunto le Brigate Rosse. In un’intervista rilasciata a «Granma», il giornale ufficiale del Comitato centrale del Partito comunista 1 Walter Alasia, Lettera a Gabriella, senza luogo, ottobre 1975, in Progetto memoria, Sguardi ritrovati, Sensibili alle Foglie, Roma 1995, p. 110. 2 V. Morucci, La peggio gioventù. Una vita nella lotta armata, Rizzoli, Milano 2004, pp. 107-108. 3 Alberto Graziani, Diario, Thiene, gennaio 1977, in Progetto memoria, Sguardi ritrovati, cit., p. 168.

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cubano, un Tupamaro aveva infatti spiegato che l’obiettivo principale era quello di «migliorare la vita», rendendo possibile «la piena realizzazione dell’uomo»4. I ragazzi che scelsero di praticare la lotta armata erano anche alla ricerca, come accennavamo in precedenza, di rapporti umani autentici, che spesso riuscirono a trovare proprio all’interno dei movimenti o delle organizzazioni clandestine. Si trattava di vere e proprie nuove famiglie, in cui scoprirono il senso di appartenenza e la solidarietà. Uno di questi giovani ha infatti ricordato in un’intervista che la lotta armata «era anche un’occasione di costruire rapporti umani, non so se dire assoluti, voglio dire fondati sulla disponibilità anche a morire, totalmente contrapposti alla moneta corrente di una società capitalistica, l’individualizzazione, la competitività, queste cose qua. Curavamo molto l’amicizia personale, la solidarietà anche nelle cose piccole, nei problemi personali»5. La violenza dell’organizzazione divenne quindi per molti di loro lo strumento con cui vincere la legge di separazione della società contemporanea: L’accettazione immediata e implicita della violenza dentro un discorso comunista, inteso quale abolizione dello stato delle cose presenti – ha raccontato un ex militante –, si coniugava al bisogno di vivere in un eterno presente; era il formarsi di una identità personale e collettiva all’interno di cose che si muovevano, un senso di comunanza, di non separazione tra me e me, tra me e gli altri6.

Soffermarsi su queste motivazioni che condussero molti ragazzi ad impugnare le armi risulta essere di fondamentale importanza per ricostruire la figura del militante della più nota formazione armata italiana, il brigatista. Secondo Patrizio Peci – il primo importante pentito della storia delle Brigate Rosse –, è «sbagliato andare a cercare per forza problemi psicologici o famigliari alla base della scelta brigatista». Il rischio è infatti quello di ingigantire dei problemi normali proprio perché il soggetto in questione è un brigatista. «A parte casi particolarissimi» – ha scritto Peci – «tutti i brigatisti avevano una vita normale, erano persone normali sotto tutti i punti di vista: non falliti, non stupidi. Gente con un’intelligenza media»7. Come ha precisato Mario Moretti: «Eravamo uomini molto comuni»8. 4 Intervista a un Tupamaro, in O. J. Dueñas Ruiz, M. Rugnon De Dueñas, Tupamaros. Libertà o morte, Sapere edizioni, Milano-Roma 1974, pp. 218-219. 5 Intervista di Donatella della Porta a Marco, in Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo», Storie di lotta armata, a cura di R. Catanzaro e L. Manconi, Società editrice il Mulino, Bologna 1995, p. 353. 6 Intervista a Barbara Graglia, in D. Novelli, N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Baldini&Castoldi, Milano 2014 (1° edizione 1988), pp. 372-373. 7 P. Peci, Io l’infame. Storia dell’uomo che ha distrutto le Brigate Rosse, Sperling & Kupfer, Milano 2008, p. 51. 8 M. Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2007, p. 33.

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Ad unirli vi era soprattutto «lo spirito di avventura». Questo, secondo Peci, è un ingrediente determinante: «Se non hai lo spirito di avventura non fai il brigatista, come non fai il mercenario o i rally con una jeep nel deserto. Solo che il brigatista lo fa per un ideale, non per soldi o per divertimento. Insomma la prospettiva della lotta armata di pochi contro tanti per la vittoria del mio ideale mi affascinava»9. Animati allora dal desiderio di costruire un mondo nuovo, i brigatisti intrapresero il loro percorso a fianco degli operai, inserendosi nel contesto di conflittualità che caratterizzava le fabbriche italiane dei primi anni ’70. Ed è proprio alle fabbriche che dobbiamo guardare per comprendere le caratteristiche del primo brigatista, figlio dell’autunno caldo e delle tensioni sociali degli anni precedenti. Siamo la sinistra proletaria I primi documenti che ci permettono di delineare la figura del brigatista della prima fase sono alcuni “Fogli di lotta” diffusi dal gruppo di Sinistra proletaria tra il luglio e l’ottobre del 1970. Lo studio di questi documenti, redatti in concomitanza con la nascita delle prime Brigate Rosse, ci consente infatti di scoprire come il brigatista si definiva, quali erano i suoi ambiti di interesse e quali alleati credeva di avere al suo fianco. Questi elementi ci danno poi la possibilità di comprendere e spiegare anche le prime azioni delle Brigate Rosse. I “Fogli di lotta” che uscirono tra l’estate e l’autunno del 1970 furono circa 40 ed erano dedicati ai temi che coinvolgevano maggiormente il gruppo di Sinistra proletaria. Tra questi, vi erano sicuramente le fabbriche, la condizione di sfruttamento degli operai, il ruolo dei tecnici, le morti bianche e anche le occupazioni delle case. Questi “Fogli” raggiunsero una tiratura di seimila copie e vennero distribuiti al prezzo di dieci lire10. Il denaro con cui venne finanziata la loro pubblicazione – come ha spiegato Curcio – non proveniva dalle rapine, bensì «dai contributi di alcuni artisti e intellettuali e, soprattutto, grazie all’autotassazione: tra le nostre file c’erano molti tecnici dell’Ibm, della Sit-Siemens, che guadagnavano bene e accettavano di versare alla cassa comune una fetta del loro stipendio»11. Uno di questi “Fogli di lotta”, interamente dedicato alla situazione nelle fabbriche, mostra subito la vicinanza tra Sinistra proletaria e gli operai. Infatti in 9 Peci, Io l’infame, cit., p. 51. 10 Fogli di lotta di Sinistra proletaria, pubblicati nel periodo luglio-ottobre 1970, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975. La lotta armata nei documenti e nei comunicati delle prime Br, a cura di L. Ruggiero, Kaos edizioni, Milano 2007, cit., p. 73. 11 R. Curcio, A viso aperto. Intervista di Mario Scialoja, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993, p. 51.

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questo documento il gruppo, riferendosi alla «classe operaia», utilizza addirittura il pronome «noi». È presumibile quindi che i primi brigatisti si sentissero realmente parte integrante di quella classe operaia che avrebbe dovuto smantellare il potere borghese. In particolare, secondo l’analisi elaborata dal gruppo di Sinistra proletaria, gli operai rappresentavano «il cancro» che stava logorando il potere. Quest’ultimo, per difendersi, stava tendando di arginare la crisi che lo aveva colpito imprimendo una svolta a destra: si trattava di una vera e propria «dichiarazione di guerra», i cui esempi più significativi erano le migliaia di sospensioni ai danni degli operai. Ma secondo Sinistra Proletaria queste misure difensive non potevano riuscire a riportare la pace in fabbrica, dal momento che l’insubordinazione si stava generalizzando. Si riteneva infatti che la classe operaia non fosse sola nella sua lotta contro il potere borghese: accanto agli operai, vi erano infatti i «bancari», gli «ospedalieri», gli «statali», e persino i «professori», tutti settori tradizionalmente fedeli al potere, che tuttavia erano «usciti dal torpore»12. Nel costruire il loro progetto rivoluzionario, i brigatisti avrebbero poi individuato un altro importante alleato: il proletario del sud. Nel mezzogiorno le spinte rivoluzionarie avevano infatti un potenziale elevatissimo, ma venivano ingabbiate dal lavoro dei riformisti. Per sbloccare la situazione ed invertire questa tendenza era necessario costituire un fronte unito, formato dalla «nuova classe operaia», dai «braccianti», dai «disoccupati» e dal «sottoproletariato». Tutti questi elementi uniti avrebbero quindi potuto lottare e sconfiggere i fascisti, le borghesie locali e gli organi repressivi dello stato13. La forza dell’autonomia proletaria doveva però superare lo spontaneismo degli anni precedenti. Sinistra proletaria ritornava allora sull’importanza dell’organizzazione, un tema che era già stato affrontato, come abbiamo visto nel capitolo precedente, nelle pagine di Lotta sociale e organizzazione nella metropoli. In un altro di questi “Fogli di lotta”, il gruppo diceva poi di sentirsi parte dell’«esercito» del «proletariato rivoluzionario», un esercito che per vincere un nemico diventato più duro e potente, doveva riuscire a costruire un’ «organizzazione rivoluzionaria», il cui compito sarebbe stato la direzione dello scontro politico con il potere borghese. Ritroviamo quindi due importanti aspetti della lotta che erano già stati messi in evidenza nel sopra citato documento del Cpm: il salto da una lotta rivendicativa ad una lotta politica e il passaggio dallo spontaneismo all’organizzazione. L’organizzazione rivoluzionaria, si leggeva nel documento, poteva nascere esclusivamente dalla «sinistra proletaria», che era costituita dai compagni 12 Fogli di lotta di Sinistra proletaria, 1970, cit., p. 74. 13 Seconda riflessione teorica, documento brigatista, in forma di autointervista, del gennaio 1973, pubblicato da “Potere operaio” in data 11 marzo 1973, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 211.

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che si trovavano nelle «fabbriche», nei «quartieri», nelle «scuole» e anche negli «uffici»14. E soltanto dalla lotta di tutte queste componenti poteva nascere l’organizzazione, il cui obiettivo era quello di far avanzare le lotte in tutta la società. Senza l’organizzazione, secondo il gruppo di Sinistra proletaria, la sconfitta sarebbe stata certa, perché il sistema aveva dimostrato di saper vincere lo spontaneismo; organizzare la violenza diventava quindi necessario. Schierandosi ancora una volta a fianco degli operai, il gruppo sottolineava la necessità di creare dei «nuclei operai di difesa e di attacco», la cui funzione non era soltanto quella di rispondere ai licenziamenti e alle aggressioni del padrone, ma anche quella di «colpirlo prima», quando il padrone si trovava impreparato15. E, alla domanda «Che cosa vogliamo?», si rispondeva: «Vogliamo il potere! […] Perché fino a che il potere lo avranno i padroni la nostra condizione non potrà cambiare». Si comprende così perché le prime azioni delle Br si concentrarono proprio sulla realtà di fabbrica: bisognava infatti mettere «fino in fondo in discussione l’organizzazione capitalistica del lavoro e del potere», soffermandosi soprattutto sulla questione dei ritmi e degli orari. Le parole d’ordine diventarono allora: «Il cottimo non si contratta!», «Abolire il cottimo!», oppure «Lavorare con i nostri ritmi e organizzarci per segnare tutti cento per cento di rendimento sulle bolle»16. Le Brigate Rosse, figlie del Cpm e di Sinistra proletaria, nacquero quindi in fabbrica, in aziende di grandi dimensioni come la Pirelli e la Sit-Siemens. Va inoltre sottolineato che, per lo meno inizialmente, le Br furono un gruppo aperto e diversi militanti dei gruppi extraparlamentari, dei Cub e dei Gds in quei mesi diventarono dei brigatisti; magari per un periodo di breve durata, ma resta comunque il fatto che per molti di loro le Br furono un approdo naturale. Emblematica, a questo riguardo, la risposta di un operaio, che, interrogato su cosa producesse la Siemens in quegli anni, esclamò con convinzione: «Telefoni e brigatisti, in uguale proporzione»17. Il nuovo partigiano Le Brigate Rosse si definivano come «le prime formazioni di propaganda armata», che avevano il compito di propagandare «i contenuti di organizzazione e di strategia della guerra di classe»18. 14 Fogli di lotta di Sinistra proletaria, 1970, cit., p. 75. 15 Ibidem, p. 76. 16 Ibidem, pp. 76-77. 17 Cit. in Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 23. 18 Brigata rossa Pirelli, Comunicato n. 7, volantino diffuso a Milano nel marzo 1971, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 102.

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Il documento che ci permette tuttavia di comprendere come i brigatisti si definivano e qual era la loro strategia è un opuscolo del 1971, allegato al foglio «Brigate rosse. Giornale comunista rivoluzionario proletario», dal titolo Classe contro classe: guerra di classe. Innanzitutto le Br sottolineavano che l’esplosione delle lotte alla Pirelli, ma anche nelle altre fabbriche milanesi, dimostrava che un fiore era sbocciato. Si trattava di una lotta violenta e organizzata che veniva condotta dai brigatisti, i «nuovi partigiani» che combattevano il potere, i suoi strumenti e i suoi servi. Emerge quindi un evidente richiamo al mito della «Resistenza tradita», che tornava a vivere nella lotta di quei ragazzi, i partigiani degli anni ’70. Questo filo rosso con la guerra partigiana, come abbiamo visto nel capitolo precedente, era molto forte soprattutto nel gruppo dei reggiani, di cui faceva parte anche Prospero Gallinari. Nel suo libro autobiografico, Gallinari ha ricordato quanto fosse stato importante, per la sua formazione, il rapporto con gli ex combattenti partigiani negli anni dell’adolescenza. I vicini di casa e i parenti erano, nella maggior parte dei casi, «prodotti della Resistenza»; uomini che avevano impugnato le armi e combattuto in prima persona meno di vent’anni prima19. A segnare il giovane Gallinari furono soprattutto i racconti di questi «vecchi comunisti»: Sentire questi uomini parlare della Resistenza e dei suoi valori, apprendere dell’espulsione che i partigiani avevano subito da posti di spicco nelle aziende e negli uffici di stato, capire che quei posti erano stati riconsegnati agli individui che li avevano amministrati durante il fascismo e la Repubblica di Salò, è impressionante. Ascoltare la vicenda delle grandi fabbriche del Nord, difese dalla Resistenza col sangue dei suoi combattenti, e poi riconsegnate a imprenditori che, quasi sempre, come Valletta, avevano collaborato attivamente col regime fino al 25 aprile del ’45, infiamma la nostra indignazione. La stessa Costituzione, pur essendo il risultato di una mediazione tra le forze politiche dell’immediato dopoguerra, viene invocata davanti ai nostri occhi e alle nostre orecchie, per sottolineare come le sue parti autenticamente democratiche e “progressiste” siano bellamente ignorate dai governi in carica.

Questi malumori spingevano quindi gli ex combattenti a parlare di «Resistenza tradita»; un’espressione che celava sensazioni di «disagio» e di «impotenza», in attesa di tempi migliori. «Per noi giovani, invece» – ha aggiunto Gallinari, facendo riferimento alle lotte comuniste e anti-coloniali dell’epoca – «quei tempi migliori già albeggiano»20. Sulla falsariga di Gallinari, anche Valerio Morucci si è voluto soffermare sul 19 P. Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Bompiani, Milano 2014 (1° edizione 2006), p. 13. 20 Ibidem, pp. 36-37.

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legame che univa i brigatisti al mito della «Resistenza tradita», mettendo in luce come l’armamentario delle prime Brigate Rosse fosse composto soprattutto dalle armi che i partigiani avevano accuratamente sotterrato al termine della guerra: Alcune di quelle armi, cavate da dov’erano sepolte, sono poi finite nel primo arsenale delle Br. Qualcuno potrebbe dire, a ragione, che quelle poche armi passate alle Br sono un fatto isolato, marginale. E magari che il Pci, il movimento operaio, è sempre stato contrario alla violenza. Si è sentita anche questa. Ci sarebbe da discutere, ma non è questo il punto, anche se poi quel «fatto» non fu poi così isolato. Il punto è che non di armi si trattava ma del passaggio alle Br, direttamente dal bagaglio comunista, dell’ideologia per usarle. Questo non spiega naturalmente, sarebbe giustificatorio, tutta la violenza di quegli anni. Perché, anche se con essa hanno convissuto vecchie ideologie, direttamente dallo scontro sociale è scaturita. Il richiamo alla Resistenza «tradita» era solo un argomento quando ci si scontrava con quelli del Pci. E anche questo non per tutti. Ma loro, le Br, ci hanno creduto più di tutti gli altri messi assieme. Il lavoro lasciato a metà dai «traditori del proletariato» andava ripreso. Così come era cominciato. Con le armi21.

Alcuni ex partigiani vennero addirittura coinvolti nell’apparato organizzativo delle Brigate Rosse. È il caso, ad esempio, di una coppia di vecchi partigiani, Anita e Alberto – membri durante la Resistenza delle Squadre di azione patriottica (Sap) toscane –, che avevano ricevuto dall’organizzazione il compito di gestire una villapoligono, affinché i brigatisti vi potessero svolgere delle esercitazioni militari. Per comprendere meglio il filo rosso che legava i brigatisti alla Resistenza, è sicuramente di grande interesse il discorso che Anita fece a Morucci e a Riccardo Dura22, i due militanti ai quali era stato assegnato il compito di insonorizzare la struttura, onde evitare che i vicini o le forze dell’ordine potessero insospettirsi. Nelle parole di Anita emerge infatti, con estrema chiarezza, questo sentimento di continuità tra la Resistenza partigiana e la Nuova Resistenza delle Brigate Rosse: Quando siamo scesi dalle montagne, a guerra finita – ricordò l’ex partigiana –, ci hanno fermato sulla strada degli emissari del partito che nessuno aveva mai visto, gente che di certo non aveva combattuto ma che era arrivata da chissà dove. Ci dicono che non potevamo sfilare per Firenze con le armi in pugno. Ormai la guerra era finita e bisognava dare un segnale di pacificazione. E menate del genere. Rispondemmo che era con quelle armi che la guerra era finita. […] alla fine il nostro comandante ci convinse quasi tutti. In fondo erano solo le armi che avevamo con 21 Morucci, La peggio gioventù, cit., pp. 267-268. 22 Riccardo Dura, nato a Roccalumera, in provincia di Messina, nel 1950, si era trasferito a Genova giovanissimo. Ex marinaio, Dura militò prima in Lotta Continua e poi entrò nelle Brigate Rosse. Morì a Genova, il 28 marzo del 1980, insieme a Lorenzo Bentassa, Annamaria Ludman e Piero Panciarelli, durante l’irruzione dei carabinieri nel covo brigatista di via Fracchia, cfr. Riccardo Dura, in Progetto memoria, Sguardi ritrovati, cit., p. 223.

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noi, tutto il resto era già seppellito in montagna. […] Facciamo per ripartire e quelli ci dicono che era meglio se ci toglievamo anche i fazzoletti rossi dal collo.

Arrivati in città, Anita e Alberto si accorsero tuttavia che in molti erano ancora armati, segno evidente che erano stati fermati soltanto quelli «che avevano avuto più volte da ridire sulle direttive del Partito». In quel momento, i partigiani capirono che la guerra l’avevano persa. «Poi» – aggiunse Anita, guardando Dura e Morucci – «per fortuna, siete arrivati voi»23. Diversi partigiani – ha ricordato Curcio – si fidavano dunque dei brigatisti e speravano che quei giovani militanti riuscissero a non rimanere «fregati» come loro. Il fatto che gli ex combattenti mettessero a disposizione delle Brigate Rosse le loro armi veniva quindi percepito dai giovani rivoluzionari come un vero e proprio passaggio di «testimone»24. I «nuovi partigiani» – spiegavano i brigatisti – si erano posti l’obiettivo di condurre la guerra di classe fino alla sua fase più elevata, quella della «guerra di popolo». Per centrare questo obiettivo bisognava però perseguire l’unità di classe e costruire l’organizzazione dentro il movimento. Proprio a questo servivano allora le Brigate Rosse, che venivano descritte come delle «formazioni irregolari offensive», con funzione di «propaganda armata». La lotta politica che le Br avrebbero incentivato non poteva svilupparsi, a detta dei brigatisti, senza una precisa capacità militare, perché gli stessi padroni utilizzavano la repressione e la violenza per tutelare i loro privilegi. Distruggere il sistema era possibile, ma soltanto attraverso la lotta armata, dal momento che «il potere nasce dalla canna del fucile»25. Le Brigate rosse non dovevano tuttavia diventare il «braccio militare» delle masse, non dovevano cioè sostituirsi alle masse nella lotta. Il brigatista doveva invece stimolare con la sua azione il proletariato, affinché questo scatenasse la «guerra di popolo». In altri termini, il brigatista era sia un politico che un guerrigliero. Proprio perché la lotta si svolgeva su un piano che non era soltanto militare, ma anche politico, ogni azione doveva essere spiegata al proletariato, che doveva comprenderne il significato politico: «il fucile non parla», ricordavano i brigatisti26.

23 Morucci, La peggio gioventù, cit., pp. 278-279. Sul forza del mito resistenziale si veda anche la testimonianza dell’ex brigatista Pierluigi Zuffada, Intervista a Pierluigi Zuffada, in S. Zavoli, La notte della Repubblica, Mondadori, Milano 1995 (1° edizione 1992), p. 117. 24 Curcio, A viso aperto, cit., p. 71. 25 Classe contro classe: guerra di classe, documento allegato al foglio “Brigate rosse. Giornale comunista rivoluzionario proletario”, diffuso a Milano nel corso del 1971, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 117. 26 Ibidem, p. 121.

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In un’intervista rilasciata alla rivista cilena «Punto Final», anche i Tupamaros avevano dichiarato che il lavoro militare non era l’unica attività sulla quale il militante si doveva concentrare: Il lavoro di massa, che porta il popolo ad assumere posizioni rivoluzionarie, è anch’esso importante. Ciò che il militante – compreso quello che si trova nel movimento di massa – deve sapere con chiarezza è che il giorno in cui scoppierà la lotta armata, non dovrà restare a casa sua ad aspettare come va a finire. Deve quindi prepararsi, anche se il suo lavoro si svolge per il momento a un altro livello. Questo tra l’altro darà forza, autenticità, sincerità e serietà alla sua propaganda rivoluzionaria attuale27.

Rifiutando la funzione di «braccio armato», le Br si consideravano espressione del movimento di massa e lavoravano – come veniva scritto in un volantino diffuso a Roma nell’aprile del ’71 – per organizzare la difesa del popolo da tutti gli attacchi del fronte padronale, della polizia e dei fascisti: a queste violenze reazionarie, il brigatista rispondeva con la «lotta rivoluzionaria»28. Svelando nuovamente il fascino della Resistenza, i brigatisti definivano la loro attività, che si affiancava alle lotte proletarie, un’«azione partigiana», che avrebbe permesso di vincere lo sfruttamento e di costruire il comunismo29. Come ha sottolineato Luigi Manconi, l’apparato culturale derivato dalla Resistenza contro il nazi-fascismo occupava un posto assai significativo «nella simbologia e nella letteratura, nell’iconografia e nella sloganistica delle prime Br». «L’ispirazione resistenziale» – secondo Manconi – è stata una componente molto rilevante nel sistema di motivazioni che hanno portato alla «scelta terroristica»; e «l’evocazione della Resistenza, il richiamo a essa, la sua traduzione in simbolo e linguaggio, apparato ideologico ma anche repertorio d’azione», è stata costante nelle prime Brigate Rosse30. La risposta più esaustiva alla domanda «Che cosa sono dunque le Brigate rosse?» la troviamo in un altro documento dell’aprile del ’71, pubblicato in Soccorso rosso. Nel testo i brigatisti si definivano così: Siamo gruppi proletari che hanno capito che per non farsi fregare bisogna agire con intelligenza, prudenza e segretezza, cioè in modo organizzato. Abbiamo capito che non serve a niente minacciare a parole e di tanto in tanto esplodere durante 27 Teoria e pratica dei Tupamaros, in Dueñas Ruiz, Rugnon De Dueñas, Tupamaros. Libertà o morte, cit., pp. 160-161. 28 Processo popolare contro tutti i fascisti, volantino brigatista diffuso a Roma nell’aprile 1971, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 105. 29 Ibidem, p. 107. 30 L. Manconi, Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale 1970-2008, Rizzoli, Milano 2008, pp. 59-60.

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uno sciopero. Ma abbiamo capito anche che i padroni sono vulnerabili nelle loro persone, nelle loro case, nella loro organizzazione; che gruppi clandestini proletari organizzati e collegati con la fabbrica, il rione, la scuola e le lotte, possono rendere la vita impossibile a questi signori31.

Ritroviamo qui tutti i temi con i quali i primi brigatisti si confrontavano quotidianamente: il «proletariato», la «fabbrica», il «rione», la «scuola». Erano queste le tematiche, ereditate dalle esperienze del Cpm e di Sinistra proletaria, che coinvolgevano maggiormente i brigatisti di quegli anni. Questi elementi diventarono centrali nella propaganda armata delle Br, un’organizzazione che, per lo meno in questo primo periodo, lavorava in mezzo alle masse, cercando attraverso l’uso delle armi di ottenere quel radicale mutamento sociale che la maggior parte dei giovani di quella generazione continuava ad inseguire. Un altro documento che ci permette di riassumere le caratteristiche di questa prima fase del brigatismo è un’autointervista del 1971, una forma di espressione mutuata dai Tupamaros uruguaiani. Nel suddetto documento il brigatista afferma di rifarsi, da un punto di vista ideologico, alla «tradizione scientifica del movimento operaio e rivoluzionario internazionale», i cui punti di riferimento erano il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l’esperienza dei movimenti guerriglieri metropolitani32. Convinti che la lotta armata in Italia dovesse essere condotta da un’organizzazione che fosse diretta espressione del movimento di classe, i brigatisti ritenevano fondamentale lavorare all’organizzazione dei «nuclei operai di fabbrica e di quartiere», sia nei poli industriali che in quelli metropolitani, perché era lì che si condensavano le rivolte e gli sfruttamenti33. Il primo brigatista si concentrava quindi sulle lotte quotidiane che scoppiavano nelle «fabbriche», nei «rioni» e nelle «scuole», cercando di radicare in queste lotte le prime forme di organizzazione armata, al fine di vincere l’offensiva della borghesia. Le Br si configuravano così come i primi punti di aggregazione del «Partito Armato del Proletariato», l’unica forza che avrebbe potuto vincere lo scontro per il potere34.

31 Il corsivo è mio. Molti compagni o gruppi della sinistra rivoluzionaria, documento risalente all’aprile 1971, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 111. 32 Autointervista, opuscolo Br diffuso a Milano nel settembre 1971, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 127. 33 Ibidem, p. 128. 34 Ibidem, p. 129.

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La figura del nemico «Per combattere» – ha scritto Valerio Morucci – «serve un nemico, facilmente identificabile, senza troppi distinguo, senza dover seguire vie tortuose e confuse per trovarlo»35. Risulta allora di grande interesse mettere in luce la figura del nemico che i brigatisti tratteggiarono nei primi anni della loro storia. Certi che nella loro lotta avrebbero incontrato la decisa risposta dei padroni, i brigatisti, già nei “Fogli di lotta” di «Sinistra proletaria», avevano invitato a colpire le «spie», i «capi» e i «capetti», perché «chi interviene o si adopera contro la lotta e gli interessi dei lavoratori è un nostro nemico e come tale va colpito!». Le prime Brigate Rosse avrebbero poi dimostrato di saper seguire alla lettera le indicazioni fornite dal gruppo di Sinistra proletaria. Definendole delle «organizzazioni operaie autonome», un “Foglio di lotta” salutava infatti la loro apparizione sottolineando che esse indicavano «i primi momenti di autoorganizzazione proletaria per combattere i padroni e i loro servi sul loro terreno alla “pari”, con gli stessi mezzi che essi utilizzano contro la classe operaia: diretti, selettivi, coperti come alla Siemens»36. I brigatisti arrivarono addirittura a diffondere una serie di volantini che prendevano di mira capi e capetti vari. I volantini indicavano i nemici della classe operaia, divulgando anche i loro indirizzi, i loro numeri telefonici, le loro abitudini e altri dati personali37. Fare il nome degli obiettivi seguenti sarebbe diventata una delle caratteristiche delle Br, che anche in futuro avrebbero spesso annunciato in anticipo l’area in cui avevano intenzione di colpire38. Il nemico non operava tuttavia soltanto dentro la realtà di fabbrica, ma anche all’esterno, nella società. I primi brigatisti si interessarono, ad esempio, anche dell’occupazione delle case, e spiegarono i loro interventi ricorrendo ad una vera e propria personificazione del potere. I militanti delle Br si dicevano infatti convinti che sia dietro lo sfruttamento in fabbrica, che dietro il problema degli affitti, vi fosse sempre lo stesso nemico: «Il padrone che ci spreme in fabbrica è lo stesso padrone che aumenta il costo della vita, che non ci permette di avere una casa decente se non rubandoci quei pochi soldi che gli strappiamo con dure lotte»39. I brigatisti erano convinti che l’unità della classe operaia rappresentasse l’ostacolo più insidioso per la realizzazione del progetto dei padroni. Desiderosi di installare anche in Italia una vera e propria dittatura – che ovviamente non andava intesa 35 Morucci, La peggio gioventù, cit., p. 130. 36 Fogli di lotta di Sinistra proletaria, 1970, cit., p. 78. 37 Si veda il volantino Ai signori fascisti della Siemens, volantino distribuito alla Sit-Siemens di Milano nel novembre del 1970, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 79-80. 38 M. Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek, Roma 2007, p. 25. 39 Brigata rossa Pirelli, Comunicato n. 6, volantino diffuso alla Pirelli di Milano il 5 febbraio 1971, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 100.

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in termini classici, bensì come una restaurazione di altissimi livelli di sfruttamento della classe operaia –, i padroni dovevano confrontarsi con l’imprevedibilità degli operai, che cercavano di scardinare il piano borghese attraverso i cortei interni e i picchetti. Per risultare vincente questa rabbia operaia, come aveva già detto a suo tempo il Cpm, andava però organizzata. All’interno delle fabbriche, i padroni avevano infatti assoldato un «esercito di carogne» – costituito dai «briganti fascisti» del Msi e della Cisnal, dai «porci» del Sida, dell’Unione Italiana Lavoratori Democratici (Uilmd), delle Federacli e di Iniziativa sindacale –, che permettevano ad aziende come la FIAT di identificare chi propagandava lo sciopero, chi tirava le lotte, chi era alla testa dei cortei e chi faceva i picchetti. Questi elementi, considerati dai brigatisti dei «sabotatori» e dei «liquidatori» dell’unità della classe operaia, andavano colpiti, dal momento che la loro attività rendeva possibile la reazione nelle fabbriche. Ovviamente questi soldati del capitale non erano la mente del progetto dei padroni, ma i brigatisti, citando un proverbio inquietante, ricordavano che «il pesce puzza dalla testa, ma a squamarlo si comincia dalla coda»40. Mario Moretti ha spiegato che all’epoca «il clima era quello di contendere centimetro per centimetro il territorio al potere, perfino nelle sue impersonificazioni». «Allora» – ha aggiunto Moretti – «le lotte di fabbrica avevano gli schemi seguiti dagli italianisti nelle partite di calcio: si marcava a uomo»41. Accanto all’imprenditore e al dirigente di fabbrica, le prime Br individuarono anche un altro nemico di classe: il fascista. I fascisti venivano infatti considerati come «l’esercito armato che il capitale usa oggi contro le lotte operaie e la richiesta proletaria di potere»42. Questo esercito di «soldati neri» veniva ritenuto responsabile delle aggressioni degli operai che picchettavano davanti alle fabbriche, degli studenti rivoluzionari che agivano nelle scuole e anche dei compagni che facevano altrettanto sotto le loro case43. I brigatisti proponevano allora di organizzare un «processo proletario», al fine di esercitare la «giustizia proletaria» su tutti i fascisti. E, dal momento che le leggi erano quelle delle masse popolari, il processo doveva svolgersi nelle «fabbriche», nei «rioni» e nelle «scuole», proprio là dove i fascisti praticavano la loro violenza. In queste «zone proletarie» della città, dove per anni si erano svolte violente lotte sociali, stava infatti nascendo la «resistenza popolare», che si contrapponeva proprio al potere dei padroni e dei loro soldati fascisti44. 40 Schiacciamo i fascisti a Mirafiori e Rivalta, volantino diffuso a Torino il 26 novembre 1972, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 194-195. 41 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 38. 42 Comunicato Br di smentita, documento risalente alla prima metà del 1971, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 109. 43 Giornale “Brigate rosse” n. 2 Br di Roma, dal periodico “Brigate rosse”, diffuso a Roma nel maggio 1971, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 112. 44 Processo popolare contro tutti i fascisti, 1971, cit., pp. 105-107.

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Il fatto che le Br ritenessero necessario punire i fascisti, non significava tuttavia – come avrebbero spiegato nella loro autointervista del settembre 1971 – che temessero una riedizione del fascismo. La situazione nazionale, così come quella internazionale, dimostrava infatti che la repressione del proletariato potesse convivere con un regime democratico. Le Br guardavano soprattutto all’esempio francese, dove il «fascismo gollista» viveva sotto la maschera della democrazia45. Il fascismo, secondo i brigatisti, non era infatti soltanto quello squadrista, ma anche quello delle camicie bianche di Andreotti, che in fabbrica controllavano gli operai, li schedavano e poi li licenziavano. I militanti delle Brigate Rosse, ad esempio, chiamarono in causa l’Unione cristiana imprenditori dirigenti (Ucid), che – a loro dire – era l’associazione in cui i dirigenti e gli imprenditori democristiani mettevano a punto il piano dell’attacco antioperaio. Il governo Andreotti veniva accusato di essere l’esecutore di questo attacco, che trovava le sue armi migliori nell’aumento dei prezzi, così come nell’aumento della disoccupazione e degli interventi antioperai da parte della polizia e dei fascisti. I brigatisti volevano quindi dimostrare che la Dc non era soltanto lo strumento che aveva garantito il potere ai padroni, ma che essa stessa era una «mostruosa macchina di oppressione e di sfruttamento»46. La campagna brigatista contro l’Ucid portò i brigatisti – il 28 giugno del 1973 – a sequestrare un dirigente dell’Alfa Romeo, Michele Mincuzzi. Nel documento di rivendicazione del rapimento, i brigatisti spiegavano che Mincuzzi, oltre a dirigere l’organizzazione dei ritmi delle linee e a controllare i passaggi di categoria, impartiva i suoi insegnamenti «fascisti» anche ai dirigenti di altre fabbriche, tenendo dei corsi all’Ucid. Mincuzzi era allora un «gerarca in camicia bianca», che garantiva ai padroni l’attuazione delle loro politiche «terroristiche» e antioperaie; gli operai dovevano quindi controllare e punire tutti questi nemici, perché – ricordavano ancora una volta i brigatisti – «il pesce puzza dalla testa, ma a squamarlo si comincia dalla coda»47. Tra i principali nemici dei brigatisti figuravano poi i sindacati, perché il riformismo veniva considerato uno strumento che il capitale utilizzava per spezzare l’iniziativa rivoluzionaria. Fu così che il 12 febbraio del 1973, a Torino, la colonna torinese delle Brigate Rosse rapì il sindacalista della Cisnal Bruno Labate. I 45 Autointervista, 1971, cit., p. 126. 46 Fascisti in camicia bianca, volantino diffuso il 15 gennaio 1973, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 214-215. I brigatisti colpirono l’Ucid nel 1973. Il 15 gennaio di quell’anno, un nucleo armato della colonna milanese delle Br fece irruzione nella sede milanese dell’Ucid, in via Bigli, rinchiudendo nel bagno i funzionari presenti e sequestrando diversi documenti e anche l’elenco degli iscritti, con tanto di indirizzi al seguito. 47 Rivendicazione del sequestro Mincuzzi, documento di rivendicazione diffuso il 28 giugno 1973, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 223-224.

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brigatisti spiegarono l’azione affermando che la vittima era stata scelta in quanto esponente di un sindacato «fascista», che era tutelato nelle fabbriche dai padroni allo scopo di dividere la classe operaia, di organizzare il crumiraggio, di compiere aggressioni e di infiltrare spie nei reparti48. Non va inoltre dimenticato che il 1973 fu un anno davvero complicato per l’economia italiana, che nell’autunno si trovò di fronte alla sua più grave crisi dopo quella del ’29. Il problema nasceva dalla decisione dei paesi dell’Opec di aumentare del 70% il prezzo del petrolio e di diminuire di 10 punti percentuali la sua esportazione, provocando così un vertiginoso aumento dei prezzi49. Questa crisi, secondo i brigatisti, veniva tuttavia strumentalizzata dal fronte padronale, che, servendosi di strumenti efficaci come la cassa integrazione, stava cercando di sconfiggere la resistenza della classe operaia. Accanto alla grave situazione economica si aggiungeva un contesto internazionale che non sembrava fornire rosee prospettive nemmeno alla politica. Il colpo di Stato cileno dell’11 settembre 1973 generò infatti grandi preoccupazioni sulla solidità del sistema democratico e convinse il Pci che i comunisti non sarebbero andati al potere nemmeno vincendo le elezioni. Enrico Berlinguer, segretario del partito dal marzo dell’anno precedente, lanciò così l’idea del «compromesso storico» tra quelli che erano i principali partiti: Pci, Dc e Psi. Una proposta, quella di Berlinguer, che le Br non potevano leggere se non come un grande tradimento nei confronti degli operai, la dimostrazione che il Pci fosse perfettamente integrato nel disegno di ristrutturazione capitalistica. I brigatisti individuarono allora un nuovo nemico da colpire, e decisero di rapire il capo del personale del gruppo automobili della FIAT, il cavaliere Ettore Amerio. Nel comunicato di rivendicazione del rapimento, i militanti delle Br spiegavano agli operai che i padroni utilizzavano la crisi economica per incutere paura alle masse e vincere la loro guerra contro le forze rivoluzionarie. Non era però la classe operaia a dover avere paura, dal momento che era stata proprio la sua capacità di lotta a provocare questa crisi, che aveva colpito soprattutto le abilità di sfruttamento, di dominio e di oppressione dei padroni. Gli operai dovevano allora accettare la guerra e, come avevano detto dieci anni primi gli intellettuali di Qr, non concedere tregue che avrebbero permesso alla borghesia di riorganizzarsi. Il documento si rivela di grande importanza anche perché in quell’occasione i brigatisti inaugurarono il loro attacco al «compromesso storico» di Berlinguer. L’attendismo non era più ammesso, i compagni dovevano scegliere: «compromesso storico» o «potere proletario armato»? Una scelta che avrebbe sicuramento 48 Rivendicazione del sequestro Labate, documento di rivendicazione diffuso il 12 febbraio 1973, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 216. 49 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 2006 (1°edizione 1989), p. 473.

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provocato una divisione all’interno del movimento operaio, ma che era allo stesso tempo necessaria per costruire l’unità del fronte rivoluzionario50. Il 1973 fu un anno molto importante nella storia delle Brigate Rosse, che, come abbiamo visto, decisero di concentrare tutte le loro energie sulla situazione turbolenta che animava le grandi fabbriche del nord Italia. Tuttavia, durante quei mesi i brigatisti presero atto anche della forza del fronte riformista che, nell’aprile di quell’anno, era riuscito a stroncare sul nascere una grande dimostrazione di autonomia operaia. Il 28 febbraio del 1973, poche settimane dopo il sequestro di Labate, alla FIAT si era aperto infatti un intenso periodo di lotta per il rinnovo del contratto. A fine marzo, durante l’occupazione di Mirafiori, nacque il movimento dei fazzoletti rossi, all’interno del quale furono attive anche le Br. Fu così che, in quel periodo, diversi attivisti sindacali e del movimento entrarono proprio nell’organizzazione, allungando la lista dei suoi militanti. Il 29 marzo si arrivò addirittura al blocco totale di Mirafiori, che per gran parte dei suoi protagonisti equivalse alla nascita del «partito di Mirafiori», vale a dire la raggiunta capacità da parte delle lotte operaie di autogovernarsi51. A spezzare il movimento dei fazzoletti rossi intervenne tuttavia, dopo 6 mesi di trattative, la firma del nuovo contratto. L’accordo, sottoscritto dai principali sindacati, venne siglato il 3 aprile e i risultati ottenuti inflissero una pesante sconfitta al «partito di Mirafiori», contribuendo notevolmente a sgonfiare una protesta, quella della classe operaia torinese, che durava ormai da 4 anni. Gli operai conquistarono finalmente le 40 ore settimanali e ottennero il riconoscimento di 150 ore per la partecipazione a corsi di formazione oppure per il conseguimento di diplomi. A queste conquiste si aggiunsero l’inquadramento unico tra operai e impiegati, la riduzione delle differenze salariali tra le due categorie e una maggiore mobilità fra di esse52. La vittoria del fronte riformista indusse i brigatisti a riflettere sui nemici che avrebbero dovuto attaccare. I militanti delle Br compresero infatti che se avessero continuato a colpire i dirigenti di fabbrica locali, i capireparto e gli spioni non sarebbero riusciti a spezzare il piano del capitale. I brigatisti iniziarono dunque a pensare che fosse necessario colpire più in alto, attaccando degli obiettivi molto più significativi di un semplice quadro dirigente, in modo tale da minare seriamente la solidità dello Stato. Entrata in crisi la fase operaista che aveva contraddistinto le Br sin dalla loro 50 Il sequestro Amerio – Comunicato n. 1, comunicato di rivendicazione datato 10 dicembre 1973, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 225-227. 51 A. Ventrone, “Vogliamo tutto”. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 19601988, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 295. 52 Ibidem, p. 296.

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nascita e che, visti i suoi progenitori – il Cpm e Sinistra proletaria -, faceva parte del corredo genetico della stessa organizzazione, il 1974 si aprì con un’importante novità: Renato Curcio lanciò la parola d’ordine «colpire il cuore dello Stato». Le Br decidevano così di alzare il livello dello scontro, portandolo fuori dalle fabbriche, per attaccare direttamente i punti vitali dello Stato. La nuova strategia venne sviluppata attraverso la pubblicazione di un documento, intitolato Contro il neogollismo portare l’attacco al cuore dello Stato. Il testo permette di cogliere pienamente come si stava evolvendo l’analisi elaborata dalle Br. Se nei primi anni, riprendendo le riflessioni del Cpm, i brigatisti avevano individuato all’interno del sistema due strategie controrivoluzionarie, quella della destra autoritaria e quella riformista, ora ritenevano invece che a confrontarsi erano la strategia «golpista» e quella «neogollista». La prima seguiva le linee tracciate dall’autoritarismo, mentre la seconda portava in serbo grandi novità. Secondo le Br, la borghesia, dopo aver scartato l’ipotesi del «compromesso storico», aveva di fronte a sé un’unica via da seguire: quella della svolta a destra. Questo progetto, che doveva garantire stabilità all’intero sistema, consisteva nella trasformazione delle Repubblica nata dalla Resistenza in una Repubblica presidenziale, mettendo in atto ciò che era già stato ipotizzato dal presidente della Repubblica Giovanni Leone nel 197353. Le forze della controrivoluzione preferivano il progetto «neogollista» a quello «golpista» perché si trattava di una soluzione controrivoluzionaria che pur schiacciando la sostanza del sistema democratico, ne tutelava le apparenze e la forma. Infatti, era proprio la stessa democrazia a fornire tutti gli strumenti che sarebbero serviti a seguire questa strada: il rafforzamento dell’esecutivo, con l’attribuzione di maggiori poteri legislativi e amministrativi al capo dello Stato e al presidente del consiglio; lo svuotamento dei poteri del parlamento; il ricorso al referendum per la consultazione popolare diretta; la revisione della legge elettorale da proporzionale a maggioritaria54. Per risultare vincente questo progetto avrebbe sfruttato il clima di generale insicurezza che era stato creato con la «strategia della tensione». Questa situazione di instabilità avrebbe infatti consentito a tutte le forze di destra, dalla Dc al Msi, di presentarsi come le uniche forze politiche in grado di garantire ordine e tranquillità politica ed economica all’Italia. Il progetto neogollista dunque era 53 Il 31 dicembre del ’73, in occasione del messaggio di fine anno indirizzato a tutti gli italiani, il presidente della Repubblica aveva parlato della necessità di rivedere alcune strutture legislative e amministrative, in modo tale che le forze dell’ordine potessero rispondere alle esigenze di un paese che, dato il clima stragista e violento di allora, aveva un forte bisogno di sicurezza, cfr. Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 298. 54 Contro il neogollismo portare l’attacco al cuore dello Stato, documento brigatista diffuso nell’aprile 1974, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 254.

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un «progetto armato», la cui realizzazione andava di pari passo con una crescente «militarizzazione del potere». La Dc e il Msi avrebbero poi utilizzato il successivo referendum del 12-13 maggio sul divorzio come tappa fondamentale per verificare la forza politica di questo nuovo blocco di potere. Queste intuizioni trovarono conferma il 2 maggio del 1974, quando le Br fecero irruzione nella sede del Centro don Sturzo di Torino e in quella dei Comitati di Resistenza Democratica (Crd) di Milano. Questi ultimi, peraltro legati ai Centri Sturzo che svolgevano la funzione di raccordo tra Dc e Msi, erano stati fondati da Edgardo Sogno, un ex partigiano monarchico e anticomunista estremo, con l’obiettivo di condurre una lotta serrata contro il principale nemico che si muoveva sul suolo italiano: i comunisti. I documenti che i brigatisti riuscirono a sottrarre nel corso delle irruzioni confermarono l’esistenza di un progetto neogollista. Venticinque anni più tardi anche Edgardo Sogno avrebbe confermato la validità di quell’analisi: collaborando con una serie di personaggi legati ad ambienti diversi e soprattutto all’esercito, egli aveva effettivamente progettato di instaurare in Italia, con un colpo di mano, una Repubblica presidenziale, sul modello gollista55. La riflessione brigatista elaborata nel documento intitolato Contro il neogollismo portare l’attacco al cuore dello Stato aveva quindi svelato una grande novità: l’iniziativa controrivoluzionaria era stata assunta da un blocco di potere tutto interno allo Stato. L’operaismo brigatista che aveva contraddistinto l’organizzazione ancora per tutto il 1973 iniziò dunque a fare spazio all’antifascismo e all’antigolpismo, spingendo i brigatisti a sferrare i loro colpi più duri agli apparati repressivi dello Stato. Fu proprio all’interno di questa nuova prospettiva che i brigatisti decisero di sequestrare il giudice genovese Mario Sossi. Il nome di Mario Sossi, sostituto procuratore della Repubblica di Genova, era legato soprattutto al processo della XXII Ottobre, il gruppo di cui abbiamo parlato nel primo capitolo. Sossi era stato infatti pubblico ministero nel processo alla banda ed era particolarmente inviso all’intero movimento rivoluzionario. Quel processo, secondo i brigatisti, era stato un vero e proprio «processo di regime», in cui gli imputati non erano stati giudicati per crimini determinati, bensì per il crimine per eccellenza: essersi rivoltati con le armi alle leggi della borghesia. Il processo alla XXII Ottobre era quindi la chiara dimostrazione che in Italia stavano agendo delle «forze oscure della controrivoluzione», dei «carnefici della libertà» pronti ad operare una rottura istituzionale e a schiacciare la forza della classe operaia e del movimento rivoluzionario56. 55 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., pp. 296-297. 56 Il sequestro Sossi – Comunicato n. 1, comunicato diffuso il 19 aprile 1974, pubblicato da “Il

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Con quel processo – secondo i brigatisti – erano state messe a punto per la prima volta le tattiche e le contromosse dell’antiguerriglia, e Sossi, che era un «uomo del potere», poteva raccontare perfettamente alle Brigate Rosse questi nuovi modi di operare del potere borghese. Inoltre Sossi era un magistrato e i brigatisti ritenevano che la magistratura in quel momento era al tempo stesso l’anello più debole e più vivo della catena del potere. Vista poi la sua carriera da «persecutore fanatico della sinistra rivoluzionaria», Sossi era anche un facile «bersaglio dell’odio proletario»57. I brigatisti ritenevano dunque di essere entrati in una nuova fase della guerra di classe, una fase che obbligava l’intero movimento ad uscire dalle fabbriche, estendendo la lotta armata ai centri vitali dello Stato, in modo tale da poter rispondere colpo su colpo all’iniziativa dei «carnefici della libertà». In quel momento si stavano infatti preparando i giochi per la seconda Repubblica e portare l’attacco al cuore dello Stato era quindi indispensabile. Il sequestro Sossi, che fu il primo sequestro lungo delle Brigate Rosse – durò infatti 35 giorni – portò inoltre i brigatisti a riflettere su quella personificazione del potere, a cui spesso si erano affidati nei loro documenti di propaganda armata. I nemici del fronte rivoluzionario – come nei casi di Labate, Mincuzzi e Amerio – non erano stati presentati dalle Br come esseri umani, bensì come uomini del potere: colpendoli, i rivoluzionari avrebbero dunque colpito il potere borghese. Anche Sossi venne privato quindi delle sue qualità umane e considerato dai brigatisti esclusivamente nella veste di obiettivo politico, ma a differenza di quanto era successo con gli altri nemici della classe operaia, i brigatisti si ritrovarono a vivere con Sossi per 35 giorni. Il primo sequestro lungo portò perciò i militanti delle Br ad entrare in contatto con un dimensione che fino a quel momento avevano sempre rifiutato di conoscere, quella dell’uomo, del padre di famiglia che piangeva per le sue bambine; una novità che portò alcuni di loro a riflettere sul rapporto tra personificazione del potere e spersonalizzazione della vittima. Come ha scritto Patrizio Peci, «il nemico appare molto più terribile quando è lontano, misterioso e non si vede il suo foruncolo sul naso». Molti brigatisti avrebbero colto a pieno l’illogicità della personificazione del potere e della brutalizzazione del nemico al momento del loro arresto: Lo si capisce – ha dichiarato Peci –, per esempio, quando si viene arrestati. Il compagno e il carabiniere per anni si sono reciprocamente temuti, evitati, cercati, vedendosi come mostri. Poi quello ha moglie e figli, quell’altro deve andare a fare Messaggero” il 20 aprile 1974, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 257-259. 57 Intervista alle Br, intervista pubblicata dal settimanale “L’Espresso” (n. 20, 19 maggio 1974), ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 282.

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la pipì e chiede il permesso. Allora si continua a essere nemici, a odiarsi, ma non si riesce più a considerarsi mostri l’un l’altro58.

Con tutta probabilità, i sequestratori di Sossi dovettero domandarsi se quello che avevano sequestrato fosse realmente un «soldato» della borghesia. L’inchiesta che avevano avviato per organizzare il suo rapimento era stata tutta incentrata sul magistrato «persecutore» della sinistra rivoluzionaria, ora invece si erano trovati davanti l’uomo. La visione brigatista del mondo prevedeva dunque una netta separazione tra amici e nemici della rivoluzione. Chi ostacolava il progetto rivoluzionario non era però soltanto un nemico dei militanti, bensì dell’intera umanità, dal momento che, con la sua scelta, si rendeva complice dell’infelicità che dominava nella società contemporanea. Questo è quanto emerge anche da una lettera che Renato Curcio avrebbe spedito alla madre Jolanda nel novembre del 1974, quando si trovava in carcere: «Cercando la mia strada ho trovato sfruttamento, ingiustizia, oppressione. E gente che li esercitava e gente che li subiva. Io, ero tra questi ultimi. E questi ultimi erano la maggior parte. Ho capito così che la mia storia era la loro storia, che il mio futuro era il loro futuro. Che dirti di più? I miei nemici sono i nemici dell’umanità e dell’intelligenza. Chi, sulla miseria materiale e intellettuale dei popoli, ha costruito e costruisce la sua maledetta fortuna. Quella è la mano che ha chiuso la porta della mia cella»59. La violenza contro le cose. Il brigatista incendiario I primi nemici dei brigatisti, come si è visto, furono quindi individuati all’interno della realtà di fabbrica. Risulta ora più facile comprendere perché le prime azioni presero di mira i capi e i quadri dirigenziali delle aziende, uomini che – come spiegato nel capitolo precedente – vennero colpiti simbolicamente attraverso degli attacchi diretti non contro la persona, ma contro i suoi beni privati. La prima azione firmata «brigata rossa» si ebbe il 17 settembre 1970 e la vittima fu proprio un manager, Giuseppe Leoni, capo del personale della SitSiemens. L’obiettivo venne individuato ascoltando i discorsi degli operai della fabbrica milanese, i quali erano soliti pronunciare il suo nome con disprezzo per la severità che mostrava sul posto di lavoro. Come ha scritto Pino Casamassima, «individuare i primi obiettivi da colpire 58 Peci, Io l’infame, cit., p. 123. 59 Lettera di Renato Curcio alla madre del novembre 1974, cit. in A. Orsini, Anatomia delle Brigate rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2010, p. 26.

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non fu difficile. Gli operai con cui i brigatisti parlavano ripetevano in continuazione che bisognava punire i capi, i quadri dirigenti delle fabbriche che applicavano direttamente sui lavoratori gli ordini del padrone»60. L’azione, che inizialmente prevedeva l’incendio dell’auto di Leoni, venne studiata nei minimi particolari con una lunga serie di pedinamenti. Il piano incontrò però dei problemi, perché arrivare alla macchina del dirigente della Siemens non era affatto semplice; alla fine si decise così di optare per l’incendio del garage attraverso l’utilizzo di una molotov diventata poi famosa: la «Lilly»61. È interessante sottolineare, come ha raccontato successivamente Alberto Franceschini, che i ritardi cui andò in contro il piano provocarono un certo nervosismo tra gli operai, ansiosi di leggere sui quotidiani che l’auto di Leoni era andata in fumo: Passarono molti giorni, i compagni della fabbrica erano sempre più impazienti, ci chiedevano se avevamo trovato la macchina, che cosa avevamo intenzione di fare. E noi a spiegare tutte le difficoltà che stavamo incontrando: cose che apparivano piccole, insignificanti dando l’impressione, a chi le ascoltava, che fossimo degli incapaci, studenti buoni a parlare ma non ad agire. Dovevamo fare l’azione, non potevamo più aspettare62.

Al sentimento di impazienza degli operai della Siemens si aggiunse quindi la paura di fallire dei brigatisti, ragazzi che si cimentavano per la prima volta in azioni così eclatanti. Colpire Leoni era diventato quindi di fondamentale importanza per conquistare definitivamente la fiducia di quella classe operaia «incazzata». L’azione scattò dunque nel pomeriggio del 17 settembre e i due principali protagonisti furono Mara Cagol e Alberto Franceschini. Toccò infatti a quest’ultimo collocare la molotov, mentre la giovane trentina gli copriva le spalle. L’azione andò poi a buon fine e la notizia venne ripresa dai principali quotidiani. Diversi giorni più tardi i brigatisti rivendicarono l’azione con la pubblicazione di un volantino, che venne distribuito agli operai attraverso la posta pneumatica, gli stipetti degli spogliatoi e, soprattutto, i «cessi». Il «cesso» era infatti l’unico luogo della fabbrica dove l’operaio si sentiva libero, dove poteva esprimere tutto il suo 60 P. Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse. Gli episodi e le azioni della più nota organizzazione armata, dall’autunno del 1970 alla primavera del 2012, Newton Compton editori, Roma 2012, p. 67. 61 «Lilly» era il nome di un contenitore in plastica per varechina che venne utilizzato dai ragazzi delle Br per confezionare una molotov che, senza alcuno scoppio, era in grado di dare vita ad una potente fiammata. Questo tipo di molotov venne utilizzata anche dai ragazzi del movimento del ’77, cfr. A. Franceschini, P. V. Buffa, F. Giustolisi, Mara Renato e io. Storia dei fondatori delle BR, Arnoldo Mondadori, Milano 1991 (1° edizione 1988), pp. 34-35. 62 Franceschini, Buffa, Giustolisi, Mara Renato e io, cit., pp. 35-36.

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malcontento, sfogando la rabbia con scritte sui muri. I gabinetti delle fabbriche diventarono così il luogo privilegiato dell’attività di studio dei brigatisti, che iniziarono addirittura a redigere dei diari in cui documentavano tutte le scritte operaie che apparivano sui muri: «Divennero degli strumenti di lavoro essenziali per capire sino in fondo umori e desideri della classe operaia», ha spiegato Franceschini63. Per rispondere alle denunce, agli arresti e ai licenziamenti che stavano colpendo gli operai della Pirelli, le Brigate rosse iniziarono poi a pubblicare dei comunicati in cui comparivano dei veri e propri elenchi di nemici che dovevano essere tenuti d’occhio. Nel primo comunicato si leggeva che «questi spioni meritano la gogna!», «per ogni compagno che colpiranno durante la lotta qualcuno di loro dovrà pagare»64. Alcuni giorni più tardi i brigatisti rincararono la dose, promettendo che «ad ogni azione repressiva che il padrone tenterà di mettere in atto nei confronti dei lavoratori a seguito della lotta che stiamo conducendo, sarà risposto secondo il principio per un occhio due occhi, per un dente tutta la faccia». E a chi si chiedeva chi fossero i brigatisti, loro rispondevano così: «Siamo tutti quegli operai che hanno fatto circolare il primo volantino e che faranno altrettanto con questo»65. La lotta intrapresa dai brigatisti alla Pirelli continuò anche nel 1971. Le Br diffusero infatti un volantino nel quale spiegavano che avrebbero contrastato tutte le misure repressive adottate dai dirigenti dell’azienda. Nel documento, i brigatisti sottolinearono la peculiarità della loro strategia: «saremo noi operai a scegliere i tempi e i modi che riterremo più opportuni per sferrare i nostri colpi»66. Una riflessione fortemente debitrice dell’operaismo dei Qr. Nel testo si leggeva inoltre che «il movimento delle Brigate rosse» era in forte espansione e che la sua attività si stava diffondendo in altre fabbriche e in altre città. Nelle fabbriche e nelle università, i brigatisti riuscivano infatti a riscuotere sempre maggiori consensi, a tal punto che in alcuni cortei si potevano sentire canzoni come L’ora del fucile, di Pino Masi e Piero Nissim: «Cosa vuoi di più compagno / per capire / che è suonata l’ora / del fucile?». Ancor più significativo il testo di un’altra canzone, La ballata della FIAT: Signor padrone questa volta per te andrà di certo male siamo stanchi di aspettare che tu ci faccia ammazzare. 63 Ibidem, p. 41. 64 Brigata rossa Pirelli, Comunicato n. 1, volantino distribuito alla Pirelli di Milano all’inizio del novembre 1970, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 82. 65 Brigata rossa Pirelli, Comunicato n. 2, volantino diffuso alla Pirelli di Milano il 18 novembre 1970, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 83-84. 66 Brigata rossa Pirelli, Comunicato n. 5, volantino diffuso alla Pirelli di Milano il 19 gennaio 1971, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 98.

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Noi si continua a lavorare e i sindacati vengono a dire che bisogna ragionare e di lottare non si parla mai. Signor padrone ci siam svegliati e questa volta si dà battaglia e questa volta come lottare lo decidiamo soltanto noi. Vedi il crumiro che se la squaglia senti il silenzio nelle officine forse domani solo il rumore della mitraglia tu sentirai67!

Nonostante i primi brigatisti si occupassero, come abbiamo visto, di svariati problemi che affliggevano la società, il principale ambito di intervento delle Brigate rosse, in quel periodo, restò comunque quello delle fabbriche. Così, il 25 gennaio del 1971, le Br furono protagoniste del loro primo grande attentato incendiario. Colpirono infatti la pista prova-pneumatici della Pirelli a Lainate, bruciando 3 camion. Rivendicarono il tutto in un volantino che venne diffuso alla Pirelli il 5 febbraio. Nel documento, che si apriva con l’avvertimento «indietro non si torna!», oltre agli evidenti riferimenti all’operaismo68, si notava una certa radicalizzazione dei termini che venivano utilizzati per riferirsi al padrone, che ora iniziava ad essere definito «un porco»69. Come ha osservato Jacques Sémelin, la «riduzione alla condizione bestiale» del nemico è un «indice molto importante della possibilità che la violenza si scateni contro di lui». Determinati nomi di animali vengono infatti utilizzati per esprimere «l’ostilità» che si prova verso il nemico. Il politologo francese sostiene dunque che «la disumanizzazione» passa attraverso quella «riduzione dell’Altro ad animale che lo pone fuori dall’ambito delle relazioni umane»70. Dall’operaismo non si riprendevano soltanto le riflessioni sulle contraddizioni del sistema, ma – come dimostra il settimo comunicato della Pirelli – venivano seguite anche le indicazioni che quegli intellettuali degli anni ’60 avevano fornito per contrastare l’attività del padrone. Si pensi ad esempio all’invito a praticare il sabotaggio, una tecnica vecchia che però dava sempre i suoi frutti. Come dimostravano le azioni svolte fino a quel momento, i brigatisti ritene67 Cit. in Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, cit., p. 66. 68 Nel testo si legge, ad esempio: «Continueremo con forme di lotta più avanzate sulla strada già intrapresa: attacco alla produzione, molto danno per il padrone, poca spesa per noi», cfr. Brigata rossa Pirelli, Comunicato n. 6, 1971, cit., p. 99. 69 Brigata rossa Pirelli, Comunicato n. 6, 1971, cit., p. 100. 70 J. Sémelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Einaudi, Torino 2007, p. 41.

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vano di concentrarsi sugli stessi obiettivi del movimento di massa, cercando così di «guadagnare l’appoggio e la simpatia delle masse proletarie»71. La violenza contro le persone. Il brigatista rapitore Già nel febbraio del 1971 i brigatisti avevano tuttavia comunicato che prima o poi avrebbero iniziato a colpire anche le persone, non limitandosi più soltanto alle cose. Questo importante salto di qualità, a detta dei militanti delle Br, non sarebbe stato frainteso dalla classe operaia, ora in grado di distinguere tra «la giusta violenza del proletariato in lotta e la ottusa violenza criminale dei padroni»72. La svolta arrivò il 3 marzo del 1972, quando le Brigate Rosse organizzarono il primo rapimento della loro storia. La vittima fu Idalgo Macchiarini, un dirigente della Sit-Siemens che era responsabile della produzione. Macchiarini venne sequestrato a Milano e, dopo aver subìto un processo proletario in un furgone FIAT 850, fu rilasciato in libertà provvisoria. Durante il sequestro la vittima venne anche fotografata con un cartello, una tecnica che sarebbe poi stata utilizzata anche nei sequestri successivi: BRIGATE ROSSE. MORDI E FUGGI. NIENTE RESTERÀ IMPUNITO. COLPISCINE UNO PER EDUCARNE ALTRI CENTO. TUTTO IL POTERE AL POPOLO ARMATO73.

«Niente resterà impunito» era lo stesso slogan che svariati gruppi di studenti uruguaiani, che seguivano da vicino le azioni dei Tupamaros, avevano lanciato qualche anno prima. In uno dei tanti volantini che avevano distribuito, si leggeva infatti: «Quelli che ci mettono in galera per conservare i loro privilegi, sappiano che anche il popolo oggi ha il suo carcere; coloro che commettono delitti contro il popolo truffando, rubando, sfruttando, arricchendosi con svalutazioni e speculazioni, non resteranno impuniti»74. La foto di Macchiarini, nella quale spiccava anche il simbolo delle Br, la stella a cinque punte, venne spedita all’Ansa di Milano e fece il giro di tutti i giornali più importanti75. Un’immagine che, secondo l’ex brigatista Paola Besuschio, sfatava «il mito dell’invulnerabilità del potente»76. 71 Brigata rossa Pirelli, Comunicato n. 7, 1971, cit., p. 102. 72 Brigata rossa Pirelli, Comunicato n. 6, 1971, cit., p. 100. 73 Per la foto in questione, si veda Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 141. 74 Dueñas Ruiz, Rugnon De Dueñas, Tupamaros. Libertà o morte, cit., pp. 55-56. 75 Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 38. 76 Intervista a Paola Besuschio, in Zavoli, La notte della Repubblica, cit., p. 108.

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Il salto di qualità compiuto dai brigatisti con questa azione fu sicuramente notevole, dal momento che Macchiarini era il primo dirigente di una fabbrica del calibro della Sit-Siemens a subire un sequestro politico. Con il rapimento di Macchiarini, le Br avevano quindi deciso di alzare il tiro: i padroni dovevano sapere che questi «nuovi partigiani» non si limitavano a colpirli nei loro beni privati, ma sapevano anche attaccarli direttamente, scaricando tutto l’«odio proletario» sull’essere umano. L’azione – ha dichiarato Renato Curcio – venne pensata «nello stile dei Tupamaros: un breve sequestro dimostrativo-punitivo di un personaggio simbolo particolarmente odiato»77. Come aveva infatti spiegato un militante dei Tupamaros in un’intervista, il sequestro di persona faceva parte della strategia di «attacco sistematico al regime», che sarebbe stato colpito «attraverso continue azioni contro il suo pilastro fondamentale, costituito dalle forze repressive»78. Sottolineando i vantaggi offerti dal sequestro di persona, i Tupamaros scrivevano che la «prigionia rivoluzionaria» offriva delle «incalcolabili possibilità», dal momento che poteva essere utilizzata per punire «personaggi del regime», «sbirri della repressione», «rappresentanti stranieri» e «uomini chiave del regime in generale». Tenendoli prigionieri per un tempo indeterminato, si otteneva infatti «l’integrità fisica dei rivoluzionari prigionieri» e anche «una certa cautela nei procedimenti di repressione». Il nemico veniva inoltre costretto a disperdere le sue forze per cercare i prigionieri e per proteggere altri potenziali obiettivi. Il «carcere rivoluzionario» – a detta dei Tupamaros – era quindi uno degli strumenti più efficaci per «sconvolgere i piani del regime»79. L’esigenza di introdurre un nuovo tipo di azione dipendeva, come ha poi affermato Alberto Franceschini, dalla distanza che separava i grandi discorsi che i brigatisti facevano e le azioni che poi riuscivano effettivamente a mettere in pratica: C’era addirittura chi identificava i brigatisti come quelli che «mandano a fuoco le macchine» e la nostra immagine rischiava di diventare quella di innocui ragazzi bombaroli. Noi invece volevamo essere i guerriglieri, combattere una guerra vera. Fu per questo che cominciammo a pensare a un altro tipo di azione, clamorosa, che desse di noi l’immagine di un’organizzazione efficiente, in grado di colpire chiunque e ovunque80.

Come era successo per la prima azione incendiaria, i brigatisti si sentirono in qualche modo costretti a compiere questo importante passo in avanti. Lo percepirono come una tappa decisiva del loro percorso, alla cui base vi era la conquista 77 Curcio, A viso aperto, cit., p. 70. 78 Intervista a un Tupamaro, cit., p. 187. 79 I Tupamaros in azione. Testimonianze di guerriglieri, Feltrinelli Editore, Milano 1971, p. 15. 80 Franceschini, Buffa, Giustolisi, Mara Renato e io, cit., p. 57.

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dell’«appoggio» e della «simpatia delle masse proletarie». E, come era avvenuto per l’attentato incendiario a Leoni, l’azione venne pensata ascoltando i discorsi degli operai della Sit-Siemens, che fornirono ai brigatisti l’identificazione precisa dell’obiettivo. Macchiarini era infatti uno dei dirigenti più odiati dagli operai, tanto che questi, in alcuni cortei interni, avevano cercato di raggiungerlo nel suo ufficio, tentando – invano – anche di sottoporlo ad un processo pubblico81. Come ha confermato Mario Moretti, Macchiarini, oltre a svolgere il suo ruolo per quello che era, «come quasi tutti i dirigenti di quel periodo», spesso provocava gli operai in lotta, per cui era «un bersaglio fisso dei cortei interni»82. Sequestrare questo «rognoso» dirigente, nella mente dei brigatisti, significava quindi prolungare il corteo interno degli operai, dal momento che Macchiarini avrebbe subìto un processo proletario. Quel processo proletario, si leggeva nel comunicato di rivendicazione, era anche un avvertimento a tutti gli altri responsabili della «controrivoluzione antioperaia», di qualunque fabbrica e di qualsiasi città: «Alla guerra rispondiamo con la guerra. Alla guerra su tutti i fronti con la guerra su tutti i fronti. Alla repressione armata con la guerriglia»83. Era chiaro dunque che con quell’azione i brigatisti informavano l’opinione pubblica che la loro formazione armata avrebbe intrapreso delle azioni ancora più clamorose, perché, come avevano già scritto l’anno precedente, «indietro non si torna!»84. Il passaggio dalla violenza contro le cose alla violenza contro le persone fu sicuramente un salto di qualità notevole per tutti brigatisti. Molti militanti, come ha ricordato l’ex brigatista Alfredo Buonavita, non riuscirono mai a vincere l’idea della violenza alla persona, soprattutto se questa era indifesa. Si innescava un vero e proprio «moto di repulsione», ha detto Buonavita. Le reazioni variavano comunque da militante a militante. Vi era infatti anche chi sviluppava dei livelli di «psicopatia», di «sadismo», dando vita ad una rincorsa a chi era «più duro» e «più cattivo». Fu così – secondo Buonavita – che si arrivò anche ad ammazzare85. La violenza fisica, ha fatto notare Wolfgang Sofsky, è infatti «la più intensa prova di potere», perché «colpisce la vittima direttamente nel centro della sua esistenza, nel corpo». Secondo il sociologo tedesco, «nessun linguaggio possiede una forza di persuasione maggiore del linguaggio della violenza». Un linguaggio, quello della violenza 81 Ibidem, p. 58. 82 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 27. 83 Rivendicazione del sequestro Macchiarini, comunicato di rivendicazione diffuso a Milano il 3 marzo 1972, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 152. 84 Si veda a tal proposito, Brigata rossa Pirelli, Comunicato n. 6, 1971, cit., p. 99. 85 Intervista di Luisa Passerini ad Alfredo Buonavita, in Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo», Storie di lotta armata, cit., p. 141.

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fisica, che «non necessita di alcuna traduzione e non lascia aperte domande»86. In quel periodo, i brigatisti della colonna torinese iniziarono poi a schedare tutti gli elementi della destra estrema che lavoravano in FIAT, pedinandoli e annotando i loro comportamenti e le loro abitudini87. La violenza nei loro confronti era giustificata dal fatto che questi «fascisti», insieme ai capi, ai capetti e alle spie del Sida, erano le «mitragliatrici» con cui i padroni stavano già sparando sul proletariato. Gli strumenti che utilizzavano per concretizzare questo attacco erano i licenziamenti politici, la soppressione delle libertà di movimento per i delegati, le denunce, le lettere di preavviso, le sospensioni, le aggressioni e gli arresti sui picchetti. L’invito alla classe operaia a praticare una violenza organizzata nei loro confronti era eloquente: Questi nemici dell’unità operaia dobbiamo ridurli al silenzio, dobbiamo colpirli duramente, con metodo, nelle persone e nelle loro cose, dobbiamo cacciarli dalle fabbriche e inseguirli nei quartieri, non dobbiamo concedergli un minuto di tregua88!

Che i brigatisti avessero deciso di passare alla violenza contro le persone venne confermato all’inizio dell’anno successivo, quando rapirono il sindacalista Bruno Labate. Prima di essere rimesso in libertà, Labate venne addirittura rasato e incatenato. Fu quindi lasciato in mutande, allo scopo di umiliarlo, davanti all’ingresso di Mirafiori, di fronte a centinaia di operai, che – ha ricordato Renato Curcio – invece di soccorre il sindacalista, lo insultarono pesantemente. All’arrivo della Polizia, nessuno avrebbe dato indicazioni utili all’identificazione dei brigatisti 89. Questi salti di qualità nel ricorso alla violenza contro gli uomini del potere – come avrebbe poi confermato Patrizio Peci, riferendosi ad una fase più avanzata della lotta – erano ritenuti legittimi dai brigatisti in virtù dei benefici che portavano alla classe operaia: Colpirne uno per educarne cento. Sapevo che dopo ogni azzoppamento di un capo la vita degli operai in fabbrica migliorava, perché i capi si spaventavano e si ammorbidivano. E pensavo che, di conseguenza, prima o poi gli operai ci avrebbero dato ragione, ci avrebbero seguito90.

Le azioni violente, come quella di cui era rimasto vittima Labate, suscitavano ovviamente delle emozioni nei militanti. A questo proposito, l’ex brigatista Alfre86 W. Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino 1998, p. 13. 87 Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 53. 88 Forza di massa, volantino diffuso a Torino il 18 dicembre 1972, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 197. 89 Curcio, A viso aperto, cit., p. 80. 90 Peci, Io l’infame, cit., p. 23.

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do Buonavita ha spiegato che le azioni di questo genere provocavano due tipi di reazione: da un lato «c’era chi riusciva ad avere continuamente un punto di vista politico anche rispetto all’avversario, alla persona, per cui c’era l’odio, il distacco»; dall’altro c’erano delle persone che invece, «esaurito diciamo l’attimo in cui devo metterti le manette e portarti via dopo ci si scioglieva nel…». Buonavita apparteneva a questa seconda schiera, tanto che, durante il sequestro Labate, dopo aver ammanettato l’ostaggio, compì un gesto insolito: «A un certo punto, sono andato a comprargli delle caramelle, una bibita, perché questo aveva sete, stava male, insomma, era un po’… la tensione nervosa, non aveva più salivazione»91. Le difficoltà iniziali che i brigatisti incontrarono nel compiere azioni di questo genere sono state confermate anche da Mario Moretti: «Un’azione armata è anche un fatto fisico tremendo, bisogna vincere la paura, andare contro la propria natura – come saltare un metro e ottanta, la convinzione non basta»92. Le Br avevano quindi deciso di proseguire sulla strada della violenza contro le persone, per colpire il fascismo e lo Stato, lanciando il motto: «Il voto non paga! Prendiamo il fucile!»93. Un motto, quello brigatista, che non sembra poi così distante da quello lanciato dall’Unione dei lavoratori zuccherieri di Artigas (U.T.A.A.), l’organizzazione sindacale fondata da Raúl Sendic, uno dei leader dei Tupamaros: «Finché i ricchi stanno al potere, non si aggiusta nulla con le elezioni»94. I brigatisti ritenevano di trovarsi di fronte ad uno «stato militarizzato», che non riuscendo ad organizzare il consenso in via pacifica, lo imponeva con le armi. Gli esempi più significativi erano i «grandi rastrellamenti» ai quali erano sottoposte le metropoli del nord – il riferimento era ai continui posti di blocco e all’impiego di ingenti forze di polizia e carabinieri –, ma anche gli attacchi terroristici – veniva citata la bomba di piazza Fontana – e le attività di provocazione ai danni delle formazioni armate rivoluzionarie, come ad esempio l’«assassinio» di Feltrinelli. L’opposizione a questo progetto, secondo i brigatisti, doveva avere un «respiro strategico», doveva essere cioè una «opposizione armata»95. Nel 1974, i brigatisti si resero tuttavia protagonisti di un nuovo salto di qualità. La decisione di portare l’attacco al cuore dello Stato, come anticipavamo in precedenza, introdusse infatti alcuni importanti cambiamenti che segnarono profondamente la figura del brigatista. Tra queste novità, la più importante fu, senza ombra di dubbio, la pianificazione della morte del nemico; una dramma91 Intervista di Luisa Passerini ad Alfredo Buonavita, cit., pp. 117-118. 92 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 28. 93 Contro il fascismo guerra di classe, 1972, cit., p. 153. 94 Artigas volle terra per chi la lavora, in Dueñas Ruiz, Rugnon De Dueñas, Tupamaros. Libertà o morte, cit., p. 27. 95 Il voto non paga, prendiamo il fucile!, documento brigatista diffuso a Milano nell’aprile 1972, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 157-158.

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tica novità che prese vita durante il sequestro del giudice genovese Mario Sossi. I brigatisti avevano infatti capito che se avessero continuato a concentrare la loro azione tra le presse e le catene di montaggio, avrebbero avuto sempre a che fare con interlocutori di secondo piano, come Macchiarini e Amerio96. Serviva invece un salto di qualità. Il 18 aprile del 1974, una data altamente simbolica – come ha ricordato lo storico Angelo Ventrone97–, le Br, che non erano ancora presenti a Genova con una colonna o una brigata, sequestrarono così il giudice genovese Mario Sossi. Per il rilascio dell’ostaggio, i brigatisti proposero uno scambio di prigionieri politici, chiedendo la liberazione di alcuni militanti della XXII Ottobre98. Una volta constatato però che le forze reazionarie non erano disponibili a trattare con le Br per la liberazione di Sossi, i brigatisti diffusero un comunicato dal contenuto sconvolgente. Nel testo, i brigatisti – per la prima volta – si dissero infatti pubblicamente disponibili ad eliminare fisicamente l’ostaggio. Dopo aver duramente criticato l’atteggiamento della borghesia, rea di aver abbandonato uno dei suoi «soldati», i brigatisti dichiaravano di essere pronti ad assumersi tutte le responsabilità di fronte al movimento rivoluzionario, affermando che se nelle successive 48 ore i compagni della XXII Ottobre non fossero stati liberati, Mario Sossi sarebbe stato giustiziato99. Il sequestro Sossi ricopre quindi un ruolo fondamentale per comprendere il percorso che avrebbe portato i brigatisti a compiere quotidianamente azioni violente contro la persona e ad accettare anche l’omicidio come un’eventualità imposta dallo scontro di classe: Con Sossi – ha spiegato Alberto Franceschini – entrò nelle Brigate rosse la pianificazione della morte: il sequestro del magistrato genovese fu la prima azione in cui avevamo previsto la possibilità di uccidere l’ostaggio. E avevo deciso, come responsabile militare di quel rapimento, che se fosse stato necessario sarei stato io a sparargli100.

La condanna a morte sentenziata dal «tribunale rivoluzionario» venne presa sul serio da gran parte dell’opinione pubblica e anche da qualche forza politica. 96 Franceschini, Buffa, Giustolisi, Mara Renato e io, cit., p. 86. 97 Lo stesso giorno del sequestro del giudice Mario Sossi, Gianni Agnelli veniva nominato presidente di Confindustria. Il 18 aprile ricordava inoltre la conquista dell’egemonia democristiana con le elezioni del 1948, cfr. Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 299. 98 Il sequestro Sossi – Comunicato n. 4, comunicato diffuso il 5 maggio 1974, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 278-279. 99 Il sequestro Sossi – Comunicato n. 6, comunicato diffuso il 18 maggio 1974, poi pubblicato dal quotidiano romano “Paese Sera” il 19 maggio 1974, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 288-289. 100 Franceschini, Buffa, Giustolisi, Mara Renato e io, cit., p. 85.

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Fu così che il 20 maggio si assistette ad una vera e propria svolta, quando la Corte d’assise d’appello di Genova concesse la libertà provvisoria agli 8 detenuti della XXII Ottobre che erano stati individuati dai brigatisti101. Proprio quando l’impasse sembrava essersi risolta, il procuratore generale Francesco Coco, considerato dai brigatisti un «servo fedele» di Taviani, nonché regista del processo alla XXII Ottobre, bloccò tuttavia lo scambio di prigionieri. E anche il governo, nella persona del presidente del Consiglio Rumor, continuò a sposare la linea dell’intransigenza. I brigatisti decisero tuttavia di rilasciare l’ostaggio. Nella decisione dei sequestratori di liberare Sossi giocò un ruolo, a mio parere, decisivo anche la componente psicologica. Come è già stato evidenziato, i brigatisti fino a quel 18 aprile 1974 avevano sì compiuto delle azioni eclatanti, incendiando auto e sequestrando, anche se per poche ore, qualche quadro dirigente di fabbrica, ma non avevano mai pianificato l’uccisione della vittima. Condannando a morte Sossi, i brigatisti decisero quindi di compiere un salto di qualità notevole. Ma, evidentemente, alcuni di quei giovani rivoluzionari non avevano la forza psicologica per compiere un passo così grande: Prima di avere Sossi con noi – ha ricordato Franceschini – dicevamo che, se le cose non fossero andate nel modo giusto, lo avremmo “giustiziato”. Ma usavamo questa parola come fosse scritta su un libro, in modo impersonale, riferendo di un atto formale come è, ai fini della storia, una fucilazione. Vivendo con lui, provvedendo ai suoi bisogni elementari, vedendolo piangere, non ci commuoveva certo, ma la frase “lo giustiziamo” sparì dai nostri discorsi. Quando non ne potevamo fare a meno la sostituivamo con circonlocuzioni, senza mai entrare nei dettagli. L’eventualità era tutta politica e la si analizzava solo sotto questo profilo, come se poi non sarebbe arrivato il momento in cui qualcuno di noi avrebbe dovuto premere il grilletto. Non so quindi se decidemmo di liberarlo solo per motivi politici, perché così era meglio per l’organizzazione o perché, senza confessarcelo, nessuno se la sentiva realmente di dargli la morte102.

Per molti di loro, uccidere l’ostaggio avrebbe infatti significato uccidere anche se stessi, reprimendo quella stessa sensibilità che li aveva portati a desiderare un mondo nuovo e, soprattutto, un uomo nuovo, liberato finalmente dall’alienazione della società contemporanea. I sequestratori di Sossi scelsero dunque per la vita dell’ostaggio, rinunciando ad incassare una sconfitta che prima ancora che politica, sarebbe stata una sconfitta esistenziale.

101 Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 83. 102 Franceschini, Buffa, Giustolisi, Mara Renato e io, cit., pp. 100-101.

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Il militante di professione: la clandestinità, le rapine e le armi Nel 1972, la polizia, che stava già seguendo la pista brigatista dall’anno precedente, decise di provare a smantellare l’intera organizzazione. Questa scelta – come vedremo – determinò un’importante trasformazione della figura del brigatista. Fu infatti a seguito di quell’operazione delle forze dell’ordine che nacque il militante di professione. Cinque giorni prima delle elezioni politiche, fissate per il 7-8 maggio, la polizia scoprì due basi milanesi delle Br – il covo di via Boiardo e quello di via Delfico – e vennero arrestati una trentina di brigatisti. Stranamente le forze dell’ordine intervennero immediatamente, trascinandosi dietro un cordone di giornalisti, senza aspettare l’arrivo di tutti gli altri militanti, che erano ormai ben noti agli schedari della polizia. Mara Cagol, Renato Curcio, Alberto Franceschini e anche Mario Moretti – entrato nelle Br nella primavera del ’71 – riuscirono così ad evitare l’arresto. Decisiva per la retata della polizia fu la delazione di Marco Pisetta, un giovane amico di Curcio che era già stato arrestato nel 1970. Pisetta iniziò una collaborazione con gli inquirenti e arrivò così a redigere anche un memoriale, scritto a Monaco di Baviera nel settembre del 1972, in cui divulgava delle informazioni molto dettagliate sull’organizzazione delle Brigate Rosse103. Gli arresti che colpirono le Br nella primavera del ’72 spiazzarono tutti i brigatisti che erano rimasti in libertà. «Mi ritrovo isolato dagli altri compagni, finiti in galera o fuggiti, senza una base in cui rifugiarmi, senza altro che gli abiti che ho addosso, senza sapere dove passare la notte», ha ricordato Mario Moretti104. Molti brigatisti pensarono anche di lasciare l’organizzazione, ma la voglia di non abbandonare i compagni che avevano creduto in loro li portò a scartare questa opzione. La retata del ’72 fu quindi un passaggio cruciale nell’evoluzione della figura del brigatista, che proprio da quel momento comprese l’inadeguatezza di quella struttura aperta che aveva caratterizzato l’organizzazione fino a quel momento. Nei primi anni, ad esempio, i brigatisti si erano dimostrati ansiosi di coinvolgere sempre nuovi compagni nelle azioni, prestandosi facilmente alle infiltrazioni da parte delle forze dell’ordine. Era prevalso – come ha affermato Alberto Franceschini – «l’aspetto ludico della rivoluzione, il sentirsi liberi e potenti, la sensazione 103 È opinione diffusa che Marco Pisetta fu un infiltrato del Servizio di informazione democratica (Sid), il servizio segreto militare italiano, prima nei Gap di Feltrinelli e poi nelle Br. Secondo molti anche il memoriale venne redatto direttamente dal Sid. Dopo essere stato fermato il 2 maggio del ’72 insieme agli altri brigatisti, Pisetta venne rimesso in libertà e, molto probabilmente grazie all’aiuto del Servizio, riuscì a riparare all’estero, dove iniziò appunto a scrivere il memoriale. Per il memoriale, si veda Il memoriale Pisetta, scritto a Monaco di Baviera e datato 29 settembre 1972, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 160-192. 104 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 53.

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di poter fare, con dei baffi finti e un nome falso in tasca, ciò che più ci piaceva»105. Tutti i brigatisti che scelsero di continuare sulla strada della lotta armata, restando fedeli alle Br, decisero così di mettere in disparte quell’aspetto ludico della rivoluzione; organizzazione e clandestinità diventarono allora le nuove parole chiave della ristrutturazione delle Brigate Rosse. «La clandestinità» – ha spiegato Moretti – «diventa la chiave del nostro modo di essere»106. Nacque proprio nel 1972 l’organizzazione divisa in colonne e in brigate di fabbrica e di quartiere, strutturate sulla base del principio della compartimentazione; quest’ultimo stabiliva che ogni gruppo sapesse esclusivamente ciò che era necessario per lo svolgimento della sua attività, onde evitare, nel caso dell’arresto di un militante, la compromissione di altre strutture. «La sola cosa che non potrai mai dire è quella che non sai», ha scritto Mario Moretti, riferendosi proprio ai vantaggi offerti al gruppo armato dalla compartimentazione107. Come recitava l’articolo 21 del Regolamento dell’Organizzazione, la compartimentazione era «uno dei principi fondamentali della sicurezza» anche per i Tupamaros108. Intervistato sull’argomento, un militante della formazione rivoluzionaria uruguaiana si era soffermato proprio sull’importanza della compartimentazione: Possiamo dire che la compartimentazione e la discrezione sono per il guerrigliero urbano ciò che, per il guerrigliero rurale, è il sentiero segreto della foresta. Il non sapere più di quello che si deve sapere, il non fare commenti oltre quello che si deve, il non conoscere più luoghi del necessario per i propri movimenti, il non conoscere più persone, compresi i compagni della cellula, di quelli che si deve conoscere, l’uso di soprannomi e mai di nomi veri, sono la garanzia per cui, se il movimento viene colpito in qualcuno dei suoi quadri, le conseguenze siano sempre limitate o nulle. Diciamo che è la nostra corazza109.

Secondo i Tupamaros, la compartimentazione era quindi «il principale strumento di difesa dell’organizzazione». Insomma, «un’esigenza vitale», senza la quale la guerriglia urbana sarebbe stata impensabile110. I brigatisti prestarono maggiore attenzione anche al reperimento delle armi, abbandonando i traffici clandestini – controllati, secondo loro, dalla malavita e dai servizi segreti – e iniziando a rifornirsi soprattutto all’estero, in Svizzera e in Liechtenstein111. 105 Franceschini, Buffa, Giustolisi, Mara Renato e io, cit., p. 68. 106 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 54. 107 Ibidem, p. 77. 108 Regolamento dell’Organizzazione, in Dueñas Ruiz, Rugnon De Dueñas, Tupamaros. Libertà o morte, cit., p. 225. 109 Intervista a un Tupamaro, cit., p. 202. 110 Tupamaros in azione, cit., p. 221. 111 Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 51.

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Infine, venne stabilita anche una differenziazione tra i militanti irregolari e quelli regolari – i clandestini –, che a partire da allora iniziarono a percepire uno stipendio corrispondente a quello di un metalmeccanico. Oltre allo stipendio, il militante aveva diritto a due buoni acquisto per vestiti del valore di 50 mila lire cadauno e ad un rimborso spese per la benzina. La ripartizione dei fondi era fondamentale per il brigatista, non tanto per il suo valore materiale, bensì per gli effetti psicologici che provocava: La ripartizione rigorosa dei fondi era fondamentale soprattutto dal punto di vista psicologico. Era il modo più concreto per non sentirci banditi che si dividevano il bottino bensì «funzionari» di un partito che perseguiva un progetto, che difendeva una causa. Era uno stipendio magro, quello dei metalmeccanici, ma anche se arrivavamo a stento alla fine del mese a nessuno veniva in mente di toccare una lira del «tesoro», così chiamavamo la cassa comune, nemmeno per un «anticipo sullo stipendio»112.

Da un punto di vista economico l’organizzazione si sostentava attraverso le rapine, le uniche forme di autofinanziamento. La rapina costituì un aspetto importante nella vita di tutti i brigatisti, la maggior parte dei quali incontrò più difficoltà a rubare che a sequestrare un dirigente di fabbrica. In una rapina risultava infatti più complicato trovare la finalità politica, l’unica motivazione che era a fondamento della scelta di essere un brigatista. Come ha confermato Alberto Franceschini: Diventare rapinatore è stato l’ostacolo più difficile da superare nella mia vita di brigatista. Temevo l’arresto durante una rapina, non per paura della galera, ma perché non volevo finirvi perché sorpreso a rubare. Sarebbe stato facile per tutti bollarci come delinquenti comuni che, nascosti dietro la stella a cinque punte, si arricchivano, annullando così il valore della nostra scelta. Non avevo dubbi, avrei preferito morire in un’azione di guerriglia piuttosto che essere arrestato con il sacco dei soldi in mano113.

Mario Moretti ha spiegato infatti che la differenza tra un «esproprio» e un «furto» puro e semplice consiste soltanto nel fatto che il soggetto che compie l’azione «sia riconosciuto dal movimento» e «abbia una credibilità come organizzazione rivoluzionaria». Per i brigatisti di quegli anni tuttavia questo non era affatto assodato; insomma – ha aggiunto Moretti – «era ancora tutto da dimostrare». Così, alla prima rapina, Moretti e compagni erano «preoccupatissimi»: «Oltre al moralismo operaio che ci portavamo dentro – un operaio non ruba – che cosa ci autorizzava a dire che si agiva in nome della classe operaia e della rivoluzione?»114. Eppure – come ha sottolineato Marco Fagiano, che aveva militato nell’area 112 Franceschini, Buffa, Giustolisi, Mara Renato e io, cit., p. 70. 113 Ibidem, p. 45. 114 Moretti, Brigate Rosse, cit., pp. 25-26.

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dell’Autonomia –, non ci volle molto tempo per vincere quelle preoccupazioni. Presto le rapine diventarono infatti «operazioni come le altre»115. Espropri e rapine erano ritenuti legittimi anche dai Tupamaros. Nel Regolamento dell’Organizzazione, i militanti dei Tupamaros avevano infatti spiegato che la «proprietà borghese» era stata «accumulata mediante lo sfruttamento dei lavoratori». Questa veniva pertanto considerata come «la naturale fonte di risorse» dei rivoluzionari, che si riservavano così «il diritto di espropriarla senza alcun indennizzo». «La rivoluzione» – ricordavano i Tupamaros – «si serve del superfluo dei privilegiati»116. Anche i guerriglieri uruguaiani si erano tuttavia posti il problema che il popolo potesse scambiarli per «delinquenti». Per dimostrare quindi che le «espropriazioni» erano «mezzi legittimi per un movimento rivoluzionario», i Tupamaros decisero che sarebbero stati espropriati soltanto «i capitalisti e lo stato»117. Come ha spiegato Alberto Franceschini, la scelta di organizzare rapine in banca era soprattutto una scelta ideologica. Esistevano sicuramente delle strade più sicure ed efficienti per procurarsi il denaro, ma espropriare un istituto finanziario significava, per i brigatisti, compiere «il primo passo concreto di espropriazione di quello che Lenin chiamava il capitale finanziario». Ecco perché – ha aggiunto Franceschini – «portavamo via solo i soldi della banca, e non ad esempio i soldi dei clienti»118. «Non eravamo mica banditi», ha concluso Valerio Morucci119. Un altro ostacolo che i militanti delle Brigate Rosse dovettero superare fu quello delle armi. Come ha ricordato l’ex brigatista Alfredo Buonavita, chi aveva fatto politica in precedenza aveva «un mare di difficoltà rispetto all’azione militare». Renato Curcio, ad esempio, non sapeva assolutamente utilizzare la sua pistola. Secondo Buonavita, «l’uso delle armi» entrava in contraddizione con l’«aver fatto politica a livello legale»: «C’è voluto molto tempo per vincere questo fatto, capire appunto che tu, bene o male, devi portare un’arma addosso perché sei latitante e perché può servirti». Questo passaggio fu invece molto meno problematico per i ragazzi più giovani, vale a dire quei militanti che avevano un’età compresa tra i 18 e i 19 anni120. Le armi, ha spiegato l’ex brigatista Antonio Savasta, esercitavano un grande fascino su questi ragazzi. Se «la legalità» non dava modo di risolvere i problemi della società contemporanea – non soltanto in termini «politici», ma anche in termini «personali», di «aspirazione» e di «liberazione» –, le armi cominciavano 115 Intervista a Marco Fagiano, in Novelli, Tranfaglia, Vite sospese, cit., p. 408. 116 Regolamento dell’Organizzazione, cit., p. 229. 117 Tupamaros in azione, cit., p. 16. 118 Intervista ad Alberto Franceschini, in Zavoli, La notte della Repubblica, cit., p. 118. 119 V. Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, Piemme, Casale Monferrato 1999, p. 163. 120 Intervista di Luisa Passerini ad Alfredo Buonavita, cit., p. 121.

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invece ad essere viste come «la soluzione». «C’è questa immagine dell’arma» – ha detto Savasta – «che ti da più forza, più possibilità, che può rompere questa realtà di accerchiamento, di oppressione e di reazione. Il problema non è tanto la pistola con cui si va in giro, l’oggetto che ti dà forza, ma è l’idea dell’oggetto». Nella maggior parte dei casi, infatti, le pistole non erano nemmeno un granché; c’era tuttavia «l’idea che attraverso la clandestinità, l’uso delle armi, della violenza si potessero realmente risolvere dei problemi»121. Paolo Lapponi di Potere Operaio ha voluto sottolineare che «le armi hanno un fascino in sé, che poi è un fascino che ti fa sentire in qualche modo più […] virile, una cosa del genere… Siccome io odio, non so, menare le mani, mentre mi sembrava una cosa più nobile usare le armi anziché, non so, fare a pugni». Le armi davano quindi una sensazione di virilità, «tant’è vero» – ha aggiunto Lapponi – «che come tutti anch’io, non so, mi capitava […] di farle vedere alle donne per tentare, appunto, di conquistarle»122. Anche Adriano Roccazzella, un ex militante di Prima Linea, si è voluto soffermare sul fascino delle armi, che venivano davvero viste come uno strumento indispensabile per cambiare il mondo attuale: «Avevo scambiato la pistola con la chiave inglese, solo che la prima presentava una efficacia maggiore ancora tutta da sperimentare e realizzare. L’aspetto innovativo […] mi coinvolgeva in maniera totale»123. Insomma, come è stato detto, le armi erano diventate «uno strumento per dare “l’assalto al cielo”»124. Tra il militante e l’arma si veniva così a creare un rapporto speciale. Ricordando la sua prima pistola, Patrizio Peci ha scritto: «La pulivo perfettamente, la trattavo con cura e in qualche modo le volevo bene. Bisogna stare in clandestinità per capire una cosa simile: hai tutto lo stato – esercito, polizia, carabinieri – contro, e tu hai solo quell’oggetto prezioso e fortissimo dal quale dipenderà la tua vita… Era una buona amica, guai a chi la toccava, ne ero geloso più di qualsiasi donna»125. Il valore dell’arma – ha osservato Sofsky – non si riduce quindi esclusivamente «alla forza distruttiva reale». L’arma è invece carica anche di altri significati: è sia «violenza oggettivata», che «violenza simbolica». L’arma dimostra infatti «potere» e «forza»; «incoraggia» chi la possiede e «intimorisce» il nemico. Gli uomini, secondo il sociologo tedesco, dedicano tutta la loro sensualità all’arma, perché questa è «strumento e segno di morte». L’arma sposta infatti la posizione 121 Intervista di Giuseppe De Lutiis ad Antonio Savasta, in Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo», Storie di lotta armata, cit., p. 441. 122 Intervista di Luigi Manconi a Paolo Lapponi, in Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo», Storie di lotta armata, cit., pp. 196-197. 123 Intervista ad Adriano Roccazzella, in Novelli, Tranfaglia, Vite sospese, cit., p. 339. 124 Intervista a Marco Fagiano, cit., p. 406. 125 Peci, Io l’infame, cit., p. 70.

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dell’uomo nel mondo, «cambia il suo rapporto con spazio e tempo, con gli altri e con se stesso». Si tratta inoltre di un oggetto tecnico con il quale l’uomo «crea un ideale di se stesso». Non ci sarebbe dunque da meravigliarsi se egli «la adora come un idolo» e «ne glorifica la forza». Insomma – conclude Sofsky –, «adorando la loro arma, gli esseri umani celebrano il fatto di essere più di ciò che sono»126. Dopo gli arresti del maggio 1972, le Brigate Rosse riuscirono dunque a riorganizzarsi, anzi si organizzarono davvero per la prima volta nella loro storia, abbandonando quel modello di gruppo aperto che era stato seguito nei mesi precedenti. Sfruttando tutta la rete di simpatizzanti, attivi soprattutto nelle fabbriche del nord Italia, sui quali le Br potevano contare, presero vita due colonne. Alberto Franceschini e Mario Moretti pensarono alla riorganizzazione della colonna milanese, mentre Renato Curcio e Mara Cagol inaugurarono la colonna torinese. A coordinare le due colonne vi era «il Nazionale», un organo che era composto da Curcio, Cagol, Franceschini, Moretti e dal brigatista Morlacchi127. Questa non fu tuttavia la struttura definitiva, alla quale si sarebbe arrivati soltanto nel 1974. Proprio a partire da quell’anno, la figura del militante di professione mutò notevolmente, dal momento che il brigatista si trovò impegnato in un conflitto che aveva delle dimensioni ben superiori a quelle delle lotte operaie. Scegliendo di colpire il cuore dello Stato, divenne infatti necessario darsi un’organizzazione ancora più complessa di quella del ’72. Il militante – come vedremo nel prossimo capitolo – venne quindi costretto a rispettare delle regole precise che condizionarono pesantemente la sua vita, limitandone la libertà sotto molti punti di vista e contribuendo notevolmente ad allontanarlo da quella realtà quotidiana di fabbrica e di quartiere in cui fino ad allora era pienamente inserito. Il brigatista non è un terrorista. Il brigatista è come Robin Hood Sottolineando il loro impegno politico, in un’autointervista del gennaio del 1973, i brigatisti rifiutavano la definizione di «terroristi». Il terrorismo, secondo loro, era quello di piazza Fontana, vale a dire l’attività di una componente politica condotta dal fronte padronale che cercava di far arretrare il movimento operaio e restaurare i vecchi livelli di sfruttamento. Viceversa, fino a quel momento l’impegno del brigatista in fabbrica e nei quartieri era servito per organizzare l’autonomia proletaria per la «resistenza» alla controrivoluzione in atto e alla liquidazione delle forze rivoluzionarie tentata dai riformisti. Preso atto che i militanti si stavano impegnando per organizzare la «resistenza» e per costruire il 126 Sofsky, Saggio sulla violenza, cit., pp. 22-25. 127 Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 55.

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«potere proletario armato», i militanti delle Br si domandavano: «Cosa ha a che fare con il “terrorismo” tutto questo?»128. Nei primi anni, i brigatisti cercarono inoltre di progettare delle azioni che avrebbero potuto riscuotere consensi nel mondo operaio. Si pensi ad esempio che, il 26 novembre del 1972, dopo aver incendiato 9 automobili di «fascisti» che erano considerati implicati nell’azione repressiva del fronte padronale, i brigatisti pubblicarono un volantino di rivendicazione dell’azione, in cui chiarivano che si sarebbero impegnati a risarcire un operaio, al quale – durante l’azione – avevano involontariamente danneggiato l’automobile, una FIAT 500129. Durante la prima fase del brigatismo, in cui erano stati sì organizzati alcuni rapimenti, ma non c’erano stati né feriti né morti, le Brigate Rosse riuscirono così ad esercitare una forte attrazione, soprattutto sulle masse giovanili. Patrizio Peci, che all’epoca non era ancora entrato a far parte dell’organizzazione, ha scritto addirittura che i brigatisti di quegli anni assomigliavano a Robin Hood: «Quel modo di fare politica ci affascinava parecchio»130. Inizialmente, anche i Tupamaros erano stati visti con simpatia dalla gente. Nella fase propagandistica della loro attività rivoluzionaria, le agenzie internazionali li avevano infatti chiamati «i moderni Robin Hood»131. Nella sua analisi critica ad un’intervista rilasciata dai Tupamaros, Carlos Nuñez aveva osservato che i guerriglieri uruguaiani riuscivano «ad evitare, in ogni momento, qualsiasi deviazione verso il terrorismo indiscriminato». Il capo della polizia di Montevideo, ad esempio, aveva dichiarato alla stampa che le caratteristiche che contraddistinguevano i Tupamaros erano «la perfetta organizzazione», «la buona educazione» e «il tocco umano». Durante un assalto ad una banca, i Tupamaros avevano infatti soccorso una donna anziana che era svenuta; nel caso invece di un’azione in cui era stato previsto l’utilizzo di esplosivo, i militanti avevano avvertito gli abitanti della zona interessata, per evitare che anche loro fossero colpiti. Nell’analizzare l’idea di guerriglia promossa dai Tupamaros, Carlos Nuñez scriveva dunque che «le loro azioni colpiscono il sistema e gli interessi che esso rappresenta ma evitano di provocare vittime innocenti, cosa che susciterebbe nei loro confronti un atteggiamento di rifiuto da parte della popolazione». «La lotta urbana» – spiegava Nuñez – «esige che il militante rivoluzionario, forse ancor più che nella lotta rurale, si muova tra la popolazione “come un pesce nell’acqua”, e tutto fa supporre […] che i Tupamaros percorrono oggi una strada sempre più favorevole in questo senso»132. 128 Seconda riflessione teorica, 1973, cit., p. 208. 129 Schiacciamo i fascisti a Mirafiori e Rivalta, 1972, cit., p. 195. 130 Peci, Io l’infame, cit., p. 44. 131 Dueñas Ruiz, Rugnon De Dueñas, Tupamaros. Libertà o morte, cit., p. 36. 132 Si tratta di un estratto della nota critica di Carlos Nuñez all’intervista Teoria e pratica dei Tu-

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Nel Regolamento dell’Organizzazione, gli stessi militanti uruguaiani avevano scritto che «l’attentato terrorista» – una variante dell’attentato in cui venivano colpite indiscriminatamente molte persone – era un’opzione da scartare, «perché inumana in quanto miete vite innocenti ed è quindi politicamente negativa»133. Veniva quindi sconsigliato, ad esempio, l’attentato dinamitardo, che, soprattutto in un luogo pubblico, poteva provocare «vittime innocenti» tra la popolazione134. I Tupamaros stabilirono inoltre che nel caso in cui fossero stati colpiti gli interessi dei lavoratori, i militanti avrebbero dovuto provvedere al «risarcimento dei danni», anche nel caso in cui fossero stati danneggiati veicoli o altri mezzi135. I guerriglieri uruguaiani ritenevano infatti che «la miglior “propaganda militare”» scaturiva direttamente dalle grandi azioni militari. Per fare emergere il «marchio ideologico» della guerriglia, andavano pertanto curati tutti i minimi particolari. I militanti dovevano quindi prestare attenzione al «trattamento» riservato ai lavoratori, così come alle donne, che – durante un’azione – potevano facilmente incorrere in una crisi nervosa. Restituendo il denaro spettante ai dipendenti – erroneamente prelevato insieme a quello del capitalista – e riparando i danni involontariamente inferti agli uomini di «modesta condizione, i Tupamaros erano convinti che il popolo avrebbe compreso meglio – ancor più che dai manifesti – «l’ideologia della guerriglia»136. Ritornando alle Brigate Rosse, Alberto Franceschini ha dichiarato: «Noi non ci siamo mai definiti terroristi. È un termine che abbiamo sempre rifiutato, che ci è stato applicato dai mass media. Noi abbiamo sempre creduto di fare la rivoluzione, di essere dei rivoluzionari». «Tanto è vero» – ha spiegato Franceschini – «che quando io mi sono sentito un terrorista ho abbandonato la lotta armata»137. Anche Valerio Morucci ha confermato che il brigatista non si sentiva un «terrorista»: Noi delle Br non siamo stati granché terroristi, forse più ragionieri della violenza rivoluzionaria. O sacerdoti. Azioni inanellate l’una all’altra in un crescendo pedagogico, un catechismo rivoluzionario. E quegli idioti volantini figli della boria illuminista. Come se il gesto da solo fosse monco e avesse bisogno delle parole per acquisire un significato. «Educare le masse» era un principio basilare. Rimasugli ottocenteschi più che un assalto al cielo. Come scegliere di andare a vivere avventurosamente nella foresta amazzonica e portarsi appresso un manualetto sulla vita selvaggia. pamaros. Intervista e critica sono state pubblicate dalla rivista cubana «Tricontinental», in Dueñas Ruiz, Rugnon De Dueñas, Tupamaros. Libertà o morte, cit., pp. 172-174. 133 Regolamento dell’Organizzazione, cit., p. 230. 134 Tupamaros in azione, cit., p. 15 135 Ibidem, p. 16. 136 Ibidem, p. 18. 137 Intervista ad Alberto Franceschini, cit., pp. 109, 122.

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«Mentre l’estremismo terroristico punta su un singolo atto – o di volta in volta un singolo atto – che può essere risolutivo, per l’intensità degli effetti distruttivi e politici» – ha aggiunto Morucci –; «noi abbiamo fatto politica con le pistole, quelle che i politici facevano usare ad altri. In divisa o senza. Ma sempre la stessa politica. Programmi altisonanti corredati dalla necessaria violenza, sociale e sugli uomini, per farli passare. Strategie e tattiche. Un passo appresso all’altro, o due passi indietro e uno avanti, per costruire castelli di carte. La differenza era che noi facevamo tutte e due le cose assieme»138. Nella già citata autointervista del 1973, i brigatisti, ribadendo proprio la connotazione politico-militare della loro organizzazione, invitavano il proletariato a combattere due tendenze pericolose: quella «militarista» e quella «gappista». La tendenza militarista era quella propria di chi credeva che con la sola azione armata si potesse trainare l’intera classe operaia. La deviazione gappista consisteva invece nell’attribuire ad un nucleo di «samurai» la funzione e i compiti della lotta armata. Militarismo e gappismo erano due devianze che poggiavano su un clamoroso errore di valutazione: la sfiducia nella forza e nelle capacità rivoluzionarie del proletariato italiano139. I brigatisti, dopo aver sottolineato che le Br erano un’organizzazione tutta interna all’autonomia operaia, ritenevano invece fondamentale il lavoro politico che stavano svolgendo per organizzare il movimento di «resistenza». L’azione armata era soltanto il momento culminante di questo profondo lavoro di classe, era «la sua prospettiva di potere»140. Questa presa di posizione netta è sicuramente di grande importanza, perché mette in evidenza tutta la distanza che separa il brigatismo operaista e, se vogliamo, maoista di questa prima fase, dal leninismo, dal militarismo e anche da un certo elitarismo che avrebbero successivamente preso il sopravvento nell’organizzazione, quando quest’ultima si sarebbe sempre più allontanata dalle masse proletarie. Il binomio tra azione politica e azione militare, che contraddistinse il modo di operare dei brigatisti in questa prima fase, emerse chiaramente anche dalla gestione dei sequestri di persona che i militanti organizzarono in questi anni. Durante il sequestro di Labate, ad esempio, l’ostaggio venne sottoposto ad un interrogatorio, che venne poi pubblicato, con la finalità di far emergere tutte le contraddizioni che si celavano dietro la strategia del fronte padronale. L’interrogatorio a Labate verteva sul problema delle assunzioni combinate tra la FIAT e la Cisnal, assunzioni che secondo le Br avevano lo scopo di infiltrare nei reparti uomini fidati che mettessero in atto il disegno antioperaio che era 138 Morucci, La peggio gioventù, cit., p. 45. 139 Seconda riflessione teorica, 1973, cit., p. 209. 140 Ibidem, p. 209.

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stato progettato dai padroni. Le parole di Labate avrebbero quindi confermato che in FIAT c’erano degli attivisti che operavano per individuare gli elementi più politicizzati della classe operaia, che poi venivano sistematicamente licenziati. Al di là delle trame oscure che si celavano dietro le strategie dell’azienda automobilistica torinese, dall’interrogatorio a Labate emerge anche un altro aspetto di grande interesse. Le domande al sindacalista della Cisnal, tutte finalizzate ad identificare le «carogne» che lavoravano nei vari reparti, dimostrano che i brigatisti erano perfettamente informati di quello che avveniva all’interno della realtà di fabbrica, segno evidente che potevano contare su una fitta rete di simpatizzanti tra gli operai. Nell’interrogatorio i brigatisti chiedevano ad esempio dell’attivista Masera, che faceva il saluto romano quando passavano i cortei; cercavano informazioni su un gruppo di provocatori che aveva recentemente aggredito gli operai; oppure, dopo aver ascoltato la risposta di Labate alla domanda su chi fossero gli attivisti a Lingotto, gli ricordavano puntualmente che aveva dimenticato un certo Scattaglia, dimostrando di conoscere a fondo la realtà operaia141. I brigatisti operarono con le stesse modalità anche durante il sequestro di Amerio. Nei giorni del rapimento, i militanti delle Br resero infatti noto che l’ostaggio stava collaborando. Amerio aveva confermato, ad esempio, che la FIAT seguiva delle precise strategie antioperaie, che le assunzioni dipendevano dal colore politico di chi faceva domanda e che esistevano anche delle centrali di spionaggio ai danni degli operai. Respingendo ancora una volta ogni devianza militarista, i brigatisti affermavano che tutte queste questioni potevano essere risolte soltanto attraverso uno scontro di potere che fosse stato politico e armato. Le Br non volevano scatenare una «piccola guerra privata», ma stavano invece agendo insieme a tutte le componenti del movimento operaio che lavoravano per la costruzione di un reale potere operaio e popolare armato nelle fabbriche, così come nei quartieri142. Dopo 8 giorni di detenzione, i brigatisti liberarono infine l’ostaggio, diffondendo il terzo ed ultimo comunicato. Il documento oltre ad informare che il capo del personale della FIAT-Auto aveva collaborato in maniera soddisfacente, spiegava che con il suo rilascio i brigatisti volevano cancellare un’illusione, cioè «che portando all’estremo una battaglia si possa vincere una guerra». Sequestrando Amerio e pubblicando l’esito dei suoi interrogatori le Br avevano infatti già centrato l’obiettivo che si erano prefissate: approfondire la crisi politica dello Stato. Eliminare il prigioniero non sarebbe servito a nulla, perché per vincere la 141 Per l’interrogatorio a Labate, si veda L’“interrogatorio di Labate”, documento del marzo 1973, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 218-222. 142 Il sequestro Amerio – Comunicato n. 2, comunicato brigatista diffuso il 12 dicembre 1973, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 228-229.

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guerra contro il capitale bisognava continuare a lavorare per costruire nelle grandi fabbriche e nei rioni popolari i primi centri del potere proletario armato143. I brigatisti non persero di vista la connotazione politica della loro attività nemmeno durante il sequestro Sossi. Già nel primo comunicato del rapimento, i sequestratori dichiararono infatti che il giudice genovese avrebbe subìto un processo dal «tribunale rivoluzionario»144, perché il magistrato era considerato un «prigioniero politico del proletariato»145. Durante il sequestro, Sossi venne quindi interrogato e le sue risposte vennero diffuse dalle Br nei comunicati successivi, con lo scopo di approfondire le contraddizioni della borghesia e di indebolire la forza del fronte controrivoluzionario146. Anche le trattative per la liberazione dell’ostaggio, scrivevano i brigatisti, dovevano essere pubbliche, perché «nulla deve essere nascosto al popolo». Insomma, non ci doveva essere nulla di segreto, dal momento che l’obiettivo era quello di vincere una battaglia politica con l’avversario mettendone in luce doppiezze e contraddizioni. Questo aspetto è sicuramente da sottolineare, perché dimostra come i brigatisti avessero sì operato un salto di qualità dal punto di vista della violenza, ma continuavano a muoversi su un binario che era ancora politico-militare. Come vedremo nel prossimo capitolo, il sequestro di Aldo Moro sarebbe stato invece gestito in maniera completamente diversa. I brigatisti esplicitarono ulteriormente il significato politico della loro azione quando rimisero in libertà l’ostaggio. Nel documento che affidarono a Sossi al momento del suo rilascio, i militanti delle Br asserivano che liberando Sossi avevano dimostrato tutto il valore politico della loro azione. In ogni battaglia, spiegavano i brigatisti, bisognava «combattere fino in fondo» e in quel momento «combattere fino in fondo» significava sviluppare al massimo le contraddizioni che durante il sequestro si erano manifestate nei vari organi dello Stato. Sottostare al braccio di ferro fortemente voluto da Coco e Taviani, rinunciando a liberare l’ostaggio ed eseguendo la condanna a morte, avrebbe invece significato creare le premesse per la ricomposizione delle contraddizioni che erano state aperte147. 143 Il sequestro Amerio – Comunicato n. 3, comunicato brigatista diffuso il 18 dicembre 1973, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 230-231. 144 Il sequestro Sossi – Comunicato n. 1, 1974, cit., p. 257. 145 Il sequestro Sossi – Comunicato n. 3, comunicato diffuso il 26 aprile 1974, poi pubblicato da “Il Tempo” in data 28 aprile 1974, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 261. 146 Il 10 luglio del 1975 il settimanale «Panorama» pubblicò parzialmente il testo dell’interrogatorio a Sossi, svoltosi il 28 aprile del 1974, dieci giorni dopo il sequestro. Per il documento in questione, si veda Interrogatorio del detenuto Mario Sossi arrestato da un nucleo armato delle Brigate rosse condotto in un carcere del popolo, documento parzialmente pubblicato dal settimanale “Panorama” il 10 luglio 1975, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 263-277. 147 Il sequestro Sossi – Comunicato n. 8, comunicato pubblicato da “Il Giornale d’Italia” il 24-25 maggio 1974, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 296.

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Con la liberazione di Sossi invece, Coco era stato costretto a rimangiarsi le sue parole («libererò quelli della XXII Ottobre solo quando sarà liberato il dott. Sossi»), e questo era la dimostrazione, secondo i brigatisti, che la legge borghese era semplicemente uno strumento di potere. Anche Taviani, d’accordo con i vertici più alti della magistratura e con la polizia genovese – spiegavano i brigatisti – aveva cercato di costringere i sequestratori ad uccidere Sossi. Se il giudice fosse stato ammazzato, Taviani avrebbe infatti potuto liquidare quei settori della magistratura che si attestavano su posizioni autonome, perché subordinare la magistratura alle direttive del potere politico era un passaggio fondamentale per realizzare il progetto di ristrutturazione neogollista. Il cadavere di Sossi avrebbe inoltre permesso al ministro dell’Interno di scatenare una campagna mediatica volta a definire il brigatista come un «criminale» e un «assassino», provocandone così l’isolamento politico. Un epilogo drammatico del sequestro, secondo i brigatisti, avrebbe infine relegato nell’ombra tutti gli scandali che gli interrogatori avevano portato in primo piano148. La battaglia intrapresa dalle Brigate Rosse con il rapimento di Sossi era quindi servita ai brigatisti per conoscere più a fondo il loro nemico, che aveva palesato – ancora una volta – la sua «maschera democratica» e il suo «volto sanguinario e fascista». La battaglia aveva inoltre confermato che all’interno del sistema le contraddizioni si risolvevano esclusivamente sulla base di precisi rapporti di forza. Era chiaro dunque che la classe operaia sarebbe riuscita a prendere il potere esclusivamente con la lotta armata. Il lavoro dei brigatisti – come gli stessi militanti avevano scritto nell’autointervista del 1973 – non era quindi quello di ricercare il «clamore delle azioni esemplari», ma di impostare con le avanguardie proletarie i problemi della guerra al fascismo, della resistenza nelle fabbriche e della resistenza alla militarizzazione del regime. Nel prossimo capitolo vedremo invece che a partire dalla seconda metà degli anni ’70 la ricerca del gesto esemplare avrebbe acquisito una maggiore centralità nell’attività dell’organizzazione149. Nel rifiutare la definizione di «terroristi» – ha osservato lo storico Angelo Ventrone –, un elemento decisivo era costituito dal fatto che nel marxismoleninismo, per lo meno a livello teorico, l’uso della violenza veniva concepito solo come temporaneo. Eliminate le ingiustizie, sarebbe infatti venuta meno la necessità stessa di praticare la violenza150. A differenza della tradizione fascista, che concepiva la società come governata dalla violenza, la tradizione della sinistra rivoluzionaria si doveva invece confrontare con il problema di «conciliare 148 Bilancio dell’“Operazione Girasole”, documento interno brigatista, maggio 1974, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 293-294. 149 Seconda riflessione teorica, 1973, cit., p. 212. 150 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., pp. 290-291.

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l’uso della violenza con il progetto di una società emendata da essa»151. Questa concezione costrinse quindi i diversi gruppi ad affrontare grandi difficoltà per giustificare l’utilizzo della violenza. Il risultato – ha spiegato Franco Ferraresi – fu «un’ipertrofica produzione di manualistica rivoluzionaria», orientata in una duplice direzione. Innanzitutto, il ricorso alla violenza venne legittimato di fronte alla classe operaia attraverso la diffusione di lunghi documenti, che presentavano – come si è visto – l’elenco delle colpe e dei presunti crimini di cui si era macchiata la vittima. In secondo luogo, i brigatisti – perlomeno in questa prima fase – scelsero, in omaggio alla «tradizionale preoccupazione marxista per la correttezza teorica» (il cosiddetto modello teoria-prassi), di spiegare ogni singola azione, facendo chiarezza sugli obiettivi e sui metodi di lotta152. Sulla risoluzione del caso Sossi, bisogna infine ricordare che la decisione di rimettere in libertà il giudice genovese provocò il primo scontro all’interno dell’organizzazione. Se da un lato i gestori del sequestro – Franceschini in testa – erano favorevoli alla liberazione dell’ostaggio, dall’altro alcuni militanti delle Br erano irremovibili: Sossi andava ammazzato. Il primo della lista degli intransigenti – come ha scritto nel 2004 Alberto Franceschini – era Mario Moretti: Moretti voleva ucciderlo. Lui era inflessibile, non valutava le cose dal punto di vista politico, era rigido: lo Stato aveva negato la liberazione dei compagni detenuti, quindi l’ostaggio doveva essere ammazzato. Punto e basta. Curcio mediò e propose di consultare i comandanti delle varie brigate, prima di prendere una decisione153.

Quello scontro interno fu gravido di conseguenze drammatiche, che avrebbero segnato la seconda fase del brigatismo; una fase in cui i militanti delle Br avrebbero spazzato via gran parte degli ostacoli politici, esistenziali e psicologici che avevano incontrato, scegliendo di alzare clamorosamente il livello della violenza. Fu nel mese successivo alla liberazione di Sossi che i militanti delle Brigate Rosse iniziarono ad ammazzare. Da quel momento avrebbe preso vita un climax ascendente, che avrebbe segnato gli anni più bui della storia del nostro paese dalla fine dell’ultimo confitto bellico mondiale. Seguendo alla lettera quell’«Indietro non si torna!» che avevano pronunciato alla Pirelli agli inizi della loro esperienza, i brigatisti diventarono così quei «criminali» e quegli «assassini» che fino a poco prima avevano perentoriamente rifiutato di essere. 151 R. Catanzaro, Il sentito e il vissuto. La violenza nel racconto dei protagonisti, in Id. (a cura di), La politica della violenza, il Mulino, Bologna 1990, pp. 204-205. 152 F. Ferraresi, Il rosso e il nero: terrorismi a confronto, in Destra/Sinistra. Storia e fenomenologia di una dicotomia politica, a cura di A. Campi e A. Santambrogio, Antonio Pellicani Editore, Roma 1997, pp. 176-178. 153 Cit. in Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 85.

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La figura del nemico Per comprendere le novità della seconda fase del brigatismo, che, come abbiamo anticipato, fu caratterizzata da omicidi e gambizzazioni, è necessario soffermarsi sull’evoluzione della figura del nemico nella percezione brigatista. Nella visione brigatista del mondo, come hanno raccontato diversi ex militanti, l’umanità appariva divisa in due soli campi, gli amici e i nemici della rivoluzione. Il bene e il male, come ha osservato lo storico Angelo Ventrone, si combattevano come due grandi blocchi monolitici, senza sfumature al loro interno1. Tra i nemici della rivoluzione un ruolo di spicco era ricoperto sicuramente dall’imperialismo. Secondo i militanti delle Br, seguendo alla lettera le indicazioni fornite dai «superpadroni imperialisti Ford e Kissinger», le forze controrivoluzionarie stavano infatti attuando «un vero e proprio “golpe bianco”». Queste forze, mentre ricattavano le sinistre, minacciando una possibile restaurazione del fascismo, preparavano intanto il terreno per l’attuazione del «vero fascismo imperialista». L’apparato coercitivo dello Stato veniva dunque utilizzato terroristicamente, per risolvere «la drammatica crisi di egemonia della borghesia sul proletariato»2. I brigatisti facevano riferimento in particolar modo alla Legge Reale del 1975, che aveva dotato lo Stato di nuovi e potenti mezzi di repressione armata3. Tra gli strumenti dell’imperialismo c’erano anche le carceri – in particolar modo le nuove strutture speciali –, che venivano indicate come «l’ultimo anello 1 Su questo, si veda A. Ventrone, “Vogliamo tutto”. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960-1988, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 314. 2 Comunicato per la liberazione di Curcio, documento brigatista del 19 febbraio 1975, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975. La lotta armata nei documenti e nei comunicati delle prime Br, a cura di L. Ruggiero, Kaos edizioni, Milano 2007, pp. 337-338. 3 Sulle novità introdotte dalla Legge Reale, si veda Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 312.

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della catena dell’apparato repressivo». L’obiettivo perseguito dalle forze controrivoluzionarie era «l’individualizzazione del detenuto», al fine di controllare tutti gli strati sociali potenzialmente rivoluzionari. Reprimendo le minoranze politicizzate in carcere, si contrastava infatti anche la possibile politicizzazione di tutti gli emarginati che vivevano con loro4. La lotta controrivoluzionaria, anche attraverso le carceri, cercava poi di negare lo status politico del brigatista, che veniva tratteggiato come un «criminale assoluto», un «anarco-nichilista», un «terrorista». Si tentava quindi di liquidare l’identità politica del brigatista, identità che per il militante rivoluzionario era innanzitutto il «Partito». Il brigatista si riconosceva infatti, autonomamente e liberamente, nei principi, nella strategia, nel programma e nella disciplina del partito. Tutto questo patrimonio proletario andava poi affermato praticando la guerra di classe. Se nell’azione collettiva di partito, il brigatista affermava la sua identità, nelle celle d’isolamento il «porco imperialista» cercava invece di distruggerla, inscenando un vero e proprio «genocidio politico»5. Come si sottolineava nella Risoluzione della Direzione Strategica del 1975, l’obiettivo dell’imperialismo era la creazione di uno Stato Imperialista delle Multinazionali (Sim), un sistema in cui lo Stato diventava espressione diretta dei grandi gruppi imperialistici multinazionali, venendo a configurarsi come una struttura direttamente funzionale alle esigenze di sviluppo del capitalismo. La realizzazione di questo progetto avrebbe generato delle conseguenze sfavorevoli per la classe operaia italiana, causando una netta diminuzione dei salariati con occupazione stabile e, al contempo, un massiccio aumento dell’esercito di riserva (chi svolgeva un lavoro saltuario) e di disoccupati e sottoccupati. Nel blocco nemico monolitico finiva anche la Democrazia Cristiana, ritenuta dai brigatisti l’asse portante del piano imperialistico. Il suo scopo era quello di formare un «“blocco storico” apertamente reazionario e controrivoluzionario», direttamente funzionale alla costruzione dello Stato Imperialista. La Dc lavorava dunque per creare le condizioni per un scontro aperto tra le forze rivoluzionarie e quelle controrivoluzionarie, cercando di annientare tutti coloro i quali si dimostravano ostili al progetto imperialista. Essa garantiva poi ai grandi gruppi multinazionali il rafforzamento delle strutture militari, la creazione di una «magistratura di regime» e l’istituzione di una Repubblica presidenziale6. 4 Rivendicazione attentato Traversi, documento diffuso dai brigatisti il 13 febbraio 1977, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978. Le Br sanguinarie di Moretti; documenti, comunicati e censure, a cura di L. Ruggiero, Kaos edizioni, Milano 2007, pp. 71-72. 5 Risoluzione della Direzione strategica, febbraio 1978, documento diffuso dalle Br il 4 aprile 1978, allegato al comunicato n. 4 relativo al sequestro Moro, ora in Dossier Brigate rosse 19761978, cit., pp. 241-242. 6 Brigate Rosse, Risoluzione della Direzione Strategica, senza luogo, aprile 1975, in Progetto Me-

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Come ha scritto Valerio Morucci, «per chiamare la gente alle armi occorre un grande e terribile nemico». Quel nemico per i brigatisti era il Sim, e – ha aggiunto Morucci – «se il Sim voleva modernizzare ai suoi fini la Dc, giocoforza i maggiori nemici del proletariato erano quelli che nella Dc in questo senso spingevano. In tutte le colonne iniziò l’attacco delle Br contro la Dc»7. La Dc, secondo i brigatisti, era «il nemico principale del momento»8. Il militante delle Brigate Rosse doveva quindi «individuare e colpire gli uomini e le strutture che articolano il potere democristiano a tutti i livelli». Ogni «rotella della macchina democristiana» andava spezzata. L’attacco alla Dc andava portato ovunque si annidasse «un agente democristiano della controrivoluzione», nelle fabbriche e nei quartieri, così come nelle scuole9. «È la Dc che rappresentava lo stato» – ha spiegato Mario Moretti – «era quella che volevamo colpire»10. Nemico era considerato anche il Pci, che con il compromesso storico non mirava certamente a combattere lo Stato Imperialista, ma piuttosto a ricavarne opportunisticamente alcuni «miserabili» vantaggi11. La visione brigatista del mondo si traduceva dunque in una «brutale semplificazione della realtà»12, della quale rimasero vittima diversi settori della società, cioè la magistratura di regime, le ali ostili del giornalismo e anche l’università che, chiusasi ormai la fase della contestazione, sarebbe stata posta di nuovo al servizio del capitale. I giornalisti, in particolar modo, censurando le notizie, svolgevano accuratamente il compito che il capitale multinazionale gli aveva assegnato: far apparire come «insostituibile» il regime democristiano, dipingendo invece come «criminale, folle e ambiguamente misterioso» ogni tentativo di bloccare l’iniziativa reazionaria dello Stato13. Questi giornalisti – spiegavano i brigatisti –, avendo scelto di lavorare per la «stampa di regime», non erano più degli informatori neutrali, ma degli agenti della lotta controrivoluzionaria. Questi servi del potere dovevano quindi essere «smascherati e colpiti»14. moria, Le parole scritte, Sensibili alle Foglie, Roma 1996, pp. 50-51. 7 V. Morucci, La peggio gioventù. Una vita nella lotta armata, Rizzoli, Milano 2004, pp. 127-128. 8 L’irruzione nella sede di “Iniziativa democratica”, documento brigatista del 15 maggio 1975, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 367-370. 9 Risoluzione della Direzione strategica, novembre 1977, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., pp. 144-145. 10 M. Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2007, p. 118. 11 Brigate Rosse, Risoluzione della Direzione Strategica, 1975, cit., p. 53. 12 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 314. 13 Rivendicazione ferimento Rossi, volantino di rivendicazione pubblicato dal quotidiano “Il Messaggero” il 4 giugno 1977, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., pp. 85-86. 14 Rivendicazione delitto Casalegno, comunicato diffuso dalle Br il 16 novembre 1977, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., pp. 168-171.

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La scelta di colpire «i simboli della stampa di regime» – ha raccontato Moretti – venne presa perché «il regime che si è formato in quegli anni ha avuto nella stampa un supporto totale, difficile trovarne altrove una più asservita»15. Il sociologo Alessandro Orsini, nel tentativo di analizzare la mentalità brigatista, ha parlato di una mentalità a «codice binario». Con questa espressione, il sociologo intende la riduzione di fenomeni molto complessi a due sole categorie: bene/male, amico/nemico, sfruttati/sfruttatori, innocenti/colpevoli. La mentalità a «codice binario», secondo Orsini, è un meccanismo di semplificazione della realtà, che favorisce il dispiegamento della violenza politica16. Nell’autobiografia in cui ha ricordato gli anni della gioventù, Valerio Morucci, ad esempio, ha cercato di spiegare i suoi errori facendo riferimento a quella «stessa rigidità del cazzo – è proprio il caso di dirlo – che poi mi avrebbe rovinato la vita. Sempre bianco o nero, senza sfumature, o amici o nemici, o amore, o odio, o morale o immorale»17. Interessante, a questo proposito, anche la testimonianza di Paolo Zambianchi di Prima Linea, che ha detto: «In quel momento dividevo con un taglio netto e rigido il mondo in due parti: di qua gli sfruttati che lavoravano sudando, dall’altra parte i padroni. E vivevo tutto questo con una grande indignazione morale»18. Come ha spiegato Alfredo Buonavita, «o siamo amici o siamo nemici. In fabbrica o ci sono compagni o ci sono dei figli di cane»19. Inoltre, il nemico non veniva visto come un uomo, ma come un obiettivo, che andava colpito per il bene dell’umanità. Come ha spiegato un’ex militante, colpire il nemico diventava un lavoro di routine, «perché tu sei da una parte dove ci sono gli amici, dall’altra invece stanno i nemici. E i nemici sono una categoria, delle funzioni, dei simboli da colpire, non degli uomini. E quindi trattare queste persone con la simbologia del nemico fa in modo che tu hai un rapporto di assoluta astrazione con la morte»20. Il brigatista Raffaele Fiore ha detto addirittura che il nemico veniva visto come un animale:

15 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 104. 16 A. Orsini, Anatomia delle Brigate rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2010, p. 34. 17 V. Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, Piemme, Casale Monferrato 1999, p. 31. 18 Intervista a Paolo Zambianchi, in D. Novelli, N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Baldini&Castoldi, Milano 2014 (1° edizione 1988), p. 144. 19 Intervista di Luisa Passerini ad Alfredo Buonavita, in Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo», Storie di lotta armata, a cura di R. Catanzaro e L. Manconi, Società editrice il Mulino, Bologna 1995, p. 130. 20 Cit. in Orsini, Anatomia delle Brigate rosse, cit., p. 37.

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Si azzeravano tutti gli sforzi fatti dall’umanità per riconoscersi in quanto tale; era come ritornare agli albori del cammino dell’uomo, quando un essere non riconosceva l’altro come suo simile, ma un animale come altri da cui difendersi, uccidere, mangiare. […] Ecco, noi in quel frangente vedevamo gli altri non come uomini, ma come potere a cui togliere la delega21.

Anche Maurizio Costa, un militante di Prima Linea, ha confermato che «le scelte non venivano fatte sugli obiettivi umani, ma sui contesti. Noi, cioè – ha detto –, avevamo già cancellato degli uomini prima di ucciderli»22. Il lato umano non veniva quindi preso in considerazione, dal momento che erano soltanto gli aspetti politici che interessavano ai brigatisti: «Ci interessavano solo le conseguenze politiche delle nostre azioni» – ha scritto Patrizio Peci – «quelle umane dovevamo non considerarle nemmeno, se no non saremmo andati avanti»23. Quando però capitava di parlare con la vittima, allora sì che il brigatista comprendeva che quello che aveva di fronte non era un simbolo, ma un uomo. Lo stesso Peci ha ricordato la sua reazione di fronte ad una vittima che lo supplicava di non fargli del male: «Aveva capito che gli avremmo sparato alle gambe, e urlava sottovoce per non farci arrabbiare. È stata la prima volta che un bersaglio mi parlava e questo mi ha fatto molta impressione. Di colpo lui non era più un bersaglio, ma un uomo come me»24. Tuttavia gli obblighi nei confronti dell’organizzazione finivano comunque per prevalere, guidando infine l’azione dei brigatisti. Peci decise allora di portare a termine il suo compito, sebbene, in quell’occasione, la componente umana smorzò la carica violenta dell’azione. Il brigatista sparò infatti un solo colpo, per non provocare gravi lesioni alla vittima. I brigatisti individuavano dunque quegli ingranaggi del sistema che andavano spezzati e li facevano coincidere, più che con persone, con semplici responsabili: Ad una esigenza di tipo politico – ha detto Antonio Savasta – fai corrispondere una persona. Oggi ho il problema di attaccare la Democrazia cristiana del quartiere che fa un certo tipo di discorso, ma non è che te la vai a prendere con i muri. Allora vediamo chi è che fa questo discorso quindi cominci politicamente a cercarlo, è come se alzassi le antenne ricettive per capire da dove arriva questo messaggio; leggi i giornali, partecipi in maniera clandestina alle riunioni di queste persone, cerchi di vedere e di capire. Poi l’hai individuata, fisicamente individuata, è quello il responsabile, è lui in questo momento. C’è già una logica di processo in cui già da prima hai deciso che quello è il colpevole, quindi quello che ti differenzia è la pena: che pena do a questa persona colpevole di queste cose? Vai lì e assumi questo 21 A. Grandi, L’ultimo brigatista, BUR, Milano 2007, p. 89. 22 Cit. in Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 336. 23 P. Peci, Io l’infame. Storia dell’uomo che ha distrutto le Brigate Rosse, Sperling & Kupfer, Milano 2008, p. 143. 24 Ibidem, p. 140.

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senso di giustizia, di giustizia molto carica […] per tutti i discorsi che ci sono dietro. Quindi in realtà non è più neanche quella persona, quella persona viene svuotata e gli vengono immesse dentro altre colpe, delle responsabilità. Ci arrivi da un percorso di individuazione fisica delle responsabilità di quella persona, però gliele svuoti, gliele togli, diventa un’altra persona […] piccolo ingranaggio dentro questa grossissima macchina mostruosa che ci sta distruggendo25.

Il nemico diventava così un «delinquente» e un «parassita»26, una «carogna»27, un «boia»28, un «servo di Stato»29, un «culo di piombo»30, un «agente della controguerriglia attiva»31, uno «scherano armato»32, un «pennivendolo di Stato»33, un «lurido personaggio»34, uno «sciacallo»35, un «lurido mercenario»36. Chi lavorava per proteggere il nemico veniva invece considerato uno «sgherro al servizio della controrivoluzione»37. La demonizzazione del nemico e la spersonalizzazione della vittima ricoprirono quindi un ruolo importante nella legittimazione, da parte dei brigatisti, dell’utilizzo di metodi violenti per contrastare l’iniziativa delle forze controrivoluzionarie. Insomma, utilizzando le parole di Jacques Sémelin, si comincia ad uccidere il nemico «con le parole che svalutano la sua umanità»38.

25 Intervista di Giuseppe De Lutiis ad Antonio Savasta, in Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo», Storie di lotta armata, cit., p. 453. 26 L’irruzione nella sede di “Iniziativa democratica”, 1975, cit., p. 369. 27 Rivendicazione attentati a Brescia, volantino pubblicato da “Controinformazione” n. 7-8, giugno 1976, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 29. 28 Comunicato n. 6 del processo di Torino, 9 giugno 1976, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 43. 29 Rivendicazione del delitto Croce, volantino diffuso il 30 aprile 1977, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 79. 30 Rivendicazione ferimento Rossi, 1977, cit., p. 85. 31 Si tratta di un comunicato brigatista che analizza l’attentato mortale a Carlo Casalegno, in Risoluzione della Direzione strategica, 1977, cit., p. 155. 32 Rivendicazione attentato Fiori, comunicato diffuso dai brigatisti il 2 novembre 1977, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 165. 33 Rivendicazione delitto Casalegno, 1977, cit., p. 168. 34 Rivendicazione attentati contro esponenti Dc, comunicato diffuso il 12 dicembre 1977, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 173. 35 Rivendicazione attentato Toma, comunicato brigatista diffuso il 24 gennaio 1978, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 212. 36 Rivendicazione attentati a Roma, comunicato diffuso dalle Br il 27 aprile 1978, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 327. 37 Comunicato n. 6 del processo di Torino, 1976, cit., p. 44. 38 J. Sémelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Einaudi, Torino 2007, p. 41.

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Gli alleati del brigatista Nella rigida divisone del mondo operata dai brigatisti, essi individuavano anche delle figure alleate. Tra la mole di documenti, volantini e comunicati, pubblicati dalle Brigate Rosse, il documento che evidenzia questo aspetto è la Risoluzione della Direzione strategica del febbraio 1978. In particolare – a detta dei militanti delle Br –, i comportamenti antagonistici del proletariato si erano negli ultimi anni radicalizzati, rendendolo protagonista di una «guerra civile strisciante». Tutti questi comportamenti erano compresi in un’area che veniva chiamata Movimento di resistenza proletario offensivo (Mrpo), di cui facevano parte i gruppi e i nuclei rivoluzionari che davano un contenuto politico-militare alle loro iniziative di lotta. La crisi e la ristrutturazione imperialista avevano infatti dato vita ad una realtà di classe estremamente composita, che prendeva il nome di Proletariato metropolitano (Pm). Il Mrpo era l’espressione di tutti questi strati sociali, che erano legati dal processo di crisi instaurato dalla borghesia imperialista. Compito delle avanguardie comuniste era quello di impegnarsi nel tentativo di unificare il Mrpo, al fine di aumentare la carica antagonista del Pm nei confronti del potere borghese. Benché la classe operaia restasse il motore del processo rivoluzionario, secondo i brigatisti, al suo interno erano sorte delle trasformazioni, che ne avevano alterato l’omogeneità. La classe operaia delle grandi fabbriche urbane poteva infatti essere suddivisa in tre strati. Vi era innanzitutto l’operaio massa, la componente meno tutelata e più rivoluzionaria; l’operaio professionale, che, godendo di alcuni privilegi, era più vicino ai revisionisti; ed infine l’aristocrazia operaia. Questi ultimi due strati erano quelli da «abbattere», sebbene, con l’approfondirsi della crisi, l’operaio professionale potesse ancora essere recuperato ed inserito nell’iniziativa rivoluzionaria. Il Proletariato metropolitano era composto però anche da una serie di strati che, secondo i brigatisti, andavano definiti in maniera diversa rispetto al passato. Tra le componenti del Pm vi erano, ad esempio, i lavoratori manuali del settore dei servizi. La separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che il capitalismo aveva introdotto, aveva fatto diventare questa categoria di lavoratori il migliore alleato della classe operaia. Era invece parte integrante della classe operaia un’altra componente del Pm, l’esercito industriale di riserva, costituito da tutti quei lavoratori che erano in attesa di essere inseriti nel processo produttivo. Nel Proletariato metropolitano rientrava anche un’altra categoria, quella degli emarginati, vale a dire i consumatori senza salario. Tra loro vi era il proletariato extralegale, di cui facevano parte anche i carcerati. Questa componente si trovava in costante aumento, dal momento che l’impossibilità di trovare un lavoro stabile

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costringeva ampi settori del Pm a ricorrere a comportamenti illegali, che erano sempre più diffusi anche tra la classe operaia. Emarginato era anche chi – come gli anziani e le persone affette da disabilità – veniva assistito da enti pubblici e privati. E non era certamente un caso se, negli ultimi anni, anche i «proletari anziani» – i pensionati –, che rientravano in questa categoria, avevano dato vita ad intense lotte sociali. Il sottoproletariato tradizionale, che era costituito da «residui di classi disgregate», restava invece il peggiore alleato degli operai. Un’altra forza trainante del processo rivoluzionario, insieme alla classe operaia, era lo «studente-massa», una nuova figura sociale nata dal tentativo del capitale di promuovere una scolarizzazione di massa, che gli potesse fornire una manodopera maggiormente istruita. Lo studente-massa era la componente maggioritaria nelle scuole, che erano diventate però delle «aree di parcheggio» per «disoccupati potenziali». La precarietà, un fenomeno sicuramente in crescita, era la chiara dimostrazione che la borghesia imperialista non aveva saputo coniugare la scolarizzazione di massa con la diminuzione dei posti di lavoro. Era proprio la consapevolezza di ciò che rendeva lo studente-massa una forza trainante della rivoluzione39. Come avevano scritto i Tupamaros, gli studenti erano «l’espressione del problema più generale di una gioventù disoccupata e senza orizzonti in un paese in crisi». I guerriglieri uruguaiani li avevano quindi definiti come il «settore sociale» più vicino alla rivoluzione40. Ai confini del Pm, secondo i brigatisti, si trovavano poi quelle componenti della piccola borghesia che erano state colpite dalla crisi. Tra queste, si configuravano già come alleate della classe operaia le fasce inferiori, ancora legate al lavoro manuale e vittime di un alto di livello di sfruttamento e di nocività. Oscillavano ancora tra revisionismo e rivoluzione gli strati intermedi, mentre erano palesemente antiproletarie le fasce superiori, che operavano nei settori di controllo e di organizzazione del lavoro. Un’altra grande novità, agli occhi dei brigatisti, era costituita dal risveglio delle donne. Con la ripresa delle lotte femminili, infatti, anche l’ultimo tabernacolo borghese – la sfera della famiglia e i rapporti uomo-donna – era stato finalmente infranto. I brigatisti erano sicuri: «Possiamo dire che, con l’entrata delle donne sulla scena della rivoluzione, tutte le forze sono ormai mature e per i porci è veramente l’inizio della fine!»41. Che le donne fossero una componente fondamentale della rivoluzione era stato peraltro già sottolineato dai Tupamaros. Soffermandosi sulla loro importanza, in un’intervista, un guer39 Risoluzione della Direzione strategica, 1978, cit., pp. 269-276. 40 Documento N° 5, in O. J. Dueñas Ruiz, M. Rugnon De Dueñas, Tupamaros. Libertà o morte, Sapere edizioni, Milano-Roma 1974, p. 248. 41 Risoluzione della Direzione strategica, 1978, cit., pp. 276-277.

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rigliero aveva detto: «È vero: senza di loro non si piò fare una rivoluzione»42. Il brigatista si proponeva così di superare la frammentazione presente all’interno del Mrpo, cercando di trovare una certa omogeneità, in modo tale da poter convogliare tutte le energie rivoluzionarie nell’attacco allo Stato imperialista. L’obiettivo era quello di «costruire l’unità del Proletariato metropolitano nel Movimento di resistenza proletario offensivo». Per farlo, bisognava agire nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, nelle carceri, e ovunque si manifestasse l’oppressione imperialista43. Il brigatista omicida La novità principale che contraddistingue la seconda fase del brigatismo è costituita dai ferimenti e dagli omicidi. Lo snodo può essere ravvisato nell’azione di Padova del 17 giugno 1974, quando i brigatisti si resero protagonisti del loro primo omicidio. L’azione di Padova traccia quindi una netta linea di demarcazione tra la prima e la seconda fase del brigatismo. Infatti, mentre fino a quel giorno i brigatisti si erano impegnati a salvaguardare la solidità del legame tra braccio politico e braccio armato, con l’azione di Padova essi iniziarono a muoversi su un piano in cui l’azione militare acquistava maggiore centralità. Alla base di questo mutamento di prospettiva vi era il contrasto, emerso già durante il sequestro Sossi, tra le due correnti che si erano delineate all’interno delle Brigate Rosse: da un lato i «politici», con Curcio e Franceschini; dall’altro i «militaristi», guidati da Mario Moretti, che durante il rapimento Sossi avevano fatto pressione sui sequestratori affinché il giudice genovese venisse ucciso. Innalzare il livello di violenza giungendo all’assassinio, fu un salto di qualità notevole e decisivo per tutti i brigatisti. La figura del militante delle Brigate Rosse subì infatti una serie di trasformazioni, che andarono dal cambiamento degli ambiti di intervento, all’adozione di stili di vita diversi rispetto a quelli precedenti. Testimonianza di ciò sono soprattutto i documenti redatti dagli stessi brigatisti, a partire proprio dalla rivendicazione dell’azione di Padova. È infatti con tono distaccato e freddo che i militanti delle Br spiegano un’azione terribile come quella di cui si erano resi protagonisti nella sede provinciale del Msi di Padova, in via Zabarella, il 17 giugno. Stando alla confessione di Susanna Ronconi, una brigatista che partecipò all’azione, il brigatista Roberto Ognibene, dopo essere entrato nella sede, venne immobilizzato da due missini, costringendo così 42 Intervista a un Tupamaro, in Dueñas Ruiz, Rugnon De Dueñas, Tupamaros. Libertà o morte, cit., p. 216. 43 Risoluzione della Direzione strategica, 1978, cit., p. 281.

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Fabrizio Pelli ad ucciderli con un colpo di pistola44. In realtà, i rilievi sulla scena del crimine avrebbero accertato che le vittime erano state prima ammanettate e poi freddate con un colpo di arma da fuoco alla nuca: una vera e propria esecuzione. I due omicidi di Padova aprirono un intenso dibattito in seno alle Br. La discussione, che verteva sul rivendicare o meno l’azione, era il chiaro segnale che, con la decisione di rimettere in libertà il giudice Sossi, si era venuta a spezzare ogni sorta di unità all’interno della formazione armata. Forti sono dunque i sentori che la prima azione omicida delle Brigate Rosse non fu che una risposta dell’ala militarista alla decisione dei sequestratori del giudice genovese di non eseguire la sua condanna a morte. Come testimoniò successivamente Alberto Franceschini, quella di Padova non fu infatti un’azione decisa dall’organizzazione: Né io né Curcio sapevamo che erano state le Br a compiere quell’azione, infatti passarono parecchie ore prima del nostro comunicato. Se fosse stata un’azione preparata e condivisa, il volantino di rivendicazione sarebbe stato lasciato sul posto o comunque diffuso immediatamente45.

Inoltre – ha sottolineato Renato Curcio – «la morte non rientrava negli obiettivi politici di allora»46, e la conclusione del sequestro Sossi ne era stata la chiara dimostrazione. «L’azione di via Zabarella» – avrebbe poi aggiunto Curcio – «non aveva niente a che vedere con ciò che le Br stavano facendo, non rientrava nei nostri piani. Noi ormai puntavamo al “cuore dello Stato”, cioè alla Democrazia cristiana. Non vedevamo più nei fascisti un pericolo reale ed anzi contestavamo a quelle parti di movimento ancora impegnate nel cosiddetto “antifascismo militante” di essere fuorviate da una cultura post-bellica, tutto sommato di comodo, arretrata e mascheratrice»47. Alla fine, i brigatisti decisero comunque di rivendicare l’azione. Il tono del documento, come già accennato, mette in luce tutta la distanza che separa questo testo da quelli che le Br avevano fino ad allora pubblicato. Sono infatti tre righe scarne quelle che aprono il comunicato di rivendicazione, attraverso il quale i brigatisti davano notizia di quanto era avvenuto a Padova: Lunedì 17 giugno 1974 un nucleo armato delle Brigate Rosse ha occupato la sede provinciale del Msi di Padova in via Zabarella. I due fascisti presenti, avendo violentemente reagito, sono stati giustiziati48. 44 M. Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek, Roma 2007, p. 99. 45 Cit. in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 299. 46 R. Curcio, A viso aperto. Intervista di Mario Scialoja, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993, p. 96. 47 Ibidem, pp. 93-94. 48 L’assassinio di Padova, volantino di rivendicazione del 18 giugno 1974, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 298.

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Nei passi successivi, i brigatisti tentavano invece, attraverso una palese forzatura, di fornire una spiegazione politica a quell’azione criminale. La sede missina di Padova veniva quindi accusata di essere la «fucina» che aveva contribuito a costruire l’esercito antiproletario, nelle cui fila militavano anche i responsabili della recente strage di Brescia. Nel 1974 si era infatti registrata un’importante escalation di violenza neofascista, che trovò il suo culmine il 28 maggio in piazza della Loggia, a Brescia, quando lo scoppio di una bomba durante una manifestazione antifascista provocò la morte di 8 persone. La strage, spiegavano i brigatisti nel comunicato, era stata fortemente voluta dalla Dc, ansiosa di restaurare l’ordine dopo aver recentemente incassato due amare sconfitte. Alla vittoria politica ottenuta dalle Br con la gestione del caso Sossi, si era infatti aggiunto l’esito del referendum abrogativo della legge sul divorzio, che il 12 maggio, appena due settimane prima della strage di Brescia, aveva visto il trionfo dei no, favorevoli al mantenimento della legge in vigore. La strage di piazza della Loggia era quindi una tappa «decisiva» della guerra di classe. Il potere democristiano aveva infatti deciso, per la prima volta, di scatenare il suo «terrorismo bestiale» contro la classe operaia, servendosi dei «sicari fascisti». Questa inaudita violenza, affermavano i brigatisti, legittimava le forze rivoluzionarie a rispondere alla barbarie fascista con la «giustizia armata del proletariato». Fu questa la spiegazione politica che i brigatisti utilizzarono per motivare il primo omicidio della storia della loro organizzazione. Con un distaccato «sono stati giustiziati», i militanti delle Brigate Rosse avevano spazzato via tutte quelle riserve che erano invece emerse durante il sequestro Sossi, quando – come ha ricordato Franceschini – il verbo «giustiziare» era stato epurato dalle discussioni interne. A poco più di 20 giorni dal rilascio del giudice genovese, con l’omicidio dei due militanti missini e, soprattutto, con la rivendicazione di quell’azione efferata, i brigatisti scelsero così di alzare ulteriormente il tiro. Una scelta che, oltre a condizionare il futuro delle Brigate Rosse, avrebbe profondamente segnato la vita dei suoi stessi militanti. Uno dei fattori che pesò sull’evoluzione della figura del brigatista e sul modo di operare che contraddistinse le Brigate Rosse in questa seconda fase, fu certamente lo sfaldamento del nucleo storico brigatista nel 1974, con gli arresti di Renato Curcio e di Alberto Franceschini, che furono catturati a Pinerolo l’8 settembre. L’arresto di Curcio e Franceschini ebbe certamente delle conseguenze rilevanti sull’intera organizzazione. Nell’esecutivo delle Br rimasero in libertà soltanto Mario Moretti e Mara Cagol. Si delineò così una situazione maggiormente favorevole alla corrente morettiana, che tendeva a privilegiare l’azione militare. Ad esercitare una certa opposizione nei confronti di Moretti – come ha ricordato Roberto Ognibene – era rimasta infatti la sola Cagol:

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La verità è che c’era una grossa differenza politica fra il percorso rivoluzionario che avevano in mente Renato, Alberto e Mara e quello di Moretti che, invece, aveva una concezione molto più militarista delle Br. Certo, dopo quell’arresto, le Br cambiarono volto. Ma non ancora, perché rimase fuori Mara Cagol. Lei e la maggioranza dei compagni clandestini erano favorevoli a seguire la linea dettata da Curcio e Franceschini49.

Che la linea di Curcio fosse lontana dalla deviazioni militariste di Moretti, è confermato anche dall’intervista che lo stesso Curcio rilasciò a Mario Scialoja nel dicembre del 1974, direttamente dal carcere di Casale Monferrato in cui era rinchiuso. Rispondendo ad una domanda su alcuni episodi violenti che erano accaduti a Firenze e a Bologna, Renato Curcio confermò la validità della linea politica che le Brigate Rosse avevano seguito fino ad allora: […] guerra di classe non vuole dire “imbracciare il fucile”, ma interpretare in termini organizzativi e politico-militari la protesta ribollente nei grandi centri industriali e metropolitani sotto la crosta castratrice e legalitaria della sinistra ufficiale50.

Curcio ribadì questo concetto anche in un altro documento redatto in carcere, e poi pubblicato dal periodico «Abc» il 6 marzo del 1975. In questo suo scritto, il fondatore delle Br analizzava le caratteristiche della Raf, la formazione amata tedesca di cui ci siamo occupati nel primo capitolo. Curcio sottolineava innanzitutto che non bastava una «guerra rivoluzionaria» per «creare una linea di massa rivoluzionaria». La «guerra rivoluzionaria» non era infatti un «prodotto “naturale”, spontaneo dell’urto tra le classi». Il limite più grande della Raf, secondo Curcio, nasceva proprio dal fatto che la formazione tedesca avesse iniziato a costruire la sua organizzazione per linee esterne al movimento operaio. Nel suo lavoro era quindi mancata un’indicazione sulla strada da percorrere per costruire un «potere proletario e popolare non delegato»51. Renato Curcio rimaneva quindi fedele alla strategia politico-militare che l’organizzazione aveva seguito fino al 1974: braccio politico e braccio armato non andavano separati. Il peso recentemente acquistato dalla linea militarista di Moretti venne inizialmente controbilanciato dal rientro a tempo pieno nell’organizzazione di Renato Curcio. Il 18 febbraio del 1975, grazie ad un’azione studiata e condotta dalla moglie Mara Cagol, Curcio riuscì infatti ad evadere dal carcere di Casal Monfer49 Cit. in Clementi, Storia delle Brigate Rosse, cit., p. 108. 50 Dal carcere di Casale Monferrato, intervista di Mario Scialoja a Renato Curcio del dicembre 1974, pubblicata da “L’Espresso” il 5 gennaio 1976, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 319. 51 Scritto di Curcio dal carcere di Casale, pubblicato dal periodico “Abc” n. 9 il 6 marzo 1975, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 342.

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rato. Una volta tornato in libertà, Curcio fornì un contributo fondamentale per la redazione della Risoluzione della Direzione strategica. Nel testo, i brigatisti spiegavano che il livello di scontro adeguato restava quello della propaganda armata, rifiutando così il passaggio ad una fase più avanzata, quella della disarticolazione militare dello Stato. Questa scelta dipendeva dal fatto che la crisi politica del regime era sì evidente, ma il tracollo vero e proprio non era ancora vicino. A questo, si aggiungeva il fatto che la lotta armata non aveva ancora raggiunto un grado di espansione e di maturità tale da consentire il passaggio ad una nuova fase della guerra. Nell’azione di disarticolazione politica dello Stato, giocava un ruolo di primo piano la guerriglia urbana, che colpiva il nemico e spianava la strada al Movimento di resistenza e all’autonomia operaia. I brigatisti sottolineavano poi che nella guerriglia urbana non c’era alcuna contraddizione tra braccio militare e braccio politico. La guerriglia agiva infatti secondo una linea di massa politico-militare. E con «linea di massa», i brigatisti non intendevano «organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata», bensì «radicare l’organizzazione della lotta armata e la coscienza politica della sua necessità storica nel movimento di classe». In questa fase, diventava di fondamentale importanza la costruzione di un Partito Combattente, costituito dai quadri combattenti – il reparto più cosciente della classe operaia –, che si configurasse come un’unica realtà politica e militare. Il Partito Combattente superava così il dualismo esistente tra due tesi differenti: da un lato chi proponeva l’appiattimento del braccio armato nel movimento; dall’altro chi concepiva organizzazione e movimento come due realtà nettamente distinte52. Questo concetto venne ulteriormente chiarito in un documento interno del mese di novembre. Qui si diceva espressamente che «spontaneismo armato» e «braccio armato» erano delle «gracili teorizzazioni», che nessuno avrebbe dovuto più riproporre. Prima della presa del potere, ogni militante comunista era un «soldato della guerra di classe», un «dirigente della lotta armata delle masse». Il brigatista doveva quindi essere preparato sia da un punto di vista politico che da un punto di vista militare, perché avrebbe dovuto svolgere il ruolo complesso di «combattente, organizzatore e propagandista»53. Secondo i brigatisti, bisognava dunque continuare sulla strada della propaganda armata, che andava intesa come una vera e propria fase della guerra di classe. Conclusa questa fase, ne sarebbe poi seguita un’altra, quella della «guerra civile guerreggiata», dove l’avanguardia armata avrebbe dovuto disarticolare, anche militarmente, la macchina burocratica e militare dello Stato54. 52 Brigate Rosse, Risoluzione della Direzione Strategica, 1975, cit., p. 55. 53 Risoluzione n. 2 della Direzione strategica, documento interno brigatista, novembre 1975, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 380. 54 Brigate Rosse, Risoluzione della Direzione Strategica, 1975, cit., p. 56.

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A partire dalla seconda metà del ’75 riprese tuttavia lo sfaldamento del nucleo storico brigatista, in particolare con il secondo arresto di Curcio nel ’76 e la morte di Mara Cagol il 4 giugno del ’75 per mano dei carabinieri. Il comunicato brigatista che dava notizia della sua uccisione era carico di odio e di vendetta. «Che mille braccia si protendano per raccogliere il suo fucile!», esortavano i brigatisti, certi che «il fiore di libertà» che era sbocciato, sarebbe stato coltivato dalle Brigate Rosse fino alla vittoria55. Con il nucleo storico totalmente affondato, ad emergere fu la figura di Mario Moretti. La corrente militarista prese dunque il sopravvento, determinando indubbiamente – come ha raccontato il brigatista Lauro Azzolini – una netta trasformazione della figura del brigatista: Dopo Sossi, dopo la Spiotta, dopo la caduta di tanti compagni, con le forze regolari ridotte a quindici persone, Moretti, Bonisoli56 e io facemmo una lunga riflessione e arrivammo a questa alternativa: qui, o questa guerra la facciamo sul serio, o tanto vale piantarla. Qui o ci mettiamo in testa di vincere o siamo vinti in partenza. Presa la decisione militare e strategica di fare la guerra allo Stato, per vincerla tutto ne seguì, l’analisi politica compreso il Sim, o Stato imperialista delle multinazionali, diventava un corollario o una giustificazione della macchina militare, della ferocia dello scontro, del pesante lavoro. È il fronte logistico che diventa il vero centro dell’organizzazione, e lì ci siamo noi, Moretti, Bonisoli e io57.

La linea di massa lasciò così il posto alla deviazione militarista, una scelta che fu gravida di conseguenze drammatiche. Le Br assunsero dunque i lineamenti di quell’organizzazione sanguinaria, la cui estrema violenza avrebbe caratterizzato gli anni – appunto – di piombo. Lo snodo cruciale che permette di cogliere tutte le differenze che separano il brigatista della prima fase, dal terrorista della seconda, è datato 8 giugno 1976. In quel giorno si consumò infatti il primo omicidio pianificato delle Br, che uccisero il procuratore generale Francesco Coco. Come ha scritto Valerio Morucci, l’omicidio fu una grande novità per i brigatisti: Non ce l’aspettavamo, non se l’aspettava nessuno. Non che l’omicidio non fosse contemplato, giacché la Rivoluzione non è un pranzo di gala, ma era una scadenza remota. Tutt’uno col momento finale dell’Insurrezione. Allora sì che sarebbero stati appesi ai lampioni. Una parte del mito, esorcizzata negli slogan ferocissimi che tutti avevamo gridato. «Con le budella dell’ultimo re impiccheremo l’ultimo 55 Comunicato per la morte di Mara Cagol, documento brigatista del 5 giugno 1975, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., p. 375. 56 Il riferimento è a Franco Bonisoli, membro dell’esecutivo delle Br. 57 Cit. in Galli, Piombo rosso, cit., p. 80.

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papa», ricordi? Ma se alla ferocia degli slogan fossero da subito seguiti i fatti, oltre le troppe volte che questo è accaduto, da molto tempo su questa terra scorrazzerebbero liberi e felici solo gli animali. Era contemplato in quel prossimo e glorioso futuro ma non nel presente. Per quanto odiassimo, e odiavamo con tutti noi stessi, la morte, l’omicidio erano ancora una barriera. Mettila come vuoi. Forse era una barriera morale: non puoi lottare per la vita e dare la morte. O forse psicologica, dato che non eravamo nati assassini. Oppure perché ritenevamo che gli «ostacoli» andassero spostati di lato, non eliminati. Se riuscivamo a spostarli altri avrebbero potuto seguire l’esempio. Se li eliminavamo si apriva una guerra in cui in pochi saremmo andati58.

Mentre stava per rientrare a casa, il procuratore generale Francesco Coco rimase vittima di un’azione efferata. Una volta scesi dalla FIAT 132 blu, partita dal palazzo di Giustizia di Genova e guidata dall’appuntato Antonio Decana, Coco e la sua guardia del corpo, il brigadiere Giovanni Saponara, si incamminarono verso l’abitazione del procuratore. Dopo aver percorso pochi metri, i due vennero uccisi da una raffica di colpi di pistola. L’azione cruenta terminò infine con l’omicidio dell’autista, Antonio Decana, che era rimasto in macchina ad aspettare il ritorno del brigadiere Saponara. Il comunicato di rivendicazione – diffuso a Genova, il giorno dopo l’omicidio – informava che i brigatisti avevano «giustiziato» il procuratore generale Francesco Coco insieme alla sua scorta armata, che era stata «annientata». Di seguito, come sempre, i militanti delle Br elencavano le tappe principali che avevano scandito la carriera controrivoluzionaria della vittima. Su Coco, che veniva definito un «feroce nemico del proletariato e della sua avanguardia armata», pesava soprattutto il ruolo che questi aveva giocato durante il sequestro Sossi. Fu proprio in quell’occasione che il procuratore firmò la sua condanna a morte. «Ora» – scrivevano i brigatisti – «questa sentenza è stata eseguita, e gli aguzzini del popolo possono stare sicuri che se il proletariato ha una pazienza infinita, ha anche una memoria prodigiosa e che alla fine niente resterà impunito»59. Ancora più duro fu il comunicato che i brigatisti imputati al processo contro il nucleo storico delle Br tentarono di leggere nell’aula del Tribunale di Torino il 9 giugno. Il 17 maggio del 1976 si era infatti aperto il primo grande processo contro l’organizzazione. Prima che venisse interrotto dal presidente di corte Guido Barbaro, il brigatista Prospero Gallinari estrasse un documento in cui Francesco Coco veniva definito un «boia», mentre i due agenti che erano stramazzati a terra con lui, dei «mercenari». L’azione, scrivevano i brigatisti, dava corpo alla strategia di attacco al cuore dello Stato. Con l’uccisione di Coco era stato infatti dato un 58 Morucci, La peggio gioventù, cit., p. 103. 59 Rivendicazione delitto Coco, comunicato diffuso l’8 giugno 1976, Dossier Brigate rosse 19761978, cit., pp. 39-40.

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seguito all’operazione Sossi, con lo scopo di smascherare la parvenza democratica dello Stato imperialista, mostrando il suo volto controrivoluzionario. Giustiziare Coco, secondo i brigatisti, non era stata tuttavia una «rappresaglia “esemplare”». Con Coco era stata invece inaugurata una nuova fase della guerra di classe, che mirava a «disarticolare l’apparato dello stato», eliminando «gli uomini che ne impersonificano e dirigono la sua iniziativa controrivoluzionaria»60. Era stato quindi «assolutamente giusto» colpire anche «i due mercenari» che avrebbero dovuto proteggere Coco. Saponara e Decana – sentenziavano i brigatisti – non erano infatti «due figli del popolo», bensì due «sgherri al servizio della controrivoluzione». Per questo, tutti gli altri «mercenari» che non avessero voluto fare la loro stessa fine, venivano invitati a cambiare mestiere61. Lo stesso Valerio Morucci, diversi anni più tardi, ha ricordato: Il poliziotto che era con Coco poteva essere disarmato e reso innocuo. C’era tutto il tempo su quella scalinata deserta. E non era una testa di cuoio, era un maresciallo con la pancetta. L’altro, quello che era rimasto seduto in macchina, non poteva neanche vedere quello che stava succedendo. Bastava controllarlo. Furono uccisi perché erano soldati del nemico. E in guerra i soldati nemici si ammazzano62.

La figura del brigatista che emerge dai due documenti sopracitati è molto distante da quella del militante che abbiamo tratteggiato nel capitolo precedente. Si ha infatti la chiara sensazione che il braccio armato avesse realmente preso il sopravvento. Un’azione criminale, pianificata in ogni minimo dettaglio – come mai le Br avevano fatto nella loro storia –, veniva rivendicata in un testo carico di odio, in cui mancava una precisa e puntuale spiegazione politica dell’azione, che permettesse al brigatista di dialettizzarsi con le masse. Che la figura del brigatista fosse mutata, lo si comprende ancor meglio dal confronto tra la strage di Genova e il sequestro Sossi. Durante quest’ultimo, i militanti delle Br avevano infatti tentato di aprire delle contraddizioni nel cuore dello Stato e di conseguire così una vittoria politica; l’omicidio di Coco e della sua scorta sembrava invece aver provocato delle contraddizioni all’interno delle stesse Br, sempre più distanti da quella classe operaia che dicevano di rappresentare. L’eccidio di Genova – secondo Lorenzo Ruggiero – fu una pura «azione di guerra», che inaugurò il passaggio dell’organizzazione «dall’alveo originario della propaganda armata, alla trincea militarista e sanguinaria»63. I militanti delle Br spiegarono che la fase della «propaganda armata» poteva 60 Comunicato n. 6 del processo di Torino, 1976, cit., pp. 43-44. 61 Comunicato n. 6 del processo di Torino, 1976, cit., p. 44. 62 Morucci, La peggio gioventù, cit., p. 105. 63 Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 23.

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dirsi conclusa. Era stata quindi inaugurata la fase della «guerra civile generalizzata», una fase in cui l’attacco al potere, per risultare efficace, doveva «superare gli aspetti “simbolici” di pura propaganda», per diventare invece «un attacco “disarticolante”»64. L’omicidio del procuratore generale Francesco Coco non portò tuttavia i brigatisti a sentirsi degli assassini, dal momento che quell’azione si inseriva in un contesto che era già profondamente drammatico. I morti e i feriti erano infatti aumentati notevolmente sia tra le forze dell’ordine, che nello schieramento rivoluzionario. Insomma, con l’alzarsi del livello dello scontro – come avrebbe poi raccontato Alberto Franceschini, che nel ’76 si trovava ancora in galera –, la morte di un altro essere umano non era vista come una sorpresa: […] era il primo omicidio programmato delle Brigate rosse, ma non mi sentii assassino. Non perché non avessi sparato, ma perché ormai, come dicevamo, «si era alzato il livello dello scontro» e i morti erano prevedibili, da tutte e due le parti65.

L’ex brigatista Valerio Morucci, nel tentativo di spiegare perché all’epoca giustificasse l’omicidio politico, ha scritto: La violenza e la morte sono state a lungo all’ordine del giorno. O forse perché il discrimine non era ancora politico ma solo morale. E quella politica considerava morale l’omicidio politico. Un passaggio necessario. Una politica votata al sacrificio. Il nostro nel poter morire, e anche nel morire, e quindi quello di chiunque altro. […] La politica, tutta la politica della superiorità dei fini rispetto ai mezzi, sempre giustifica l’omicidio. Quella che privilegia non la vita dei singoli ma modelli di quella coercitivi per il raggiungimento di uno scopo. Che può anche essere salvare la Vita, il suo concetto astratto, uccidendo i singoli. Noi uccidevamo per imporre un modello futuro di rispetto della vita, lo Stato per salvaguardare il suo modello presente. Uno scontro di modelli entrambi superati che aveva di mezzo la vita della gente66.

I mesi successivi, soprattutto quelli del ’77, furono segnati da un notevole incremento dell’intensità di violenza, che si tradusse in un aumento vertiginoso dei ferimenti e delle gambizzazioni. I brigatisti si convinsero infatti che in ogni angolo della società si nascondesse un’insidia controrivoluzionaria. Questa convinzione causò un accrescimento del livello di violenza, la quale finì con il prendere nettamente il sopravvento anche sulla capacità di analisi che i brigatisti avevano mostrato nella prima fase. I documenti che le Br pubblicarono alla fine degli 64 Processo di Torino. Comunicato Br n. 7, comunicato sequestrato ai brigatisti del nucleo storico, imputati a processo di Torino, 3 maggio 1977, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., pp. 82-83. 65 A. Franceschini, P. V. Buffa, F. Giustolisi, Mara Renato e io. Storia dei fondatori delle BR, Arnoldo Mondadori, Milano 1991 (1° edizione 1988), p. 138. 66 Morucci, La peggio gioventù, cit., p. 197.

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’70 consistettero infatti, prevalentemente, nella rielaborazione e, spesso, nella semplice riproposizione di riflessioni che erano già state elaborate in precedenza. Nel ’77 si registrarono svariati attentati. Tra questi vanno ricordati la gambizzazione di Valerio Traversi, ispettore centrale del Ministero di Grazia e Giustizia, ritenuto responsabile del trattamento «disumano» che veniva riservato ai detenuti, in quelle che i brigatisti non definivano carceri, bensì «lager di Stato»67; l’omicidio di Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino, giustiziato perché «servo di Stato», visto che aveva accettato, nonostante le minacce delle Br, l’incarico di difensore d’ufficio dei brigatisti68; l’attentato al direttore del TG1 Emilio Rossi, accusato di somministrare quotidianamente, a venti milioni di ascoltatori, una serie interminabile di «menzogne»69; infine, l’attentato omicida nei confronti di Carlo Casalegno, vicedirettore de «La Stampa», definito un «pennivendolo di Stato» per aver scelto di lavorare al servizio della «stampa di regime»70. L’inaugurazione della campagna contro il carcere – in particolar modo contro le nuove strutture speciali – introdusse inoltre un’importante novità rispetto a quanto era emerso dai documenti precedenti. Al centro della battaglia non c’erano più quelle masse proletarie che i brigatisti dicevano di rappresentare, ma le stesse avanguardie comuniste, che andavano difese e liberate. Il rischio era quello di aprire una sorta di partita interna tra le Br e lo Stato, facendo scivolare in secondo piano lo scontro di classe. La sensazione che i brigatisti si fossero incamminati sulla strada dell’autoreferenzialità trovò poi un’importante conferma con l’omicidio di Fulvio Croce. La lotta che i brigatisti intrapresero contro il processo borghese che li vedeva imputati introdusse infatti un importante cambiamento nel significato delle loro azioni. Come ha scritto lo storico Marco Clementi, le Br divennero espressione di uno scontro tra loro e le istituzioni, finendo per ricondurre ogni conflitto unicamente alla lotta armata71. A rimanere vittima della brutale semplificazione della realtà operata dai brigatisti vi fu infine il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, che venne rapito a Roma, in via Fani, la mattina del 16 marzo 1978. Nel testo del primo comunicato del rapimento, i brigatisti informavano che «un nucleo armato delle Brigate rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro». Quest’ultimo veniva definito come «il gerarca più autorevole, il “teorico” e lo “stratega” indiscusso di quel regime democristiano che da 67 Rivendicazione attentato Traversi, documento diffuso dai brigatisti il 13 febbraio 1977, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., pp. 71-72. 68 Rivendicazione del delitto Croce, 1977, cit., pp. 79-80. 69 Rivendicazione ferimento Rossi, 1977, cit., pp. 85-86. 70 Rivendicazione delitto Casalegno, 1977, cit., pp. 168-171. 71 Clementi, Storia delle Brigate rosse, cit., p. 145.

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30 anni opprime il popolo italiano». Aldo Moro era anche «il padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste». I brigatisti aggiungevano che, con la sua cattura e con il processo al quale sarebbe stato sottoposto, di fronte al «Tribunale del Popolo», non intendevano «chiudere la partita», né tanto meno «sbandierare un simbolo», ma rendere ancora «più forte, più maturo, più incisivo e organizzato» il Movimento di resistenza offensivo72. I militanti delle Br avrebbero inoltre spiegato che, con il passaggio alla fase della «guerra», il principio tattico che bisognava seguire era quello della «disarticolazione delle forze del nemico». All’inizio, per forza di cose – avrebbero poi scritto i brigatisti –, i militanti erano stati costretti ad operare per piccoli nuclei e avevano praticato delle azioni di portata ridotta. Mano a mano che la forza del fronte rivoluzionario era cresciuta, le azioni erano diventate più complesse, fino a quando la guerriglia aveva iniziato a muoversi per campagne, districandosi cioè in più poli, ma seguendo sempre la stessa linea di combattimento. A questa direttrice di crescita, se ne era affiancata un’altra, con il passaggio dalle «azioni rapide» alle «azioni prolungate». Una terza direttrice aveva invece visto il concentramento di forze numerose, per attaccare il potere borghese in piccole battaglie. I brigatisti erano quindi passati dal compiere azioni dimostrative, a realizzare delle azioni distruttive, con l’obiettivo di annichilire la forza nemica73. Ciò che sorprende, analizzando i comunicati del sequestro Moro, è che i brigatisti arrivarono a considerare Aldo Moro come lo stratega della controrivoluzione, sebbene, in tutti i documenti che erano stati pubblicati prima del sequestro, Moro non fosse mai stato chiamato in causa74. Il presidente della Dc era sì il maggiore esponente del riformismo, pronto a formare un governo sorretto anche dal Pci75, ma i brigatisti non si erano mai soffermati sulla sua figura. In altri termini, le masse non erano state istruite sul ruolo «controrivoluzionario» che Moro stava ricoprendo in Italia. Per venirne a conoscenza, esse dovettero attendere il 18 marzo, quando il presidente della Dc era già stato sequestrato, al termine di un’azione terribile che aveva fatto registrare l’ennesimo spargimento di sangue. 72 Sequestro Moro. Comunicato Br n. 1, comunicato diffuso il 18 marzo 1978, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., pp. 293-296. 73 Risoluzione della Direzione strategica, 1978, cit., pp. 267-269. 74 Come ha evidenziato Lorenzo Ruggiero, in nessuno dei documenti pubblicati tra il 1976 e il 1978 è mai stato citato Aldo Moro. Nell’arco di questi 2 anni di attività brigatista, si registrarono invece 24 citazioni per Enrico Berlinguer, segretario del Pci; 18 citazione per Giulio Andreotti; mentre Francesco Cossiga e Amintore Fanfani vennero menzionati rispettivamente in 12 e 4 occasioni, cfr. Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 292. 75 Il riferimento è al cosiddetto governo di solidarietà nazionale, a capo del quale venne chiamato Giulio Andreotti. Quest’ultimo, proprio il 16 marzo – quando Moro venne sequestrato –, si apprestava a presentarsi di fronte alla Camera dei Deputati per chiederne la fiducia.

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L’analisi degli altri comunicati, pubblicati dai brigatisti durante il sequestro, oltre ad evidenziare l’allontanamento del militante dalle masse, mostra chiaramente come il braccio armato avesse ormai preso il sopravvento sulla capacità di analisi politica. Già nel primo comunicato, ad esempio, i brigatisti avevano promesso che tutto il processo ad Aldo Moro sarebbe stato trattato pubblicamente, così come l’organizzazione aveva sempre fatto. I brigatisti spiegarono infatti che l’interrogatorio avrebbe accertato le responsabilità dell’ostaggio, chiarendo così «le politiche imperialiste e antiproletarie» della Dc76. Nel terzo comunicato, si leggeva addirittura che il prigioniero stava collaborando. «Le risposte che fornisce» – recitava il testo – «chiariscono sempre più le linee controrivoluzionarie che le centrali imperialiste stanno attuando; delineando con chiarezza i contorni e il corpo del “nuovo” regime che, con la ristrutturazione dello Stato imperialista delle multinazionali, si sta instaurando nel nostro paese e che ha come perno la Democrazia cristiana». Moro, scrivevano i brigatisti, aveva quindi iniziato a fornire delle «illuminanti risposte»77. I militanti delle Br ribadirono quindi che l’interrogatorio sarebbe stato pubblicato a breve, dal momento che «niente deve essere nascosto al popolo!»78. In realtà, i brigatisti non avrebbero poi mantenuto queste promesse. I primi dubbi sull’effettiva pubblicazione dell’interrogatorio iniziarono ad emergere il 15 aprile, data in cui venne diffuso il sesto comunicato. In quel documento, veniva reso noto che l’interrogatorio ad Aldo Moro era terminato. I brigatisti scrivevano però che l’ostaggio non aveva fatto altro che confermare delle verità, che tutti i proletari conoscevano perfettamente. Sulla Dc, infatti, non esistevano segreti, dal momento che i proletari sperimentavano quotidianamente, sulla loro pelle, il significato del regime democristiano. Non c’erano quindi delle «clamorose rivelazioni» da fare. Il comunicato numero 6 è tuttavia ricco di un gran numero di contraddizioni. Infatti, pur sostenendo che non vi fosse nulla di eclatante da comunicare, i brigatisti – smentendosi da soli – scrissero anche che Moro aveva rivelato «le turpi complicità del regime», raccontando un mondo in cui a dominare erano la corruzione, il clientelismo e gli interessi personali. L’ostaggio aveva inoltre «additato con fatti e nomi i veri e nascosti responsabili delle pagine più sanguinose della storia degli ultimi anni», mettendo a nudo «gli intrighi di potere» e «le omertà» che avevano coperto «gli assassini di Stato»79. 76 Sequestro Moro. Comunicato Br n. 2, documento diffuso dai brigatisti il 25 marzo 1978, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 300. 77 Sequestro Moro. Comunicato Br n. 3, documento diffuso dai brigatisti il 29 marzo 1978, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 303. 78 Sequestro Moro. Comunicato Br n. 5, documento diffuso dalle Br il 10 aprile 1978, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 312. 79 Sequestro Moro. Comunicato Br n. 6, documento diffuso dai brigatisti il 15 aprile 1978, ora in

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Terminato il processo, il «Tribunale del Popolo» sentenziò la condanna a morte del presidente della Dc, ma nemmeno questa decisione venne spiegate alle masse. A differenza di quanto era avvenuto durante il sequestro Sossi, nei 55 giorni del rapimento di Aldo Moro i brigatisti non cercarono di conseguire una vittoria politica, provando ad aprire e a sviluppare nuove contraddizioni all’interno dello Stato. Si trattò invece di un vero e proprio scontro militare, e la soluzione, quindi, la si poteva trovare soltanto con le armi. Furono gli stessi brigatisti a scrivere che il sequestro in corso sarebbe stato gestito in maniera diversa da quello del giudice genovese. Quando, in cambio del rilascio di Moro, chiesero la liberazione di alcuni prigionieri comunisti, i brigatisti dissero inequivocabilmente che il sequestro non si sarebbe risolto come il caso Sossi. Chi lo pensava, aveva «sbagliato radicalmente i suoi conti»80. Il fatto stesso che la richiesta di scarcerazione riguardasse militanti di primo piano – tra gli altri, erano stati indicati Sante Notarnicola, Mario Rossi, Roberto Ognibene, Alberto Franceschini e Renato Curcio – era la chiara dimostrazione che i brigatisti avevano scelto di andare fino in fondo. La condanna a morte sentenziata nei confronti di Aldo Moro non modificò tuttavia le posizioni dei due maggiori partiti in Italia – il Pci e la Dc –, che continuarono a rifiutare di trattare con le Br. Chi fece invece un tentativo per salvare la vita di Moro, fu il Partito socialista, che iniziò a relazionarsi con la sinistra extraparlamentare per contattare direttamente le Brigate Rosse. Diverse personalità di spicco della sinistra rivoluzionaria erano infatti interessate ad evitare un esito drammatico del sequestro, dal momento che la morte di Moro avrebbe chiuso tutti gli spazi anche alla lotta che loro stessi avevano intrapreso. Le trattative portate avanti indirettamente dal Psi spinsero le Br a formulare una richiesta diversa rispetto a quanto avevano divulgato attraverso i comunicati. L’organizzazione informò infatti di essere disponibile ad avanzare una richiesta minima: in cambio della vita di Moro, i brigatisti volevano una dichiarazione politica della Dc sul problema dei prigionieri brigatisti. Che i militanti delle Br fossero disponibili ad accettare questa soluzione venne poi confermato dalla telefonata che il leader dell’organizzazione, Moretti, fece alla moglie di Moro il 30 aprile. In quell’occasione, Moretti, per la liberazione di Moro, chiese espressamente «un intervento diretto, immediato e chiarificatore, preciso di Zaccagnini81»82. Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., pp. 314-317. 80 Sequestro Moro. Comunicato Br n. 8, comunicato diffuso dalle Br il 24 aprile 1978, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 325. 81 Il riferimento è al segretario democristiano Benigno Zaccagnini – soprannominato «Zac» –, che durante il sequestro Moro si schierò sulla cosiddetta linea della fermezza, rifiutando ogni trattativa con i brigatisti. 82 Cit. in Clementi, Storia delle Brigate Rosse, p. 212.

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Bastava quindi che la Dc riconoscesse in Italia l’esistenza di prigionieri politici. A 51 giorni dal rapimento, dopo aver preso atto che la Democrazia cristiana non era disposta a fare alcun passo indietro, venne diffuso il nono ed ultimo comunicato, attraverso il quale le Br sancivano la conclusione della battaglia iniziata il 16 marzo. Visto che «i servi dell’imperialismo» avevano dimostrato di saper intendere soltanto il linguaggio delle armi – si leggeva nel testo –, il proletariato avrebbe dimostrato che stava imparando a parlare83. Come era stato annunciato nel comunicato, Aldo Moro venne quindi giustiziato. Il suo cadavere fu ritrovato, il 9 maggio, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata nel centro di Roma. La gestione del sequestro Moro mette in evidenza tutta la distanza che separa le due fasi del brigatismo. Rispetto al passato – come ha poi sottolineato Alberto Franceschini –, i brigatisti avevano perso ogni capacità di analisi politica, tanto che i compagni del nucleo storico, per supplire a questa carenza, iniziarono a svolgere, dalla galera, il ruolo di «interlocutori politici»84. Il fatto stesso che, durante il sequestro, i brigatisti avessero chiesto il «riconoscimento politico» dell’organizzazione e dei suoi militanti detenuti, era la chiara dimostrazione – secondo Franceschini – che i brigatisti avevano perso di vista gli strati sociali a cui facevano riferimento. Quel riconoscimento politico andava infatti ricercato in mezzo al proletariato, e non appellandosi alle «istituzioni nemiche». Avere come obiettivo il «riconoscimento politico», secondo Franceschini, era la «conferma più chiara di quella mentalità burocratica e formalista» che, dopo gli arresti e la morte di Mara Cagol, aveva preso il sopravvento nell’organizzazione85. La decisione di risolvere militarmente il sequestro, uccidendo Aldo Moro, provocò sicuramente l’isolamento politico delle Br nell’area della sinistra rivoluzionaria, dove furono in molti a criticare quell’esito. Quel drammatico 9 maggio 1978 segnò anche l’inizio del declino del fenomeno della lotta armata. La scelta di diventare degli «assassini» costò inoltre ai brigatisti una pesante sconfitta esistenziale. «Checché se ne dica» – ha scritto Jacques Sémelin – «non è così facile per l’uomo risolversi a uccidere il proprio simile». Anche se sussistono buone ragioni per farlo, l’individuo può infatti provare una sensazione simile a quella di «gettarsi nel vuoto»86. All’assassino – ha spiegato il politologo francese – si offrono però alcune vie d’evasione, una delle quali – non risultante da una decisione volontaria – consiste nel fabbricarsi «come una sorta di torpore psichico rispetto al mondo esterno»: 83 Sequestro Moro. Comunicato Br n. 9, comunicato diffuso dalle Br il 5 maggio 1978, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., p. 334. 84 Franceschini, Buffa, Giustolisi, Mara Renato e io, cit., pp. 152-153. 85 Ibidem, pp. 156-157. 86 Sémelin, Purificare e distruggere, cit., p. 293.

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chi uccide è presente, ma al tempo stesso non lo è. L’assassino, per sopravvivere, può dunque «sdoppiarsi», può «separarsi da sé»87. Per poter sparare, ha ricordato l’ex brigatista Susanna Ronconi, bisognava privarsi di ogni emozione: «La mia reazione è sempre stata quella di una sospensione totale di qualsiasi emotività. Prima l’emozione dominante è la paura, non solo la paura che vada male, è una paura più profonda, come se tu ti accorgessi che stai varcando una soglia […] poi c’è una sospensione di qualsiasi cosa, ho una percezione di me come se neanche respirassi… come un’assenza di suoni, di rumori, di colori, una specie di vuoto…»88. Durante azioni efferate come quelle a cui abbiamo fatto riferimento, il sentimento prevalente nel brigatista, oltre la paura – ha spiegato Antonio Savasta –, era il desiderio di «fare la cosa il meglio possibile, ma anche in maniera asettica». Quando si arriva ad uccidere un essere umano – ha aggiunto Savasta –, «non ti fai prendere dall’emozione, sei uno che fa della giustizia, che afferma dei valori e quindi non hai posto per l’odio, non hai posto per sentimenti molto forti, anche se dentro ce li hai, però non in quella funzione, non in quel momento»89. «Decretare in modo irreversibile il destino di un proprio simile» – ha scritto Prospero Gallinari – è «un macigno che solo la convinzione politica dei propri atti può sorreggere». Durante un’azione omicida, «la paura, i conti con se stessi di fronte a certe scelte e decisioni» vengono tuttavia schiacciati «nel profondo dello stomaco per andare oltre»90. Va inoltre sottolineato che il brigatista si sentiva costretto ad operare come un «esecutore della giustizia»: «Costretto dal fatto che è l’unica realtà possibile» – ha aggiunto Savasta –; «cioè non sono un killer, non sono un terrorista, sono uno che ha tutta una serie di valori, che vuol fare politica e oggi l’unica maniera in cui può fare politica è questa, perché non ci stanno altre strade, ce le hanno tolte, ci hanno tolto qualsiasi altro tipo di intervento»91. Jacques Sémelin, che ha studiato l’inferno dei genocidi e dei massacri, ha osservato che le stragi presuppongono, per chi le compie, un «investimento mentale» tra i più esigenti. Per accettare ciò che fa, il carnefice deve allora persuadersi che sta servendo «un interesse superiore», che può anche essere quello dell’intera umanità. Dunque, anziché pensare: «Che cose orribili ho fatto!», chi uccide deve 87 Ibidem, pp. 328-329. 88 Cit. in Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 337. 89 Intervista di Giuseppe De Lutiis ad Antonio Savasta, cit., p. 453. 90 P. Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Bompiani, Milano 2014 (1° edizione 2006), pp. 176-177. 91 Intervista di Giuseppe De Lutiis ad Antonio Savasta, cit., pp. 453-454.

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poter dire: «Che cose orribili ho dovuto fare!». Il carnefice, convinto di aver agito per senso del dovere, si «scollega» così da se stesso92. La sensazione di trovarsi senza vie d’uscita, di essere costretti a praticare l’azione violenta, è emersa anche dalle parole di Mario Moretti: «Quando scegliemmo la lotta armata era perché ogni altra strada ci era preclusa, ce ne sentimmo costretti. Costretti a cose tremende. Sapevamo cosa voleva dire uccidere, e anche restare uccisi, il primo colpo l’avevano sparato addosso a noi». L’uccisione di un essere umano era però un atto terribile, che finiva per entrare inevitabilmente in contraddizione con quel desiderio di un mondo più “umano” dal quale i brigatisti erano partiti: Impattiamo sulla morte – ha aggiunto Moretti – e la lacerazione è fortissima. Chi ci è passato è stato obbligato a guardare dritto nei significati ultimi da dare all’esistenza sua propria e altrui. E ne doveva aver fatto i conti in partenza. Come in guerra, dove si fanno cose terribili perché si ritengono terribili e necessarie93.

Le difficoltà incontrate dai brigatisti nell’affrontare delle azioni che avrebbero spezzato la vita di un essere umano sono state raccontante anche da Patrizio Peci. Riferendosi alle ore che precedettero la sua prima azione armata, Peci ha scritto: «Quella mattina avevo vomitato tutto, caffellatte, pane e bile. Avrei imparato presto che non bisogna mangiare prima di un’azione, almeno io. Continuai a vomitare ogni volta ma, almeno, solo bile. Non riuscivo neanche a dormire, la notte prima, io che di solito mi faccio otto-nove ore di sonno. Prima dell’azione, invece, un dormiveglia continuo»94. Valerio Morucci ha ricordato che «due o tre giorni prima dell’azione, quando tutto era pronto, la paura mi si attanagliava come una bestia e mi rodeva le budella come un verme malefico. Sudavo freddo al pensiero, e le gambe mi si afflosciavano»95. Emozioni e sensazioni davvero simili a quelle provate da Moretti, la notte precedente l’agguato di via Fani: «Non chiudo occhio, e penso, penso. Domattina cominciamo. Cominciamo con una sparatoria che è un’iradiddio. Un errore di calcolo, una disattenzione, un banale incidente e siamo tutti fregati». Secondo Moretti, aveva ragione Marighella quando diceva che «alla fine di tutti i ragionamenti un guerrigliero si trova solo in mezzo alla strada con la sua pistola e la sua paura». «È così» – ha spiegato Moretti – «la solitudine comincia la sera prima, quando su quella strada è già con l’immaginazione»96. 92 Sémelin, Purificare e distruggere, cit., pp. 312-313. 93 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 49. 94 Peci, Io l’infame, cit., p. 21. 95 Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, cit., p. 187. 96 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 126.

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Patrizio Peci ha voluto inoltre ricordare quanto fosse diverso partecipare ad una gambizzazione, piuttosto che ad un’azione in cui era prevista l’uccisione della vittima: Dopo un azzoppamento, passata la tensione, io tornavo a essere più tranquillo, a posto con la coscienza. Dopo un omicidio era diverso. Ho avuto la grandissima fortuna di non ammazzare mai nessuno personalmente. Ma quando partecipi a un omicidio ti senti come l’avessi fatto tu. Dopo un omicidio ero teso per parecchi giorni, come per una scontentezza interna, una tristezza di fondo che era difficile vincere. Non me ne rendevo neanche ben conto, lo attribuivo allo stress, ma era dolore per quella vita finita, per quello che avevi fatto a famiglie innocenti. L’ho capito solo dopo97.

Come ha osservato lo storico Angelo Ventrone, «paradossalmente, giovani partiti alla ricerca di una vita dotata di senso, di una vita autentica», approdarono drammaticamente, «attraverso l’assolutizzazione dell’ideologia e delle lotta al cosiddetto, e fantomatico, ‘sistema’, alla totale perdita del senso della vita degli altri e quindi, inevitabilmente, anche della propria»98. Il brigatista alienato L’escalation di violenza costrinse i brigatisti a darsi una struttura organizzativa più complessa rispetto a quella che avevano costituito nel ’72 e a rispettare delle regole di comportamento molto ferree. A questo proposito, è sicuramente di grande interesse il documento interno Norme di sicurezza e stile di lavoro99, che permette di comprendere fino a che punto la quotidianità del brigatista fosse condizionata dalle direttive dell’organizzazione. Di fianco all’autorappresentazione, emerge quindi un altro aspetto particolarmente interessante, che è quello della rappresentazione dei brigatisti verso l’esterno. Si tratta, nello specifico, della descrizione di come i militanti cercavano di apparire nella vita di tutti i giorni, per non destare sospetti tra i non appartenenti al gruppo armato. Il primo argomento che veniva trattato nel documento sopra citato era quello della gestione della casa, un bene dell’organizzazione che era stato affidato al militante, il quale avrebbe dunque dovuto rispettare delle regole bene precise. Innanzitutto, la casa doveva essere frequentata esclusivamente dai militanti che vi abitavano, e doveva essere conosciuta anche da un altro membro dell’organiz97 Ibidem, p. 143. 98 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 337. 99 Norme di sicurezza e stile di lavoro, documento interno brigatista, si presume risalente al 1974, ora in Dossier Brigate rosse 1969-1975, cit., pp. 311-317.

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zazione. Nessuno, al di fuori di loro, e ovviamente nemmeno i familiari, poteva conoscere né l’abitazione, né la zona in cui essa era ubicata. Una volta entrato in possesso di una casa dell’organizzazione, il brigatista doveva costruirsi un’identità sociale ben precisa. Il ruolo che avrebbe scelto – dall’operaio, al professore, dal rappresentante, al geometra – doveva poi essere fedelmente rispettato nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, se la scelta fosse ricaduta sulla figura dell’artigiano, il brigatista sarebbe dovuto uscire di casa prima delle 8 del mattino, senza più rientrarvi fino alle 12,30. Avrebbe poi dovuto lasciare l’abitazione alle 14, per rincasare alle 19, o più tardi. Salvo casi eccezionali, ogni militante doveva comunque rientrare entro la mezzanotte, e, a meno che non fosse stato strettamente necessario, avrebbe dovuto consumare i pasti presso la propria abitazione. Il lavoro di militanza doveva quindi seguire degli orari ben precisi, che dipendevano dalla figura sociale che il brigatista aveva scelto di ricoprire. Andavano curati anche i rapporti con i vicini di casa, onde evitare di generare in loro dei sospetti. Il militante doveva quindi presentarsi «con aria rassicurante e gentile», si legge nel documento; anche se era comunque necessario mantenere una certa riservatezza100. Risultava inoltre di fondamentale importanza la scelta dell’abitazione, che mai doveva trovarsi nelle vicinanze di bar, negozi, magazzini, e di tutti quei luoghi che attiravano spesso un gran numero di persone. Nel caso di un affitto, al militante veniva anche richiesto di valutare attentamente i tratti caratteriali del padrone e di rinunciare senza problemi alla stipula del contratto, nel caso in cui non si fosse instaurata una fiducia reciproca. L’organizzazione impartiva poi al brigatista delle regole molto ferree circa le caratteristiche che l’abitazione doveva assumere. Nel testo si legge infatti che «la casa deve essere proletaria: modesta, pulita, ordinata e completamente arredata del necessario. Essa deve comparire all’esterno come una casa decorosa». In ogni abitazione ci dovevano essere i documenti della stessa; una radio, oppure un televisore; una cassetta del pronto soccorso; oltre a tutto il necessario per permettere a due militanti di viverci101. Come ha spiegato Prospero Gallinari, dal momento che «clandestinità non significa nascondersi, ma piuttosto risultare talmente normali da non apparire affatto», la casa diventava un «tassello fondamentale di questo “stile di vita”». La casa doveva quindi garantire «anonimato», «sicurezza» e «praticità»102. Il brigatista doveva prestare attenzione soprattutto ai documenti e alle bollet100 Ibidem, p. 312. 101 Ibidem. 102 Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit., p. 115.

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te, che spesso venivano utilizzati dalle forze dell’ordine per rintracciare altre basi e altri militanti. Una volta pagate, le bollette andavano quindi distrutte, oppure depositate in una cassa, insieme ai documenti dell’abitazione. Nel caso di abbandono della base per motivi di sicurezza, tutti questi documenti non dovevano essere portati con sé, proprio per evitare che la polizia risalisse ad altre strutture. Una volta al mese, il brigatista doveva controllare tutto quanto vi fosse all’interno della casa, eliminando il materiale inutile, pericoloso o compromettente. Andava quindi conservato soltanto l’indispensabile. Il militante era poi chiamato ad evitare qualsiasi tipo di rumore, da quello della radio a quello della macchina da scrivere. Questi rumori, soprattutto dopo una certa ora, potevano infatti disturbare o insospettire i vicini, creando così degli inutili rischi. «La cosa migliore» – come è stato scritto – era allora «starsene stesi sul letto», ascoltando «musica e notizie in cuffia»103. Persino un’azione banale come la spesa non poteva essere svolta liberamente. L’organizzazione vietava infatti le compere nel quartiere in cui si abitava. Lo stesso valeva anche per l’acquisto dei quotidiani, così come per la frequentazione di bar e trattorie: tutti quelli della zona dovevano «essere accuratamente evitati»104. Anche quando si trovava alla guida della propria automobile, il brigatista doveva seguire delle precauzioni ben precise. Ogni militante doveva infatti prendere l’abitudine di guardare spesso nello specchietto retrovisore, specialmente quando rincasava oppure quando si recava in altre strutture dell’organizzazione. Era fortemente consigliato compiere anche dei giri appositamente studiati, per assicurarsi di non essere stati seguiti. Dopo aver regolamentato la gestione della casa, il documento interno si soffermava proprio sulla macchina, un altro bene che l’organizzazione dava in gestione al militante. Quest’ultimo doveva controllare tutte le scadenze – dal bollo auto, alla patente – e usare la macchina con criterio, mantenendola in piena efficienza e anche pulita. L’automobile doveva infatti figurare «ben ordinata», senza cartacce o volantini. Tutte le sere andavano poi tolti la radio, il mangianastri e tutto ciò che potesse attirare l’attenzione dei ladri. La macchina, infine, non andava prestata a nessuno, tranne in casi davvero eccezionali105. Il brigatista doveva rispettare una prassi prestabilita anche nel caso di incidente. Se questo fosse stato di lieve entità, bisognava lasciar perdere e arrivare nel più breve tempo possibile ad una conciliazione. Nel caso in cui l’incidente avesse assunto una certa gravità, il militante doveva invece raccogliere tutti i documenti e mettersi in salvo prima dell’arrivo della polizia. 103 Ibidem, pp. 149-150. 104 Norme di sicurezza e stile di lavoro, 1974, cit., p. 313. 105 Ibidem, p. 314.

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Proprio per evitare di procurare degli inutili problemi all’organizzazione, quando si viaggiava non andava creata alcuna occasione di litigio; il brigatista doveva quindi «guidare con estrema prudenza e totale rispetto delle norme del codice della strada». Infine, per non dare nell’occhio e, soprattutto, per abbattere i costi dell’organizzazione, le macchine dovevano essere di media cilindrata, oppure delle semplici utilitarie106. Un’altra importante questione che veniva affrontata nel documento era quella degli appuntamenti. Il militante non poteva infatti mai andare ad un appuntamento, senza che un altro membro dell’organizzazione ne fosse stato al corrente. Quando invece un appuntamento saltava, automaticamente ne veniva fissato un altro di recupero. In questo modo, soprattutto quando un rapporto non era stato ancora pienamente verificato, il brigatista poteva anche saltare appositamente l’appuntamento e mandare un altro compagno a controllare la zona. I luoghi degli appuntamenti andavano poi studiati nei minimi particolari, accertandosi che il luogo dell’incontro fosse provvisto di una facile via di fuga. Agli appuntamenti bisognava inoltre arrivare con un po’ di anticipo, ritagliandosi del tempo per perlustrare il luogo. Il brigatista doveva seguire delle precise direttive anche nella scelta dei luoghi d’incontro. Andavano evitati i parchi pubblici e tutte le zone particolarmente affollate; era quindi preferibile incontrarsi nell’hinterland. Gli appuntamenti non si dovevano comunque svolgere negli stessi luoghi, che andavano invece variati con una certa frequenza. Sempre per evitare ogni sorta di rischio, nessun militante regolare poteva frequentare le case dei militanti irregolari. L’organizzazione si preoccupava anche di regolamentare, «nella maniera più rigida», i rapporti tra il militante e tutti coloro i quali vivevano nella legalità. Visto che le indagini delle forze dell’ordine si concentravano spesso su chi era sospettato di avere contatti con l’organizzazione, quest’ultima stabiliva anche il tipo di rapporto che doveva intercorrere tra i compagni clandestini, le mogli e le loro famiglie. Il brigatista non poteva, ad esempio, avere contatti con i propri familiari nei giorni che precedevano o seguivano un’azione; bisognava poi allontanarsi dalle zone legali quando queste venivano colpite dalla repressione della polizia. Era infine necessario costruire dei validi alibi a coloro che vivevano nella legalità e con i quali il militante aveva trascorso un periodo di tempo. Tutti questi rapporti andavano comunque discussi con i responsabili della colonna107. Queste regole segnarono in profondità la vita di tutti i militanti. È il caso, ad esempio, di Mario Moretti, che per 10 anni non ha saputo come vivessero sua madre, sua moglie e suo figlio: 106 Ibidem. 107 Ibidem, p. 316.

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Mi ero imposto una censura rigida soprattutto per Macello – suo figlio –: riuscire a vederlo voleva dire torturarmi, avevo per lui troppa tenerezza per non star male. Stare nella clandestinità vuol dire anche questo, e perdere il ritmo e le cadenze di come vive la gente. […] era come se osservassimo scorrere la vita degli altri intorno a noi e non ci riguardasse per davvero. Nella clandestinità la sopravvivenza dipende dalla rapidità con cui ti muovi, con cui cambi tutto, dove abiti, dove mangi, come ti vesti. Finisce che, mentre una certa sensibilità sociale si acuisce perché impari a cogliere gli umori della gente per capire come muoverti da organizzazione armata, esistenzialmente diventi un fantasma. Non che per te stesso non sei reale; anche i compagni sono reali e i rapporti con loro hanno una intensità forse maggiore. Ma è per gli altri che non devi esistere. Stai nell’astrazione d’una lotta nella quale il più piccolo errore può avere conseguenze gravi, sei totalmente vincolato alle sue necessità, obbligato a traversare l’universo delle relazioni imponendoti di ignorarne la consistenza. Proprio come un fantasma passa attraverso i muri108.

Il brigatista doveva rispettare anche alcuni dettami che riguardavano la cura della propria persona. «Ogni compagno», si legge nel documento, «deve essere decorosamente vestito e in ordine nella persona: barba fatta, capelli tagliati, ecc.». Sulle agendine personali andavano stracciati tutti gli appuntamenti passati, mentre quelli futuri andavano segnati «in codice personale»109. Il militante non poteva nemmeno annotarsi i numeri telefonici, neppure in codice. L’organizzazione si raccomandava invece che tutti i compagni portassero sempre con sé la propria arma. Il testo si chiudeva con una sintetica enunciazione delle regole che il militante doveva rispettare in caso di arresto. Una volta finito nelle mani delle forze controrivoluzionarie, il compagno doveva rifiutarsi di rispondere a qualsiasi tipo di domanda. Se l’arresto fosse maturato durante un’azione, il militante doveva «immediatamente» rivendicare la propria identità politica; invece, nel caso in cui fosse stato catturato in altre circostanze, la rivendicazione sarebbe avvenuta successivamente, dopo aver interpellato l’organizzazione. Veniva poi ricordato al militante di evitare gli obiettivi dei fotografi e quelli delle telecamere, al fine di salvaguardare l’organizzazione da ulteriori problemi110. Il contenuto del suddetto documento è molto simile a ciò che i Tupamaros avevano scritto nel Regolamento dell’Organizzazione. «Ogni membro dell’Organizzazione» – si legge nel testo – doveva infatti «osservare la più rigida disciplina, obbligatoria allo stesso modo per tutti. Detta disciplina presuppone l’obbligo da parte del membro di applicare in modo rapido, tenace e scrupoloso le decisioni degli organismi a lui corrispondenti. […] Non farlo significa violare la disciplina e rendersi passabile di sanzioni». 108 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 33. 109 Norme di sicurezza e stile di lavoro, 1974, cit., p. 316. 110 Ibidem, p. 317.

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Tra i comportamenti che l’organizzazione uruguaiana riteneva passibili di sanzioni, oltre alla «violazione del Programma o del Regolamento», vi erano anche «le critiche al di fuori del proprio organismo», la conduzione di una «vita dissoluta», «l’indiscrezione», i «vizi» e il «tradimento». Le sanzioni, che variavano a seconda della gravità della mancanza commessa, andavano dalla censura all’espulsione dall’organizzazione. In alcuni casi erano previste anche delle «misure speciali». I Tupamaros dovevano inoltre seguire un vero e proprio «regolamento morale». L’organizzazione ricordava infatti che «un militante rivoluzionario deve agire nella sua vita di tutti i giorni in modo coerente coi principi che sostiene e che difende con l’azione politica. Non basta avere un’ideologia rivoluzionaria. Deve vivere da rivoluzionario»111. Il documento interno brigatista Norme di sicurezza e stile di lavoro mette quindi in evidenza tutte le privazioni che contraddistinguevano la vita del brigatista, costretto a rispettare la dura disciplina dell’organizzazione. La decisione di alzare il livello della violenza, arrivando ad uccidere tutti quei nemici che – secondo i brigatisti – incarnavano il potere, costrinse così i militanti delle Brigate Rosse a rinunciare a quello stesso desiderio di libertà che aveva invece animato la loro scelta rivoluzionaria. L’organizzazione acquisì allora una centralità assoluta nella vita del militante: «C’è chi ha la squadra di calcio, chi ha la moglie, chi ha la macchina» – ha osservato Patrizio Peci – «io avevo l’Organizzazione e, attraverso l’organizzazione, ero convinto di lavorare anche per il bene di chi pensava solo alla moglie, alla squadra di calcio, alla macchina»112. Le rigide norme dell’organizzazione portavano però il militante ad avere dei pensieri maniacali che lo tormentavano costantemente. È stato soprattutto Valerio Morucci a soffermarsi sulle ossessioni che contraddistinguevano la quotidianità del brigatista: Quello che invece stressava da matti era dover stare sempre a controllare tutto. Hai preso la pistola? È carica? E hai preso il caricatore di riserva? Ce li hai i documenti? Ti sei messo gli occhiali finti? Hai dato tutte le mandate alla porta? Hai controllato dalla finestra prima di uscire? E ora non guardarti intorno con aria sospettosa perché queste stronzate le fanno solo al cinema, vai deciso per la tua strada, controllerai dopo. Hai preso le chiavi delle macchine? Ma dove sono parcheggiate? Hai dato a tutti le indicazioni su quello che devono fare? Gli appuntamenti li hai dati precisi? Perché il tale non arriva? Non è che vi siete capiti male? Ripensa a quello che gli hai detto. Parola per parola. Hai dimenticato niente? Da prendere, da fare, da vendere? Cos’è questa sensazione che ti sei dimenticato qualche cosa, appiccicata al cervello? C’è benzina nella macchina? Hai messo la sicura allo sportello? E adesso l’hai tolta 111 Regolamento dell’Organizzazione, in Dueñas Ruiz, Rugnon De Dueñas, Tupamaros. Libertà o morte, cit., pp. 226-228. 112 Peci, Io l’infame, cit., p. 61.

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per risalire al volo dopo l’azione? E quando sei dentro non tenere il dito sul grilletto, ché se sbatti da qualche parte va a finire che ammazzi qualcuno. Hai controllato che non ci sia nessun altro dentro quel cazzo di posto? Non è che qualcuno magari sta già chiamando la polizia? Li hai staccati i telefoni? Ora non sgommare, vai rapido ma senza strafare. Anche queste, di stronzate, le fanno solo al cinema. Chi cavolo sono quei tre in quella macchina? Ha l’antenna corta della polizia? C’è qualche testa di cazzo curiosone dalla finestra? Hai messo un po’ di riviste sul lunotto posteriore? E il cane con la testa che dondola? Ti sei guardato alle spalle? Hai cambiato l’autobus? Hai preso il secondo e non il primo? E non alzare il braccio per reggerti ‘agli appositi sostegni’, che si vede il gonfiore della pistola. E chi è il tipo salito con quel borsello in mano? È uno sbirro? Guarda se paga il biglietto. E sei sceso due fermate prima? Hai fatto spesa lontano da casa o ti sei impigrito113?

Morucci ha persino raccontato che una notte – quando abitava da solo in una garçonnière –, sognò di essere in pericolo. Sonnambulo, scese allora dal soppalco dove dormiva, aprì alcuni bauli che nella stanza sottostante contenevano armi, estrasse un mitra e se lo portò con sé sul soppalco. «Meno male che il sogno non si era spinto fino a una sparatoria» – ha continuato Morucci – «perché in tal caso, nel mio angosciato sonnambulismo, avrei magari premuto il grilletto, con lo spavento e i pericoli conseguenti»114. Quella della clandestinità fu pertanto una condizione davvero difficile da sopportare per la maggior parte dei brigatisti, che spesso furono costretti a dare un taglio netto a tutti i rapporti esterni all’organizzazione. Alfredo Buonavita, un ex militante delle Br, ha raccontato in una testimonianza quanto fosse insopportabile il peso della clandestinità, che, come abbiamo visto, era normata da regole molto rigide. Quando faceva militanza a Torino, Buonavita conobbe, ad esempio, diversi ragazzi che non facevano parte delle Br, ma le regole stilate dall’organizzazione gli impedivano di frequentarli. Accettare questa situazione fu tremendamente difficile per lui, così come per la maggior parte degli altri brigatisti: No. Non l’ho mai accettato. E questo non solo io, diversi di noi. Per esempio, avevo la mia compagna, stava alle Vallette, c’aveva 17 anni quando l’ho conosciuta e ne avevo 20; lei voleva entrare nelle Br, io, ecco, già dicevo «no», proprio «no» e basta – e infatti non c’è mai entrata – e però mi andava di trovarmi con la mia compagna, perché ritrovi anche una… proprio una boccata di ossigeno. Quando sei latitante, trovarti una persona normale che non discuta i problemi dell’organizzazione, di queste cose qui, no? perché con gli altri, anche quando vai a cena, ruoti sempre intorno a ‘sto problema… E, naturalmente, la mia compagna poi è inserita in una struttura: la sua scuola, dove abita, tutti i suoi problemi, e significa conoscere tutta una serie di compagni, di persone normali. Per me questo 113 Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, cit., pp. 157-158. 114 Ibidem, p. 159.

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era una cosa assolutamente normale. Lo stesso con altri compagni, appunto, a San Paolo, alle Vallette… a Porta Palazzo conoscevo gente115.

Per il brigatista non era semplice far scivolare in secondo piano i dettami dell’organizzazione, per vivere pienamente la propria vita. A questo proposito, risulta essere, ancora una volta, di una chiarezza estrema l’intervista di Alfredo Buonavita, che ha raccontato come l’organizzazione reagiva quando il militante non sottostava alle regole: Rispetto a questo reagivano in questo modo: «Ah, tu fai così? Va bene, noi non ti espelliamo per questo, però se a te ti arrestano e non sappiamo perché sei stato arrestato, andiamo lì e tiriamo quattro cannonate a questo e a quello». Cioè, sai questi discorsi… terroristici! […] C’era chi aveva questa convinzione di tipo proprio… da frati116.

Ad avere un comportamento di questo tipo, secondo Buonavita, era soprattutto Renato Curcio, che non tollerava assolutamente che il militante potesse decidere di non rispettare le regole che erano state fissate. La vita da brigatista era quindi «pesantissima», soprattutto da un punto di vista personale, da un punto di vista umano. «In clandestinità», ha detto Moretti, «le condizioni sono terribili, lotte, sacrifici, una pressione psicologica continua, senti addosso la campagna della stampa, la separazione pesa, la reggi o non la reggi, ma è tremenda». In tutto ciò, anche la solidarietà dei compagni, che all’inizio «è un muro che ti protegge», poi «diventa un pressa»117. La clandestinità e l’organizzazione avevano assorbito la quotidianità, che era ormai dominata esclusivamente dai rapporti politici. A mancare erano soprattutto gli amici e gli affetti. Per quanto riguardava le relazioni sentimentali, l’organizzazione incoraggiava i rapporti tra regolari, mentre le unioni tra un regolare e una irregolare venivano sconsigliate. Questo portava spesso alla formazione di veri e propri «piccoli clan privati» all’interno del «grande clan» che era l’organizzazione. Quest’ultima era tuttavia contraria al fatto che la coppia potesse vivere nella stessa casa. Il rischio, oltre a quello di «un imborghesimento totale», era la creazione di «minicellule troppo indipendenti» dalla struttura generale118. La decisione di dividere la coppia, secondo Morucci, serviva anche «per far pesare sulla carne il sacrificio rivoluzionario». Queste regole – ha ricordato il brigatista – potevano tuttavia offrire dei vantaggi: «Alcuni – come Moretti – in115 Intervista di Luisa Passerini ad Alfredo Buonavita, cit., p. 107. 116 Ibidem. 117 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 252. 118 Peci, Io l’infame, cit., pp. 98, 101.

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terpretavano il riposo del guerriero come avere una donna in ogni città, e anche più d’una, all’occorrenza»119. Un altro problema, che spesso attanagliava l’organizzazione, era quello dei rapporti sessuali. Dal momento che i brigatisti non potevano dedicarsi alla prole, quando una militante rimaneva incinta, diventava necessario abortire, sebbene non si potesse fare affidamento sulla mutua. Da veri clandestini, i brigatisti praticavano dunque anche l’aborto clandestino, il cui costo – davvero elevato – finiva spesso per animare violente discussioni nelle varie colonne120. Il tema dei figli fu sicuramente uno dei più dibattuti all’interno dell’organizzazione. Le brigatiste – ha ricordato Renato Curcio – si chiedevano spesso: «Se la lotta armata clandestina dovesse durare molti anni – come sembrava possibile – ciò significa che la nostra militanza impedirà di avere figli?». Domande che restarono con tutta probabilità senza risposta, tanto che – a detta di Curcio – nessun clandestino ebbe figli durante la sua permanenza nelle Brigate Rosse. Soltanto la compagna di uno dei dirigenti della prima colonna milanese, rimasta incinta nel ’73, espresse il desiderio di tenersi il bambino. L’organizzazione – dopo aver valutato che la coppia non fosse nota alla forze dell’ordine – diede la possibilità ai due di tornare «alla normalità», iniziando così a costruire la loro famiglia121. Il sesso diventava spesso un problema anche per gli uomini, dal momento che non era affatto facile colmare i vuoti di affettività con delle militanti che, nella maggior parte dei casi, erano più «aggressive» e «prepotenti» di loro. Infatti, sebbene i rapporti all’interno dell’organizzazione fossero paritari, le militanti cercavano comunque di dimostrare che la donna valeva quanto l’uomo, finendo così per eccedere in combattività122. Per le guerrigliere – è stato scritto –, «il gruppo armato delineava una totalità complessiva, un “neutro plurale” capace di superare la differenza di genere per riagganciarsi ad un’umanità in lotta, non più divisa nell’incapacità di rapportarsi con l’altro da sé»123. Dalle testimonianze degli ex brigatisti è emerso comunque che all’interno delle Brigate Rosse permanevano in realtà alcuni pregiudizi. Nell’azione militare, ad esempio – ha detto Buonavita – «tu neghi tutte le prevenzioni e neghi tutte le differenze, poi, di fatto, quando decidi di fare una cosa e sei in cinque, la donna guida l’automobile solamente, sempre e comunque. […] Il problema qual era? che, secondo noi, una donna con una pistola in mano non faceva lo stesso effetto 119 Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, cit., p. 227. 120 Peci, Io l’infame, cit., p. 101. 121 Curcio, A viso aperto, cit., pp. 44-45. 122 Sull’aggressività delle donne brigatiste, si veda Peci, Io l’infame, pp. 93-95. 123 C. Cretella, Clausure. Geografie dello spazio tra generi e generazioni, Dakota Press, Camerano 2012, p. 47.

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di un uomo»124. Mosse dall’intento di sfatare la vacuità di questi pregiudizi, le donne brigatiste spesso esageravano, diventando davvero violente. I rapporti sessuali, così come quelli familiari, passavano tuttavia in secondo piano rispetto ai rapporti politici: «Quando la tua vita è basata sull’Organizzazione» – secondo Patrizio Peci – «nessuno si sbilancia più di tanto, e non c’è vita famigliare o sesso che tengano: il mitra diventa il tuo bambino e una notte passata a ciclostilare diventa una notte d’amore, tu e il ciclostile»125. Le regole della clandestinità finivano dunque per schiacciare il militante, che veniva privato anche del suo tempo libero. Il brigatista era quindi costretto ad abbandonare anche le sue passioni: «Ma come si fa?» – ha scritto Peci – «la vita era veramente monotona, ci era proibito quasi tutto quello che fa la gente normale. Io per esempio, con tutta la mia passione per il calcio e per di più essendo tifoso della Juventus e abitando per un certo periodo vicino allo stadio, non ho mai – e dico mai – potuto andare alla partita, e sì che mi sarebbe piaciuto. Una volta ho dovuto quasi picchiare un bagarino, tanto insisteva per darmi un biglietto. […] ho capito che insisteva perché vedeva la tentazione nei miei occhi, poveretto. Poveretto anch’io, ridotto a ronzare intorno allo stadio, pieno di desiderio, senza poterci entrare a vedere il Bettega e il Cabrini, che erano i miei idoli»126. L’organizzazione vietava ai propri militanti di entrare allo stadio soprattutto per il pericolo delle perquisizioni, al quale si aggiungeva il rischio di essere coinvolti in qualche rissa, che avrebbe potuto creare dei seri problemi sia al singolo militante, che al resto dell’organizzazione. Le passioni sportive non furono però le uniche che il militante dovette accantonare. L’ex brigatista Susanna Ronconi fu costretta, ad esempio, a rinunciare al suo attivismo femminista. Raccontando la sua scelta di diventare clandestina, Ronconi ha detto: «Ho un ricordo lacerante e tremendo del distacco: l’abbraccio a mia madre – ignara – l’ultimo sguardo alla mia casa (che non rivedrò più), l’ultima manifestazione femminista, poche ore prima della partenza, fatta piangendo dall’inizio alla fine, senza poter comunicare nulla a nessuna; la prima base, una soffitta di uno squallore assoluto; una solitudine abissale»127. A subire queste privazioni non furono soltanto i brigatisti, ma anche i militanti delle altre formazioni armate rivoluzionarie. È il caso ad esempio di Claudia, una ragazza che negli anni Settanta scelse di militare in Prima Linea. In un’intervista, l’ex militante si è soffermata sulla vita che conduceva prima di entrare nell’organizzazione: 124 Intervista di Luisa Passerini ad Alfredo Buonavita, in Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo», Storie di lotta armata, cit., p. 122. 125 Peci, Io l’infame, cit., p. 99. 126 Ibidem, p. 113. 127 Intervista a Susanna Ronconi, in Novelli, Tranfaglia, Vite sospese, cit., p. 174.

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Prima facevo l’intervento nel quartiere, si davano i volantini, si facevano assemblee, si arrivava al momento in cui la notte stavamo lì a fare le bollette non pagate, ridotte, o magari anche a respingere quelli dell’Enel che venivano a staccare la luce; però dopo c’era un momento in cui il pomeriggio, la sera stessa non so, andavo a vedere una cosa sugli etruschi e mi appassionavo a questa cosa; poi l’intervento tornava il giorno dopo128.

Quando Claudia decise invece di entrare in Pl, la lotta armata finì con il prendere il sopravvento su tutto ciò che non riguardava l’attività politico-militare: […] da lì in poi il mio quotidiano diventava quello anche se facevo tutti gli sforzi di non perderli questi interessi, però pur avendoli come interessi non avevo un tempo materiale di approfondimento perché non era solo un discorso di studio tecnico, era la mia vita che c’entrava. Andare a fare una rapina significava anche tornarci oppure andare immediatamente in galera, per cui mettevo in discussione un po’ più di cose…129.

Liviana Tosi – anche lei ex militante di Prima Linea – ha dichiarato che con l’esperienza clandestina prese coscienza «della pesantezza del vivere il rapporto tra lo spessore reale della propria vita e la pratica armata quotidiana». «La clandestinità» – secondo Tosi – «è essere a metà con se stessi e gli altri: solo un forte senso etico, morale, di possesso di sé, può sopperire alle mille privazioni che questa condizione comporta»130. L’unico svago per il brigatista erano le ferie, che venivano pagate dall’organizzazione. Quest’ultima si raccomandava tuttavia di approfittare del tempo libero delle vacanze per approfondire il dibattito. Cercando di illustrare la vita clandestina del brigatista, Patrizio Peci ha scritto: «La gente immagina che la vita del brigatista sia tutta violenza, mistero e avventura. Macché. Quei momenti lì sono pochissimi, un’infima minoranza rispetto al resto. Il resto è fatto di problemi quotidiani e di banalità senza nome. Problemi di cuore, di sesso, di casa, di soldi, di vacanze, di affetti famigliari. Soprattutto problemi psicologici, perché tutti gli altri sono aggravati dal fatto di essere fuori dal mondo, contro il mondo, e non sempre – anzi quasi mai – la Causa serve a distrarti o a risolverti una lite con la tua ragazza, ammesso che una ragazza riesci ad averla». Quando i giovani militanti partivano per la clandestinità – ha aggiunto Peci – pensavano di diventare degli avventurieri, dei legionari stranieri, degli agenti segreti, salvo poi accorgersi di essere soltanto dei poveri brigatisti che si trovavano fuori dal mondo131. 128 Intervista di Donatella della Porta a Claudia, in Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo», Storie di lotta armata, cit., p. 304. 129 Ibidem, pp. 304-305. 130 Intervista a Liviana Tosi, in Novelli, Tranfaglia, Vite Sospese, cit., p. 393. 131 Peci, Io l’infame, cit., pp. 83-84.

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In alcuni casi – come accaduto a Prospero Gallinari durante il sequestro Moro – al brigatista veniva chiesto di vivere proprio come un fantasma: «Non distinguo più la differenza tra il giorno e la notte, se non dalla luce che entra dalle finestre. Il sonno si è trasformato in brevi parentesi. Per il resto sono quasi sempre sveglio, attento allo svolgersi dei fatti, al controllo dei rumori e dei movimenti che avvengono all’interno e attorno alla casa»132. Gallinari era diventato «un fantasma esattamente come Moro» – ha raccontato Mario Moretti –, tanto che nessuno poteva immaginare che si trovassero in quella abitazione133. La vita del militante – come avrebbe poi spiegato Alfredo Buonavita –, era «una vita abbastanza da monaci, era pesantissima da questo punto di vista qui, diciamo personale, di rapporti con la gente»134. La clandestinità e la disciplina, imposte dall’organizzazione, contribuirono quindi – in maniera decisiva – ad isolare il militante delle Brigate Rosse dalla realtà che lo circondava, quella stessa realtà che il brigatista si proponeva di cambiare. Lo stile di vita imposto dalle regole di sicurezza portò infatti alcuni brigatisti – quali, ad esempio, Silvia Arancio – a notare «la dicotomia tra la scelta della clandestinità e la necessità di essere presenti nelle situazioni sociali in cui si voleva intervenire»135. Come ha scritto Valerio Morucci, «la clandestinità tutto taglia. È una via senza ritorno»136. «A volte mi sentivo come schizofrenico» – ha aggiunto il brigatista – «perché un’altra parte di me scalciava contravvenendo alla regole»137. I brigatisti – secondo Mario Moretti – non sono stati quindi dei «grandi guerrieri», quanto piuttosto dei «militanti comunisti capaci di un’autodisciplina che […] rasentava la follia»138. Il brigatista elitario Un altro tipo di rappresentazione emerge infine dai documenti brigatisti, ovvero l’immagine di sé che essi intendevano comunicare all’esterno per differenziarsi dagli altri appartenenti alla loro stessa area politica. Da questa rappresentazione affiora un aspetto di particolare interesse. In quest’ultima fase, le Brigate Rosse avevano infatti assunto un carattere elitario e si presentavano come il faro della rivoluzione. Come si è visto nei paragrafi precedenti, tra gli obiettivi perseguiti dai briga132 Gallinari, Un contadini nella metropoli, cit., p. 193. 133 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 138. 134 Intervista di Luisa Passerini ad Alfredo Buonavita, cit., p. 114. 135 Intervista a Silvia Arancio, in Novelli, Tranfaglia, Vite sospese, cit., p. 382. 136 Morucci, La peggio gioventù, cit., p. 106. 137 Id., Ritratto di un terrorista da giovane, cit., p. 227. 138 Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 122.

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tisti vi era la costruzione del Partito combattente, che doveva essere costituito dai quadri combattenti. I brigatisti non si ritenevano tuttavia membri di questo Partito, ma di un’avanguardia armata che, pur considerandosi un punto di riferimento per tutti i rivoluzionari, lavorava ancora nel Proletariato metropolitano per la sua costruzione139. Le Brigate Rosse si ponevano dunque come uno dei primi embrioni del Partito combattente. «La loro prospettiva» – ha scritto lo storico Angelo Ventrone – «era quella di spingere ad unificarsi, attraverso le proprie azioni, le forze fino a quel momento disperse del movimento»140. Se, da un lato, i brigatisti ritenevano che non vi fosse un’identificazione tra Br e Partito combattente, dall’altro dichiaravano anche che l’avanguardia armata dovesse agire da partito sin dalla sua nascita. Questa era infatti un punto di riferimento essenziale, che, durante la lotta di classe, doveva indicare la strada da seguire al Proletariato metropolitano. L’avanguardia agiva dunque come «nucleo strategico» del Partito comunista combattente in costruzione141. Come avevano scritto nel comunicato di rivendicazione dell’attentato al democristiano Remo Cacciafesta, i brigatisti credevano di avere gli strumenti per poter lavorare sulla «crescita politica» del Movimento di resistenza. Era infatti l’avanguardia a dover «organizzare strategicamente il potenziale rivoluzionario del proletariato», creando le condizioni per un’alternativa di potere. Bisognava pertanto «guidare il movimento proletario», «porsi alla sua testa», ed «assumerne la direzione»142. Le azioni che venivano organizzate – come si leggeva nel comunicato di rivendicazione dell’attentato al democristiano Antonio Cocozzello – andavano dunque intese come un’«indicazione al movimento rivoluzionario»143. La decisione di alzare notevolmente il livello dello scontro, arrivando a praticare quotidianamente delle azioni violente contro le persone, portò tuttavia il brigatista a staccarsi progressivamente dalle masse. Contribuirono a questo distacco anche le rigide norme dell’organizzazione, che – come abbiamo visto – regolamentavano meticolosamente la vita del militante in ogni suo aspetto. La violenza prese dunque il sopravvento, annullando tutto il resto e persino le decine di documenti in cui i brigatisti avevano sottolineato l’importanza del legame tra braccio politico e braccio militare. I militanti delle Br finirono così per diventare il braccio armato delle masse, assumendo i contorni di una vera e propria élite. I brigatisti si presentavano dunque come degli illuminati, che erano pronti a guidare il proletariato – vincendo la sua cecità – verso un mondo nuovo. 139 Risoluzione della Direzione strategica, 1978, cit., p. 284. 140 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 308. 141 Risoluzione della Direzione strategica, 1978, cit., p. 284. 142 Rivendicazione attentato Cacciafesta, comunicato brigatista diffuso il 21 giugno 1977, ora in Dossier Brigate rosse 1976-1978, cit., pp. 97-98. 143 Risoluzione della Direzione strategica, 1977, cit., p. 142.

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L’organizzazione si trasformò in una specie di setta, tanto che per poter entrare a far parte di questa élite, i nuovi militanti dovevano superare una serie di prove. L’ingresso nell’organizzazione, che poteva avvenire soltanto dal basso, dipendeva infatti dal giudizio che ogni cellula, in modo collegiale, avrebbe espresso. Si trattava di un giudizio politico, militare e di sicurezza. Il giudizio politico riguardava il livello di conoscenza della linea strategica, del programma politico e dei principi dell’organizzazione; il giudizio militare consisteva nel dar prova «della propria totale disponibilità alla lotta armata»; il giudizio di sicurezza significava invece che i nuovi militanti andavano verificati sull’applicazione delle norme di sicurezza e di comportamento, indagando anche sul loro passato, per escludere la presenza di zone d’ombra144. I brigatisti, prima prendere qualcuno con loro – ha ricordato Morucci –, «gli facevano fare l’esamino su tutti i loro pallosissimi documenti, e chi non se li era imparati a memoria non era abbastanza rivoluzionario». Ci furono, ad esempio, alcuni ragazzi «con più esperienza di quelli che facevano loro l’esamino, che furono “rimandati” perché non si erano imparati bene tutta la pappardella»145. Le Brigate Rosse, come hanno testimoniato alcuni ex militanti, avevano anche dei riti di iniziazione: «Per poter diventare un “regolare” delle Brigate rosse» – ha raccontato l’ex brigatista Raffaele Fiore – «era richiesta un’azione di esproprio proletario che stava a significare una sorta di rottura con una serie di logiche politiche consolidate. Compiere una rapina […] per l’organizzazione voleva dire una sorta di rito iniziatico attraverso il quale venivano abbattuti alcuni muri e convenzioni sociali»146. Una volta entrato nell’organizzazione, al militante veniva assegnato un ruolo ben preciso. Per poter scalare la gerarchia interna, il brigatista doveva invece attendere che un suo superiore venisse arrestato o ammazzato147. Visto come funzionavano le promozioni, pur di far carriera all’interno delle Br, i militanti non guardavano in faccia a nessuno e spesso non disdegnavano l’arresto di un compagno che ricopriva un ruolo superiore148. Chi entrava a far parte delle Brigate Rosse diventava quindi membro di una ristretta élite di professionisti della rivoluzione che erano pronti a guidare le masse. «Il fatto che poche decine di persone, noi brigatisti, volessimo decidere per tutti e guidare queste masse» – ha scritto Patrizio Peci – «non mi sembrava affatto un controsenso, perché la storia insegna che tutte le rivoluzioni sono iniziate da 144 Risoluzione n. 2 della Direzione strategica, 1975, cit., p. 385. 145 Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, cit., p. 197. 146 Grandi, L’ultimo brigatista, cit., p. 66. 147 Sul sistema delle promozioni nelle Brigate Rosse, si veda Peci, Io l’infame, cit., pp. 60-61. 148 Si veda il racconto di Patrizio Peci sulla brigatista Nadia Ponti, in Peci, Io l’infame, cit., pp. 96-97.

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un manipolo di uomini. […] Ci vuole un’avanguardia, un piccolo gruppo che veda in anticipo certe cose e che trascini gli altri»149. Che le masse proletarie fossero considerate incapaci di intraprendere da sole il cammino rivoluzionario era emerso già dall’intervista che Renato Curcio aveva rilasciato a Mario Scialoja nel dicembre del 1974, direttamente dal carcere di Casale Monferrato. Quando Scialoja aveva chiesto al fondatore delle Br perché la maggioranza degli operai non condividesse la scelta della lotta armata, Curcio aveva risposto seccamente che la classe operaia non andava mitizzata. Si trattava infatti di un «proletariato telediretto», manipolato, che non faceva quindi testo. Il giudizio di questi operai sarebbe diventato «libero e genuino» soltanto con lo sviluppo della crisi e della guerra rivoluzionaria, che avrebbe posto anche i «proletari condizionati» di fronte ai loro interessi di classe. Il messaggio che lanciavano i brigatisti, spiegava Curcio, si rivolgeva così alle «fasce proletarie di avanguardia»150. Come ha sottolineato lo storico Angelo Ventrone, la risposta di Curcio preannunciò quanto le Brigate Rosse avrebbero fatto successivamente, chiudendosi sempre più in un circuito autoreferenziale e allontanandosi così da quelle stesse masse operaie che dicevano di rappresentare151. Nella seconda metà degli anni Settanta, le Brigate Rosse diventarono così un’organizzazione marcatamente leninista. Lo stesso Mario Moretti ha dichiarato: «Non si è mai visto che un’avanguardia chieda una delega. In questo siamo stati fin troppo leninisti. Eravamo certi di interpretare un bisogno diffuso. […] Non ho mai creduto […] che l’operaio potesse essere il motore della trasformazione»152. Come ha confermato in un intervista l’ex brigatista Antonio Savasta, i militanti delle Br si sentivano parte di un gruppo che aveva una missione. I brigatisti avevano la sensazione di «essere tra i pochi coscienti, tra i pochi capaci di risvegliare le masse, da una parte costrette e dall’altra parte, addormentate da quel modo di fare politica, da questo tipo di società, dalla cultura, dai mass-media e così via». Savasta ha poi aggiunto: […] tu cominci a diventare un po’ l’ultimo baluardo, la salvezza contro un mondo che sta licenziando mettendo sul lastrico le famiglie, non gli dà casa non gli dà prospettive, non gli dà lavoro, ha come ultima possibilità la guerra perché sta andando sempre più avanti nella produzione di armi e così via […]. Se fossero liberate le potenzialità (mi ricordo c’era questo discorso molto forte che riprendevamo sempre, delle potenzialità), il proletariato che ha costruito tutto e che oggi è asservito, liberandosi dalle catene dall’asservimento può ricostruire 149 Peci, Io l’infame, cit., pp. 53-54. 150 Dal carcere di Casale Monferrato, 1974, cit., p. 320. 151 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 303. 152 Moretti, Brigate Rosse, cit., pp. 35-36, 45.

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ancora tutto e meglio. […] Quindi siamo responsabili di tutta questa storia, non possiamo tirarci indietro, non posso io Antonio tirarmi indietro nel momento che l’ho capito e l’ho scoperto153.

Anche la violenza veniva intesa come una forma di intelligenza superiore, che le masse ancora non possedevano: vediamo più a fondo di altri – ha detto Enrico Fenzi, uno degli ideologi delle Br –; gli altri si fermano alla carne, non scendono allo scheletro. Noi capiamo che tutto è violenza, che i rapporti sociali sono tutta una finzione, che la carne nasconde uno scheletro di violenza, è solo la violenza che esiste, è solo esercitando la violenza che si manifesta un potere reale; e dunque noi, per essere forti, dobbiamo esercitare violenza. Perché siamo intelligenti e quindi abbiamo capito che non esiste altro che la violenza, e solo la violenza ci fa esistere in quanto soggetti politici e sociali forti154.

Le Brigate Rosse assunsero quindi i tratti di un’organizzazione elitaria e iniziarono così a staccarsi da quelle masse proletarie a cui dicevano di rivolgersi. Tra le cause di questo progressivo distacco dal proletariato non vi furono tuttavia soltanto le rigide norme che regolavano la vita del militante clandestino. Un ruolo altrettanto importante venne infatti giocato dalla convinzione, che molti brigatisti maturarono in quel periodo, di sentirsi parte dell’avanguardia per eccellenza che avrebbe fondato il Partito comunista combattente. Le Brigate Rosse – secondo lo storico Angelo Ventrone – costruirono la propria immagine come quella di «un gruppo distante, per la propria forza, per la perfezione delle proprie azioni, per la dedizione totale alla causa, da tutte le altre organizzazioni della galassia terroristica, nella convinzione che queste ultime sarebbero state costrette a vedere nelle Br il loro punto di riferimento principale e ad accettare, nei fatti, la loro guida»155. E, ha sottolineato Patrizio Peci, l’organizzazione costudiva gelosamente questa sua immagine: «L’Organizzazione non tollera l’ironia né sopporta di essere sbeffeggiata, proprio perché ha gran parte della sua forza e del suo fascino nell’immagine dura ed efficiente che si è costruita»156. Molto significativa, a questo proposito, anche la testimonianza di Valerio Morucci, che ha raccontato che quando era ancora un militante di Potere Operaio aiutò le Brigate Rosse a trovare delle armi: «Mi prestai e, anziché riceverne un qualche ringraziamento, dovetti sorbirmi tutta la loro boria. Per loro era un atto dovuto. 153 Intervista di Giuseppe De Lutiis ad Antonio Savasta, cit., pp. 441-442. 154 Intervista ad Enrico Fenzi, in S. Zavoli, La notte della Repubblica, Mondadori, Milano 1995 (1° edizione 1992), p. 498. 155 Ventrone, “Vogliamo tutto”, cit., p. 331. Sull’attrazione esercitata dalle Brigate Rosse si veda anche R. Catanzaro, Il sentito e il vissuto. La violenza nel racconto dei protagonisti, in Id. (a cura di), La politica della violenza, il Mulino, Bologna 1990, pp. 238-239. 156 Peci, Io l’infame, cit., p. 144.

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Quasi dovevo ringraziarli io per avermi permesso di aiutarli». I brigatisti si sentivano infatti come «il faro della Rivoluzione. Tutti gli altri erano dei cani morti»157.

157 Morucci, La peggio gioventù, cit., p. 87.

Ringraziamenti

La realizzazione di questo libro è stata possibile soltanto grazie al contributo, all’impegno e al sostegno offertomi da colleghi, amici e parenti. Innanzitutto, devo ringraziare il prof. Marco Severini per aver creduto fermamente in questo progetto. Sempre gli sarò riconoscente per avermi fatto conoscere una bella realtà come l’Associazione di Storia Contemporanea, che è stata – ed è tuttora – fondamentale per la mia crescita come studioso. La mia riconoscenza va pertanto anche a Lidia e a Silvia, gli assi portanti dell’Associazione, per tutto ciò che mi hanno insegnato. Devo inoltre ringraziare il prof. Angelo Ventrone, uno storico di grande valore, che con le Sue lezioni all’Università e con il Suo libro – “Vogliamo tutto” –, mi ha guidato alla scoperta degli anni sessanta e settanta. Il prof. Ventrone mi ha inoltre seguito nella redazione di alcune parti di questo testo. Voglio esprimere la mia riconoscenza anche alla prof.ssa Paola Palmieri, che, negli anni del Liceo, ha contribuito notevolmente alla mia crescita, prima come uomo, poi come studente. Durante il lavoro di ricerca, ho potuto poi contare sulla collaborazione del personale di diverse biblioteche. Tra queste, vorrei citare la biblioteca del Dipartimento di Diritto Pubblico e teoria del Governo e la biblioteca di Lingue e Scienze Storiche del Dipartimento di Studi Umanistici, entrambe appartenenti all’Università degli Studi di Macerata; la Biblioteca Comunale Antonelliana di Senigallia e la Biblioteca Comunale di Corinaldo. Un grande ringraziamento va inoltre a Filippo Chittolini, l’amico Graphic Designer che ha realizzato l’immagine di copertina. Questo lavoro è stato infine possibile grazie al supporto dei miei amati genitori, Elio e Cristina, della mia cara fidanzata Martina, che mi ha aiutato nella revisione del testo, e della sua famiglia, che sta sempre di più diventando anche la mia. Ho potuto inoltre contare sulla vicinanza degli amici e di tutti i miei cari. Tra questi, ci

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tengo a ricordare mio nonno Mario; mio zio Giuliano, che, più di tutti, mi ha fatto dono di un gran numero di racconti sugli anni ’60 e ’70; Rosetta e Gianmaria, le persone che mi hanno cresciuto e che poterò sempre nel mio cuore. L’ultimo pensiero è per mio nonno Renzo, che ci ha lasciati dopo una vita difficile, in cui ha incontrato anche la crudeltà nazista nei campi di prigionia in Polonia. Sono sicuro che ora, ovunque si trovi, abbia abbracciato quella felicità che questa terra gli ha negato.

Indice dei nomi

Abbé, Pierre (Henry-Antoine Grouès),  3334, 49 Agnelli, Gianni,  85 Alasia, Walter,  57-58 Amerio, Ettore,  71-72, 75, 85, 96-97 Andreotti, Giulio,  70, 119 Arancio, Silvia,  136 Armani, Barbara,  44 Asor Rosa, Alberto,  20 Azzolini, Lauro,  114

Baader, Andreas,  53 Baez, Joan (Joan Chandos Báez),  22 Barbaro, Guido,  115 Barzini, Andrea,  52 Basile, Carlo Emanuele,  17 Bellosi, Francesco (Cecco),  53 Bentassa, Lorenzo,  64 Berio, Duccio,  49 Berlinguer, Enrico,  71, 119 Besuschio, Paola,  80 Bettega, Roberto,  134 Bonisoli, Franco,  114 Brown, H. Rap,  21 Buffa, Pier Vittorio,  39, 46, 50, 77, 81, 8586, 88-89, 117, 122 Buonavita, Alfredo,  45, 82, 84, 90, 104, 131-133, 134, 136

Cabrini, Antonio,  134 Cacciafesta, Remo,  137 Cagol, Margherita (Mara),  11, 29, 31-34, 4951, 57, 77, 87, 92, 111-112, 114, 122 Calabresi, Luigi,  42 Campi, Alessandro,  99 Casalegno, Carlo,  103, 106, 118 Casamassima, Pino,  31-32, 34, 46-47, 51, 76, 77, 79 Catanzaro, Raimondo,  44, 59, 99, 104, 140 Cavallero, Pietro,  46 Clementi, Marco,  28, 30, 34-35, 39, 45, 48, 68, 80, 83, 86, 88, 92, 99, 110, 112, 118, 121 Coco, Francesco,  86, 97-98, 114-117 Cocozzello, Antonio,  137 Cornelißen, Christoph,  53-55 Cossiga, Francesco,  119 Costa, Maurizio,  105 Crainz, Guido,  19-22, 24-26, 30, 42 Cretella, Chiara,  133 Croce, Fulvio,  106, 118 Curcio, Jolanda,  76 Curcio, Renato,  11, 25, 29, 31-32, 34-35, 43, 46, 48-51, 54, 60, 65, 73, 76, 81, 83, 87, 90, 92, 99, 101, 109-114, 121, 132-133, 139

146

de Agazio, Franco,  45 de Andrade, Marcelo,  38 Decana, Antonio,  115-116 Del Giudice, Piero,  52 della Porta, Donatella,  59, 135 De Lutiis, Giuseppe,  91, 106, 123, 140 Dondi, Mirco,  54 Dueñas Ruiz, Oscar José,  59, 66, 80, 84, 88, 93-94, 108-109, 130 Dura, Riccardo,  64 Dylan, Bob (Robert Allen Zimmerman),  22

Ensslin, Gudrun,  53

Fagiano, Marco,  89-91 Fanfani, Amintore,  17, 119 Fanon, Frantz,  41 Feltrinelli, Giangiacomo,  47-48, 51, 81, 84, 87 Fenzi, Enrico,  11, 140 Ferraresi, Franco,  99 Fiore, Raffaele,  104, 138 Fiori, Publio,  106 Fiuman, Carlo,  9 Fiume, Fabrizio,  55 Floris, Alessandro,  47 Ford, Gerald,  101 Franceschini, Alberto,  31, 39-40, 46, 4851, 53, 77-78, 81, 85- 90, 92, 94, 99, 109-112, 117, 121-122

Gadolla, Sergio,  47 Galfré, Monica,  10 Galli, Giorgio,  48, 53, 114 Gallinari, Prospero,  18, 36, 39, 41, 49, 63, 115, 123, 126, 136 Ginsborg, Paul,  17-19, 22, 24, 26-30, 42, 71 Giustolisi, Franco,  39, 46, 50, 77, 81, 8586, 88-89, 117, 122 Graglia, Barbara,  59 Grandi, Aldo,  52-53, 105, 138 Graziani, Alberto,  58 Grispigni, Marco,  43 Gronchi, Giovanni,  17

Gioventù di piombo

Guccini, Francesco,  33 Guevara de La Serna, Ernesto (Che),  22, 50 Gui, Luigi,  24

Kennedy, John Fitzgerald,  36 Kennedy, Robert Francis,  36 King, Martin Luther (Michael King),  20 Kissinger, Henry,  101 Kraushaar, Wolfgang,  53

Labate, Bruno,  46, 71-72, 75, 83-84, 95-96 Lapponi, Paolo,  91 Lenin (Ul’janov Vladimir Il’ič),  90 Leone, Giovanni,  73 Leoni, Andrea,  52 Leoni, Giuseppe,  76-77, 82 Ludman, Annamaria,  64

Macchiarini, Idalgo,  80-82, 85 Mahler, Horst,  53 Malcom X, (Malcom Little),  41 Manconi, Luigi,  41, 43-44, 59, 66, 91, 104 Mantelli, Brunello,  53-55 Mao, Tse-tung,  22, 41, 55 Marcuse, Herbert,  25 Marighella, Carlos,  47-48, 50, 53, 124 Marx, Karl,  16, 34, 37 Masi, Pino,  78 Mattei, Stefano,  53 Mattei, Virgilio,  53 Mazza, Libero,  42 Mc Guire, Barry,  22 Meinhof, Ulrike,  53 Milani, Lorenzo,  23, 57 Mincuzzi, Michele,  70, 75 Moretti, Mario,  28-29, 31, 35, 44, 49, 53, 59, 62, 69, 82, 84, 87-89, 92, 99, 102-104, 109, 111-112, 114, 121, 124, 128-129, 132, 136, 139 Morlacchi, Pierino,  92 Moro, Aldo,  9, 12, 97, 102, 118-122, 136 Morucci, Valerio,  52, 58, 63-65, 68, 90, 94-95, 103-104, 114-117, 124, 130133, 136, 138, 140-141

Indice dei nomi

Mulinaris, Vanni,  49

Negri, Antonio (Toni),  20 Neri Serneri, Simone,  10, 43-44, 51-52 Nissim, Piero,  78 Nixon, Richard,  41 Notarnicola, Sante,  46, 121 Novelli, Diego,  59, 90-91, 104, 134-136 Nozzoli, Guido,  21 Nuñez, Carlos,  93

Ognibene, Roberto,  39, 109, 111, 121 Orsini, Alessandro,  76, 104 Ortoleva, Peppino,  23-24

Panciarelli, Piero,  64 Panvini, Guido,  33-35, 39, 44 Panzieri, Raniero,  15, 19-20, 41 Passerini, Luisa,  82, 84, 90, 104, 132, 134, 136 Peci, Patrizio,  59-60, 75-76, 83, 91, 93, 105, 124-125, 130, 132, 133-135, 138-140 Pelli, Fabrizio,  39, 110 Pinelli, Giuseppe,  42, 43, 51 Pisetta, Marco,  87 Ponti, Nadia,  138

Roccazzella, Adriano,  91 Ronconi, Susanna,  109, 123, 134 Roppoli, Maria Rosaria,  11 Rossi, Emilio,  103, 106, 118 Rossi, Mario,  47, 121 Rostagno, Mauro,  25 Ruggiero, Lorenzo,  35, 60, 101-102, 116, 119 Rugnon De Dueñas, Mirna,  59, 66, 80, 84, 88, 93-94, 108-109, 130 Rumor, Mariano,  86

Santambrogio, Ambrogio,  99 Saponara, Giovanni,  115-116

147

Savasta, Antonio,  90-91, 105-106, 123, 139-140 Scalzone, Oreste,  52 Scavino, Marco,  52 Scialoja, Mario,  43, 60, 110, 112, 139 Sémelin, Jaques,  79, 106, 122-124 Sendic, Raúl,  84 Simioni, Corrado,  34-35, 49-51 Snow, Edgar,  22 Sofri, Adriano,  20 Sofsky, Wolfgang,  82-83, 91-92 Sogno, Edgardo,  74 Sossi, Mario,  47, 74-76, 85-86, 97-99, 109-111, 114-116, 121 Stefanini, Germana,  9

Tambroni, Fernando,  17 Taviani, Paolo Emilio,  86, 97-98 Terhoeven, Petra,  53-55 Toffanello, Italo,  45 Togliatti, Palmiro,  45 Tolomelli, Marica,  54 Toma, Nicola,  106 Tosi, Liviana,  135 Tranfaglia, Nicola,  59, 90-91, 104, 134-136 Traversi, Valerio,  102, 118 Tronti, Mario,  15, 20, 41 Tuscher, Françoise,  49

Valletta, Vittorio,  18, 63 Valpreda, Pietro,  42-43, 51 Ventrone, Angelo,  9, 16-19, 21-25, 27, 29, 30-31, 35, 41, 53, 72-74, 85, 98, 101, 103, 105, 123, 125, 137, 139, 140, 143 Ventura, Angelo,  9, 30

Zaccagnini, Benigno,  121 Zambianchi, Paolo,  104 Zavoli, Sergio,  45, 65, 80, 90, 140 Zuffada, Pierluigi,  65

I volti di Clio Collana fondata e diretta da Marco Severini

1. 2. 3. 4.

M. Severini (a cura di), Guerra, ricostruzione, Repubblica (1943-53). L. Pupilli, E. Sansoni (a cura di), L’impegno politico e intellettuale delle donne nel Novecento. S. Serini, Alberto Moravia e il cinema. Una rilettura storica. M. Severini (a cura di), La Resistenza in una periferia. Senigallia e il suo circondario tra 1943 e 1944. 5. O. Colombo, Gioventù di piombo. Rappresentazione e autorappresentazione nei documenti ufficiali delle Br 1970-1978.

finito di stampare nel mese di aprile 2015 da Digital Team (Fano - PU) per conto di Aras Edizioni srl su carta Avorio print 80 gr/mq