Get Back! I giorni del rock

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Federico Rampini San Francisco-Milano

David Randall Il giornalista quasi perfetto

Alberto Campo

Get Back!

I giorni del rock

Editori Laterza

© 2004, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2004

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2004 Poligrafico Dehoniano - Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-7370-6 ISBN 88-420-7370-9

Indice del volume

Rewind: da Eminem a Elvis

IX

8 novembre 2002 Debutta nelle sale cinematografiche americane «8 Mile». È la consacrazione di Eminem: il «nuovo Elvis» che sottrae ai neri la formula magica dell’hip hop.

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11 luglio 1999 Edizione da record per la «Love Parade» a Berlino: al richiamo del raduno techno più popolare del pianeta rispondono un milione e mezzo di persone.

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14 agosto 1995 Sfida ai vertici dell’hit parade britannica: Blur contro Oasis. È l’apoteosi del Britpop, ossia la riaffermazione del predominio culturale anglosassone nei consumi musicali di massa.

25

12 gennaio 1992 «Nevermind» dei Nirvana raggiunge il primo posto nella classifica statunitense dei dischi più venduti. Il grunge trova i suoi profeti.

36

1° agosto 1981 Un minuto dopo la mezzanotte cominciano negli Stati Uniti le trasmissioni via cavo di Mtv. È l’inizio di una rivoluzione che cambierà il volto della musica.

V

47

8 dicembre 1980 Dieci anni dopo la fine dei Beatles, John Lennon viene assassinato a New York con cinque colpi di pistola esplosi da Mark Chapman.

60

18 aprile 1980 Bob Marley si esibisce di fronte a 400mila persone nello stadio Rufaru di Harare. La più grande star del Terzo Mondo apre la strada alla nozione di «world music».

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7 giugno 1977 I Sex Pistols suonano sul Tamigi a bordo del battello Queen Elizabeth. È il fuoco d’artificio che rende visibile il punk a occhio nudo.

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27 ottobre 1975 «Time» e «Newsweek» dedicano ambedue copertina e coverstory a Bruce Springsteen, astro nascente del rock americano. Un eroe positivo e di buon cuore.

94

3 maggio 1975 «Autobahn» dei Kraftwerk sale al 25° posto nella classifica dei singoli più venduti in America: la musica pop diventa sintetica.

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3 luglio 1973 David Bowie «uccide» in pubblico, durante uno show all’Hammersmith Palais di Londra, il suo alter ego Ziggy Stardust – massima icona «glam».

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12 novembre 1971 Esce il quarto album dei Led Zeppelin: un classico a cui è toccato il compito di definire i canoni del rock duro. Muro del suono, ma anche stile di vita.

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6 dicembre 1969 Woodstock in negativo: al culmine del festival organizzato dai Rolling Stones ad Altamont gli Hell’s Angels accoltellano a morte uno spettatore diciottenne.

VI

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4 aprile 1968 Lo show di James Brown al Garden di Boston in diretta televisiva per placare gli animi degli afroamericani dopo l’assassinio di Martin Luther King. È l’epoca del Black Power.

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18 giugno 1967 Jimi Hendrix suona al festival di Monterey. Mancano tre giorni all’inizio dell’Estate dell’Amore. Il sogno degli hippie prende forma nelle comuni di Haight Ashbury.

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13 maggio 1967 Al Scene di New York si conclude il cammino dell’«Exploding Plastic Inevitable» creato da Andy Warhol intorno ai Velvet Underground: primo prototipo di show multimediale.

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10 ottobre 1966 Esce il 45 giri «Good Vibrations»: maggiore successo discografico dei Beach Boys. È il rock’n’roll che piace anche ai genitori.

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25 luglio 1965 Scandalo al festival folk di Newport: Bob Dylan vìola i principî della manifestazione, facendosi accompagnare da strumenti elettrificati. Nasce la figura del cantautore.

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11 gennaio 1963 I Beatles pubblicano il loro secondo 45 giri «Please Please Me»: sono per la prima volta in vetta all’hit parade inglese. Ma hanno i Rolling Stones alle costole.

217

19 luglio 1954 La Sun Records pubblica il primo 45 giri di Elvis Presley e il rock’n’roll trova così il suo re: un ribelle che ama Dio, Patria e Famiglia.

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Indice dei nomi

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Rewind: da Eminem a Elvis

Get Back, come il disco «perduto» dei Beatles. Espressione che allude a un cammino a ritroso nel tempo, all’idea di ritorno. Ma anche, etimologicamente, al proposito di «risistemare le cose». Calza a pennello su questo libro: perché l’argomento è il rock, si procede a passo di gambero e lo scopo è appunto quello di riordinare gli eventi musicali dell’ultimo mezzo secolo. La ricorrenza è in qualche modo solenne: nel luglio 2004 il rock compie 50 anni, se si assume come sua data di nascita il giorno in cui fu pubblicato il primo 45 giri di Elvis Presley. Benché arbitraria, la scelta ha una sua fondatezza: il 19 luglio 1954 segna il debutto di colui che immediatamente venne incoronato Re e rimane tuttora icona veneratissima, oltre che merce corrente in hit parade. Comunque sia, i media intendono celebrare l’evento in pompa magna, e per un’ottima ragione. Non si tratta infatti del giubileo di un genere musicale fra i tanti: smarrendo via via la propria capacità di rappresentare un fenomeno coerente e coeso, e divenendo quindi vocabolo a «bassa definizione» nel discorso comune, il monosillabo «rock» ha finito per inscrivere l’intero complesso delle musiche giovanili. Ciò che davvero si rievoca è l’avvento della pop music: la novità che cambiò il corso della storia. La relazione stessa di ciascun individuo con la musica mutò repentinamente, da quando essa divenne infinitamente riproIX

ducibile in forma d’oggetto – il disco – e pertanto consumabile da chiunque contemporaneamente, quasi in ogni angolo del pianeta. Essere ovunque nello stesso momento, mentre fino a poco tempo prima – ancora agli albori del Novecento – la musica era data in singoli luoghi e mai nello stesso identico modo. Un processo che a lungo andare ne ha rivoluzionato l’identità in termini di senso, forma e destinazione d’uso. Ma che cosa è accaduto durante questi 50 anni? A uno sguardo sommario, poco o nulla. In fondo siamo sempre lì: c’è un bianco che spopola nei consumi di massa con un linguaggio musicale espropriato ai neri. Adesso Eminem col rap, allora Elvis col rock’n’roll. Tutto questo gran subbuglio per fare il giro dell’alfabeto: da una «E» all’altra. Sappiamo bene, invece, quanto le cose siano cambiate. Nel piccolo reame della musica pop c’erano i 45 giri, giusto un paio di canzoni da suonare nei jukebox o nei mangiadischi, mentre adesso abbiamo, sulla superficie dimezzata e anodizzata di un compact disc, una quantità di informazioni dieci e più volte superiore. Il procedimento di trasmissione del suono da analogico è diventato digitale (tanto che pure i cd si apprestano a essere superati da supporti più compatti, a loro volta probabilmente resi superflui dalla smaterializzazione della musica nei file processati in rete). Nel 1954 il televisore era un elettrodomestico che cominciava ad affacciarsi nelle case timidamente, nonostante l’ingombro volumetrico. Ora, viceversa, la nostra vita quotidiana è piena di schermi, dai telefoni portatili ai computer, e la televisione domina tra i mezzi di comunicazione, ramificata a sua volta in una molteplicità incommensurabile di canali. Uno dei quali – influentissimo – dedicato esclusivamente ai giovani e alla loro musica: Mtv. Tutto ciò nell’arco di due generazioni appena. Le stesse che hanno visto il mondo trasformarsi sotto i loro occhi, a volte inX

creduli. È utile ripensare allo scenario di 50 anni fa: ovunque si avvertivano ancora i postumi della Seconda guerra mondiale, in Europa più che altrove. E il Vecchio Continente aveva perso la sua centralità nello scacchiere planetario a favore del vero vincitore del conflitto: gli Stati Uniti d’America. A bilanciarne il potere era il blocco che faceva capo all’Unione Sovietica: morto Stalin (1953), ad aggregarlo militarmente avrebbe provveduto Krusciov istituendo il Patto di Varsavia (1955). Aria di guerra fredda, con frizioni intorno al Muro di Berlino. Il Gulag in Urss e il maccartismo nell’America di Eisenhower. E intanto, proprio nel 1954, Mao Tse-tung veniva eletto alla presidenza del Consiglio Centrale nella Repubblica Popolare Cinese. Dalla limitrofa Indocina se ne stavano andando i francesi, lasciando aperta una ferita in Vietnam: disimpegno politico che avrebbe aperto la strada al crollo della IV Repubblica, vacillante sotto le contraddizioni del tardo colonialismo. In Asia e in Africa i nodi stavano venendo al pettine: presto gli occupanti europei avrebbero dovuto ritirarsi di fronte all’onda montante dell’indipendentismo. Com’è diverso il mondo adesso... Il Terzo Mondo liberato ma non libero. Un’Europa tale di nome ma non ancora di fatto. Niente più Impero Sovietico, accartocciatosi dopo essersi logorato per decenni in un estenuante braccio di ferro con gli Stati Uniti: il «nemico» ha ora le sembianze sfuggenti del terrorismo di matrice mediorientale, alimentato dai veleni che colano dalla piaga aperta in Palestina. Lo strapotere americano non ha reso il mondo più sicuro. Anzi. Altrettanto è cambiata la musica, e non poteva essere altrimenti. Oggigiorno ha maggior peso nell’economia dei comportamenti giovanili, benché inferiore a quello ingentissimo che ebbe tra gli anni Sessanta e i Settanta, quando venne caricata di oneri ideologici che eccedevano le sue forze. Resta – il XI

rock coi suoi fratelli – un esperanto che non ha uguali nei codici di comunicazione dei teenager. E se il rock strettamente inteso è adesso la musica dei padri più che dei figli, altri linguaggi ne suppliscono il minore dinamismo: la techno, l’hip hop. Proprio di qui comincia il percorso tracciato nel libro: dall’attualità. Un escamotage che mira a renderne meno didascalico lo svolgimento. Ma anche un trucco cronologico che forse è utile per meglio comprendere l’evoluzione a cui abbiamo assistito. Siccome è un film che tutti hanno visto, alcuni magari distrattamente e altri invece con attenzione pignola, ripassarlo in rewind può aiutare a cogliere nessi sfuggiti a un primo esame, per noncuranza o viceversa per eccessiva attenzione al dettaglio. Sono in tutto 20 quadri, ciascuno riferito a un evento particolarmente significativo. Come nella Storia con l’iniziale maiuscola – lì sono battaglie, rivoluzioni, calamità, invenzioni... Qui dischi che escono, concerti, festival, apoteosi e drammi. Appigli a cui ancorare il racconto. Ognuno evidenza di processi in atto, generato da un prima e origine di un poi: insieme causa ed effetto. Una ruota che gira, come un cd o un 45 giri, in questo caso al contrario. Era il modo in cui, tempo fa, si cercavano tra i solchi messaggi esoterici. Chissà non capiti lo stesso nel nostro caso... E comunque, buon viaggio. A.C. maggio 2004

Avvertenza Alla conclusione di ciascun capitolo compare un «campionario» di oggetti che lo descrivono e rappresentano. Con l’icona  vengono indicati i dischi, con l’icona  i libri, con l’icona  i video.

XII

Get Back! I giorni del rock

8 novembre 2002

Debutta nelle sale cinematografiche americane «8 Mile». È la consacrazione di Eminem: il «nuovo Elvis» che sottrae ai neri la formula magica dell’hip hop.

Molto più di un film: vita vera. Valutato col metro del box office, 8 Mile è tra i maggiori blockbuster del periodo: durante il primo weekend di proiezione negli Stati Uniti incassa oltre 50 milioni di dollari, nonostante sia vietato ai minori di 17 anni. I ragazzi, raccontano le cronache, acquistano alle casse dei multisala i biglietti per l’ultimo Harry Potter, ma sgattaiolano poi furtivamente ad ammirare le imprese del loro idolo: il rapper dagli occhi azzurri. A questo punto, Marshall Bruce Mathers III ha compiuto da meno di un mese 28 anni ed è probabilmente la massima icona pop su scala planetaria: una faccia, una voce, un ritmo. Le unità di misura tradizionali – dischi venduti in milioni di copie, arene sempre zeppe di pubblico ai concerti – testimoniano dell’entità quantitativa del suo successo, ma spiegano poco delle prerogative che lo contraddistinguono. Per i suoi ammiratori Eminem è molte cose insieme: la voce più popolare dell’hip hop, un ribelle senza causa, il «nuovo Elvis» (che a differenza dell’originale

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non è tuttavia un «buon americano», irrispettoso com’è della trinità Dio, Patria e Famiglia). Ma soprattutto un personaggio con cui è facile identificarsi: in modo particolare se si è bianchi, adolescenti, abitanti di aree suburbane, figli di famiglie spezzate e culturalmente desolati. In gergo è detta white trash, «spazzatura bianca». 8 Mile narra la sua storia, alla fin fine. Marshall Mathers nei panni di Jimmy Smith Jr, in arte Rabbit. Una vita disastrata, sul margine settentrionale della strada di Detroit da cui il film ha mutuato il titolo, quella che traversa la Motor City da est a ovest, segnando il territorio. A sud downtown, la parte urbana di Detroit, popolata all’82% da afroamericani; a nord, invece, l’uptown dei quartieri dormitorio di Oakland County, dove l’83% dei residenti è di pelle bianca. Eminem/Rabbit vive in realtà nella zona d’ombra in cui le due comunità si mischiano, complice la musica, che a Detroit rappresenta un valore aggiunto secondo soltanto all’industria automobilistica. Si parli di rock bianco (dal pioniere Bill Haley, l’uomo di Rock Around the Clock, al punk primigenio degli Stooges di Iggy Pop) o di black music (il soul anni Sessanta targato Motown come la techno coniata in zona due decenni più tardi), essa rappresenta tuttora una possibile via d’uscita per le generazioni che devono confrontarsi con la deindustrializzazione in atto nella metropoli cresciuta durante la prima metà del Novecento intorno agli stabilimenti Ford, General Motors e Chrysler. Jimmy Smith Jr è uno di quei ragazzi. Ha una madre che ha bisogno di conforto più di quanto possa darne. Sbarca il lunario facendo lavori precari, prima in un’officina e poi nella cucina di un fast food. È sentimentalmente confuso. Unica certezza è la gang che gravita intorno a lui. A ritmo di rap. Ed è seguendo quella strada che – lascia immaginare il film – 4

saprà riscattarsi infine dalla propria condizione. Proprio come Marshall Mathers, sulla cui vicenda personale è ricalcata la sceneggiatura. Una famiglia a pezzi: la madre alcolista e tossicomane, un padre assente (rispuntato fuori non appena il figlio è diventato una star), uno zio in carcere per omicidio del fratellastro e un altro – colui che lo introdusse all’hip hop – morto suicida. Né sono andate meglio le cose con la compagna da cui ha avuto una figlia: il divorzio da milioni di dollari come epilogo di un rapporto burrascoso. Indugiare sugli aspetti privati della vita del signor Mathers non è un semplice esercizio scandalistico. Per una buona ragione: le disavventure personali, infatti, sono per Eminem fonte di ispirazione primaria. Di madre, padre ed ex moglie parlano in chiave tutt’altro che edificante i testi delle sue canzoni. Intitolando The Eminem Show il disco che ha preceduto di qualche mese 8 Mile, Marshall Mathers aveva in testa un’idea ben precisa: «Rendere spettacolo la mia vita, visto che tanto nulla di quello che faccio è nascosto: come una specie di Truman’s Show». Ossia l’ascendente nobile del Grande Fratello: nessuna messinscena vale più della realtà – questa la paradigmatica conclusione a cui è giunta la Società dello Spettacolo. Risibile semmai è il fatto che ci sia ancora chi si scandalizza. Come, anni fa, un columnist di «Billboard», che commentandone il crescente successo descrisse Eminem così: «Un criminale che si arricchisce sulle miserie del mondo», indignato – verosimilmente – per gli eccessi verbali del personaggio, che di volta in volta lo hanno reso imputabile di misoginia, razzismo e omofobia. Al contrario, proprio per quel suo modo «trasparente» di stare in scena, benché politicamente «scorretto», Eminem è un esemplare (anti)eroe del nostro tempo. Nel senso che lo rappresenta in modo fedele, brutture incluse. È il privilegio che gli è concesso dal mezzo 5

di comunicazione di cui si avvale: il rap – linguaggio veritiero come nessun altro poiché senza filtro. Tuttora grezzo, elementare e diretto, ancorché pregiato in senso commerciale. Musica intimamente nera. Eloquente il modo in cui la definisce lo scrittore statunitense David Foster Wallace nel saggio del 1990 Signifying Rappers. Rap and Race in the Urban Present, di cui è autore insieme al procuratore legale (!) Mark Costello: «Nella relazione che il rap crea attualmente fra artisti neri e pubblico nero c’è un’aura di ‘coesione nella competizione’, di universo esclusivo e condiviso, di cui non aveva goduto nessun genere di musica creata da e per gente di colore negli ultimi 80 anni»1. Che diventa però oggetto di largo consumo solo quando cessa di essere musica «razziale». Così come già era stato agli albori del rock’n’roll, del resto, allor quando Elvis Presley rese assimilabili per il grande pubblico le irruenti sonorità contenute nei cosiddetti race records. Dal rap originario gli ascoltatori bianchi erano affascinati, senza tuttavia poterne comprendere con chiarezza i moventi. Tant’è vero che primo vero best seller del genere fu Licensed to Ill, l’album con cui nel 1986 debuttarono i Beastie Boys: tre giovanotti bianchi di buona famiglia arrivati al rap provenendo dai circuiti del punk newyorkese. A certificare la legittimità di quei «visi pallidi» fu allora il marchio Def Jam: etichetta discografica fondata dal produttore bianco Rick Rubin insieme all’impresario nero Russell Simmons che a quei tempi diede voce ad alcuni tra i principali protagonisti del fenomeno, dai Public Enemy a LL Cool J, e che è tuttora griffe prestigiosa in fatto di black music. Nel caso di Marshall Mathers, invece, il «garante» è Dr Dre, al se1

Trad. it. Il rap spiegato ai bianchi, Minimum Fax, Roma 2000, p. 41.

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colo Andre Young: fu lui – già motore musicale dei famigerati NWA, acronimo di Niggers With Attitude, primo e censuratissimo esempio di rap dei bassifondi – a scoprirne il talento e a valorizzarlo. Ma l’«effetto Elvis» rimane, almeno a livello epidermico. Ne è consapevole – e persino fiero – lo stesso Eminem, che nel brano Without Me afferma: «Sono la cosa peggiore dai tempi di Elvis Presley, a fare musica nera così egoisticamente». Un modo ironico per esorcizzare le critiche di chi lo considera un usurpatore. Accusa a cui può ribattere esibendo un curriculum che comincia dalla gavetta fatta insieme alla gang chiamata D 12 (in onore delle dirty dozens, i «dodecasillabi volgari» che gli storici della cultura afroamericana indicano come progenitori del rap), quando sfidava i rapper rivali nelle improvvisazioni free-style al microfono. Proprio come Rabbit in 8 Mile: «Un film che introduce gli spettatori al mondo dell’hip hop». Parola di Brian Grazer, che lo ha prodotto affidandone la regia a Curtis Hanson. Il mondo dell’hip hop, allora. Esplorarlo significa ripercorrerne l’evoluzione, tenendo sullo sfondo alcuni archetipi fondamentali del folclore africano sbarcati in America insieme agli schiavi tra il XVI e il XVIII secolo: il racconto orale dei griots, i cantastorie girovaghi nelle savane dell’Africa occidentale, e la cadenza ancestrale del tamburo. Il «discorso ritmato» ha accompagnato l’intero processo formativo della cultura afroamericana: dalle citate dirty dozens, dispute in rima dal tono semiserio praticate nel Sud degli Stati Uniti, ai toasts, monologhi con andamento picaresco e contenuto osceno diffusi negli ambienti carcerari. Prodromi, le une e gli altri, delle modalità con cui la narrazione verbale ha definito via via il proprio spazio nella musica nera del Novecento: dall’intercalare caratteristico del blues allo scat e al vout tipici del jazz, fino alle arringhe funk di James Brown. Il verbo to rap, 7

alla lettera «inveire» ma comunemente usato per descrivere l’azione di chi parla a tempo sulla musica, designa pertanto un’usanza preesistente al genere omonimo. Ma il rap, come oggi lo conosciamo, è uno stile che germina a New York nella prima metà degli anni Settanta. L’impulso arriva ancora dai canali dell’immigrazione. È un disc jockey proveniente dalla Giamaica, Kool Herc, a importare il «verbo» nei quartieri neri di Manhattan. Da qualche anno sull’isola delle Antille è in voga una sorta di discoteca mobile detta sound system: giradischi, amplificatori, microfoni e casse acustiche installati di solito a bordo di un camion. E in Giamaica, dove chi suona i dischi è chiamato selecter e chi invece li introduce a voce è il dj, quest’ultimo aveva conquistato ormai il rango di attrazione principale specializzandosi nel talk over: il «parlare sopra» le versioni strumentali – dub plates – delle canzoni celebri. L’arrivo di Kool Herc a New York, e il suo insediamento nel Bronx, è innesco di una reazione a catena di cui ancora adesso osserviamo gli effetti. Le sue feste mobili nei parchi, dentro i centri sociali, agli angoli delle strade – in qualunque luogo fuorché nelle discoteche, dove imperversa la disco music – diventano ben presto un modello da emulare. E non mancano gli epigoni: tra i primi a mettersi in luce ci sono due personaggi destinati a segnare la storia dell’hip hop, Grandmaster Flash e Afrika Bambaataa. Sono disc jockey nell’accezione angloamericana del termine: manovratori di dischi. Non in modo convenzionale, però. Anziché amalgamarli a tempo, uno in fila all’altro (come fanno i dj della disco music), traggono da ciascuno la parte più stuzzicante, generalmente uno stacco di batteria o percussioni che più invoglia alla danza, in gergo break, e la prolungano artificialmente alternando due copie dello stesso disco. Una 8

tecnica di taglia-e-cuci che avrebbe rivoluzionato col tempo – e con l’impiego di tecnologie più evolute: nella fattispecie i campionatori – gli stessi procedimenti produttivi della musica pop. Mentre il dj, esibendosi in funambolismi sempre più spericolati (come lo scratch, vale a dire l’andirivieni della puntina del giradischi sul medesimo solco di un disco), bada alla musica, chi impugna il microfono (a quei tempi non ancora rapper bensì mc, o Master of Ceremony, un’espressione mutuata dal jazz: quale era Cab Calloway all’epoca del Cotton Club) ha il compito di animare la festa incitando il pubblico ed esaltando le doti proprie e del dj. Da un punto di vista sonoro il rap è già configurato. Ma si tratta soltanto di un elemento, ancorché fondamentale, inscritto in una complessa sottocultura chiamata – pare che a battezzarla così sia stato il solito Kool Herc – hip hop, dove hip ne segnala la freschezza e hop allude invece all’idea stessa di danza. Intorno ai sound systems si raggruppavano piccole bande di quartiere o addirittura di caseggiato: le crews dei B-boys (dove la lettera «B» può stare indifferentemente per black, breaking, bad – nel senso di «forte» – e anche per Bronx). Ciascuno dei componenti aveva una sua specializzazione: chi danzava acrobaticamente il body popping, progenitore della breakdance, e chi invece effigiava il logo della propria cricca con la vernice spray sui muri o sull’asfalto – l’anticamera della graffiti art. La rivalità agonistica fra le crews era accesissima. Se la storia aveva avuto inizio nel Bronx, il contagio si diffuse con rapidità: a Queens, Brooklyn, Long Island... E poi sulla costa opposta degli Stati Uniti, sbarcando quindi in Europa e col passare degli anni nel resto del mondo. Arte povera di mezzi ma ricchissima d’inventiva. Influente come nessun’altra sottocultura di fine Novecento, a conti fatti. Nella musica: il giradischi rimpiazza la chitarra come fonte sonora 9

(clamoroso sorpasso registrato statisticamente in Gran Bretagna nel 1998) e introduce in quel contesto la nozione di cut up già sperimentata in letteratura da Breton e Burroughs, sancendo così l’avvento del postmoderno anche in ambito musicale. Nella danza: la breakdance, che una volta formalizzata contamina lo stile coreografico di compagnie quali Stomp e La La La Human Steps. Nell’arte figurativa: il graffitismo come nuovo segno espressivo che – da Keith Haring in avanti – rivoluziona pittura, design e moda. Tanta è la strada fatta dall’hip hop: nato come gergo del ghetto e affermatosi come linguaggio universale. A un certo punto qualcuno immaginò addirittura che l’hip hop potesse diventare «la Cnn dei neri»: un network culturale e politico antagonista al potere dei bianchi. Era Chuck D: voce principale e leader dei newyorkesi Public Enemy, la crew più combattiva e motivata espressa dalla scena statunitense. Dichiaratamente ispirati – anche da un punto di vista iconografico – all’esempio delle Black Panthers, concepivano il rap come strumento per sobillare le coscienze della comunità afroamericana. Ma lo sforzo era improbo e il boom commerciale del fenomeno negli anni Novanta mise la sordina a quelle argomentazioni insurrezionali. Così come smorzò il discorso non violento del rapper KRS One, che esortava le bande rivali alla pacificazione dopo essere stato coinvolto personalmente nel primo dei numerosi conflitti che costellano la vicenda dell’hip hop, allor quando, nel 1987, il dj Scott La Rock – suo partner in Boogie Down Productions – venne assassinato al culmine della cosiddetta «Bridge War» che oppose le bande del Bronx a quelle di Queens nel nome della primogenitura sull’hip hop. Sia i Public Enemy, sia KRS One (ritratto a sua immagine e somiglianza sulla copertina dell’album By All Means Necessary) avevano scelto come nume tu10

telare Malcolm X, il leggendario leader della Nation Of Islam, sottovalutando forse il fatto che, prima di diventare leader politico, fosse stato egli stesso – ancora come Malcolm Little – un malvivente. È appunto intorno a quella contraddizione che indugia tuttora la natura dell’hip hop – riflesso più generale della condizione dei neri in America, dove ancora ai giorni nostri il numero degli universitari afroamericani è inferiore a quello dei giovani detenuti neri. Da un lato c’è il fronte dove si è combattuta e ancora si combatte la battaglia politica per i diritti civili. Dall’altro quello in cui la suggestione dominante resta la figura del bandito nero che sfida il potere bianco infrangendone le leggi: archetipo riconducibile all’allegoria del fuorilegge rappresentata da Stagger Lee e perpetuata attraverso un’infinità di ballate blues. Suggestione che nel rap degli anni Novanta è degenerata in cronaca nera. La rivalità fra le due coste degli Stati Uniti, est e ovest, ha lasciato dietro di sé una scia di sangue. Il 7 settembre 1996, uscito da un’arena in cui aveva visto combattere Mike Tyson, l’asso californiano Tupac Shakur (figlio di una ex militante delle Black Panthers) fu colpito da una scarica di proiettili a cui sopravvisse agonizzando in ospedale per sei giorni, prima di spegnersi. I sospetti puntavano sull’entourage del suo rivale newyorkese Notorious BIG, che però sei mesi più tardi fece la stessa fine: freddato da una raffica esplosa da un fuoristrada in corsa nell’ostile Los Angeles, dove si trovava per ritirare il Soul Train Award (massimo riconoscimento in fatto di musica nera). Erano quasi coetanei: 25 anni il primo, 24 il secondo. Si stavano regolando i conti nella cerchia del cosiddetto gangsta rap. Capostipiti della specie erano i «californiani»: il sedicente original gangsta Ice T e soprattutto gli NWA di Dr Dre. Questi ultimi, provenienti dal ghetto di Compton, fornirono in 11

modo tutto sommato casuale una colonna sonora alla rivolta di South Central che infiammò letteralmente Los Angeles nell’aprile 1992. Una canzone in particolare, la spudorata Fuck tha Police, assurse in quei giorni al rango di inno insurrezionale. La scintilla che fece esplodere la sommossa fu l’assoluzione dei poliziotti bianchi che avevano pestato a sangue il nero Rodney King, ripresi a loro insaputa da un videoamatore (le immagini circolarono sulle televisioni di mezzo mondo). Benché il pretesto fosse in un certo senso «politico», la rivolta si ridusse a una serie di saccheggi e di violenze indiscriminate contro i bianchi. A guidarla erano i membri delle gang più potenti in città, Crips e Bloods, che per l’occasione sospesero momentaneamente la sanguinosa faida che le opponeva da anni (come racconta il film di Dennis Hopper Colors). Un evento di fortissimo valore simbolico. Sembrava fossero passati anni luce dai tempi delle Black Panthers e del Potere Nero. Questo è lo stato delle cose nell’hip hop contemporaneo, che ha smarrito cammin facendo la propria vocazione culturale e a tutti gli effetti si è costituito come azienda. Dischi venduti in milioni di copie, rapper che diventano divi nel giro di poche settimane e sbarcano sempre più spesso a Hollywood, veri e propri clan – da quello newyorkese di Puff Daddy, ora P. Diddy, a quello «sudista» di Master P – che gestiscono fatturati miliardari. Dollari e sangue. Ultima vittima illustre in ordine di tempo, Jam Master Jay: membro dei veterani Run DMC assassinato nel suo studio di registrazione a New York il 30 ottobre 2002, pare a causa di una partita di cocaina non pagata. Tempo prima aveva preso sotto la propria ala protettrice l’astro nascente 50 Cent. Una vita da film: la madre spacciatrice di crack uccisa per questioni di concorrenza, e il figlio che diventato grande intraprende la medesima attività, 12

sopravvivendo poi a un attentato con otto proiettili in corpo. Fa rap per raccontare tutto questo. Ed è già una star. Il suo primo disco Get Rich or Die Trying (titolo programmatico: «Diventa ricco o muori provandoci») ha fatto sconquassi in classifica. Lo hanno prodotto Dr Dre ed Eminem. E così il cerchio si chiude.  8 Mile Curtis Hanson (Universal, 2002).  Colors Dennis Hopper (Mgm, 1988).  Ground Zero. Eminem Nick Hasted (Arcana, 2003).  Hip Hop America Nelson George (Viking, 1998).  Il rap spiegato ai bianchi Mark Costello e David Foster Wallace (Minimum Fax, 2000).  It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back Public Enemy (Def Jam, 1988).  Licensed to Ill Beastie Boys (Def Jam, 1986).  Rap. Storia di una musica nera David Toop (Edt, 1992).  Straight outta Compton NWA (Ruthless, 1988).  The Eminem Show Eminem (Aftermath, 2002).

11 luglio 1999

Edizione da record per la «Love Parade» a Berlino: al richiamo del raduno techno più popolare del pianeta rispondono un milione e mezzo di persone.

Come il carnevale di Rio, ma con tutt’altra musica. Così è la «parata dell’amore»: carri che sfilano con a bordo i più pittoreschi esponenti del popolo della notte, autentiche allegorie in carne e ossa – donne in abiti succintissimi, macho muscolosi e tatuati, travestiti in ghingheri, «cubiste» e dj. A questi ultimi spetta il compito di fornire la materia prima di quella processione pagana: dance music in tutte le sue innumerevoli varianti. Ondeggiando su quei ritmi il corteo converge dai due estremi di Strasse des 17 Juni – a un capo la Porta di Brandeburgo, all’altro Ernst Reuter Platz – verso la Colonna della Vittoria, da anni fulcro della manifestazione. La geografia simbolica di Berlino come scenario del più gigantesco party mai organizzato. Un esito inimmaginabile se con la memoria si torna alla prima edizione: era il 1989 e al seguito di Dr Motte, il dj a cui si deve l’intuizione originaria, c’erano un solo carro e nemmeno 200 persone. L’enorme dislivello fra i due eventi dà la misura di quanto sia cambiato il mondo del-

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la musica giovanile nell’arco di un decennio. Il successo della Love Parade, accanto a quello diverso ma affine di festival quali il Sónar a Barcellona e Homelands nei pressi di Winchester, in Gran Bretagna, per non dire dell’epopea edonista che si celebra ogni estate a Ibiza, è indice inequivocabile di una progressiva diserzione del pubblico giovanile dal rock. Se infatti, per almeno due generazioni, da metà anni Cinquanta fino ai tardi Ottanta, il rock aveva egemonizzato l’orizzonte culturale dei teenager euroamericani, con l’ultimo decennio del Novecento le cose sono cambiate. Per una ragione in fondo elementare: a quel punto il rock era la musica dei padri, più che dei figli. E il fatto che ai vertici politici dei paesi da sempre principali produttori ed esportatori di rock, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, fossero saliti o stessero per farlo uomini come Bill Clinton e Tony Blair, che in gioventù proprio di rock si erano nutriti, ne era la dimostrazione più esplicita e inequivocabile. Potevano i figli allinearsi ai precetti paterni? Benché il conflitto fra generazioni non fosse più così acuto come in passato, il ripudio istintivo dei valori degli adulti non si era smorzato completamente. E ciò, in ambito musicale, aiuta a spiegare il successo della dance music di matrice elettronica, che per comodità – e violando la arzigogolate regole di una nomenclatura ancora in via di definizione – chiameremo da qui in avanti techno. Ma c’è un altro movente – persino più rilevante e decisivo – da considerare per riuscire a interpretare questa piccola rivoluzione copernicana. Negli anni Novanta, con l’avvento di Internet, la vita della stragrande maggioranza degli individui residenti nelle aree del pianeta più avanzate tecnologicamente è cambiata con una rapidità e una profondità mai provate prima – tanto nel pubblico, quanto nel privato. A un mutamento di tali proporzioni non poteva non corrispondere 15

una musica in grado di rappresentarlo. La generazione «E», come alcuni chiamano ora quella entrata in scena avendo già dimestichezza quasi spontanea con la dimensione digitale e la comunicazione elettronica, dopo un’infanzia trascorsa fra playstation e videogiochi, ne aveva bisogno. E anche solo deduttivamente si poteva prevedere che essa avrebbe avuto una naturale consonanza con quel genere di consumi tecnologici. Illuminante è da questo punto di vista un dialogo che si ascolta in Trainspotting, film che fotografa in modo nitido quel passaggio d’epoca fra un «prima» e un «dopo». Dice al protagonista – ancora immerso nella mitologia del rock – una giovanissima amante abbordata in un locale notturno: «Le cose stanno cambiando; la musica sta cambiando; le droghe stanno cambiando...». E cambierà anche lui all’epilogo della storia, scandito dal ritmo martellante di Born Slippy degli Underworld: brano divenuto un classico proprio grazie a quel cameo cinematografico. Le avvisaglie del mutamento avevano cominciato a manifestarsi oltreoceano, fra Chicago, Detroit e New York, a metà degli anni Ottanta. L’impulso era arrivato dall’Europa, tuttavia. E in particolare dall’impiego pionieristico delle nuove strumentazioni elettroniche – a quei tempi ancora analogiche – sperimentato nel decennio precedente in Germania dai Kraftwerk e dal produttore italiano (ma tedesco d’adozione) Giorgio Moroder, responsabile dei maggiori successi della diva dance Donna Summer. A far proprie quelle intuizioni ancora elementari fu per primo Afrika Bambaataa, tra i precursori dell’hip hop newyorkese e iniziatore di una deriva stilistica del fenomeno, detta appunto electro, con un brano – Planet Rock – che ricalcava pari pari la cadenza sintetica del classico dei Kraftwerk Trans Europe Express. Quell’episodio scatenò una reazione a catena, soprattutto a Detroit, dove una conventico16

la di ragazzini neri, un po’ dj e un po’ aspiranti musicisti, sviluppò uno stravagante ibrido fra l’algida musica meccanica di origine europea e le forme più evolute del funk afroamericano. «I tre di Belleville», com’erano detti Juan Atkins, Derrick May e Kevin Saunderson, originari dell’omonimo sobborgo della Motor City, avevano posato così le fondamenta della techno. Atkins in particolare, guidando un trio chiamato Cybotron, intitolò Techno City un brano ispirato a Metropolis di Fritz Lang. E «città della techno» per antonomasia divenne da quel momento in poi Detroit, dove l’Historical Museum locale ha ospitato dal gennaio 2003 al giugno 2004 un’esposizione a tema: Techno: Detroit’s Gift To The World. Se la techno è stata «il dono di Detroit al mondo», da parte sua Chicago ha regalato al pianeta l’house – battezzata così poiché l’incubatrice in cui germinò era un club gay per neri chiamato Warehouse. Responsabile dell’inseminazione fu un forestiero: il dj newyorkese Frankie Knuckles, regolarmente «residente» in quel locale tra il 1979 e il 1983. Suonava disco music di nuova generazione, rimescolandone i fattori costitutivi con le tecniche mutuate dai dj hip hop del Bronx, suo quartiere di origine. Un’impercettibile rielaborazione dei canoni che via via, nelle mani di produttori e dj locali come Marshall Jefferson e Larry Heard, diede vita a quel suono soffice, incalzante ed erotico che si sarebbe affermato ben presto come standard sulla scena del nightclubbing. Ad accelerarne ulteriormente l’evoluzione fu il ritorno di fiamma per un’apparecchiatura Roland ormai fuori produzione: il Bassline TB 303. Impiegata in modo non convenzionale, distorcendone cioè i timbri, produce sonorità grottescamente miagolanti che evocano all’ascolto la sensazione di percezioni alterate. Non a caso il brano targato Phuture che fece scuola è intitolato Acid Tracks. Era nata così l’acid house, che una 17

volta esportata in Gran Bretagna via Ibiza – da dj quali Paul Oakenfold e Andrew Weatherall – animò nell’estate del 1989 la gaudente epopea illuminata dal sorriso un po’ ebete dipinto sul faccione giallo onnipresente fra spillette e t-shirt. Fu una seconda «summer of love» – come quella vissuta dagli hippie in California nei tardi anni Sessanta. Niente più rock ma house «acida». E niente più «acidi», sostituiti dall’ecstasy. Un mondo nuovo: nuova musica e nuove droghe. Epicentro britannico di quella stagione epicurea fu Manchester – capitale morale della musica inglese nel dopo punk. Ne documenta in modo efficace la metamorfosi da grigia città industriale percorsa da musiche cupe a febbrile crocevia del postmoderno il film di Michael Winterbottom 24 Hour Party People. Racconto in bilico fra il realistico e l’allegorico dell’odissea artistica e umana di un impresario spregiudicato (Tony Wilson), dell’etichetta discografica da lui fondata (Factory Records), di un locale che ha fatto epoca (Haçienda) e del gruppo musicale che più di qualsiasi altro ha simboleggiato il trapasso da una fase all’altra (prima banda rock esistenzialista col nome Joy Division e poi, dopo il suicidio del cantante Ian Curtis, massima icona del technopop anglosassone come New Order). Una storia esemplare. Poiché in nessun altro luogo come a Manchester fu evidente l’avvenuto sgretolamento della barriera che aveva separato per decenni l’emisfero rock da quello dance. E sulle macerie di quel muro crebbero e prosperarono gruppi che non erano più esattamente né una cosa né l’altra: gli Stone Roses e soprattutto gli scapestratissimi Happy Mondays, al titolo del cui primo album è ispirato quello del film di Winterbottom. Il resto della scena britannica prese atto del fatto compiuto e si adeguò: bande rock come i Primal Scream si aprirono a 18

suggestioni da nightclubbing, mentre un team da rave come i Prodigy finì per colorare di rock la propria identità techno. I rave, a proposito: rito musicale collettivo di nuova generazione. Era cambiata la musica, e con essa le droghe che fungevano da propellente. Occorrevano perciò spazi in cui la differenza di attitudine e spirito potesse avverarsi. Non più i concerti rock, prigionieri delle proprie rigide liturgie da messa profana. Ma nemmeno i club notturni convenzionalmente intesi: per dimensioni, architettura, arredi e concezione ancora fermi all’era della disco music. Bisognava inventarne di nuovi. E la tradizione inglese dello squatting, l’occupazione abusiva di edifici già in auge tra gli hippie negli anni Settanta, suggerì la soluzione: impadronirsi di aree industriali dismesse o zone rurali incustodite, attrezzarle con le infrastrutture necessarie (generatori elettrici, palchi, illuminazione, sound system), diffondere clandestinamente le informazioni indispensabili (cast dell’evento, luogo, orario, costi) e poi fare festa – come in un rito neodionisiaco. Se non si può cambiare il mondo, tanto vale trasgredirne le norme creando quelle che il guru della controcultura americana Hakim Bey definisce Zone Temporaneamente Autonome: enclave provvisorie e autoregolamentate. L’illegalità elevata a forma d’arte. Sarebbe arrivato poi il Criminal Justice and Public Order Act del 1994 a reprimere oltremanica quella fiammata di spontaneismo anarchico. Nelle abitudini di chi aveva vissuto quella stagione esuberante era penetrato un modo nuovo di mettersi in relazione con la musica, e di conseguenza si stava trasformando la finalità che informava la musica stessa. Se il rock si era affermato esibendo un’identità assertiva, che esprimeva cioè qualcosa e richiedeva dunque un’attenzione «dedicata» da parte dell’ascoltatore, il nuovo suono elettronico ha caratteristiche diverse. È musica accessoria anziché protagonista. Accom19

pagna il corso degli eventi, invece di determinarlo. Non sta al centro della scena, ma intorno. Anche nei rave, dove primattore non è il dj o ciò che egli suona inanellando dischi in sequenza, bensì il pubblico come corpo collettivo. Uno scarto di non poco conto nei consumi musicali di massa. E ciò è vero soprattutto per le musiche di derivazione ambient – ossia le sonorità sedative installate ai margini dei rave per «decomprimere» la sovreccitazione chemio-fisiologica dei partecipanti. L’espressione chill out arriva appunto di là. E solo in un secondo tempo ha finito per designare un filone della musica elettronica vagamente imparentato con la musique d’ameublement formalizzata all’inizio del Novecento da Erik Satie, e in seguito mutata per mano di Brian Eno in ambient music – versione prêt-à-porter della quale è l’esotismo new age spacciato a buon mercato nel circuito del Buddha Bar. Altra densità ha il cosiddetto trip hop: nominalmente figlio dell’accoppiamento fra hip hop e psichedelia (l’idea del viaggio mentale che nel gergo hippie coincideva col vocabolo trip, usato anche per definire le dosi di Lsd). Fenomeno musicale periferico capace di irradiarsi su scala planetaria. La storia cominciò a Bristol, nella seconda metà degli anni Ottanta. Al centro della scena un sound system chiamato Wild Bunch, come il film più celebre di Sam Peckinpah: crogiolo sonoro in cui convergevano gli impulsi dell’hip hop, le morbide melodie del soul e il turgore ritmico del dub giamaicano. Dai dischi altrui i membri del «mucchio selvaggio» sarebbero passati in seguito a quelli realizzati in proprio: chi coi Massive Attack, chi coi Portishead e chi – Tricky – da solo. Ritmi pigri, atmosfere narcotiche, melodie diafane: una delle formule musicali più influenti tra quelle coniate durante gli anni Novanta. Così come, d’altra parte, la concettosa elettronica in bilico fra sensazioni da rave e suggestioni ambient di artisti come Aphex 20

Twin e Autechre, al servizio della piccola ma referenziatissima editrice di Sheffield Warp Records. Non certo best seller, i suoi dischi hanno influenzato tuttavia in misura considerevole le derive sonore di rockstar avvedute e irrequiete come la silfide islandese Bjork o i popolarissimi Radiohead. Tutto ciò non sarebbe potuto accadere se frattanto le tecnologie non fossero diventate più economiche e maneggevoli. Di drum machine, sequencer e bassline, apparecchiature votate alla creazione artificiale dei ritmi, erano note le prerogative già negli anni Ottanta. Ma lo strumento che ha cambiato davvero il volto della musica a fine Novecento è stato il campionatore: sorta di mega-registratore digitale in grado di incamerare segmenti musicali della provenienza più disparata, per poi renderli disponibili e manipolabili. Come il taglia-ecuci praticato dai dj dell’hip hop, ma infinitamente più versatile ed efficiente. Una novità di portata tale da incrinare simultaneamente la legislazione in fatto di diritto d’autore e la filosofia che l’aveva informata. La figura dell’artista romanticamente intesa – colui che per creare attende l’ispirazione che come uno Spirito Santo scende benigna a illuminarlo – appare improvvisamente arcaica. E quella che la sostituisce – il genio dell’arte combinatoria, capace di associare in modo coerente frammenti sonori in apparenza eterogenei – tende a infrangere la legge: fino a che punto, infatti, una musica composta da qualcun altro continua a essere sua se parcellizzata e inscritta in altro contesto? Dilemma che ha fatto e tuttora fa la fortuna degli avvocati... Una querelle inaugurata in Gran Bretagna nel 1987 da un gruppo fantasma, artefice di un solo singolo, ma di enorme successo: i MARSS di Pump up the Volume – canzone confezionata senza scrivere una sola nota, impiegando viceversa una quarantina di campionamenti «rubati» a musiche altrui. 21

Diceva anni fa Paul Hartnoll degli Orbital, duo inglese pioniere della techno: «Stiamo vivendo una rivoluzione e abbiamo appena imparato a usare gli strumenti che ha messo a nostra disposizione – proprio come un tempo i musicisti dovettero adeguarsi al fatto che era stato inventato il pianoforte». Tali innovazioni tecnologiche hanno avuto importanti ricadute sull’identità stessa del musicista contemporaneo. Tanto per cominciare, si è avverato il sogno punk del «fai-da-te»: le apparecchiature a basso costo e di facile impiego consentono a chiunque di produrre musica come bricolage domestico. A ciò si affiancano altri requisiti che riverberano l’indole anarchica del punk (non a caso, agli albori della scena elettronica inglese, fra i protagonisti troviamo personaggi reduci da quel fenomeno – il dj Andrew Weatherall, i situazionisti Klf e Alex Paterson, fondatore degli Orb – mentre in America vale per tutti il caso di Moby). L’idea dell’elusività, per esempio: essere chiunque e nessuno – il proliferare di pseudonimi, sovente più d’uno per lo stesso artista, che caratterizzò la prima fase della techno. E poi la vocazione ad affrancarsi dalle grandi compagnie discografiche: «Non ti servono intermediari per fare un disco, né anticipi in denaro», sostiene Fatboy Slim – uno che la sa lunga, visto che prima di diventare dj e artista affermatissimo era stato con le sue vere generalità, Norman Cook, bassista in un gruppo inglese piuttosto tradizionale come gli Housemartins. Già, i dj: le nuove rockstar, dirà qualcuno pensando ai cachet astronomici che incassano in una sola serata. Alcuni di loro si sono tramutati in impresari discografici: Gilles Peterson (Talkin Loud), James Lavelle (Mo Wax), Coldcut (Ninja Tune). Mentre c’è chi si è specializzato in musiche da film: è il caso dell’irlandese David Holmes, beniamino del regista Steven Soderbergh, per conto del quale ha musicato Out of 22

Sight e Ocean’s Eleven. Quando riferendosi a questa inedita scena musicale si parla di club culture non si esagera, quindi. I dj sono accettati ormai a pieno titolo anche nei circoli dell’Arte con la maiuscola iniziale: il francese Laurent Garnier si è esibito nel 1998 addirittura all’Olympia di Parigi. Ma soprattutto si sono messi a produrre musica per conto proprio. Sovente con risultati eccellenti in termini di qualità e quantità (di dischi venduti). Il caso più eclatante è quello di Fatboy Slim, del quale citavamo le ascendenze rock. Basti dire che è arrivato al punto di organizzare un festival a casa propria, sulla spiaggia di Brighton: il Normstock. L’edizione dell’estate 2002 ha radunato circa 250mila spettatori. «Sono un dj / sono quello che suono», cantava David Bowie nel 1978. E così vanno le cose. Ecco i Chemical Brothers, cresciuti a Manchester quando là era l’ombelico del mondo musicale. Dicono: «Fin dal principio l’idea era di usare i dischi come fossero strumenti». Chi applicando con rigore le regole del turntablism – vocabolo che potremmo tradurre come «giradischismo» – è riuscito a diventare uno degli artisti più quotati degli anni Novanta è il californiano DJ Shadow, il cui primo album Endtroducin’... rappresenta la quintessenza della tecnica di copia-e-incolla detta breakbeat: uno sbalorditivo collage di tasselli carpiti da rari o misconosciuti dischi in vinile, dove l’unità narrativa dell’opera (altrui) viene frantumata a beneficio della ricombinazione in chiave postmoderna dei fattori in gioco. Nulla osta a che i dj possano tramutarsi in creatori di musica, del resto: chi meglio di loro, che lo sperimentano vedendo che effetto fa in pista, ha il senso del groove (l’amalgama di ritmo, sonorità e atmosfera che conferisce identità a un brano)? Il passaggio dalla categoria dei consumatori – ancorché raffinati e per conto terzi – a quella dei produttori non è dunque immotivato. 23

E così alla fine si è avverata la premonizione di Brian Eno, che già nei tardi anni Settanta sosteneva che il futuro della musica sarebbe stato appannaggio dei «non musicisti». Quali sono appunto i dj. Ultima conseguenza della rivoluzione in corso – tecnologie a basso costo, moltiplicazione delle fonti accessibili, credito culturale... – è una prima ma significativa incrinatura nel monopolio angloamericano sui consumi musicali di massa. Non è più così importante stare a Londra, New York o Los Angeles per produrre opere significative. In fatto di techno, e in generale di suoni elettronici di nuova generazione, tutta l’Europa può dire la sua in modo autorevole: dalla Francia alla Germania, passando per Austria, Scandinavia e Italia (le prime stagioni di Ibiza furono contraddistinte dai successi di Sueno Latino e Blackbox). E ci si può spingere verso l’Europa dell’est, così come varcare gli oceani in direzione del Giappone o dell’America Latina, certi di potersi imbattere ovunque e comunque in idee musicali insolite, se non proprio originali. Seguendo questa via, insomma, si potrebbe anche arrivare a una globalizzazione dal volto umano.  24 Hour Party People Michael Winterbottom (Pathé, 2002).  Better Living Through Chemistry Fatboy Slim (Skint, 1996).  Blue Lines Massive Attack (Virgin, 1991).  Dj Culture Ulf Poschardt (Quartet Books, 1998).  Endtroducin’... DJ Shadow (Mo Wax, 1996).  Exit Planet Dust Chemical Brothers (Virgin, 1995).  Generazione ballo/sballo Simon Reynolds (Arcana, 2000).  Oceano di suono David Toop (Costa&Nolan, 1999).  Screamedelica Primal Scream (Creation, 1991).  Technique New Order (Factory, 1989).

14 agosto 1995

Sfida ai vertici dell’hit parade britannica: Blur contro Oasis. È l’apoteosi del Britpop, ossia la riaffermazione del predominio culturale anglosassone nei consumi musicali di massa.

Settimana calda in Inghilterra, e non solo perché siamo a Ferragosto. Il match a colpi di canzoni fra Blur e Oasis riaccende la competizione musicale come non accadeva dai tempi della rivalità fra Beatles e Rolling Stones. Storia buona anche per i tabloid popolari, soprattutto dopo che Noel Gallagher, il maggiore dei fratelli che reggono le sorti degli Oasis, ha dichiarato: «Vorrei che quei due morissero di Aids!». Alludeva a Damon Albarn e Alex James, la metà più fotogenica dei Blur. E Albarn pativa i toni accesi di quell’antagonismo: «Non c’era verso di poter fare due passi in strada senza sentire qualcuno che strillasse: ‘Oasis!’». Questa volta sono tuttavia i londinesi Blur a prevalere: il singolo Country House, edito esattamente lo stesso giorno del concorrente Roll with It, conquista il primo posto in classifica: 270mila copie vendute contro 250mila. Cifre da primato, beninteso. Ma gli Oasis, originari di Manchester (con relativo corollario di attrito geografico: la periferia contro il centro), si sarebbero presi

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una sonora rivincita al momento di conteggiare i risultati degli album conseguenti: (What’s the Story) Morning Glory divenne best seller planetario da 15 milioni di copie, surclassando The Great Escape dei Blur. Il fenomeno che da pochi mesi era stato battezzato Britpop stava vivendo il suo momento magico. Oltre a Blur e Oasis, altri gruppi – ancorché fra loro eterogenei in fatto di stile e linguaggio – ne alimentavano l’effervescenza: Suede, Pulp, Elastica, Supergrass, Manic Street Preachers, Verve... Il loro minimo denominatore comune, in senso antropologico, consisteva nell’essere inglesi middle class 20-e-qualcosa di carnagione bianca e istruzione superiore. Intorno a loro l’intero paese ritrovava il proprio orgoglio di impareggiabile fucina di talenti destinati a dominare nel reame della musica pop. Londra «swingava» di nuovo come negli anni Sessanta, e Camden era il cuore di una bohème giovanile ammirata e invidiata da mezzo mondo. «Fu un momento spettacolare: la versione in scala ridotta di quello che credo avessero provato i Beatles tra il 1965 e il 1966», ricorda Graham Coxon, allora chitarrista dei Blur. Carnaby Street, le minigonne disegnate da Mary Quant e gli eccessi giulivi della beatlemania: tuttora pietra angolare nel senso comune dei cittadini di Sua Maestà. Era l’età dell’oro, quando sembrava che l’ombelico del mondo stesse a Londra. Da tempo non era più così... Ciò rappresentava un problema. Dagli anni Sessanta in avanti, proprio grazie ai trionfi di Beatles e Rolling Stones, l’industria musicale britannica – case discografiche, agenzie di management e promozione, l’indotto dei media e della moda – si era data una struttura solida e ramificata, per sostenere la quale occorreva che ci fosse sempre nuova merce da confezionare e piazzare sul mercato interno ma soprattutto internazionale. Il sistema britannico era ed è ancora, da 26

quel punto di vista, un modello esemplare: ha insegnato al mondo intero come vendere e consumare la musica pop. Emblematico fu il caso del punk, nato a New York ma divenuto «prodotto» a Londra. Scrive a proposito Jon Savage nel saggio England’s Dreaming: «L’Inghilterra è un piccolo paese [...] che nell’industria musicale mondiale ha un’importanza strategica sproporzionata alle sue dimensioni»1. Si tratta dunque di un settore chiave nell’economia del paese. E se tira aria di crisi diventa un affare di stato. Non è solo un problema di amor proprio, bensì di quattrini. Al principio degli anni Novanta, quando il gusto giovanile premiava le musiche made in USA, si trattasse di grunge o di hip hop non faceva differenza, in Gran Bretagna crebbe spontaneamente un desiderio di riscossa. «Ci opponiamo all’americanizzazione del nostro paese», affermò un baldanzoso Damon Albarn nel 1993. Chi conosce i libri di Nick Hornby sa che oltremanica la musica pop permea ogni aspetto della vita quotidiana. Insieme al calcio e al rituale della birra al pub, il culto delle canzonette è uno dei fattori che definisce e distingue il folclore locale. Ed è appunto questa diffusa consapevolezza a fare la differenza: non v’è luogo al mondo con una cultura musicale di massa paragonabile a quella che si registra in Gran Bretagna. La musica pop non fa parte del british style: lo modella a sua immagine e somiglianza. Non è un mistero, del resto, che lo slogan «Cool Britannia», speso a quei tempi in campagna elettorale da Tony Blair, debba più di qualcosa in fatto di senso e attitudine allo spirito di rivincita nazionalistica di cui era stato interprete il Britpop. Un tradizione che abbraccia a 1

Trad. it. Il sogno inglese, Arcana, Roma 2002, p. 154.

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questo punto almeno due generazioni, dagli anni Sessanta ai giorni nostri, ricca di cliché da emulare, intrinsecamente coerente e dunque riconoscibile. Il filo conduttore che, partendo dai Beatles, attraversa gli anni Settanta, sopporta le tensioni del punk, scorre come un fiume carsico sotto gli anni Ottanta e riaffiora più saldo che mai all’epilogo del Novecento, ha mostrato una formidabile resistenza all’usura. Tanto che oggigiorno nascere in Gran Bretagna significa avere le nozioni basilari della pop music impresse nel Dna. Diceva Alex James dei Blur: «Abbiamo cercato deliberatamente di abbracciare la classicità della scrittura pop e dell’immaginario nazionale». Accennavamo al punk e al suo urto nichilista. Non solo non scosse le fondamenta di quella «classicità», ma finì per conformarsi a essa. Artisti appartenenti alla classe del 1977 come Cure, XTC ed Elvis Costello, articolando via via il proprio linguaggio dopo aver smaltito l’irruenza iniziale, si sono affermati a loro volta come archetipi del pop britannico di nuova immatricolazione. Ma se c’è un personaggio che più di chiunque altro simboleggia questa nozione di mutamento nella continuità, questi è Paul Weller: vero anello di congiunzione fra il beat anni Sessanta e il Britpop. Lo prova indirettamente la considerazione di cui gode presso le generazioni seguenti: Noel Gallagher degli Oasis – per dire – coltiva da anni una relazione di amicizia e complicità artistica con lui. Quando esordì, era appunto il 1977, Weller guidava i Jam: trio che per contiguità anagrafica e logistica alcuni rubricarono frettolosamente sotto la dicitura «punk». L’equivoco durò poco: in tournée nella primavera di quell’anno insieme ai Clash, Weller e i suoi se ne dissociarono quasi subito – avevano una propria identità e intendevano salvaguardarla. Il mondo a cui 28

appartenevano era un altro: la tribù giovanile più persistente e intimamente britannica che ci sia – quella mod. Contrazione di modernism, ossia l’attitudine che spinge verso tutto ciò che è nuovo o insolito, il termine comincia a circolare alla fine degli anni Cinquanta per definire una sottocultura nascente. Sono le periferie londinesi a essere incubatrici del fenomeno, come narrato dallo scrittore Colin McInnes nel romanzo Absolute Beginners, poi anche film diretto nel 1986 da Julien Temple, con David Bowie nel cast (in Italia: Principianti assoluti). Ne sono protagonisti ragazzi di estrazione proletaria che tentano di emanciparsi dalla propria condizione attraverso consumi sofisticati: una pratica definita «rivolta dello stile». Abiti e acconciature di taglio continentale, musiche «esotiche» (dal rhythm’n’blues americano allo ska giamaicano) e nuovi mezzi di locomozione (sono i mods a decretare il successo di Vespa e Lambretta). Portato alla ribalta nel 1963 dal programma televisivo Ready Steady Go!, lo stile mod elegge propri portavoce musicali gli Small Faces e soprattutto i Who. Saranno questi ultimi a celebrarne retrospettivamente l’epopea nell’opera rock Quadrophenia, rielaborata nel 1979 in chiave cinematografica dal regista Franc Roddam. Ed è in quello stesso anno che i Jam raggiungono l’apice del successo, occupando il posto lasciato vacante dai Who. Perciò, ancora adesso, Paul Weller viene soprannominato col neologismo The Modfather, «il padrino mod». Altro arcano maggiore nell’iconografia pop contemporanea d’oltremanica è uno strano individuo: Steven Patrick Morrissey. Fervido patriota e alfiere ante litteram della «rivincita inglese»: esibendosi dal vivo nell’estate del 1992 in un festival londinese a Finsbury Park, si presentò in scena avvolto dalla Union Jack – la bandiera nazionale. Strana mossa da parte di colui che sei anni prima aveva intitolato provocato29

riamente un disco «La Regina è morta». Contraddizione utile per spiegare lo strano genere di sciovinismo che fende trasversalmente la cultura giovanile britannica. Lo anima un curioso sentimento fatto di nostalgia e amarezza per il tempo andato, quando il Regno Unito era potenza imperiale e culla del capitalismo industriale: arbitro delle sorti del mondo. Così non è più da decenni e le ultime vestigia del passato, rappresentate dalla famiglia reale, si sono decomposte clamorosamente sotto i riflettori dei mass media proprio nell’ultima decade del Novecento – il divorzio del principe Carlo dalla consorte Diana e la tragica fine di quest’ultima a sigillare definitivamente un’era. E nel 1995 i sudditi di Sua Maestà si sono persino dovuti adeguare al sistema metrico decimale. «Un tradimento della nazione!», sentenziò il capogruppo dei conservatori alla Camera dei Comuni, Sir George Gardiner. Il contraccolpo dell’evidente declino dell’Old England ha prodotto una catena di effetti collaterali, come una sorta di sindrome post-imperiale causata dal frantumarsi dell’identità vittoriana. E Morrissey ne è stato per certi versi una conseguenza. Classicamente inglese, ma proprio per questo vulnerabile. Dandy alla maniera di Oscar Wilde, ma senza più alcuna prosopopea. Morrissey divenne divo pop sui generis a metà anni Ottanta, cantando negli Smiths – come se in Italia qualcuno chiamasse il proprio gruppo «I Rossi» o «I Bianchi». L’anonimato che si fa clamore, mostrando le proprie imprevedibili stravaganze. Incerta la propensione sessuale, gladioli sui palchi dei concerti, strani argomenti nelle canzoni – dall’animalismo alle pulsioni di morte. Un’esplicita fragilità emotiva, che evidentemente fece vibrare corde nascoste nell’emotività di una nazione oppressa dallo spigoloso matriarcato di Margaret Thatcher. Gli Smiths, formatisi ai tempi della guerra 30

delle Falklands e debuttanti in pubblico poco prima che la Lady di Ferro fosse rieletta per la seconda volta, crearono così uno strano genere di incantesimo pop. A suo modo naïf, come nessuno più aveva fatto dagli anni Sessanta. «Se uno si sofferma sui film e la musica di quel periodo, scopre un’ingenuità affascinante: un’innocenza che non esiste più. Adesso la sappiamo troppo lunga per stare bene». Parola di Steven Patrick Morrissey. Ma le parole non sarebbero state sufficienti senza un’adeguata cornice musicale. Ad architettarla fu Johnny Marr, squisito chitarrista e straordinario cesellatore di melodie. Ecco la coppia motrice che spinse in orbita gli Smiths, facendoli brillare come stelle di prima grandezza nel firmamento pop britannico dell’epoca. Una carriera breve, alla fin fine, lunga appena un quinquennio scarso, dal 1983 al 1987, quando si separarono poco dopo aver firmato un contratto da un milione di sterline con la Emi. Tanto è bastato a imprimerne indelebilmente il nome nella memoria musicale collettiva, comunque. Se all’inizio del 2002 l’autorevole settimanale inglese «New Musical Express», stilando bilanci in occasione del proprio cinquantesimo anniversario, ha definito proprio gli Smiths «il più grande gruppo di tutti i tempi» (davanti ai Beatles!), una ragione dovrà ben esserci, del resto... Motivo in più per sostenere la candidatura di Manchester – da dove Morrissey e i suoi partirono per conquistare il mondo – a capitale morale della musica britannica dell’ultimo ventennio. Finita la stagione degli Smiths, mentre all’Haçienda si celebrava il rito di passaggio dalla stagione del rock a quella della dance, venne il turno dei vari James, Charlatans e Stone Roses. Intanto a Burnage, sobborgo dormitorio della città, Noel e Liam Gallagher stavano diventando adulti. Finora – da 31

Albarn a Morrissey – ci siamo imbattuti in giovanotti a modo loro aristocratici e istruiti. Qui siamo su un altro pianeta: quello dei lads – come in Inghilterra vengono chiamati i ragazzi cresciuti a birra e football. Proprio l’estrazione sociale dei Gallagher dimostra come e quanto l’esperienza pop permei in profondità la cultura condivisa della nazione. Non sono i soliti studenti d’arte a fare musica questa volta, ma due giovanotti qualunque. Che però hanno immagazzinato nel proprio corredo genetico gli insegnamenti di Beatles e Sex Pistols. Semplificando troppo si corre il rischio di non cogliere le sfumature, ma fin dall’inizio gli Oasis hanno suonato agli orecchi di chiunque come il risultato della somma aritmetica di quei due addendi: melodie alla Lennon/McCartney incapsulate in un involucro sonoro ruvido come quello della banda di Johnny Rotten. Ossia i due archetipi fondamentali della musica britannica. Gli Oasis erano perciò «classici» ancora prima di diventare tali. Se ne rese conto immediatamente Alan McGee, il pel di carota scozzese fondatore della Creation Records, marchio indipendente affermatosi nella seconda metà degli anni Ottanta. «Tre canzoni e capii che dovevo metterli sotto contratto», ricorda. Non si era sbagliato: gli Oasis fecero centro già col primo album, Definitely Maybe. E col secondo, quello della disfida coi Blur, si ersero al rango di assolute rockstar. Condizione nella quale si trovano tuttora, per quanto lo smalto non sia più quello dei giorni migliori. All’usura del tempo hanno resistito meglio i Blur, tuttavia. L’ultimo disco edito a tutt’oggi, Think Tank, in bilico fra politica (insieme a Robert Del Naja dei Massive Attack, Damon Albarn è stato principale testimonial della campagna contro la wrong war, la «guerra sbagliata» in Iraq) e sentimenti, è una prova onorevolissima, per di più impregnata di uno spirito «terzomondista» simile a quello che ispirò ai Clash l’ere32

sia di Sandinista!. Strano a dirsi per un gruppo che dell’«anglicità» aveva fatto la propria bandiera. «È qualcosa che ha a che vedere con la latitudine e la storia», affermò all’epoca Alex James. Così era in musica, per le assonanze con i Beatles e i Kinks, e pure nell’attitudine – l’album pubblicato nel 1993 come Modern Life Is Rubbish, secondo della serie, avrebbe dovuto essere intitolato England vs America. Nientemeno. E al culto mod fu consacrato il successivo Parklife: tanto che nel brano omonimo compariva in voce Phil Daniels, protagonista di Quadrophenia al cinema. Ma nonostante tutto i Blur sono sopravvissuti all’ebbrezza del Britpop, smarcandosene al momento giusto, prima cioè che il fenomeno si trasformasse in parodia di se stesso. Oltre che ambizioso (sognava di essere divo pop quando ancora non era adolescente – «È pura follia dire all’età di 11 anni: ‘So che diventerò famoso’, ma è andata così...»), Damon Albarn è un individuo dotato di ingegno non comune e della giusta dose di scaltrezza, capace di essere rockstar «virtuale» nell’estemporaneo progetto Gorillaz pilotato dal designer Jamie Hewlett, ma anche di andare in Mali a suonare con musicisti del posto per semplice spirito di avventura. Requisito – lo spirito di avventura – che non difetta certo ai Radiohead: prototipo contemporaneo delle rockstar consapevoli e problematiche. La strada era in discesa per loro, dopo che già agli esordi, nel 1992, avevano centrato il bersaglio con Creep – un inno alla sfiga: «Avrei voluto essere speciale / tu sei così speciale / ma io sono sfigato». Fece colpo in America quella canzone, adottata da Mtv e dal circuito delle college radio, stranamente non in Gran Bretagna. E pensare che – l’epoca è sempre quella della reazione antiamericana degli inglesi – il cantante Thom Yorke affermava: «I gruppi della Sub Pop [etichetta discografica culla del grunge statu33

nitense] non hanno personalità, solo capelli». A mettere le cose a posto, rendendoli cioè popolarissimi ovunque, dunque anche in patria, fu il disco edito nel 1997: OK Computer, un classico pressoché indiscutibile. Divenendo in quel modo icone del cosiddetto art-rock, ossia il rock dotato di plusvalore «artistico», i Radiohead hanno segnato il proprio territorio. Ma anche il loro destino. Da allora, infatti, pur mantenendo alto il livello qualitativo delle proprie opere, è come se dovessero ogni volta complicare il discorso infarcendolo di vocaboli astrusi e rendendolo sintatticamente impervio. Eppure, non ci fossero stati i Radiohead, non avremmo oggigiorno i Coldplay. Citando il loro album The Bends, il cantante Chris Martin gli attribuisce la sua ispirazione originaria: «Non faccio fatica ad ammettere che mi ha cambiato la vita». Mica cosa da poco. Studente allo University College di Londra come i suoi tre futuri compagni di avventura, Martin era complessato dalla propria origine sociale medio borghese: pensava di non avere i requisiti necessari per suonare in un gruppo rock. Ma rotto il sortilegio, il ranocchio si è tramutato in principe. Sbalorditivo il curriculum del quartetto: cinque milioni di copie vendute del primo album, Parachutes, uscito nel 2000. E almeno il doppio del successivo, A Rush of Blood to the Head, edito due anni più tardi: un titolo che da solo ha rappresentato in Gran Bretagna il 15% dell’intero fatturato annuale dell’industria discografica nel 2002! Il segreto? Rock melodico, di impronta classica, senza grandi sorprese ma con un mucchio di amorevoli rassicurazioni. Quanto basta a soddisfare gli appetiti di un pubblico in cerca più di conferme che di rivelazioni catartiche. Il Britpop, o ciò che di esso rimane, svolge in fondo proprio quella funzione. Editrice dei Coldplay, come d’altronde dei Radiohead, è la Par34

lophone: sussidiaria del colosso Emi che all’epoca distribuì i primi dischi dei Beatles. Sarà un caso? 

   

    

3682 giorni. La candida storia dei Blur Stuart Maconie (Arcana, 2000). A Rush of Blood to the Head Coldplay (Parlophone, 2002). Definitely Maybe Oasis (Creation, 1994). Mods. L’anima e lo stile Paolo Hewitt (Arcana, 2002). Oasis. Fuori di testa Paolo Hewitt (Tarab, 1997). OK Computer Radiohead (Parlophone, 1997). Parklife Blur (Emi, 1994). Setting Sons Jam (Polydor, 1979). The Queen Is Dead Smiths (Rough Trade, 1986). The Last Party. Britpop, Blair and the Demise of English Rock John Harris (Trafalgar Square, 2003).

12 gennaio 1992

«Nevermind» dei Nirvana raggiunge il primo posto nella classifica statunitense dei dischi più venduti. Il grunge trova i suoi profeti.

In copertina: un lattante nuota sott’acqua, avendo davanti a sé una banconota appesa a un amo. Simbolo evidente dell’innocenza corrotta: un’immagine consonante alla miscela di vandalismo e dolcezza contenuta nel disco. Un prodotto su cui l’editrice Geffen, che ha appena ingaggiato i Nirvana versando un anticipo di 287mila dollari, è disposta a scommettere fino a un certo punto. La tiratura iniziale è di 46mila copie e le previsioni di vendita indicano come traguardo i 300mila esemplari. Nevermind ne venderà alla fine oltre 10 milioni, al termine di una scalata al successo cominciata nel settembre 1991 e favorita dall’insistenza con cui Mtv programma per tutto l’autunno il videoclip del singolo Smells Like Teen Spirit (titolo equivoco: letteralmente significherebbe «Odora di spirito adolescente», ma in realtà Teen Spirit è il nome di un deodorante femminile). Il testo di quella canzone, destinata ad affermarsi come inno generazionale, recita: «Carica su i fucili e porta gli amici / È divertente rimetterci e fingere / Lei è annoiatissima e piena di sé / Oh no, co-

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nosco una parolaccia / Ciao, ciao, ciao, un po’ giù? / Faccio peggio ciò che faccio meglio / E questo dono mi gratifica / La nostra piccola tribù esiste da sempre / E sempre esisterà». La storia era cominciata otto anni prima ad Aberdeen, cittadina distante un centinaio di miglia da Seattle: il centro principale dello Stato di Washington, nel nord-ovest degli Stati Uniti. Là era nato e viveva Kurt Donald Cobain: figlio primogenito di una coppia separatasi quando lui aveva otto anni, ragazzo vulnerabile e «difficile», di salute cagionevole e psicologicamente fragile. Aveva trovato conforto nella musica: ammirava John Lennon e il punk. Suo primo complice divenne l’allampanato Krist Novoselic, come Cobain gravitante nell’orbita dei Melvins: la leggenda punk locale. Non appena il gruppo che avevano formato terminò la fase di rodaggio, scelsero di chiamarlo Nirvana – vocabolo che in antico sanscrito significa «estinzione», ma nell’accezione attribuitagli in seguito dai buddisti allude allo stato di beatitudine che deriva dall’assenza di sensazioni, e dunque anche del dolore. Suonavano rock duro e pesante, ma venato già di malinconia. Credette in loro la piccola etichetta indipendente Sub Pop, per conto della quale esordirono nel 1988 reinterpretando su 45 giri Love Buzz, canzonetta pop degli olandesi Shocking Blue. L’anno dopo ecco il primo album: Bleach. Pochi mesi ancora e i Nirvana avrebbero trovato l’assetto definitivo con l’ingresso in formazione del batterista Dave Grohl. Quando il successo arrivò fu travolgente, nel senso etimologico del termine. Anzitutto incrinò l’equilibrio in seno al trio: Cobain – autore di quasi tutto il materiale, cantante e chitarrista – reclamò una percentuale maggiore di royalties e i suoi compagni la dovettero concedere. Ovviamente c’è chi sostiene che a spingerlo all’azione fu la sua Yoko Ono, come ben presto venne soprannominata maliziosamente Courtney 37

Love. Si erano sposati nel febbraio 1992 alle Hawaii, quando già lei era al terzo mese di gravidanza. Le cattive abitudini della coppia avevano attirato l’attenzione dei media: in agosto il magazine «Vanity Fair» mise le gestante Courtney in copertina, svelando nel servizio interno che a dispetto del suo stato continuava a fare uso di eroina. Uno scandalo che precedette di pochi giorni la nascita di Francis Bean e di qualche settimana lo scoop del «Los Angeles Times», che rivelò pubblicamente la dipendenza dalle droghe di Cobain, appena uscito da una clinica dove aveva seguito un programma di disintossicazione. Sembrava rinnovarsi la tragica epopea di Sid Vicious e Nancy Spungeon, vittime sacrificali del punk. Erano del resto quelli i nomi che talvolta Kurt e Courtney usavano alle reception degli hotel per mantenere l’incognito. La situazione parve in via di miglioramento quando al principio del 1993 i Nirvana si ritrovarono in studio per preparare il seguito di Nevermind, che uscì poi in settembre col titolo In Utero. Registrarono il disco in scioltezza, ma i problemi erano tutt’altro che risolti. Cobain avrebbe voluto che l’intestazione dell’album fosse la stessa di un brano poi escluso dalla sequenza definitiva: I Hate Myself and I Want to Die: «Odio me stesso e voglio morire». Quasi una dichiarazione di intenti. E in giugno, intervenuta a casa Cobain per sedare una rissa fra i coniugi, la polizia rinvenne e sequestrò una vera e propria armeria: fucili e pistole in quantità. Un’autentica ossessione – per altro tipicamente americana, come racconta in modo efficace il documentario di Michael Moore Bowling for Columbine – quella di Kurt Cobain per le armi da fuoco, che affiora nei testi di canzoni come In Bloom, Come as You Are e la stessa... Teen Spirit. L’incidente si ripeté nove mesi dopo con modalità analoghe: chiamati questa volta da Courtney Love, atterrita dalle minacce di suicidio del marito barricato in bagno, i poli38

ziotti riuscirono a disarmarlo – aveva con sé tre pistole, un fucile semiautomatico e 25 scatole di munizioni. Era il 18 marzo 1994. La tragedia incombeva. Appena due settimane prima, in un albergo a Roma, dove si era recato in vacanza insieme alla moglie durante una pausa della tournée europea seguita alla pubblicazione di In Utero, Kurt Cobain aveva ingerito una cinquantina di pastiglie di un potente psicofarmaco ed era entrato in coma. Si risvegliò dopo 20 ore, ma era ormai un morto vivente. Un ultimo tentativo per salvarlo fu fatto a inizio aprile, quando venne ricoverato in una clinica nei dintorni di Los Angeles, da dove però fuggì rendendosi irreperibile. Si tolse la vita nella notte fra il 5 e il 6 aprile, sparandosi in testa con un fucile nel salone della sua casa di Seattle. Nel biglietto ritrovato accanto al cadavere una frase colpiva più di altre: «Meglio bruciare che appassire». Kurt Cobain morì così a 27 anni: età fatale per gli artisti rock, visto che aveva significato la fine anche per Jimi Hendrix, Jim Morrison e Janis Joplin. Due giorni dopo la veglia funebre del 10 aprile, che richiamò a Seattle migliaia di fan provenienti dai quattro angoli del paese, negli scaffali dei negozi di dischi comparve Live Through This («Sopravvivere a una cosa simile»), nuovo album degli Hole di Courtney Love che salì immediatamente in vetta all’hit parade statunitense. Primo atto in un groviglio di affari e sentimenti intrecciatosi per anni intorno all’eredità – artistica e finanziaria – di Cobain: la vedova su un fronte, Grohl (poi rockstar in proprio coi Foo Fighters) e Novoselic sull’altro. Come in un dozzinale melodramma hollywoodiano. Intanto il grunge prosperava. Un’esperienza nuova per i giovani americani: il consumo di massa di una musica aggressiva e antagonista al mainstream, perciò – direbbero i sociologi – «identitaria». Non era accaduto col punk, che fu tale in 39

Gran Bretagna, non invece oltreoceano, dove coinvolse una cerchia ristretta di persone. Ad accomunare i fenomeni è del resto l’affinità etimologica tra i vocaboli che li designano: in gergo hanno lo stesso significato, qualcosa di «ripugnante» o «squallido», in una parola «sporcizia». Epicentro del fenomeno era ovviamente Seattle: la nuova mecca del rock. Città di circa mezzo milione di abitanti, geograficamente isolata dal resto del paese, stretta com’è fra l’Oceano Pacifico a ovest e la catena delle Cascade Mountains a est. Economicamente prospera, però: sede di industrie aeronautiche come Boeing e Lockheed, ma soprattutto proiettata verso il futuro grazie alla Microsoft di Bill Gates. E ambientalmente confortevole: tanto da essere considerata una fra le località più vivibili d’America. Il maggiore impulso alla scena musicale del posto lo diedero nella seconda metà degli anni Ottanta due intraprendenti forestieri: Bruce Pavitt, originario di Chicago, e Jonathan Poneman, proveniente dall’Ohio. Appassionati di musica, dopo aver bazzicato fanzine, radio e negozi di dischi, fondarono nel 1986 l’etichetta indipendente Sub Pop. Marchio impresso sulle opere prime di gente come Nirvana, Soundgarden e Green River. Proprio da una costola di questi ultimi sarebbero derivati in seguito i Pearl Jam. A tutt’oggi unici ancora attivi di quella nidiata di gruppi, i Pearl Jam rappresentano il volto accettabile del grunge. Musicalmente più melodici e meno violenti dei loro coevi, si sono imposti come formazione tra le più popolari nel rock americano contemporaneo fin dal primo album, Ten, edito nel 1991 e subito best seller di proporzioni considerevoli. Per raggiungere un successo simile impiegarono più tempo i Soundgarden, benché fossero tra i precursori della scena di Seattle: pagarono dazio a causa di uno stile greve, che in più di un aspetto riverberava il classico hard rock dei Led Zep40

pelin. Ma nel 1994, con Superunknown, arrivò anche per loro il momento di svettare in hit parade. A quel punto il grunge era un genere codificato e ormai a tutti gli effetti incorporato nel mainstream. Seattle era di moda e – come sempre accade – ciò provocò un contraccolpo fisiologico che ne smorzò gli slanci creativi. Disse allora Jonathan Poneman: «L’isolamento che aveva dato forza alla scena è finito: sono arrivati gruppi a decine da Los Angeles e New York per approfittare della situazione, e la città è piena di talent scout». Così anche il fuoco sacro del grunge si spense. I riflettori su Seattle si riaccesero per tutt’altre ragioni il 1° dicembre 1999: entrarono in azione là per la prima volta i cosiddetti no global, mettendo la città a soqquadro per contestare la riunione della World Trade Organization. Tra le iniziative di sostegno ai manifestanti vi fu anche un concerto dell’estemporanea No WTO Band: al basso c’era Krist Novoselic. Il grunge fu uno spartiacque. Prima che emergesse, il rock americano «alternativo» era confinato in una nicchia, per quanto accogliente. Le musiche giovanili non allineate al largo consumo erano divulgate nel circuito delle college radio: emittenti legate ai centri universitari che trasmettono su frequenze pubbliche senza fini di lucro, animate in primo luogo dagli stessi studenti. Ogni college importante ha la sua, e intorno a ciascuna stazione finisce inevitabilmente per gravitare il sottobosco musicale del luogo. È così ad Athens, in Georgia. Nella stessa Seattle, nella vicina Olympia o a Washington DC. Tutti snodi nevralgici nello scacchiere della sottocultura rock statunitense. Non fa eccezione l’aristocratica Boston, nei tardi anni Ottanta culla di alcuni fra i gruppi che più avrebbero influito sul corso degli eventi successivi: Dinosaur Jr, Lemonehads e soprattutto Pixies – citati questi ultimi dai Nirvana come modello di riferimento. Nessuno di lo41

ro ebbe il successo che meritava: arrivarono in anticipo all’appuntamento con la storia. A cambiare le carte in tavola fu Nevermind, rivoluzionando assetti e gerarchie dell’industria musicale americana. Ma soprattutto codificando un nuovo modo di essere: capelli lunghi e incolti, camicie di flanella, jeans malconci, Doc Martens ai piedi. Da quell’abbigliamento si distinguevano gli slackers («fannulloni») della Generazione X – dall’omonimo romanzo di Douglas Coupland. Il grunge divenne così moda che sconfinò ben presto in ambiti extramusicali: nel cruciale 1992 approdò sugli schermi cinematografici Singles di Cameron Crowe, commediola generazionale con protagonista Matt Dillon e alcuni musicisti di Seattle come comparse (tra questi gli Alice In Chains dello sventurato Layne Staley, ucciso da un’overdose di eroina nell’aprile 2002), e poco dopo il mensile patinato «Vogue» dedicò la propria copertina al fenomeno con lo slogan Grunge & Glory. In verità oltreoceano non stavano cambiando soltanto la musica e il modo di vestire dei teenager: si era alla vigilia di un capovolgimento politico. Dopo 12 anni di strapotere il reaganismo – incarnato nell’ultimo quadriennio da George Bush padre – agonizzava, e nel novembre 1992 Bill Clinton avrebbe vinto la corsa alla presidenza degli Stati Uniti. A cose fatte, il neoeletto non trascurò di ringraziare i promotori dell’iniziativa Rock the Vote, che invitando i giovani a non disertare le urne aveva contribuito al successo del candidato democratico. Tra i sostenitori della campagna, alcuni volti noti: Madonna, Red Hot Chili Peppers, REM... E fu così che il «Times» pensò bene di definire Clinton «il presidente grunge». Se il fenomeno simboleggiato dai Nirvana era riuscito a sfondare la porta del successo, prima c’era stato chi gli aveva aperto la strada: quei musicisti cresciuti nell’alveo indipen42

dente che durante gli anni Ottanta scelsero di misurarsi con le regole della grande industria discografica. La scommessa era di rivolgersi a un pubblico più vasto senza venir meno alle proprie convinzioni artistiche. Primi a tentare l’impresa furono gli Hüsker Dü: trio di Minneapolis dal nome curioso – l’espressione significa «ti ricordi» in svedese – allevato alla dura scuola del punk versione hardcore (ossia ancora più aspro e veloce di quello «tradizionale»), ma dotato di una straordinaria inflessione melodica nella scrittura dei brani. Fecero il grande passo nel 1986, accasandosi presso la Warner Bros, ma non sopravvissero a lungo, separandosi dopo un paio di anni e altrettanti dischi, tra cui il monumentale Warehouse: Songs and Stories. Analogo tragitto è stato compiuto dai newyorkesi Sonic Youth, che però hanno retto l’urto e continuano a fare musica ancora ai giorni nostri. Considerati da molti il gruppo «alternativo» più importante espresso dal rock statunitense nell’ultimo ventennio, coniugano in musica la classica angolosità urbana del punk con l’attitudine concettosa del milieu artistico di Manhattan – in questo eredi più di chiunque altro dei Velvet Underground. Il loro passaggio nei ranghi di una major risale al 1990 ed è storicamente importante per una buona ragione: a scritturarli fu la stessa Geffen che l’anno dopo – da loro consigliata – ingaggiò i Nirvana. Ma se c’è una formazione il cui cammino professionale vale a rappresentare da solo la metamorfosi di un’intera generazione di musicisti statunitensi, si tratta dei REM. Originari di Athens, cittadina studentesca per antonomasia (fu creata dal nulla nel 1801 come satellite universitario della capitale della Georgia, Atlanta), e nominatisi con l’acronimo che designa la fase più profonda del sonno, quella in cui è massima l’attività onirica, i quattro divennero nel 1987 la prima band indipendente capace di piazzare un proprio disco nei Top 10, 43

l’empireo delle classifiche di vendita. Accadde con Document: nitido esempio del loro modo di suonare rock, in equilibrio fra modernità e tradizione – personificata la prima dall’estro eccentrico del cantante Michael Stipe e la seconda dal rigore formale del chitarrista Peter Buck. Quell’album chiuse anche la fase indipendente della loro carriera: nel 1988 accettarono l’offerta della Warner Bros e si misero così nelle condizioni di diventare stelle di prima grandezza. Cosa che puntualmente avvenne al principio degli anni Novanta, quando superarono per due volte consecutivamente (con Out of Time e Automatic for the People) la soglia dei 10 milioni di copie vendute, senza d’altra parte tradire la propria integrità stilistica. E se valgono le cifre a spiegare il valore di un gruppo, si sappia che la somma investita nel 1996 da quella stessa major per rinnovare il contratto dei REM è stata di 80 milioni di dollari. Manca ancora un ultimo ma determinante tassello per completare il mosaico che racconta il drastico ricambio generazionale avvenuto nel rock americano all’inizio degli anni Novanta. Un festival. Di tipo nuovo, però. Itinerante. Se il modello era prima stazionario – da Monterey e Woodstock in avanti – con Lollapalooza (in gergo «roba straordinaria») le cose cambiano: una carovana rock in movimento da una costa all’altra del paese. L’idea venne a Perry Farrell, lunatico e geniale leader di un gruppo chiamato Jane’s Addiction, la cui specialità era riconvertire l’hard rock in chiave visionaria. Forte del successo riscosso nel 1990 dall’album Ritual de lo Habitual, Farrell provò a mettere in pratica il suo sogno, e fu un trionfo. La prima edizione del festival, capeggiata nel 1991 proprio dai Jane’s Addiction, che scelsero di concludere così in gloria la prima fase della loro avventura artistica, radunò oltre mezzo milione di spettatori nelle venti tappe del44

l’itinerario. Un’esperienza che venne ripetuta nei sei anni seguenti tenendo fede ai precetti fondanti: dar voce a musiche tra loro diverse, dal grunge dei Pearl Jam all’hip hop dei Beastie Boys, e offrire una ribalta propizia per gruppi giovani e promettenti, com’è stato nei casi di Nine Inch Nails e Rage Against The Machine. Non solo musica, ma anche ecologia, pacifismo, alimentazione alternativa... Una vera sagra della controcultura, insomma. Principali protagonisti della seconda edizione del Lollapalooza furono i Red Hot Chili Peppers, veterani del sottobosco rock di Los Angeles come e più dei Jane’s Addiction. In attività da metà anni Ottanta, soltanto al principio del decennio seguente – anche a causa delle abitudini spericolate che ne resero a lungo precaria la carriera e costarono la vita al chitarrista originario, Hillel Slovak – conquistarono lo status che competeva loro. Tra i primi a intuire che la crasi fra il rock duro dei bianchi e il funk dei neri avrebbe potuto produrre musica «piccante», quanto il nome che si erano dati prometteva, nel 1991 misero a fuoco le proprie intuizioni in un album che fece scuola: Bloodsugarsexmagik – nitida e compassionevole istantanea di quel modo di vivere tipicamente californiano fatto di esuberante vitalità ed eccessi sconsiderati. E soprattutto imprinting dei futuri best seller Californication e By the Way. Non furono gli unici a beneficiare dell’effetto-Lollapalooza, come si diceva. Accadde in seguito con gli Smashing Pumpkins di Billy Corgan, maggiori interpreti del grunge di seconda generazione, e con Beck, curioso prototipo di cantautore postmoderno, nonché con gli esponenti del cosiddetto corporate punk – il punk «da ipermercato». Come tutti i codici espressivi, per quanto sediziosi siano o vengano considerati tali, anche il punk ha terminato la propria parabola tramutandosi in prodotto riproducibile su larga sca45

la. Il successo arriso a metà anni Novanta a gruppi come Green Day e Offspring, che hanno impacchettato e reso seriale uno stile che si riteneva indomabile, ne è la dimostrazione inequivocabile. Sostenuti da una macchina del consenso a quel punto efficientissima come Mtv, riuscirono a vendere la propria merce a un pubblico di ragazzini la cui data di nascita cade mediamente intorno al 1977, l’anno di grazia del punk originario. Ironia della sorte... O forse è solo la vecchia ma inossidabile legge del contrappasso, che condanna chi è antagonista a diventare, affermandosi, istituzione. Ne saranno vittime in futuro gli stessi artisti «alternativi» – White Stripes o Strokes, non fa differenza – che oggigiorno vanno per la maggiore propagandando la riscoperta di un’«autenticità» perduta? In fondo si può applicare anche al rock l’icastico motto pronunciato dal principe di Salina nel Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».  Bloodsugarsexmagik Red Hot Chili Peppers (Warner Bros, 1991). 

 

   

 

Come as You Are. Nirvana: la vera storia Michael Azerrad (Arcana, 1994). Daydream Nation Sonic Youth (Blast First, 1988). Diari Kurt Cobain (Mondadori, 2002). Live Through This Hole (Geffen, 1994). Nevermind Nirvana (Geffen, 1991). Out of Time REM (Warner Bros, 1991). REM Fiction David Buckley (Arcana, 2003). Singles Cameron Crowe (Warner, 1992). Ten Pearl Jam (Epic, 1991).

1° agosto 1981

Un minuto dopo la mezzanotte cominciano negli Stati Uniti le trasmissioni via cavo di Mtv. È l’inizio di una rivoluzione che cambierà il volto della musica.

Con calcolata autoironia, il primo filmato messo in onda è Video Killed the Radio Star dei Buggles: un brano che predice con tono lieve la prossima estinzione di un mondo – quello della musica pop pre-televisiva. Allora poteva suonare paradossale. Oggi un po’ meno. Con i suoi 33 canali sparsi nel pianeta, attraverso i quali trasmette in 18 lingue diverse e raggiunge 375 milioni di abitazioni in 164 paesi, Mtv è un network praticamente senza rivali, con un’audience doppia rispetto a Cnn International: «Mtv è oggi la vera televisione globale», afferma con soddisfazione Summer Redstone, boss della Viacom, società proprietaria dell’azienda dal 1985 (e dal 1997 anche di Paramount e Blockbuster). Di farle concorrenza non se ne parla nemmeno: chiedere per conferma a Viva, in Europa, e a Star Tv, in Asia, tuttora impegnate in quella sfida impossibile. Carta canta: dal 1996 al 2003 i ricavi iscritti a bilancio sono più che triplicati, passando da 231 a 722 milio-

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ni di dollari. E tra le varie filiali ramificate nel mondo, proprio Mtv Italia è una delle più efficienti, avendo visto crescere i propri introiti pubblicitari del 352% dal 1997 al 2001. Nel Vecchio Continente dal 1997 c’è Mtv Europe (frutto di una joint venture con Maxwell Communications Corporation e British Telecom), che ha sussidiarie locali – fra cavo, satellite e broadcasting tradizionale – in Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna, Olanda, Russia... In tutto 15 canali e 124 milioni di utenti. Meglio ancora va la sezione asiatica, inaugurata nel 1991 e ricevuta ora da 137 milioni di apparecchi televisivi. E in America Latina siamo a quota 28 milioni. Così, con i suoi 85 milioni di telespettatori, la casa madre statunitense ha quasi l’aria della parente povera. Sono cifre che danno l’esatta percezione della potenza economica di cui il network dispone oggigiorno: una forza che a questo punto surclassa quella del suo interlocutore naturale, l’industria discografica. Se nel corso dei 23 anni trascorsi dal varo dell’impresa Mtv è cresciuta esponenzialmente, i produttori di dischi hanno subito viceversa un vistoso calo dei fatturati, attribuendone la responsabilità alla diffusione della musica in rete. E ora che le strategie industriali tracciate per il futuro dal management di Mtv puntano in primo luogo a estenderne la presenza proprio in Internet, siamo di fronte a quel genere di paradosso che i filosofi chiamano eterogenesi dei fini. Nata come supporto dell’industria discografica, Mtv fertilizza adesso il terreno che gli stessi discografici indicano come quello in cui prosperano i loro più acerrimi nemici, gli «scambisti» di musica. Agli albori, Mtv altro non era che un Carosello a ciclo continuo di videoclip – i filmini promozionali delle ultime novità discografiche. Pubblicità travestita da intrattenimento, per48

ciò rudimentale. Migliorie tecniche a parte, non era stato fatto nessun passo avanti sostanziale rispetto alla relazione fra musica e immagini in movimento consolidatasi all’inizio del Novecento. In principio furono le comiche: muti cortometraggi a sonorizzare i quali provvedevano i pianisti schierati sotto gli schermi. Pioniere dell’integrazione tra i due fattori fu il disegnatore Oskar Fischinger, che negli anni Venti cominciò a elaborare animazioni per brani popolari di musica classica e jazz. Nel 1940 lo stesso Fischinger fece parte del team che, sotto la direzione di Walt Disney, realizzò il film a cartoni animati che alcuni considerano il primo prototipo di videoclip: Fantasia. Pagine celebri della tradizione colta – Bach, Stravinskij, Beethoven, Schubert, Musorgskij... – che scandiscono i tempi delle sequenze di immagini. Fino ad allora era stato il contrario: la musica aveva fatto da arredo alla narrazione cinematografica. In quella stessa epoca ebbero un fugace momento di gloria i soundies: sorta di jukebox visivi che offrivano a pagamento spezzoni degli show dei divi allora in auge, da Bing Crosby in giù. Furono il diffondersi degli apparecchi televisivi e il contemporaneo avvento del rock’n’roll a cambiare le regole del gioco durante gli anni Cinquanta. Le epifanie di Elvis Presley sul piccolo schermo ingigantirono la fama del personaggio. E a quel punto fu chiaro agli occhi degli impresari musicali quale fosse la potenza persuasiva del mezzo. Scrive a proposito il sociologo Simon Frith nel saggio Making Sense of Video: «In primo luogo la televisione è sempre risultata significativa per la vendita dei dischi e cruciale per l’attribuzione di senso alla musica giovanile. È stata la fonte essenziale dell’immaginario che spiegava il rock’n’roll – Elvis Presley divenne un’icona giovanile attraverso le sue apparizioni negli spettacoli di 49

varietà televisivi – e da allora in poi è stata la vetrina più efficace per il rock»1. Alla produzione in proprio si passò negli anni Sessanta, quando Beatles e Rolling Stones rivaleggiavano su scala planetaria. Anziché spedire i gruppi coi rispettivi entourage in giro per il mondo a promuovere se stessi e i loro dischi, era molto più economico ed efficiente registrarne un’esibizione in studio e inviarne poi copie in pellicola alle varie emittenti televisive. Fece da modello nel 1967 il filmato promozionale di Penny Lane e Strawberry Fields Forever: primo 45 giri pubblicato quell’anno dai «baronetti». Il vero progenitore del videoclip per come oggi lo conosciamo fu realizzato nel 1975 dai Queen per Bohemian Rhapsody. Ancorché primitivo nella forma (appena qualche effetto ottico a interpolare i frammenti di una registrazione dal vivo), sortì l’effetto desiderato: quel 45 giri conquistò il primo posto nell’hit parade britannica e lo mantenne consecutivamente per due mesi, contribuendo alla definitiva consacrazione del gruppo di Freddie Mercury. La tipica teatralità dei Queen evidenziò immediatamente il valore aggiunto del videoclip: dotare le canzoni di fascino coreografico. Non a caso a sfruttare nel modo migliore quel nuovo strumento propagandistico furono, nei primi anni Ottanta, gli azzimati new romantics inglesi – Duran Duran, Culture Club, Spandau Ballet – cresciuti all’ombra del dandy rock per antonomasia: David Bowie. Ma chi davvero costruì la propria carriera a partire dai videoclip fu la diva più glamour dell’intero decennio: Madonna. Allora si registrò lo scarto decisivo: i modi per confezionare il prodotto musicale stavano cambiando 1 Trad. it. Dar senso al video: il pop verso gli anni Novanta, in Il rock è finito, Edt, Torino 1990, p. 248.

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irreversibilmente. E in fondo permettevano di risparmiare: allora un videoclip costava comunque meno di una campagna pubblicitaria in grande stile. Così fu almeno finché la casa discografica di Michael Jackson – già in azione sui piccoli schermi l’anno prima con Billie Jean – investì nel 1984 un milione di dollari commissionando al regista John Landis l’ambiziosissimo clip di Thriller. Mtv frattanto cresceva. Nata grazie alle condizioni favorevoli create dalla deregulation televisiva degli anni Settanta, aveva esordito nel 1981 come nuovo ingrediente nel bouquet offerto agli 800mila utenti del network via cavo Warner Amex Cable Communications, joint venture intrapresa nel 1979 dai gruppi Warner Bros e American Express. A occuparsi del canale tematico votato alla musica furono chiamati Robert Pittman, operatore radiofonico di successo, e Michael Nesmith, in gioventù membro dei Monkees (gruppo pop di matrice guarda caso televisiva) e quindi artista in proprio, attore e produttore discografico, ma soprattutto pioniere videomusicale con il programma Popclips sul canale satellitare per ragazzi Nickelodeon. Non ci volle molto per dimostrare che l’idea era redditizia: terminata la fase di start up, Music Television – questa la dicitura integrale – era già un’impresa che da sola costituiva il 25% dei ricavi dell’intero network. Ragion per cui, nel 1983, il magazine economico «Fortune» la nomina «prodotto dell’anno». Nel 1984 Mtv raggiunge e supera la soglia dei 20 milioni di abbonati, incassa 11 milioni di dollari in pubblicità, diviene ammiraglia di un nuovo gruppo chiamato Mtv Networks, piazza sul mercato il 30% del proprio capitale azionario in cambio di 70 milioni di dollari e respinge l’attacco che Ted Turner, mister Cnn, prova a portarle con il Cable Music Channel aprendo una seconda rete – VH1, ossia Video Hits One – destinata a un pubblico più 51

adulto. Una marcia trionfale. A quel punto Mtv vale quasi mezzo miliardo di dollari: è la cifra che Viacom – in procinto di essere «scalata» da Redstone – paga per rilevarne la proprietà nell’estate del 1985. In che cosa consiste il valore di Mtv? Essenzialmente nel fatto che crea comunità. Di «Mtv Generation» si comincia a parlare nei primissimi anni Novanta. È il boom dei Nirvana, largamente favorito dall’emittente, a dare un segnale inequivocabile. La categoria «giovani» era definita come mercato di massa già ai tempi del rock’n’roll, ma fino ad allora nessun imprenditore della comunicazione lo aveva coltivato in maniera esclusiva. Sul fronte televisivo erano stati realizzati programmi di successo destinati a un’audience giovanile – dall’inglese Ready Steady Go! negli anni Sessanta al nostrano Mister Fantasy due decenni più tardi – ma sempre nel contesto di reti generaliste. Nulla che fosse orientato specificamente a quel mercato. Mtv aveva colmato la lacuna, coagulando un pubblico in età mediamente compresa fra i 18 e i 25 anni: bacino appetibilissimo per gli inserzionisti pubblicitari. Non più organizzati in bande, come tra i Cinquanta e i Sessanta, e men che meno in «movimento», come fra i Sessanta e i Settanta, i giovani si ritrovano trasformati così in platea televisiva. Mtv sta al centro di quella comunità virtuale, ne è movente e forza propulsiva. Diceva Mark Booth, primo direttore generale di Mtv Europe: «È un ambiente creato intorno al nucleo centrale della musica e a uno stile della cultura giovanile di cui si può entrare a far parte», che tradotto in linguaggio mercantile significa: sei quello che consumi – primo comandamento nell’era del mercato globale. O in altri termini: «La visione di un’ora di Mtv corrisponde allo shopping in un grande centro commerciale nel 52

quale ci venga data la possibilità di provare tante identità diverse»2. È come se più che in altri luoghi nel palinsesto di Mtv si fosse avverata la nozione stessa di post-modern. Ciò trapela dalle parole di Robert Pittman: «La gente non guarda quei filmati per sapere che cosa succederà: lo fa per provare certe emozioni. Si tratta di suscitare un’atmosfera». Ecco materializzata l’idea della rottura dell’unità narrativa dell’opera d’arte e il conseguente predominio del significante sul significato. Concetto espresso nitidamente da Dick Hebdige nel volume Hiding in the Light: «Quella che potrebbe essere considerata come la caratteristica definitoria del videoclip (è) la sostituzione della coerenza narrativa con la densità referenziale. Mentre i segni indicizzanti – quelli che portano avanti il racconto – soccombono ai segni referenziali – quelli che evocano il clima, definiscono la mise en scène fornendo elementi a ‘personaggi’ e ‘stile’ (abbigliamento, pose, luci, effetti speciali e così via) – il videoclip diviene una forma intesa a ‘narrare un’immagine’ piuttosto che a ‘narrare una vicenda’»3. Siamo così allo «spettacolo» inteso in senso debordiano: appena un passo prima dell’arte come effetto speciale. Vero è, d’altra parte, che l’evoluzione tecnica e concettuale del videoclip da semplice filmato promozionale a opera in sé motivata non può essere negata. Era ciò che affermava Peter Gabriel nel 1986, parlando a braccio dopo aver ricevuto l’American Video Award. Ma è anche ciò che ciascuno può constatare ammirando le elaborazioni video delle canzoni di Bjork, artista 2 Pat Aufderheide, The Look of the Sound, in Watching TV, a cura di Todd Gitlin, Pantheon, New York 1987, p. 124. 3 Trad. it. La lambretta e il videoclip, Edt, Torino 1991, pp. 251-252.

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fra i più attenti e sensibili a quell’aspetto della propria identità espressiva. Il linguaggio stesso dei videoclip – in fatto di montaggio, cromatismi e trattamento narrativo – ha contagiato del resto il mondo immediatamente circostante, dalla televisione al cinema, provocando una specie di corto circuito. Evidente è l’influenza su film d’azione quali Mission Impossible, Speed o Matrix, per esempio. E prima ancora era toccato ai telefilm: basti pensare ai ritmi di Miami Vice. Negli spot pubblicitari, poi, il gioco di rifrazione è scoperto: quelli realizzati per prodotti destinati a un pubblico giovanile – abbigliamento, auto, moto, articoli sportivi – sono in tutto e per tutto confezionati come videoclip, tant’è vero che ormai è più regola che eccezione il fatto che diano slancio alle canzoni coprotagoniste (emblematiche le campagne di Levi’s, in questo senso, talmente efficaci da rianimare commercialmente brani di repertorio come Should I Stay or Should I Go dei Clash o di tenere a battesimo un neofita come Mr Oizo in tandem col pupazzo Flat Eric). Che il cerchio sia chiuso è dimostrato dal fitto intescambio fra videoclip, cinema e pubblicità nei curriculum dei registi. Se da un lato abbiamo le «grandi firme» cinematografiche che griffano video d’autore (il caso citato di Landis e Thriller, ma anche Brian De Palma ingaggiato per Dancing in the Dark di Springsteen o Sam Peckinpah alle prese con il Julian Lennon di Too Late for Goodbyes), dall’altro ecco gli specialisti di videoclip sbarcare a Hollywood (Spike Jonze, beniamino di Beastie Boys e Beck, che debutta con Essere John Malkovich, e Robert Longo, spesso complice dei REM, esordiente con Johnny Mnemonic). Tutto ciò fa sì che per la stragrande maggioranza dei giovani appassionati di musica siano cambiati i modi in cui la si percepisce e conosce. Se – come afferma Simon Frith in The 54

Sociology of Rock – con gli anni Settanta il rock si è tramutato da linguaggio condiviso in merce, l’avvento di Mtv ne ha formalizzato definitivamente l’avvenuta metamorfosi. A tal punto da condizionare anche l’esperienza che per convenzione si considera più «autentica»: i concerti. Essendo il rock non più codice iniziatico da clan, né fattore identificativo di un’appartenza politica a un movimento, bensì intrattenimento domestico per via televisiva, anche le liturgie in cui viene consumato da più persone in una medesima unità di tempo e luogo sono cambiate. Gli show degli artisti di maggiore richiamo hanno ormai a tutti gli effetti caratteristiche «televisive»: i megaschermi installati intorno al palco come simboli del trapasso da un’era all’altra. E d’altro canto c’è un problema di «democrazia», per così dire. Mtv è anche un filtro: alcune cose passano, altre – la maggioranza – no. È il meccanismo della playlist, mutuato dai network radiofonici (non unica analogia fra i due media: il palinsesto di Mtv ricalca a grandi linee il canovaccio radiofonico e i dj sono diventati vj), le canzoni/videoclip destinate all’emissione vengono selezionate con meticolosità e programmate secondo rigidi criteri matematici. Il quadro musicale che se ne ricava è perciò parziale e omogeneizzato. Questo supermezzo di comunicazione, che sintetizza i media del XX secolo (musica registrata, radio, televisione, cinema) ed è situato al crocevia fra tecnologie evolute, interessi industriali e nuovi linguaggi, non poteva non diventare un affare di stato. Come si è detto, quando Bill Clinton conquistò per la prima volta la carica presidenziale nel 1992, ringraziò pubblicamente i fautori della campagna Rock the Vote e anzitutto il canale attraverso cui essa dialogò con i giovani elettori americani: Mtv. Ma c’è una storia ancora più significativa da raccontare, quella di Bill Roedy. In passato ufficiale del55

l’esercito americano e comandante della base Nato di Aviano, in Friuli, succedette nel 1988 a Mark Booth nel ruolo di maggiore responsabile di Mtv Europe. Già il curriculum del personaggio è singolare; interessantissimo è soprattutto ciò che afferma, però. Intervistato da «Variety», magazine principe dello showbiz americano, subito dopo la caduta del Muro di Berlino, disse: «Ha fatto più Mtv per sconfiggere la politica della Guerra Fredda dell’esercito americano». E poi: «Adesso vendo rock’n’roll alle stesse persone contro cui prima puntavo i nostri missili». Altro che Radio Free Europe, l’emittente che irradiava i propri messaggi di «libertà» oltre la cortina di ferro. Mtv ha esportato nell’est europeo – e in Asia e in America Latina – i modelli di vita occidentali con una capacità di penetrazione e persuasione mai vista prima. Strumento di colonizzazione culturale in apparenza innocuo, ma efficacissimo. Epitome del processo di globalizzazione, Mtv è un medium planetario che in fatto di branding – l’affermazione del marchio – ha pochi rivali al mondo. Appena tre sono più conosciuti del suo: quelli di Coca Cola, McDonald’s e General Motors. Lo notava Naomi Klein in No Logo: «Fin dall’inizio [...] la peculiarità di Mtv [...] è che gli spettatori non guardavano i singoli programmi, semplicemente guardavano Mtv»4. Per ottenere questo risultato è necessario essere ovunque istantaneamente, rendere uguali luoghi diversi, diventare minimo comune denominatore del mondo. Ne è consapevole il gran capo Summer Redstone: «Nella via della globalizzazione abbiamo scoperto che il nostro pubblico vuole essere connesso a una cultura giovanile globale, ma ha anche dei fortis4

Trad. it. Baldini & Castoldi, Milano 2001, p. 66.

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simi legami con le proprie rispettive culture». Da cui la riaffermazione del principio «pensa globalmente, agisci localmente» – la mistica del glocal, che tradotta in termini di planning industriale vuol dire regionalizzare l’offerta. Anche se poi un centro continua a esserci, ed è lì che vengono prese le decisioni. Mtv non sarà allora un Grande Fratello (anche se l’omonimo reality show altro non è che la derivazione di un suo vecchio programma chiamato Real Life), ma una Grande Sorellina sì: insieme rassicurante e minacciosa. L’idea che i mezzi di comunicazione di massa debbano sottostare a un controllo centrale è del resto un’ossessione tipica della società industriale. Difficilmente applicabile a Internet, però. Priva di controllo gerarchico e costituzionalmente decentrata, la rete si presta a essere luogo in cui circolano e vengono scambiate liberamente le informazioni. Anche la musica. Al principio erano tutti contenti. Le majors discografiche, che interpretavano Internet come ulteriore strumento di promozione dei propri prodotti. I commercianti, che pensavano di avere a disposizione un nuovo canale di vendita. Gli artisti, che aprendo siti personalizzati avevano la possibilità di dialogare direttamente col proprio pubblico. E il pubblico stesso, che aveva dinanzi a sé una quantità di risorse largamente superiore al passato: banche dati come Iuma (Internet Underground Music Archive – leggendario database dedicato agli artisti senza contratto discografico), newsgroups in cui dialogare con altri appassionati del medesimo argomento, e-zine (versione elettronica delle fanzine) a cui attingere notizie... Sembrava il paese di Bengodi. Fino al 1999: anno di nascita di Napster. Il casus belli. Perché se in rete circolano informazioni, e anche la musica lo è, diventa legittima la condivisione di file musicali. E se esiste un software in grado di comprimere quei file, renden57

do rapido il download, il gioco è fatto. Protocollato nel 1987, il sistema di compressione audio Mp3 era disponibile in rete dal 1996. E Shawn Fanning, «inventore» di Napster, non fece altro che trarne le conseguenze su larga scala, offrendo agli utenti la possibilità di scambiare contenuti musicali in un ambito di reciprocità: il cosiddetto file sharing. Per accedere al servizio, ciascun utente deve mettere a disposizione degli altri la propria banca dati, ossia i suoi cd. Il risultato è un archivio che abbraccia l’intero arco della musica registrata. Ma gli autori? E le case discografiche? Gli uni e le altre traggono profitto dai dischi, e se la gente può barattarli gratuitamente significa che la festa è finita. Nel giro di pochi mesi la Riaa (associazione dei discografici statunitensi) denunciò Napster per violazione del diritto d’autore, ottenendone infine l’oscuramento nel marzo 2001. Ma da cosa nasce cosa, e morto un Napster se ne fa un altro: si chiami Kazaa, Morpheus o Soulseek. Una battaglia persa in partenza. I dati parlano chiaro: in un giorno medio del 2003 erano connessi a Kazaa circa quattro milioni di internauti, con una circolazione di 8/900 milioni di file musicali. Tutto ciò mentre i servizi a pagamento frettolosamente approntati dalle compagnie discografiche, letteralmente paralizzate dal panico, non riuscivano a decollare. A chiudere la stalla dopo che i buoi erano scappati ha provato per primo il governo americano, promulgando nell’ottobre 1998 il Digital Millennium Copyright Act, presto emulato dall’Unione europea con la European Union Copyright Directive. Formule nuove per tutelare il diritto d’autore. Se addirittura un teorico della civiltà digitale tutt’altro che «sovversivo» come Nicholas Negroponte afferma che «la legislazione sul diritto d’autore è del tutto anacronistica», vuol dire però che quei tentativi di ingabbiare il progresso sono de58

stinati al fallimento. Rincara la dose Yochai Benkler, tra i più insigni studiosi di Internet: «Combattere questi servizi significa lottare contro il progresso tecnologico, contro un elemento fondamentale per lo sviluppo del mondo dell’informazione». E aggiunge: «L’industria discografica nella sua forma attuale è destinata a sparire, perché sta scomparendo la sua ragion d’essere economica». La «smaterializzazione» dell’informazione rende obsoleta l’idea della musica inscatolata nell’oggetto-disco e svela così un equivoco che l’abitudine a ragionare in termini «industriali» ci aveva indotto a rimuovere. L’arte non è un prodotto, bensì un servizio. 

     

  

All the Rave. The Rise and Fall of Shawn Fanning’s Napster Joseph Menn (Crown Business, 2003). Director’s Series Vol. 1 Spike Jonze (Wea, 2003). Inside Mtv R. Serge Denisoff (Transaction, 2002). La lambretta e il videoclip Dick Hedbige (Edt, 1991). Mtv. Il nuovo mondo della televisione Domenico Baldini (Castelvecchi, 2000). Mtv. The Making of a Revolution Tom McGrath (Running Press, 1996). Sonic Boom. Napster, MP3 and the New Pioneeers of Music John Alderman (Perseus, 2001). The Making of Michael Jackson’s Thriller John Landis (Sony, 2001). Video Collection 1993-1999 Madonna (Wea, 1999). Volumen 1993-2003 Bjork (Navarre, 2003).

8 dicembre 1980

Dieci anni dopo la fine dei Beatles, John Lennon viene assassinato a New York con cinque colpi di pistola esplosi da Mark Chapman.

Il venticinquenne Mark David Chapman era arrivato a New York due settimane prima, con un volo proveniente dalle Hawaii, e nei giorni precedenti la tragedia aveva pedinato John Lennon, studiandone gli spostamenti. Quella sera lo attendeva al varco, armato di una calibro 38, nelle vicinanze del Dakota Building, il residence nella zona di Central Park dove la vittima abitava da cinque anni con Yoko Ono e il figlio Sean. Lennon giunge all’appuntamento con la morte poco prima delle 23, una volta ultimato il lavoro negli studi di registrazione Record Plant insieme alla moglie e al produttore Jack Douglas. Chapman era un fanatico dei Beatles, e di Lennon in particolare. Come molti fan, posseduti da un amore cieco per i propri idoli, provava un frustrante desiderio di possesso – sentimento analizzato in profondità da Fred e Judy Vermorel nel saggio Starlust – ed era psicologicamente squilibrato. La combinazione dei due fattori creò il movente di quel gesto altrimenti inspiegabile. A cose fatte vi è stato chi – l’avvocato Fenton Bresler nel libro Who Killed John Lennon? – per amor di dietrologia ha

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tentato di dimostrare che la mano dell’assassino era stata armata dalla Cia. Ma quella teoria del complotto – considerati i tempi e soprattutto l’atteggiamento assunto da Lennon nei confronti del governo statunitense dopo che nel 1976 gli era stato riconosciuto il permesso di soggiorno – sembra alla fin fine inconsistente. Come Lennon si approssima all’ingresso dell’edificio, Chapman gli si fa incontro e chiede un autografo, ottenendolo. Poi spara. Mentre Lennon rantola a terra, soccorso da Yoko Ono, incredulo e atterrito il portiere del residence chiede a Chapman: «Ma lo sai cosa hai fatto?!?». «Sì», è la risposta, «ho sparato a John Lennon». E John Lennon non era un artista qualsiasi. Nemmeno un Beatle qualsiasi. «Era il più deciso e consapevole – quello tagliente», scrive Fred Frith nella commemorazione Something to Be1. L’unico dei quattro che avesse continuato a fare musica che esigeva attenzione e pretendeva di essere ascoltata. Non così gli altri reduci dalla diaspora ufficializzata da McCartney il 10 aprile 1970 in un laconico comunicato stampa. I Beatles avevano tenuto l’ultimo concerto vero e proprio al Candlestick Park di San Francisco il 29 agosto 1966. E di lì in avanti, nonostante un capolavoro come Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e un album audace come il doppio bianco del 1968, era cominciata una lenta ma inesorabile agonia. Ognuno per sé, anche quando si lavorava insieme. L’annuncio della separazione non colse il mondo di sorpresa. Lennon aveva mollato già gli ormeggi e McCartney formalizzò il fatto compiuto pubblicando il debutto discografico a suo nome prima ancora che uscisse – postumo – Let It Be, l’ultimo album del quartetto. George Harrison e Ringo Starr 1

Trad. it. Qualcosa per esistere, in Il rock è finito, Edt, Torino 1990, p. 84.

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incassarono il colpo: erano preparati a riceverlo da un momento all’altro. Dei quattro fu proprio Harrison a ripartire col piede giusto. Aveva compiuto già tra il 1968 e il 1969 due scappatelle individuali, componendo la colonna sonora del film Wonderwall, all’incrocio fra rock e musica indiana, e dando quindi alle stampe le arzigogolate sperimentazioni di Electronic Sound. Sua prima opera da solista concepita in quanto tale fu però, nel 1970, il monumentale album triplo All Things Must Pass: un successo in classifica preannunciato dal 45 giri apripista My Sweet Lord (in verità un po’ troppo simile allo standard pop anni Sessanta He’s So Fine delle Chiffons, che infatti vinsero la conseguente causa per plagio – tra le prime del genere). A un buon inizio, sostenuto per di più dai nobili sentimenti che lo spinsero a organizzare l’anno dopo due concerti di beneficenza per le popolazioni del Bangladesh (sui cui utili si scatenò tuttavia una vergognosa battaglia fra agenzie e case discografiche degli artisti coinvolti), non corrispose però un seguito altrettanto soddisfacente. Da quel momento in poi la sua carriera individuale imboccò una china discendente che nemmeno l’avventura col supergruppo Traveling Wilburys riuscì a raddrizzare. Quanto a Ringo Starr, considerato per convenzione il «meno creativo» dei Beatles, se l’è cavata senza infamia e senza lode, svolgendo onestamente il mestiere di professionista del rock dopo aver tentato senza grande successo una riconversione in chiave cinematografica. Il vero problema, semmai, era Paul McCartney, colui che aveva avuto in sorte il compito di preservare più degli altri l’identità «formale» dei Beatles, la loro natura intrinsecamente pop. Peccato che senza l’acume di Lennon e le occasionali ma determinanti sfumature esotiche di Harrison tutto ciò si ri62

ducesse quasi sempre alla produzione in serie di canzoncine slavate. I primi due lavori a suo nome furono francamente demoralizzanti. E Lennon stesso non esitò a farlo notare: «Il tuo suono è musichetta per le mie orecchie», fa un verso di How Do You Sleep? (in Imagine, 1971). Andò un po’ meglio coi Wings, formazione in cui reclutò anche la moglie Linda Eastman, figlia dell’avvocato americano che curava gli interessi della Apple. Un gruppo a dimensione poco più che domestica, che traduceva in musica la sana e bucolica vita familiare dei coniugi McCartney, impercettibilmente turbata dal vizietto di fumare marijuana (che costò a Paul un paio di arresti in Svezia e in Giappone). Vennero poi gli anni Ottanta e i duetti con Stevie Wonder e Michael Jackson, quest’ultimo futuro acquirente del catalogo editoriale della premiata ditta Lennon/McCartney. John Lennon era fatto di tutt’altra pasta; e già lo si era capito quando i Beatles erano in vita. Un estro irrequieto: in pamphlet all’insegna del nonsense come In His Own Write (1964) e A Spaniard in the Works (1965), oppure nel film pacifista di Richard Lester – il regista di casa – How I Won the War (1966). Ad accentuarne l’irrequietezza intellettuale, com’è noto, fu l’incontro con Yoko Ono: artista giapponese d’avanguardia aderente al movimento Fluxus, conosciuta da Lennon nel novembre 1966 in occasione di un’esposizione di sue opere in una galleria londinese – Unfinished Paintings and Objects. Fu amore a prima vista, benché non fosse la bellezza a distinguerla. E c’era l’aggravante dell’età: 33 anni lei, 26 lui. Era arrivata la «strega cattiva» che avrebbe provocato la fine dei Beatles, come recitano le peggiori agiografie del quartetto. Fatto sta che Lennon divorziò l’anno dopo dalla prima moglie, con cui rimase il figlio Julian, e si dedicò anima e corpo a Yoko Ono. Una relazione fatta d’amore e arte, 63

elementi non separabili. I primi due dischi che realizzarono in coppia sotto l’intestazione Unfinished Music ne erano impregnati: bizzarri esperimenti sonori conditi con dialoghi e spezzoni di vita quotidiana (persino la degenza in ospedale per un aborto, nel secondo!). E in copertina al primo, sottotitolato Two Virgins, i due comparivano in tenuta adamitica. Come si usava dire allora: il privato è pubblico. John & Yoko si sposarono il 20 marzo 1969 a Gibilterra. E anche la luna di miele divenne occasione per praticare quello strano genere di relazione fra arte e vita. Presero una suite all’Hilton di Amsterdam e vi rimasero alcuni giorni: a letto. Invitando i media ad andarli a trovare per discutere di pace. Scampoli sonori di quel primo bed in furono inclusi poi nel Wedding Album. E mentre i Beatles rendevano omaggio al matrimonio appena celebrato col 45 giri The Ballad of John and Yoko, cercando altresì di smorzare le indiscrezioni che cominciavano a circolare sulla «perfida giapponese», gli sposi decisero di ripetere l’happening nuziale oltreoceano. Incassato il veto statunitense, si rivolsero al primo ministro canadese Pierre Trudeau, che li accolse di buon grado. Stessa messinscena in un hotel di Montreal, dove i coniugi Lennon approfittarono dell’occasione per mettere su nastro la cantilena che John recitava a ciclo continuo di fronte ai giornalisti: «All we are saying is give peace a chance». A ripeterla con loro, alcuni amici e intellettuali (fra cui Allen Ginsberg), insieme a qualche comparsa reclutata fra il personale dell’albergo. Sembrava uno scherzo il 45 giri che ne fu ricavato, attribuito a un’ancora fantomatica Plastic Ono Band; diventò invece un inno pacifista destinato a resistere egregiamente all’usura del tempo. Venne rodato in piazza per la prima volta il 15 novembre 1969, durante la marcia contro la guerra in Vietnam che radunò a Washington oltre 500mi64

la manifestanti: scandì il cammino del corteo, intonato collettivamente da una corale sterminata che aveva come voce guida quella del veterano Pete Seeger. Stessa scena al cinema l’anno dopo, nell’epilogo di Fragole e sangue: gli studenti che seduti in cerchio attendono la carica della polizia cantano la solita solfa – «Diciamo solo date una possibilità alla pace». E i Beatles esistevano ancora! Ma era come se Lennon ne fosse già fuori, con lo spirito se non con il corpo. Mentre si trovava in Canada, aveva suonato con Yoko e un gruppo messo su alla bell’e meglio (alla chitarra c’era Eric Clapton) in un festival a Toronto: evento da cui in seguito fu ricavato un disco. Più significativo ancora il fatto che Cold Turkey, una canzone rifiutata dai Beatles per il contenuto scabroso (il titolo allude alla condizione di chi è in astinenza da eroina), venisse pubblicata come 45 giri attribuito a Lennon e alla Plastic Ono Band. E con la medesima intestazione, prima della fine dei Beatles, ne uscì un altro ancora: Instant Karma. Erano cominciati gli anni Settanta, l’alba di una nuova era. L’utopia hippie stava rapidamente scolorendo e il rock che con essa aveva avuto un rapporto simbiotico cercava affannosamente altre motivazioni e nuovi leader. Lennon si candidava a quel ruolo. Con gesti clamorosi, come quando – nel giugno 1969 – aveva restituito al mittente l’Ordine dell’Impero Britannico che lo aveva reso baronetto: «Per protesta contro la presenza britannica nel conflitto tra Nigeria e Biafra, contro il nostro appoggio all’America in Vietnam», disse. E in musica: con le fiere e sofferte canzoni del suo primo album con la Plastic Ono Band (parallelo a quello della moglie – alla batteria, in entrambi, c’era Ringo Starr), ma soprattutto con l’ultimo 45 giri edito come cittadino inglese, nel marzo 1971: Power to the People. 65

La decisione era presa: John e Yoko volevano vivere a New York, e vi si trasferirono il 3 settembre 1971. Un trasloco che non passò inosservato, anche perché entrarono subito nel giro del radicalismo politico statunitense, frequentando Abbie Hoffman e Jerry Rubin, dirigenti dello Youth International Party, quello dei cosiddetti yippies: schegge del movimento hippie proiettate verso l’estrema sinistra. Prima apparizione pubblica dei due: in dicembre, al raduno di Ann Arbor, in Michigan, per chiedere la liberazione di John Sinclair – fondatore del White Panther Party e guida spirituale degli MC 5, incarcerato per qualche grammo di marijuana. Risultato: John Lennon venne messo sotto controllo dall’Fbi. L’amministrazione repubblicana guidata da Richard Nixon lo considerava un sovversivo. All’indirizzo del presidente americano Lennon aveva recapitato due canzoni – Crippled Inside e Give Me Some Truth – incluse nel disco che da ottobre furoreggiava in testa alle classifiche sullo slancio del brano memorabile da cui prendeva titolo: Imagine. Era un momento magico: persino un inno natalizio intonato insieme all’Harlem Community Choir – Happy Xmas – poteva diventare pretesto per parlare di pace – sottotitolo: War Is Over. Pace, pace e ancora pace: un chiodo fisso. Il cuore del discorso politico di John Lennon, che in un’intervista aveva dichiarato: «Give Peace a Chance è parte del messaggio del prodotto che vendiamo, e quel prodotto è chiamato pace: vorrei che fosse smerciato come la Coca Cola». In apparenza un paradosso, in realtà un’intuizione folgorante. Prima di altri, e animato da intenti migliori, Lennon aveva percepito il mutamento in atto: di lì in avanti la battaglia politica si sarebbe combattuta anzitutto sul fronte dei media e del mercato, con tutte le contraddizioni che ciò comporta, in assenza di alternative praticabili nella società di massa. A costo di rendere la 66

pace «prodotto». Di più non gli si poteva chiedere. Non la coerenza, per esempio. Ai tempi dei Beatles, in Revolution, cantava: «Mi dici che è l’istituzione / bene, ma sai / è meglio invece che ti liberi la mente. / E se te ne vai in giro coi ritratti del presidente Mao / non ce la farai con nessuno in nessun modo». Ma è lo stesso uomo che tre anni dopo avrebbe inneggiato al «potere al popolo» e tratteggiato in Imagine i contorni di un comunismo dal volto umano. A quei tempi c’era chi considerava imbarazzante il modo in cui Lennon saltabeccava da un soggetto all’altro: il femminismo (Woman Is the Nigger of the World) piuttosto che la questione irlandese (Sunday Bloody Sunday, Luck of Irish), spesso con argomentazioni didascaliche. Era il suo modo di stare nel mondo e di reagire alla fine dell’utopia che aveva informato i movimenti giovanili degli anni Sessanta. Mentre il rock si acconciava a divenire merce fra le tante, Lennon cercava una via di fuga, a costo di sbandare. La prova del nove di quanto la sua presenza fosse molesta è l’accanimento con cui il governo americano tentò di liberarsene. Nel 1972 avviò la procedura per revocargli il permesso di soggiorno in quanto «soggetto indesiderabile», a causa dei precedenti con la giustizia dovuti a un’accusa di detenzione di stupefacenti risalente al 1968. Cominciò a quel punto una vertenza procedurale e mediatica destinata a protrarsi fino al 1976. Travolto nel 1974 Nixon dallo scandalo Watergate, fu durante gli ultimi mesi di mandato del suo compagno di partito Gerald Ford che gli venne riconosciuto infine il legittimo diritto a rimanere negli Stati Uniti. Anche la guerra in Vietnam era finita. E Lennon aveva continuato frattanto a fare musica, benché non più sostenuto dall’ispirazione che lo aveva guidato tra il 1969 e il 1971. L’album dal vivo Sometime in New York City fu piuttosto deludente e il successivo Mind Games appe67

na accettabile. Dovette attendere il 1974 per tornare ai vertici della classifiche, con un brano – Whatever Gets You Through the Night – realizzato in tandem con Elton John e incluso nell’album Walls and Bridges. Fu il preambolo alla sua ultima apparizione dal vivo, durante un concerto dello stesso Elton John al Madison Square Garden di New York, il 4 luglio 1974. Sul versante discografico, invece, il congedo avvenne a suon di Rock’n’Roll, album di cover di classici altrui dal titolo tautologico, e venne suggellato dal duetto con David Bowie in Fame. Dopo di che il silenzio. Erano capitate alcune cose importanti sul piano affettivo. Si era separato nel 1973 da Yoko Ono, tornando poi da lei dopo quasi due anni. E aveva un figlio in arrivo. Quando nacque Sean, il padre scelse di dedicarcisi a tempo pieno. Il lieto evento segnò così l’inizio di un esilio dalla scena musicale destinato a durare cinque anni. Resoconto artistico di quella lunga esperienza domestica fu il disco con cui Lennon riprese l’attività nel novembre 1980: Double Fantasy. Un’opera dai contenuti intimisti, inscritta in tutto e per tutto nell’alveo dei sentimenti familiari, tenera e inoffensiva. Ma era di nuovo in azione, intendeva ricominciare a esibirsi dal vivo e stava preparando già materiale nuovo, che poi Yoko Ono avrebbe reso pubblico nel 1984 confezionando Milk and Honey. A interrompere tragicamente il corso delle cose furono cinque colpi di rivoltella. La vita di John Lennon finì due mesi e un giorno dopo aver varcato la soglia dei 40 anni. La sua morte scosse il mondo intero, a dimostrazione di quanto il personaggio appartenesse al sentire comune di almeno due generazioni. Persino il «Daily Mirror», non proprio un quotidiano illuminato, intitolò il giorno dopo: «Morte di un eroe». Quello era stato evidentemente John Lennon, anche agli occhi dei suoi detrattori: un uomo coraggioso. 68

E la sua memoria si è perpetuata fino ai giorni nostri. Give Peace a Chance è ancora un inno da cantare ogni volta che c’è una guerra. Happy Xmas vale per augurare buon Natale senza troppa retorica. E Imagine... Be’, Imagine è forse la canzone più famosa del mondo. Il 9 ottobre 1990 venne trasmessa simultaneamente da un migliaio di radio in 130 paesi diversi per circa un miliardo di ascoltatori. Era il giorno del 50° anniversario della nascita di Lennon, ricorrenza che fu celebrata con una sobria cerimonia nel palazzo delle Nazioni Unite. Nella stessa occasione, Yoko Ono volle che i presenti ascoltassero la registrazione incisa su nastro di un suo discorso. Il passaggio chiave recitava così: «Dimostra ai tuoi vicini di casa che cerchi di essere pacifico, per quanto sia difficile. È difficile per tutti. Ma passa parola... Metti una parola sola, PACE, alla finestra. E anche se non sai esattamente perché la stai mettendo alla finestra, male non ti può fare. E così ti imbatterai in altre persone che hanno la parola PACE fuori dalla finestra. Aspirano tutte alla pace. È una cosa che riguarda tutti». Vengono in mente le bandiere con i colori dell’iride e la scritta PACE che, a moltissimi chilometri di distanza e 13 anni dopo, sono state esposte fuori dalle case italiane per protestare contro la guerra in Iraq. 

I Me Mine George Harrison (Rizzoli, 2002).  Imagine John Lennon (Apple, 1971).  Imagine. John Lennon: The Definitive Film Portrait Andrew Solt (Warner, 1990).  John Lennon. L’enciclopedia Bill Harry (Arcana, 2002).  Lennon Legend James Henke (Rizzoli, 2003).  Let It Be... Naked Beatles (Parlophone, 2003).  Paul McCartney. Many Years from Now Barry Miles (Rizzoli, 1997).

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 Plastic Ono Band John Lennon (Apple, 1970).  

Who Killed John Lennon? Fenton Bresler (St Martin’s Press, 1989). Woman. The Incredible Life of Yoko Ono Alan Clayson & C. (Chrome Dreams, 2004).

18 aprile 1980

Bob Marley si esibisce di fronte a 400mila persone nello stadio Rufaru di Harare. La più grande star del Terzo Mondo apre la strada alla nozione di «world music».

«Sono lieto di lavorare con te, Bob, perché sei appena tornato dall’Africa, dove sei più popolare di Cristo e Maometto messi insieme», gli dice pochi giorni dopo il concerto in Zimbabwe, accogliendolo nel proprio ufficio, Percy Sutton, capo della Icb, l’agenzia incaricata di organizzare un’imminente serie di show americani. Marley è all’apice della popolarità: ha esportato il reggae in Europa e Stati Uniti, realizzando infine il sogno di tornare nel grembo della Grande Madre Africa. Un evento di grande valore simbolico: l’ex Rhodesia è infatti uno degli ultimi paesi del continente a compiere il processo di decolonizzazione. La successiva tournée americana sarebbe stata tuttavia l’ultima della sua vita: sospesa dopo il concerto del 23 settembre a Pittsburgh, a 48 ore di distanza dal malore che aveva rivelato la gravità del morbo di cui soffriva. Bob Marley morì pochi mesi più tardi, l’11 maggio 1981, in un ospedale di Miami. Si spegneva così prematura-

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mente la prima vera stella pop espressa dal Terzo Mondo su scala planetaria. Colui che era riuscito nell’impresa di aprire una breccia nel monopolio angloamericano sui consumi musicali di massa. Molto più di uno straordinario ambasciatore del reggae, capace di oscurare la fama dei connazionali – Laurel Aitken, Desmond Dekker, Jimmy Cliff (quest’ultimo anche protagonista nel film The Harder They Come) – che in precedenza avevano tentato di imporre fuori dai confini locali le qualità della musica giamaicana, Marley fu l’artista che inaugurò a tutti gli effetti la stagione della world music. Da allora, il 6 febbraio – giorno della sua nascita, registrata nel 1945 all’anagrafe di St. Ann – è festa nazionale in Giamaica. Per ragioni rituali, evidentemente, ma anche pratiche. Nel dopo-Marley l’industria musicale è diventata una delle maggiori risorse economiche in un paese che ancora non è riuscito ad affrancarsi dalle miserie dell’era postcoloniale. Fatte le debite proporzioni, considerando cioè che parliamo di uno Stato con poco più di 2 milioni di abitanti, il mercato discografico locale ha dimensioni gigantesche: migliaia di titoli editi ogni anno con tirature degne di nazioni assai più popolose. E ciò significa impianti che stampano dischi, studi di registrazione, società di produzione, dunque lavoro per migliaia e migliaia di persone. Non è un caso, del resto, che Edward Seaga, primo ministro dal 1980 al 1989, sia stato in gioventù produttore discografico... Un piccolo miracolo cominciato a fine anni Cinquanta, allor quando al crocevia fra il mento – l’antica musica popolare dell’isola, simile al calypso di Trinidad – e il jazz e il rhythm’n’blues – irradiati fin su quelle coste dalle emittenti di Miami – scaturì un’inedita creatura musicale detta onomatopeicamente ska. Stile ben presto adottato come proprio dai rude boys che stazionavano agli angoli di Trenchtown, il quartiere «difficile» della capi72

tale Kingston, e diffuso dalle discoteche ambulanti chiamate sound systems. Fu appunto a ritmo di ska che esordì Robert Nesta Marley, registrando due canzoni col produttore Leslie Kong. Siamo nel 1962: anno in cui la Giamaica cessa di essere colonia britannica e conquista l’indipendenza. Nel giro di qualche mese Marley fa comunella con altri due cantanti: Peter Tosh e Bunny Livingston. Nascono così i Wailing Wailers, che nell’arco di un paio d’anni diventano un piccolo caso nella scena locale. Consolidata la propria fama, accorciata la denominazione in Wailers e assorbita la variazione di ritmo e accento che tramuta lo ska in rocksteady, sul finire del decennio il trio si appresta al grande passo. In giro comincia a circolare la parolina magica: reggae. A usarla per primo, con grafia leggermente diversa, si dice sia stato Toots Hibbert coi Maytals nel 45 giri del 1968 Do the Reggay. Determinante per l’evoluzione dei Wailers è l’incontro col produttore Lee «Scratch» Perry: insieme a King Tubby ideatore della tecnica dub, che consiste nella manipolazione della versione strumentale di un brano per mezzo di echi, riverberi e altri artifici sonori. Con Perry in cabina di regia, a inizio anni Settanta Marley e gli altri pongono le basi di un fenomeno destinato a contagiare il mondo intero. A puntare sui Wailers è il discografico inglese Chris Blackwell, da più di dieci anni votato alla divulgazione della musica giamaicana attraverso la propria etichetta Island Records. Ne distribuisce le opere all’estero e organizza fra il 1972 e il 1973 le loro prime incursioni in Gran Bretagna e Stati Uniti. Tra quei concerti, anche una serie di tre al Max’s Kansas City di New York in tandem con l’esordiente Bruce Springsteen. L’anno della svolta è il 1974: Tosh e Livingston, insofferenti del ruolo di leader che Marley ha ritagliato ormai 73

per sé, abbandonano il gruppo – rinominato a quel punto Bob Marley & The Wailers. Ma soprattutto accade che una canzone di Marley – I Shot the Sheriff – venga reinterpretata e portata al successo da Eric Clapton. Il reggae sta diventando di moda: prova ne siano i trionfali concerti inglesi del 1975, tra cui uno memorabile al Lyceum di Londra immortalato su disco. Al personaggio cominciano a interessarsi i maggiori media musicali: testate come «Rolling Stone» e «Melody Maker» non esitano a dedicargli la copertina. E intanto in patria la sua reputazione è cresciuta a tal punto da renderne influente l’opinione anche sul piano politico. Marley sostiene apertamente il People National Party del filocastrista Michael Manley, che vincerà le elezioni del 1976, ma ciò lo rende inviso ai rivali del Jamaican Labour Party. L’attentato di cui è vittima il 3 dicembre di quell’anno, da cui esce quasi indenne solo perché il manager John Taylor gli fa scudo col proprio corpo, suona come un avvertimento. E intanto la Cia aveva deciso di istruire un fascicolo a suo nome... È il momento di cambiare aria. All’inizio del 1977 emigra temporaneamente a Londra, dove capta e apprezza i segnali provenienti dalla comunità punk. E in quei giorni mette a punto l’album più classico della sua carriera: Exodus – best seller tanto in Gran Bretagna quanto negli Stati Uniti. Il ritorno in Giamaica è fissato per il febbraio dell’anno seguente e viene celebrato il 22 aprile con un grande happening intitolato One Love Peace Concert, che vale come definitiva consacrazione del personaggio, ormai divo affermato. Il reggae dilaga ovunque ed è il linguaggio che, accompagnandosi al punk, rivoluziona i gusti dei giovani occidentali. Esercita infatti un fascino che trascende l’ambito squisitamente musicale: riguarda il costume (i capelli intrecciati nei dreadlocks) e i comportamenti (cresce in misura esponenziale il consumo 74

di ganja, com’è detta in gergo la marijuana), ma abbraccia addirittura la sfera religiosa. Il rastafarianesimo (che deriva da ras Tafari, il nome che Hailé Selassié aveva prima di essere incoronato negus d’Etiopia: considerato in quanto tale guida spirituale della dottrina fondata negli anni Venti dal panafricanista Marcus Garvey) di cui Marley era seguace e propugnatore è un culto che suggestiona la nuova generazione freak con le sue invettive rivolte contro la dissolutezza di Babylon, l’Occidente che fa capo alla Chiesa di Roma. Non era la prima volta che le platee occidentali subivano l’attrazione di suoni e sensazioni di provenienza esotica. Basti pensare a quando i Beatles incorporarono nella propria musica l’inconfondibile timbro del sitar suonato dal virtuoso indiano Ravi Shankar. O all’avventura artistica di Brian Jones, in procinto di separarsi dai Rolling Stones: viandante nell’estate del 1968 tra le montagne del Rif marocchino sulle orme dei Maestri Musicisti di Jajouka, «la banda rock’n’roll di 4mila anni», nella definizione coniata da William Burroughs ai tempi della bohème a Tangeri (l’Interzona nel Pasto nudo) in compagnia di Paul Bowles, Allen Ginsberg e Brion Gysin. Un’integrazione fra modalità «occidentali» e sonorità «terzomondiste» sancita infine sul piano dei consumi di massa dal best seller realizzato nel 1986 da Paul Simon avvalendosi della collaborazione determinante di musicisti sudafricani, il celebre Graceland. La tournée che seguì l’uscita del disco vide Simon affiancato in scena da alcuni dei maggiori artisti originari del Sudafrica: gli esuli Miriam Makeba e Hugh Masekela, ma anche la formazione corale Ladysmith Black Mambazo. È in quel momento che si comincia a parlare correntemente di world music. Espressione formulata nello stesso 1986 in Gran Bretagna da un cartello di etichette discografiche indipendenti specializzate nella diffusione di musiche folcloristiche 75

non occidentali, tra cui Stern’s, Globestyle e World Circuit. Mancava un modo per definirle e fu scelto quello: brand utilizzato l’anno dopo per una campagna promozionale che affermò la nascita di un genere che tale in verità non è. Che cosa possono avere mai in comune il gamelan di Bali e il cajun della Louisiana, il fado portoghese e l’highlife del Ghana? Ovviamente nulla. Se non la praticità mercantile di essere accomunate sotto un’unica dicitura, che pertanto è necessariamente approssimativa e, secondo alcuni, addirittura discriminatoria. Vero è d’altra parte che, divenendo per un certo periodo moda, il fenomeno world music ha posto sotto i riflettori dei media prodotti culturali altrimenti destinati a un’esigua nicchia di appassionati. Una circostanza in cui il confine fra divulgazione e colonizzazione è davvero labile. Come non ripensare, a proposito, al caso Buena Vista Social Club? Compay Segundo, Ibrahim Ferrer e Omara Portuondo facevano musica a Cuba da decenni, sempre la stessa, son e rumba prevalentemente. Ma per esporli all’attenzione generale è stato necessario l’intervento di un occhio – Wim Wenders – e di un orecchio – Ry Cooder – esterni: mediatori culturali senza cui gli arzilli vecchietti dell’Avana sarebbero rimasti ciò che erano stati fino al 1997, dei perfetti sconosciuti. E invece quel modo loro galante e smaliziato di interpretare la tradizione di Cuba è diventato per qualche tempo un flavour gradito dal grande pubblico. Come del resto era avvenuto già negli anni Cinquanta con la salsa di Perez Prado e Tito Puente. Il fatto che per diffondere in Occidente musiche di estrazione esotica sia fondamentale la presenza di intermediari qualificati è confermato dal lavoro svolto in tal senso da David Byrne e Peter Gabriel, entrambi antropologi musicali «militanti» con le proprie imprese discografiche Luaka Bop e Real 76

World. Reduce dai Talking Heads, gruppo che aveva incorporato via via nell’ossatura funk del suo stile influenze africane sempre più evidenti, Byrne si dedicò anima e corpo alle musiche latine, sia come solista (l’album Rei Momo del 1989), sia come art director della Luaka Bop. In quest’ultima veste ebbe il merito di riportare alla luce con l’antologia Beleza Tropical un fenomeno di cui si stava perdendo memoria, il tropicalismo: quella sorta di rivoluzione culturale che nella seconda metà degli anni Sessanta aveva investito la scena brasiliana. Imbastardendo con influssi derivati dal pop angloamericano la tradizione della cosiddetta MPB (Música Popular Brasileira), formalizzata a ritmo di samba e bossa nova da Tom (Antonio Carlos) Jobim e Vinicius De Moraes, artisti quali Gilberto Gil e Caetano Veloso fecero scandalo. E divennero così bersagli del regime che aveva conquistato manu militari il potere nel 1964, tanto da dover scegliere nel 1971 l’esilio volontario a Londra per evitare guai peggiori. A 30 anni e più di distanza da quegli avvenimenti ritroviamo Gil ministro della Cultura nel governo Lula e Veloso icona venerata su scala internazionale: alla lunga la storia ha dato loro ragione. Ancora più significativa è l’opera svolta da Peter Gabriel, principale sostenitore del festival multiculturale WOMAD (acronimo di World Of Music Arts and Dance) e fondatore nel 1989 della Real World, canale discografico attraverso il quale il pubblico euroamericano ha potuto conoscere, per esempio, un personaggio del calibro di Nusrat Fateh Alì Khan. Esponente della secolare tradizione qawwali, la musica devozionale del misticismo islamico sufi, l’artista pakistano – scomparso precocemente nel 1997 – era diventato uno dei simboli più rappresentativi delle «musiche del mondo» con quel suo canto dal timbro quasi sovrannaturale. Altro personaggio apprezzato anche fuori dalla cerchia ristretta de77

gli appassionati grazie all’intercessione di Gabriel è Youssou N’ Dour. Vera e propria istituzione culturale in Senegal, nonostante la giovane età, ha avuto modo di esporre il suo talento dinanzi a platee più vaste sia approfittando della scorciatoia discografica tracciata dalla Real World, sia partecipando nel 1988 – accanto a Springsteen, Sting e allo stesso Gabriel – al tour Human Rights Now! patrocinato da Amnesty International. Da allora il «Leone di Dakar» è divenuto ambasciatore della musica africana nel mondo, trovando in seguito sbocco per i propri lavori presso un editore insolito e prestigioso come il regista Spike Lee, responsabile del marchio 40 Acres And A Mule. Vero pioniere nell’esportazione delle sonorità africane è stato il camerunense Manu Dibango. Formatosi durante l’adolescenza in Europa, già negli anni Cinquanta suonava assiduamente jazz nei club belgi e francesi. Fu però nel 1973 che il suo nome si impose definitivamente in virtù di un brano destinato a diventare «sempreverde» nelle discoteche di tutto il pianeta: Soul Makossa – efficacissima sintesi di funk, jazz e aromi africani. Il successo di Manu Dibango funzionò come acceleratore per la diffusione delle musiche provenienti dall’Africa, sia invogliando le case discografiche europee a investire su artisti locali, sia sollecitando questi ultimi a rinnovare i codici della tradizione. Dalla vivace scena nigeriana affiorò così King Sunny Adé, su cui la Island scommise nel 1982 come possibile erede di Marley. Non lo divenne, ma l’ipnotica juju music di cui era alfiere si affermò come standard prima ancora che fosse definita la nozione di world music. Ma se si parla di Nigeria, la figura che svetta è quella leggendaria di Fela Anikulapo Kuti: indicato, a seconda delle circostanze, come il Bob Marley o il James Brown africano. Molto più di un semplice musicista, a conti fatti. Basti ricor78

dare che i funerali svoltisi nella capitale Lagos dopo la sua morte per Aids, nell’agosto 1997, si tramutarono in una festa popolare che nell’arco di tre giorni radunò circa cinque milioni di partecipanti. In vita era diventato un emblema dell’Africa postcoloniale e la tenace resistenza ai soprusi perpetrati ai suoi danni – fu arrestato più di 200 volte! – dai governi autoritari succedutisi alla guida del paese dopo la guerra civile del 1966 aveva conferito alla sua figura proporzioni quasi mitologiche. Egocentrico e visionario, Fela Kuti fondò addirittura nel 1971 una repubblica indipendente chiamata Kalakuta, agglomerato di edifici abitati dal suo spropositato nucleo familiare – 28 mogli con relativi figli – e dall’entourage artistico che gravitava intorno a lui. Ripetutamente attaccata dall’esercito, Kalakuta fu distrutta nel febbraio 1977. Ciò non impedì a Fela di proseguire la propria battaglia politica e men che meno di continuare a fare musica. Che poi è alla fin fine la ragione prima per cui è passato alla storia. Spregiudicato riformatore degli stili tradizionali, li sovvertì drasticamente elettrificando la strumentazione e iniettandovi dosi consistenti di jazz e rhythm’n’blues. La nuova creatura prese il nome di afro-funk. È in quella porzione occidentale del continente africano che si registra la maggiore concentrazione di artisti capaci di affermare la propria identità su larga scala. La ricchezza del corredo etnico da un lato e dall’altro la straordinaria dotazione di strumenti autoctoni – da quella sorta di incrocio fra arpa e liuto chiamata kora alla variante dello xilofono detta balafon, fino al ritmo secco del djembé – fanno sì che il bacino musicale della regione sia pressoché inesauribile. Valga l’esempio del Mali, terra ricchissima di talenti. Proviene di là il principe albino Salif Keita, tra i più raffinati interpreti contemporanei del folclore continentale, così come del resto lo 79

squisito chitarrista Ali Farka Touré, musicista in grado di declinare in chiave locale la sintassi del blues (non a caso a introdurlo al pubblico occidentale con l’album Talking Timbuktu è stato il «solito» Ry Cooder). E ci si deve spostare di poco per intercettare le traiettorie sonore tracciate dal guineano Mory Kante, autore nel 1988 di un brano come Yeke Yeke, capace di grandi imprese nelle hit parade europee. Dall’arcipelago di Capo Verde, quindi, arrivano le malinconiche melodie della morna: stile affine al fado che ha nella «diva a piedi nudi» Cesaria Evora la sua portavoce più celebre. Senza trascurare i senegalesi Toure Kunda, antesignani nella migrazione artistica verso Parigi, vera capitale decentrata della musica africana. Per ragioni storiche, geografiche e culturali la metropoli francese è il naturale punto d’approdo degli artisti che partono dall’Africa in cerca di uno sbocco extracontinentale. Primi fra tutti quelli provenienti dalle ex colonie, l’Algeria in particolare. La nuova musica popolare del luogo è una rielaborazione degli arcaici canoni del raì. Figura chiave nel trapasso dalla tradizione alla modernità è la veterana Cheikha Rimitti, autrice nel 1994 di un album – Sidi Mansour – alla cui realizzazione contribuì un’eterogenea compagine di ospiti, dal chitarrista Robert Fripp a Flea, bassista dei Red Hot Chili Peppers. Epicentro del fenomeno è la cosmopolita Orano, la città in cui Albert Camus ambientò il suo romanzo Lo straniero. Là aveva sede lo studio di registrazione di Rachid Baba Ahmed, il produttore che assecondò la metamorfosi verso forme inedite di quel linguaggio del Maghreb dolente come un blues. Pagò con la vita la propria intraprendenza culturale: i fondamentalisti islamici lo assassinarono il 16 febbraio 1995. Proprio Ahmed aveva allevato il talento del maggiore artista algerino contemporaneo: Cheb Khaled. Perso 80

l’appellativo cheb – che significa «giovane» – e convinto a stabilirsi definitivamente a Parigi dalla morte di Ahmed, Khaled è diventato là idolo degli immigrati maghrebini di seconda generazione, i boeurs. A un certo punto la sua popolarità aveva raggiunto proporzioni tali da spingere alcuni a immaginare anche lui nel ruolo di «nuovo Marley». Segno di quanto tuttora si avverta la mancanza dell’originale.  Black President Fela Anikulapo Kuti (Arista, 1981). 

Bob Marley. Una vita di fuoco Timothy White (Arcana, 1994). Brazil Classics Vol. 1 – Beleza Tropical Aa.Vv. (Luaka Bop, 1989). Buena Vista Social Club Aa.Vv. (World Circuit, 1997). Exodus Bob Marley and The Wailers (Island, 1977). Mustt Mustt Nusrat Fateh Ali Khan (Real World, 1990).  The Harder They Come Perry Henzell (Tapeworm, 1998).  Tre chili di caffè Manu Dibango (Edt, 1990).  Verità tropicale Caetano Veloso (Feltrinelli, 2003).  World Music Rough Guide Aa.Vv. (Rough Guides, 1994).    

7 giugno 1977

I Sex Pistols suonano sul Tamigi a bordo del battello Queen Elizabeth. È il fuoco d’artificio che rende visibile il punk a occhio nudo.

Londra è pavesata a festa. Si celebra il Giubileo della regina Elisabetta II, sul trono da 25 anni. E anche i punk festeggiano l’evento. Ovviamente a modo loro. Da dieci giorni è uscito il secondo 45 giri dei Sex Pistols, intitolato come l’inno nazionale britannico. «Dio salvi la regina – dice il testo – e il regime fascista». Le autorità non gradiscono: all’attracco del battello su cui il gruppo ha appena tenuto un concerto per pochi intimi i bobbies scatenano una caccia all’uomo. E i tabloid sono dalla loro parte. Il giorno dopo, in prima pagina, il «Sunday Mirror» titola: «Punite i punk». I Sex Pistols avevano già dato scandalo sei mesi prima in televisione. Ospiti nel talk show serale di Bill Grundy su Thames Tv, avevano dileggiato e insultato il conduttore, facendo andare la cena di traverso a più di un telespettatore. Il punk era diventato così il nemico pubblico da perseguire: capro espiatorio in un vortice di psicosi mediatica senza precedenti in ambito musicale. Ciò che stava accadendo riguardava il costume e la politi-

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ca, del resto, più che la musica in sé. Il terremoto culturale provocato da quegli eventi si sarebbe riverberato per decenni a venire. Ed è curioso pensare che a scatenarlo sia stato un gruppo vissuto per soli due anni, due mesi e otto giorni: dal 6 novembre 1975 (primo show presso la St. Martin’s School of Art di Charing Cross) al 14 gennaio 1978 (ultimo concerto al Winterland di San Francisco). L’epilogo statunitense dell’iperbolica avventura dei Sex Pistols è una di quelle coincidenze che sembrano dettate dal destino. La nozione di punk era stata coniata oltreoceano nei primi anni Settanta, infatti. Ormai prossima all’abiura la generazione che aveva sostenuto l’utopia hippie, quella che le stava subentrando affermava la propria identità negandone i precetti. Niente più pace&amore, droghe contemplative e musiche visionarie, bensì apparenze bellicose, sostanze eccitanti e sonorità brutali, con tanto di spostamento geografico dalla West Coast alla East Coast. Modelli di riferimento: il rock metropolitano e nichilista di Velvet Underground e Stooges. Cuore del fenomeno: la Lower East Side di Manhattan, crogiolo in cui si mescolavano emarginati e intellettuali. A quest’ultima categoria apparteneva una conventicola di aspiranti artisti influenzata dai simbolisti francesi, di cui facevano parte Patti Smith (ammiratrice di Rimbaud che aveva familiarizzato con Andy Warhol, Robert Mapplethorpe e Sam Shepard al Mercer Arts Center, dove bazzicavano anche i New York Dolls e una giovanissima Laurie Anderson), Tom Miller (che come pseudonimo aveva scelto Verlaine) e Richard Myers (ribattezzatosi Hell, come «inferno»). Mentre la prima si coalizzò col chitarrista Lenny Kaye, dando vita all’influente Patti Smith Group, gli altri due fecero banda insieme, inizialmente come Neon Boys e quindi con la dicitura Television. Ma non solo: scoprirono e valorizzarono, fre83

quentandolo e suonandoci, il bar della Bowery destinato a diventare covo della nuova scena, il Cbgb’s. Richard Hell, in particolare, continua a considerarsi antesignano del punk. Spiega: «I Television rappresentarono il vero giro di boa. Io mi occupavo dell’aspetto visuale: taglio di capelli, t-shirt strappate e puntate con spille da balia, abiti anni Cinquanta e cravatte allentate, giubbotti in pelle...». E una volta consumato il divorzio artistico da Verlaine, scrisse una delle canzoni simbolo del fenomeno, quella dedicata alla «generazione vuota», Blank Generation (anche titolo di un documentario sulla scena newyorkese diretto da Amos Poe). L’antitesi di quella hippie, così «piena» (di ideali). In verità il vocabolo «punk» era in circolazione da alcuni anni. A usarlo per primi furono i cronisti musicali Lester Bangs e Dave Marsh, che avevano designato in quel modo le bande di garage rock affiorate nella seconda metà degli anni Sessanta come risposta americana alla British Invasion guidata da Beatles e Rolling Stones. All’origine il termine è un’espressione gergale che definisce qualcosa o qualcuno di scarso valore, roba da bassifondi. «Se seguivi in tv i polizieschi tipo Kojak o Baretta, quando alla fine gli sbirri beccavano il colpevole dicevano: ‘Tu, lurido punk!’. Era anche il modo in cui a scuola gli insegnanti si rivolgevano all’ultimo della classe», dice Legs McNeil, fondatore a New York, insieme a John Holmstrom, della fanzine detta appunto «Punk». Sul numero inaugurale della rivista, stampato nel dicembre 1975, in prima pagina c’era una caricatura di Lou Reed. Ma l’intervista principale era dedicata ai Ramones: ineguagliabile simbolo dell’affascinante rozzezza del punk. Canzoni suonate alla velocità della luce, aspre ma anche melodiche: dei Beach Boys travestiti da Stooges. Il loro disco d’esordio, edito nell’aprile 1976, ne conteneva 14 snocciolate nell’arco di 28 minuti e 52 84

secondi. In copertina, i quattro ragazzotti originari di Forest Hills erano immortalati nella loro classica tenuta – t-shirt stazzonate, jeans laceri, giubbotti in pelle, sneakers ai piedi – sul retro del Cbgb’s, locale in cui avevano suonato una ventina di volte durante gli ultimi sei mesi. Il linguaggio elementare di cui erano portavoci si condensava nello slogan che divenne col tempo loro marchio di fabbrica: Gabba Gabba Hey!. Poco più del nostro «bla bla bla». Ma quella fiera stolidità da coatti proiettata su scala fumettistica celava la rivelazione più autentica enunciata a proposito del punk: il suo essere rivoluzione acefala. In patria i Ramones furono un caso di proporzioni tutto sommato limitate. Mai un disco d’oro – equivalente a 500mila copie vendute – nel corso di una carriera ventennale (per gli americani il punk sarebbe arrivato 15 anni dopo sulle note di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana, quando invece a quei tempi lo si dovette pastorizzare in new wave per renderlo assimilabile dal grande pubblico a suon di Blondie e Talking Heads). In Gran Bretagna divennero invece l’esempio da emulare. Al loro primo concerto londinese, il 4 luglio 1976 – Festa dell’Indipendenza! – al Roundhouse, assistette tutta l’aristocrazia dell’incipiente scena punk locale. Quella volta, in platea, c’erano membri di Sex Pistols, Clash, Damned, Siouxsie & The Banshees... La stessa gente che un mese e mezzo dopo, nei due ultimi giorni d’estate, diede vita al Punk Rock Festival organizzato al 100 Club. L’esordiente Siouxsie Sioux: futura reginetta del dark. I Damned, che batterono in velocità gli stessi Sex Pistols, pubblicando nell’ottobre di quell’anno il primo 45 giri del punk inglese: New Rose. Ma soprattutto i Clash, ossia coloro che più di chiunque altro tentarono di dare al punk un senso e una direzione di marcia. Cresciuti nell’area in cui prosperava la bohème giovanile londinese, fra Notting Hill Gate, Lad85

broke Grove e Paddington, ne avevano assorbito il dato essenziale: la coabitazione fra la nascente sottocultura punk e quella – fatta di reggae in formato dub, ganja e rastafarianesimo – della comunità giamaicana che stazionava in zona. Esemplare il primo album pubblicato dal quartetto: sul retro copertina un’immagine raffigurante i violenti scontri fra polizia e immigrati in cui era sfociato il tradizionale Carnival antillano di fine agosto a Notting Hill Gate. E tra i solchi del disco ecco White Riot («Rivolta bianca / una rivolta che sia mia») e Police and Thieves (versione di un classico reggae di Junior Murvin). Bob Marley, allora momentaneamente esule a Londra, recepì il messaggio. E rispose a modo suo, con una canzone: Punky Reggae Party. Cammin facendo i Clash divennero così il simbolo politico del punk. E anche qualcosa in più. Mutuata dal titolo dell’ultimo album realizzato nel 1982 dalla formazione originaria, quella con Joe Strummer e Mick Jones (tornati poi insieme sul palco una volta sola, 20 anni dopo, poche settimane prima della prematura morte di Strummer), l’espressione combat rock ha finito per designare un genere: ciò che suona cioè come musica «militante» – dai rockers californiani Rage Against The Machine ai gruppi skacore, che interpretano cioè lo ska progenitore del reggae con impeto hardcore punk. E prima di quel disco i Clash avevano inanellato almeno un altro paio di classici: il doppio London Calling, che l’autorevole magazine statunitense «Rolling Stone» nominò «miglior album degli anni Ottanta» (benché edito nel dicembre 1979), e il monumentale triplo Sandinista!, che indicò a chi era cresciuto col punk una possibile deriva multiculturale e «terzomondista», influenzando in modo determinante l’esperimento di métissage musicale e linguistico compiuto anni dopo in Francia dai Mano Negra del futuro divo no global Manu 86

Chao, e in generale l’orientamento culturale di un’intera generazione di giovani musicisti mediterranei e latinoamericani. Hanno lasciato un’impronta indelebile sul corso degli eventi successivi: ecco perché i Clash sono passati alla storia. Nondimeno l’ascesa mediatica del punk coincise con l’affermazione dei Sex Pistols. Questo poiché quel gruppo ha incarnato come nessun altro l’indole intrinsecamente ambigua del fenomeno, la sua spontanea contraddittorietà. Si deve appunto all’origine equivoca del punk il fatto che esso possa significare, ancora ai giorni nostri, due cose quasi completamente opposte. Da un lato «musica ribelle», addirittura più di quanto fosse quella dei Clash, come nei casi di formazioni dichiaratamente anarchiche quali gli inglesi Crass e i californiani Dead Kennedys, che predicavano e praticavano con le proprie etichette indipendenti Crass Records e Alternative Tentacles l’assoluta autonomia dalle grandi compagnie discografiche, accusando proprio i Clash – a contratto con la Cbs – di essersi «venduti». Dall’altro semplice categoria merceologica di nuova generazione, com’è ora sugli scaffali dei megastore dove quella dicitura finisce per designare un genere musicale fra i tanti. Non c’è verso di conciliare l’irriducibile antagonismo comportamentale dei cosiddetti «punkabbestia» col corporate punk dei Blink 182. Restano i vaghi denominatori comuni formalizzati allora. Il suono ruvido e violento. L’aspetto provocatorio: acconciature a cresta, abbigliamento «minaccioso» (giubbotti e borchie), spille infilate nelle guance – presagio del piercing. Gli argomenti distruttivi: l’apologia nichilista del No Future strillato in God Save the Queen. Il punk fu energia allo stato brado: «Non so cosa voglio / ma so come ottenerlo», cantavano i Sex Pistols in Anarchy in the UK. Ciascuno se n’è potuto impadronire poi orientandola secondo i propri scopi. 87

Chissà se aveva tutto questo in mente Malcolm McLaren, quando andò a New York nel 1974. Studente di art school infatuato di Warhol e Fluxus, in gioventù era stato folgorato dagli eventi del maggio francese. Gli slogan di impronta situazionista: «Chiedi l’impossibile», «L’immaginazione al potere», «Sotto il selciato la spiaggia», «Vietato vietare»... Provò a metterli in pratica avviando insieme alla sua compagna Vivienne Westwood (in seguito stilista di gran fama) una boutique al 430 di King’s Road: laboratorio in cui tentare esperimenti di sartoria che conferissero identità alla generazione post-hippie. Attraversò l’oceano a caccia di idee e, intraprendente com’era, divenne dopo un po’ manager dei New York Dolls, pittoresco gruppo di rock’n’roll formato da giovanotti conciati come puttane – scarpe con le zeppe, abiti decorati di strass, make-up pesante quasi quanto la musica che suonavano. Il momento magico del quartetto era passato e McLaren ne amministrò il declino trasformandoli in improbabilissimi agit-prop comunisti. Ma più che altro assorbì gli umori esalati dal sottobosco di Manhattan. Abiti, suoni e attitudini, i primi indizi del punk. E una volta ritornato a Londra non fece altro che tentare di applicarli agli Strand, un trio che gravitava intorno al negozio, chiamato a quel punto Sex per via dell’ultima collezione disegnata dalla Westwood ispirandosi all’abbigliamento sado-maso. Degli Strand facevano parte Paul Cook, Steve Jones e Glen Matlock, ossia tre quarti dei futuri Sex Pistols. Nel 1975 la Gran Bretagna era un paese in crisi. Recessione economica, elevato tasso di disoccupazione (soprattutto giovanile) e povertà diffusa stavano logorando il governo laburista di Harold Wilson (che infatti l’anno dopo si sarebbe dimesso, lasciando l’incarico al compagno di partito James Callaghan). All’orizzonte cominciava a stagliarsi la 88

fisionomia autoritaria di Margaret Thatcher, che in quei giorni conquistò la leadership dei conservatori. Ecco il milieu in cui stavano prendendo forma le premesse del punk londinese, nell’orbita delle case occupate di Notting Hill Gate – luogo di squatting tradizionale già ai tempi degli hippie. Bazzicavano quel microcosmo il diciannovenne John Lydon e il suo amico Simon Ritchie, detto Sid. Quando McLaren – in cerca di una faccia, più che di una voce, da abbinare agli Strand – adocchiò il primo, ne fu immediatamente impressionato, tanto che lo invitò a fare un provino. Intonando Eighteen di Alice Cooper davanti al jukebox di Sex, con in mano l’estremità di una doccia come microfono, Lydon conquistò la parte. Fu ribattezzato Rotten, «marcio», per via della dentatura disastrata, e divenne da un giorno all’altro cantante. Nell’autunno del 1975 nascevano così i Sex Pistols. Dentro una boutique. Incubatrice insolita per un progetto sedizioso. Altrimenti non poteva essere, del resto. Nella società dello spettacolo, così com’era stata descritta dal massimo teorico del situazionismo Guy Debord, l’unica rivolta possibile doveva definirsi anzitutto in termini «estetici». Dunque anche come merce. Con caratteristiche tali da rivoluzionare però il senso comune, poiché si trattava di rendere pregiato ciò che tutti – a prima vista e a un primo ascolto – avrebbero considerato spazzatura. Quando i Sex Pistols tennero il loro primo concerto, ai vertici dell’hit parade britannica c’era il passato. Fra i 45 giri dominava Space Oddity di David Bowie, un brano del 1969 tornato in auge durante l’estate. E il 33 giri più venduto era l’antologia Golden Greats di Jim Reeves, cantante melodico morto nel 1964. Il punk fu una ventata di aria fresca, impetuosa come un temporale alimentato dalla calura. E l’industria discografica ci si buttò a capofitto, no89

nostante le controindicazioni del caso. Fu la Emi a ingaggiare i Sex Pistols in cambio di 50mila sterline, pubblicandone a fine novembre il primo singolo: Anarchy in the UK. Il guaio è che subito dopo arrivò l’incidente televisivo con Bill Grundy e sotto la pressione dell’opinione pubblica la Emi dovette scaricare frettolosamente il gruppo. Era il primo atto della «grande truffa del rock’n’roll». Amplificato dai media, il punk divenne ben presto fenomeno di massa. E Johnny Rotten un simbolo per i ragazzini inglesi. Frattanto l’unico vero musicista del gruppo, Glen Matlock, era stato liquidato da Rotten per far posto al suo amico Sid, di qui in avanti Vicious, «vizioso». Abile tessitore di trame, McLaren convinse la A&M a scritturare i Sex Pistols. Peccato che l’accordo fosse stato stipulato dal management inglese all’insaputa della casa madre statunitense, che lo dichiarò nullo – pagando penale: 75mila sterline in tutto. Una relazione durata appena una settimana, dal 10 al 17 marzo 1977. Alla fine fu la Virgin di Richard Branson ad assicurarsi le prestazioni del quartetto, versando 65mila sterline. In totale, avendo pubblicato fino ad allora un solo 45 giri, i Sex Pistols avevano incassato attraverso la compagnia Glitterbest di McLaren la bellezza di 190mila sterline. Tutta la storia della «truffa» nasce di qui. In seguito, elaborandola e romanzandola, McLaren l’avrebbe fatta diventare sceneggiatura del film The Great Rock’n’Roll Swindle, di cui fu regista Julien Temple – anni dopo curatore dell’assai più significativo documentario The Filth and the Fury, ovvero «L’oscenità e lo sdegno», come il «Daily Mirror» aveva intitolato un aricolo sul caso Thames Tv. Il 45 giri con God Save the Queen fu un successo: secondo posto in classifica. E tuttora McLaren afferma che la burocrazia discografica ordì un complotto per non farlo figurare 90

al primo. Traguardo raggiunto poi in autunno dall’unico album uscito coi Sex Pistols in vita, Never Mind the Bollocks («Bando alle cazzate»), nonostante l’ostracismo dichiarato da alcune delle principali catene di supermercati: WH Smith, Woolworths e Boots. Ma il gruppo era ormai un’entità non più governabile: Rotten convinto di essere una primadonna trattata con poco riguardo da McLaren e Vicious invischiato, insieme alla sua compagna Nancy Spungeon, nei meandri della tossicodipendenza – una relazione fatale raccontata al cinema dal regista Alex Cox in Sid & Nancy. I nodi vennero al pettine quando i Sex Pistols attraversarono l’Atlantico per compiere la loro prima tournée americana. Come si diceva, il punk oltreoceano non era un caso, e l’andamento dei concerti – alcuni organizzati in luoghi improbabili, come il Randy’s Rodeo a San Antonio, in Texas, di fronte a un pubblico di rednecks – fu avvilente. Così, alla fine del calvario, dopo l’ultimo show a San Francisco, Johnny Rotten prese i bagagli e se ne andò in Giamaica a meditare sul da farsi (avrebbe avviato l’anno dopo l’avventura dei Public Image Limited, salvo poi concedersi negli anni Novanta un paio di rimpatriate nostalgiche coi Pistols superstiti). Sid Vicious fu ricoverato pochi giorni più tardi al Jamaica Hospital di New York, dopo l’ennesima overdose di eroina. Quanto a Paul Cook e Steve Jones, istigati da McLaren, che non intendeva rinunciare al marchio Sex Pistols, volarono alla volta del Brasile per incontrare Ronnie Biggs, leggendario malavitoso autore della rapina al treno Glasgow-Londra, e registrare due canzoni con lui. Hanno scritto Julie Burchill e Tony Parsons, in un folgorante instant book sul punk: «E così i Sex Pistols evitarono di diventare i Rolling Stones degli anni Ottanta con la mossa più costruttiva fatta da quando si erano messi insieme – disinte91

grarsi»1. Ma quell’estremo dileggio doveva ancora degenerare in dramma. Uscito dall’ospedale e rifugiatosi con l’inseparabile Nancy al Chelsea Hotel di New York, Sid Vicious si apprestava a divenire la vittima sacrificale del punk. La notte tra l’11 e il 12 ottobre 1978 accoltellò a morte – o almeno così presunsero in mancanza di alternative gli inquirenti – Nancy Spungeon. E neppure quattro mesi dopo, uscito dal carcere e in regime di libertà vigilata, morì a sua volta, il 2 febbraio 1979, ucciso da una dose fatale di eroina. Il nichilismo del punk si era infine materializzato. Tre mesi più tardi Margaret Thatcher sarebbe entrata trionfalmente al numero 10 di Downing Street, inagurando un ciclo destinato a protrarsi per tutti gli anni Ottanta. E il punk? Come sostiene Jon Savage all’epilogo dell’illuminante saggio England’s Dreaming: «Il punk fu sconfitto, ma aveva anche vinto. Se il progetto dei Sex Pistols era stato quello di distruggere l’industria musicale, allora avevano fallito [...]. Quando il punk entrò nell’industria della musica e dei media, la sua visione di libertà venne travolta dalla politica di sopraffazione della nuova destra e dal sistema di valori in essa implicito, ma la sua spensierata negazione originaria è ancora luminosa come un faro. La storia è fatta da coloro che dicono ‘No’, e le eresie utopistiche del punk sono il dono che esso ha offerto al mondo»2.  Horses Patti Smith Group (Arista, 1975). 

Il sogno inglese Jon Savage (Arcana, 2002).

 Never Mind the Bollocks Sex Pistols (Virgin, 1977). 

Please Kill Me. The Uncensored Oral History of Punk Legs McNeil e Gillian McCain (Grove Press, 1996). 1 2

The Boy Looked at Johnny, Pluto Press, London 1978, p. 44. Trad. it. Il sogno inglese, Arcana, Roma 2002, p. 515.

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 Ramones Ramones (Sire, 1976).

 Sid and Nancy Alex Cox (Mgm, 1998).  The Boy Looked at Johnny Julie Burchill e Tony Parsons (Pluto Press, 1978).  The Clash Clash (Cbs, 1977).  The Clash. Westway to the World Don Letts (Sony, 2003).  The Filth and the Fury. A Sex Pistols Film Julien Temple (New Line, 2000).

27 ottobre 1975

«Time» e «Newsweek» dedicano ambedue copertina e cover-story a Bruce Springsteen, astro nascente del rock americano. Un eroe positivo e di buon cuore.

Se mai esisterà un paradiso del rock, a dispetto della nomea luciferina associata sovente ad alcuni tra i suoi interpreti più scapestrati, Bruce Springsteen è senz’altro candidato a finirci. Sarà per quella sua aria da rockstar «per caso», che rifugge intenzionalmente pose da divo, o per l’abbigliamento da uomo qualunque che lo contraddistingue – jeans e t-shirt i capi di cui è zeppo il suo guardaroba. O ancora per quell’aspetto da bravo ragazzo che diventando adulto si è tramutato in brav’uomo, carico di energia muscolare ma con un cuore grande così (si dice che nell’arco della carriera abbia devoluto in beneficenza oltre un milione di dollari). Ha dunque tutti i requisiti necessari per la beatificazione, già avvenuta laicamente a furor di popolo. Oltre ad acquistare dischi in milioni di esemplari e riempire fino al limite della capienza le arene in cui si esibisce, il suo pubblico lo adora incondizionatamente, erigendolo a simbolo del proprio modo di essere. Springsteen è uno di loro. Solo più bravo o fortunato. E sicuramente miliardario. Ma non è certo peccato, nell’era del

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capitalismo come unica religione alternativa a quelle tradizionali, tutt’altro. Sia lodato allora il Boss, com’è chiamato familiarmente nel suo entourage. La storia comincia curiosamente ad Asbury Park, piccola località balneare dell’East Coast dove nel 1956 il rock’n’roll venne messo al bando in quanto musica «oscena». Là si trasferì poco più che adolescente Bruce Frederick Joseph Springsteen, nato il 23 settembre 1949 nella vicina Freehold, New Jersey; nelle vene sangue irlandese, dalla famiglia paterna, e italiano, per parte di madre (di cognome Zirilli). Spostamento compiuto per inseguire il sogno che aveva in testa come un chiodo fisso: suonare. Fece gavetta in zona per alcuni anni, finché ebbe la possibilità di sottoporre un suo provino al manager e produttore Mike Appel che, abile faccendiere, lo legò a sé con un contratto capestro. L’interlocutore discografico che diede retta per primo ad Appel fu addirittura John Hammond, lo stesso talent scout della Columbia che aveva scritturato Bob Dylan. Risultato: nel 1972 Bruce Springsteen fu ingaggiato da Hammond che versò ad Appel una cifra complessiva di 65mila dollari per dieci (!) album. L’idea – non originalissima – era di presentare il giovanotto come «il nuovo Dylan». Cosa che avvenne nel 1973 con la pubblicazione di due dischi immessi sul mercato a distanza di dieci mesi l’uno dall’altro: l’acerbo Greetings from Asbury Park, NJ e il più maturo The Wild, the Innocent and the E-Street Shuffle. Non proprio dei best seller, al primo colpo: 25/30mila copie vendute di ciascun titolo. Tanto che all’inizio dell’anno seguente in Columbia c’era già chi voleva scaricarlo. Altri pensavano invece fosse la grande speranza bianca del rock, che a quei tempi viveva in termini creativi un periodo di acuta recessione. Più di tutti lo pensava l’allora direttore di «Rolling Stone», Jon Landau, che dopo aver assistito in mag95

gio a uno show del rocker di Asbury Park all’Harvard Square Theatre di Cambridge, in Massachussetts, scrisse: «Ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen». In Cbs non credettero ai loro occhi: ecco bell’e confezionato – e da che pulpito! – lo slogan per rilanciare le quotazioni dell’artista. Non solo: Landau ne era rimasto talmente impressionato da accettare al volo la proposta di diventarne consigliere, rinunciando al proprio prestigioso incarico editoriale. Contribuì in quella veste alla realizzazione del disco che nel 1975 avrebbe lanciato Springsteen in orbita: Born to Run. Un sorta di restyling del Sogno Americano, vacillante dopo lo scandalo Watergate e la disfatta in Vietnam. E la serie di concerti che seguì l’affermazione dell’album in hit parade ebbe quasi le cadenze di una marcia trionfale. Affiancato dalla poderosa macchina da rock chiamata E-Street Band, Springsteen conquistava le platee con performance generosissime (stabilirà poi il proprio record personale il 31 dicembre 1980, al Nassau Coliseum di New York, eseguendo 38 canzoni in quattro ore). Sembrava che nulla potesse fermarlo. Ma un intoppo c’era: Appel mal sopportava l’intruso Landau, venerato viceversa dall’artista. Si arrivò così ai ferri corti, passando la mano agli avvocati. Una vertenza che si risolse nel maggio 1977: Appel se ne andò accompagnato da una lauta buonuscita e Landau divenne ufficialmente manager di Springsteen. A causa della disputa era stata rallentata la gestazione del disco seguente, e frattanto Springsteen aveva regalato una delle sue migliori canzoni – Because the Night – a Patti Smith. Regnava l’incertezza persino sul titolo: in prima battuta era American Dream (a proposito del Sogno Americano...), poi divenne American Madness, ma infine – una volta ultimato il lavoro, nel maggio 1978 – ecco il definitivo Darkness on to the Edge of Town. Album che replicò il successo 96

del precedente, anche se il primo posto in classifica rimaneva un sogno irrealizzato. Ad avverarlo giunse due anni più tardi il doppio The River: era scoccata l’ora della consacrazione definitiva. Alla quale in un primo tempo Springsteen parve volersi sottrarre, visto che nel 1982, accantonata momentaneamente l’E-Street Band, registrò in perfetta solitudine Nebraska, disco acustico e intimista, il più dylaniano – alla buon’ora! – dei suoi, insieme al successivo The Ghost of Tom Joad (1995). Ma era la quiete che precede la tempesta... L’anno di grazia è il 1984: in estate le Olimpiadi a Los Angeles e in autunno le elezioni presidenziali, con Ronald Reagan che ambisce al secondo mandato. E quando in giugno esce Born in the Usa, suona come una rivendicazione di orgoglio patrio, benché non intenda esserlo. Di sicuro è un best seller di proporzioni colossali: oltre dieci milioni di copie vendute negli Stati Uniti e quasi il doppio su scala mondiale. È l’apice dell’avventura artistica di Springsteen, ormai fenomeno per contenere il quale non bastano più le tradizionali arene rock, occorrono gli stadi. La bandiera a stelle e strisce che decora il palco alimenta l’equivoco, tuttavia. E Reagan non ci pensa su due volte: «Il futuro dell’America [...] è fondato sul messaggio di speranza contenuto nelle canzoni di un uomo ammirato da così tanti giovani americani – Bruce Springsteen del New Jersey», dice in campagna elettorale. Un tentativo di coinvolgimento che l’interessato rispedisce al mittente: «È una delle solite manipolazioni e io mi devo dissociare dalle cortesi parole del Presidente». Così come avrebbe fatto del resto rispondendo picche all’invito a schierarsi dalla parte dei democratici, fattogli pervenire dallo sfidante Walter Mondale. Springsteen non intendeva prestarsi ai giochi della politica. Eppure a suo modo faceva politica. Nel 1979 aveva aderito – con Jackson Browne, Crosby Stills & Nash e James Taylor – 97

al raduno antinucleare convocato al Madison Square Garden di New York sotto l’insegna Muse (Musicians United for Safe Energy), dopo l’incidente alla centrale di Three Miles Island: dall’evento venne ricavato il triplo album No Nukes. E nel 1985 prestò la propria voce sia per We Are the World (Usa for Africa), sia per Sun City (iniziativa discografica contro l’apartheid in Sudafrica promossa dall’ex chitarrista della EStreet Band, Steve Van Zandt). Più appariscente di tutte fu però la sua presenza – accanto ai vari Sting e Peter Gabriel – nel cast di Human Rights Now!, festival itinerante per tre continenti – in venti tappe da Londra a Buenos Aires, tra il 2 settembre e il 15 ottobre 1988 – nel nome di Amnesty International. Importante era che ci fosse una buona causa da sostenere. Intanto la misura della sua popolarità continuava a crescere. Alla fine del 1985 aveva sbancato il mercato natalizio con il monumentale cofanetto – triplo su cd e quintuplo in vinile! – che riassumeva l’attività dal vivo compiuta dal 1975 ad allora, oggetto di così largo consumo – un milione di copie vendute nella sola prima giornata di diffusione – da portare quasi al collasso le catene di produzione che dovevano tener testa alle richieste. Indici da boom industriale. E infatti il «Wall Street Journal» decretò: «Bruce Springsteen è l’artista americano più influente dai tempi di Elvis Presley». Lee Iacocca, il signor Chrysler, offrì allora 12 milioni di dollari per poter usare Born in the Usa in una campagna pubblicitaria delle sue automobili, ma incassò un diniego. L’orizzonte non era sgombro di nubi, però. Stava naufragando il primo matrimonio e l’ombra di quel travaglio sentimentale segnò Tunnel of Love, l’album del 1987. Springsteen dovette far fronte pure a qualche guaio artistico: il 1989 segnò il momento della rottura con la E-Street Band, preambolo ai suoi difficili anni Novanta. Ricco e appagato, con una 98

nuova compagna – la corista Patti Scialfa – in attesa del primogenito nella villa lussuosa appena acquistata a Beverly Hills, il Boss sembrava per la prima volta arrivato a un punto morto della propria carriera. I due dischi editi contemporaneamente nel 1992, Human Touch e Lucky Town, non fugarono quella sensazione. Ci sono voluti altri dieci anni e la riconciliazione coi vecchi soci della E-Street Band per riportare in scena lo Springsteen che la gente ama: prima su disco, The Rising, opera sensibilmente influenzata dalla tragedia dell’11 settembre, e quindi – soprattutto – dal vivo. Per un’altra trionfale tournée che lo ha portato a raccogliere da uno stadio all’altro i frutti dell’immenso credito popolare di cui ancora gode a 30 anni dall’esordio. È ormai un uomo di 54 anni, ma suona ancora rock’n’roll con impeto giovanile: al crocevia fra Elvis e Dylan. Alla fin fine è proprio questa sua spontanea schiettezza la ragione prima del successo che riscuote. Nella percezione diffusa che si ha di lui, Springsteen è colui che dà voce alla gente comune, elevando al rango di narrazione epica storie non diverse da quelle che la vita propone quotidianamente. Nessun artificio pop, nel suo caso. Anzi, il contrario: massima dedizione al pubblico e alla musica. Le canzoni che scrive sono pervase da un senso di autenticità, che ne rappresenta il principale valore aggiunto. Vero: è miliardario. Ma se lo è meritato: ha lavorato sodo e si è fatto da sé. E come osserva Simon Frith: «Ciò che è significativo nell’era postmoderna non è se Springsteen sia la cosa autentica, ma come possa surrogare la convinzione che in qualche modo, da qualche parte, esistano cose autentiche»1. È come se con Spring1

Trad. it. in Il rock è finito, Edt, Torino 1990, p. 107.

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steen il rock – contraddicendo la propria vocazione originaria di musica ribelle e per definizione adolescenziale nei discorsi e nei comportamenti – sia diventato adulto. Rispettabile. Socialmente accettato. In fin dei conti conservatore. Unica figura paragonabile a quella del Boss, fatte salve le ovvie distinzioni culturali e anagrafiche, è Bono, cantante e portavoce degli U2. Personaggio che ormai è solito dialogare coi potenti della Terra, da papa Giovanni Paolo II, al quale ha regalato persino un paio di vistosi occhiali da sole, ai capi di governo – l’uno e gli altri interlocutori per il conseguimento del nobile e ambizioso obiettivo di una moratoria sui debiti dei paesi del Terzo Mondo. Molto più di una semplice rockstar, insomma. Anche nella natia Irlanda, dove anni or sono fu nominato consulente del governo per le politiche giovanili. Autodesignatosi erede di John Lennon nelle campagne contro la guerra, con un approccio da lui definito di «pacifismo aggressivo», Bono usa la forza d’urto mediatica di cui dispone il suo gruppo per affermare i principi in cui crede. E spiega: «La musica può contribuire a creare un ambiente in cui crescano la responsabilità e la consapevolezza sociale». È un rock dei buoni sentimenti affine a quello di Springsteen, ma con un’enfasi ancora maggiore sul piano etico. Dipende dal fatto che lo stesso Bono, così come i suoi tre compagni d’avventura (il chitarrista Dave Evans, detto The Edge, il bassista Adam Clayton e il batterista Larry Mullen), è credente e fiero di esserlo. La vicenda degli U2 ha radici appunto in un istituto religioso. Di tipo particolare, però. La Mount Temple School di Dublino, che i quattro frequentarono da adolescenti e dove si conobbero, è una scuola in cui si conciliano la fede cattolica e quella protestante. Lo stesso Bono, al secolo Paul Hewson, è figlio di genitori appartenenti a confessioni diverse. Ed è pro100

prio il dialogo tra le due sponde l’unica strada percorribile per sedare – com’è capitato negli ultimi anni – il secolare conflitto religioso che insanguina il nord dell’isola. Tragedia che ha scavato «trincee dentro i nostri cuori», recita un verso di Sunday Bloody Sunday – canzone tra le più note del quartetto, ispirata ai drammatici fatti del 30 gennaio 1972 a Derry, che già avevano spinto Lennon a comporre un brano intitolato nello stesso modo. Di quel desiderio di giustizia e pacificazione è piena la musica degli U2, fin dagli esordi a cavallo tra fine anni Settanta e inizio Ottanta. Il gruppo prese forma sfruttando lo slancio inerziale del punk, pur non appartenendo al fenomeno in senso stretto. Il primo album Boy, edito nell’ottobre 1980, e il successivo October, che seguì a un anno esatto di distanza, mettevano in luce un suono nitido e penetrante, melodico ma anche aggressivo. Non erano ancora a fuoco i contenuti, che indugiavano sul disagio generazionale più che su argomenti di maggiore respiro, ma le premesse di ciò che sarebbe avvenuto in seguito c’erano già tutte. La prima svolta è datata 1983, anno in cui fu pubblicato War. Un disco impegnativo, che riverberava gli echi di alcuni fra i temi più scottanti proposti dall’attualità politica: la guerra angloargentina per il possesso delle isole Falklands/Malvinas e l’insurrezione popolare guidata in Polonia da Lech Walesa e Solidarnosc. Ad aprirlo c’era appunto Sunday Bloody Sunday. Come nel caso di Springsteen, maturità e successo furono raggiunti al terzo tentativo. Gli U2 divennero allora il più promettente fra i gruppi della nidiata venuta dopo il punk, e consolidarono la posizione con l’album seguente, che nel 1984 inaugurò una propizia collaborazione con Brian Eno e Daniel Lanois. The Unforgettable Fire – in ricordo del «fuoco indimenticabile» che bruciò Hiroshima e Nagasaki – apriva ancora di più il ventaglio delle suggestioni 101

politiche, onorando in due episodi – Pride e MLK – la memoria di Martin Luther King. L’esibizione dell’anno dopo al Live Aid, organizzato a Wembley da Bob Geldof per raccogliere fondi da destinare alle popolazioni etiopiche decimate dalla carestia, diede l’idea di dove sarebbero potuti arrivare gli U2. E a onor del vero va aggiunto che, a differenza di altri che usarono quella ribalta planetaria per promuovere anzitutto se stessi, Bono andò in seguito con la moglie in Etiopia per contribuire di persona alla causa. Quando poi, nel 1986, Amnesty International celebrò il proprio 25° anniversario con una serie di spettacoli in giro per l’America intitolata Conspiracy of Hope, gli U2 furono di nuovo della partita – insieme a Bob Dylan, Lou Reed, Sting e Fela Kuti, appena scarcerato dal regime nigeriano grazie anche alle pressioni esercitate da Amnesty International. La popolarità del quartetto irlandese continuava così a crescere. Segno che aveva visto giusto «Rolling Stone» quando, nella primavera del 1985, prima ancora dell’apparizione al Live Aid, aveva sentenziato in copertina che si trattava del «gruppo degli anni Ottanta». La definitiva dimostrazione dello status raggiunto dagli U2 si ebbe nel 1987: The Joshua Tree fu un best seller da milioni di copie (in quell’anno un quarto del totale nel mercato britannico, per intendersi) e condusse dritto filato il quartetto sulla copertina di «Time». Anche perché era intriso di riferimenti all’America, come poi sarà, in misura ancora maggiore, l’anno dopo, Rattle and Hum, documento filmico e discografico della tournée statunitense del 1987. Affermare a quel punto che gli U2 erano il gruppo rock più famoso del mondo non era un’iperbole. Ma qualcosa cambiò, allora. Perché il mondo stava cambiando – scricchiolava persino il Muro di Berlino... – e con esso la musica. A differenza di Springsteen, gli U2 provaro102

no a sintonizzarsi con il nuovo che avanzava. Achtung Baby fu un album che nel 1991 lasciò interdetta una parte del loro pubblico, ancora più disorientata due anni dopo all’ascolto di Zooropa: entrambi in via di fuga dal rock, verso inesplorate frontiere elettroniche. E almeno altrettanto sorprendenti furono le tournée concomitanti: lo Zoo TV Tour e quella intestata all’album del 1993 – megaschermi, computer, arte digitale, multimedialità esasperata, la musica ridotta quasi a semplice ingrediente. Un percorso che affascinava tanto quanto sconcertava, e che condusse infine, nel 1997, a Pop e al relativo Pop Mart Tour: parodia del consumismo che però non si smarcava dal mercato, osando persino ammiccare verso la dance e flirtando esplicitamente coi codici del postmoderno. Gli stessi U2 devono essersi resi conto, a un certo punto, di aver perso la rotta, se è vero che nel 2000 hanno ingranato la retromarcia confezionando un disco – All That You Can’t Leave Behind – tutto sommato di nuovo inscritto nei recinti dell’ortodossia rock. Intanto – difficile dire se per gioco o per effettiva convinzione – facevano i divi: Adam Clayton in coppia con Naomi Campbell, e nel backstage dei concerti un gran traffico di vip e top model. Erano entrati a far parte dell’aristocrazia culturale contemporanea, del resto. Basti menzionare alcuni dei loro amici e occasionali compagni d’arte: il regista Wim Wenders (che nel 2000 ha diretto The Million Dollar Hotel su sceneggiatura di Bono), lo scrittore Salman Rushdie e finanche il filantropico Luciano Pavarotti. Una combriccola piuttosto eterogenea. Di più: sono praticamente testimonial permanenti del proprio paese e hanno contribuito a inserire Dublino nelle mappe del turismo giovanile. Tante cose e molto diverse tra loro: difficile tenerle insieme. A fare da cerniera è la reputazione etica di Bono, rafforzatasi man mano che aumentava 103

l’importanza dei suoi interlocutori. In fondo anche la credibilità è un fattore che ha un suo peso nel marketing: le idee condivise, che cioè danno identità collettiva, determinano nei fatti anche le scelte di consumo. Ma a tutto c’è una risposta. Quella di Bono è: «La differenza tra la musica rock e la musica pop è che il pop ti dice che tutto va bene e il rock che invece non è così. E che puoi darti un giro e metterti nelle condizioni di cambiare le cose». Sarà vero?!  Achtung Baby U2 (Island, 1991).  Born to Run Bruce Springsteen (Columbia, 1975).

 Bruce Springsteen. The Complete Video Anthology Brian De Palma e John Sayles (Sony, 2001).  Bruce Springsteen. Two Hearts - The Definitive Biography Dave Marsh (Routledge, 2003).  Nebraska Bruce Springsteen (Columbia, 1982).  Sun City. The Struggle for Freedom in South Africa Artists United Against Apartheid e Dave Marsh (Viking, 1985).  The Joshua Tree U2 (Island, 1987).  The Million Dollar Hotel Wim Wenders (Lions Gate, 2001).  U2. Rattle and Hum Phil Joanou (Paramount, 2003).  U2. Un fuoco indimenticabile Eamon Dunphy (Arcana, 1988).

3 maggio 1975

«Autobahn» dei Kraftwerk sale al 25° posto nella classifica dei singoli più venduti in America: la musica pop diventa sintetica.

Autobahn non è la canzone più celebre del gruppo tedesco, né la più influente. E non si tratta neppure del disco che inaugura ufficialmente la stagione dei best seller di matrice elettronica: nel 1972 una composizione del pioniere inglese Gershon Kingsley, Popcorn, aveva furoreggiato in Europa nell’interpretazione degli Hot Butter. Ma il successo di quel brano dei Kraftwerk, edito originariamente l’anno prima in versione integrale – 22 minuti e 42 secondi – nell’album omonimo, rappresenta tuttavia un punto di svolta. Anzitutto per gli autori, fino a quel momento una presenza fra le tante nell’ondata dei «corrieri cosmici» montata in Germania a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta. E poi anche in senso – come dire – concettuale. In che modo lo si può chiamare? Forse una definizione appropriata è «folclore industriale». Al ritmo meccanico scandito dalla batteria elettronica e al cantilenante mantra del ritornello è giustapposto un collage di rumori captati in autostrada – quello il significato del titolo, appunto. Il traffico come fonte sonora. E l’auto come strumen-

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to musicale. Che avessero scelto come riferimento la civiltà industriale era chiaro, del resto. Alla lettera il nome del gruppo si traduce in «centrale elettrica». In sé, l’idea che a fare musica potessero essere le «macchine» risaliva agli inizi del Novecento. A formalizzarla fu per primo il futurista italiano Luigi Russolo, che nel 1913 redasse il manifesto intitolato L’arte dei rumori. E per coerenza provò quindi a realizzare vari marchingegni – l’arco enarmonico, il crepitatore, l’ululatore... – raggruppati sotto la dicitura «intonarumori». Principio fondante dell’enunciato teorico era l’attribuizione ai rumori meccanici e industriali di una dignità pari a quella dei suoni erogati dagli strumenti convenzionali. Il futurismo proclamato da Marinetti nel 1909 esaltava la civiltà delle macchine, e le affermazioni di Russolo altro non erano che la logica conseguenza di tale premessa sul piano musicale: «Bisogna rompere questo cerchio ristretto dei suoni puri e conquistare la varietà infinita dei suoni-rumori». Intuizione intorno a cui ragionava anche il compositore francese Edgar Varèse, in procinto di trasferirsi oltreoceano. Alla fine degli anni Venti lo stesso Varèse aveva sperimentato un paio di curiosi aggeggi musicali appena brevettati: il theremin (dal nome francesizzato dello scienziato sovietico Lev Termen che lo inventò) e l’ondes martenot (frutto dell’ingegno del musicista francese Maurice Martenot), simili per il modo in cui generavano suoni sfruttando le interferenze prodotte in un campo elettrostatico dal movimento delle mani. L’innovazione tecnologica influenzava ogni giorno di più le stesse procedure compositive e aveva come sponda culturale il rigore matematico che informava la nozione di musica seriale codificata nel contesto dell’espressionismo da Arnold Schoenberg e sviluppata dai suoi allievi Alban Berg e Anton Webern. Intanto gli strumenti tradizionali venivano elettrifi106

cati da artigiani quali Laurence Hammond (l’organo) e Arthur Rickenbacker (la chitarra). Ma l’innovazione destinata a cambiare il corso degli eventi era la diffusione della musica registrata. Non tanto quella depositata su vinile, non ancora manipolabile, bensì quella incisa su nastro magnetico – procedura ideata in Germania nel 1935 dalla Aeg di cui si impadronirono le aziende statunitensi alla fine della Seconda guerra mondiale. Ad avvalersene per primo in modo sistematico fu Pierre Schaeffer, ingegnere e tecnico del suono della radio francese che, in coppia con il compositore Pierre Henry, definì alla fine degli anni Quaranta i canoni della cosiddetta «musica concreta». In due parole: l’elaborazione a fini creativi di rumori della quotidianità registrati su nastro magnetico. Un genere di sperimentazione sonora che nel decennio seguente si sarebbe diffusa a macchia d’olio. Nel 1954 Luciano Berio e Bruno Maderna fondarono presso la sede Rai di Milano lo Studio di Fonologia Musicale. E oltreoceano nella medesima direzione si muoveva John Cage, che dopo aver scritto partiture per pianoforte preparato e per apparecchi radiofonici formalizzò il concetto di musica «aleatoria», dove cioè l’idea stessa del caso viene incorporata nella composizione. Caddero così i rigidi presupposti seriali della dodecafonia, criticata ormai apertamente da Cage, da Berio e dal compositore francese Pierre Boulez nei luoghi allora deputati allo scambio intellettuale: i centri studi di Parigi, New York e Darmstadt. Nei laboratori di ricerca sulle nuove tecnologie gli scienziati facevano intanto passi da gigante: l’avvento del transistor nel 1948 aveva aperto la strada alla miniaturizzazione elettronica. Già nel 1956 la Rca realizzò il primo prototipo di sintetizzatore, apparecchio in grado di generare autonomamente tonalità elettroniche. La seconda versione dello strumento fu acquistata nel 1959 107

dal Cpemc (Columbia Princeton Electronic Music Center, dalle due università gemellate nel progetto), mentre atelier dedicati allo studio della musica elettronica erano stati aperti a San Francisco, da Morton Subotnick, e a Colonia – già nel 1951! – da Karlheinz Stockhausen. Progresso tecnico ed evoluzione artistica procedevano di pari passo. A commercializzare il primo sintetizzatore, chiamandolo col proprio nome, fu nel 1965 l’ingegnere statunitense Robert Moog. Nel giro di qualche anno la diffusione dello strumento divenne epidemica. Era un’epoca in cui il futuro balenava ancora all’orizzonte con promessa di un progresso benevolo e inarrestabile. Sua metafora era la conquista dello spazio in cui erano impegnati, e tra loro in competizione, americani e sovietici – il lato migliore della Guerra fredda. Una simile visione dell’avvenire come vertigine fantascientifica era implicita nelle musiche che impiegavano gli apparecchi elettronici ancora rudimentali messi a disposizione dallo sviluppo tecnologico, a cominciare appunto dai sintetizzatori, e che venivano diffuse attraverso i primi impianti stereofonici. Brani come Telstar del bizzarro compositore inglese Joe Meek, il tema del telefilm Dr Who, creato dal Bbc Radiophonic Workshop, o gli esperimenti pionieristici di Ben Kingsley e Jean-Jacques Perrey evocavano un mondo futuribile in cui robot servizievoli e razzi in orbita erano all’ordine del giorno. Col senno di poi quello stile sarebbe stato tortuosamente denominato Space Age Bachelor Pad Music («musica spaziale per monocamera da single»). Il suono del moog divenne popolare alla fine degli anni Sessanta grazie al best seller discografico Switched on Bach – come suggerisce il titolo: partiture del compositore tedesco interpretate elettronicamente da Walter Carlos, in seguito curatore della colonna sonora di Arancia meccanica. Il sintetiz108

zatore stava diventando il nuovo oggetto indispensabile per i musicisti in cerca di avventure. Anche nel rock, come si incaricarono di dimostrare al principio degli anni Settanta alcuni protagonisti del progressive britannico: i tastieristi Keith Emerson (Emerson Lake & Palmer), Rick Wakeman (Yes) e Tony Banks (Genesis), ma anche personaggi come il greco Vangelis (anni dopo autore delle musiche per il film Blade Runner) e il francese Jean-Michel Jarre. Contemporaneamente la musica elettronica si era affermata ormai sul piano accademico: nel 1970 al Centre Pompidou di Parigi, sotto la direzione di Pierre Boulez, nacque l’Ircam – Institut de Recherche et Coordination Acoustique Musique. E alla rivoluzione tecnologica si accompagnavano le innovazioni espressive introdotte dai minimalisti statunitensi: Terry Riley, Steve Reich, LaMonte Young, Philip Glass... Tutto ciò quando già all’orizzonte si percepivano le avvisaglie della fase successiva: il passaggio dall’era analogica a quella digitale. È appunto nel 1970 che Ralf Hütter e Florian Schneider fondano i Kraftwerk, dopo un primo esperimento a cavallo fra rock ed elettronica compiuto in Inghilterra col quintetto Organisation. Ambedue diplomati al conservatorio, il primo in flauto e il secondo in pianoforte, avevano assorbito l’influenza di uno dei loro docenti, il maestro Karlheinz Stockhausen, alcune opere del quale – la suite Kontakte (1960) e soprattutto Hymnen (1966), dove l’inno tedesco viene trasfigurato elettronicamente – segnarono in profondità la nascente sottocultura rock locale. Desiderosa di affrancarsi dai modelli angloamericani, che nel dopoguerra avevano esercitato un’incontrastata egemonia nella scena musicale tedesca, quella generazione di giovani artisti – la prima nata dopo la caduta del Terzo Reich – cercava modelli a cui riferirsi. Alla ricostruzione materiale del paese doveva corrispondere un 109

analogo processo sul piano culturale. Erano gli anni della contestazione studentesca, che in Germania aveva come baricentro intellettuale le teorie elaborate dai filosofi della scuola di Francoforte, su tutti Herbert Marcuse. Da quel fermento scaturì un eterogeneo fenomeno artistico noto volgarmente come krautrock. Musiche in verità assai poco rock in senso stretto. Dal radicalismo sperimentale dei Faust al meditativo suono elettronico di Tangerine Dream e Popol Vuh (sovente partner musicali del regista Werner Herzog), passando attraverso i visionari umori hippie di Amon Duul e Ash Ra Tempel. Più rappresentativi di altri furono i Can, come i Kraftwerk guidati da due allievi di Stockhausen: Holger Czukay e Irmin Schmidt. E c’erano inoltre i Neu!, nati per iniziativa di Klaus Dinger e Michael Rother, per breve tempo collaboratori dei Kraftwerk. Questi ultimi avevano pubblicato il proprio disco d’esordio nel 1971, raddoppiando la dose l’anno dopo. In entrambi i casi la componente elettronica del suono era significativa ma non determinante: prevaleva il desiderio di sperimentare a 360 gradi. Un’attitudine appena più temperata nell’opera maggiormente significativa di quel periodo: Ralf & Florian – come specifica il titolo realizzata nel 1973 con le sole forze di Hütter e Schneider. La svolta arrivò nel 1974 con Autobahn, dove unici protagonisti erano gli strumenti elettronici. Una formula che di lì in avanti avrebbe costituito il marchio di fabbrica per il gruppo che realizzava la propria musica in un’ex raffineria – siamo ai margini meridionali del bacino della Ruhr... – tramutata in studio di registrazione e ribattezzata Kling Klang. Tipico esempio di riconversione postindustriale. I Kraftwerk rivoluzionarono i canoni pop proprio mentre i punk traevano le conseguenze (estreme) dalla crisi del rock. Il 110

poker di album editi fra il 1975 e il 1981 segna infatti come una sequenza di pietre miliari il corso della musica, configurando il profilo dell’archetipo sonoro più rilevante nell’ultimo quarto del Novecento. Per primo Radioactivity, quando già il duo era raddoppiato in quartetto con l’inclusione dei percussionisti elettronici Wolfgang Flur e Karl Bartos: apologia della comunicazione sulle onde radio (e non dell’energia nucleare, come alcuni ancora equivocano). Quindi Trans Europe Express, nel 1977: con il brano omonimo dal caratteristico incedere «ferroviario» che nel giro di qualche anno avrebbe condizionato in maniera e misura imprevedibili l’evoluzione della black music. E dopo ancora, nel 1978, The Man Machine: di cui si ricordano un’apologia dei robot e l’immagine in copertina mutuata dall’estetica costruttivista degli anni Trenta. Infine, agli albori degli anni Ottanta, Computerworld: presagio dell’incipiente civiltà digitale. Nella tournée che seguì l’uscita di quest’ultimo disco, al momento dei bis, anziché il quartetto in carne e ossa, a interpretare sul palco The Robots erano quattro manichini manovrati elettronicamente. Uomini e macchine. Sta nella dialettica tra i due fattori l’identità dei Kraftwerk, che a proposito dicevano: «Le macchine hanno un’anima, ma la gente è ossessionata dall’idea di dominarle mantenendone il controllo. È indice di un complesso di inferiorità: meglio essere amici delle macchine e vedere che cosa viene fuori da quella relazione. Noi non possiamo fare a meno di loro, e loro non possono fare a meno di noi. Noi suoniamo le macchine, così come le macchine suonano noi». Concetto audace di cui si fece interprete il giornalista americano Lester Bangs, quando nel 1975 li intervistò per la rivista «Creem»: «Nella musica dei Kraftwerk [...] le macchine non si limitano a soggiogare e a interpretare gli esseri umani ma li assorbono, finché scienziato e tecnologia, 111

avendo sviluppato un grado più elevato di consapevolezza, divengono una cosa sola»1. Una rivoluzione cartesiana che alcuni tecnofobi lessero come atto di morte della musica. A loro risponde Ralf Hütter: «La gente che ci criticava era la stessa che poi, dal dentista, pretendeva le apparecchiature più sofisticate: non avrebbe sopportato di farsi estrarre i denti cariati con le tenaglie. Ma se si parlava di musica, volevano le vecchie chitarre anni Cinquanta». Il ritmo sintetico scandito dai Kraftwerk, che avevano reso ballabile una musica elettronica fino ad allora contemplativa, rappresentava uno scarto rivoluzionario paragonabile a quello dell’avvento della chitarra elettrica. Era il passo successivo. «Ci prendevano per pazzi quando sostenevamo che il suono elettronico avrebbe aperto una nuova fase nella storia della musica popolare», commenta Hütter a cose fatte. E invece è andata proprio così, e non è soltanto questione di strumentazione, bensì della funzione stessa di chi fa musica nell’era contemporanea. Prima di chiunque altro, i Kraftwerk hanno praticato e divulgato l’idea del musicista come tecnico nella fabbrica del suono, figura pressoché antitetica all’invadente figura della rockstar. Una contrazione dell’ego di chi crea a vantaggio dell’opera e di chi ne fruisce. Si spiega così l’intenzionale elusività di Hütter e Schneider, e soprattutto la parsimonia con cui si sono concessi all’attenzione del mondo dopo il momento magico che li ha fatti passare alla storia. Dicono: «Non sopportiamo il culto della personalità: per guidare un’auto con piacere non è necessario conoscere chi l’ha costruita». Mosse sempre più caute e misurate, via via che passavano gli anni. Un solo altro disco concepito come tale da cima a fon1 Kraftwerkfeature, in Psychotic Reactions and Carburator Dung, Knopf, New York 1987, p. 156.

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do: Electric Café, nel 1986. Quindi una rigenerazione digitale del repertorio analogico nell’antologia The Mix del 1991, con Bartos e Flur ormai fuori dal gruppo. E poi musiche scritte su commissione: il singolo del 1983 Tour de France, per l’omonima manifestazione ciclistica (che in occasione del centenario, nel 2003, ha richiesto e ottenuto un intero album a soggetto: Tour de France Soundtracks), e quello del 1999 – Expo 2000 – registrato in origine come sigla della European Business Conference di Hannover preliminare – appunto – all’Expo internazionale dell’anno dopo. Altrettanto dosate le apparizioni dal vivo: ultimamente, nel settembre 2002, alla Cité de la Musique di Parigi, nel quadro della rassegna tematica Villette Numerique, e prima di fronte alle platee di alcuni tra i maggiori festival del mondo, tra cui due eventi a vocazione «elettronica» quali il Sónar di Barcellona, nel giugno 1998, e il Tribal Gathering del maggio 1997 a Luton, in Gran Bretagna, accanto a discepoli deferenti come Daft Punk e Orbital. L’influenza esercitata dai Kraftwerk sulle generazioni seguenti è stata enorme, come si diceva. Oltre ad aver condizionato le recenti vicende della musica nera, il loro esempio – insieme a quello del duo electro-punk newyorkese Suicide – ha ispirato all’inizio degli anni Ottanta una schiera di giovani musicisti inglesi cresciuti col punk ma determinati a confezionare canzonette impiegando esclusivamente macchine elettroniche. Da cui la definizione attribuita al genere: techno-pop. Dai precursori del fenomeno – Gary Numan, John Foxx con e senza gli Ultravox, Orchestral Manoeuvres In The Dark – ai suoi esponenti più acclamati: Depeche Mode (in seguito divenuti gruppo molto popolare grazie a un progressivo avvicinamento agli standard del rock), Soft Cell e Human League, questi ultimi massimi rappresentanti della fertile scena di Sheffield insieme ai Cabaret Voltaire, a loro 113

volta capifila, coi radicali Throbbing Gristle, di ciò che si usava definire «musica industriale» per sottolinearne l’estetica enfaticamente austera e metropolitana. Ma a trafficare con gli aggeggi analogici erano a quei tempi musicisti sparsi ai quattro angoli del pianeta: dagli Stati Uniti, dove svettavano i surreali Devo e i parodistici Residents, al Giappone, patria della Yellow Magic Orchestra, da cui si diramò poi la carriera individuale del versatile Ryuichi Sakamoto. In Gran Bretagna più che altrove quelle musiche mostravano un vistoso corredo iconografico: importante quanto le canzoni era l’involucro d’immagine in cui venivano inscritte. Il pop avveniristico dei dandy elettronici chiamati new romantics doveva molto sia ai Kraftwerk, sul piano sonoro, sia al David Bowie versione Pierrot Lunaire dell’epoca di Scary Monsters (1980), su quello estetico. Smessi i panni delle precedenti incarnazioni (divo glam, crooner decadente, aristocratico Duca Bianco), Bowie aveva cambiato rotta dopo essere stato a sua volta influenzato dagli algidi tecnofili di Düsseldorf e aver incrociato – ai tempi di Low, nel 1977 – l’obliqua traiettoria artistica di Brian Eno. Quest’ultimo, già manipolatore di sintetizzatori nei ranghi dei Roxy Music, si era ritagliato un ruolo originalissimo nella scena musicale dei tardi anni Settanta definendosi «non musicista» o, come diceva all’epoca di se stesso, «architetto sonoro». Esplorati in chiave individuale i limiti della forma canzone nella quadrilogia culminata nel suggestivo Before and After Science (1977), l’abile ed eclettico artista inglese si avventurò in territori meno convenzionali, in parte già perlustrati in un paio di lavori realizzati in coppia con Robert Fripp. Esperimenti sul suono puro, alla fin fine. E sui suoi significati reconditi. Primo passo in quella direzione fu Discreet Music, affidato nel 1975 all’etichetta discografica Obscure da lui stesso fon114

data. Un frutto del caso, se è vera la leggenda secondo cui a ispirare Eno – costretto a letto dalle conseguenze di un incidente automobilistico – fu l’ascolto di un album di musica antica reso praticamente impercettibile da un amplificatore difettoso. Un suono soffocato, lontano e screziato da interferenze, possiamo immaginare. Dall’inconveniente sorse un’intuizione: che la musica potesse essere anche così. Eterea e impalpabile, quasi assente. Più ragionevolmente si può pensare che Eno abbia rielaborato ingegnosamente la nozione di musique d’ameublement cara a Erik Satie, simile all’environmental music di John Cage, o si sia allineato tutt’al più ai canoni istituiti dai minimalisti americani. Un arredo sonoro per le comuni attività quotidiane: la musica non deve aspirare a essere altro. «Anziché emergere dall’ambiente in cui si trova, come una nave sull’oceano, la musica diviene parte di quell’oceano, accanto a tutti gli altri effetti transitori di luce, ombra, colore, profumo, gusto e suono», scrive David Toop in Ocean of Sound 2. Era stata così formalizzata la nozione di ambient music, che nel 1978 lo stesso Eno rese funzionale a localizzazioni specifiche ancorché virtuali: Music for Films e Music for Airports. Aperto dall’avveniristico rumorismo dei futuristi, il Novecento si avviava all’epilogo avvolto in una vaporosa quiete postmoderna.  A Clockwork Orange Walter Carlos (Warner Bros, 1972).  A Rainbow in a Curved Air Terry Riley (Columbia, 1971).  Autobahn Kratfwerk (Philips, 1974). 

Electronic and Experimental Music Thom Holmes (Routledge, 2002). Futuri impensabili Brian Eno (Giunti, 1997).

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Trad. it. Oceano di suono, Costa&Nolan, Ancona-Milano 1999, p. 162.

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 Kontakte Karlheinz Stockhausen (Wergo, 1964). 

Kraftwerk. Man, Machine and Music Pascal Bussy (Saf, 1993). Krautrocksampler Julian Cope (Head Heritage, 1995).  Suicide Suicide (Red Star, 1977).  Trans Europe Express Kraftwerk (Emi, 1977). 

3 luglio 1973

David Bowie «uccide» in pubblico, durante uno show all’Hammersmith Palais di Londra, il suo alter ego Ziggy Stardust – massima icona «glam».

Un gesto plateale, degno del più teatrale fra i concerti dell’epoca. Ma anche un atto necessario: quel personaggio stava quasi per sopraffare il suo demiurgo. Divo artificiale cresciuto in uno scenario influenzato dall’idea di futuro comunicata da due film di Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio (1968) – che a Bowie aveva ispirato già il suo primo brano di successo: Space Oddity – e Arancia meccanica (1971), Ziggy Polvere-di-Stelle annunciava l’avvento di una nuova era nella storia del rock. Accompagnato in scena dai Ragni di Marte, gruppo imperniato sulla figura del chitarrista Mick Ronson, rappresentava coi suoi capelli tinti d’arancione e gli abiti luccicanti il primo prototipo di rockstar sintetica. Qualcosa che non apparteneva alla realtà e nemmeno aspirava a esserne una riproduzione in qualche modo attendibile. Una creatura evidentemente artefatta. Bowie l’aveva plasmata pensando a un musical, ma dovette poi rinunciare a quel progetto troppo complesso e riformularlo secondo canoni più tradiziona-

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li: un disco – The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders From Mars – e lo spettacolo a esso collegato. Ciò che non poteva immaginare era la febbre che si sarebbe accesa intorno alla messinscena. Tutto ciò accadde poiché il rock aveva bisogno urgente di trovare uno sbocco alla propria profonda crisi di identità. Conclusi gli anni Sessanta, e accantonata con essi l’utopia hippie, servivano moventi nuovi per tener vivo il fenomeno: in qualche modo lo spettacolo doveva continuare. E il rock, musica per sua natura elementare e immediata che nel decennio appena terminato si era ritrovata a fare da ambasciatrice di messaggi onerosi, non potè fare altro che tramutarsi appunto in «spettacolo». O arte: nel senso più conservatore del termine. Aspirava a uno status di linguaggio espressivo «adulto», desideroso di un consenso borghese, manifestando così in modo esplicito il proprio connaturato complesso di inferiorità verso le forme d’arte istituzionali. Andava perciò negato il suo originario e ingenuo istinto sovversivo, quello che aveva spinto Chuck Berry a cantare Roll over Beethoven, invitando il vecchio Ludwig Van ad arrendersi e fare strada. Indice di ciò era stato il variare dell’unità di misura con cui valutare la qualità degli artisti: non più la canzone a 45 giri, bensì il long-playing, a sua volta non più raccolta di singoli brani ma opera coerente e compiuta. Iniziatore della specie era stato il leggendario Sgt. Pepper... dei Beatles, i quali avevano smesso di esibirsi dal vivo prima di cominciare a prepararlo, forse rendendosi conto inconsciamente che i semplici concerti non bastavano più: occorreva dell’altro. L’idea di teatralizzarli fino a renderli quasi messinscene circensi era perfetta e tempestiva. E l’uomo ideale a cui affidare il compito era David Bowie. Nato nel quartiere londinese di Brixton, non ancora roc118

caforte degli immigrati antillani, lo stesso giorno di Elvis – 8 gennaio – ma 12 anni dopo, nel 1947, David Robert Jones aveva avuto il chiodo fisso dell’arte fin da adolescente. Arte, non solo musica. Cominciò dal pentagramma perché sembrava la scorciatoia più rapida per affermarsi in pubblico. Fece i primi passi atteggiandosi a mod e pubblicò in gruppo e da solo alcuni 45 giri (tanto poco venduti allora, quanto ricercati adesso dai collezionisti). Cambiò cognome nel 1965, per non essere scambiato con l’omonimo David Jones dei Monkees, e si appropriò di quello di Jim Bowie – soldato americano del XIX secolo morto ad Alamo che diede il nome a un particolare tipo di coltello da caccia. Il suo primo album – di impronta cantautoriale: fra Dylan e Brel – uscì nel 1967 senza quasi lasciare traccia. Fu una delusione. Cercò allora rifugio nel buddismo, ma soprattutto cominciò a frequentare i corsi del mimo Lindsay Kemp. Le cose andarono meglio: grazie a Space Oddity l’album seguente circolò più del primo, e sulla copertina del successivo, The Man Who Sold the World, Bowie comparve – fra lo stupore generale – vestito e truccato da donna. Frattanto aveva scoperto la pop art e il suo profeta Andy Warhol (nei cui panni si è calato poi nel 1998 sul grande schermo in Basquiat), al quale dedicò una canzone inclusa nel lavoro del 1971, Hunky Dory. Disco che ne conteneva un’altra in onore dei cambiamenti: Changes, che a un certo punto ammonisce: «Attenti voi del rock’n’roll / invecchierete presto». Arrivato in ritardo all’appuntamento con gli anni Sessanta, David Bowie aveva capito già il senso dei Settanta. Pochi mesi prima di diventare Ziggy Stardust, intervistato dal settimanale «Melody Maker» a proposito dell’immagine pubblica che aveva calzato da The Man Who Sold the World in avanti, fece outing: «Sono gay e lo sono sempre stato», disse. 119

Strano fosse sposato da due anni con Angela Bassett, però. Ma nell’equivoco che si generò allora sta il segreto profondo del fenomeno a cui il Bowie dell’epoca viene comunemente associato: il glam rock – laddove glam è contrazione di glamour: fascino, incantesimo. Un mosaico semantico a base di umore decadente, ambiguità sessuale, contegno frivolo, abbigliamento appariscente e cronico spleen. L’effetto d’insieme avrebbe sedotto senz’altro Oscar Wilde, non a caso scelto dal regista Todd Haynes come icona originaria nel film del 1998 Velvet Goldmine, appassionato resoconto in bilico tra fiction e documentario dell’epopea glam londinese dei primi anni Settanta. Fermento sottoculturale destinato a produrre oltremanica alcuni grotteschi effetti secondari in classifica (Gary Glitter, Sweet, Slade) e a deviare oltreoceano verso il travestitismo alcuni settori della scena hard rock (New York Dolls, Alice Cooper, Kiss). Convenzionalmente si dice glam e si scrive Bowie, anche se le cose non stanno esattamente così. Vero iniziatore del fenomeno, e modello a cui lo stesso Bowie ammette di essersi ispirato, fu Marc Bolan. Coetaneo del signor Jones, come lui orfano della rivoluzione hippie, a cui aveva consacrato le sue prime imprese musicali con John’s Children e Tyrannosaurus Rex, e almeno altrettanto ambizioso. A successo raggiunto, dichiarò: «Sono sempre stato una stella, anche quando si trattava di esserlo solo per tre vie di Hackney». Alludeva agli anni della gavetta trascorsi a fare il guardarobiere in discoteca, l’assistente di un prestigiatore, la comparsa televisiva e l’aspirante fotomodello. La svolta arrivò – guarda caso – con gli anni Settanta: prese lezioni di chitarra da Eric Clapton per rendere il proprio suono più rock, accorciò il nome del gruppo in T. Rex e cominciò a sfornare 45 giri da hit parade con disinvoltura sbalorditiva. Una dozzina fra il 1970 e il 1973: Hot Love, Get It on, Telegram Sam e Metal Guru 120

i più celebri. Era in quel periodo una rockstar senza rivali in patria: il personaggio che colmava momentaneamente il vuoto lasciato dai Beatles, tant’è vero che si parlava a quei tempi di bolanmania. E – a proposito – Ringo Starr girò allora un film ispirato alla sua figura: Born to Boogie. Per il settimanale «New Musical Express» era il divo pop definitivo: «attraente, ambiguo, ribelle, acuto e ottuso, timidamente violento ma assurdamente romantico, sessualmente misterioso, fotogenico, scaltro e, soprattutto, irresistibilmente irraggiungibile». In Children of the Revolution cantava: «Guido una Rolls Royce / perché fa bene alla voce». Ma non aveva la patente. Morì il 16 settembre 1977 in un incidente automobilistico, a bordo di una vettura guidata da un’amica. Superata una fase di declino, stava tornando di moda grazie al punk. Se Bolan era stato il pioniere del glam rock, ai Roxy Music spettò il compito di esplorarne fino in fondo le possibilità. In due parole: «rock sexy» – dalla crasi tra i vocaboli deriva il nome. Aveva in mente questo Bryan Ferry: origini povere ma studi aristocratici. A scuola fu allievo di Richard Hamilton, teorico inglese della pop art, e di Mark Lancaster, che aveva lavorato con Warhol ai ritratti seriali di Marilyn Monroe. «Mi impressionò il modo in cui trovava l’arte nelle cose di tutti i giorni», diceva a proposito del secondo. Con quella sua aria da ultimo gigolò, Ferry incarnava l’identità stessa del gruppo, da cui ben presto – proprio per i conflitti di personalità col cantante – si allontanò Brian Eno. Più della musica in sé, raffinata e a suo modo avveniristica (come negli anni Ottanta dimostrò la genìa da essa derivata: Simple Minds, Japan, persino Duran Duran), contava l’immagine. Donne fatali sulle copertine dei dischi (a illustrare quella di For Your Pleasure c’è l’equivoca Amanda Lear), abiti così eleganti da rasentare il Kitsch, un’atmosfera narcisista da nuova Belle Epoque, la sen121

sazione di un mondo in bilico tra la Factory di Warhol e Las Vegas ai tempi di Elvis. Perché, dice un verso di Mother of Pearl, tra le canzoni più languide del loro repertorio, «perdere tempo nelle feste è troppo divertente». La messinscena creata dai Roxy Music – in vita dal 1972 al 1976, con successiva appendice dal 1978 al 1982, dopo di che Ferry si è messo in proprio – svelava l’intinseca artificiosità della musica pop, ossia ciò che la rende davvero tale. La ricaduta di quei modelli sui consumi di massa fu significativa in termini quantitativi. Come spiegare altrimenti il successo di gruppi come Electric Light Orchestra e Supertramp? Dandy per convenienza più che per convinzione, star decadenti a mezzo tempo. Più curioso è il caso di Elton John: nato cantautore confidenziale e rapidamente tramutatosi in gigione rock senza alcun timore di scivolare nel cattivo gusto. È quest’ultimo, alla fin fine, il suo pregio principale, ciò che l’ha reso col tempo divo affermato a tal punto da diventare la prima rockstar occidentale a esibirsi oltre la cortina di ferro, in Unione Sovietica e poi anche in Cina. Ma il principale effetto secondario del glam rock sono stati i Queen. E in modo particolare colui intorno al quale è lievitata la fama del gruppo: l’incontenibile Freddie Mercury – una Maria Callas in versione heavy metal. Personaggio ambiguo ed eccessivo (tanto da pagare di persona, morendo di Aids nel 1991, le proprie spericolatezze esistenziali), ma artisticamente così sensibile da simboleggiare meglio di chiunque altro l’irrisolvibile contraddittorietà degli anni Settanta, sospesi fra la potenza muscolare dell’hard rock e l’enigmatica teatralità di Bowie. Con quest’ultimo, Mercury e i Queen duettarono nel 1980 sul ritmo galante di Under Pressure... A quel punto David Bowie era stato già tutto e il contrario di tutto. La creatura mezzo uomo e mezzo cane che vaticina122

va incubi orwelliani in Diamond Dogs. Il crooner postmoderno di Young Americans. Il duce espressionista di Station to Station, così preso nella parte del Duca Bianco, e stordito di droghe, da flirtare col nazismo. Il divo esistenzialista della trilogia – Low, Heroes, Lodger – realizzata con Brian Eno, quando di Berlino ad attrarre era soprattutto lo zoo (chiedere conferma a Cristiana F). E infine il Pierrot Lunaire di Scary Monsters. Non lo chiamano per caso «il camaleonte». Intervistato nel 1983 dal mensile «The Face», spiegò così la propria istintiva mutevolezza: «Non ho mai esplorato nulla fino al punto in cui potesse diventare il mestiere della mia vita... Per me è molto più confortante pensare che se sei un artista puoi metter mano a qualsiasi cosa, in qualunque stile». La coerenza come fardello. Ma anche un modo efficace per sottrarsi, novello Dorian Gray, alle ingiurie del tempo. E nello stesso momento smentire la regola aurea dell’arte pop, quella che riguarda la transitorietà, che nell’elenco di prerogative della pop art stilato nel 1957 da Richard Hamilton veniva subito dopo l’essere «popolare (destinata al consumo di massa)» e appena prima dell’essere «consumabile (facile da dimenticare)». Come prodotto pop David Bowie persiste dal 1969 (anche al cinema: da L’uomo che cadde sulla Terra di Nicholas Roeg a Il mio West di Leonardo Pieraccioni, passando per Furyo di Nagisa Oshima!), tanto che da qualche anno i titoli intestati a suo nome vengono quotati a Wall Street (benché ultimamente siano considerati junk bonds). Avessero voluto, avrebbero potuto fare altrettanto i Pink Floyd dopo il 1973, anno in cui pubblicarono The Dark Side of the Moon: il disco più venduto di tutti i tempi, coi suoi 30 milioni di esemplari (e le oltre 700 settimane consecutive di presenza nei Top 200 dell’hit parade statunitense!), oltre che emblema allegorico dell’epoca in cui venne concepito. Ecco 123

i moventi dell’opera nelle parole del batterista Nick Mason: «L’idea originaria riguardava lo stress della vita moderna: denaro, tempo, viaggi e così via». Qualcosa come il Cynar, per chi ricorda i caroselli con Ernesto Calindri... Tramutandosi in prodotto, andò a ruba e alimentò in quel modo lo stesso sistema che intendeva criticare – un vecchio equivoco del rock, che spinse il critico Robert Christgau a recensirlo sul «Village Voice» definendolo «un capolavoro del kitsch». La contraddizione incrinò l’equilibrio del gruppo. «È stato l’inizio della fine», il laconico commento di Roger Waters. Cominciò allora la lenta ma inesorabile deriva dei Pink Floyd verso il gigantismo rock: dal pallone aerostatico a forma di maiale dei concerti che seguirono la pubblicazione di Animals (1977) all’apocalittico scenario edilizio/filosofico per l’allestimento scenico di The Wall (disco del 1979 che ispirò l’omonimo e mediocre film di Alan Parker del 1982). Waters se ne andò, a quel punto. E dopo un po’ gli altri decisero di continuare, vincendo la causa legale per la potestà sul nome. Altri eventi colossali – il concerto in piazza a Venezia nel 1989, dopo che nel 1971 si erano esibiti a fini cinematografici tra le rovine di Pompei – e dischi sempre meno degni del nome che portavano impresso sul frontespizio. La storia era cominciata in tutt’altro modo e con spirito ben diverso. Metà anni Sessanta, al London Polytechnic, facoltà di architettura. La frequentavano Nick Mason, Richard Wright e Roger Waters, quest’ultimo originario di Cambridge. Fu un suo concittadino a completare dopo un po’ l’organico: Syd Barrett, colui che inizialmente – dal 45 giri See Emily Play all’album The Piper at the Gates of Dawn – fu principale forza motrice del quartetto e ne coniò la denominazione onorando la memoria di due interpreti minori del blues – Pink Anderson e Floyd Council. A quei tempi il quar124

tetto si esibiva in tutti i covi della scena off londinese: al leggendario Marquee, nella serata Spontaneous Underground, e all’Ufo Club in Tottenham Court Road, inaugurato proprio da loro il 23 dicembre 1966. Anche nella capitale britannica, dove continuava a impazzare la beatlemania, stava cominciando ad aggregarsi un abbozzo di controcultura mutuato dall’esempio californiano. Erano fogli indipendenti quali «Oz» e «It» a diffondere il verbo, e proprio per sostenere il secondo, messo sotto tiro da polizia e magistratura, il 29 aprile 1967 fu convocato all’Alexandra Palace il raduno 14 Hour Technicolour Dream. Il titolo era tutto un programma e il cast accattivante: Pete Townshend dei Who, Arthur Brown, Yoko Ono... Tra i gruppi inglesi in ascesa erano due quelli da tenere d’occhio: Pink Floyd e Soft Machine. Dichiaratamente ispirati al romanzo omonimo di William Burroughs (senza dubbio lo scrittore più influente sui destini del rock), i Soft Machine arrivavano da Canterbury ed erano esponenti di punta della vivacissima scena musicale del posto: laboratorio in cui, a dire il vero, il rock veniva considerato un ingrediente fra i tanti, e nemmeno quello essenziale. Contavano maggiormente la sua deriva psichedelica e il jazz sperimentale proveniente d’oltreoceano, con in più – nel caso specifico – una spruzzata della patafisica formulata in Francia da Alfred Jarry agli albori del Novecento. Prima di orientarsi, ancorché in modo niente affatto ortodosso, verso il jazz, come sarebbe capitato dal terzo album (1970) in poi, il gruppo espresse tutta la propria irrequietezza formale in due dischi tuttora sorprendenti all’ascolto. Merito di un paio di lunatici che gravitavano in quell’orbita: Kevin Ayers e soprattutto Daevid Allen, in seguito a capo dei Gong sull’altra sponda della Manica. Unico a seguirne le orme asimmetriche fu il batterista Robert Wyatt, che una volta uscito dai Soft Machine fece 125

in tempo a realizzare un geniale album solista (The End of an Ear) e due coi Matching Mole (si pronuncia come in francese machine molle – capito il trucco?) prima di essere costretto su una sedia a rotelle per il resto della vita da un malaugurato incidente. Della lunga notte all’Alexandra Palace conserva chissà come un ricordo Daevid Allen: «I Pink Floyd suonarono alle quattro del mattino [...]. Dev’essere stato uno dei migliori concerti che abbiano mai fatto. Syd suonò la slide [tipo di chitarra impiegata nel blues] e mi esplose nel cervello: sentivo echi di tutta la musica ascoltata in vita mia...». Syd Barrett era un genio, ma anche un problema. Gli abusi chimici (soprattutto Lsd) a cui sottoponeva il proprio corpo ne avevano alterato la stabilità psichica. Perciò venne allontanato dal gruppo nel 1968: smacco a cui reagì avviando una carriera individuale destinata a spegnersi nell’arco di due dischi. È lui il crazy diamond («diamante folle») evocato anni dopo in Wish You Were Here (1975): «vorremmo che fossi qui»... A rimpiazzarlo come chitarrista fu chiamato David Gilmour e il quartetto assunse così la fisionomia nota ai più. I Pink Floyd realizzarono album ancora visionari come A Saucerful of Secrets e Ummagumma, colpendo la fantasia di Michelangelo Antonioni, che volle le loro musiche per Zabriskie Point, ma si stavano orientando già in un’altra direzione. Fu chiaro nel 1970, al momento della pubblicazione di Atom Heart Mother: opera imperniata sulla suite omonima, che per tipo di scrittura e genere di arrangiamento (orchestrato dal musicista «colto» Ron Geesin) alludeva in modo esplicito alla tradizione classica. Senza per altro negare il rock. Alla confluenza fra due linguaggi in apparenza eterogenei stava prendendo forma allora un’entità ibrida chiamata progressive, che alla lettera alludeva al progresso ma nei fatti si rivolgeva al passato. 126

Se davvero il rock aveva bisogno di «credibilità», l’idea di associarlo alla musica classica – tanto autorevole quanto ossificata in accademia – era quel che ci voleva. E questo in effetti accadde in Gran Bretagna nei primi anni Settanta. Keith Emerson (prima coi Nice e quindi in trio con Lake & Palmer), Yes, Moody Blues, più tardi Mike Oldfield (che fece saltare il banco con Tubular Bells): strumentisti virtuosi che avvalendosi dei nuovi ritrovati tecnologici – dal sintetizzatore al mellotron, una sorta di rudimentale campionatore – simulavano elettronicamente i suoni delle orchestre. A volte scomodando persino autori tradizionali – Pictures at an Exhibition di Emerson Lake & Palmer è una supercover dell’omonima suite per pianoforte di Musorgskij e il maggiore successo dei Jethro Tull di Ian Anderson fu il 45 giri confezionato rileggendo la Bourée di Bach. Il kitsch – vero denominatore comune di molta musica dell’epoca – era dietro l’angolo. Non seppero sottrarsene nemmeno i Genesis, che pure poterono contare fino al 1975 sul talento di Peter Gabriel. La combinazione fra testi gravidi di allegorie e sonorità maestose sfociava però in polpettoni di difficile digeribilità: sono così anche i loro dischi considerati all’epoca migliori, opere (ovviamente a soggetto, o concept come si diceva allora) quali Selling England by the Pound e The Lamb Lies Down on Broadway, ampollosi quanto i titoli che li annunciano. Un’eccezione può essere fatta semmai per i King Crimson: l’estro irrequieto del chitarrista e leader Robert Fripp li condusse ben presto lontano dal progressive nel cui alveo avevano esordito nel 1969. Fenomeno squisitamente europeo, il rock «progressivo». Con diramazioni in Germania (dov’era chiamato krautrock e suonava senz’altro meno paludato), Francia (dai Magma ai citati Gong) e Italia (Premiata Forneria Marconi, Banco del 127

Mutuo Soccorso e – jolly nel mazzo: sarà per la brevità icastica del nome?! – Area). Scarsa, se non assente, la sua eco oltreoceano. Dove ci fu però un musicista che almeno in fatto di attitudine – sfuggire ai cliché del rock anni Sessanta – era sintonizzato sulla medesima lunghezza d’onda: Frank Zappa. Anch’egli sensibile alla tradizione colta – ma agli autori classici preferiva un irregolare come Edgar Varèse – e alle suggestioni del jazz, neutralizzava il rischio di accademismo con una scorta di humour pressoché illimitata. Tale prerogativa informò soprattutto la prima parte della sua carriera, quando era a capo dei Mothers Of Invention (nome scelto in onore della massima platonica «La necessità è la madre dell’invenzione») e sbeffeggiava persino i Beatles, rispondendo al loro ambiziosissimo Sgt. Pepper... con il caustico We’re Only on It for the Money («Lo facciamo solo per soldi»). Fra stupid songs – definizione sua – e progetti di ampio respiro, la produzione discografica di Zappa – collocata in un arco di tempo che va dal 1966 al 1993, anno della morte – è praticamente incommensurabile. Il suo voler essere outsider a tutti i costi lo ha reso rispettatissimo negli ambiti più diversi, tanto che nel 1985 addirittura Pierre Boulez volle eseguirne alcune partiture dirigendo la London Symphony Orchestra – con esiti per altro francamente stucchevoli. Era stato ricondotto anch’egli ad «accademia». Chi di spada ferisce, di spada perisce: vale il vecchio adagio anche nel caso di Frank Zappa, artista alla fin fine esiliato nel proprio microcosmo autoreferenziale. Ne era consapevole, del resto: «Per quel che mi riguarda scrivo musica perché voglio sentirla». Persi i contatti con le sottoculture che lo avevano alimentato durante il decennio precedente, negli anni Settanta il rock – e con esso i suoi protagonisti – si trovava in una condizione analoga.

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Art into Pop Simon Frith e Howard Horne (Methuen, 1987). David Bowie. L’enciclopedia Nicholas Pegg (Arcana, 2002). Electric Warrior T. Rex (Fly, 1971). For Your Pleasure Roxy Music (Island, 1972). Hot Rats Frank Zappa (Bizarre, 1969). Pink Floyd at Pompei Adrian Maben (Mercury, 1989). Pink Floyd. Uno scrigno di segreti Nicholas Schaffer (Arcana, 1993). The Dark Side of the Moon Pink Floyd (Harvest, 1973). Velvet Goldmine Todd Haynes (Miramax, 2003). Ziggy Stardust. The Motion Picture David Bowie (Emi, 2003).

12 novembre 1971

Esce il quarto album dei Led Zeppelin: un classico a cui è toccato il compito di definire i canoni del rock duro. Muro del suono, ma anche stile di vita.

In estate i Led Zeppelin si erano esibiti per la prima – e ultima – volta in Italia: il 3 luglio in un contesto incongruo, la tappa del Cantagiro al Vigorelli di Milano, insieme a Gianni Morandi e Ornella Vanoni! Pagando un prezzo salato – l’impianto di amplificazione semidistrutto – per le avverse condizioni ambientali create dai violenti scontri fra autoriduttori e polizia. Un evento simbolico: da un lato l’approccio iperpolitico alla musica dei movimenti giovanili nostrani, dall’altro la più efficiente macchina rock in circolazione nel pianeta. Detriti dei tardi anni Sessanta proiettati in direzioni opposte. I Led Zeppelin avevano trascinato il rock fuori da quella decade, esorcizzandone le icone. Esemplare in quel senso il fatto che il loro secondo album, edito a due mesi e nove giorni dalla fine del decennio, avesse scalzato oltreoceano dal primo posto in classifica Abbey Road dei Beatles. E agli stessi Beatles i Led Zeppelin sottrassero in seguito il primato della maggiore affluenza di pubblico allo show di un

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singolo artista: erano stati 55.600 per i Fab Four allo Shea Stadium di New York il 15 agosto 1965, furono 56.800 al Bay Stadium di Tampa, in Florida, il 5 maggio 1973. Record migliorato ancora il 30 aprile 1977 dagli stessi Zeppelin, che suonarono allora al Pontiac Silverdome di fronte a 76.229 spettatori. Cifre che danno la misura di quanto il quartetto inglese fosse popolare all’epoca. E lo sia rimasto in seguito: basti pensare alla frequenza con cui ancora oggigiorno, sui network radiofonici statunitensi specializzati in Adult Oriented Rock, va in onda Stairway to Heaven: clou del quarto album assurto al rango di «sempreverde». Indice indiretto della persistenza dei Led Zeppelin nei consumi musicali contemporanei è l’ininterrotto rincorrersi di voci che ne annunciano – salvo essere regolarmente smentite – la ricostituzione. Due sole volte è accaduto che Robert Plant, Jimmy Page e John Paul Jones siano saliti nuovamente insieme su un palco, sempre in occasioni particolari: il 13 luglio 1985 per il Live Aid di Filadelfia e il 14 maggio 1988 per lo show che celebrava il 40° anniversario della Atlantic, loro editrice discografica. In quest’ultima circostanza alla batteria sedeva il giovane Jason: figlio di quel John Bonham la cui prematura scomparsa aveva segnato la fine del gruppo. Quando Bonham senior, detto «Bonzo», morì 32enne a casa di Page soffocato dal proprio vomito dopo una notte di eccessi, nelle prime ore del 24 settembre 1980, i Led Zeppelin facevano le rockstar di professione. L’anno prima si erano esibiti per due sabati consecutivi, il 4 e l’11 agosto, al festival di Knewborth: al loro richiamo avevano risposto in 250mila. E il disco edito pochi giorni dopo, In Through the Out Door, a tutti gli effetti canto del cigno per il quartetto, spadroneggiò per settimane ai vertici delle hit parade internazionali. Non proprio un album memorabile, monotono e ampolloso com’era. Ma soprattutto 131

fuori fase rispetto al corso degli eventi: rivoluzionando il mondo musicale in senso anagrafico e stilistico, il punk aveva reso «vecchi» anche i Led Zeppelin. Ad aggravare la situazione, rendendo ardua la gestazione dell’opera, era stata la malasorte accanitasi su Robert Plant, che nel luglio 1977 aveva perso il figlio Karac, ucciso a cinque anni da un’infezione respiratoria. Una disgrazia che qualcuno – con immaginazione inversamente proporzionale al buon gusto – interpretò come una vendetta del destino contro chi aveva flirtato in modo un po’ troppo disinvolto col Diavolo. Negli ultimi solchi della prima tiratura in vinile del terzo album era stata miniata una citazione – Do what thou wilt, so mete it be, ossia «Fa’ ciò che desideri, così saprai cos’è» – di Aleister Crowley: occultista e libertino inglese vissuto fra il 1875 e il 1947, per il quale Jimmy Page provava una morbosa attrazione, tanto che tempo dopo acquistò la casa vicino a Loch Ness dove lo stesso Crowley aveva abitato in gioventù. La sua frequentazione con il regista «maledetto» Kenneth Anger, che gli affidò a un certo punto il compito di musicare il film Lucifer Rising, completava il quadro di una personalità evidentemente attratta dal lato oscuro dell’esoterismo. Fu ciò a conferire ai Led Zeppelin un’inquietante aura di magia e mistero, rafforzando d’altra parte in alcuni fondamentalisti religiosi la convinzione che il rock fosse musica satanica. Si considerino infine le arcane suggestioni evocate dal gruppo a parole e immagini (dai geroglifici stampati sulla copertina interna del quarto album allo scenario «tolkieniano» che caratterizza un brano come The Battle of Evermore): che i Led Zeppelin venissero percepiti come un’entità enigmatica non suona affatto sorprendente. È o non è del resto musica diabolica per antonomasia il blues a cui si erano riferiti fin dal principio?! 132

I Led Zeppelin erano nati nel 1968 dal crogiolo londinese in cui i fremiti del beat venivano riarticolati sulle 12 misure del blues. Nel 1965 Jimmy Page aveva suonato con l’armonicista Sonny Boy Williamson e subito dopo era entrato negli Yardbirds, la cui vocazione blues era fuori discussione. Lì crebbe e perfezionò il proprio talento chitarristico duettando con un virtuoso dello strumento qual era Jeff Beck. Quando quest’ultimo se ne andò, divenne praticamente il capobanda. Ma l’avventura del gruppo era ormai agli sgoccioli: nessuno dei membri fondatori ne faceva più parte. Così Page e il manager Peter Grant dovettero provare a riorganizzarlo. Quando furono reclutati il cantante Robert Plant e il batterista John Bonham, che avevano fatto gavetta insieme ed erano allora nei Band Of Joy, l’intenzione era di dar vita a una versione dichiaratamente nuova degli Yardbirds. Come bassista e tuttofare – visti i suoi precedenti di arrangiatore e produttore per conto di Rod Stewart, Donovan e Rolling Stones – venne chiamato John Paul Jones. E i primi tre concerti del quartetto furono intestati appunto ai New Yardbirds. Intanto Keith Moon, batterista dei Who, aveva suggerito un altro nome possibile: Lead Zeppelin – «dirigibile di piombo». La «a» cadde quasi subito per banali questioni fonetiche. Dopo un breve rodaggio in patria, il decollo fu immediato. E la rotta puntò anzitutto oltreoceano. Ai piani di volo badava Grant: personaggio dotato di una visione strategica non comune. La prima tiratura del disco d’esordio, destinata esclusivamente agli addetti ai lavori, uscì in America nel gennaio 1969, e insieme a una fitta serie di apparizioni dal vivo impose il gruppo al centro dell’attenzione. Cosicché, quando l’album uscì ufficialmente in marzo, le aspettative erano già considerevoli. E il risultato fu che nel giro di due mesi lo si avvistò nei Top 10 dell’hit parade statunitense. Di lì in avan133

ti, concerti su concerti. Rimasero in tour quasi ininterrottamente per un anno e mezzo, concedendosi addirittura il lusso di declinare l’offerta pervenuta dagli organizzatori del festival di Woodstock. Il disco seguente, concepito e registrato in tournée, non risentì affatto della precarietà delle circostanze. Anzi. Unico problema: in termini di popolarità l’aver dato precedenza al pubblico americano era costato loro qualcosa in Gran Bretagna. A riequilibrare la situazione furono gli spettacoli programmati da Grant nelle prime settimane del 1970, che culminarono in un memorabile show alla Royal Albert Hall di Londra (ora incluso insieme ad altri reperti audiovisivi, tra cui spezzoni della trionfale due giorni del 1979 a Knewborth, nel Dvd How the West Was Won). Erano finalmente profeti anche in patria. Un’inarrestabile fucina di rock’n’roll: quello erano i Led Zeppelin nel loro momento magico. L’estenuante regime di vita imposto dal successo crescente – non solo dischi e concerti a raffica, ma anche i piacevoli oneri collaterali: alcol, droghe e groupies in cerca di sesso – non sottraeva energie: sembrava invece moltiplicarle. Ma per dar forma al terzo album – come i due precedenti e il successivo intestato semplicemente con il numero romano che gli spettava in sequenza – si presero una pausa, ritirandosi per qualche settimana in un cottage a BronY-Aur, nel Galles. E l’ambiente bucolico in cui si trovavano influenzò la genesi del disco. Nei primi due i Led Zeppelin avevano definito la propria inconfondibile cifra stilistica: rock blues appesantito dal timbro distorto e aggressivo della chitarra di Page, d’altra parte reso nevroticamente lirico dal «gemito primordiale» (definizione attribuita allo stesso Page) di Plant, assai più incisivo di quello dei Cream di Eric Clapton, ai quali inizialmente pareva volessero riferirsi. Avevano canonizzato così i fondamenti dell’hard rock, ma col terzo aprirono il 134

ventaglio delle possibilità, incorporando elementi dell’arcaico folclore britannico. Un’avvisaglia della deriva «etnica» che avrebbero impresso in seguito al proprio suono, incorporandovi gli echi delle influenze assorbite da Plant e Page nei pellegrinaggi culturali in India (1972) e Marocco (1973 e 1975). E nell’album seguente, Houses of the Holy, inclusero addirittura un brano scandito dal ritmo in levare del reggae: D’yer Mak’er. I puristi storsero il naso e un brusio si levò dalle ultime file, riservate ai critici. In generale quel disco non suscitò grandi entusiasmi. Celebrativa e rassicurante fu viceversa, poche settimane dopo, l’accoglienza del pubblico newyorkese che stipò per tre sere consecutive, dal 27 al 29 luglio 1973, il Madison Square Garden: eventi da cui successivamente venne ricavato il film (con relativo e omonimo album) The Song Remains the Same. Ma qualcosa si stava inceppando nel motore del dirigibile. Physical Graffiti, il doppio pubblicato nel febbraio 1975, primo con su impresso il marchio dell’etichetta discografica Swan Song fondata dagli Zeppelin insieme a Peter Grant sul modello della beatlesiana Apple, era discontinuo e – per la prima volta nella loro carriera – poco convincente. Difetti da cui non furono esenti neppure Presence (1976) e il conclusivo In Throught the Out Door: prodotti confezionati da chi ormai praticava il rock come mestiere. Forse lo slancio si era esaurito davvero ai tempi del quarto album. Dopo la tragedia del settembre 1980, i tre superstiti attesero un paio di mesi prima di stabilire il da farsi. E il 4 dicembre resero nota la conclusione a cui erano arrivati: «La perdita del nostro caro amico e il profondo rispetto che nutriamo per la sua famiglia ci hanno portato a decidere [...] che non potremo continuare come prima». John Paul Jones tornò così a fare il «topo di studio», collaborando via via con REM, Peter Gabriel e Diamanda Galas. Jimmy Page si diede da fa135

re in proprio e con altri, ma senza esporsi troppo. Il più solerte come solista è stato così Robert Plant, peraltro mai artefice di opere che fossero all’altezza della fama guadagnata precedentemente. Intanto la discografia dei Led Zeppelin continuava ad arricchirsi di capitoli postumi: da Coda, del 1982, ai cofanetti Remasters editi nei primi anni Novanta. Poi, nel 1994, rispondendo a una sollecitazione arrivata da Mtv, Plant e Page si rimisero a produrre musica insieme: dalle registrazioni fatte in Marocco e a Bron-Y-Aur, oltre allo special trasmesso dall’emittente, fu tratto un disco – No Quarter – che nel 1995 diede impulso a una breve tournée in coppia. Nulla a che vedere col passato, ovviamente: eccezion fatta per un po’ di nostalgia. Il rock «duro», frattanto, si era tramutato da linguaggio iniziatico in merce di largo consumo. A renderlo tale nella seconda metà degli anni Settanta erano stati gruppi come Aerosmith, Van Halen e Ac/Dc. I primi, una sorta di versione appesantita e americanizzata dei Rolling Stones, con Steve Tyler nei panni di Jagger e Joe Perry in quelli di Richards, divennero celebri sia per la musica contenuta in album come Rocks e Toys in the Attic, sia per le cattive abitudini dei due leader – detti confidenzialmente toxic twins, i «gemelli tossici». Quanto ai Van Halen, offrirono per primi una lettura californiana – dunque esuberante e gaudente – del genere, valendosi inizialmente della voce tonante di David Lee Roth, abbinata al tagliente stile chitarristico di Eddie Van Halen. Nello stesso periodo un altro chitarrista statunitense si insediò ai vertici delle classifiche: Ted Nugent, originario della stessa Detroit che aveva incubato il rock asperrimo di Stooges e MC 5. Gli australiani Ac/Dc arrivarono invece al successo nel 1979 con Highway to Hell, subito prima di perdere – per abuso di alcol – il cantante Bon Scott: sventura che non li scoraggiò, visto che 136

a pochi mesi dal lutto, ancora agli ordini di Angus Young (il più dotato fra i guitar heroes di quella generazione) e con un altro cantante, lo scozzese Brian Johnson, replicarono l’exploit ingigantendolo con Back in Black. Furono questi i personaggi che segnarono il trapasso definitivo – in termini linguistici più che formali – da «hard rock» a «heavy metal». Definizione dall’origine incerta, in verità. La si avvistò per la prima volta nel romanzo di William Burroughs Nova Express, quando compare Willy da Urano, l’heavy metal kid. Era il 1964. L’espressione si affermò poi nel gergo dei bikers, alludendo familiarmente alle motociclette. Ed è in quel senso – «Mi piacciono il fumo e il lampo, tuono di metallo pesante» – che va interpretato un verso di Born to Be Wild: brano dei rockers canadesi Steppenwolf datato 1968, ma divenuto celebre l’anno dopo come episodio chiave nella colonna sonora di Easy Rider. E sempre nel 1968 il critico statunitense Lester Bangs impiegò i due vocaboli in un articolo sugli MC 5 pubblicato da «Creem». È al suono di gruppi come Blue Cheer e Iron Butterfly (quelli di In a Gadda da Vida: tra i primissimi classici del genere) che la denominazione si attaglia alla perfezione: dà l’idea di ciò che si ascolta. Musica greve, rozza e violenta. Quella dei Grand Funk Railroad, per esempio, o l’altra contraddistinta dai tratti grandguignoleschi della messinscena che l’accompagna, se a eseguirla sono Alice Cooper e Kiss: progenitori di istrioni contemporanei come Marilyn Manson e Slipknot. Ma vale anche nel caso dei Blue Oyster Cult, che si guadagnarono una reputazione da intellettuali godendo per breve tempo della complicità di Patti Smith. Aperta nei tardi anni Sessanta dai Deep Purple, che poi però si persero presto dietro a goffi manierismi sinfonici, la via britannica all’heavy metal fu tracciata dai Black Sabbath. Fra tutti i gruppi emersi in coincidenza con l’avvento del nuovo decen137

nio, Led Zeppelin inclusi, i più vicini stilisticamente all’heavy metal per come oggi lo intendiamo. Merito della massiccia sezione ritmica e della chitarra davvero «pesante» di Toni Iommi, oltre che di uno scenario così gotico da rasentare l’horror, ma soprattutto del personaggio su cui si concentrava la luce dei riflettori: Ozzy Osbourne. A tutti gli effetti, massima icona dell’heavy metal. Sguaiato, eccessivo, autenticamente scandaloso. Individuo capace di decapitare a morsi colombe e pipistrelli. Tuttora un’istituzione nel genere: vale a dimostrarlo il festival itinerante – un Lollapalooza metal – che organizza dal 1996, tautologicamente chiamato Ozzfest. Anche se ormai è un buon padre di famiglia, per quanto stravagante: compare così, insieme a moglie e figli, nel reality show intitolato The Osbournes – maggiore successo di audience nella storia di Mtv. Ed è in quella veste che il vecchio Ozzy ha ricevuto persino un invito a cena dalla Casa Bianca! Eredi dei Black Sabbath oltremanica, in ordine cronologico ma non di popolarità, sono stati Judas Priest e Iron Maiden, gli uni e gli altri impegnati a suonare ancora più duro e veloce. Nulla in confronto ai Motorhead, tuttavia: testa di ponte del metal inglese verso il punk. Parlando dell’heavy metal, Lester Bangs lo definiva «un treno espresso diretto verso il nulla». È scomparso troppo presto (nel 1982) per vedere che le cose sono andate diversamente. Dalla riduzione di quello stile in apparenza ribelle a musica da autoradio, operata dai vari Bon Jovi, Foreigner e Journey, al trash formato Beverly Hills dei Motley Crue, durante gli anni Ottanta anche il metal ha subito un processo di omogeneizzazione analogo a quello del punk. Semmai una scossa è arrivata proprio dal contatto con l’ala più estrema del punk medesimo: quella asserragliata nella trincea hardcore. Dai Metallica, pionieri del cosiddetto speed metal praticato poi da Slayer, Pantera e – in chiave etnica, essendo di origine brasiliana – 138

Sepultura, agli insolenti Guns N’ Roses: musica che fosse quanto meno ancora energica e selvatica se n’è ascoltata durante quel decennio. E negli anni Novanta sono venute poi le contaminazioni con altri linguaggi musicali a cambiare le carte in tavola. Da un lato l’affermazione del grunge ha sdoganato presso il popolo dei college americani quell’approccio duro e diretto al rock, aprendo il varco a gruppi dall’identità «trasversale» come Nine Inch Nails, Tool e Queens Of The Stone Age. Dall’altro l’incrocio fra metal e hip hop, sperimentato inizialmente da Aerosmith e Run DMC, quindi da Anthrax e Public Enemy, ha dato l’abbrivio a uno stile meticcio di cui sono stati punta di diamante i politicizzati Rage Against The Machine, salvo diventare in seguito escamotage commerciale per gente come Korn, Limp Bizkit e Linkin Park: assi da classifica sotto le insegne del nu-metal. Nonostante l’heavy metal sia merce pregiata per l’industria musicale, come dimostra il successo persistente del festival Monster of Rock, che dalla sede originaria di Donington in Inghilterra – dove esordì nel 1982 – si è ramificato in mezza Europa, Italia inclusa, resta una patata bollente da maneggiare. Musica «cattiva»: satanista, brutale, misogina e via ingiuriando. Quella che continua a non piacere ai genitori (eccezion fatta per i «metallari» di prima generazione, che ormai hanno figliato anch’essi). La pecora nera del rock. Come tale perseguita e censurata. Soprattutto da quando circola nei canali della globalizzazione, Mtv in testa, raggiungendo luoghi in cui il potere locale – dal comunismo cinese all’islamismo mediorientale – non ne tollera affatto gli eccessi e fa pagare prezzi salatissimi agli appassionati, sovente condannati al carcere (ultimi casi in Egitto e Marocco). È la combinazione fra questo genere di esclusione e la naturale alterità dei «metallari» dalle altre tribù giovanili a rendere il fenomeno 139

poco permeabile alle sollecitazioni esterne. Scrive Luca Signorelli nel sagace pamphlet L’estetica del metallaro: «I metallari vivono in una nicchia autocostruita, dove si riconoscono l’un l’altro a prima vista. I segni di riferimento sono molti, ma non necessariamente ovvi. Una maglietta, una spilla: ma pure un modo di parlare, una frase, uno sguardo. Ci si sente (classicamente) parte di una congregazione, e fin qui niente di insolito. Capita pure ai giocatori di bocce. A differenza dei giocatori di bocce, però, il metallaro non è mai tanto sicuro di essere stato lui a scegliere la congregazione. Ha il dubbio che la congregazione abbia scelto lui»1. E con quel dubbio dovrà imparare a convivere.  Appetite for Destruction Guns N’ Roses (Geffen, 1987).  Back in Black Ac/Dc (Atlantic, 1980). 

L’estetica del metallaro. Là fuori ci sono solo mostri Luca Signorelli (Theoria, 1997). Led Zeppelin IV Led Zeppelin (Atlantic, 1971). Led Zeppelin. Il martello degli dei Stephen Davis (Arcana, 1988). Master of Puppets Metallica (Elektra, 1986). Paranoid Black Sabbath (Vertigo, 1970). Rage Against The Machine Rage Against The Machine (Epic, 1992). Running with the Devil. Power, Gender and Madness in Heavy Metal Music Robert Walser (University Press of New England, 1993). The Song Remains the Same Peter Clifton e Joe Massot (Warner, 1997).

 

   



1

Theoria, Roma-Napoli 1997, p. 19.

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6 dicembre 1969

Woodstock in negativo: al culmine del festival organizzato dai Rolling Stones ad Altamont gli Hell’s Angels accoltellano a morte uno spettatore diciottenne.

Di nuovo in America, dopo tre anni di embargo. Malgrado il successo, negli ultimi tempi ai Rolling Stones le cose non vanno per il verso giusto. Sono ricorrenti i guai con la legge, quasi sempre per questioni di droga. Ancora in primavera, Mick Jagger e la sua bella, allora Marianne Faithfull, erano stati arrestati per detenzione di stupefacenti, nonostante il «Times» ne avesse preso già le difese il 1° luglio 1967, in occasione di una condanna a tre mesi di reclusione comminata allo stesso Jagger, con un polemico editoriale intitolato Who Breaks a Butterfly on a Wheel? («Chi schiaccia una farfalla sotto la ruota?»). Ma sono inezie in confronto a ciò che capita nei primi giorni d’estate. Colpevole di irrequietezza, Brian Jones viene estromesso dal gruppo. Ne rappresentava l’anima estrosa – suoi il dulcimer in Lady Jane, il sitar in Paint It Black, il flauto in Ruby Tuesday – e in quanto tale era mal sopportato dai diarchi Jagger e Richards. Appena pochi giorni dopo l’annuncio dell’esclusione dal gruppo, il cadavere di Jones

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galleggia nella piscina della sua villa a Hatfield, nel Sussex. L’autopsia accerta che è morto annegato, avendo in corpo droghe e alcol. Dunque: suicidio? O incidente? L’incertezza alimenta addirittura alcuni maliziosi esercizi di dietrologia... A 48 ore dalla disgrazia, il 5 luglio, gli Stones commemorano Brian Jones – già rimpiazzato da Mick Taylor – con un concerto gratuito a Hyde Park, cuore verde di Londra, di fronte a 250mila persone. Ma c’è il disco nuovo da ultimare. Tornano così in studio e danno forma a Let It Bleed – titolo sinistro: «Fallo sanguinare». Per promuoverne l’uscita oltreoceano decidono di emulare l’epopea hippie appena celebrata a Woodstock, affittando a quello scopo l’autodromo di Altamont, nei pressi di San Francisco. Un free festival con loro stessi primattori e di contorno alcuni reduci di quell’altro raduno: Jefferson Airplane, Grateful Dead, Crosby Stills Nash & Young, Santana... Cast stellare che richiama una folla di circa 300mila spettatori. Per rendere l’appuntamento davvero «alternativo», scelgono di non affidare il servizio d’ordine ai soliti professionisti della sicurezza, bensì – consigliati in quel senso dal manager dei Grateful Dead – alla temibile gang di motociclisti chiamata Hell’s Angels. Gente violenta e brutale. Risultato: provocazioni, risse e feriti a decine. Persino Marty Balin, chitarrista dei Jefferson Airplane, che polemizza con gli «angeli» per la gestione irresponsabile della situazione, viene malmenato. Una giornata piena di tensione, ben descritta – rendendo la cronaca fiction e viceversa – da Colson Whitehead in un capitolo del romanzo John Henry Festival. All’apice dell’happening, verso mezzanotte, ecco infine in scena i Rolling Stones. Attaccano a suonare con Jumping Jack Flash. Sotto il palco c’è subbuglio. Il tempo di eseguire altre quattro canzoni, sistematicamente punteggiate da appelli per 142

sedare gli animi (tutto cio è documentato dettagliatamente nel film di Albert e David Maysles Gimme Shelter), e poi arriva Under My Thumb. È a quel punto che succede il fattaccio: scoppia un alterco fra alcuni Hell’s Angels e un giovane di colore che, provocato poiché si accompagna a una ragazza bianca, estrae una rivoltella ma viene circondato e accoltellato a morte. La vita del diciottenne Meredith Hunter si spegne così. Non è l’unica vittima a rimanere sull’asfalto di Altamont. La tragedia si carica infatti, e immediatamente, di enorme valore simbolico. Questa volta la responsabilità non è imputabile al Sistema. Il sopruso è stato compiuto all’interno della comunità giovanile che contro quello stesso Sistema combatteva in nome di un mondo migliore. Crolla così un’illusione assai diffusa all’epoca, come spiega Simon Frith in The Sociology of Rock: «La violenza al festival di Altamont del 1969 fu interpretata come il segnale definitivo che una comunità non può basarsi esclusivamente sul consumo musicale»1. Il numero del quindicinale «Rolling Stone» in edicola alcuni giorni dopo titola in prima pagina: «La nemesi di Woodstock». E pensare che appena tre mesi e mezzo prima si sarebbe detto il contrario. Il circolo virtuoso di Pace & Amore ammirato a Woodstock sembrava potesse rivoluzionare il mondo. L’happening di «Arte e Musica» – così recitava l’intestazione – svoltosi fra il 15 e il 17 agosto nell’area rurale di Saugerties, nello Stato di New York, era stato un evento che aveva fatto epoca quasi quanto lo sbarco del primo uomo sulla Luna, avvenuto neanche un mese prima. Tant’è vero che in seguito ne sono stati festeggiati gli anniversari: il 25° in un’area adiacente il sito originario, col patrocinio di Mtv, e il 30° 1

Constable, London 1978, p. 54.

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nella vicina Rome, all’interno del perimetro di una base militare – scelta invero curiosa. Il festival di Woodstock non rappresentò soltanto l’atto di consacrazione di una nuova nidiata di divi rock – i già citati Santana, Crosby Stills Nash & Young, Grateful Dead e Jefferson Airplane, ma anche Jimi Hendrix, Janis Joplin, Who, Creedence Clearwater Revival e Sly & The Family Stone, oltre ad alcuni outsider di giornata come Richie Havens e Joe Cocker. Il senso dell’avvenimento eccedeva infatti l’ambito musicale e riguardava il costume. E persino la politica. A Woodstock si celebrò l’apoteosi del movimento hippie germogliato negli Stati Uniti durante la seconda metà degli anni Sessanta, che aveva avuto il proprio preludio due estati prima al festival di Monterey e durante i rituali collettivi praticati nelle comuni insediate nel quartiere di Haight Ashbury a San Francisco, in quella che ancora oggi viene ricordata come la Summer of Love. Coté politico del fenomeno furono le battaglie pacifiste degli studenti americani, che ben presto si riverberarono nelle scuole e nelle università europee. Nel 1969, però, quella sottocultura in ascesa aveva cominciato già il processo che l’avrebbe portata a cristallizzarsi e a integrarsi nell’establishment. A rivelarlo sono proprio alcuni dettagli del festival. Anzitutto l’essenziale tutela economica garantita agli organizzatori, che altrimenti non avrebbero saputo come far quadrare i conti, dalla corporation Warner Bros, che si assicurò così – pagandoli in anticipo – i diritti sullo sfruttamento commerciale dell’evento, tradottosi poi in due prodotti discografici (un album doppio e l’altro addirittura triplo) e uno cinematografico (il celebre documentario girato sul posto da Michael Wadleigh). Un altro indizio si ricava da una delle scene marginali del film, in cui il capo della polizia di Saugerties, intervistato sull’andamento del festival, risponde così: «Bravi 144

ragazzi, in fondo sono bravi ragazzi». Infine: le vivande che piovvero sugli spettatori come manna dal cielo venivano scaricate dagli aerei della stessa US Air Force che in quei giorni bombardava a tappeto il Vietnam. Anche senza saperlo o volerlo i 400mila di Woodstock erano già dentro il Sistema. Che il movimento hippie covasse in sé contraddizioni non risolvibili lo avrebbe suggerito l’esito dell’inchiesta su un fatto di cronaca nera accaduto giusto una settimana prima del festival. Nella notte fra l’8 e il 9 agosto, a Bel Air, rifugio collinare dei vip di Hollywood, era stata compiuta una strage: un gruppo di persone aveva fatto irruzione nella villa del regista Roman Polanski uccidendo sua moglie Sharon Tate, incinta di otto mesi, e quattro malcapitati ospiti. Qualche settimana dopo, il 12 ottobre, la polizia arrestò i presunti responsabili: il quarantaquattrenne Charles Manson e cinque componenti della Family che gravitava intorno a lui. Una bizzarra combriccola, a metà strada fra comune hippie e setta esoterica, che faceva base a nord-est di Los Angeles, in un ranch abbandonato vicino all’imbocco della Valle della Morte, affacciato sul deserto del Mojave. Boccone ghiottissimo per i media: Manson nei panni dell’anticristo hippie e la sua «famiglia» come nitido esempio delle degenerazioni a cui poteva condurre il culto della trinità blasfema composta da sesso, droga e rock’n’roll. Di meglio non si poteva avere, se l’obiettivo era quello di svelare il lato oscuro dell’utopia giovanile che stava facendo proseliti fra i rampolli della media borghesia americana. Charles Miller Manson era un tipo strano. Avventuriero fin dall’adolescenza, esperto e trafficante di droghe, appassionato di magia nera e in particolare di Aleister Crowley, nonché mediocre musicista rock. Era amico di Dennis Wilson, batterista di quei Beach Boys che incisero perfino una 145

sua canzone – Never Learn Not to Love – per il retro di un 45 giri. Coincidenza che indusse anni dopo il saggista Greil Marcus ad affermare: «Non c’è modo di separare la serena libertà dei Beach Boys dal coltello di Manson»2. Per parte sua Charles Manson registrò tra il 1968 e il 1969 una decina di brani, editi poi dall’etichetta Esp nel 1971 in un album intitolato The Love and Terror Cult. Ma erano altri gli interessi che coltivava con maggiore assiduità in quel periodo. Si trovava in pieno delirio mistico, credeva di essere il figlio di Dio e come tale aveva una missione da compiere. Spiegò poi durante il processo che a commissionargliela erano stati alcuni messaggi cifrati contenuti nel White Album dei Beatles, specificamente in due canzoni: Helter Skelter e Piggies (scritte tracciate dagli assassini col sangue delle vittime sui muri della villa di Polanski). Il piano della cospirazione era il seguente: dovevano essere commessi alcuni omicidi (alle vittime di Bel Air si aggiunsero i coniugi Labianca, ammazzati la notte dopo), attribuendone la responsabilità a criminali neri, tanto da scatenare un conflitto razziale che avrebbe condotto alla guerra civile, terminata la quale la Family sarebbe riemersa dal suo covo nella Valle della Morte per impadronirsi del potere. Pura follia. Che tuttavia contagiò i membri della banda, in maggioranza donne in giovane età, attratte e soggiogate – affermarono gli avvocati difensori – dalle qualità amatorie di Manson, stallone suo malgrado a causa del priapismo di cui soffriva per un difetto congenito alla prostata. A sua discolpa lo stesso Manson disse con tono ammonitorio, rivolgendosi alla giuria e indirettamente a tutta l’America: «Quei figli che vengono verso di voi armati di coltelli sono i vostri figli: non sono stato io a inse2

Mistery Train, Dutton, New York 1976, p. 121.

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gnarglielo, siete stati voi. Io ho cercato solo di aiutarli a stare in piedi». Fu condannato a morte nel 1970 come mandante dei delitti (non era presente la notte della strage), sentenza convertita in ergastolo due anni dopo, quando lo Stato della California abrogò la pena capitale. Charles Manson è tuttora rinchiuso nel carcere di St. Quentin. Se per i Rolling Stones il 1969 fu un annus horribilis, non andò meglio ai Beatles. E non solo perché erano stati tirati in ballo da Manson in veste di ispiratori del suo visionario complotto. Il 30 gennaio avevano tenuto a Londra, in pieno centro, sul tetto dell’edificio in Savile Row che ospitava la casa di produzione Apple, fondata dal quartetto l’anno prima, quella che sarebbe stata la loro ultima esibizione in pubblico. Ripresa dalle telecamere, la performance fu poi inclusa nel film Let It Be. Intanto era stata pubblicata la colonna sonora di un altro film: Yellow Submarine – non esattamente la prova discografica più convincente della loro carriera. Tirava aria di crisi. La registrazione dell’album seguente, provvisoriamente intitolato Get Back, procedeva a rilento e con grande fatica, così il disco edito a fine estate fu un altro, Abbey Road – preparato in fretta e furia avendo poche idee a disposizione. Si sentiva ogni giorno di più la mancanza di Brian Epstein, manager e tutore del quartetto, morto nell’agosto 1967. E poi c’era il problema dei crescenti dissidi fra Paul McCartney e John Lennon. Quest’ultimo aveva formalizzato in marzo col matrimonio la propria relazione con Yoko Ono, e si apprestava a esordire dal vivo con l’impresa di famiglia, la Plastic Ono Band. A tutto ciò si aggiungevano i problemi finanziari della Apple, gravata di debiti. Le premesse per l’epilogo stavano tutte sul tavolo: era solo questione di tempo. E così, nell’aprile 1970, annunciando il proprio imminente debutto da solista, McCartney sancì la fine della storia. Quando un me147

se più tardi fu nei negozi Let It Be, com’era stato ribattezzato Get Back dopo che a metterci le mani era stato chiamato Phil Spector, nei fatti i Beatles già non esistevano più. Durante il 1969 erano affiorate le contraddizioni che avevano messo in discussione l’identità stessa del movimento hippie, e l’avvento degli anni Settanta spazzò via gli equivoci residui in modo drammatico. Nell’arco di appena dieci mesi si spensero tre stelle fra le più luminose dell’intero firmamento rock: per primo se ne andò Jimi Hendrix, l’8 settembre 1970. Poi, appena un mese più tardi, il 4 ottobre, Janis Joplin. E infine, il 3 luglio 1971, Jim Morrison, il leader dei Doors. Tutti e tre uccisi, ancorché con modalità diverse, dalle stesse droghe che avrebbero dovuto «liberarli». L’utopia covata da una generazione intera per quasi tutto il corso degli anni Sessanta si era letteralmente frantumata al contatto con il decennio seguente. L’analogia con gli antichi riti dionisiaci, a cui in modo nemmeno troppo implicito il fenomeno hippie si ispirava, era quasi sconcertante. L’euforia degli antichi baccanali pare culminasse sovente in azioni distruttive: sacrifici umani o suicidi di massa. Quell’ultimo anno del decennio, con la sua grandezza oscillante tra euforia e dramma, vale perciò come spartiacque nella storia del costume giovanile, assumendo ancora maggior forza proprio in virtù della sua naturale collocazione temporale al bivio fra due decadi. Finiva un’epoca e ne cominciava un’altra. I nodi erano venuti al pettine, a cominciare dal sovraccarico di aspettative che gravava sulle spalle del rock, ritenuto non più solo musica, bensì principale canale di scambio e comunicazione fra individui, addirittura strumento politico. Un peso eccessivo per un linguaggio in definitiva elementare e diretto. C’era poi l’equivoco principale, quello nascosto fra le pieghe di Woodstock: l’idea che si potesse es148

sere contro il Sistema pur facendone parte. Una pia illusione derivata da un abbaglio altrettanto macroscopico: che gli assetti del mondo fossero rivoluzionabili per via generazionale – abbaglio acceso dalla prima stagione della scolarità di massa, che fornì alla maggioranza dei giovani un luogo fisico in cui radunarsi e confrontarsi: condizione necessaria per potersi immaginare soggetto politico attivo. A differenza di altri requisiti (la classe sociale di appartenenza, il colore della pelle), quello relativo all’età è inevitabilmente effimero. Giovani lo si è per un periodo limitato di tempo. Aporia evidenziata dal sociologo americano Shmuel Eisenstadt in From Generation to Generation: «Le comunità giovanili sono istituzioni transitorie [...]. Perciò la cultura giovanile non può essere alla base di una controcultura, poiché i suoi valori non sono opposti a quelli degli adulti, ma rappresentano invece una preparazione a questi ultimi»3. Pensare di poter cambiare l’ordine delle cose partendo da fondamenta così fragili era un’aspirazione velleitaria, inevitabilmente destinata a naufragare, come puntualmente accadde. Molto più facile adeguarsi all’esistente, una volta varcata la soglia dell’età adulta; conquistare dunque il potere accettando le condizioni prestabilite. E anche questo è successo, visto che negli anni Novanta due baby boomers «fiancheggiatori» dell’utopia hippie come Bill Clinton e Tony Blair hanno conquistato la leadership delle due nazioni più «rock» del pianeta: Stati Uniti e Gran Bretagna. Quanto al rock in sé, imboccò la stessa via con anticipo e in modo meno appariscente. Dell’epopea hippie rimasero a galla negli anni Settanta alcuni derivati industriali: una musica (il rock, appunto), certi capi di vestiario (prodromi dello stile casual) e alcune droghe 3

Transaction, New York 1956.

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(non più grimaldelli per aprire le «porte della percezione», ma sostanze funzionali a specifici stili di vita). A conclusione di The Sociology of Rock Simon Frith scrive: «Quali che fossero le sue radicali possibilità culturali negli anni Sessanta, nei Settanta il rock è diventato una cultura di prevedibili gusti di mercato e superstar indulgenti, di untuose trasmissioni radiofoniche e suoni standardizzati: nient’altro che la solita industria musicale»4. Se occorre un esempio concreto, valga proprio quello dei Rolling Stones, macchina da rock funzionante ancora ai giorni nostri. Dopo Altamont, fondarono nel 1971 la Rolling Stones Records, inaugurando il catalogo con Sticky Fingers, e si trasferirono quindi in Costa Azzurra per sottrarsi al fisco britannico, intonando là quello che in senso artistico fu il loro canto del cigno – appropriato il titolo: Exile on Main Street. Esilio sulla strada maestra. 

According to the Rolling Stones Rolling Stones (Mondadori, 2003). Barefoot in Babylon. The Creation of the Woodstock Music Festival, 1969 Bob Spitz e Robert S. Spitz (W.W. Norton & Company, 1989). Exile on Main Street Rolling Stones (Rolling Stones, 1972). Gimme Shelter Albert & David Maysles (Polygram, 1992). Helter Skelter. The True Story of the Manson Murders Victor Bugliosi e Curt Gentry (W.W. Norton & Company, 2001). Let It Bleed Rolling Stones (Decca, 1969). The Beatles White Album Beatles (Decca, 1968). The Family Ed Sanders (Thunder’s Mouth Press, 2002). The Sociology of Rock Simon Frith (Constable, 1978). Woodstock Michael Wadleigh (Warner, 1992).





 

   



4

Constable, London 1978, p. 209.

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4 aprile 1968

Lo show di James Brown al Garden di Boston in diretta televisiva per placare gli animi degli afroamericani dopo l’assassinio di Martin Luther King. È l’epoca del Black Power.

È il sindaco della città, il neoeletto Kevin White, a prendere la decisione: non solo il concerto di James Brown si terrà ugualmente, nonostante il clima tesissimo generato dall’omicidio di Martin Luther King a Memphis, ma verrà addirittura trasmesso in televisione. White sa che James Brown è tra i pochi in grado di parlare al cuore degli afroamericani. Il Padrino del Soul – o Mr Dynamite, o ancora Soul Brother n. 1: c’è l’imbarazzo della scelta in fatto di soprannomi – è un punto di riferimento determinante per la comunità nera. Ancora nessun discorso politico fra le righe delle sue canzoni: ne avrebbe fatto uno assai esplicito qualche mese dopo in Say It Loud – I’m Black and I’m Proud («Dillo a voce alta – sono nero e fiero»). Su quel terreno, del resto, non è che James Brown abbia mai avuto in effetti una posizione unilaterale: accettò di buon grado le lusinghe dei conservatori, prima da Nixon e poi da Reagan, e nel 1984 espresse in Living in America – tema conduttore di Rocky IV – il suo incondizionato or-

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goglio patriottico. E proprio nel 1968 tenne concerti sia in Africa, culla dei suoi avi, sia per le truppe statunitensi di stanza in Vietnam. Segno che le tradizionali discriminanti politiche non facevano per lui. Ma come scrive il saggista Nelson George nelle note introduttive del libriccino allegato al cofanetto antologico Star Time: «Retrospettivamente non è importante se nei suoi giudizi politici Brown avesse ragione o torto, fosse progressista o reazionario. Il punto è ciò che Brown significava. Durante l’era dei diritti civili, il magnetismo di Brown gli assicurò rispetto e attenzione di cui pochi leader, fossero predicatori o Pantere, disponevano». Era – lo volesse o no – un simbolo del Black Power. Personaggio di successo che non aveva reciso i legami con la propria comunità. E a renderlo autentico era proprio la sua «inadeguatezza» culturale ad amministrare un simile grado di popolarità, come accade sovente ai diseredati trasformati in celebrità: dai divi del gangsta rap a Mike Tyson. Il ghetto è una condizione esistenziale, prima che materiale, da cui non ci si libera mai. Si spiegano così le sue ricorrenti intemperanze, come quando, nel 1988, venne arrestato con l’accusa di tentato omicidio (della moglie), detenzione di stupefacenti, violazioni varie del codice della strada e resistenza a pubblico ufficiale. Il tribunale lo condannò a sei anni di reclusione, scontati poi in regime di libertà vigilata grazie anche al movimento di opinione innescato dal Free James Brown Movement, associazione a cui avevano aderito artisti di ogni genere e generazione, da Little Richard a Ice T. Dietro le sbarre era finito già nell’adolescenza per rapina: anche quella volta la pena inflittagli fu di sei anni, ridotti quindi a tre per buona condotta. La sua vita era cominciata in salita: nato in South Carolina il 3 maggio 1933, dopo la separazione dei genitori fu affidato 152

a una zia che lavorava in un bordello di Augusta, in Georgia. Crebbe così – come lui stesso racconta – «fra scommesse, alcol di contrabbando e prostitute». Cominciò presto a lavorare: raccoglieva cotone, lustrava scarpe, ballava in strada per pochi spiccioli. La musica entrò nella sua vita dopo il riformatorio, ma prima veniva lo sport: boxava – fu anche sparring partner di Sugar Ray Robinson – e giocava a baseball da ricevitore. Fu un infortunio a spingerlo nell’altra direzione. Cantava gospel nei Flames e seguì il trapasso di quello stile dal sacro al profano, approdando come altri sulle sponde del soul. Non gli ci volle molto per affermarsi: già nel 1956 Please Please Please fu un 45 giri da un milione di copie e due anni dopo andò altrettanto bene Try Me. A imporne definitivamente la figura su scala nazionale fu l’album registrato in presa diretta all’Apollo Theatre di Harlem nell’ottobre 1962. Tra le sue mani la musica si trasformava, divenendo sempre più angolosa, sincopata e viscerale. Un brano in particolare simboleggiò nel 1965 la transizione dal soul al funk: Papa’s Got a Brand New Bag. Lo scarto rispetto agli standard della musica nera accettati nel mainstream era netto in canzoni come Cold Sweat, Sex Machine e Soul Power. Un vero stakanovista o, come dicevano in America, the hardest working man in show business. Dischi a ripetizione e concerti senza un attimo di respiro. Dal vivo, soprattutto, James Brown era inimitabile in quel suo modo tipicamente onomatopeico di usare la voce – un modello per «urlatori» come Otis Redding e Wilson Pickett – e nel dinamismo con cui affrontava il palco esibendosi in spaccate e piroette da funambolo. Come se non bastasse, badava personalmente ai propri affari attraverso la casa di produzione Fair Deal, diffidando dei discografici bianchi. Solo a metà anni Settanta, ormai più che quarantenne, James Brown cominciò a subire la 153

concorrenza dei giovani leoni del funk. Ma avrebbe continuato comunque a tener botta a lungo, anche perché con l’avvento dell’hip hop i breaks di alcuni brani del suo immenso repertorio (oltre duemila canzoni!), su tutti Funky Drummer e Give It up or Turn It a Loose, divennnero il pane quotidiano di cui si nutrivano i dj. A sancire l’alleanza intergenerazionale fu nel 1984 un singolo in tandem con Afrika Bambaataa: Unity. L’eco della sua musica non si è riverberata solo nell’hip hop, del resto: dal reggae di Marley (la sua Sky Train stava nel repertorio di molti gruppi ska della prima ora) all’afro-beat di Fela Kuti, l’influenza del Padrino del Soul ha avuto portata planetaria. Di tre anni più vecchio di lui e cieco dall’infanzia, Ray Charles Robinson iscrisse ancora prima il proprio nome negli annali della musica nera. Già agli albori degli anni Cinquanta, infatti, osò il grande salto dal sacro al profano. Cantante di gospel e spiritual nelle corali religiose, ne ridislocò le modalità in ambito pagano. Dopo aver fatto gavetta nei club notturni durante gli anni Quaranta, rivelò il proprio talento all’inizio del decennio seguente in canzoni come I’ve Got a Woman e What I’d Say, da molti considerate a ragion veduta atti di nascita del soul. Fu allora che Ray Charles venne ribattezzato The Genius, anche se nelle fasi seguenti della carriera – all’insegna di una musica nera pastorizzata a uso e consumo del pubblico bianco – avrebbe potuto fare di più per onorare quel titolo. A pubblicarne i dischi migliori fu l’Atlantic, etichetta fondata a New York nel 1947 da Ahmet Ertegun, figlio dell’ambasciatore turco negli Stati Uniti. È quello il marchio doc della soul music originaria, impresso sui 45 giri editi nei primi anni Sessanta da Solomon Burke e Wilson Pickett, nonché – poco dopo – su quelli dell’indiscussa regina del fenomeno: Aretha Franklin. 154

A incarnare inizialmente l’essenza stessa del genere, anche nell’intrinseca duplicità che lo fa apparire insieme spirituale e sensuale, fu però Sam Cooke. Cantante di gospel a Chicago nei Soul Stirrers, una delle più celebri formazioni vocali degli anni Cinquanta, come James Brown e Ray Charles espatriò dai circuiti ecclesiali alla volta delle ribalte mondane. Accadde nel 1956, e già l’anno dopo, con You Send Me, fu chiaro che era nata una stella. Se ne accorse la Rca, che lo scritturò e diede voce alle canzoni che lo avrebbero reso popolarissimo presso un pubblico equamente diviso fra neri e bianchi: Wonderful World, Chain Gang, Bring It on Home to Me. Un’ascesa che sembrava inarrestabile. A interromperla arrivò il destino, armando la mano della donna che – per difendersi dalle sue insistenti avances sessuali, disse dovendosi discolpare – gli sparò in un motel di Los Angeles l’11 dicembre 1964. Una tragedia che ebbe eco enorme in tutto il paese ed elevò la figura di Sam Cooke – a suon di A Change Is Gonna Come, «sempreverde» sbocciato postumo – al rango di eroe sventurato. Suo contemporaneo e concittadino era Curtis Mayfield, che debuttò appena quindicenne negli Impressions, assumendone ben presto la guida in qualità di cantante, compositore e produttore. Il momento magico del gruppo coincise con la metà degli anni Sessanta, quando seppe realizzare un classico del calibro di People Get Ready. A fine decennio, segnando così l’estinzione della scena soul locale, Mayfield sciolse gli Impressions e si mise in proprio deviando verso il funk con risultati eccellenti: a testimoniarlo è la colonna sonora confezionata per il film più noto del filone blaxploitation (i B-movies ambientati nei ghetti neri), Superfly. La città che però negli anni Sessanta divenne agli occhi del mondo capitale della black music è Detroit. Merito di Berry Gordy Jr: ex operaio Ford, nonché pugile, negoziante di di155

schi e autore di canzoni. Col ricavato di un brano, Reet Petite, portato al successo nel 1957 da Jackie Wilson, un migliaio scarso di dollari, fondò nel 1959 un’etichetta chiamata Tammie – denominazione destinata a modificarsi poi in Tamla con l’aggiunta del neologismo Motown (dalla crasi fra motor e town, a indicare appunto Detroit, «la città dei motori»). Nel quartier generale al 2648 di West Grand Boulevard, sotto l’insegna Hitsville U.S.A., vennnero scritte alcune fra le pagine più memorabili della musica pop. E la Motown era davvero «la città dei successi». Merito di un’organizzazione aziendale che applicava una divisione del lavoro di stampo «fordista»: autori (Eddie Holland, Lamont Dozier, Norman Whitfield), musicisti a gettone e cantanti. Le canzoni come prodotti confezionati con gusto impareggiabile. Ad affacciarsi per primi nei quartieri alti dell’hit parade americana furono i Miracles di Smokey Robinson, le Marvelettes e Mary Wells; toccò poi a Martha & The Vandellas, Temptations e Four Tops. Ma dal 1964 in poi galline dalle uova d’oro divennero le Supremes di Diana Ross: 12 primi posti in classifica nell’arco di cinque anni, con brani come Where Did Our Love Go?, Stop! In the Name of Love, You Keep Me Hangin’ on... Con una prerogativa inconsueta per l’imprenditoria musicale nera: gli acquirenti dei 45 giri targati Motown erano soprattutto bianchi. Tra i primi successi dell’etichetta vi fu Fingertips pt. 1: 45 giri di un enfant prodige, il tredicenne Stevie Wonder, cieco dalla nascita. Artista destinato a fiorire compiutamente nel decennio seguente: Superstition fu il suo cavallo di battaglia nel 1972, favorito da una tournée americana fatta insieme ai Rolling Stones. Vennero poi i lavori della maturità, anche se stiamo parlando di un artista poco più che ventenne: Innervisions e Songs in the Key of Life, opere che lo consacraro156

no in maniera definitiva. Negli stessi anni diede il meglio di sé Marvin Gaye, che inizialmente si era distinto più per il lavoro svolto tra le quinte per conto terzi che per le sortite individuali, eccezion fatta per il classico del 1968 I Heard It Through the Grapevine. Con album quali What’s Going on (1971) e Let’s Get It on (1973), denso di passione civile il primo e viceversa carico di erotismo il secondo, Gaye entrò nell’empireo della musica nera del suo tempo. Ma era un personaggio irrequieto e perciò refrattario alle logiche di scuderia. Dovette cambiare casa discografica e attendere il 1982 per ripetersi a quei livelli con il soul softcore di Sexual Healing. Due anni dopo la sorte gli voltò le spalle: il 1° aprile 1984, al termine di un furioso litigio, il padre lo uccise a colpi di rivoltella. Gli anni Settanta non furono altrettanto propizi per la Motown. Unico vero asso nella manica di Berry Gordy Jr rimasero i Jackson 5: banda di ragazzini che aveva chiuso il 1969 in vetta alle classifiche statunitensi con il suo primo 45 giri, I Want You Back. Attrazione principale, ovviamente, era la mascotte del quintetto: il futuro divo Michael Jackson, allora appena undicenne. Fu quella l’ultima scoperta del team Motown, che nel 1971 decise di compiere il grande passo, spostando i propri uffici da Detroit a Los Angeles. Mossa apparentemente avveduta, in realtà poco produttiva. Il meccanismo stava per incepparsi, e l’irruzione in scena dell’hip hop, colpevolmente sottovalutato dal team di Gordy, segnò l’inizio della fine. Dieci anni dopo il marchio venne acquistato dalla Mca in cambio di 61 milioni di dollari. Finiva un’avventura che aveva contraddistinto un’epoca modellando «il suono dell’America giovane», come lo definì lo stesso Gordy. A confermarlo indirettamente è la funzione svolta da alcune di quelle canzoni nel tessuto narrativo di un film «generazionale» qual è Il grande freddo di Lawrence Kasdan. 157

Altra griffe storica nella black music dell’epoca fu la Stax di Memphis, alleata della Atlantic fin dal 1960. Uno studio di registrazione diventato col tempo leggendario, uno staff di musicisti di alto profilo (alcuni dei quali affiancarono poi John Belushi e Dan Ackroyd nell’avventura dei Blues Brothers) e qualche interprete destinato al successo, da Sam & Dave a Rufus & Carla Thomas. Pur pubblicando un solo disco con quel marchio (l’album King and Queen insieme a Carla Thomas, nel 1967), essendo a contratto con la consociata Volt, era di casa alla Stax Otis Redding, cantante e autore originario della Georgia che si candidò al ruolo che era stato di Sam Cooke già col suo primo 45 giri da classifica: Mr Pitiful (poi divenuto suo soprannome: «Signor Sensibile»). Del 1965 è anche un classico come Respect, valorizzato in seguito da Aretha Franklin, mentre l’anno dopo portò con sé un long-playing ambiziosamente intestato The Otis Redding Dictionary of Soul. A quel punto, in fatto di popolarità, Redding era secondo solo a James Brown. Morì però ad appena 26 anni in un incidente aereo. Sua epigrafe in musica fu il 45 giri postumo Sitting on the Dock of the Bay. Il soul aveva perso così il suo principe ereditario. Spettò dunque all’astro nascente Al Green il compito di scrivere il capitolo conclusivo della vicenda: arrivato a Memphis in cerca di fortuna e bocciato dalla Stax, si accasò presso la neonata Hi Records, di cui fece la fortuna con brani come Let’s Stay Together e Take Me to the River. Il marcato accento spirituale che trapelava dal suo repertorio era avvisaglia del futuro: nel 1976 prese i voti e divenne pastore del Full Gospel Tabernacle. Il soul apparteneva al passato: era stata la musica nera degli anni Sessanta. Nel decennio seguente toccò al funk vaticinato da James Brown prendere il sopravvento. Tra i suoi alfieri più rappresentativi e originali vi fu senz’altro Sylvester Stewart, in 158

arte Sly Stone. Texano trasferitosi a San Francisco, dove lavorò inizialmente come tecnico di registrazione e poi come dj, mise a frutto le esperienze accumulate organizzando una formazione su scala «domestica». Parenti e amici, bianchi e neri, uomini e donne: una famiglia, per quanto eterogenea. E la denominazione scelta fu appunto Sly & The Family Stone. Lo stile del gruppo si definì alla confluenza tra il funk appena coniato da James Brown e – siamo nel 1967 – la vibrazione «psichedelica» che percorreva Haight Ashbury, roccaforte hippie nella Bay Area. La risultante dei due vettori fu una musica che prima non esisteva: ben oltre i canoni formalizzati da Motown e Stax, ma anche dallo stesso James Brown. A Whole New Thing («Una cosa completamente nuova») era intitolato il disco con cui la Family esordì. Il botto arrivò nel 1968 col singolo Dance to the Music e in modo ancora più fragoroso l’anno dopo al suono di Everyday People (al primo posto in classifica tra i 45 giri), preludio a un album memorabile: Stand!. Sly e famiglia furono invitati così a Woodstock, dove trionfarono: la sequenza in cui li si ammira mentre «elevano le menti» con I Want to Take You Higher è uno dei momenti più intensi del film che documenta il festival. Insieme a Jimi Hendrix, Sly & The Family Stone aprirono in quell’occasione un canale di comunicazione diretta fra controcultura hippie e comunità afroamericana. Ma Hendrix morì un anno dopo e il contatto con gli anni Settanta fu duro anche per Sly. Grane legali, tensioni nel gruppo, eccesso di stupefacenti... E il quadro culturale circostante in via di disgregazione: le Black Panthers erano sull’orlo della dissoluzione e il Movimento stava ammainando i suoi vessilli. Risultato di tutto ciò fu un’opera cupa, cinica e pessimista, metafora individuale del disagio di una nazione: There’s a Riot Goin’ on. Un disco entrato ciò nonostante – o forse invece 159

proprio per questo – nella storia. In copertina la bandiera americana con fiori al posto delle stelle. Ma stava per essere imboccata la china discendente: qualche sussulto ancora, sempre più flebile, e con la fine degli anni Settanta l’astro di Sly Stone si spense definitivamente. Brillava invece come mai prima, allora, quello di George Clinton: altro esponente di spicco nell’area più visionaria della black music. Per descrivere ciò che suonava venne coniato il neologismo funkadelia – all’incrocio tra funk e psichedelia. Originario del North Carolina, Clinton si era segnalato già alla fine degli anni Cinquanta con l’eccentrico doo wop dei suoi Parliaments, per altro scartati dopo un provino dalla Motown. Non potendo impiegare quel nome per un inghippo contrattuale, il capobanda decise di fondarne un’altra detta appunto Funkadelic, stilisticamente debitrice tanto nei confronti di Hendrix quanto di Sly Stone. Uno strano oggetto da lui così descritto: «Eravamo straccioni. Poi vennero gli hippie e dissero: ‘Sono perfetti!’. Potevamo fare gli straccioni di professione». E mentre i Funkadelic macinavano un disco dietro l’altro, si sbloccò l’affaire Parliament (che nel trapasso persero la «s»). Meno rock e più funk, anzi: pure funk, o brevemente P-funk – praticamente una categoria dello spirito. Con qualcosa in più, come spiega eloquentemente l’interessato: «Sapevo che il rock’n’roll era morto, ma rimaneva uno spazio per la teatralità. E noi volevamo occuparlo: non c’erano neri là. Allora dissi: questa è la cosa da fare, vestirsi di lamé e via». La risposta nera al glam rock fu un successo. Dal vivo la messinscena era folgorante: un’astronave sul palco e i musicisti addobbati come afro-marziani (qualcosa di simile a ciò che sperimentava Sun Ra sul fronte del jazz). E intanto – siamo nel 1978 – i Funkadelic avevano piazzato un brano in classifica: One Nation Under a Groove. Gli anni Ottanta sarebbero stati meno 160

generosi con Clinton, indirettamente ricompensato tuttavia da produttori e dj dell’hip hop, impegnati a riciclare le sue musiche quasi quanto quelle di James Brown. Dal canto suo egli benedisse, producendone il secondo album, Freaky Styley, i propri discepoli bianchi Red Hot Chili Peppers. Il fermento straordinario che scosse la musica nera a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta generò effetti collaterali di non poco conto nei circoli del jazz. Primo e più convinto interprete della rivoluzione culturale che avrebbe sovvertito precetti e gerarchie del genere fu Miles Davis, che ispirandosi a Hendrix e Sly Stone decise di cambiare volto alla propria musica, anzitutto elettrificando la strumentazione. Un’eresia che tolse il sonno ai puristi, ma fece circolare aria fresca in un mondo che dopo l’impennata free degli anni Sessanta stava accomodandosi nuovamente sui cliché. L’uscita di dischi come In a Silent Way, Bitches Brew e Live Evil sconcertò i tradizionalisti ed entusiasmò gli spiriti liberi, germinando poi una galassia di esperienze collaterali animate ciascuna da musicisti che avevano collaborato con Davis in quel periodo. La Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin. I Weather Report di Joe Zawinul e Wayne Shorter. Gli Headhunters di Herbie Hancock. I Return To Forever di Chick Corea. Unico inconveniente: le scorie di lavorazione da cui sarebbe stato ricavato un sottoprodotto chiamato jazz-rock, o fusion. Ma lasciamoci guidare nel nostro cammino dallo stesso Davis, che a un certo punto, anni dopo, disse di aver incontrato «il Duke Ellington degli anni Ottanta»: Prince Roger Nelson da Minneapolis. A detta di Andy Warhol – fanno testo i suoi Diari – protagonista del migliore concerto visto in vita sua. Prince è l’erede dei visionari neri degli anni Sessanta e Settanta. La sua macedonia musicale a base di soul, funk, rock, jazz ed erotismo tira in ballo Hendrix e Sly Stone, George 161

Clinton e Miles Davis, James Brown e Marvin Gaye. Non sempre l’amalgama tra gli ingredienti è perfetto, ma spesso il risultato finale va oltre la semplice somma degli stessi, prefigurando musiche inedite. La marcia verso il successo di Prince è progressiva e raggiunge infine l’apice nel 1984 con Purple Rain: disco – con film complementare: una sorta di videoclip in formato maxi – che arriva a vendere oltre 17 milioni di copie. Da quel momento in poi, e per un certo periodo, il personaggio diventa un intoccabile, anche perché consolida la propria fama con opere di livello eccellente come il divertissement psichedelico Around the World in a Day, Parade e il doppio album Sign O’ the Times. Diviene così icona degli anni Ottanta al pari di Madonna e Michael Jackson. Ma a lungo andare paga lo scotto della propria megalomania. L’idea di un reame tutto suo – il Paisley Park: studio di registrazione, sala concerti, marchio discografico e quant’altro – si sgretola di fronte alla realtà e gli anni Novanta, segnati dalla sua pretesa di non farsi chiamare più Prince e dai continui dissidi con l’industria discografica, che lo porteranno ad autogestire il proprio materiale via Internet, finiranno per distrarlo dal vero obiettivo: la musica. Il Principe così ha abdicato e il trono del funk è rimasto vacante. 

  

  

Funk. The Music, the People and the Rhythm of the One Rickey Vincent (St Martin’s Griffin, 1996). Hitsville Usa. The Motown Singles Collection (Motown, 1992). Live at the Apollo 1962 James Brown (King, 1963). Soul Music. Gli anni d’oro della musica nera Peter Guralnick (Arcana, 1987). Superfly Gordon Parks Jr (Goodtimes, 1998). The Complete Stax/Volt Singles 1959-1968 (Atlantic, 1991). The Death of Rhythm & Blues Nelson George (E.P. Dutton, 1989).

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The Godfather of Soul James Brown e Bruce Tucker (Fontana/Collins, 1986).  There’s a Riot Goin’ on Sly & The Family Stone (Epic, 1971).  What’s Going on Marvin Gaye (Tamla Motown, 1971).

18 giugno 1967

Jimi Hendrix suona al festival di Monterey. Mancano tre giorni all’inizio dell’Estate dell’Amore. Il sogno degli hippie prende forma nelle comuni di Haight Ashbury.

Capelli a cespuglio. Abbigliato in modo pittoresco: «Ho sempre sognato di vestire come Alì Babà o il prigioniero di Zenda», diceva. Tuttora simbolo riconosciuto e venerato nell’iconografia rock, rango conquistato grazie alle imprese compiute in appena quattro anni. Segno che ciò di cui è stato capace in un lasso di tempo così breve era densissimo di significati. Un uomo e la sua chitarra: elettrica. Quasi un’appendice del corpo. Simbolo fallico, a detta di alcuni, che spiegano così il fascino da lui esercitato sul pubblico femminile: il nero adorato dalle bianche (lo osservò per primo Frank Zappa in un saggio pubblicato dal periodico «Life»). E come suonava quella chitarra! In modo selvaggio eppure virtuoso: coi denti o alla cieca, tenendola dietro la testa. Estraeva dalla Fender Stratocaster sonorità inaudite. Come quella tipo bombardiere-in-azione-sul-Vietnam in cui sarebbe degenerata la sua apocalittica versione dell’inno americano Star Spangled Banner all’epilogo del festival di Woodstock. Non solo

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effetti speciali. Istintivamente rivoluzionario nell’approccio allo strumento, ne ha ridefinito il senso violando le norme sintattiche e grammaticali fin lì acquisite. La chitarra in fiamme al termine dell’esibizione a Monterey, che nel montaggio cinematografico il regista Don Pennebaker valorizza come apogeo del festival, è un’efficace allegoria dell’ardente spirito eversivo che animava Jimi Hendrix. E c’era dell’altro. La maniera in cui rielaborava in musica e immagini alcuni fondamentali archetipi neri del rock: Robert Johnson e Chuck Berry su tutti. Se era vero che quello stile figlio del blues e del rhythm’n’blues aveva subito un processo di candeggio a beneficio del pubblico bianco, Hendrix ne riportava il tasso di melanina alla soglia dovuta. Nei mesi immediatamente precedenti la morte stava progettando una formazione all blacks che avrebbe voluto chiamare Gipsy Sun & Rainbows, di cui fu prototipo il gruppo in azione a Woodstock, ridotto a trio e rinominato Band Of Gipsys. Sollecitazione accolta poi, nel 1986, dal chitarrista post-hendrixiano Vernon Reid, allora leader del quartetto nero Living Colour e in tandem col critico musicale Greg Tate fondatore della Black Rock Coalition. Obiettivo della quale era restituire ai neri il rock sottratto loro 30 anni prima da bianchi sordi all’appello lanciato nel 1954 dall’Alabama White Citizens Council: «Il rock’n’roll ridurrà l’uomo bianco al livello dei negri». Hendrix non pensava affatto a un separatismo al contrario. Anzi. Praticava – così come faceva in contemporanea Sly Stone – un audace tentativo di conciliazione fra black music e sottocultura hippie. E così facendo suonava musica meticcia. Nero di carnagione, James Marshall Hendrix aveva sangue pellerossa nelle vene per parte di madre. Originario di Seattle, città in cui nacque il 27 novembre 1942 e dove oggi viene ricordato in chiave museale dall’Experience Music Project 165

(struttura finanziata dal cofondatore di Microsoft Paul G. Allen, inaugurata nel giugno 2000), fu allevato dal padre, un appassionato di blues e rhythm’n’blues che non tardò a intuire la vocazione musicale del figlio. Gli regalò una chitarra al compimento del dodicesimo anno e con quello strumento – battezzato Betty Jean – il giovane Hendrix imboccò il proprio percorso da autodidatta: emulava i suoni che arrivavano dai dischi paterni e dalla radio, interferenze incluse. La scuola non faceva per lui. E nemmeno l’esercito, dove si arruolò come paracadutista nel 1959. Una volta rimessi gli abiti civili, ruppe gli indugi e cominciò a fare gavetta. Tra il 1963 e il 1965 accompagnò un’infinità di artisti diversi: Little Richard, Wilson Pickett, Ike & Tina Turner, Impressions, Isley Brothers, Jackie Wilson, Percy Sledge, Curtis Knight... Infine si mise in proprio con lo pseudonimo Jimmy James: suonava blues per i bianchi che frequentavano i club del Greenwich Village, a New York. Fu in una di quelle occasioni che venne notato da Chas Chandler, bassista degli Animals in procinto di lasciare il gruppo. Era il luglio 1966. Chandler ne rimase impressionato e lo convinse a seguirlo in Inghilterra con la promessa di uno sbocco discografico. E così fu. Affiancato da due strumentisti inglesi (e bianchi), il bassista Noel Redding e il batterista Mitch Mitchell, Hendrix aveva un gruppo tutto suo: gli Experience. Il debutto dal vivo ebbe luogo all’Olympia di Parigi, nell’ottobre dello stesso anno, dove il trio fece da «spalla» alla rockstar locale Johnny Halliday. Tempo due mesi ed ecco il primo 45 giri: sul lato A la versione di uno standard minore dell’epoca intitolato Hey Joe. In Gran Bretagna finì direttamente in hit parade e innescò l’ascesa del personaggio, che fu vertiginosa. L’album Are You Experienced, edito nel maggio 1967, non conquistò il primo posto in classifica solo perché davanti aveva Sgt. Pepper... dei 166

Beatles, e nell’arco dei primi 12 mesi di vita gli Experience tennero sull’isola circa 180 concerti. Per conquistare l’America dovettero attendere invece la performance di Monterey, ma dopo la strada fu in discesa anche lì: quando a fine anno uscì il secondo disco, Axis: Bold as Love, raggiunse il suo predecessore nella sezione best seller. Jimi Hendrix era diventato un caso. «L’Elvis nero», titolò il «New York Times» nel febbraio 1968. Proprio quando la scuola da cui era stato cacciato quattordicenne gli conferì il diploma onorario. Nel maggio dello stesso anno gli Experience furono per la prima – e unica – volta in Italia, facendo scalo a Milano, Bologna e Roma. E già era a buon punto l’opera che in ottobre avrebbe consacrato definitivamente Hendrix: il doppio album Electric Ladyland, al primo posto in America nonostante la censura abbattutasi sulla copertina che ritraeva un gruppo di donne senza veli. Ma Hendrix era sempre più insofferente del controllo esercitato da Chandler, il quale a sua volta non ne tollerava gli eccessi in fatto di stupefacenti – carburante spirituale non ancora percepito come inquinante da chi ne faceva uso. E così la situazione precipitò: Chandler abdicò al ruolo di manager, Hendrix fu pizzicato dalla polizia all’aeroporto di Toronto con addosso una scorta di eroina e gli Experience si disintegrarono proprio alla vigilia di Woodstock. Hendrix era in balìa degli eventi, stressato e incerto sul da farsi. Unico rifugio: gli studi Electric Lady, che aveva allestito a New York coi primi guadagni, e dove lavorava a un disco che immaginava di intitolare First Ray of the New Rising Sun. Ma doveva anche onorare gli impegni dal vivo. Un festival dopo l’altro, nell’estate del 1970: ad Atlanta, sull’isola di Wight, a Berlino e sull’isola di Fehmarn, ancora in Germania – il suo ultimo concerto. La mattina del 18 settembre, nell’hotel Samarkand a Londra, l’amica con cui divideva la 167

stanza lo rinvenì agonizzante: soffocato dal vomito. L’esame autoptico avrebbe rivelato la presenza in corpo di tranquillanti: ufficialmente niente droghe. Si spense così una delle stelle più luminose del rock, che tuttavia continuò a vivere una vita artificiale man mano che veniva prosciugato l’enorme archivio di materiale registrato in studio e dal vivo. Un traffico di interessi per regolare il quale dovettero intervenire infine gli avvocati. Identica sorte è toccata nel 2003 ai superstiti dei Doors: l’un contro l’altro armati per contendersi in tribunale la titolarità del nome. Assente l’unico che avrebbe potuto legittimamente rivendicarla: James Douglas Morrison, detto Jim – morto il 3 luglio 1971 a Parigi (arresto cardiaco è scritto nel referto) e là seppellito, accanto a Chopin, Balzac, Oscar Wilde ed Edith Piaf, nel cimitero di Père Lachaise, divenuto da allora meta di pellegrinaggio per gli ammiratori inconsolabili. Benché tra costoro vi sia ancora chi pensa che Jim Morrison – «avvistato» qui e là nel mondo come Elvis – non sia morto veramente. Uno di quei simulacri che sopravvive al decomporsi della materia. In occasione del decennale della scomparsa, mettendolo in prima pagina, il quindicinale «Rolling Stone» titolò: He’s hot, he’s sexy and he’s dead («Va forte, è sexy ed è morto»). E ancora dieci anni dopo, nel 1991, ecco il film celebrativo: The Doors. Racconta il regista Oliver Stone: «Ero in Vietnam quando ascoltai i Doors per la prima volta: stavo al campo base con dei ragazzi neri, di notte – forse fumavamo erba. Pensai che era musica surreale, aliena. Mi faceva sballare. Era in sintonia con la situazione pazzesca in cui ci trovavamo». Ragionamento simile a quello fatto presumibilmente dal suo collega Francis Ford Coppola, che per introdurre e concludere Apocalypse Now scelse uno dei brani più celebri del gruppo: The End. 168

Una deriva che forse non è casuale. Oltre a storia del teatro, scenografia e arte rinascimentale, nel piano di studi universitario di Jim Morrison c’era molto cinema. Pensava a quello più che alla musica. Fu un altro studente dell’Ucla di Los Angeles, Ray Manzarek, a spingerlo nell’altra direzione. I Doors nacquero così, nel 1965. Già l’origine del nome spiega alcune cose di loro. Allude a The Doors of Perception1, saggio di Aldous Huxley dedicato all’esperienza psichedelica e ispirato alla figura del poeta e pittore britannico William Blake. Sua la massima da cui deriva il titolo: «Se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo per come veramente è: infinito». Blake non è l’unico «cattivo maestro» da cui Morrison trasse ispirazione: apprezzava i simbolisti francesi, leggeva Céline e ammirava il Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud. Ma più di tutti era stato Nietzsche a suggestionarlo, in particolare La nascita della tragedia dallo spirito della musica, dove alla concezione apollinea dell’arte il filosofo tedesco oppone lo spirito dionisiaco. Influenza nefasta, a detta di John Densmore, batterista dei Doors: «È stato Nietzsche a uccidere Jim Morrison»2. Che non fosse soltanto musica era evidente, del resto: il mito di Edipo rinnovato in The End, l’alternanza irresolubile fra Eros e Thanatos, il carattere mitologico dell’alter ego Re Lucertola, la consapevolezza che Morrison aveva della propria forza comunicativa... «Sono una scultura vivente», disse a un certo punto. Dal vivo, soprattutto, esercitava il suo carisma sulle folle come poteva fare uno sciamano. «Vogliamo il mondo e lo vogliamo ora», gridava al culmine di When the Music’s Over, benché fosse un ribelle senza causa. Nel primo 1 2

Trad. it. Le porte della percezione, Mondadori, Milano 1958, 2003. Riders on the Storm, Delta Books, New York 1991, p. 3.

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comunicato stampa affermava: «Sono stato sempre attratto dalla rivolta contro l’autorità [...]. Mi interessa tutto ciò che riguarda la ribellione, il disordine, il caos...». Ma l’unica volta che venne arrestato, a Miami nel 1969, fu per atti osceni in luogo pubblico: aveva esibito i genitali durante un concerto. A quel punto i Doors erano un gruppo affermato ma prossimo alla crisi, essendo Morrison frustrato dall’evidente divorzio in atto fra arte e successo. Quattro dischi alle spalle, editi nell’arco di due anni, e altri tre dinanzi a sé – l’ultimo, L.A. Woman, uscì postumo nel 1971. Omettendo ovviamente quelli realizzati poi senza Morrison, davvero insignificanti. Avevano raggiunto lo zenit nell’estate del 1967 quando, constatandone l’improvvisa ascesa, l’«Evening Post» li definì «i Norman Mailer dell’hit parade». Il 45 giri più venduto in America era in quei giorni Light My Fire. Stava sbocciando l’Estate dell’Amore, apoteosi dell’epopea hippie. I Beatles cantavano in mondovisione All You Need Is Love – praticamente un inno al Flower Power – e San Francisco era il posto dove stare. Nell’area di Haight Ashbury si radunarono allora spontaneamente decine di migliaia di ragazzi richiamati da un’utopia che sembrava a portata di mano. Nelle comuni insediate in zona vigeva un’allegra anarchia: si praticava l’amore libero, la droga circolava naturalmente ed era come se si stessero sperimentando nuovi modelli di vita – abiti e comportamenti, religione e medicina, cibo e sentimenti: ogni cosa poteva e doveva essere «alternativa» ai codici costituiti. C’erano i Diggers, che offrivano gratuitamente ospitalità e generi di prima necessità ai nuovi arrivati autofinanziandosi con metodi spregiudicatamente illegali, e i Merry Pranksters, che distribuivano Lsd infischiandosene del fatto che nell’ottobre 1966 la sostanza sintetizzata dal chimico svizzero Albert Hoffmann nel 1943 era stata 170

dichiarata fuorilegge. Leader di quest’ultima combriccola era Ken Kesey, noto ai più come autore del romanzo Qualcuno volò sul nido del cuculo (da cui l’omonimo film di Milos Forman). Strano personaggio che, reduce dall’esperienza della Beat Generation, insieme ad altri volontari aveva accettato di sottoporsi a un programma di studio dell’Università di Stanford sugli effetti dell’acido lisergico (com’è chiamato in chimica l’Lsd) sull’uomo e, terminato l’esperimento, si era avventurato coi suoi simili in giro per il mondo a bordo del leggendario Magic Bus. Altro agitatore culturale in piena azione era Timothy Leary: ricercatore all’Università di Harvard e a sua volta convinto assertore dei benefici effetti dell’Lsd sull’animo umano. Suo lo slogan che segnò quella stagione: Turn on, tune in, drop out («Accenditi, sintonizzati, vai fuori»). Proprio Leary, insieme ad Allen Ginsberg, fu tra i protagonisti dello Human Be-In animato da gruppi come Grateful Dead e Jefferson Airplane il 14 gennaio al Golden Gate Park di San Francisco. Non il primo evento del genere (il 6 ottobre dell’anno precedente ne era stato organizzato uno per protestare contro la messa al bando dell’Lsd), ma numericamente il più significativo: al raduno parteciparono almeno 20mila persone. Musica, droghe e relazioni umane: una ricetta semplice. Che già era stata sperimentata su scala ridotta dai Merry Pranksters di Kesey, promotori degli Electric Kool-Aid Acid Test: happening in cui veniva servita una bevanda a base di Lsd e aranciata con contorno di luci e musiche «psichedeliche», come racconta Tom Wolfe nel romanzo omonimo (in italiano: L’Acid Test al rinfresko elettriko). Sembrava che il mondo intero vibrasse in armonia con ciò che stava accadendo a San Francisco. Il «sogno in technicolor» all’Alexandra Palace di Londra, le provocazioni situazioniste dei Provos ad Amsterdam, 171

le avvisaglie del maggio francese a Parigi, persino l’incipiente Primavera di Praga. Parola d’ordine era: libertà. Eppure alcune contraddizioni erano evidenti. Come conciliare l’impulso all’edonismo individuale – che sarebbe esploso poi senza più remore negli anni Ottanta, ultimo e amaro frutto di quella stagione libertaria – con lo spontaneismo collettivista praticato nelle comuni? O, peggio, come evitare che le opzioni «alternative» finissero per tramutarsi in merci? Già nel 1967 la Gray Line Bus Company gestiva l’Hippie Hop: giro turistico per curiosi nella zona di Haight Ashbury. E l’anno dopo l’Estate dell’Amore sarebbe diventata soggetto da avanspettacolo spendibile a Broadway nel musical Hair. Avevano probabilmente in testa dubbi simili i promotori della processione Death of Hippie, organizzata il 6 ottobre dello stesso anno a San Francisco. Altri, come Abbie Hoffmann e Jerry Rubin, scelsero la strada della politica militante fondando lo Youth International Party. Lo scenario sembrava promettente, ma c’erano nubi cupe all’orizzonte. E se è vero che il 1968 fu una stagione di straordinaria vitalità generazionale, altrettanto vero è che alla fine la dura realtà prevalse sull’immaginazione. Vennero assassinati Martin Luther King e Robert Kennedy, Richard Nixon fu eletto presidente, la Primavera di Praga venne repressa nel sangue dall’esercito sovietico. E a liberare il Vietnam, anni dopo, avrebbero dovuto pensarci anzitutto i vietcong. Ci si poteva consolare con la musica: l’espressione West Coast valeva ormai a designare uno stile. Tutti i principali protagonisti della stagione musicale californiana si erano ritrovati sul palco di Monterey, nella tre giorni che rivelò all’America il talento di Hendrix. Tra loro i Grateful Dead, gruppo che più di ogni altro era implicato nei fermenti controculturali di San Francisco. Il primissimo acid test organizzato dai Merry Pranksters, il 4 dicembre 1965 a 172

San Jose, poté far conto sulla loro presenza e durante la Summer of Love la banda guidata da Jerry Garcia aveva una comune tutta sua al 710 di Haight Ashbury. Nome enigmatico, «il morto riconoscente», che Garcia sosteneva di aver ricevuto in «visione», e musiche fuori da ogni schema: asimmetrico mosaico a base di folk, esotismo, elettronica e rock. Un genere a sé, che rendeva soprattutto dal vivo, quando i Dead si avventuravano in improvvisazioni ispirate all’umore del momento. Diseguale era invece l’offerta discografica, smerciata a quei tempi dalla major Warner Bros. Garcia e i suoi cambiarono registro dopo l’incidente di Altamont, di cui furono corresponsabili, avendo suggerito il reclutamento degli Hell’s Angels per la gestione della sicurezza. Fu uno shock. Che tuttavia non impedì loro di proseguire a lungo la propria carriera e tramutarsi così in una sorta di culto iniziatico – più religione pagana che semplice fan club – i cui adepti si facevano chiamare deadheads. Altrettanto autorevoli erano all’epoca i Jefferson Airplane, anch’essi in scena a Monterey e principali alfieri della Love Generation. Proprio nell’estate del 1967 avevano due canzoni ben piazzate nell’hit parade statunitense: Somebody to Love e White Rabbit – forse la più esplicita apologia rock dell’Lsd, quella ispirata al Coniglio Bianco di Alice nel paese delle meraviglie. A dar slancio lirico a entrambe era la voce nitida di Grace Slick, da poco entrata a far parte del gruppo: vera sacerdotessa dei riti profani celebrati a San Francisco. In sintonia con gli impulsi sediziosi di quella generazione, provarono poi – nel 1969 – a metterli in musica nel disco più esplicitamente politico prodotto dalla scena californiana: Volunteers. Lo scarto in senso militante imposto da Paul Kantner, a quel punto leader della formazione, provocò tuttavia una diaspora in seno al gruppo: nel giro di un anno, fra il 173

1970 e il 1971, se ne andarono tre membri fondatori – Marty Balin, Jorma Kaukonen e Jack Casady. Defezioni tali da imporre un ripensamento. Nel nome rimase Jefferson, ma Airplane si tramutò in Starship. E la sensazione era che, non potendosi realizzare in Terra, l’utopia hippie stesse per imbarcarsi in chissà quale improbabile viaggio interstellare. Chi sul palco di Monterey si presentò da primattore affermato furono i Byrds: due anni prima in vetta alle classifiche americane col 45 giri Mr Tambourine Man – una canzone di Bob Dylan suonata come avrebbero potuto fare i Beatles. Era appunto quello il piano che aveva in testa Roger McGuinn, principale forza motrice del gruppo con il caratteristico timbro della sua Rickenbacker a 12 corde, per definire il quale venne coniata l’onomatopea jingle jangle. Canzoni folk con qualche grillo per la testa. Era accaduto quando i Byrds fecero circolare la propria versione di Turn Turn Turn: brano scritto dal folksinger Pete Seeger rielaborando versi biblici tratti dall’Ecclesiaste. Ma fu nel 1966 che, in perfetta sintonia con lo spirito dei tempi, confezionarono un album – Fifth Dimension – e un singolo – Eight Miles High – di cui già i titoli suggeriscono forma e contenuto: psichedelia rock in quintessenza che anticipa le vibrazioni della Summer of Love. Un album ancora, Younger than Yesterday, preceduto in chiave autoironica dal 45 giri So You Want to Be a Rock’n’Roll Star, e i Byrds persero per strada uno dei personaggi chiave: David Crosby. Che insieme a due transfughi dei Buffalo Springfield (artefici di uno dei classici del 1967: For What It’s Worth), Neil Young e Stephen Stills, e all’inglese Graham Nash, in arrivo dagli Hollies, avrebbe dato vita ben presto a uno dei supergruppi più popolari degli anni Settanta. L’altra stella che insieme a Jimi Hendrix cominciò a brillare nel firmamento rock americano approfittando dell’occa174

sione offerta dalla ribalta di Monterey fu Janis Joplin. Cantante originaria del Texas di chiara impostazione blues, si era accasata a San Francisco nel 1966, entrando a far parte dei Big Brother e divenendone immediatamente punto focale. L’esibizione a Monterey fu di un’intensità tale da calamitare sul personaggio attenzioni che l’album edito poche settimane dopo poté soddisfare soltanto in parte. Si dovette attendere così il disco dal vivo del 1968 per avvistare Janis Joplin ai vertici dell’hit parade statunitense: illustrato da una copertina disegnata dal fumettista Robert Crumb, Cheap Thrills restituiva fedelmente il pathos che il gruppo sapeva creare e trasmettere in concerto. L’ebbrezza del successo la spinse a giocare poi una carta da solista, ma i risultati non furono soddisfacenti. E la personalità dell’artista era fragile, tormentata – la descrive il regista Mark Lydell nel film The Rose ispirato alla sua figura, con protagonista Bette Midler. Cercò allora conforto nell’alcol e negli stupefacenti. Ma avrebbe trovato la morte, il 4 ottobre 1970, anch’ella ventisettenne, come Hendrix e Morrison. L’album pubblicato postumo nel 1971, Pearl, valse come suffragio e dominò incontrastato per due mesi in vetta alla classifica dei dischi più venduti. Magrissima consolazione. Non bella ma dotata di carisma straordinario, Janis Joplin poteva diventare la vera diva rock del suo tempo. Ma c’era qualcosa che la consumava. Poco prima di andarsene, intervistata, aveva confessato: «Quando sto sul palco faccio l’amore con migliaia di persone, alla fine però torno a casa da sola». Vale come laconico epitaffio dell’utopia che aveva scaldato i cuori di un’intera generazione.  Are You Experienced Jimi Hendrix Experience (Track, 1967).  Cheap Thrills Big Brother/Janis Joplin (Columbia, 1968).  Fifth Dimension Byrds (Columbia, 1966).

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Jimi Hendrix. Una chitarra per il secolo Charles Shaar Murray (Feltrinelli, 1992). L’Acid Test al rinfresko elettriko Tom Wolfe (Feltrinelli, 1968). Live Dead Grateful Dead (Warner Bros, 1969). Monterey Pop D.A. Pennebaker (Columbia Tristar, 1988). The Doors Doors (Elektra, 1967). The Doors Oliver Stone (Avid, 1999). The Haight Ashbury. A History Charles Perry (Random House, 1985).

13 maggio 1967

Al Scene di New York si conclude il cammino dell’«Exploding Plastic Inevitable» creato da Andy Warhol intorno ai Velvet Underground: primo prototipo di show multimediale.

Tutt’altra cosa da un concerto tradizionalmente inteso. O meglio: la profezia di ciò che lo spettacolo rock sarebbe diventato in seguito. Musica e non solo. Anzi: la musica come ingrediente fra i tanti. Proiezioni di film e diapositive addosso a chi suona (indossando occhiali da sole: una necessità destinata a tramutarsi in moda), ballerini e animatori sul palco, e soprattutto le luci: fari e stroboscopi. Una novità registrata persino da Marshall McLuhan nel trattato The Medium Is the Massage. Merito di Andy Warhol, che aveva cooptato i Velvet Underground nell’entourage della Factory coinvolgendoli in happening multimediali come Uptight, nel febbraio dell’anno prima al Cinemathéque di New York. È lui il regista della messinscena. Racconta Gerard Malanga, allora suo assistente: «Nessuna delle idee usate apparteneva ad Andy più che a chiunque altro, ma era sicuramente la sua presenza a dare coesione all’insieme». La prima dell’Exploding Plastic Inevitable si era svolta al Dom di St Mark’s Place, a Manhat-

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tan, nell’aprile 1966, dopo di che lo show aveva attraversato l’America mutando continuamente aspetto e accogliendo via via i contributi di ospiti occasionali come Allen Ginsberg e Salvador Dalì. Non fu un successo in termini economici, ma il segno che ha lasciato è indelebile. Sorte analoga a quella del disco con cui i Velvet Underground avevano esordito nel marzo di quell’anno. Da molti osservatori considerato a ragion veduta una delle opere più influenti nell’intera storia del rock, capace però di raggiungere come traguardo massimo in classifica un misero 171° posto. The Velvet Underground and Nico, nominalmente prodotto da Warhol, che si limitò invece al ruolo di supervisore, essendo però responsabile del packaging (la banana effigiata in copertina – un evidente simbolo fallico – era «sbucciabile» nella prima edizione), aveva contenuti troppo forti per poter circolare liberamente. Canzoni che parlavano di droga (Heroin, Waiting for the Man), perversioni sessuali (Venus in Furs) e vite spericolate (All Tomorrow’s Parties, Femme Fatale) immerse in un bagno di sonorità abrasive (European Son, The Black Angel’s Death Song). Le radio evitarono accuratamente di programmarle e anche la stampa preferì soprassedere. Ovviamente indigeribile dal mainstream, quel disco era in verità ostico anche per i canoni idilliaci della controcultura. I Velvet Underground non avevano nulla a che vedere con il fenomeno hippie: ne rappresentavano anzi la negazione. E gli attriti con la scena locale che caratterizzarono le tappe californiane dell’Exploding Plastic Inevitable ne furono la riprova. Era musica metropolitana, dagli spigoli vivi: un viaggio nel cuore di tenebra del sottobosco urbano, popolato da tossici, spacciatori, magnaccia e travestiti. Come una sfida: cercare fiori nella spazzatura. Ciò che poi avrebbe fatto il punk, della cui indole nichilista i Velvet offrirono un folgorante presa178

gio. E così facendo demolirono i luoghi comuni su cui si reggeva il mito dei Sixties, operando un drammatico scarto in termini di forma, senso e contenuto rispetto a ciò che accadeva intorno a loro – all’Estate dell’Amore subentrava l’Inverno del Malcontento. Musica fuori sincronia col presente, proiettata com’era verso il futuro. Perciò pagò pedaggio. È il destino dei precursori. Ma il tempo è galantuomo e, come si diceva, la storia si è incaricata di restituire ai Velvet ciò che l’attualità non aveva riconosciuto loro. Molto del rock più avvincente prodotto nei decenni seguenti – dal Bowie formato Ziggy Stardust fino ai Radiohead – è debitore delle intuizioni espresse allora dal gruppo imperniato sulle figure di Lou Reed e John Cale. Ma l’importanza dei Velvet Underground non si ferma qui. Intervistato nel 1997 proprio da Lou Reed, estemporaneo inviato di «Rolling Stone», il presidente della Repubblica Ceca Vaclav Havel raccontò questo aneddoto: «Alla fine degli anni Sessanta da noi ci fu un’ondata di musica rock, ma dopo l’invasione sovietica la maggior parte dei gruppi si sciolse [...] poiché il rock era stato addirittura messo al bando. Un gruppo in particolare resistette, non cambiò nome e non si trasformò [Plastic People Of The Universe]. E il suo stile musicale era stato influenzato sensibilmente dai Velvet Underground, dei quali avevo portato con me il disco tornando da New York nel 1968. Alla fine furono arrestati. Con alcuni amici organizzammo una campagna contro la loro detenzione [...] e fu così che nacque il movimento per i diritti umani Charta 77. Perciò dico che la musica, in particolare il disco di un gruppo chiamato Velvet Underground, ebbe una parte piuttosto significativa nell’evoluzione del nostro paese». Sarà un caso che gli eventi successivi siano ricordati come «rivoluzione di velluto»? 179

Il nome – «velluto sotterraneo» – lo suggerì Tony Conrad, artista d’avanguardia amico di Cale, dopo aver adocchiato su un banchetto di libri usati l’omonimo volume di Michael Leigh: un pamphlet sul sadomasochismo. Era il 1965. John Cale e Lou Reed avevano cominciato a frequentarsi da un anno e vivevano insieme in un appartamento di Ludlow Street, a Manhattan. Il primo, gallese di origine, era sbarcato negli Stati Uniti nel 1964, dopo aver vinto una borsa di studio per frequentare presso il conservatorio di Tanglewood, a Boston, i corsi tenuti da Leonard Bernstein e perfezionare così la propria formazione accademica. A fine anno si era trasferito a New York, attratto dalla scena sperimentale che faceva capo al movimento Fluxus, con cui entrò in contatto collaborando con Conrad e LaMonte Young. Lou Reed, più giovane di tre anni, era chitarrista e paroliere: scriveva allora canzoni «a gettone» per conto dell’editrice Pickwick, avendo alle spalle gli studi letterari compiuti alla Syracuse University, dov’era stato allievo del poeta Delmore Schwartz. A completare l’organico del gruppo furono chiamati il chitarrista Sterling Morrison, già compagno di studi di Reed, e – subito prima di esordire dal vivo – Maureen Tucker, una comune amica intenzionata a diventare batterista. Con questa formazione i Velvet Underground tennero il loro primo concerto l’11 novembre 1965 nell’auditorium della Summit High School. Vennero scritturati poi per alcune apparizioni al Café Bizarre, nel cuore del Greenwich Village. Gerard Malanga li vide per la prima volta là, ne fu incuriosito e mise sull’avviso Andy Warhol, che stava cercando musicisti da coinvolgere nei suoi esperimenti multimediali. «In definitiva l’idea di pop art era che ciascuno potesse fare qualsiasi cosa: nessuno voleva rimanere imprigionato in una categoria. E così cercavamo di espanderci in ogni settore 180

creativo. Perciò quando incontrammo i Velvet non esitammo a occuparci anche della scena musicale», spiegava Warhol, che a quei tempi era già un artista affermato – «Il Raffaello del nostro tempo», diceva di lui il critico d’arte Achille Bonito Oliva. All’inizio del decennio i suoi ritratti seriali di personaggi celebri (Marilyn Monroe, Elvis Presley, Jacqueline Kennedy, il presidente Mao) o di oggetti di largo consumo (le minestre Campbell, le bottigliette di Coca Cola) avevano formalizzato l’essenza stessa della pop art, enunciata originariamente nel 1957 dal pittore inglese Richard Hamilton. Mettendo in corto circuito moda, pubblicità e arte, Warhol creava opere che riflettevano la condizione umana nell’era della società dei consumi e della comunicazione di massa. Ed elevando a simulacri oggetti o simboli d’uso corrente privava l’arte della sua tradizionale aura di sacralità: «La nuova aristocrazia che dice agli artisti cosa vale e cosa no è la gente comune», affermava. Quartier generale delle sue attività era da qualche tempo un loft di circa 500 metri quadrati al 231 di East 47th Street, nel cuore della zona bohémien nella Lower East Side di Manhattan. Cenacolo di artisti, intellettuali, modelle, ragazzi di vita e tossicomani. Una corte dei miracoli che funzionava anche come set cinematografico permanente, da quando Warhol aveva cominciato a produrre film sperimentali. Questo l’ambiente che accolse all’inizio del 1966 i Velvet Underground, alla cui formula sonora plasmata al crocevia fra letteratura (i versi di Lou Reed), rock’n’roll (la sua chitarra) e musica colta (la viola di John Cale) il sodalizio con Warhol aggiunse un determinante supplemento di appeal artistico. Pur non facendo altro che osservare e dirigere le operazioni, Warhol diede ai Velvet identità e sicurezza nei loro mezzi espressivi. Come propria impronta sul gruppo impose la pre181

senza di Nico, al secolo Christa Paffgen: anch’ella appena approdata alla Factory dopo aver recitato una parte secondaria nella Dolce vita di Fellini ed essersi intrufolata nel jet set culturale grazie alla tenere amicizie con Alain Delon (da cui ebbe un figlio), Bob Dylan e Brian Jones dei Rolling Stones. Donna di bellezza statuaria ed enigmatica, dotata di un timbro vocale profondo e sensuale, rappresentò per breve tempo il valore aggiunto dei Velvet Underground. Non vi rimase a lungo: giusto il tempo di partecipare al primo disco e apparire in alcune recite dello show multimediale. La sua presenza era mal sopportata da Lou Reed, che via via tendeva ad affermarsi come leader del gruppo. E quando Warhol perse interesse nei Velvet Underground, con l’epilogo dell’Exploding Plastic Inevitable, la posizione di Nico divenne insostenibile. Avrebbe intrapreso in seguito una carriera individuale piuttosto appartata, realizzando dischi – da Chelsea Girl a The End – ombrosi e intimisti, quasi tutti prodotti da John Cale. Il quale a sua volta aveva crescenti problemi di compatibilità con Lou Reed. Insieme realizzarono ancora un album, White Light White Heat, se possibile più scabroso e claustrofobico del precedente (valgano a rappresentarlo i 17 minuti di free rock in cui si sviluppa Sister Ray), pubblicato il quale – nel gennaio 1968 – Cale abbandonò a sua volta la partita. «Avevamo capito che il gruppo era troppo piccolo per tutt’e due», dichiarò a cose fatte. Una separazione che Lou Reed avrebbe commentato con rammarico solo molti anni più tardi: «Insieme creammo cose che nessuno di noi individualmente era in grado di concepire». Privato di quelle componenti, il suono dei Velvet Underground si trasformò, divenendo meno ruvido e malinconicamente languido: così è il terzo album, in penombra come la copertina che lo illustra. 182

Lo scarso rendimento commerciale di quel disco e dei precedenti indusse la Mgm, che ne era editrice, a liberarsi del gruppo. Il seguente fu pubblicato così dalla Atlantic di Ahmet Ertegun: ma quando Loaded uscì i Velvet Underground, nei fatti, non esistevano più. Se n’era andato anche Lou Reed, la cui ultima apparizione – testimoniata da un album dal vivo in «bassa fedeltà» edito due anni più tardi – coronò il 23 agosto 1970 una lunga serie di concerti tenuti nel neonato Max’s Kansas City: i primi a New York da quando, nel 1967, i Velvet avevano scelto di fare base a Boston, irritati dal boicottaggio dei media cittadini. Fu in quel locale che poterono ammirarli prima che appassissero alcuni tra i futuri protagonisti della scena off di Manhattan: Patti Smith, Tom Verlaine, lo scrittore/cantautore Jim Carroll e David Johansen (futuro leader dei New York Dolls). A dire il vero i Velvet Underground si esibirono ancora dal vivo, debuttando addirittura in Europa, e realizzarono anche un disco, Squeeze, nel 1973: ma era una versione apocrifa del gruppo, guidata da Doug Yule, il sostituto di John Cale. A quel punto Lou Reed già si era messo in proprio: la cosa «vera» stava dunque altrove. Dopo un esordio interlocutorio, aggravato dal cattivo gusto di una campagna promozionale che lo presentava nei panni del «fantasma rock», per via della sua nomea da sopravvissuto a un periodo di eccessi d’ogni genere, Lou Reed pubblicò nel 1973 – complice David Bowie in veste di produttore – il primo lavoro da solista degno del suo talento: Transformer. E infilò quindi una sequenza di opere a vario titolo interessanti: per il sublime gusto decadente (Berlin), la veridicità documentaristica (il live Rock’n’Roll Animal) o anche solo il buon andamento commerciale (Sally Can’t Dance). Poi, da cavallo di razza qual è, si imbizzarrì e nel 1975 diede alle stampe il provocatorio Metal Machine Music – un’ora ab183

bondante di puro rumore elettrico. Concluse infine il decennio con un trittico dignitoso ma nulla più: Coney Island Baby, Street Hassle e The Bells. Nei circuiti punk, intanto, le quotazioni dei Velvet Underground crescevano a vista d’occhio. Ma colui che ne era stato leader pareva aver smarrito l’ispirazione: i dischi realizzati nei primi anni Ottanta suonavano come routine da rockstar in via di pensionamento. Nessun guizzo che rinverdisse i fasti del tempo andato. In un certo senso fu la morte di Andy Warhol, nel 1987, a rimettere le cose a posto. Lou Reed e John Cale si riconciliarono e misero in scena due anni dopo uno spettacolo a soggetto in onore del proprio mentore, Songs for Drella, cui seguì nel 1990 l’omonimo album. E nel giugno di quello stesso anno, in un evento in memoria di Warhol organizzato alla Fondazione Cartier di Parigi, Reed, Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker salirono nuovamente insieme sullo stesso palco per suonare Heroin. Mancava Nico: morta nel 1988 a Ibiza, cadendo dalla bicicletta. Fu il preludio alla momentanea ricostituzione dei Velvet Underground, segnata nel 1993 da un cofanetto antologico – Peel Slowly and See – e da una tournée che per alcune date li vide esibirsi insieme agli U2. Poi, di nuovo ciascuno per la sua strada. Lou Reed a proseguire da solista un cammino che aveva ripreso quota già nel 1989 con New York e John Cale a sua volta pronto a rinnovare dal vivo i fasti di alcuni dischi degli anni Settanta come Church of Anthrax (in coppia con Terry Riley), Academy in Peril (con una splendida copertina firmata da Andy Warhol), Paris 1919 e Fear, per non dire di Music for a New Society, capolavoro nascosto risalente al 1982. E strada facendo aveva tenuto a battesimo in qualità di produttore astri nascenti come Patti Smith e Stooges. Se i Velvet Underground influenzarono il punk nel senso dell’attitudine, gli Stooges di Iggy Pop ne anticiparono l’i184

dentità formale. Erano una tipica garage band: espressione con cui si allude convenzionalmente ai gruppi americani poco più che amatoriali – il garage di casa come sala prove – in azione verso metà anni Sessanta, pressoché in contemporanea con il beat inglese, da cui erano stati influenzati ai tempi della cosiddetta British Invasion. Stile rozzo, esuberanza adolescenziale e immediatezza espressiva: queste le caratteristiche che definivano il genere. Un’esauriente panoramica sul fenomeno venne offerta retrospettivamente dal doppio album antologico Nuggets, compilato nel 1972 da Lenny Kaye, critico rock e futuro chitarrista nel Patti Smith Group. Basterebbe tuttavia una canzone sola a simboleggiarne il senso: Louie Louie, composta in origine, nel 1956, da Richard Berry, rocker di secondo piano, e portata al successo sette anni dopo dai Kingsmen. Come scrive Dave Marsh in The Heart of Rock and Soul: «È l’espressione più profonda e sublime della capacità che il rock’n’roll ha di creare qualcosa dal nulla»1. Tre semplici accordi e via. Importante è come la si suona. Una versione esemplare venne fornita dagli Stooges di Iggy Pop all’epilogo della carriera, nell’album Metallic KO. Originario di Ann Arbor, nel Michigan, James Jewel Orstenberg fece gavetta come batterista fra il 1963 e il 1966 suonando in vari gruppi, tra cui uno chiamato Iguanas. Lo pseudonimo che lo ha reso celebre arriva di lì e fu adottato quando – influenzato da Jim Morrison – decise di tramutarsi in cantante. Affiancato dai fratelli Asheton, Ron (alla chitarra) e Scott (alla batteria), oltre che dal bassista Dave Alexander, fondò nel 1967 gli Psychedelic Stooges, che esordirono a una festa tra amici nella notte di Halloween di quell’anno e de1

Plume, New York 1989, p. 12.

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buttarono ufficialmente quattro mesi dopo al Grande Ballroom di Detroit. Non ci volle molto a far circolare il nome, che aveva perso frattanto l’appellativo Psychedelic: gli show erano violentissimi, e Iggy calamitava su di sé anche l’attenzione dei più distratti. Acrobata e perfomer acconciato in modo bizzarro (tutù o hot pants, stivali al ginocchio o scarpine da golf, generalmente a torso nudo), si tuffava in mezzo al pubblico e abusava del proprio corpo, ferendosi e ustionandosi – le cicatrici come stimmate di vita vissuta. Non solo faceva rivivere così la teatralità «crudele» di Artaud, ma anticipava l’autolesionismo nichilista del punk. Tra coloro che rimasero colpiti dalle prime apparizioni degli Stooges c’era Danny Fields, talent scout dell’Elektra, etichetta sulla cresta dell’onda dopo il successo dei Doors. Accasati discograficamente e affidati alle cure di John Cale, gli Stooges misero a punto nel 1969 il loro primo album: pesantissima pietra miliare nella storia del rock. E intanto Iggy teneva fede alla propria reputazione, consumando droghe e facendo sesso con Nico, invaghitasi di lui. Nonostante il caos fisico e mentale, prima di schiantarsi contro un muro di complicazioni – la tossicodipendenza del leader abbinata agli insoddisfacenti riscontri commerciali – gli Stooges confezionarono un disco esplosivo quanto il precedente e ciò nonostante a suo modo sofisticato: Funhouse. A tirarli fuori dai guai arrivò David Bowie, vera crocerossina rock a quei tempi: li portò con sé a Londra e ne produsse il terzo lavoro, Raw Power. Ma le cose non migliorarono. Tornato in patria e stabilitosi a Los Angeles, Iggy Pop prese la scorciatoia per l’inferno imboccando il Sunset Boulevard. I vecchi Stooges non esistevano più: ce n’era una versione nuova (che preparò un disco edito poi anni dopo: Kill City) destinata a durare appena qualche mese – epilogo dal vivo al Michigan Palace di 186

Detroit, nel febbraio 1974, documentato in Metallic KO. E Iggy? Girava voce che dovesse vestire i panni di Morrison in una riedizione dei Doors. Di sicuro lo arrestarono per detenzione di stupefacenti e finì rinchiuso in un istituto psichiatrico. A salvarlo per la seconda volta fu come sempre Bowie, che lo condusse in un castello francese a registrare l’album del riscatto: The Idiot uscì nel 1977, in perfetta sincronia col punk di cui Iggy era stato precursore. I Sex Pistols avevano in repertorio No Fun degli Stooges: valeva come lasciapassare. E pochi mesi dopo ecco l’altrettanto convincente Lust for Life, realizzato invece a Berlino. In tournée, quasi tra le quinte, Bowie faceva il gregario alle tastiere: lo si ascolta anche nel live TV Eye. Una resurrezione che permise all’Iguana di fare del rock il suo mestiere. Rientrò in America nel 1981, inspiegabilmente affascinato da Reagan, ma per combinare di nuovo qualcosa di buono dovette affidarsi ancora a Bowie: nel 1986 piazzò il primo singolo di successo della sua carriera, Real Wild Child. Inossidabile e ancora integro, nonostante gli abusi giovanili, valeva ormai come leggenda vivente. Cominciò persino ad affacciarsi nel mondo del cinema, in ruoli via via più importanti: Il colore dei soldi di Scorsese, Sid & Nancy di Alex Cox, Dead Man di Jim Jarmusch, ma anche blockbuster come Tank Girl e Il corvo 2. Infine, nel 2003, rieccolo con gli Asheton in una nuova versione degli Stooges: prima al festival californiano Coachella e poi in alcuni brani dell’album Skull Ring. Medesimo periodo, stessa zona di provenienza e analoga brutalità sonora nel caso degli MC 5 – dove la sigla sta per «i cinque della Motor City». Di nuovo Detroit, allora: capitale morale del rock americano più violento. E gli MC 5 non si risparmiavano in fatto di durezza e volume. Leggendari i loro concerti. Tanto che, una volta scritturati dalla stessa Elektra 187

che stava per mettere sotto contratto gli Stooges, scelsero di esordire con un album registrato in presa diretta al Grande Ballroom negli ultimi due giorni di ottobre del 1968: Kick out the Jams. Era il loro grido di battaglia, seguito dall’emendato motherfuckers: qualcosa come «fuori i coglioni, bastardi». Lo strillava per aizzare la folla il loro maestro di cerimonia Jesse Crawford – lo stesso che poi diceva: «Per ognuno di voi è venuto il momento di scegliere se fare parte del problema o esserne la soluzione!». Poiché a fare la differenza c’era lo slancio politico che imprimeva al gruppo il manager John Sinclair: dj, critico jazz per la rivista «Downbeat» e agitatore culturale, prima a capo della comune Trans-Love Energies, quindi promotore del White Panther Party, la risposta bianca alle Pantere Nere. Fu lui a volere gli MC 5 in scena al raduno convocato per contestare la convention tenuta nel 1968 dal Partito Democratico a Chicago: teatro di gravi scontri fra manifestanti e polizia. Gli MC 5 si erano fatti una cattiva reputazione, insomma. E a salvarli non bastò l’interesse dei media – in copertina su «Rolling Stone» prima ancora che il disco uscisse – e il buon andamento in classifica di Kick out the Jams – sorprendentemente nei Top 30 dopo la pubblicazione, all’inizio del 1969. Uno show newyorkese al Fillmore East nel dicembre 1968 sfociato nel caos li aveva resi invisi all’industria musicale. E intanto Sinclair era stato incastrato dalla polizia, che lo aveva incarcerato per detenzione di stupefacenti – era un pretesto, si trattava di pochi grammi di marijuana. Privati della guida ideologica e scaricati dalla Elektra, puntarono tutto sulla musica, una volta ingaggiati dalla Atlantic: i due album che seguirono, Back in the Usa e High Times, erano più calibrati e «professionali» del precedente, ma politicamente amorfi. Fu nella morsa di quella contraddizione che il gruppo finì stri188

tolato poco dopo. Salvo ritornare in scena inopinatamente nel 2003 con i superstiti (gli anni Novanta si erano portati via il cantante Rob Tyner e il chitarrista Fred «Sonic» Smith) in uno show londinese patrocinato dalla Levi’s, a cui frattanto avevano ceduto il marchio per una linea di streetwear. Sic transit gloria mundi. 

Fra pensiero ed espressione Lou Reed (Arcana, 1993). Kick out the Jams MC 5 (Elektra, 1969). Lust for Life Iggy Pop (Rca, 1977). Music for a New Society John Cale (Ze, 1982). Nuggets Aa.Vv. (Elektra, 1972). The Stooges Stooges (Elektra, 1969). The Velvet Underground & Nico Velvet Underground (Verve, 1967).  The Velvet Underground & Nico Andy Warhol (RaroVideo, 2002).  Transformer Lou Reed (Rca, 1973).  Velvet Victor Bockris e Gerard Malanga (Giunti, 1996).      

10 ottobre 1966

Esce il 45 giri «Good Vibrations»: maggiore successo discografico dei Beach Boys. È il rock’n’roll che piace anche ai genitori.

Una canzone che conquista immediatamente. Di facile ascolto. Ma niente affatto banale. In superficie l’elogio delle «buone vibrazioni» pare non sia altro che un perfezionamento ulteriore della consueta apologia dell’edonismo californiano: specialità della casa per i «ragazzi da spiaggia». Un’infinita estate: l’oceano solcato dai surf e gli arenili bianchi, popolati da una gioventù snella e abbronzata che viaggia sorridente a bordo di auto decappottabili. La cosa più vicina all’Eden in terra che si possa immaginare. Esattamente l’opposto, in termini di valori e comportamenti, rispetto a ciò che accade nell’altrettanto californiana San Francisco: culla della controcultura hippie. Tant’è vero che l’anno dopo i Beach Boys non accetteranno l’offerta di esibirsi al festival di Monterey, cerimonia di consacrazione del fenomeno. Ma d’altra parte quei 215 secondi di musica sono una sinfonia in miniatura, tanto è composita la struttura del brano, costato sei mesi di lavoro e 16mila dollari – uno sproposito per l’epoca. Ricchissimo il parco strumentale impiegato per realizzarlo: flauti, campa-

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nellini, clavicembalo e addirittura un theremin, oltre al canonico assortimento di chitarra, basso, batteria e tastiere elettroniche. Il tutto amalgamato giustapponendo un’infinità di sovrincisioni, a cominciare dai tipici impasti vocali di marca Beach Boys. Chi confeziona il prodotto, alla fin fine, è un uomo solo: l’indiscusso capobanda, Brian Wilson. E proprio quella canzone, nella sua complessa semplicità, sembra voler raffigurare l’indole contraddittoria del personaggio, che a lungo ne ha intrappolato l’estro. Artista straordinario nel chiuso degli studi di registrazione e uomo terrorizzato sotto la luce dei riflettori: un po’ come Phil Spector, di cui era per certi versi epigono. Dal dicembre 1964 Brian Wilson non saliva più insieme agli altri su un palco. Benché starci fosse un po’ come rimanere a casa. I Beach Boys erano infatti un’azienda a conduzione familiare. Raggruppatisi al principio del decennio in un sobborgo di Los Angeles chiamato Hawthorne, avevano in organico i tre fratelli Wilson (Carl e Dennis gli altri due), il cugino Mike Love e Alan Jardine, compagno di scuola di Brian – età media 18 anni o poco più. Come se non bastasse, manager del quintetto era il padre dei Wilson. Ciò in cui si specializzarono era una sorta di doo wop (la musica dei gruppi vocali afroamericani in voga negli anni Cinquanta) da visi pallidi, impercettibilmente screziato di rock’n’roll. Furono loro a definire il genere con i titoli di quattro dei loro primi singoli: Surfin’, Surfin’ Safari, Surfin’ Usa e Surfer Girl. Un mondo grande quanto una tavola sulla cresta dell’onda. Se il disco d’esordio fu un successo su scala regionale, gli altri fecero dei Beach Boys un caso nazionale. Cartoline dalla West Coast, come pure le seguenti Fun Fun Fun e California Girls. Allora il mondo ruotava a 45 giri. Ma la sensazione era che stesse per rallentare. Rubber Soul, primo album dei Beatles 191

concepito come tale, aveva indicato la direzione nel dicembre 1965. E il maggiore dei Wilson raccolse la sfida anche a nome degli altri, che intanto si trovavano in Estremo Oriente per concerti. Realizzò così, praticamente da solista, il primo vero long-playing dei Beach Boys, essendo i precedenti – una decina in appena tre anni di attività! – semplici miscellanee di singoli, brani strumentali e cover di canzoni altrui: l’ambizioso Pet Sounds, edito cinque mesi prima di Good Vibrations. Il risultato era eccellente, ma lì per lì non venne premiato da un esito commerciale adeguato al suo valore. Continuando ad assumersi personalmente onori e oneri dell’impresa, Wilson decise allora di ripetersi provando a volare ancora più alto. Lavorò per mesi, accumulando centinaia di ore di registrazione e un bel gruzzolo di canzoni, ma alla fine non riuscì a venirne a capo. L’album intitolato Smile, di cui si favoleggiava fosse il capolavoro definitivo del rock, non sarebbe mai uscito, tramutandosi in leggenda (un po’ come anni dopo Get Back dei Beatles). Frammenti dell’opera vennero a galla nel corso del tempo, sparsi nei dischi pubblicati dai Beach Boys tra il 1967 – Smiley Smile – e il 1971 – Surf’s up. Il titolo di quest’ultimo – «Il surf è finito» – suonava come suggello di un’era. E così in effetti fu. Mentre l’avventura dei Beach Boys si tramutava definitivamente in mestiere, via via inciampando sempre più frequentemente in questioni legali, Brian Wilson combatteva coi suoi problemi mentali, aggravati nel 1973 dalla scomparsa del padre (cui seguirà nel 1983 quella del fratello Dennis, annegato a Marina del Rey, mentre Carl morirà nel 1998 di tumore), divenendo nei fatti ostaggio del proprio psicoterapeuta – addirittura elevato al rango di coautore del primo disco intestato a suo nome e datato 1988. Di tutti i fantasmi che affollavano i suoi pensieri, Wilson dimostrerà di essersi liberato solo 192

dieci anni dopo, in occasione di un nuovo lavoro da solista: Imagination. E soprattutto tornando a esibirsi in pubblico, come capiterà con una certa regolarità dal 2000 in avanti. Concerti celebrativi, ovviamente, ma carichi di significato: come le esecuzioni integrali di Pet Sounds offerte nel corso del 2002 (una delle quali riportata anche su disco) o quelle recentissime in cui ha preso corpo dopo 36 anni l’album perduto dei Beach Boys intitolato al sorriso. Segno che Brian Wilson è venuto finalmente a patti col proprio passato. Altrettanto non si può dire di Phil Spector, colui che nel 1965 Tom Wolfe definì in un articolo pubblicato dal «New York Herald Tribune» «il magnate dell’adolescenza». Nababbo già all’età di 21 anni e forse anche per questo condannato a un’esistenza travagliata. Nato a New York da una famiglia ebrea nel 1940, si trasferì adolescente con la madre in California. Il padre era morto quando aveva nove anni, ma fu proprio la sua figura a ispirarne l’esordio in musica, nel 1958: la prima canzone composta dal giovane Spector mutuava il titolo da un’iscrizione cesellata sulla lapide del genitore – To Know Him Is to Love Him («Conoscerlo vuol dire amarlo»). Incise quel 45 giri con un trio vocale chiamato Teddy Bears e fece immediatamente centro: primo posto in hit parade, fra lo stupore generale. Era nata una stella. Lasciò Los Angeles dirigendosi verso le capitali della musica pop americana dell’epoca: prima Filadelfia e poi New York. Qui entrò nelle grazie di autori affermati come Jerry Leiber, Mike Stoller e Doc Pomus, coi quali collaborò in veste di produttore all’ombra del Brill Building. Era una specie di Re Mida: quello che toccava diventava oro; così fu per le canzoni di Ben E. King (Spanish Harlem, Stand by Me) e Gene Pitney (Every Breath I Take). E ne era consapevole: perciò decise di mettersi in proprio, fondando alla fine del 1961 l’etichetta discografica Philles. 193

Era una dichiarazione d’indipendenza: smarcandosi dai marchi dominanti, affermò la propria identità – come faceva in contemporanea a Detroit la Tamla Motown. Reclutato uno staff di strumentisti, interpreti e autori, prese a sfornare un successo dopo l’altro. Con gruppi vocali femminili – Crystals (He’s a Rebel, Da Doo Ron Ron) e Ronettes (Be My Baby) – o maschili – Righteous Brothers, quelli del «soul dagli occhi azzurri» (You’ve Lost That Loving Feeling, Unchained Melody, Ebb Tide). Tra il 1962 e il 1964 la Philles non ebbe rivali in patria come fucina di canzoni da classifica. E il denominatore comune era il tipico profilo sonoro che Spector conferiva loro: una griffe inconfondibile. Musica fatta a strati: densa e voluminosa tanto quanto erano leggere le melodie che la guidavano. Frutto di arrangiamenti ricercati, orchestrazioni di ampio respiro e un’infinità di sovrincisioni. Fu definito «muro del suono», per spiegarne l’effetto: come se in qualche universo parallelo Wagner fosse finito a Broadway. Altrettanto imponenti erano le ambizioni del personaggio, affetto da manie di grandezza. Un esempio fu l’album a soggetto che mise in cantiere nel 1963, affidando agli artisti della sua scuderia alcuni classici standard natalizi. A Christmas Gift for You – un successo annunciato – doveva essere nei negozi un mese prima della ricorrenza, il 22 novembre. Ma quel giorno, a Dallas, venne assassinato John Fitzgerald Kennedy e all’America era passata a quel punto la voglia di festeggiare alcunché. Finito nel 1965 il suo momento magico, in coincidenza col definitivo avvento dei Beatles anche in territorio americano, dalla psiche di Spector affiorarono le ossessioni paranoiche fino a quel punto narcotizzate dal successo. Misantropo e sociopatico, costruì intorno a sé una barriera che potesse ripararlo dal mondo, annunciando infine nel 1967 il proprio ritiro dalla scena musicale. Aveva preso casa a Los Angeles, so194

pra il Sunset Boulevard: una specie di fortezza chiamata El Dorado. Vi si barricò dentro e le poche volte che usciva a bordo di una limousine, nascosto dietro i vetri fumé e le lenti scure degli occhiali da sole, era scortato da guardie del corpo. Di lì in avanti le sue sortite ebbero il carattere dell’eccezionalità. Si affacciò estemporaneamente sugli schermi cinematografici: all’inizio di Easy Rider è lui lo spacciatore che traffica in cocaina con Dennis Hopper e Peter Fonda. Quanto alla musica, invece, produsse Let It Be su incarico di Lennon e contro la volontà di McCartney, che in seguito ne ripudiò il lavoro. E una volta sciolti i Beatles lavorò sia con Harrison (a My Sweet Lord), sia soprattutto con Lennon, su Istant Karma, Imagine, Plastic Ono Band, Some Time in New York City e Rock’n’Roll. Proprio durante le burrascose sedute di registrazione di quest’ultimo disco (acque agitate in seguito anche con Leonard Cohen e i Ramones, ai tempi di Death of a Ladies Man e End of the Century, rispettivamente), estrasse una rivoltella e sparò contro il soffitto: aveva un debole per le armi e il grilletto facile. Dev’essere andata così anche la notte del 3 febbraio 2003 a El Dorado, dove ha perso la vita, uccisa da un colpo di pistola, Lana Carlson, attrice di B-movies. In casa c’erano soltanto lei e Phil Spector. Quando era in auge il «magnate dell’adolescenza», la musica pop viveva in America una fase di transizione. Tramontato il rock’n’roll delle origini, i baby boomers non avevano ancora l’età per decidere da sé che musica suonare o ascoltare. La dialettica fra produzione sottoculturale e industria discografica pendeva dalla parte della seconda, che stava riprendendo il controllo della situazione dopo il sussulto innescato dal messia Elvis e dai suoi discepoli. L’idea era di rendere più regolari e controllabili gli impulsi giovanili, orientando i consumi verso prodotti preconfezionati. Andava co195

sì per la maggiore il rock’n’roll pastorizzato di gente come gli Everly Brothers o Pat Boone. E disseminate nel paese lavoravano a pieno regime officine pop come quella di Hollywood (Ricky Nelson, Bobby Vee) e Filadelfia (l’etichetta Cameo/Parkway lanciò il twist di Chubby Checker, mentre la Chancellor puntava su Frankie Avalon e Fabian). Visi puliti e voci rassicuranti, come quella di Paul Anka: già in hit parade nel 1957 con Diana per conto del colosso newyorkese Abc/Paramount. Ma il vero centro di potere a Manhattan stava altrove: al numero civico 1619 di Broadway, in un edificio a 11 piani chiamato Brill Building. A mettere in moto la principale catena di montaggio per canzonette destinate agli adolescenti erano stati Doug Kirshner (che anni dopo congegnò l’operazione Monkees) e Al Nevins, fondatori dell’editrice Aldon Music, la cui sede era prospiciente il Brill Building. Scopo dell’azienda era fornire materia prima alle case discografiche. A tal fine reclutarono un team di compositori, generalmente divisi a coppie: un musicista e un paroliere. Barry Mann e Cynthia Weil. Neil Sedaka – anche interprete in proprio: Oh Carol il suo massimo successo – e Howard Greenfield. Ma soprattutto Gerry Goffin e Carole King (destinata ad affermarsi poi in prima persona nel 1971 col best seller Tapestry). A quest’ultimo binomio sono associati brani che hanno fatto epoca come Up on the Roof (incisa nel 1962 dai Drifters) e Loco-motion (asso da classifica nello stesso anno per la meteora Little Eva). Per chi non avesse visto Grace of my Heart, il film di Allison Anders che racconta la saga del Brill Building dal punto di vista di Carole King, ecco come andavano le cose. Il racconto è di Barry Mann: «Io e Cynthia stavamo dentro uno stanzino minuscolo, grande poco più di un ripostiglio, con soltanto una sedia e un pianoforte – niente finestre, niente di niente. Ci entravamo 196

ogni mattina e scrivevamo canzoni tutto il giorno. Nella stanza accanto Carole e Gerry facevano la stessa cosa, e in quella dopo c’era Neil o qualcun altro. A volte, quando capitava che tutti fossimo lì a pestare sui pianoforti, non si riusciva a capire chi stesse suonando cosa. Era una vera follia». Effetto simile a quello che si percepiva nel cosiddetto Tin Pan Alley, ossia la West 28th Street di Manhattan, luogo in cui aveva preso forma nei primi anni del secolo la musica americana del Novecento, per mano di Jerome Kern, Irving Berlin, Cole Porter, George Gershwin, Hoagy Carmichael, Rodgers & Hart – ribattezzato in quel modo, «vicolo dei barattoli», proprio per la sensazione cacofonica provocata dal sovrapporsi delle note più disparate. Fatto sta che fra il 1959 e il 1964 non c’era gara: furono oltre 200 le canzoni uscite dal Brill Building che approdarono in hit parade. Quasi un monopolio. A cui alcuni tentarono di opporsi creando strutture indipendenti. Doc Pomus e Mort Shuman, il cui miglior colpo fu Save the Last Dance for Me, venduta alla Atlantic – il maggiore acquirente di canzoni, a quei tempi – e portata al successo dai Drifters. Oppure Jerry Leiber e Mike Stoller, segnalatisi già come autori per conto di Presley (Jailhouse Rock, per citare il caso più celebre) e responsabili – insieme a Spector, come si diceva – di un sempreverde del calibro di Stand by Me. A spezzare l’incantesimo del Brill Building, e in generale del pop prodotto in serie, fu la British Invasion guidata da Beatles e Rolling Stones: la rivincita del rock’n’roll, insomma. Chi meglio di altri seppe resistere al cambiamento che investì la scena musicale americana nella seconda metà degli anni Sessanta fu Burt Bacharach. Figlio di una famiglia della media borghesia di Kansas City, che per sfuggire ai morsi della Grande Depressione si era trasferita a New York nel 1929, quando lui aveva appena un anno, crebbe nel rispetto delle 197

regole. «Per infrangerle, prima bisogna studiarle», diceva. E così fece. Seguì presso la Mannes School of Music i corsi di Henry Cowell, già fonte di ispirazione per John Cage, e Darius Milhaud, compositore francese in gioventù fraterno amico di Erik Satie. Come modelli a cui riferirsi scelse invece Maurice Ravel e Dizzy Gillespie. Terminati gli studi, al principio degli anni Cinquanta cominciò a fare gavetta esibendosi nei circoli dell’esercito americano e nei night club. Il primo ingaggio importante fu in veste di pianista e arrangiatore nel gruppo del crooner Vic Damone, ma ad aprirgli le porte del mainstream ci pensò nientemeno che Marlene Dietrich, chiamandolo a dirigere l’orchestra che l’accompagnava dal vivo nel 1959. Dello stesso anno è anche il primo brano di grande successo che porta la sua firma in calce: Magic Moments di Perry Como. Ma come molti altri musicisti della sua generazione, per affermarsi come autore dovette anch’egli bussare all’uscio del palazzo al 1619 di Broadway. Miracoli del Brill Building: fu là che Burt Bacharach incontrò nel 1957 colui che in termini artistici divenne la sua anima gemella, il paroliere Hal David. Il sodalizio fra i due durò 17 anni e generò alcune delle pagine più celebri e significative della musica pop americana del Novecento. Canzoni di facile ascolto, da cui la definizione corrente easy listening, eppure raffinate nel modo in cui mescolano soul, jazz e ritmi latini, con sottigliezze in fatto di arrangiamenti, intervalli e cadenze a guarnirle. Questa la cifra stilistica del Bacharach Sound: uno standard per certi versi ineguagliabile. Come scrisse con enfasi Julie Burchill nel 1988 sul magazine «The Face»: «Il primo giorno Dio creò l’uomo e la donna, il secondo il Vodka-Martini e il terzo giorno si dedicò alla musica di Burt Bacharach. Poi, il quarto giorno, l’uomo inventò il rock’n’roll e rovinò tutto». E in verità la combinazione fra l’e198

stro musicale di Bacharach e la poetica sobriamente sentimentale di David qualche miracolo lo fece davvero. A maggior ragione quando, dal 1962, principale interprete delle loro canzoni divenne Dionne Warwick – Walk on By, Anyone Who Had a Heart e I Say a Little Prayer hanno qualità narrative e pathos tali da evocare sensazioni «cinematografiche». Proprio al cinema, del resto, Bacharach riservò alcune delle sue melodie migliori: What’s New Pussycat? (nella tonante interpretazione di Tom Jones per l’omonimo film di Clive Donner), Casino Royale (affidata all’orchestra di Herb Alpert nella pellicola che prende in giro James Bond) e soprattutto Raindrops Keep Falling on My Head (da Butch Cassidy – avrebbe dovuto cantarla Dylan, ma rinunciò in favore del carneade BJ Thomas), premiata con l’Oscar. In epoca più recente sue canzoni sono riaffiorate nelle colonne sonore di film come Austin Powers (dove addirittura Bacharach si esibisce in un insolito cameo) e Il matrimonio del mio migliore amico. Musica resistente all’usura del tempo, come possono confermare gli innumerevoli riadattamenti a cui viene sottoposta: tra gli ultimi in ordine cronologico, quello del sempreverde Close to You da parte della cantante jazz Diana Krall. Per non dire delle agenzie di pubblicità, che attingono ancora a piene mani dall’opulento repertorio di Bacharach: si tratti di reclamizzare un caffè o una banca. È il suono di una middle class che forse si ammira solo più al cinema o in televisione: serena e benestante – anche se magari prossima a sgretolarsi, come in Lontano dal paradiso di Todd Haynes. Vera musica leggera: aroma delicato con un impercettibile retrogusto agrodolce. Non è sorprendente che Bacharach sia diventato una tra le massime icone della cosiddetta Cocktail Generation. Fenomeno emerso nel corso degli anni Novanta e inscritto nel più generale boom del modernariato relativo al secondo dopo199

guerra – dagli oggetti d’arredamento alla moda – che caratterizza il consumo contemporaneo. Una sorta di elogio dell’inautenticità nel quale il kitsch rappresenta un valore aggiunto anziché un handicap: più posticcio era in origine l’oggetto, maggiore è oggigiorno il suo pregio. Scrive il filosofo Paul Virilio: «Di tutto si può fare un museo – culto del trash o pop art misconosciuta, entusiasmo feticista di popolazioni sempre più vecchie per ciò che era stato buttato via, dimenticato, fuori moda, che aveva stancato e disgustato»1. Il periodo considerato va dagli anni Quaranta ai Sessanta, e a rappresentarlo è ciò che ai tempi era detta sbrigativamente muzak: vocabolo mutuato dal nome di una ditta che già negli anni Trenta lavorava alla filodiffusione di musiche di sottofondo da destinare ad ambienti specifici – alberghi, uffici, studi professionali, supermercati... Un suono uniforme, inoffensivo e confortante. L’antitesi del rock’n’roll, insomma. Ovvio che Bacharach la facesse da padrone, con al seguito i vari succedanei: le orchestre di Ray Conniff, Bert Kaempfert, Herb Alpert. Musiche da consumarsi come sottofondo in salotto o sull’ascensore – da cui le definizioni lounge music ed elevator music. Più particolare – nel quadro di questa riscoperta dei suoni dimenticati – è il fascino esercitato da ciò che va sotto il nome di exotica: ossia il tentativo naïf di introdurre nel corpo dell’easy listening suggestioni di provenienza – appunto – esotica compiuto all’epoca da artisti quali il messicano Juan Garcia Esquivel e gli statunitensi Martin Denny e Les Baxter (arrangiatore nei dischi dell’incredibile cantante peruviana Yma Sumac). O ancora, la rivalutazione di sigle televisive e colonne sonore dei B-movies (numerosissime quelle create 1

L’incidente del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 59.

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dal compositore italiano Piero Umiliani, per esempio), e in generale delle musiche da film – Henry Mancini (La pantera rosa), John Barry (i film di 007) e Lalo Schifrin (Bullit) gli autori più gettonati dalla Cocktail Generation. Come effetto secondario: l’influsso esercitato da quelle sonorità sulla produzione musicale corrente, si tratti del post-rock di Chicago o del neo-pop architettato in Giappone (il quartiere di Shibuya a Tokyo è una Mecca per i cacciatori di antichità discografiche), di un jazzista radicale come John Zorn o dei retrofuturisti elettronici parigini Air. Importante è per loro guardare indietro mentre si va avanti.  Back to Mono Phil Spector (Abkco, 1991).   

 

   

Be My Baby. How I Survived Mascara, Miniskirts and Madness Ronnie Spector e Vince Waldron (Harmony Books, 1990). Elevator Music. A Surreal History of Muzak, Easy-listening, and Other Moodsong Joseph Lanza (Picador, 1995). Exotica. Fabricated Soundscapes in a Real World David Toop (Serpent’s Tail, 1999). Grace of My Heart Allison Anders (Universal, 2000). Mondo exotica. Suoni, visioni e manie della generazione cocktail Francesco Adinolfi (Einaudi, 2000). Pet Sounds Beach Boys (Capitol, 1966). The Brill Building Sound Aa.Vv. (Era, 1993). The Look of Love Burt Bacharach (Rhino, 1998). Wouldn’t It Be Nice? My Own Story Brian Wilson (Harper Collins, 1991).

25 luglio 1965

Scandalo al festival folk di Newport: Bob Dylan vìola i principî della manifestazione, facendosi accompagnare da strumenti elettrificati. Nasce la figura del cantautore.

Ogni comunità ha le sue regole. E nei circuiti folk vige la norma secondo cui la musica deve essere acustica. È convinzione diffusa che Bob Dylan appartenga a quel mondo e ne rispetti i rituali. Ma le cose stanno diversamente. Il disco edito al principio dell’anno lo aveva preannunciato: una metà di Bringing It All Back at Home era «elettrica», a cominciare da Subterranean Homesick Blues, ricalcata sul canovaccio del classico di Chuck Berry Too Much Monkey Business. Perché Dylan non si considera un artista folk, evidentemente. Il rock’n’roll vale per lui come riferimento tanto quanto l’esempio del suo maestro Woody Guthrie. Così non fa altro che rendere più rock il folk: un peccato mortale per i puristi, che lo accusano di aver tradito la causa, come il pubblico inviperito al festival di Newport o lo spettatore che il 17 maggio 1966, alla Free Trade Hall di Manchester, lo apostrofa gridando nel silenzio: «Giuda!» (ottenendo in cambio un «Bugiardo sei tu!»). Ma d’altra parte Dylan attribuisce alle

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canzoni rock il valore politico proprio del folk: dà loro importanza nutrendole col frutto proibito della conoscenza. Perciò ha un impatto formidabile sulla cultura americana, rivoluzionando usi e costumi della musica popolare. Il documentario Don’t Look Back di Don Pennebaker, che immortala le tappe inglesi della tournée che nel 1965 esportò per la prima volta Bob Dylan fuori dai confini nazionali, coglie la tensione che c’era nell’aria, il cambiamento in atto. Un talento in piena fioritura. A precedere quei concerti, raddoppiando a pochi mesi di distanza l’effetto di Bringing It All Back at Home, era stata l’uscita di Highway 61 Revisited: primo disco totalmente elettrico dell’artista, dal memorabile incipit Like a Rolling Stone in avanti. E all’inizio del 1966, in uno studio di Nashville, alla vigilia di un’altra serie di show europei, Dylan aveva cominciato a dar forma all’album successivo, Blonde on Blonde: addirittura doppio, come nessuno fino ad allora – jazzisti a parte – aveva osato fare. Lavorava a ritmo incessante, anabolizzandosi con amfetamine, acidi e marijuana. Non avrebbe retto a lungo. L’incidente motociclistico dell’estate seguente gli impose la sosta di cui aveva bisogno. Insieme alla moglie si ritirò convalescente a Woodstock, in una casa distante una sessantina di chilometri dal sito che tre anni dopo avrebbe ospitato il festival dei festival. Durante quel periodo sabbatico ultimò il romanzo a cui stava lavorando, pubblicato poi nel 1971 e intitolato Tarantula. E quando riprese a suonare, lo fece con spirito ricreativo. Lì vicino, in una fattoria chiamata Big Pink, si erano stabiliti i musicisti che lo avevano accompagnato in tournée: tutti canadesi, tranne il batterista Levon Helm. Il gruppo aveva intenzione di registrare musica per conto proprio, ma la presenza nei dintorni di un Dylan ormai in via di guarigione spinse l’uno e gli altri ad abbozzare una collaborazione informale. Il risultato 203

furono ore e ore di materiale destinato a rimanere inedito fino al 1975 (quando fu dato alle stampe The Basement Tapes), alimentando una leggenda che l’inclusione di una parte di quei brani nel bootleg Great White Wonder – uno dei primi dischi «illegali» nella storia del rock – accrebbe ulteriormente. La formazione guidata dal cantante e chitarrista Robbie Robertson, di lì in avanti semplicemente The Band, mise a punto in quei mesi del 1967 l’album edito un anno dopo col titolo Music from the Big Pink: nitido manifesto di uno stile insieme fresco e tradizionale fatto di rock, country e rhythm’n’blues a cui il quintetto si sarebbe attenuto per il resto della carriera. Bob Dylan aveva festeggiato intanto il proprio ventisettesimo compleanno al riparo dagli sguardi indiscreti. Nato il 24 maggio 1941 da genitori ebrei e registrato come Robert Allen Zimmerman all’anagrafe di Duluth, in Minnesota, sulla sponda occidentale del Lago Superiore, quasi al confine col Canada, crebbe nella città mineraria di Hibbing, dove la famiglia si era trasferita nel 1946. Siamo in pieno Midwest: l’America profonda. Tra i suoi amori musicali in gioventù: lo sventurato divo country Hank Williams e i primi eroi del rock’n’roll, Buddy Holly e Little Richard. Già poco più che adolescente si esibiva nei locali della zona, avendo scelto come pseudonimo Bobby Dillon – da un personaggio, Matt Dillon, del telefilm western Gunsmoke. In repertorio: brani altrui, soprattutto di Leadbelly e Woody Guthrie. A spingerlo verso New York fu la passione per quest’ultimo: il folksinger originario, colui che viaggiando in lungo e in largo per il paese dalla Grande Depressione del 1929 in poi, una chitarra e poco altro come bagaglio, aveva definito i contorni della canzone politica americana. Il cantastorie militante. Da tempo afflitto dalla còrea di Huntington, malattia cronica e invalidante che infine lo uccise nell’ottobre 1967, Guthrie era 204

ricoverato in un ospedale del New Jersey. E là Dylan si recò nel gennaio 1961. Aveva fatto il grande passo. Entrare in contatto con la scena folk newyorkese, gravitante nell’area del Greenwich Village, fu quello successivo. Conobbe il veterano Pete Seeger, che ne era il fulcro, e altri giovani artisti che come lui aspiravano a raccoglierne l’eredità: Joan Baez, con cui per un po’ avrebbe fatto coppia fissa, e Phil Ochs. Si guadagnava da vivere esibendosi nei bar del quartiere e in una di quelle occasioni venne notato da John Hammond – talent scout della Columbia già responsabile dell’ingaggio di Billie Holiday. Aveva un contratto discografico, che cominciò a onorare nel 1962 con un album sulla cui copertina campeggiava il suo nuovo pseudonimo: Bob Dylan (verosimilmente in onore del poeta gallese Dylan Thomas). Tutte canzoni scritte da altri, in prevalenza standard del blues, tranne due: una delle quali, Song to Woody, dedicata a Guthrie. Lo stile era ancora grezzo e poco personale, ma il timbro nasale della voce era già quello che lo avrebbe reso celebre. Faceva comunque progressi a vista d’occhio e nel 1963 The Freewheelin’ Bob Dylan conteneva praticamente solo farina del suo sacco. E che farina! A Hard Rain’s Gonna Fall, Masters of War, Blowin’ in the Wind – quest’ultima adottata pochi mesi dopo come inno pacifista dai manifestanti nella marcia su Washington del 28 agosto, quella conclusa dal celebre discorso di Martin Luther King («I have a dream...»), e classificata in hit parade nella versione del trio Peter Paul & Mary. La valenza politica dell’opera era inequivocable. Anche se uno dei brani più taglienti, l’invettiva antifascista Talkin’ John Birch Society Blues, fu depennato dall’editore nella seconda tiratura del disco. I tempi stavano cambiando. Dylan lo scrisse e lo cantò nel 1964: il suo terzo album prendeva titolo dall’episodio chiave 205

– The Times They Are a-Changin’, appunto. Ma non sopportava la ressa di comitati e associazioni che cercavano di farlo diventare loro testimonial: era un cane sciolto, detestava muoversi in branco. E manifestò quei sentimenti nell’unico modo che conosceva: componendo altre canzoni e pubblicando ancora un disco, il secondo nel giro di qualche mese. Intestazione esplicativa anche in quel caso: Another Side of Bob Dylan. Mostrava cioè il rovescio della medaglia. Versi meno espliciti e diretti, allegorie e metafore, piuttosto. È il suo album più «poetico», quello in cui riecheggiano gli insegnamenti dei simbolisti francesi e della Beat Generation. Se ciò lo rese inviso a una parte della sinistra radicale, ne fece crescere viceversa esponenzialmente le quotazioni nel sottobosco artistico di Manhattan. Ormai era una partita a due su chi dovesse considerarsi in città il vero guru «alternativo»: lui contro Andy Warhol. Due concezioni opposte dell’arte e della vita. La resa dei conti avvenne alla Factory nel luglio 1965: Dylan arrivò accompagnato dal suo clan – il pretesto era un provino davanti alla telecamera. Finite le riprese, afferrò uno dei ritratti seriali di Presley realizzati da Warhol e disse: «Penso che in cambio mi prenderò questo». E se ne andò. Leggenda vuole che lo abbia usato poi come bersaglio per giocare a freccette. Di sicuro tempo dopo lo barattò con un divano. Era un personaggio tutt’altro che conciliante, come confermò pochi giorni dopo l’«incidente» di Newport. Quando tornò in scena nel 1968 con John Wesley Harding sembrava un’altra persona. I riferimenti biblici nei testi delle canzoni sorpresero anzitutto il suo pubblico, poco avvezzo alle Sacre Scritture. E anche le venature country da cui l’album era attraversato segnavano un mutamento di rotta rispetto all’elettricità rock dei suoi immediati predecessori. Uno scarto stilistico reso ancora più netto l’anno dopo da Nashville 206

Skyline. Che ci fossero problemi fu chiaro quando Dylan inaugurò il nuovo decennio con una doppietta discografica di scarsa qualità: Self Portrait e New Morning. Maltrattati dai critici, quei titoli non furono penalizzati commercialmente perché Dylan era ormai un’istituzione, e in quanto tale intoccabile. Lo dimostrò nel 1974 Planet Waves: opera appena accettabile che però rappresentò il primo «numero uno» in classifica della sua carriera. Intanto l’America si era popolata di cantautori, ovviamente tutti – chi più chi meno – ispirati al «maestro». Tra quelli maggiormente in auge: il James Taylor di Mud Slide Slim and the Blue Horizon e il Jackson Browne di Late for the Sky – ambedue romantici e intimisti. Fuori dal coro cantava invece Randy Newman, col suo stile ricco di humour e raffinatezza esposto eloquentemente in un album come Sail Away. Unico vero rivale di Dylan in termini di popolarità era il newyorkese purosangue Paul Simon. Coetaneo del signor Zimmerman, aveva nei suoi confronti un rapporto che oscillava tra l’ammirazione e l’invidia. Sentimento – quest’ultimo – alimentato da un complesso d’inferiorità «culturale», certo non dal rendimento commerciale della sua musica. Nel 1970 l’ultimo atto discografico del sodalizio ultradecennale con Art Garfunkel, l’album Bridge Over Troubled Water, dominò le classifiche statunitensi superando la soglia dei 10 milioni di esemplari venduti. I due – che tornarono poi per breve tempo insieme all’inizio degli anni Ottanta, prendendo a pretesto un concerto a Central Park di fronte a 400mila spettatori – si erano aperti la strada offrendo nel 1967 alcune canzoni al regista Mike Nichols per la colonna sonora del Laureato: Mrs Robinson e The Sound of Silence le più note. Rimasero però ai margini dei fermenti controculturali che scossero l’America nella seconda metà degli anni Sessanta: gradevoli og207

getti ornamentali in uno scenario dominato da forti passioni. Dei due, eclissatosi Garfunkel, più attivo come attore cinematografico che in veste di musicista, fu Paul Simon a raccogliere l’eredità musicale del lavoro in coppia. E lo fece in modo dignitoso durante gli anni Settanta, prima di esplorare nel decennio seguente i territori ancora vergini della world music con l’album Graceland. Gli anni Settanta di Dylan furono invece contraddittori. Il successo di Planet Waves fornì l’abbrivio ideale per la lunga tournée intrapresa con la Band nel 1974, ma se per valutarne l’andamento bisogna considerare il doppio disco dal vivo che ne fu ricavato, Before the Flood, il giudizio inclina verso la perplessità. A fugarla arrivò l’anno dopo un album che per molti rappresenta il suo ultimo capolavoro: Blood on the Tracks. Opera malinconica e a tratti struggente, evidentemente condizionata dalla fine del primo matrimonio, ma densa di canzoni memorabili, a cominciare dall’iniziale Tangled up in Blue («Intrappolato nella tristezza»). Sulla scia di quel disco prese forma il curioso happening chiamato Rolling Thunder Revue: carovana di arte varia – il veterano beat Allen Ginsberg, il commediografo Sam Shepard e poi i musicisti: l’ex Byrds Roger McGuinn, i vecchi amici Joan Baez e Phil Ochs (morto suicida pochi mesi più tardi)... – che girò l’America rievocando i bei tempi andati, seguita dalle telecamere in vista del film Renaldo and Clara. Così Dylan tenne desta l’attenzione intorno a sé, raccogliendone i frutti nel 1976 con Desire: ancora una volta in vetta all’hit parade. E il 25 novembre di quell’anno partecipò al commiato pubblico della Band, al Winterland di San Francisco. Martin Scorsese riprese lo show e ne ricavò l’eccellente The Last Waltz. Tra i convenuti: Eric Clapton, il bluesman Muddy Waters, Neil Young, Joni Mitchell e Van Morrison. 208

Cantautore sui generis, quest’ultimo. Già protagonista del beat a capo dei Them, passati alla storia grazie al superclassico Gloria, realizzò nel 1968 un disco da solista – il suo secondo – entrato negli annali: Astral Weeks. Opera visionaria, nemmeno definibile in modo preciso sul piano stilistico, ondeggiante com’è fra rock allo stato brado, jazz e musica da camera. L’artista irlandese non seppe dargli mai seguito adeguato, però, allineandosi col passare del tempo a un canone rhythm’n’blues via via sempre più prevedibile, ancorché schietto negli intenti e impeccabile nella forma. Diverso il discorso a proposito di Joni Mitchell, benché anch’ella durante la fase matura della carriera, ostaggio di orchestrazioni jazz sempre più manieristiche, abbia finito per perdere alla lunga il filo del discorso. A cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta fu una tra le rare icone femminili nelle gerarchie maschiliste del rock. Affermatasi grazie al festival di Woodstock, a cui non prese parte ma pensando al quale scrisse la canzone che finì per esserne l’inno non ufficiale, Woodstock appunto, affrontò il decennio successivo al massimo dell’ispirazione, inanellando una sequenza discografica di assoluto valore aperta dal suo capolavoro: Blue – album dov’è in piena luce la sua poetica delicatamente introversa, esaltata da un timbro di voce emotivo e cristallino. Ma fra i partecipanti al congedo della Band, chi più di altri – Dylan a parte – merita attenzione è Neil Young. Originario del Canada, per fare musica dovette trasferirsi ventenne in California. Là entrò a far parte dei Buffalo Springfield e poi, insieme a Stephen Stills, di un quartetto all stars completato da David Crosby e Graham Nash. Il vero supergruppo dei primi anni Settanta, come dimostrarono i trionfi commerciali di Déjà Vu e del doppio dal vivo Four Way Street (di cui faceva parte Ohio: instant song composta da Young in me209

moria dei quattro studenti uccisi dalla polizia nel maggio 1970, al culmine degli scontri accesisi all’esterno della Kent State University). L’attività collettiva non lo aveva distratto comunque dal cammino individuale, già segnato a cavallo dei due decenni da lavori di eccellente qualità: Everybody Knows This Is Nowhere e After the Goldrush. Ma il successo in grande stile arrivò con l’album seguente, nel 1972: Harvest divenne un caposaldo dell’epoca e impose ovunque l’intonazione malinconicamente miagolante della sua voce. Chi avesse pensato a quel punto che Neil Young, ormai rockstar affermata, fosse pronto a vivere di rendita avrebbe preso una cantonata. Prerogativa del personaggio, infatti, è l’imprevedibilità. Dopo aver carezzato gli orecchi nel 1978 col languido country di Comes a Time, Young stabilì l’anno dopo un contatto diretto col punk pubblicando Rust Never Sleeps: disco cupo e spigoloso, una canzone del quale – My My Hey Hey – contiene il verso «meglio bruciare che appassire» ripreso da Kurt Cobain nel suo messaggio di addio (commemorandolo Young avrebbe scritto nel 1994 la toccante Sleeps with Angels). E se nel 1982 aveva fatto infuriare discografici e appassionati confezionando un pastiche elettronico apparentemente incomprensibile, Trans, nel 1990 ritornò ai massimi livelli con Ragged Glory, cui fece seguire nel 1991 una tournée americana in tandem coi rumoristi newyorkesi Sonic Youth, il cui cammino coincise con la Guerra del Golfo (un’apocalittica versione della dylaniana Blowin’ in the Wind esprimeva in concerto il suo punto di vista sull’argomento). Indizio ulteriore della sua attenzione nei confronti dei musicisti di nuova generazione: attitudine confermata da una successiva liaison coi Pearl Jam. Molto più di un cantautore tradizionalmente inteso, alla fin fine. 210

Dylan al confronto è un conservatore. Non tanto per la svolta religiosa compiuta tra fine anni Settanta e inizio Ottanta, dopo aver aderito alla congregazione Born Again Christians, testimoniata da opere «confessionali» come Slow Train Coming, Saved e Shot of Love, quanto per la distanza che ha messo fra sé e l’attualità. Come se si fosse rinchiuso in una torre d’avorio. Atteggiamento in apparenza antitetico alla generosità con cui nel corso di quel decennio si è concesso dal vivo, approdando anche – nel 1984 – per la prima volta in Italia. I suoi anni Ottanta non sono stati memorabili, nonostante un paio di opere dignitose: Infidels (1983) e Oh Mercy (1989). In un episodio della seconda, Shooting Star, canta: «Stanotte ho visto una stella cadente e ho pensato a me / se ero ancora lo stesso, se mai sono diventato / ciò che volevate che fossi». Un filo d’amarezza segna questa fase nella carriera di Dylan, sensazione che trova conferma in una lapidaria dichiarazione del 1991: «Il mondo non ha più bisogno di canzoni». Ma lui ha continuato a farne, e anche di importanti, come alcune di quelle incluse nell’album del 2001 Love and Theft, il suo migliore dai tempi di Blood on the Tracks. Il problema, semmai, è doversi misurare con un passato così glorioso, e dunque ingombrante. Roba da Premio Nobel per la Letteratura, come a un certo punto sembrava dovesse essere ma non è stato. Esistesse quello per la Musica, lo avrebbe già ricevuto, tanto è stata influente la sua azione sui destini del rock. Un’impollinazione su scala mondiale: questo l’effetto del «dylanismo». Tra i primi a mettersi su quella lunghezza d’onda, il poeta e scrittore canadese Leonard Cohen. Dopo aver pubblicato numerose raccolte di poesie e due romanzi (The Favourite Game e Beautiful Losers), nel 1966 puntò su New York ed entrò a far parte della bohème che bazzicava il Chelsea Hotel. A valorizzarne l’inesplorato talento musicale fu il 211

«solito» John Hammond, che lo fece scritturare dalla Columbia. Risultato immediato: due dischi straordinari – Songs of Leonard Cohen e Songs from a Room, tra il 1967 e il 1969. E canzoni che il timbro cavernoso della voce rendeva sensualmente spettrali: Suzanne, Sisters of Mercy, Bird on a Wire... Ebbero successo a tal punto da spingere Cohen verso il festival dell’isola di Wight (1970) e nuovamente in sala di registrazione, per dar forma a Songs of Love and Hate (1971). Da allora si è progressivamente allontanato dalle scene musicali, deluso dal risultato della collaborazione con Phil Spector (Death of a Ladies Man nel 1977) e dal minore interesse suscitato nei media dai due album editi negli anni Ottanta, Various Positions e I’m Your Man. Tra i maggiori estimatori del primo Cohen c’era Fabrizio De André, che incluse nel proprio repertorio rielaborazioni in lingua italiana di alcuni suoi brani. Così come del resto fece di pagine classiche di Georges Brassens, caposcuola degli chansonniers francesi e fonte d’ispirazione primaria per Jacques Brel, che proprio per seguirne le orme abbandonò la natia Bruxelles trasferendosi a Parigi a metà anni Cinquanta. Brel sarebbe divenuto in seguito, grazie a canzoni come Ne me quitte pas e Amsterdam, una tra le poche voci della prospera tradizione cantautoriale europea ad aprirsi un varco nell’impenetrabile roccaforte angloamericana, apprezzato – e reinterpretato – tanto da Frank Sinatra quanto da David Bowie. Unico altro caso significativo è quello di Serge Gainsbourg: colui che Salvador Dalì chiamava «maestro», come narra la leggenda. Personaggio tanto sregolato quanto geniale, perciò amatissimo dalle donne (Brigitte Bardot, Jane Birkin), in musica è stato «precursore della modernità pop», come ha scritto il settimanale francese «Les Inrockuptibles» nel numero speciale pubblicato in occasione del decennale 212

della scomparsa, avvenuta il 2 marzo 1991. La sera dopo, in Francia, a seguire lo special dedicato alla sua memoria dalla televisione pubblica, si radunarono di fronte ai teleschermi 20 milioni di spettatori. Era un eroe nazionale, ancorché maudit. E quel suo modo di essere cantautore aperto e curioso nei confronti della nuove musiche, si trattasse del reggae o dell’hip hop, lo ha reso esempio di un approccio più attuale a quel ruolo. Sull’altra sponda della Manica, dove l’abitudine è orientata piuttosto verso le rock bands o i solisti pop, la figura del cantautore rappresenta un’eccezione anziché la regola. In epoca recente, l’unico protagonista di livello internazionale espresso dall’Inghilterra su quel versante è il bizzarro Elvis Costello, musicista colto e geniale, per più di una ragione – dal timbro di voce al temperamento creativo – accostabile proprio al modello dylaniano, soprattutto nella fase matura della carriera rappresentata da dischi quali King of America e When I Was Cruel. Diversa era la situazione negli anni Settanta, quando in scia al signor Zimmerman anche la Gran Bretagna schierò i suoi folksinger (Donovan e Cat Stevens i più popolari), benché nessuno avesse statura paragonabile a quella dei colleghi statunitensi. Con un’eccezione: Nick Drake – autore squisito, come dimostrano i tre album editi fra il 1969 e il 1973 (Five Leaves Left, Bryter Layter e Pink Moon), e uomo sensibilissimo, che pagò però con la vita la propria fragilità emotiva, suicidandosi nel novembre 1974. Destino che lo ha reso oggetto di culto venerato ancora ai giorni nostri. Altrettanto avara, poco più di sei mesi dopo, fu la sorte riservata al californiano Tim Buckley: uno tra i personaggi più eccentrici nella scena della West Coast, in sé già piuttosto bizzarra. Artista fuori schema persino rispetto ai canoni del rock psichedelico di San Francisco. Il suo era folk alla deriva ver213

so le frontiere del jazz improvvisato: musica autenticamente visionaria. Usava la voce, insieme fragile e stentorea, come strumento. Dai primi dischi di fine anni Sessanta ancora rispettosi della forma canzone – Goodbye and Hello, Happy Sad, Blue Afternoon – a quelli editi all’inizio del decennio seguente, in caduta libera verso l’imprevedibile – Lorca, Starsailor. Irrequieto nell’esistenza come in musica, morì ucciso dall’eroina il 29 giugno 1975. E come una maledizione la sventura ricadde da una generazione all’altra. Jeff Buckley, che aveva visto il padre – in fuga dalla madre quando ancora era incinta – una volta sola, nemmeno fece in tempo a diventare la stella che tutti pensavano potesse essere. Realizzò in vita un album soltanto, Grace, nel 1994, prima di annegare in un affluente del Mississippi il 29 maggio 1997. Aveva esordito a New York sei anni prima, proprio in occasione di un memorial celebrato in onore di Tim Buckley. Ne aveva ereditato l’aspetto angelico, ma soprattutto la voce. E ciò lo aveva reso immediatamente popolare. Quel che resta di lui è un lascito di musiche sparse in una pletora di produzioni postume. Maggiore fortuna è toccata all’australiano Nick Cave, le cui rischiose abitudini chimiche lo avevano portato in gioventù sulla soglia dell’autodistruzione. Era allora cantante in un gruppo chiamato Birthday Party, che su disco e dal vivo distillava ferocia pura nutrendosi di punk e blues. Esaurita quell’esperienza all’inizio degli anni Ottanta, scavò a fondo nelle proprie ossessioni per definire il suo nuovo profilo artistico. Il mito di Elvis, anzitutto: celebrato nel 1985 in The Firstborn Is Dead. E poi una fascinazione irresistibile per il gotico statunitense: William Faulkner e Flannery O’Connor come stelle polari per orientarsi fra religione e follia. Che covasse una spiccata inclinazione letteraria era chiaro: aveva chiamato il suo gruppo Birthday Party pensando all’omoni214

mo testo teatrale di Harold Pinter e battezzato The Bad Seeds quello che ne assecondava le imprese da solista traendo spunto da un romanzo dello scrittore di fantascienza John Wyndham. E alla fine diede sfogo alla propria vocazione in un romanzo edito nel 1989: And the Ass Saw the Angel. Forse la migliore prova letteraria mai realizzata da un musicista. Quanto all’attività principale, è proseguita con successo negli anni Novanta, via via disancorandosi dal cliché del «poeta maledetto» e avvicinandosi a quelli del cantautore professionista tout court. Metamorfosi che non pare intenzionato a compiere Tom Waits: straordinario e ineffabile protagonista della musica contemporanea, molto più e insieme molto meno di un cantautore convenzionalmente inteso. Fece gavetta a Los Angeles nei primi anni Settanta suonando nei club per nottambuli: immerso nella bohème locale con il proprio eclettico vocabolario sonoro – schegge di Tin Pan Alley, jazz di seconda mano, blues al gusto di catrame. Strumenti per scandagliare il sottobosco umano che si anima dopo il tramonto: il Sogno Americano osservato dal basso, come avevano insegnato a fare Kerouac e Bukowski. E raccontato con una voce irruvidita dai vizi. A sintetizzarne la prima fase della carriera, il palpitante album del 1979 Blue Valentine. Subito dopo l’inversione di rotta. Musiche inaudite: create – parole sue – «per dare forma ai rumori che avevo in testa», fatte di ritmi vacillanti e armonie asimmetriche, come un Kurt Weill farneticante, e orchestrate ricorrendo a fonti sonore che solo un autocostruttore geniale come Harry Partch avrebbe potuto concepire. Fatto sta che il disco della svolta, Swordfishtrombones (1982), resta uno dei capitoli più enigmatici in tutta la storia musicale del Novecento. In fondo ciò che Waits produce assomiglia alla sua faccia: angolosa e scavata dall’espe215

rienza. Non sorprende che se ne sia impadronito il cinema per mano di Jim Jarmusch – Daunbailò, insieme a Benigni – e Robert Altman – America oggi. Ma l’America di Tom Waits è anche quella di ieri. E forse, chissà, di domani.  After the Goldrush Neil Young (Reprise, 1970).  Astral Weeks Van Morrison (Warner Bros, 1968). 

Beautiful Losers Leonard Cohen (Fandango, 2003).

 Bridge Over Troubled Water Simon & Garfunkel (Columbia,

 

 

 

1970). Don’t Look Back D.A. Pennebaker (Warner Bros, 1991). E l’asina vide l’angelo Nick Cave (Arcana, 1991). Highway 61 Revisited Bob Dylan (Columbia, 1965). Swordfishtrombones Tom Waits (Island, 1983). The Last Waltz Martin Scorsese (Mgm, 1994). Vita e musica di Bob Dylan Robert Shelton (Feltrinelli, 1987).

11 gennaio 1963

I Beatles pubblicano il loro secondo 45 giri «Please Please Me»: sono per la prima volta in vetta all’hit parade inglese. Ma hanno i Rolling Stones alle costole.

È l’innesco della beatlemania: da Please Please Me in avanti, per sette anni di fila, il mondo non sarà più lo stesso. Come se si fosse scatenata una pandemia: difficile restarne immuni. La seconda esplosione pop, successiva alla nascita del rock’n’roll e alla beatificazione di Presley: un vero spartiacque generazionale, come in seguito accadrà nuovamente con l’avvento del punk. Dopo Elvis e più di Elvis. Quattro contro uno: il confronto tra l’appeal di un singolo individuo, per quanto magneticamente affascinante, e quello esercitato da un gruppo, che già suggerisce un’idea di comunità e propone di sé un profilo pubblico più ricco di sfaccettature, è in effetti impari. E a ciò si aggiunga il fatto che Elvis e il rock’n’roll vissero il proprio stato di grazia con ingenua inconsapevolezza, mentre all’epoca dei Beatles le meccaniche del consumo di massa degli artefatti pop sono già oggetto di studio. Perciò gli effetti provocati dalla beatlemania sono infinitamente superiori a quelli generati dal boom di Presley. Una vera rivoluzione di costume che

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a partire dalla musica investe abbigliamento, linguaggio e relazioni sociali, sollecitando energie latenti e aggregandole. Si allungano i capelli dei ragazzi e si accorciano le gonne delle ragazze, secondo i dettami imposti da Mary Quant a Carnaby Street. E Londra diventa swinging. Il posto dove tutti vorrebbero stare. In verità, com’è noto, la storia era cominciata a Liverpool – città portuale a forte vocazione industriale. Erano figli della working class tanto John Lennon quanto Paul McCartney, che da adolescenti cominciarono a suonare insieme nel 1957 in un gruppo chiamato Quarrymen. Un anno dopo arrivò George Harrison e nel 1959 il team fu ribattezzato Johnny & The Moondogs. In repertorio i classici del rock’n’roll, la cui onda lunga aveva lambito a quel punto anche l’Inghilterra. La denominazione con cui divennero celebri venne coniata nell’agosto 1960. Frattanto erano diventati cinque: dietro la batteria sedeva Pete Best e il bassista era Stuart Sutcliffe – estromesso poi nel 1961 e morto l’anno dopo per emorragia cerebrale: la storia dei primissimi Beatles è raccontata dal suo punto di vista nel film Backbeat di Iain Softley. Per fare gavetta scelsero di trasferirsi ad Amburgo: altro porto di mare, situato alla stessa latitudine di Liverpool. Una volta tornati in città, riuscirono a farsi scritturare – in cambio di cinque sterline! – dal Cavern, covo della scena rock locale, dove esordirono il 9 febbraio 1961. E poi via, di nuovo verso Amburgo: destinazione Star Club. In occasione della seconda trasferta in Germania vennero reclutati dal produttore Bert Kaempfert per accompagnare come Beat Brothers il cantante Tony Sheridan nella registrazione del 45 giri My Bonnie, un piccolo successo nell’hit parade tedesca. Fu notando l’interesse di alcuni suoi clienti per quel titolo a lui sconosciuto che Brian Epstein, negoziante di dischi, si 218

incuriosì e andò al Cavern per assistere a uno dei numerosissimi concerti – 300 in due anni – che i Beatles tennero nell’angusto scantinato di Mathew Street. Rimase folgorato e si propose immediatamente come manager. I quattro accettarono. E all’inizio del 1962 Epstein si mise in azione, dopo aver fatto registrare loro alcuni provini. Non fu facile trovare un editore disposto a dargli retta: incassò dinieghi da Decca, Pye e Philips prima di incontrare il produttore George Martin, che come lui si appassionò ai Beatles (avrebbe lavorato con loro fino alla fine) e attraverso la Parlophone, sussidiaria del gruppo Emi, li mise sotto contratto. Epstein – che frattanto aveva dato il benservito a Pete Best rimpiazzandolo con Richard Starkey, in arte Ringo Starr – non aveva dubbi: «Diventeranno più famosi di Elvis», scrisse a un amico. E la storia gli ha dato ragione. Anche se in classifica il primo 45 giri dei Beatles, Love Me Do, pubblicato nell’ottobre di quell’anno, non fece meglio di un onorevole 21° posto. Identica posizione raggiunta 11 mesi più tardi dal singolo d’esordio dei Rolling Stones: Come on. La differenza sta nel fatto che i Beatles avevano debuttato con un brano firmato Lennon/McCartney, mentre gli Stones avviarono la loro carriera discografica con una canzone di Chuck Berry, accoppiata a uno standard del bluesman Willie Dixon: I Want to Be Loved. Proprio la comune passione per il blues aveva rinsaldato l’amicizia fra Mick Jagger e Keith Richards, che si erano ritrovati nel 1960 dopo essere stati compagni di scuola alle elementari nel sobborgo londinese di Dartford. Presero a frequentare insieme l’Ealing Club, base operativa dei Blues Incorporated di Alexis Korner, gran visir del blues revival nella capitale. Vigeva la regola delle jam session: tutti suonavano con tutti e andasse come doveva andare. Così Jagger e Richards conobbero l’eclettico chitarrista Brian Jones. Dopo 219

una fase di rodaggio durata alcuni mesi e l’avvicendamento di alcuni membri, con un assetto non ancora stabile, il gruppo si esibì in pubblico il 22 luglio 1962 al Marquee di Londra presentandosi per la prima volta con quel nome mutuato dal classico blues di Muddy Waters Rolling Stone. È solo a cavallo tra il 1962 e il 1963 che i Rolling Stones definiscono il proprio organico con l’ingresso in formazione del bassista Bill Wyman e del batterista Charlie Watts. Concerti su concerti, di lì in avanti: in locali come il Flamingo o il Crawdaddy, snodi cruciali nella mappa musicale del comprensorio londinese. Ma anche provini in studio da sottopporre all’attenzione di impresari e discografici. A dar loro retta è Andrew Loog Oldham, intraprendente talent scout destinato a diventarne il manager. Tocca a lui spendersi in cerca di un contratto, che spunta infine quando riesce ad adescare i dirigenti della Decca, scottati per essersi lasciati sfuggire i Beatles. Il primo incontro fra i quattro di Liverpool e la banda di Jagger e Richards avviene al termine di un’esibizione degli Stones al Crawdaddy, il 14 aprile 1963. Cortesia che gli Stones ricambiano presenziando quattro giorni dopo a uno show dei Beatles alla Royal Albert Hall. Per intercessione di Oldham, addirittura, ottengono di poter utilizzare nel proprio secondo 45 giri un brano inedito di Lennon e McCartney: I Wanna Be Your Man. Si era già in piena beatlemania, allora. Dopo il successo di Please Please Me, il quartetto aveva pubblicato in marzo l’album intitolato nello stesso modo: anch’esso destinato al primo posto in classifica. Oltreoceano la febbre ancora non era salita, invece: Introducin’ the Beatles (riedizione di Please Please Me con due brani in meno), edito in estate dalla Vee Jay, non sortì l’effetto sperato. Ma era solo questione di tempo. E di mezzi. A partire dal 1964 fu la major Capitol a oc220

cuparsi dell’affare sul fronte americano e le cose cambiarono come per incanto. Già in gennaio il 45 giri I Want to Hold Your Hand era salito in cima all’hit parade statunitense e in febbraio l’apparizione del quartetto all’Ed Sullivan Show venne seguita da 73 milioni di telespettatori. Risultato: tra fine marzo e inizio aprile le prime cinque posizioni nella graduatoria dei 45 giri più venduti erano occupate da altrettanti dischi dei Beatles: Can’t Buy Me Love, Twist and Shout, She Loves You, I Want to Hold Your Hand e Please Please Me. Fu a quel punto che oltreoceano si cominciò a parlare di British Invasion. Che, trattandosi di rock’n’roll, sarebbe come voler vendere frigoriferi agli eschimesi, ma tant’è: sulla scia dei Beatles ebbero successo altri esponenti del cosiddetto Merseysound (dal nome del fiume che attraversa Liverpool) come Gerry & The Pacemakers e Searchers, miracolati dal traino dei loro illustri concittadini. Intanto le cose andavano a gonfie vele anche in patria. Dopo 29 settimane consecutive al primo posto, l’album Please Please Me aveva ceduto il passo al seguente With the Beatles, che avrebbe mantenuto la posizione per altre 22 settimane – il totale non fa un anno esatto per soli sette giorni. E a scalzare With the Beatles dal vertice fu – immaginate un po’ – il primo long-playing dei Rolling Stones, contenente per altro una sola canzone scritta da Jagger e Richards: Tell Me. La rivalità fra i due gruppi era nei fatti: importava poco che fosse intenzionale o meno. Chi aveva capito che conveniva alimentarla era Andrew Loog Oldham, convinto che i Rolling Stones potessero e dovessero affermarsi contro i Beatles. Perciò orchestrò la campagna che presentava gli Stones come i «cattivi» della situazione, opponendoli al «buonismo» dei Beatles: «Il gruppo che i genitori amano odiare» era lo slogan da diffondere attraverso i media, ovviamente allettati dall’idea 221

di poter fomentare la competizione, che a sua volta racchiudeva un antagonismo territoriale: la periferia – Liverpool – contro la capitale. Ma le cose stavano davvero così? Ad ascoltare la musica sembra di sì: il rock vibrante di blues degli Stones, grezzo e aggressivo, contro quello ammorbidito dalle influenze pop dei Beatles, che traevano ispirazione dalle produzioni americane targate Brill Building e Motown. A osservarne il contegno poi, insolente ed erotico nel caso della banda di Jagger – con le sue labbra da pornostar – e invece aggraziato e tutt’al più galante quello di McCartney e i suoi, la sensazione di aver di fronte due identità opposte, alternative l’una all’altra, si rafforza. Ma i fatti raccontano un’altra verità: i Beatles avevano aperto il varco e creato le condizioni e il contesto in cui gli Stones cominciarono ad agire, non viceversa. E in ogni caso, a quel punto, il successo degli uni moltiplicava quello degli altri. Rivali sulla carta, vivevano in realtà un rapporto di reciproca dipendenza. Con i Beatles che – a parità di valori anagrafici: età media 23 anni circa, nel 1964 – mantenevano il vantaggio che aveva assicurato loro l’anticipo con cui si erano messi in moto. Sbarcati per primi oltreoceano (gli Stones vi si affacciarono sei mesi dopo), continuavano a primeggiare in classifica e ormai si erano affrancati dalle canzoni altrui. In luglio era uscito A Hard Day’s Night: primo album composto interamente da brani scritti da Lennon e McCartney. Si trattava della colonna sonora del film omonimo diretto da Richard Lester. Come accaduto già con Presley, dopo i dischi era venuto il momento di sconfinare nel cinema. Ma la concorrenza degli Stones era incalzante: se a fine anno nell’hit parade inglese svettava Beatles for Sale, all’inizio del 1965 gli subentra Rolling Stones N° 2. Colpo di scena a giugno: viene annunciato ufficialmente che la Regina Elisabetta 222

intende conferire ai Beatles l’Ordine dell’Impero Britannico, ossia il titolo di baronetti (come effettivamente accadrà nella cerimonia ufficiale del 26 ottobre a Buckingham Palace, nei cui bagni leggenda vuole che i quattro abbiano fumato una canna prima di ricevere l’onorificenza). Se c’erano dubbi su chi fossero i «buoni» e chi i «cattivi», la notizia li dissipa immediatamente. Anche perché a luglio gli Stones fanno circolare la più riottosa fra le loro canzoni: (I Can’t Get No) Satisfaction. Eccellente battistrada per l’album che segue: Out of Our Heads («Fuori di testa»). Al primo posto in America, ma soltanto secondo in patria: davanti ha la colonna sonora di Help!, il secondo film dei Beatles. Un successo replicato a fine anno da Rubber Soul, unanimemente accolto come un capolavoro. Con quel disco i Beatles avevano alzato la posta e ampliato il ventaglio delle possibilità. Viaggiando per concerti negli Stati Uniti erano entrati in contatto con la nascente sottocultura hippie e il suo armamentario psichedelico. L’eco di quell’esperienza rimbalza tra i solchi di Rubber Soul. E la stessa cosa stava capitando agli Stones, al lavoro su un album provvisoriamente intitolato Could You Walk the Water? («Puoi camminare sulle acque?»), che la Decca rifiuterà di pubblicare (parte del materiale fu recuperato in Aftermath: primo long-playing interamente composto di brani autografi). Evidentemente lo status raggiunto dai due gruppi aveva dato loro alla testa. L’unità di misura erano diventati i messia. Alla vigilia della tournée americana del 1966, coincidente con l’uscita di Revolver, John Lennon pronunciò la frase fatidica: «Siamo più famosi di Gesù Cristo». Non l’avesse mai detto. Nelle roccaforti religiose della Bible Belt i fondamentalisti misero al rogo i loro dischi. E di sicuro non portò bene al quartetto, visto che quella serie di concerti ne concluse la car223

riera dal vivo. Mentre per i Rolling Stones l’America era diventata irraggiungibile a causa delle grane legali dovute al consumo di stupefacenti, e tale rimase fino al 1969. Già, le droghe. Jagger, Richards e Brian Jones avevano cominciato a collezionare arresti per detenzione di sostanze proibite. Ma non è che i rassicuranti Beatles fossero da meno. All’inizio del 1967, dovendo spiegare il senso altrimenti enigmatico di un brano come Strawberry Fields Forever, McCartney ammise candidamente di aver provato l’Lsd. Dalle iniziali delle parole chiave del titolo di una delle più celebri canzoni del disco dei Beatles uscito il 1° giugno di quell’anno, Lucy in the Sky with Diamonds, si ricava appunto quell’acronimo. L’album in questione è Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band: il disco definitivo, frutto di 700 ore di registrazione rielaborate fino a raggiungere la perfezione. L’opera con cui il rock diventa «arte». Una nomea che ha resistito all’usura del tempo. In confronto Between the Buttons, pubblicato dagli Stones a febbraio, sembra piccino piccino, nonostante lo squisito charme di Ruby Tuesday e le torride avances sessuali di Let’s Spend the Night Together. Ma siamo alle soglie dell’Estate dell’Amore e tutti sono più buoni. Il 25 giugno i Beatles presentano in mondovisione il nuovo 45 giri, All You Need Is Love, e all’evento partecipano Mick Jagger e Keith Richards. Che in cambio ottengono da Lennon e McCartney un cameo in We Love You: brano che comparirà a fine anno nell’album «psichedelico» degli Stones – Their Satanic Majestic Request. Le strade dei due gruppi si incrociano così per l’ultima volta. Entrambi avevano perso il manager, frattanto. Chi intenzionalmente: gli Stones, che si erano sbarazzati di Oldham. E chi per sventura: il 27 agosto 1967 Brian Epstein era morto – suicida? – per overdose di psicofarmaci. In cerca di una guida, 224

i Beatles trovano il guru Maharishi Mahesh Yogi, che li convince ad andare in India, all’inizio del 1968. Hanno problemi pratici gli Stones, invece: la Decca censura la copertina di Beggars Banquet, raffigurante cessi pubblici e relativi graffiti, e in America è scattato il boicottaggio radiofonico del bellicoso 45 giri Street Fighting Men. A fine anno, inoltre, naufraga il progetto dello special televisivo Rock’n’Roll Circus, a cui avevano aderito John Lennon e Yoko Ono. Dal canto loro, i Beatles avevano portato a termine un’iniziativa analoga con Magical Mistery Tour, ma era stato un fiasco: il primo della carriera. Né andrà meglio la metamorfosi in imprenditori avviata con l’istituzione dell’Apple Corporation Inc. Quanto alla musica, il doppio album in preparazione è già lottizzato: segno che ormai ognuno fa da sé. E il successivo Get Back nemmeno vedrà mai la luce del giorno. Siamo agli sgoccioli degli anni Sessanta: i Beatles cesseranno presto di esistere e gli Stones si tramuteranno in azienda. Chi nel 1969 non se la passava male erano i Who, che pubblicarono l’opera rock Tommy: impresa discografica insieme geniale e grottesca – nel dicembre 1972 dal vivo in versione kolossal con la London Symphony Orchestra e un cast di cui facevano parte, tra gli altri, Ringo Starr e Peter Sellers, quindi anche film nel 1975 per mano del visionario regista inglese Ken Russell. Curiosa evoluzione per un gruppo nato all’insegna della rozzezza. Originario del quartiere popolare londinese di Shepherd’s Bush, il quartetto era emerso nei primi anni Sessanta come alternativa proletaria a Beatles e Rolling Stones. Chiave di volta fu l’intuizione del giornalista e faccendiere musicale Peter Meaden, che li convinse a farsi chiamare High Numbers e diventare così simbolo del movimento mod – l’apprezzamento high numbers è tipico di quel gergo. Unica traccia discografica dell’esperimento resta il 45 225

giri I’m the Face (ancora slang mod), ma il dado era stato tratto. Quando il nome cambiò in Who il gruppo aveva già un seguito di fedelissimi. E la violenza pre-punk dei loro show – Pete Townshend che sfasciava le chitarre, Keith Moon che picchiava come un ossesso sui tamburi, Roger Daltrey che faceva roteare insidiosamente il microfono – aveva conquistato anche gli scettici. La raffica di 45 giri editi nel 1965 lasciò il segno: I Can’t Explain, Anyway Anyhow Anywhere (che divenne sigla del programma televisivo Ready Steady Go!), My Generation. Quest’ultima è la canzone che conta – il verso portante fa: «Voglio morire prima di invecchiare». L’unico a riuscire nell’impresa è stato Keith Moon, ucciso da un’overdose di psicofarmaci l’8 settembre 1978. Al bassista John Entwistle ha ceduto invece il cuore a 58 anni, nell’estate del 2002. I due responsabili del proclama, Daltrey che lo annunciò in un’intervista e Townshend che lo mise nero su bianco, sono ancora vivi e vegeti. Scherzi del rock’n’roll... A tempesta placata, quando già si era nei Settanta, lo stesso Townshend affermò: «Il rock’n’roll non risolve i tuoi problemi, ma ti permette di ballarci su». Più dei dischi – gli impacciati album a soggetto A Quick One e Sell Out, rispettivamente del 1966 e del 1967 – meritano di essere ricordati i concerti: le trionfali esibizioni a Monterey e Woodstock, oppure quella immortalata nel 1970 in Live at Leeds. Tranne Who’s Next, al primo posto in Gran Bretagna nel 1971, gli album in studio convincono meno. Ridondanti, spesso: come Quadrophenia del 1973, pretesto per ripercorrere la saga dei mods, a cominciare dai leggendari scontri del 1964 coi rockers sulla spiaggia di Brighton, riprodotti cinematograficamente nel film omonimo del 1979. Anno in cui si poté vedere anche il documentario autocelebrativo The Kids Are Alright. Ad arrestare il cammino dei Who, ripreso poi nel 1989 con un’e226

stemporanea tournée americana, fu l’incidente avvenuto durante lo show del 3 dicembre 1979 al Riverfront Coliseum di Cincinnati: nella ressa all’entrata morirono 11 persone. Un gruppo che per qualche tempo insidiò il primato dei Who nella tribù mod furono gli Small Faces. Anch’essi londinesi, come denunciava inequivocabilmente l’accento cockney del cantante Steve Marriott, esordirono in maniera folgorante nel 1965 col 45 giri Watcha Gonna Do About It, canzone in seguito ripresa addirittura dai Sex Pistols. Prestazione migliorata l’anno dopo con All or Nothing, in vetta all’hit parade britannica nonostante Beatles e Stones. E ogni qual volta cambiarono registro, lo fecero con cognizione di causa: la svolta psichedelica nel singolo Itchycoo Park del 1967 fu competente ed efficace, la deriva pop imboccata un anno più tardi con Lazy Sunday non fece gridare al tradimento e l’album successivo Odgen’s Nut Gone Flake, pur essendo un disco concept, trovò il modo di salire al primo posto in classifica. Ma il quartetto era arrivato al capolinea. Tolto Steve Marriott, destinato a morte prematura nell’incendio della sua casa nell’aprile 1991, gli altri fecero comunella con l’astro nascente Rod Stewart, ribattezzandosi semplicemente Faces. Carriere volatili: un denominatore comune per larga parte del beat inglese. Esemplare il caso degli Yardbirds, fondati nel 1963 e chiamati così in onore del nomadismo celebrato da Kerouac. Inizialmente furono epigoni dei Rolling Stones: ne presero il posto come band di casa al Crawdaddy suonando rock blues con grande energia. Ma il mondo si accorse di loro quando inocularono nella propria miscela musicale una dose consistente di melodia pop, in 45 giri come For Your Love, Heart Full of Soul e Shapes of Things. Soprattutto furono una palestra per grandi chitarristi: a cominciare da Eric Clapton, che abbandonò il gruppo nel 1965 per praticare l’orto227

dossia blues nei Bluesbreakers di John Mayall e dedicarsi quindi – con Ginger Baker e Jack Bruce – a una sorta di hard rock primigenio nei Cream. Poi fu la volta di Jeff Beck, a cui si affiancò in seguito Jimmy Page: colui che a fine decennio tramutò la nuova versione degli Yardbirds in Led Zeppelin. Unico neo, in una carriera immacolata, fu la paradossale comparsata al festival di Sanremo del 1966, in tandem con Lucio Dalla (Paff... Bum!) e Bobby Solo (Questa volta). Degli Animals guidati da Eric Burdon, cantante bianco con voce da nero originario di Newcastle, ci si ricorda soprattutto per via della versione che diedero nel 1964 di House of the Rising Sun: ballata tradizionale già inclusa da Dylan nel suo primo album. A portarla in cima alle classifiche furono però costoro, che quasi replicarono il successo l’anno dopo impadronendosi di uno standard di Nina Simone: Don’t Let Me Be Misunderstood. Una cover band di lusso, alla fin fine. Più interessanti dal punto di vista creativo gli esperimenti psichedelici compiuti da Burdon coi New Animals a fine decennio, su tutti quelli inclusi nell’album del 1968 The Twain Shall Meet, prima di avere finalmente a disposizione un gruppo nero tutto per sé: i War. Altro nero/bianco che rivelò allora il proprio talento è Steve Winwood: cantante adolescente nello Spencer Davis Group di Gimme Some Lovin’, Keep on Running e I’m a Man, tra il 1966 e il 1967, e poi leader dei Traffic. E analogo discorso sul colore della pelle che uno ha e su quello che invece vorrebbe avere può essere fatto a proposito di Van Morrison, che nel 1964 partì dall’Irlanda alla conquista del mondo a suon di Gloria coi Them, a cui però fu fatale la prima tournée americana. Il vero outsider del beat inglese è tuttavia Ray Davies, che insieme al fratello Dave organizzò nel 1964 i Kinks. Un nome, un programma: «Vizietti». Partirono in quarta, a tutto 228

volume: il terzo 45 giri, You Really Got Me, al primo posto in classifica e quello successivo, All Day and All of the Night, appena un gradino sotto. Sembrava gareggiassero in forza d’urto con Who e Rolling Stones. Ma avevano in serbo sottigliezze inattese: il secondo «numero uno» della carriera, Tired of Waiting You, era una ballata degna dei migliori Beatles. E altrettanto dicasi del terzo smash hit della carriera: Sunny Afternoon, languida melodia cesellata da Davies nel 1966. Da poco avevano fatto capire di che pasta erano fatti veramente: Dedicated Follower of Fashion metteva in croce i maniaci di Carnaby Street. Ironia e nonsense diretti contro gli stereotipi del rock’n’roll: divenne questa la specialità della casa. Dileggi sostenuti da una qualità di scrittura sopra la media. Il critico del «Village Voice» Robert Christgau magari esagerò a definire Waterloo Sunset «la più bella canzone in lingua inglese», ma non di molto. A frenarne la corsa al successo furono guai legali che impedirono loro di sbarcare oltreoceano. Rimasero così un prodotto a consumo interno: apprezzatissimo dagli estimatori, in album a soggetto come The Kinks Are Village Green Preservation Society (1968) e Arthur – Or The Decline and Fall of the British Empire (1969), o nel gustoso vaudeville che inscenavano dal vivo, ma via via sempre più lontani dal grande pubblico, nonostante canzoni di smagliante brillantezza come Lola (1970). Elevandosi al rango di coscienza critica del beat inglese, Ray Davies si condannò al destino dei grilli parlanti, tanto arguti quanto inascoltati.  A Hard Day’s Night Richard Lester (Mpi, 1995).  Beatles. L’enciclopedia Bill Harry (Arcana, 2001).  Beggars Banquet Rolling Stones (Decca, 1968).  Greatest Hits Kinks (Rhino, 1989).

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 Live at Leeds Who (Track, 1970).

 Quadrophenia Franc Roddam (Rhino, 1995).  Ready Steady Go! The Smashing Ride and the Giddy Fall of Swinging London Shawn Levy (Doubleday, 2002).  Rubber Soul Beatles (Parlophone, 1965).  Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band Beatles (Parlophone, 1967).  Stoned Andrew Loog Oldham (Arcana, 2001).

19 luglio 1954

La Sun Records pubblica il primo 45 giri di Elvis Presley e il rock’n’ roll trova così il suo re: un ribelle che ama Dio, Patria e Famiglia.

Affermare che il rock’n’roll sia nato col primo 45 giri di Elvis è storicamente impreciso, ma agli occhi del mondo le cose sono andate così. Conta la scossa originaria: quella che segna un prima e un dopo. Ovviamente le condizioni necessarie affinché succedesse qualcosa erano già in atto. Il boom economico delle nazioni uscite vincitrici dalla Seconda guerra mondiale: su tutte gli Stati Uniti d’America, un concentrato di forza, opulenza e sviluppo. Indice fra i tanti di tale condizione fu la scolarizzazione di massa, processo che aveva fornito ai giovani un’occasione di autoaffermazione e indipendenza attraverso la definizione di un’identità collettiva cementata da comportamenti e consumi condivisi in fatto di abbigliamento, gergo e musica. Circostanza immortalata tempo dopo dal regista George Lucas in American Graffiti. La trama relazionale costituita da quei codici iniziatici favoriva l’emancipazione dai modelli domestici e alimentava un conflitto generazionale per il momento circoscritto all’ambito familiare. Prima di altri ne era divenuto simbolo l’attore James Dean, rivelatosi nel 1954

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con La valle dell’Eden e interprete nel 1955 di un film dal titolo più che eloquente: Gioventù bruciata. La morte a cui era andato incontro il 30 settembre dello stesso anno, guidando un’auto a tutta velocità, lo aveva reso simbolo dell’irrequietezza giovanile. Il motto associato allora alla sua figura – looking good, living fast, dying young («avere bell’aspetto, vivere veloce, morire giovane») – dichiarava che il rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta liberava energie che potevano essere anche autodistruttive. Ma se i giovani cominciavano a essere un «problema», rappresentavano d’altra parte un «affare». Si stavano configurando infatti come categoria mercantile inedita e coesa. La dialettica fra ribellione e consumismo che avrebbe segnato il corso del costume giovanile nei decenni a venire si attivò allora. Insieme ad alcuni capi d’abbigliamento (si pensi ai blue jeans e alle t-shirt), i dischi si imposero negli anni Cinquanta come prodotto destinato al consumo di massa proprio grazie a quella nuova classe di acquirenti. E così la musica pop divenne ribalta collettiva in cui inscenare la commedia generazionale. Occorreva però un suono che identificasse la trasformazione in atto: lo zuccheroso swing dell’orchestra di Glenn Miller, in auge durante gli anni Quaranta, aveva fatto il suo tempo. C’era elettricità nell’aria: a generarla erano gli strumenti amplificati, in primo luogo la chitarra. Il blues era diventato rhythm’n’blues e i race records incisi dai neri per i neri avevano cominciato a sfondare la barriera razziale allettando il pubblico bianco, come già era accaduto vent’anni prima col jazz. Ad accorgersene per primo era stato Alan Freed: dj bianco di Cleveland che sulle frequenze di WJW trasmetteva quei dischi nel suo Moondog Show. È a lui che viene riconosciuta la paternità sull’espressione «rock’n’roll». 232

A quei tempi dire rock’n’roll significava alludere all’atto sessuale. Ma l’etimologia del termine è meno profana: negli anni Venti l’assonante rockin’ and reeling definiva un genere di spiritual particolarmente impetuoso. Nel saggio Le origini del rock, Robert Palmer riassume così la genesi di quello stile: «Alle fondamenta, la musica religiosa dei neri influenzò il blues, il blues rurale influenzò le canzoni folk dei bianchi, la musica popolare dei ghetti del nord influenzò il jazz e così via. [...] Il rock non avrebbe potuto svilupparsi da una tradizione afroamericana chiusa in se stessa, ma sicuramente non si sarebbe sviluppato affatto senza gli afroamericani»1. A innescare il fenomeno nel 1955 fu tuttavia la canzone di un artista bianco di estrazione country: Bill Haley. Incisa l’anno prima e inclusa quindi nella colonna sonora del film Il seme della violenza (meglio il titolo originale: Blackboard Jungle), Rock Around the Clock fece sfracelli a 45 giri, occupando per otto settimane consecutive il primo posto in classifica. Era il tassello che mancava per completare il mosaico. Tutto era pronto per l’avvento del Re. Nel novembre di quello stesso anno Elvis Presley sarebbe stato ingaggiato dalla Rca in cambio di 40mila dollari, somma ragguardevole per l’epoca. A definire i termini del contratto in sua vece fu il pittoresco personaggio che dall’estate si occupava dei suoi affari, l’immigrato olandese Andreas Cornelius Van Kuijk, noto come «colonnello Parker». L’interesse intorno a Presley era lievitato a dismisura nel giro di un anno: benché non ancora best seller, i suoi 45 giri editi dalla Sun Records di Memphis avevano richiamato l’attenzione degli addetti ai lavori. Negli studi Sun Elvis si era presentato una prima volta, fresco di diploma e camionista per sbarcare 1

In La grande storia del rock di Rolling Stone, Arcana, Milano 1995, p. 2.

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il lunario, nell’estate del 1953, chiedendo di registrare a sue spese due canzoni – pare con l’intenzione di regalare quel disco realizzato in copia unica alla madre per il compleanno. Nato a Tupelo, in Mississippi, l’8 gennaio 1935, frutto di un parto gemellare in cui il primogenito morì, Elvis Aaron Presley era cresciuto con la musica in testa. A 10 anni vinse un premio in un concorso indetto dall’emittente locale WELO, pochi mesi dopo ricevette in dono la prima chitarra e fu ammaliato poi dal gospel che si ascoltava a Memphis, dove la famiglia aveva traslocato nel 1948. Sam Phillips, boss della Sun, non si accorse immediatamente delle sue qualità, salvo poi convocarlo nel luglio 1954 per un provino alla cui realizzazione contribuirono il chitarrista Scotty Moore e il batterista Bill Black. Da quelle sedute passate alla storia come Sun Sessions venne ricavato il suo primo 45 giri. Phillips aveva un chiodo fisso: «Se potessi trovare un bianco che canta come un nero farei un miliardo di dollari», diceva. E così fu. Esemplare è proprio quel 45 giri: sul lato A un blues di Arthur Crudup, That’s Alright Mama, e sul retro lo standard country di Bill Monroe Blue Moon of Kentucky. Uno stile meticcio cresciuto al crocevia fra musica bianca e musica nera. «Per i più Elvis era un eroe / ma vedete, per me non ha mai significato un cazzo / quello stronzo era un razzista integrale / fanculo lui e John Wayne», rimavano rabbiosamente nel 1989 i rapper radicali Public Enemy in Fight the Power: ouverture del film di Spike Lee Fa’ la cosa giusta. E l’anno dopo fecero loro eco in Elvis Is Dead i Living Colour di Vernon Reid, fondatore della Black Rock Coalition: «Per i più Elvis era un eroe / ma non è questo il punto / un nero gli aveva insegnato a cantare / e poi lui fu incoronato re». Ecco il polemico punto di vista della cultura militante afroamericana sull’argomento. In due parole: i neri inventano la musi234

ca e i bianchi la sfruttano, essendo al timone dell’industria discografica. E il caso Eminem, «nuovo Elvis» che ruba il rap ai neri, potrebbe valere come prova del nove. Anche se sappiamo che le cose sono un po’ più complesse di così. Il vero trucco è mescolare nero e bianco senza ottenere necessariamente il grigio. Era quella l’ossessione di Sam Phillips. Ex dj alla WREC di Memphis e quindi in consolle al Memphis Recording Service, Phillips aveva fondato la Sun Records nel 1952, pubblicando inizialmente dischi di rhythm’n’blues e solo in un secondo tempo anche di country. Incassati i benefit derivati dalla «cessione» di Presley alla Rca, li investì su alcuni artisti debuttanti. Anzitutto Johnny Cash: cantante country destinato a raccogliere lo scettro caduto dalle mani di Hank Williams, prima vera stella del genere, spentasi prematuramente il 1° gennaio 1953. Con voce baritonale dagli accenti gospel e contegno austero, Cash si affermò nella seconda metà degli anni Cinquanta e divenne personaggio di culto nel decennio seguente: l’Uomo in Nero – per via dell’abbigliamento monocromatico – sensibile ai drammi dei diseredati – memorabili i suoi concerti nelle prigioni di Folsom e San Quentin. Nomea che gli valse un rispetto cresciuto col passare dei decenni e ancora cospicuo al momento della sua morte, il 12 settembre 2003. Nel 1956 Cash fu membro dell’estemporaneo Million Dollar Quartet insieme a Presley, Jerry Lee Lewis e Carl Perkins. Quest’ultimo era l’artista su cui Phillips scommetteva più che su ogni altro: ne fu ripagato quando Perkins mise a segno nel 1956 il miglior colpo della sua carriera col 45 giri Blue Suede Shoes – brano che il tempo ha consacrato al rango di classico. Genio e sregolatezza: luogo comune che si attaglia perfettamente alla figura di Jerry Lee Lewis, uno fra i più straordinari performer del rock’n’roll. Pianista e cantante dallo stile 235

irruente, ingaggiato da Phillips nel 1957, nel giro di un anno inanellò un trittico di canzoni passate alla storia: Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, Great Balls of Fire e Breathless. Ma proprio a quel punto irritò lo spirito puritano dell’America e si rese inviso all’opinione pubblica sposando una cugina di secondo grado appena quattordicenne. Il tacito ostracismo che subì allora ne spense gli ardori e frenò la sua ascesa al successo. Fu invece la malasorte ad accanirsi contro Roy Orbison, ricordato per questo come il volto triste del rock’n’roll. Scritturato dalla Sun Records nel 1956, diede il meglio di sé al principio del decennio seguente insinuando in hit parade malinconiche ballate rock come Only the Lonely, Running Scared e Oh Pretty Woman – divenuta poi nel 1990 tema conduttore dell’omonimo film con Julia Roberts. La seconda metà degli anni Sessanta fu però costellata da un’incredibile serie di disgrazie familiari che ne segnarono indelebilmente la personalità, già di suo tutt’altro che briosa. Uno a cui Sam Phillips non diede retta, sottovalutandone le qualità, fu Eddie Cochran. La sua rivincita arrivò nel 1958 al suono di Summertime Blues e C’mon Everybody: canzoni che lì per lì ebbero un successo discreto – la prima più della seconda – ma non fenomenale, affermandosi tuttavia nel tempo come assoluti standard del genere. Cochran non ebbe però modo di goderne i benefici: morì appena ventiduenne il 17 aprile 1960 per le conseguenze di un incidente automobilistico avvenuto il giorno prima – stava tornando a Londra in taxi dopo un concerto a Bristol, ultimo di una tournée britannica in coppia col connazionale Gene Vincent. Quest’ultimo ebbe salva la vita, come già gli era capitato cinque anni prima, quando uscì da una caduta in moto con la caviglia fratturata – ma i postumi dell’incidente lo avevano reso zoppo per il resto dei suoi giorni. Ciò ne esacerbò il temperamento, rendendolo il più selvaggio 236

tra i rocker dell’epoca: prerogativa che la canzone con cui è diventato celebre, Be Bop a Lula, esprime solo in parte. La crudele regola del dying young si accanì come una maledizione sulla prima generazione del rock’n’roll. Colpendo anche chi non aveva sfidato la morte con uno stile di vita consacrato agli eccessi. È il caso di Buddy Holly: rocker texano dal carattere mite e l’aspetto fragile – con quegli occhiali dalla montatura pesante che gli davano un’aria da «secchione». Più che all’apparenza, in effetti, Holly badava alla sostanza, perciò viene ricordato come lo «stilista» del rock’n’roll. In contemporanea con Gene Vincent, che si faceva accompagnare dai Blue Caps, fu l’artista che formalizzò il prototipo del gruppo rock: basso, batteria e doppia chitarra, ritmica e solista, com’era l’assetto dei suoi Crickets. Fu inoltre autore fecondo – That’ll Be the Day e Peggy Sue, ambedue del 1957, i suoi brani di maggiore successo – e innovatore delle tecniche di registrazione, essendo stato fra i primi a sperimentare in studio le procedure di sovrincisione. Era dunque un musicista votato a grandi imprese. Solo il destino poteva arrestarne l’ascesa. Nella notte fra il 2 e il 3 febbraio 1959, durante un trasferimento per concerti dalla Iowa al Minnesota, l’aereo su cui viaggiava precipitò poco dopo il decollo. Moriva così a soli 23 anni uno tra i maggiori protagonisti del rock’n’roll originario. E insieme a lui persero la vita anche Big Bopper e Ritchie Valens – il cantante chicano appena reduce dal successo di La Bamba. Prima sfumatura di carnagione scura – quella di Valens – in un panorama dominato dai «visi pallidi». Gli eroi neri del rock’n’roll erano una minoranza. A riequilibrare lo scompenso, tuttavia, basterebbe da solo il peso specifico avuto da Chuck Berry nell’evoluzione del genere. Se Presley fu il «volto» del rock’n’roll, Berry ne rappresentò il «suono». Sfondo 237

musicale della sua turbolenta adolescenza a Saint Louis fu il blues, e in questo senso lo si può considerare erede di una tradizione che ha il proprio capostipite nel «diabolico» Robert Johnson: vero pioniere del rock’n’roll già a metà degli anni Trenta con la sua interpretazione tagliente e sincopata dei canoni blues. A indirizzare un Chuck Berry non ancora ventenne verso l’approdo discografico, suggerendogli di provare con la Chess di Chicago, fu un altro grande bluesman: Muddy Waters. I risultati si videro immediatamente con Maybellene, 45 giri a cui seguirono due autentiche pietre miliari come Roll Over Beethoven (1956) e Johnny B Goode (1958). A frenarne l’impeto furono i guai con la legge, per tirarsi fuori dai quali impiegò alcuni anni. Ma ciò non ne ha offuscato affatto la reputazione di padre fondatore del rock’n’roll, dimostrata d’altro canto dalla deferenza con cui nei primi anni Sessanta gli esordienti Beatles e Rolling Stones misero in repertorio alcuni suoi classici. Altro artista nero piuttosto influente sul corso degli eventi successivi fu Bo Diddley, che a cavallo fra blues e rock’n’roll coniò un proprio stile reso inconfondibile da un approccio al ritmo così «primitivo» da indurre i commentatori a parlare di jungle music – definizione che calza a pennello su brani quali I’m a Man e Who Do You Love. Molto più compassato e formalmente composto era il linguaggio musicale del pianista e cantante Antoine «Fats» Domino, in verità protagonista nella scena rhythm’n’blues di New Orleans fin dai primissimi anni Cinquanta. Approfittando però della scia creata dall’affermazione in classifica dei primi 45 giri di rock’n’roll poté uscire dall’orbita dei race records: accadde nel 1955 con Ain’t That a Shame e poi di nuovo due anni dopo con Blue Monday. Contemporaneamente, dalla stessa città, dov’era giunto proveniente dalla Georgia, snocciolò a voce spiegata il proprio scioglilingua ono238

matopeico Little Richard, il fantasista nero del rock’n’roll: Awop-bop-a-lu-bop-a-wop-bam-boom! Questo l’immortale incipit di Tutti Frutti, brano che nella sua convulsa concitazione simboleggia meglio di qualsiasi altro l’effervescente temperamento del personaggio – in seguito meteora cinematografica (lo si ricorda, accanto a Eddie Cochran, Gene Vincent e Fats Domino, nel cast di Gangster cerca moglie, ossia The Girl Can’t Help It), prima della repentina conversione religiosa che lo tolse di scena nel 1957. Nemmeno mettendo insieme tutti gli artisti esaminati finora si uguaglierebbe comunque il grado di popolarità raggiunto allora da Elvis Presley. Già nel 1956, primo anno del suo contratto con la Rca, piazzò in vetta all’hit parade statunitense tre 45 giri: Heartbreak Hotel, Don’t Be Cruel e Love Me Tender, quest’ultimo pretesto per il film omonimo: primo in una serie di 31. E nel 1957, fra All Shook up, Let Me Be Your Teddy Bear e Jailhouse Rock, il suo nome fu associato al primo posto in classifica per sei mesi complessivi: un record. A interromperne l’escalation apparentemente inarrestabile giunsero però gli obblighi verso la patria: il 5 marzo 1958 Elvis Aaron Presley si presentò al distretto militare, venne arruolato nell’esercito e destinato in settembre alla base Nato di Bad Neuheim, in Germania. Una sequenza di avvenimenti di cui i tabloid diedero conto passo dopo passo. Anche in divisa Elvis era un divo. Per attutire l’onda d’urto, i responsabili della caserma Fort Chaffee delegarono nove uomini alle funzioni di ufficio stampa per soddisfare le indicazioni giunte direttamente dal Pentagono: «Il minor numero possibile di dichiarazioni, e che siano dignitose». Sul fronte opposto, il colonnello Parker faceva i conti: il servizio militare sarebbe costato oltre 100mila dollari al mese di minori incassi. Ma la patria è pur sempre la patria. 239

E da bravo ragazzo qual era, così come onorava Dio e la Famiglia (la morte della madre, il 14 agosto di quell’anno, lo segnò per sempre), alla Patria Elvis ci teneva, eccome. Tempo dopo, il 20 dicembre 1970, accolse con gratitudine l’invito alla Casa Bianca fattogli pervenire da Richard Nixon, che nell’occasione gli consegnò il distintivo della squadra narcotici – buffo paradosso, considerando che a quel punto Elvis dipendeva già dagli psicofarmaci. Fu nella medesima circostanza che Presley se la prese coi Beatles: «Sono venuti negli Stati Uniti, hanno fatto i soldi e se ne sono tornati in Gran Bretagna, dove sostengono una campagna antiamericana». Difficile capacitarsi che fosse lo stesso individuo che una dozzina di anni prima, emulando Marlon Brando e James Dean, aveva incarnato per milioni di giovani – americani e non – il prototipo del ribelle. Colui che era stato eletto da quegli stessi teenager a simbolo del processo di emancipazione sessuale e soprannominato perciò The Pelvis, «il bacino», per via del tipico modo che aveva di ancheggiare. Prerogativa che il 6 gennaio 1957 aveva provocato l’intervento censorio del regista, quando per la terza volta in pochi mesi apparve all’Ed Sullivan Show: fu ripreso solo dalla cintola in su. Eppure era proprio la stessa persona. Il fatto è che Presley personificava l’identità contraddittoria del suo paese. Da un lato l’idea di una società inclusiva, capace di accogliere e valorizzare le diversità, armonizzandole fra loro e divenendo così fucina di nuovi linguaggi – quale appunto fu il rock’n’roll. E d’altro canto, invece, alcuni dei suoi aspetti più deteriori: il consumismo esasperato in bulimia, l’attitudine proibizionista che cela un cronico bisogno di narcosi, una volontà di potenza ostentata in tutte le varianti possibili del kitsch – sintesi dei quali è stato Elvis all’epilogo della carriera. Scrive Greil Marcus in Mistery Train: «La por240

tata della carriera di Presley inscrive quasi l’America». Che l’incantesimo fosse stato infranto divenne evidente alla fine del servizio militare: il secondo 45 giri pubblicato dopo il rientro sulle scene fu una goffa versione di O’ sole mio – It’s Now or Never. Agli antipodi del rock’n’roll. Del resto la strategia di Parker aveva messo la musica in secondo piano, a quel punto. Precedenza al cinema, con un ritmo incredibile da tre film l’anno, fino al 1970. Ultima esibizione dal vivo: il 25 marzo 1961 alle isole Hawaii, per beneficenza. Quando riprese a esibirsi in pubblico a Las Vegas, Elvis era ormai un personaggio da circo. Vestito con abiti ogni giorno più pacchiani, annunciato in scena dalle note stentoree di Also Sprach Zarathustra e circondato da una corte dei miracoli che solo il miglior James Ellroy potrebbe immaginare: orchestrali, guardie del corpo, assistenti e semplici «imbucati». Più dell’ultimo concerto effettivo, tenuto il 26 giugno 1977 a Indianapolis, valse come congedo lo show del 14 gennaio 1973 a Honolulu, trasmesso in mondovisione per un miliardo di telespettatori. Di lì in avanti il declino assunse cadenze sempre più accelerate. Quando non era a Las Vegas viveva nella regale villa di Graceland, acquistata a Memphis nel 1957 e affacciata su un viale che dal 1972 portava il suo nome. Sentendosi trascurata, la moglie Priscilla – sposata tre anni prima e da poco madre di Lisa Marie – se n’era andata insieme alla figlia nell’autunno del 1971. Ed Elvis era malato, oltre che scosso psicologicamente: diabete, glaucoma, stipsi. Assumeva farmaci in quantità e nel gennaio 1975 fu ricoverato una prima volta in ospedale. Ma il suo regime di vita non cambiò. Obeso, intossicato e solo: così era Elvis Presley, Re del Rock’n’Roll, il giorno in cui morì per uno scompenso cardiaco – l’autopsia accertò la presenza in corpo di otto tipi diversi di droghe o tranquillanti: Percodan, Quaalude, De241

soxyn... Una tragedia da uomo qualunque. Era il 16 agosto 1977. Eppure, in un certo senso, Elvis non è morto. Come disse il colonnello Parker nel momento di massimo fulgore della sua carriera: «Cosa succederà quando Elvis morirà?! Nulla, sarà come quando era sotto le armi». Temporaneamente assente. L’immortalità gli è stata garantita da ciò che era diventato: un oggetto pop infinitamente replicabile, come aveva intuito brillantemente Warhol progettando la sua sequenza di ritratti seriali. Un archetipo nella mitologia postmoderna: il deus ex machina che concilia sacro (il gospel) e profano (il rock’n’roll), le origini redneck e l’opulenza hollywoodiana. Tutto e il contrario di tutto: poiché ciò che conta è il significante, non il significato. Poca cosa è la morte del corpo: Elvis è vivo. Lo si avvistava ovunque (il tabloid londinese «The Sun» arrivò a offrire un milione di sterline a chi lo avesse condotto in redazione), addirittura su Marte: il «National Enquirer» pubblicò un giorno in prima pagina una foto del Pianeta Rosso osservando con attenzione la quale si poteva scorgere un’effigie statuaria di Presley. E a ogni buon conto, come succedanei ci sono i sosia sparsi per il mondo: quelli che animano convention e memorial a lui dedicati. Per non dire delle numerose chiese intestate a Elvis. E una ragione c’è: a parte il secondo nome biblico (Aronne: quello del vitello d’oro – strano, vero?!), nelle antiche lingue semite El è il vocabolo che designa il Dio supremo e Vis esprime la nozione di «forza». Perciò Graceland, dove Elvis è sepolto accanto alla madre Gladys e al padre Vernon nel Meditation Garden, è una sorta di Vaticano pagano: frequentato ogni anno da 600mila visitatori provenienti dai quattro angoli del pianeta – la popolarità di Presley non conosce confini, benché egli non abbia tenuto mai concerti fuori dal continente americano. 242

Più prosaicamente Elvis è vivo poiché rappresenta ancora un grande affare. Morto nel 1997 il colonnello Parker, a occuparsene è l’Elvis Presley Enterprise. Ancora nel 2002, nella versione opportunamente modernizzata dal dj olandese Jxl (in realtà Junkie Xl, ma quel vocabolo – «drogato» – suonava male negli uffici della Enterprise), A Little Less Conversation – brano minore del 1968 originariamente incluso nella colonna sonora del film Live a Little Love a Lot – ha svettato in cima alle hit parade statunitense e britannica, sospinto tanto in alto dallo spot della Nike di cui era parte integrante, programmato massicciamente durante i mondiali di calcio di quell’anno. Preambolo all’ennesima raccolta di «grandi successi» edita in concomitanza con il 25° anniversario della scomparsa. Commentando la quale, Lester Bangs aveva scritto sul «Village Voice» del 29 agosto 1977 il «coccodrillo» intitolato Where Were You When Elvis Died? («Dov’eravate quando è morto Elvis?»), che a un certo punto recita: «Mi è difficile vedere in Elvis una figura tragica. A me pare più simile al Pentagono, una gigantesca istituzione blindata di cui nessuno sa nulla, tranne il fatto che la sua potenza è leggendaria»2. Sulla presunta immortalità di Elvis c’era chi la pensava diversamente. John Lennon, per esempio. Sosteneva che «Elvis è morto quando è partito per il servizio militare». Si parlava ancora di «significati», allora. E a mettere in relazione e a interpretare i fatti che si succedettero in quei due anni, dal 1958 al 1960, il quadro è di una chiarezza univoca. Little Richard aveva abdicato in favore della religione. Jerry Lee Lewis era un artista al bando in America: poco meno che pedofilo. Gene Vincent si era esiliato volontariamente in Gran Bre2 Ora in Psychotic Reactions and Carburator Dung, Knopf, New York 1987, p. 212.

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tagna. Chuck Berry stava in carcere. Buddy Holly era morto. E meno di un mese e mezzo dopo il ritorno di un Elvis trasformato dal servizio di leva sarebbe morto anche Eddie Cochran. Primavera 1960: il rock’n’roll era finito con la fine degli anni Cinquanta. A quei tempi i Beatles stavano per scegliere di chiamarsi così. Mick Jagger aveva appena riallacciato i rapporti con Keith Richards. Bob Dylan stava per andare in New Jersey a rendere omaggio a Woody Guthrie. Lou Reed suonava ancora in un gruppo amatoriale. Jimi Hendrix stava per abbandonare la scuola per dedicarsi alla musica. David Bowie suonava il sassofono nei Kon-Rads. Bruce Springsteen ascoltava le canzoni del rock’n’roll alla radio e sognava di fare il batterista. John Lydon (poi Rotten) aveva quattro anni e viveva coi genitori a Hastings. Wendy O’Connor non aveva sposato ancora Ronald Cobain, padre di Kurt. E Debbie Briggs aveva cinque anni e mai più immaginava di essere un giorno mamma ripudiata di un divo chiamato Eminem.  American Graffiti George Lucas (Universal, 1998).  At Folsom Prison and San Quentin Johnny Cash (Sony, 1989).  Gioventù bruciata Nicholas Ray (Warner, 2003).  Last Train to Memphis Peter Guralnick (Little Brown Company, 1994).  Mistery Train Greil Marcus (E.P. Dutton, 1975).  The Buddy Holly Collection Buddy Holly (Mca, 1993).  The Chess Box Chuck Berry (Chess, 1988).  The Complete 50’s Masters Elvis Presley (Bmg, 1992).  The Sun Story Aa. Vv. (Rhino, 1987).  Unsung Heroes of Rock’n’Roll Nick Tosches (DaCapo, 1999).

Indice dei nomi

Ac/Dc, 136. Ackroyd, Dan, 158. Adé, King Sunny, 78. Aerosmith, 136, 139. Afrika Bambaataa, 8, 16, 154. Ahmed, Rachid Baba, 80-81. Air, 201. Aitken, Laurel, 72. Albarn, Damon, 25, 27, 32-33. Alexander, Dave, 185. Alice In Chains, 42. Allen, Daevid, 125-126. Alpert, Herb, 199-200. Altman, Robert, 216. Amon Duul, 110. Anders, Allison, 196. Anderson, Ian, 127. Anderson, Laurie, 83. Anderson, Pink, 124. Anger, Kenneth, 132. Animals, 166, 228. Anka, Paul, 196. Anthrax, 139. Antonioni, Michelangelo, 126. Aphex Twin, 20. Appel, Mike, 95-96. Area, 128. Asheton, Ron, 185, 187. Asheton, Scott, 185, 187.

Ash Ra Tempel, 110. Atkins, Juan, 17. Aufderheide, Pat, 58n. Autechre, 21. Avalon, Frankie, 196. Ayers, Kevin, 125. Bach, Johann Sebastian, 49, 127. Bacharach, Burt, 197-200. Bad Seeds, The, 215. Baez, Joan, 205, 208. Baker, Ginger, 228. Balin, Marty, 142, 174. Banco del Mutuo Soccorso, 127128. Band, The, 204, 208-209. Band Of Gipsys, 165. Band Of Joy, 133. Bangs, Lester, 84, 111, 137-138, 243. Banks, Tony, 109. Barrett, Syd, 124, 126. Barry, John, 201. Bartos, Karl, 111, 113. Baxter, Les, 200. Bbc Radiophonic Workshop, 108. Beach Boys, 84, 145-146, 190-193. Beastie Boys, 6, 45, 54. Beat Brothers, 218.

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Beatles, IX, 25-26, 28, 31-33, 35, 50, 60-65, 67, 75, 84, 118, 121, 128, 130, 146-148, 167, 170, 174, 191, 194-195, 197, 217-225, 227, 229, 238, 240, 244. Beck, 45, 54. Beck, Jeff, 133, 228. Beethoven, Ludwig van, 49, 118. Belushi, John, 158. Berg, Alban, 106. Berio, Luciano, 107. Berlin, Irving, 197. Bernstein, Leonard, 180. Berry, Richard, 185. Best, Pete, 218-219. Big Brother, 175. Birthday Party, 214. Bjork, 21, 53. BJ Thomas, 199. Black, Bill, 234. Blackbox, 24. Black Sabbath, 137-138. Blackwell, Chris, 73. Blake, William, 169. Blink 182, 87. Blondie, 85. Blue Caps, 237. Blue Cheer, 137. Blue Oyster Cult, 137. Bluesbreakers, 228. Blues Brothers, 158. Blues Incorporated, 219. Blur, 25-26, 28, 32-33. Bolan, Marc, 120-121. Bonham, Jason, 131. Bonham, John, 131, 133. Bon Jovi, 138. Bono (Paul Hewson), 100, 102104. Boone, Pat, 196. Booth, Mark, 52, 56. Bopper, Big, 237. Boulez, Pierre, 107, 109, 128.

Bowie, David (David Robert Jones), 23, 29, 50, 68, 89, 114, 117120, 122-123, 179, 183, 186-187, 212, 244. Bowles, Paul, 75. Branson, Richard, 90. Brassens, George, 212. Brel, Jacques, 119, 212. Breton, André, 10. Brown, Arthur, 125. Brown, James, 7, 78, 151-153, 155, 158-159, 161-162. Browne, Jackson, 97, 207. Bruce, Jack, 228. Buck, Peter, 44. Buckley, Jeff, 214. Buckley, Tim, 213-214. Buena Vista Social Club, 76. Buffalo Springfield, 174. Buggles, 47. Burchill, Julie, 91, 198. Burdon, Eric, 228. Burke, Solomon, 154. Burroughs, William, 10, 75, 125, 137. Byrds, 174, 208. Byrne, David, 76-77. Cabaret Voltaire, 113. Cage, John, 107, 115, 198. Cale, John, 179-184, 186. Calloway, Cab, 9. Can, 110. Carlos, Walter, 109. Carmichael, Hoagy, 197. Carroll, Jim, 183. Casady, Jack, 174. Cash, Johnny, 235. Cave, Nick, 214. Chandler, Chas, 166-167. Charlatans, 31. Charles, Ray, 154-155. Checker, Chubby, 196.

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Chemical Brothers, 23. Chiffons, 62. Chopin, Frédéric, 168. Christgau, Robert, 124, 229. Chuck Berry, 118, 165, 202, 219, 237-238, 244. Chuck D, 10. Clapton, Eric, 65, 74, 120, 134, 208, 227. Clash, 28, 32, 54, 85-87. Clayton, Adam, 100, 103. Cliff, Jimmy, 72. Clinton, George, 160-162. Cobain, Kurt, 37-39, 210, 244. Cochran, Eddie, 236, 239, 244. Cocker, Joe, 144. Cohen, Leonard, 195, 211-212. Coldcut, 22. Coldplay, 34. Colonnello Parker (Andreas Cornelius Van Kuijk), 233, 239, 241243. Como, Perry, 198. Conniff, Ray, 200. Conrad, Tony, 180. Cooder, Ry, 76, 80. Cook, Paul, 88, 91. Cooke, Sam, 155, 158. Cooper, Alice, 89, 120, 137. Coppola, Francis Ford, 168. Corea, Chick, 161. Corgan, Billy, 45. Costello, Elvis, 28, 213. Costello, Mark, 6. Council, Floyd, 124. Coupland, Douglas, 42. Cowell, Henry, 198. Cox, Alex, 91. Coxon, Graham, 26. Crass, 87. Crawford, Jesse, 188. Cream, 134, 228. Creedence Clearwater Revival, 144.

Crickets, 237. Crosby, Bing, 49. Crosby, David, 174, 209. Crosby, Stills & Nash, 97. Crosby Stills Nash & Young, 142, 144. Crowe, Cameron, 42. Crudup, Arthur, 234. Crumb, Robert, 175. Crystals, 194. Culture Club, 50. Cure, 28. Curtis, Ian, 18. Cybotron, 17. Czukay, Holger, 110. D 12, 7. Daft Punk, 113. Dalla, Lucio, 228. Daltrey, Roger, 226. Damned, 85. Damone, Vic, 198. Daniels, Phil, 33. David, Hal, 198-199. Davies, Dave, 228. Davies, Ray, 228-229. Davis, Miles, 161-162. Dead Kennedys, 87. De André, Fabrizio, 212. Debord, Guy, 89. Deep Purple, 137. Dekker, Desmond, 72. Del Naja, Robert, 32. De Moraes, Vinicius, 77. Denny, Martin, 200. Densmore, John, 169. De Palma, Brian, 54. Depeche Mode, 113. Devo, 114. Diddley, Bo, 238. Dietrich, Marlene, 198. Dinger, Klaus, 110. Dinosaur Jr, 41.

247

Dixon, Willie, 219. DJ Shadow, 23. Domino, Antoine «Fats», 238-239. Donner, Clive, 199. Donovan, 133, 213. Doors, 148, 168-170, 186-187. Douglas, Jack, 60. Dozier, Lamont, 156. Drake, Nick, 213. Dr Dre (Andre Young), 6, 11, 13. Drifters, 196-197. Dr Motte, 14. Duran Duran, 50, 121. Dylan, Bob (Robert Allen Zimmerman), 95, 99, 102, 119, 174, 182, 199, 202-210, 213, 228, 244. Eastman, Linda, 63. Elastica, 26. Electric Light Orchestra, 122. Ellington, Duke, 161. Elton John, 68, 122. Emerson, Keith, 109, 127. Emerson, Lake & Palmer, 109, 127. Eminem (Marshall Bruce Mathers III), X, 3-7, 13, 235, 244. Eno, Brian, 20, 24, 101, 114-115, 121, 123. Entwistle, John, 226. Epstein, Brian, 147, 218-219, 224. Ertegun, Ahmet, 154, 183. Esquivel, Juan Garcia, 200. E-Street Band, 96-99. Evans, Dave, detto The Edge, 100. Everly Brothers, 196. Evora, Cesaria, 80. Experience, 166-167. Fabian, 196. Faces, 227. Faithfull, Marianne, 141. Fanning, Shawn, 58. Farrell, Perry, 44.

Fatboy Slim (Norman Cook), 2223. Faust, 110. Fela Kuti, 78-79, 102, 154. Ferrer, Ibrahim, 76. Ferry, Bryan, 121-122. Fields, Danny, 186. 50 Cent, 12. Flames, 153. Flea, 80. Flur, Wolfgang, 111, 113. Foo Fighters, 39. Foreigner, 138. Four Tops, 156. Foxx, John, 113. Franklin, Aretha, 154, 158. Freed, Alan, 232. Fripp, Robert, 80, 114, 127. Frith, Fred, 61. Frith, Simon, 49, 54, 99, 143, 150. Funkadelic, 160. Gabriel, Peter, 53, 76-78, 98, 127, 135. Gainsbourg, Serge, 212. Galas, Diamanda, 135. Gallagher, Liam, 31-32. Gallagher, Noel, 25, 28, 31-32. Garcia, Jerry, 173. Garfunkel, Art, 207-208. Garnier, Laurent, 23. Gaye, Marvin, 157, 162. Geesin, Ron, 126. Geldof, Bob, 102. Genesis, 109, 127. George, Nelson, 13, 152. Gerry & The Pacemakers, 221. Gershwin, George, 197. Gil, Gilberto, 77. Gillespie, Dizzy, 198. Gilmour, David, 126. Ginsberg, Allen, 64, 75, 171, 178, 208.

248

Gitlin, Todd, 58n. Glass, Philip, 109. Glitter, Gary, 120. Goffin, Gerry, 196-197. Gong, 125, 127. Gordy, Berry Jr, 155, 157. Gracer, Brian, 7. Grand Funk Railroad, 137. Grandmaster Flash, 8. Grant, Peter, 133-135. Grateful Dead, 142, 144, 171-173. Green, Al, 158. Green Day, 46. Greenfield, Howard, 196. Green River, 40. Grohl, Dave, 37, 39. Guns N’ Roses, 139. Guthrie, Woody, 202, 204-205, 244. Gysin, Brion, 75. Haley, Bill, 4, 233. Halliday, Johnny, 166. Hammond, John, 95, 205, 212. Hammond, Laurence, 107. Hancock, Herbie, 161. Hanson, Curtis, 7. Happy Mondays, 18. Haring, Keith, 10. Harrison, George, 61-62, 195, 218. Hartnoll, Paul, 22. Havens, Richie, 144. Haynes, Todd, 120, 199. Headhunters, 161. Heard, Larry, 17. Hebdige, Dick, 53. Hell, Richard (Richard Myers), 8384. Helm, Levon, 203. Hendrix, Jimi, 39, 144, 148, 159161, 165-167, 172, 174-175, 244 Henry, Pierre, 107. Herc, Kool, 8-9.

Herzog, Werner, 110. Hibbert, Toots, 73. High Numbers, 225. Hole, 39. Holiday, Billie, 205. Holland, Eddie, 156. Hollies, 174. Holly, Buddy, 204, 237, 244. Holmes, David, 22. Holmstrom, John, 84. Hot Butter (Gershon Kingsley), 105. Housemartins, 22. Human League, 113. Hüsker Dü, 43. Hütter, Ralf, 109-110, 112. Huxley, Aldous, 169. Ice T, 11, 152. Iggy Pop (James Jewel Orstenberg), 4, 184-187. Iguanas, 185. Impressions, 155, 166. Iommi, Toni, 138. Iron Butterfly, 137. Iron Maiden, 138. Isley Brothers, 166. Jackson, 5, 157. Jackson, Michael, 51, 63, 157, 162 Jagger, Mick, 136, 141, 219-222, 224, 244. Jam, 28-29. James, Alex, 25, 28, 31, 33. Jam Master Jay, 12. Jane’s Addiction, 44-45. Japan, 121. Jardine, Alan, 191. Jarmusch, Jim, 216. Jarre, Jean-Michel, 109. Jefferson Airplane, 142, 144, 171, 173-174. Jefferson, Marshall, 17.

249

Jefferson Starship, 174. Jethro Tull, 127. Jobim, Tom (Antonio Carlos), 77. Johansen, David, 183. Johnny & The Moondogs, 218. John’s Children, 120. Johnson, Brian, 137. Johnson, Robert, 165, 238. Jones, Brian, 75, 141-142, 182, 219, 224. Jones, David, 119. Jones, John Paul, 131, 133, 135. Jones, Mick, 86. Jones, Steve, 88, 91. Jones, Tom, 199. Jonze, Spike, 54. Joplin, Janis, 39, 144, 148, 175. Journey, 138. Joy Division, 18. Judas Priest, 138. Jxl (Junkie Xl), 242. Kaempfert, Bert, 200, 218. Kante, Mory, 80. Kantner, Paul, 173. Kasdan, Lawrence, 157. Kaukonen, Jorma, 174. Kaye, Lenny, 83, 185. Keita, Salif, 79. Kemp, Lindsay, 119. Kern, Jerome, 197. Khaled, Cheb, 80-81. Khan, Nusrat Fateh Alì, 77. King, Ben E., 193. King, Carole, 196-197. King Crimson, 127. Kingsley, Ben, 108. Kingsmen, 185. Kinks, 33, 228. Kirshner, Doug, 196. Kiss, 120, 137. Klf, 22. Knight, Curtis, 166.

Knuckles, Frankie, 17. Kong, Leslie, 73. Kon-Rads, 244. Korn, 139. Korner, Alexis, 219. Kraftwerk, 16, 105, 109-114. Krall, Diana, 199. KRS One, 10. Kunda, Toure, 80. Ladysmith Black Mambazo, 75. La La La Human Steps, 10. Landau, John, 95-96. Landis, John, 51, 54. Lang, Fritz, 17. Lanois, Daniel, 101. La Rock, Scott, 10. Lavelle, James, 22. Leadbelly, 204. Led Zeppelin, 40, 130-136, 138, 228. Lee, Spike, 78, 234. Leiber, Jerry, 193, 197. Lemonehads, 41. Lennon, John, 32, 37, 60-69, 100101, 147, 195, 218-220, 222-225, 243. Lennon, Julian, 54, 63. Lester, Richard, 63, 222. Lewis, Jerry Lee, 235, 243. Limp Bizkit, 139. Linkin Park, 139. Little Eva, 196. Little Richard, 152, 166, 204, 239, 243. Living Colour, 165, 234. Livingston, Bunny, 73. LL Cool J, 6. London Symphony Orchestra, 128, 225. Longo, Robert, 54. Love, Courtney, 37-39. Love, Mike, 191.

250

Luaka Bop, 77. Lydell, Mark, 175. Maderna, Bruno, 107. Madonna, 42, 50, 162. Magma, 127. Mahavishnu Orchestra, 161. Makeba, Miriam, 75. Mancini, Henry, 201. Manic Street Preachers, 26. Mann, Barry, 196. Mano Negra, 86. Manson, Charles, 145-147. Manson, Marilyn, 137. Manu Chao, 86. Manu Dibango, 78. Mapplethorpe, Robert, 83. Marcus, Greil, 146, 240. Marley, Bob, 71-75, 78, 81, 86, 154. Marr, Johnny, 31. Marriott, Steve, 227. Marsh, Dave, 84, 185. MARSS, 21. Martenot, Maurice, 106. Martha & The Vandellas, 156. Martin, Chris, 34. Martin, George, 219. Marvelettes, 156. Masekela, Hugh, 75. Mason, Nick, 124. Massive Attack, 20, 32. Master P, 12. Masters Musicians of Jajouka, 75. Matching Mole, 126. Matlock, Glen, 88, 90. May, Derrick, 17. Mayall, John, 228. Mayfield, Curtis, 155. Maysles, Albert e David, 143. Maytals, 73. MC 5, 66, 136-137, 187-188. McCartney, Paul, 32, 61-63, 147, 195, 218-220, 222, 224.

McGee, Alan, 32. McGuinn, Roger, 174, 208. McLaren, Malcolm, 88-91. McLaughlin, John, 161. McNeil, Legs, 84. Meaden, Peter, 225. Meek, Joe, 108. Melvins, 37. Mercury, Freddie, 50, 122. Metallica, 138. Milhaud, Darius, 198. Miller, Glenn, 232. Million Dollar Quartet, 235. Miracles, 156. Mitchell, Joni, 208-209. Mitchell, Mitch, 166. Moby, 22. Monkees, 51, 119, 196. Monroe, Bill, 234. Moody Blues, 127. Moog, Robert, 108. Moon, Keith, 133, 226. Moore, Scotty, 234. Morandi, Gianni, 130. Moroder, Giorgio, 16. Morrison, Jim (James Douglas), 39, 148, 168-170, 175, 185, 187. Morrison, Sterling, 180, 184. Morrison, Van, 208, 228. Morrissey, Steven Patrick, 29-32. Mothers Of Invention, 128. Motley Crue, 138. Motorhead, 138. Motown, 4. Mullen, Larry, 100. Murvin, Junior, 86. Muse (Musicians United for Safe Energy), 98. Musorgskij, Modest, 49, 127. Nash, Graham, 174, 209. N’ Dour, Youssou, 78. Nelson, Ricky, 196. Neon Boys, 83.

251

Nesmith, Michael, 51. Neu!, 110. Nevins, Al, 196. New Animals, 228. Newman, Randy, 207. New Order, 18. New Yardbirds, 133. New York Dolls, 83, 88, 120, 183. Nice, 127. Nichols, Mike, 207. Nico (Christa Paffgen), 182, 184, 186. Nine Inch Nails, 45, 139. Nirvana, 36-38, 40-43, 52, 85. Novoselic, Krist, 37, 39, 41. No WTO Band, 41. Nugent, Ted, 136. Numan, Gary, 113. NWA (Niggers With Attitude), 6, 11. Oakenfold, Paul, 18. Oasis, 25-26, 28, 32. Ochs, Phil, 205, 208. Offspring, 46. Oldfield, Mike, 127. Oldham, Andrew Loog, 220-221, 224. Ono, Yoko, 60-61, 63-66, 68-69, 125, 147, 225. Orb, 22. Orbison, Roy, 236. Orbital, 22, 113. Orchestral Manoeuvres In The Dark, 113. Organisation, 109. Osbourne, Ozzy, 138. Oshima, Nagisa, 123. Page, Jimmy, 131-136, 228. Palmer, Robert, 233. Pantera, 138. Parker, Alan, 124.

Parliaments, 160. Parsons, Tony, 91. Partch, Harry, 215. Paterson, Alex, 22. Patti Smith Group, 83, 185. Pavarotti, Luciano, 103. Pavitt, Bruce, 40. Pearl Jam, 40, 45. Peckinpah, Sam, 20, 54. Pennebaker, Don, 165, 203. Perkins, Carl, 235. Perrey, Jean-Jacques, 108. Perry, Joe, 136. Perry, Lee «Scratch», 73. Peter Paul & Mary, 205. Peterson, Gilles, 22. Phillips, Sam, 234-236. Phuture, 17. Piaf, Edith, 168. Pickett, Wilson, 153-154, 166. Pieraccioni, Leonardo, 123. Pink Floyd, 123-126. Pitney, Gene, 193. Pittman, Robert, 51, 53. Pixies, 41. Plant, Robert, 131-136. Plastic Ono Band, 64-65, 147. Plastic People Of The Universe, 179. Poe, Amos, 84. Pomus, Doc, 193, 197. Poneman, Jonathan, 40-41. Popol Vuh, 110. Porter, Cole, 197. Portishead, 20. Portuondo, Omara, 76. Prado, Perez, 76. Premiata Forneria Marconi, 127. Presley, Elvis, IX-X, 3, 6-7, 49, 9899, 122, 168, 195, 197, 214, 217, 219, 222, 231, 233-235, 237, 239244. Primal Scream, 18.

252

Prince (Roger Nelson), 161-162. Prodigy, 19. Public Enemy, 6, 10, 139, 234. Public Image Limited, 91. Puente, Tito, 76. Puff Daddy, poi P. Diddy, 12. Pulp, 26. Quarrymen, 218. Queen, 50, 122. Queens Of The Stone Age, 139. Radiohead, 21, 33-34, 179. Rage Against The Machine, 45, 86, 139. Ramones, 84-85, 195. Ravel, Maurice, 198. Redding, Noel, 166. Redding, Otis, 153, 158. Red Hot Chili Peppers, 42, 45, 80, 161. Redstone, Summer, 47, 56. Reed, Lou, 84, 102, 179-184, 244. Reeves, Jim, 89. Reich, Steve, 109. Reid, Vernon, 165, 234. REM, 42-44, 54, 135. Residents, 114. Return To Forever, 161. Richards, Keith, 136, 141, 219-221, 224, 244. Rickenbacker, Arthur, 107. Righteous Brothers, 194. Riley, Terry, 109, 184. Rimitti, Cheikha, 80. Robertson, Robbie, 204. Robinson, Smokey, 156. Roddam, Franc, 29. Rodgers & Hart, 197. Roedy, Bill, 55. Roeg, Nicholas, 123. Rolling Stones, 25-26, 50, 75, 84,

91, 133, 136, 141-142, 147, 150, 156, 182, 197, 219-225, 227, 229, 238. Ronettes, 194. Ronson, Mick, 117. Ross, Diana, 156. Roth, David Lee, 136. Rother, Michael, 110. Rotten, Johnny (John Lydon), 32, 89-91, 244. Roxy Music, 114, 121-122. Rubin, Rick, 6. Run DMC, 12, 139. Rushdie, Salman, 103. Russell, Ken, 225. Russolo, Luigi, 106. Sakamoto, Ryuichi, 114. Sam & Dave, 158. Santana, 142, 144. Satie, Erik, 20, 115, 198. Saunderson, Kevin, 17. Savage, Jon, 27, 92. Schaeffer, Pierre, 107. Schifrin, Lalo, 201. Schmidt, Irmin, 110. Schneider, Florian, 109-110, 112. Schoenberg, Arnold, 106. Schubert, Franz 49. Scialfa, Patti, 99. Scorsese, Martin, 208. Scott, Bon, 136. Seaga, Edward, 72. Searchers, 221. Sedaka, Neil, 196-197. Seeger, Pete, 65, 174, 205. Segundo, Compay, 76. Sellers, Peter, 225. Sepultura, 139. Sex Pistols, 32, 82-83, 85, 87-92, 187, 227. Shankar, Ravi, 75.

253

Shepard, Sam, 83, 208. Sheridan, Tony, 218. Shocking Blue, 37. Shorter, Wayne, 161. Shuman, Mort, 197. Simmons, Russell, 6. Simon, Paul, 75, 207-208. Simone, Nina, 228. Simple Minds, 121. Sinatra, Frank, 212. Sinclair, John, 188. Siouxsie Sioux, 85. Siouxsie & The Banshees, 85. Slade, 120. Slayer, 138. Sledge, Percy, 166. Slick, Grace, 173. Slipknot, 137. Slovak, Hillel, 45. Sly Stone (Sylvester Stewart), 158161, 165. Sly & The Family Stone, 144, 159. Small Faces, 29, 227. Smashing Pumpkins, 45. Smith, Fred «Sonic», 189. Smith, Patti, 83, 96, 137, 183-184. Smiths, 30-31. Soderbergh, Steven, 22. Soft Cell, 113. Softley, Iain, 218. Soft Machine, 125. Solo, Bobby, 228. Sonic Youth, 43, 210. Soul Stirrers, 155. Soundgarden, 40. Spandau Ballet, 50. Spector, Phil, 148, 191, 193-195, 197, 212. Spencer Davis Group, 228. Springsteen, Bruce, 54, 73, 78, 94102, 244. Spungeon, Nancy, 38, 91-92. Staley, Layne, 42.

Starr, Ringo (Richard Starkey), 6162, 65, 121, 219, 225. Steppenwolf, 137. Stevens, Cat, 213. Stewart, Rod, 133, 227. Stills, Stephen, 174, 209. Sting, 78, 98, 102. Stipe, Michael, 44. Stockhausen, Karkheinz, 108-110. Stoller, Mike, 193, 197. Stomp, 10. Stone Roses, 18, 31. Stooges, 4, 83-84, 136, 184-188. Strand, 88-89. Stravinskij, Igor, 49. Strokes, 46. Strummer, Joe, 86. Subotnick, Morton, 108. Suede, 26. Sueno Latino, 24. Suicide, 113. Sumac, Yma, 200. Summer, Donna, 16. Sun Ra, 160. Supergrass, 26. Supertramp, 122. Supremes, 156. Sutcliffe, Stuart, 218. Sutton, Percy, 71. Sweet, 120. Talking Heads, 77, 85. Tangerine Dream, 110. Tate, Greg, 165. Taylor, James, 97, 207. Taylor, John, 74. Taylor, Mick, 142. Teddy Bears, 193. Television, 84. Temple, Julien, 29, 90. Temptations, 156. Them, 209, 228.

254

Thomas, Rufus & Carla, 158. Throbbing Gristle, 114. Tin Pan Alley, 215. Tool, 139. Toop, David, 115. Tosh, Peter, 73. Touré, Ali Farka, 80. Townshend, Pete, 125, 226. Traffic, 228. Traveling Wilburys, 62. T. Rex (Tyrannosaurus Rex), 120. Tricky, 20. Tubby, King, 73. Tucker, Maureen, 180, 184. Turner, Ike & Tina, 166. Tyler, Steve, 136. Tyner, Rob, 189. U2, 100-103, 184. Ultravox, 113. Umiliani, Piero, 201. Underworld, 16. Usa for Africa, 98. Valens, Ritchie, 237. Vangelis, 109. Van Halen, 136. Vanoni, Ornella, 130. Van Zandt, Steve, 98. Varèse, Edgar, 106, 128. Vee, Bobby, 196. Veloso, Caetano, 77. Velvet Underground, 43, 83, 177184. Verlaine, Tom (Miller), 83-84, 183. Vermorel, Fred e Judy, 60. Verve, 26. Vicious, Sid (Simon Ritchie), 38, 89-92. Vincent, Gene, 236-237, 239, 243. Wadleigh, Mike, 144.

Wailing Wailers, 73. Waits, Tom, 215-216. Wakeman, Rick, 109. Wallace, David Foster, 6. War, 228. Warhol, Andy, 83, 88, 119, 121122, 161, 177, 180-182, 184, 242 Warwick, Dionne, 199. Waters, Muddy, 208, 220, 238. Waters, Roger, 124. Watts, Charlie, 220. Weatherall, Andrew, 18, 22. Weather Report, 161. Webern, Anton, 106. Weil, Cynthia, 196-197. Weill, Kurt, 215. Weller, Paul, 28-29. Wells, Mary, 156. Wenders, Wim, 76, 103. White Stripes, 46. Whitfield, Norman, 156. Who, 29, 125, 133, 144, 225-227, 229. Wilde, Oscar, 30, 120, 168. Williams, Hank, 204, 235. Williamson, Sonny Boy, 133. Wilson, Brian, 191-193. Wilson, Carl, 191-192. Wilson, Dennis, 145, 191-192. Wilson, Jackie, 156, 166. Wilson, Tony, 18. Wings, 63. Winterbottom, Michael, 18. Winwood, Steve, 228. Wonder, Stevie, 63, 156. Wright, Richard, 124. Wyatt, Robert, 125. Wyman, Bill, 220. XTC, 28. Yardbirds, 133, 227-228. Yellow Magic Orchestra, 114.

255

Yes, 109, 127. Yorke, Thom, 33. Young, Angus, 137. Young, LaMonte, 109, 180. Young, Neil, 174, 208-210.

Yule, Doug, 183. Zappa, Frank, 128, 164. Zawinul, Joe, 161. Zorn, John, 201.