Finkfest. Letteratura, cinema e altri mondi: Guido Fink nei luoghi del sapere 889991303X, 9788899913038

Finkfest nasce dai tanti anni di insegnamento, ricerca e attività culturale che Guido Fink ha condiviso con colleghi, al

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Finkfest. Letteratura, cinema e altri mondi: Guido Fink nei luoghi del sapere
 889991303X, 9788899913038

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Collana Rewind Studi culturali britannici e angloamericani British and Anglo-American Cultural Studies

III

QfQS EDIZIONI

Questo testo è stato sottoposto all’approvazione di due referees secondo la normativa vigente.

a cura di Maurizio Ascari, Alessandra Calanchi, Rocco Coronato, Franco Minganti

FINKFEST Letteratura, cinema e altri mondi: Guido Fink nei luoghi del sapere

aras EDIZIONI

Collana: Rewind: Studi culturali britannici e angloamericani - British and AngloAmerican Cultural Studies

Curatori della collana: Alessandra Calanchi, Sergio Guerra, Jan Marten Ivo Klaver, Federica Savini.

Comitato scientifico: Maurizio Ascari (Università di Bologna); Stephen Knight (University of Melbourne); Ilaria Meschini (Università di Firenze); David Levente Palatinus (University of Ruzomberok, Slovakia); Valerio Viviani (Università della Tuscia).

TUTTI I DIRITTI RISERVATI

Vietata la riproduzione anche parziale © Aras Edizioni 2016 ISBN 9788899913038 Aras Edizioni srl, Fano (PU) www.arasedizioni.com - [email protected]

© Progetto grafico di copertina di Franco Minganti. Il progetto si ricollega alla copertina, dallo stesso realizzata, del volume di saggi di Guido Fink Nel segno di Proteo (a cura di R. Barbolini, Rimini 2015), nello spirito di un’ideale condivisione di intenti.

INDICE

REWINDStudi culturali britannici e angloamericani - British and Anglo-American Cultural Studies

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INTRODUZIONE: HAPPY BIRTHDAY, GUIDO! Maurizio Ascari, Alessandra Calanchi, Rocco Coronato, Franco Minganti

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KEYNOTE. “AGE IS UNNECESSARY”: SHAKESPEARE AND LIFE HISTORY Stephen Greenblatt

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PARTEI IL VOLO DELLA PAROLA

PER E A UN GUIDO AZZURRO Giacoma Limentani

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ANCHE UN PO’ CHARLIE CHAPLIN E PURE UN PO’ BOB DYLAN Franco Minganti

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A LETTO CON IL PROFESSORE. QUASI COME UNA FENOMENOLOGIA DI GUIDO FINK Roberto Barbolini

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NON C’È MAESTRO MIGLIORE DI COLUI CHE RIESCE A GIOCARE CON TE

Laura Falqui

e

Raffaele Milani

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Finkfest

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HARD-BOILED RELOADED: OVVERO, DI UN VECCHIO QUADERNO PRIMA PERDUTO, POI RITROVATO Alessandra Calanchi 57 A LEZIONE DA FINK Maurizio Ascari

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GUIDO GUIDA Rocco Coronato

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CI SARÀ QUALCUNO

Cristina Saffiotti

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COME CI HA INSEGNATO GUIDO FINK? Sara Pesce

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PARTE II SCHERMI E PALCOSCENICI PARTENDO DA SPONDE DIVERSE... Goffredo Fofi

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GRUPPO DI FAMIGLIA IN UN TEATRO Sergio Colomba

79

IL PIACERE DELLA CRITICA E IL FASCINO DELLE RETICENZE Giorgio Cremonini

85

LA PIÙ GRANDE RIVISTA DI CINEMA Leonardo Quaresima

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IL DEMONE DELL’ANALOGIA Sandro Bernardi

95

LA CHIUSURA DEL CERCHIO Ermelinda M. Campani

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TRANSMEDIA STORYTELLER Leonardo Gandini

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COSA VUOI FARCI, È FINK! Moni Ovadia

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Indice

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PARTE III DI SCRITTURE E NARRAZIONI

GUIDO FINK REDATTORE DI PARAGONE Fausta Garavini e Alessandro Duranti

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“COMINCIARE QUI”: GUIDO FINK STUDIOSO DI LETTERATURA Massimo Bacigalupo

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PER GUIDO. ARS SCRIBENDI, ARS LOQUENDI, ARS VIVENDI Mario Domenichelli

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UN OMAGGIO A GUIDO FINK, ACCADEMICO MULTITASKING Vita Fortunati

131

“QUELLA PARTE DEL MONDO INVENTATA DA MOLIÈRE”: UN ASSAGGIO

DEL CARTEGGIO MARY McCARTHY- NICOLA CHIAROMONTE Francesco Rognoni

139

LA DIFFERENZA IRRIDUCIBILE: EBRAISMO E CRITICA IN GUIDO FINK Andrea Malaguti

153

GUIDO FINK: MOMENTI DI UN INCONTRO Elèna Mortara

159

AFTERWORD: “MI RISULTA CHE” Enrico Fink

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BIBLIOGRAFIA DI GUIDO FINK

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REWIND-. STUDI CULTURALI BRITANNICI E ANGLOAMERICANI - BRITISH AND ANGLO -AMERICAN CULTURAL STUDIES

Questa collana nasce con l’obiettivo di creare uno spazio di approfondimento, confronto, dibattito, ripensamento nell’ambito dei cultural studies di Gran Bre­ tagna e Stati Uniti. In particolare intende portare avanti un progetto relativo a tematiche quali l’identità, individuale e collettiva, declinata in tutte le sue forme (di classe, etnica, nazionale o post-nazionale, di genere, religiosa, ecc.), il Canone (o quel che resta del Canone dopo il post-modernismo), i rapporti tra critica letteraria e fandom, la memoria, e a concetti quali l’ibridazione, l’autorialità, la cittadinanza. Il nostro progetto si articola in diverse tipologie di pubblicazione. Accoglie­ remo monografie e studi specialistici tesi a (ri)discutere singoli argomenti, della contemporaneità o del passato, in prospettiva storica sincronica e diacronica; riflessioni teoriche su autori, movimenti, cambiamenti rilevanti all’interno delle letterature e culture dei vari paesi, con particolare attenzione agli aspetti trans­ mediali e inter-culturali; infine, proposte di traduzione (con testo a fronte) di opere inedite in italiano, anche appartenenti ai secoli passati ma la cui legacy si inserisca in modo costruttivo e stimolante nel dialogo sulla contemporaneità che intendiamo incoraggiare e portare avanti.

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This series is dedicated to the study, debate and rethinking ^cultural studies in the United Kingdom and the United States. In particular, it focuses on such issues as individual and collective identities in all their manifestations of class, ethnicity, nationality (or post-nationality), gender, and religion. It also concentrates on the literary and cultural canon (or what remains of it after post-modernism), and the relationship between literary criticism andfandom, memory, hybridization, author­ ship, and citizenship. Rewind features different kinds ofpublications. The editors welcome monographs and specialist studies which aim at (re)-discussing specific themes, contemporary or past, from a historicalperspective (synchronic and diachronic); theoretical reflections on authors, movements, and noteworthy changes in the literatures and cultures ofEn­ glish-speaking countries, with particular attention to cross-media and cross-cultural approaches; it also accepts proposals oftranslations ofseminal texts not translated into Italian before.

Direttori della collana: Alessandra Calanchi, Sergio Guerra, Jan Marten Ivo Klaver, Federica Savini.

Comitato scientifico: Maurizio Ascari (Università di Bologna); Stephen Knight (University of Melbourne); Ilaria Meschini (Università di Firenze); David Levente Palatinus (University of Ruzomberok, Slovakia); Valerio Viviani (Università della Tuscia).

La collana si avvale di blind reviewers. Per proposte e contatti: oppure .

INTRODUZIONE: HAPPY BIRTHDAY, GUIDO! Maurizio Ascari, Alessandra Calanchi, Rocco Coronato, Franco Minganti

Nessun libro nasce dal nulla. Finkfest nasce dai tanti anni di insegnamento, ricerca e attività culturale che Guido ha condiviso con colleghi, allievi e amici. E nasce in particolare dalle due giornate - il 23 e 24 giugno 2015 - in cui ci si è ritrovati insieme a Daniela ed Enrico Fink per festeggiare insieme gli ottantanni di Guido, che ricorrevano appunto l’anno scorso. Anche se Guido non ha potuto essere presente di persona, lo abbiamo tutti pensato intensamente. E continuiamo a pensarlo, come dimostrano le testimo­ nianze e i saggi raccolti in queste pagine, il cui intento è proprio quello di re­ stituire “l’esperienza Guido”: il non metodo - o meglio, l’impareggiabile supermetodo - che Fink ha applicato all’indagine della letteratura americana e inglese, del teatro, del cinema, della cultura popolare, aprendo inedite prospettive criti­ che e operando una trasmissione culturale mai unidirezionale, ma sempre volta a stimolare l’intelligenza e la creatività di chi con lui interagiva. Ciascuno degli studiosi e delle studiose che hanno contribuito a Finkfest ha scelto la propria strada, a seconda della sua area di ricerca, del suo rapporto con Guido, delle sue inclinazioni intellettuali ed emotive. Il risultato è una raccolta sfaccettata, molteplice, possibilmente finkiana, perché Guido ha sempre avuto il talento di essere presente in diversi luoghi del sapere, di ascoltare le tante voci della cultura, di fare della curiosità un’arte. Ricorrono da una testimonianza all’altra elementi comuni: ad esempio lo sguardo di Guido che si perde in alto, sopra le teste degli studenti, inseguen-

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do l’ispirazione, o l’immagine da molti ricordata di Guido come un “bambino vecchio”, puer aeternus che non ha mai smesso di dialogare col proprio fanciullo interiore. Il libro non nasce da un’orchestrazione predefinita, ma dall’apporto in­ dividuale di ciascuno/a. Le tre parti in cui si divide riflettono a posteriori il taglio dei vari interventi. Apre il libro una sezione in cui la parola di Guido, leggera ma pronta a mettere radici, echeggia nelle testimonianze di chi lo ha ascoltato. Segue un guppo di saggi su Guido e le arti performative, in cui il palcoscenico dialoga con lo schermo. Conclude la raccolta una sezione in cui la scrittura critica di Guido incontra lettori che ne testimoniano l’inalterata vitalità. Dando voce a chi Guido lo ha conosciuto, ascoltato, amato - perché l’affetti­ vità traspare chiaramente dai testi qui raccolti, insieme alla condivisione intellet­ tuale - questo volume restituisce voce a Guido, riporta a noi quella sua voce che ci manca, anche se Guido c’è, e tutti noi continuiamo a volergli bene. Abbiamo concepito questo Finkfest — per riprendere un’espressione affettuosa coniata da Stephen Greenblatt mentre preparavamo il convegno, vera e propria Finkfestschrift - come il seguito ideale d’un altro libro uscito di recente, Nel se­ gno di Proteo (2015), in cui il generoso e attento Roberto Barbolini ha raccolto un buon numero di saggi finkiani, restituendo un composito ritratto di Guido come critico - un ritratto alla Andy Warhol, come traspare fin dalla copertina di entrambi i volumi - e in fondo elusivo, poiché Guido non lo si chiude in nessuna cornice. Grati a Barbolini di quell’importante volume, abbiamo pensato di inclu­ dere in questo nostro dialogo a più voci con Guido un elenco - probabilmente incompleto — delle sue pubblicazioni: ancora un modo per restituire il senso della sua presenza culturale passata e presente e proiettarlo negli studi futuri. Un grazie sincero a chi ha partecipato al convegno, a chi contribuito a questo volume, e anche a chi sentirà il desiderio di leggerlo. E stato un piacere festeggia­ re insieme Guido, ripensando a un passato che ci appartiene e che ha contribuito a far diventare ciascuno e ciascuna di noi ciò che siamo.

KEYNOTE. “AGE IS UNNECESSARY”: SHAKESPEARE AND LIFE HISTORY Stephen Greenblatt

It is an honor and a pleasure to be here, but also an occasion for longing and hence for sadness. Never were the words “Wish you were here” more real and more sincerely felt. In part, of course, I wish Guido were here to listen - which he did so atten­ tively - and to respond and to think together about literature and film. I was struck by the appositeness of a remark in a letter by Calvino, sent to Guido al­ most fifty years ago. “Dear Fink,” Calvino wrote on June 24, 1968, “Your review of Time and the Hunter in ‘Paragone’ gave me the rare satisfaction of finding a critic who is highly attentive and who knows how to read (and quote), someone for whom nothing is lost in the page.” How much of Guidos critical intelligence is captured in those words, “Nothing is lost”! But it is more than Guido’s immense gifts as a reader, a critic, an intellectual that we miss here in our midst today. Virtually all of my memories of Guido from Berkeley, Los Angeles and Cambridge; Bologna, Ferrara, and Florence, and even from the little casa colonica near Volterra - are sunlit; most are suffused with laughter. I miss that laughter. Yet I have to acknowledge that the sunlight Guido shed always was blended with shadows, and even his laughter had more than a tinge of irony and mel­ ancholy. So perhaps it is appropriate that I begin with a sign of advancing age. Every morning, after I’ve glanced at the headlines in the newspaper to be teas-

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sured that the world has not come to an end, I invariably turn to the obituaries. I tell myself that I have a professional interest in narrative, and it’s true: obituaries are a treasure trove of fascinating short stories. But my interest is rather more per­ sonal. And it is not death alone - perhaps it is not really death most of all - that haunts me. Rather it is the accumulation of losses before that end. I am going to talk today about losses and endings. Specifically, I will talk about KingLearx, Shakespeares great play about the end of life. But, just as the gravestone always notes the beginning as well as the end, I want to start at or at least very near the beginning: When my lord Adam and my lady Eve were cast out of paradise, they made a tabernacle wherein to be and dwell, and they were there seven days and cried and mourned and were in great sorrow and very great sadness. After those days had passed, the}' had a great yearning to eat and they were starving.

So begins the late 13th century Andrius manuscript, one of the many apocryphal lives of Adam and Eve that circulated throughout late antiquity and the early middle ages. Together with a massive body of commentary, both rabbinic and patristic, such texts indicate that by the first century BCE the gnomic verses of the book of Genesis had come to seem at once tantalizing and parsimonious, a blend of ethical conundrums and baffling silences. The various apocryphal ac­ counts answered the need for a narrative that would register both the emotional state of Adam and Eve and their bodily experiences. Hence the passage at which we have just glanced imagines the moment in which the fallen pair feel desperate hunger and then realize, to their dismay, that this hunger can now be assuaged only with the same food that animals eat. For the first time then the humans are forced to grasp that they are themselves animals. In Genesis, vast stretches of Adam’s life history are summed up in a very few words: “He lived nine hundred and thirty years, and then he died {Genesis 5: 3-5).” “And then he died” is, for the apocryphal texts, a phrase that demands narrative elaboration. Thus Adam summons his children and tells them that he is ill - “I have great pain in my heart” - but they cannot yet even understand what he means by the words “sickness” and “pain.” In anguish Adam sends Eve and his favorite son Seth to the doors of paradise to plead for the healing oil of mercy, but the angel Michael sternly refuses. When they return and report the refusal, Adam, grasping that death is imminent, takes the occasion once again to blame his wife: “And then Adam looked at Eve and said, ‘fair lady, it was 1 William Shakespeare, King Lear, in Stephen Greenblatt et al (eds), The Norton Anthology of English Literature, 8th edition, vol. B, The Sixteenth Century. The Early Seventeenth Century, Norton, New York-London 2006, pp. 1139-1227.

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because of what you did’”. He knows the fate he is now suffering will be visited on all of his descendants, and he is eager that the source of their misery will be made clear to what he calls “our lineage which will come after us”. “And for that reason, fair lady,” Adam instructs his wife, “tell your sons what you did”. Eve’s turn to die comes six days after Adam’s death. As if in fulfillment of Adam’s injunction, she calls Seth and her other children together, but she subtly modifies the message. It was, she tells them, because of what both she and Adam did that they and their entire lineage are condemned to die. She then makes a crucial provision, the provision in effect of a cultural transmission that depends not only on speech but also on a more durable inscription: My son, I order you to make tables of stone and of clay [the stone is in case of flood and the clay is in case of fire], and on the tablets you will write the lives of your father and mother and all you have seen and heard.

“You will write the lives of your father and mother”. The Genesis text had imagi­ ned the origin of life. The apocryphal text, narrating the death of Eve, imagines the origin of the story of a life - as if it were only through death, the death Eve has just witnessed in Adam and the death she is about to experience in her own body, that a human being can actually have a story and provide for that story to be durably recorded, preserved, and remembered. “Not everything is written in scripture about how the ages ran their course after the first establishment of things,” wrote Augustine; “so we in our ignorance have to fill in by conjecture the gaps”. What was the shape of the lives of Adam and Eve? What did they feel when they were expelled from Paradise? How were they able to adjust to the transition from the inexhaustible plenty of the Garden to the harsher and more competitive realm outside of its boundaries? How did they ward off predators? What division of labor did they decide upon? How did they learn to raise their offspring? How did their relationship as husband and wife evolve over the course of their lives? Did they regard their fate in the same light? How did they experience the death that was not part of the original design of the existence for which they were created? That original design conferred upon Adam and Eve almost none of the key elements of human life history, elements that the apocrypha grope to supply for them in accounting for their lives after the fall. To be sure, even in the spareness of Genesis, the first humans are not complete blanks. Already in their prelapsarian state, they effortlessly possess two key species traits which all of the early commentators note: the gift of speech and of sociability. God declares in chapter 2 of Genesis that “It is not good for the human to be alone” {Genesis 2:15). The creator makes it clear that it is not merely general sociability that he has in

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mind but pair-bonding: “Therefore does a man leave his father and his mother and cling to his wife and they become one flesh” (Genesis 2:24). This union is presumably linked to the earlier moment in chapter 1, where it is written that “God created the human in his image [...] male and female He created them” and that He blessed them with words: “Be fruitful and multiply”. The lack of any specific instruction about how the first humans were to fulfill the injunction to multiply led early commentators to speculate that God initially created a hermaphrodite or envisaged some non-sexual form of reproduction or at least intended a mode of intercourse radically different from anything we know. All that is unambiguously clear is that God planned that the beings He created in his image and likeness would eventually spread beyond the boundaries of Eden and become the earth’s dominant species: “Fill the earth and conquer it, and hold sway over the fish of the sea and the fowl of the heavens and every beast that crawls upon the earth”. Pair-bonding, reproduction, and overall spe­ cies success were part of the original design, then, but it was a design without the narrative arc of human history and possibly without sex as we know it. The “man without a navel,” as Thomas Browne called Adam, never burst through the narrow birth canal in order to come wailing onto the shores of light. Like Eve, he never suckled from a mother’s breast; never cut teeth; never was weaned. Neither he nor his wife passed through the extraordinarily prolonged period of dependency and slow development that is the hallmark of our species. With an abundance of food, there was for them no biological weighing of investments, no setting of reproduction against survival, no trade-offs, no senescence, and no death. These omissions were not a primitive oversight; they were the point of the whole myth. We would do well to adopt from Thomas Mann’s Joseph and His Brothers the full, nuanced understanding that the Genesis stories were the precipitate of an im­ mensely long process of sifting and condensing. They were the product of people who had had millennia to observe closely the lives of animals and of their fellow humans and who understood rather better than we do the implacable logic of trade-offs. Genesis, as early readers understood, imagined what it would have been like to be recognizably human but not to have human life history. Adam and Eve, the rabbis taught, were both created as at the age of twenty. This means that Eve did not experience menarche; Adam did not experience the hardening of his muscles or the descent of his testicles. Neither she nor her mate knew the confusions of adolescence or the sexual awakening of puberty. They came into existence, as both Jewish and Christian commentators remark, fully prepared for reproduction, but for a reproduction meant to be uneventful and undisturbing. “Agitated by no mental perturbation”, as Augustine put it, the man and the woman were designed to beget children without lust: “Without the

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seductive stimulus of passion, with calmness of mind and with no corrupting of the integrity of the body, the husband would lie upon the bosom of his wife”. That there would have been no “corrupting of the integrity of the body”, that is, no breaking of the hymen, no blood, no compulsive urgency, is a consequence of the fact that the sexual organs, now conspicuously a law unto themselves, were before the Fall entirely under the control of the will. If anyone doubts that such a thing were ever possible, Augustine wrote, he need only recall that we can move at will parts of our bodies that are composed of “slack and soft nerves”, such as our tongues, or reflect on the fact that certain people can wiggle their ears, move their scalp backwards and forwards, or even “break wind continuously at pleas­ ure, so as to produce the effect of singing”. Augustine knew that the subject he was addressing and the examples he pro­ vided would arouse smiles of embarrassment. The embarrassment reflects the shame with which sexual reproduction is now associated, but that shame is pre­ cisely the consequence of the expulsion from paradise and the consequent loss of control over sexuality. “Who does not know what passes between husband and wife that children may be born”, Augustine asked. “And yet, when this wellunderstood act is gone about for the procreation of children, not even the chil­ dren themselves, who may already have been born to them, are suffered to be witnesses”. “Not even the children themselves”: did Augustine imagine then that in Paradise children would have been permitted to watch their parents in the act of copulation? Yes, that is precisely what he imagined, since the act would have been unnoticeable, unremarkable, without history. But this paradisal sexuality had no history in a double sense. It was meant to be an entirely unnoteworthy act, and it never happened. Adam and Eve fell before they had the opportunity to engage in it, Augustine wrote, and all sub­ sequent human experience of intercourse is haunted not solely by shame but by the split between mind and body famously described by St. Paul: “I see another law in my members fighting back against the law of my mind, and taking me prisoner under the law of sin, which is in my members. Unhappy man that I am, who will deliver me from the body of this death?”. Death was the consequence of the primal human act of disobedience, but so, for Augustine, was sexual intercourse as we now know it, the two knotted inex­ tricably together in a complex, paradoxical bond. On the one hand, reproduction made possible by intercourse enables the survival of the species and hence serves as a triumph over death; on the other hand, intercourse is the primary experience in life of what Paul calls “the body of this death”. The gap between the mind and the body, the existence of a separate law in the members, the awareness of a somatic compulsion independent of conscious intention and control - this core postlapsar-

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ian sexual experience is, for Augustine and Paul, the ineradicable sign of a being destined to death. And with this destiny, as the apocryphal life of Adam and Eve suggests, comes the impulse - both possibility and compulsion - to tell a life story. Biology has long had at its center its own strong version of the idea of a sepa­ rate law in the members: the drive to replicate and transmit genes does not at all depend upon the consciousness, belief, or intentions of the agent by which those genes are carried. That separate law is the mark of our existence as animals; it denotes our participation in a vast process of natural selection which few of us comprehend and over which we have virtually no control. And there is for evolutionary biologists, as for Augustine, an essential relation between the way we reproduce and our mortality. As the Yale biologist Stephen Stearns writes, “The cost of specialization into germ line and soma is death”. That is, all organ­ isms that reproduce sexually are subject to aging and mortality. If biologists do not posit a time in the species life of humans in which we could have escaped the separate law of the members, they can and do set our form of reproduction against an existing alternative: “Where there is no distinction between germ line and soma, as [...] in all organisms that reproduce asexually by simple and equal division, there should be no aging [...] Some clones of grass are estimated to be 15000 years old”. But this life without aging, without death, and hence without history is not compatible with any form of sexual reproduction. In biology, as in theology, sexuality implies both mortality and life history. What is the shape of a life, that is, a life that has a history? For the biologist, the answer requires a vast effort of data collection, from which the research­ ers surface occasionally to compare the different temporal patterns of the trees, wasps, fish, humans and other creatures whose survival and reproductive strate­ gies they are attempting to track. In charting the peculiarities of human life his­ tory the favored comparison group are other primates. By setting statistics drawn from our evolutionary next-of-kin against statistics drawn from extant popula­ tions of human hunter-gatherers, biologists have identified what they take to be certain key features of our own lineage. Those features throw into sharp relief the Edenic myth of human life without human history; that is, they call attention to everything that the myth dreamed of erasing. And they call attention as well to a problem around which Shakespeare constructed one of his greatest tragedies. All the mammals of the order to which we belong — the order of the great apes that emerged some 5-7 million years ago - are characterized by single births, as opposed to litters, and to the intense, prolonged parental care that such births enable. Humans have carried this prolongation of offspring dependency to an extreme, even in relation to our closest primate kin. Though human infants are weaned much earlier than other primates - the average age for an orangutan is 7

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years, a chimpanzee 4.5 years; and a human 2.8 years - it takes us much longer to gain the size and learn the skills we would need to forage competently for ourselves. Chimpanzees get their molars well before weaning, thereby preparing them to masticate solid food. Our molars do not erupt until we are over six years old, so that long after weaning we depend on food being specially prepared for us by adult caregivers. Such extravagantly slow and costly dependence seems linked to the develop­ ment of our brains, our acquisition of language, and our painstaking mastery of complex cultural codes, all of which require considerable time and a massive, ex­ tended parental investment of care. Compared to other primates, humans do not begin to reproduce until very late. This late commencement of reproduction is offset by one of the prime consequences of early weaning: humans have relatively brief interbirth intervals. An orangutan averages 8.05 years between offspring; a chimpanzee 5.46 years; but the human average among hunter-gatherers is 3.69 years. (The use of wet-nurses in the Middle Ages and Renaissance enabled upperclass European women to diminish the interval still further: John Donne’s wife Anne was pregnant 12 times in 15 years). If we recall that human infants are very slow to develop nutritional independence, these births in quick succession mean that human mothers are able, as one biologist puts it, to “stack” their offspring. And this stacking in turn means that human survival draws upon the particularly intense gregariousness of our species. Being gregarious means, among other things, being organized in groups that feed, shelter, and instruct swarms of extremely dependent young. Mothers bear the brunt of the parental investment in offspring, but human males differ from the males in other great ape species by routinely, if not altogether reliably, help­ ing to provide the food that is eaten by women and children. Human females differ from the females in other great ape species by routinely, if not altogether reliably, living for years after menopause. On average human males too greatly outlive their knuckle-walking cousins - and outlive, for that matter, just about every other animal except for Indian elephants and Galapagos tortoises. There must, the evolutionary model suggests, be some reason for natural se­ lection to have favored this remarkable longevity. One current theory, at least for post-menopausal survival, is that experienced females are thereby available to provide help to mothers coping with multiple offspring. No comparable theory has been proposed to explain the longevity of human males. Their hunting and fighting skills certainly do not continue without abatement. But unlike women their reproductive potential only declines slowly, and in natural conditions a variety of accidents presumably contrived to keep the number of extremely old males to a minimum. The key point - and the reason that human post-meno-

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pausai longevity needs an explanation at all - is that there is a clear evolutionary link between the end of reproduction and senescence. From an evolutionary perspective, old age cannot be explained by the simple “wearing out” of parts, since for a considerable length of time our bodies are able to rejuvenate themselves, repair damage, and replace cells. In a remarkably influ­ ential scientific paper, published more than fifty years ago, the biologist George C. Williams argued that “natural selection may be said to be biased in favor of youth over old age whenever a conflict of interests arises”. This bias means that genes that have beneficial effects early in life will be selected, even though those same genes have cumulative bad effects later on. The principle, which Williams called antagonisticpleiotropy, is part of the larg­ er system of trade-offs that govern the whole life process. The fact that there is a price to pay is irrelevant; from an evolutionary perspective, all that matters is to enhance the likelihood of survival through the reproductive period, a period that extends beyond the birth of the youngest child to the moment when that young­ est child is self-sufficient. After that moment, the post-reproductive individual who has transmitted the genes and helped the offspring achieve self-sufficiency has no further purpose and can in effect be discarded. In the memorable words of King Lear, “Age is unnecessary” (2.4.152). Those words are not a cool assessment of biological truth; they are meant to be an absurdity, the parodic expression of an abasement that the king regards as incon­ ceivable. His daughter Regan has proposed that he to return to Goneril, from whose house he has stormed away, and admit that he has been at fault. Lear explodes: Ask her forgiveness? Do you but mark how this becomes the house: ‘Dear daughter, I confess that I am old; Age is unnecessary. (2.4.149-52)

As an attempt to awaken Regan to the preposterousness of her suggestion, Lear’s little rehearsal of abject humiliation is a failure. “Good sir, no more!” she says, responding as if to a child’s tantrum, “These are unsightly tricks” (2.4.154). But as so often in this play, the king’s wild utterance speaks some larger truth. Lear is responding not only to Regan’s idea that he should apologize to Goneril but also to her attempt to make him understand precisely where he stands. She wants her father to grasp the reality of his situation, both in relation to the particular post-retirement arrangement that called for him to sojourn for a fixed period of time with each daughter in succession and in relation to the larger, still more inflexible arrangement of nature itself. “Oh, sir, you are old”, (2.4.143) she has told him - five simple syllables in which Coleridge professed to find an

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“excessive horror”. Why should it be monstrous to express this simple, honest truth or to go on, as Regan does, to spell out exactly what she means? Nature in you stands on the very verge Of her confine. You should be ruled and led By some discretion, that discerns your state Better than you yourself. (2.4.144-47)

Later in the play Regan will behave in a way that amply justifies Coleridge’s hor­ ror, but why should her words at this point be so disturbing, particularly since they seem only to reinforce what her father himself has publically acknowledged? The play opens with Lear’s decision to divide his kingdom equally among his offspring, a decision that, as befits an absolute monarchy, brings together in the closest conjunction the story of a state and the story of a life. Give me the map there. Know that we have divided In three our kingdom; and ‘tis our fast intent To shake all cares and business from our age, Conferring them on younger strengths, while we Unburthened crawl toward death. (1.1.36-40)

Lear is not dying; he is not ill; he does not even show signs of any conspicuous weakening of vigor. Later in the play Regan will exclaim, in exasperation, “I pray you father, being weak, seem so” (2.4.199). But he has reached, or believes he has reached, the point in which the principal work of his existence has come to an end. The absence from the play of any Mrs. Lear only confirms what we can presumably see from looking at him and what he himself recognizes: he is beyond any productive or reproductive life, and he wishes to free himself from the burdens that he has borne in fathering and caring for his children and in ruling his kingdom. He cannot know exactly when, but at some point, not in an unimaginably distant fùture but in a foreseeable time, his body will fail him. He will, as his image of crawling toward death suggests, no longer be able to stand up on his own two legs. Something in him will sicken: his heart will stop beating, perhaps, or another organ in his body will fail him; or he will be unable to fight off some opportunistic illness feeding on his own flesh. That is the natural order of things, and it cannot be averted. Lear’s concern is not, it should be noted, with what awaits him beyond death: there is no imagined afterlife in his world, no ghosts who haunt the living, no Elysian Fields or Tartarus. His death will be the end of him. But he wants to pre­ side over the close of his own life history, thereby making his destiny his choice.

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He chooses to do so at the symbolically charged moment at which, his oldest children being already mated, his youngest child has reached what his culture recognizes as the point of self-sufficiency: The princes, France and Burgundy, Great rivals in our youngest daughter’s love, Long in our court have made their amorous sojourn, And here are to be answered. (1.1.44-7)

For biologists the self-sufficiency of the youngest child is, as we saw, the moment that defines the end of any living organism’s extended reproductive period. Hence the special appropriateness of Lear’s intention to distribute everything he possesses to his offspring. Why should he hold anything back? His life’s labor is finished. As he recognizes, almost in spite of himself, “age is unnecessary” (2.4.152). But, as so often in Shakespeare, the play opens with a conclusion - here the definitive biological resolution of a life history - that then completely unravels. Lear decides, apparently impulsively, to stage a contest: Tell me, my daughters Since now we will divest us, both of rule, Interest of territory, cares of state Which of you shall we say doth love us most? That we our largest bounty may extend Where nature doth with merit challenge. (1.1.47-52)

He wants, he says, not simply to hear his daughters’ gratifying declarations of love but to weigh them one against and other and to decide on that basis which should receive the largest share of his resources. His impulse to do so seems entirely irrational, since we have learned, in the opening moments of the play, that the precise terms of the distribution have already been fully disclosed and carefully scrutinized: In the division of the kingdom, it appears not which of the dukes he values most: for equalities are so weighed, that curiosity in neither can make choice of either’s moiety. (1.1.4-7)

The two shares in question, so perfectly equal, are intended for Goneril and Regan and their husbands; the third will go to Cordelia and whomever succeeds in obtaining her hand in marriage. Though everyone understands that Cordelia is Lear’s favorite, it is not clear that her intended share is any larger; indeed the­ re is an unspoken presumption that Lear has chosen to prevent “future strife” (1.1.43) by an equitable distribution. In any case, it is all settled.

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What then accounts for his impulse to stage the love test? Lear wishes to ex­ perience for one last time what all parents with more than one dependent child routinely encounter: the intense competitive claim on their investment. As he makes clear, the issue is a struggle for a larger share of whatever he has to bestow, and the test will be which of his offspring makes the most convincing display of the signs he finds most compelling. Those signs are not, as with newborns, cries of distress, cries that say at once “I need food to survive” and “I am strong and healthy and thus worth significant parental investment”. Rather they are the linguistic equivalent of the gratifying signaling that infants learn long before they acquire language: the smiles, the upraised arms, the looks of adoration. It is perhaps understandable enough that Lear craves this particular gratification, as he makes his final grand gift. The sweet signs - “I love you more than words can wield the matter” (1.1.53) - are among humanity’s deepest pleasures: we adults are designed by nature to melt when we encounter them, and we quickly learn to solicit them and to long for them, like a drug. Their diminishment - at first gradual and then, during adolescence, pre­ cipitous - is a form of painful reverse weaning, a weaning that can easily produce parental anxiety, melancholy, and anger. But there is another reason, apart from pleasure, for anyone in Lear’s position to extract declarations of love from his children. The bond between parents and their dependent offspring makes complete sense, from a biological perspective; it is, as it were, part of what Paul calls the law in the members. But the bond between offspring, once they are self-sufficient, and their parents is less obvi­ ously compelling. It does not take an evolutionary biologist to observe the deci­ sive change in the relationship from the moment that children have themselves reached reproductive capacity: “Therefore does a man leave his father and his mother and cling to his wife and they become one flesh”. Humans may have some natural, that is, genetic predisposition to aid their aging parents; they certainly give evidence of a psychological inclination to do so, an inclination reinforced by a wide array of cultural injunctions. In proverbs, sermons, stories, pictures, plays, rituals of respect, and the like, Renaissance cul­ ture endlessly reiterated and reinforced the obligation of children to parents. But the pervasiveness of the message in this period and the recurrent invocation of metaphysical support for the rights of the old did not preclude parental anxiety; on the contrary, the ceaseless repetition seems an expression of unappeased and surprisingly widespread insecurity. That insecurity fed on a queasy sense that there was no clear natural reason why offspring should invest in their parents once their parents’ investment in them has been exhausted. High mortality rates from plague and other diseases,

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along with war, recurrent famine, endemic violence, and the like, may have kept the full force of the riddle at bay. A great many parents in Renaissance Europe did not get to experience senescence. In “Of age,” Montaigne writes that we treat death caused by “a decay of powers brought on by extreme old age” as if it were the natural norm, the one we should all by rights expect for ourselves. But the assumption is counter to everything we actually observe about the world: “as if it were contrary to nature to see a man break his neck by a fall, be drowned in a shipwreck, or be snatched away by the plague or a pleurisy.” The truth is that what we regard as “alone natural” is in fact prodigiously rare: Death of old age is a rare, singular and extraordinary death, and hence less natural than the others. [...] It is indeed the bourn beyond which we shall not go, and which the law of nature has prescribed as not to be passed; but it is a very rare privilege of hers to make us last that long.

Looking far back in time, as well as around him, Montaigne grasped that the innumerable supposedly “accidental” deaths were in fact part of a general natural reduction of the population. We were meant, as it were, to be consumed early; not to linger into senescence. From the perspective of actual experience, death by old age is weird and unnatural. Senescence poses a problem; it is a disturbance. That disturbance is felt not only in the aging, who may or may not realize the gradual diminution of their powers, including their reason; it is felt also and more intensely in the young. For though love of their offspring is “imprinted” in parents by nature, as Montaigne puts it in his essay “Of the affection of fathers for their children,” a reciprocal affection of grown children for their parents is much less part of the natural design. “And because Nature seems to have recommended” in­ stinctual parental love “with a view to extending and advancing the successive parts of this machine of hers, it is no wonder at all if, turning backward, the affection of children for their fathers is not so great.” Montaigne characteristically refuses to register this lack of reciprocity as a tragedy or a sign of human depravity. Nature’s goal has nothing to do with sentiment: it has to do with the advancement of a machine. The love of parents for children serves a natural design which is expan­ sive, forward-moving, and indifferent to the emotional life of the begetters, except insofar as that emotional life greases the mechanism. The reciprocal love of children for their aging parents serves no comparable natural purpose. Shakespeare had certainly read Montaignes essays “Of aging” and “Of the af­ fection of fathers for their children”; it is possible to show that their fingerprints, in John Florio’s translation, are all over King Lear. But the play is far more sym­ pathetic than the essays to the gnawing fears of the aging and to their half-con­ scious understanding that the gratitude they expect from their children may have

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little or no basis in nature. Small wonder that Lear, at the point of exhaustion and as a hedge against a bleak future, should engage in a final ritual solicitation of love. This solicitation can draw upon a phenomenon that has been observed in many species, including our own: what the biologist Robert Trivers describes as a general tendency for the demand for parental investment to be at its height somewhat surprisingly when the offspring are very close to self-sufficiency. Off­ spring, Trivers observes, have generally learned at this point tactics for inducing such investment beyond any pressing material need, often against the parent’s own wishes and in fierce competition with siblings who may be similarly jostling for whatever they can get. We get a glimpse of this competition in the flattery arms race between Goneril and Regan, Goneril’s “A love that makes breath poor and speech unable” (1.1.59) countered by Regan’s “I find she names my very deed of love;/Only she comes too short” (1.1.71-72). Rivalry is built into family life, as Shakespeare de­ picts it here and throughout his work. If it does not inevitably turn murderous, as it does in this play, it is at least always potentially so. Lear is ostensibly staging the contest so that he can distribute his bounty to whichever daughter most deserves it, but his motivating fear is already close to the surface and shows itself in his words to Regan, “Age is unnecessary.” That outburst is followed immediately by what he thinks it implies for elderly parents: “Age is unnecessary. On my knees I beg I That you’ll vouchsafe me raiment, bed, and food” (2.4.152-53). The infant-parent relationship has been reversed - as the Fool constantly and cruelly reminds his master - and it is the parent now who must cry, plead, and cajole for whatever it takes to survive. The problem is that it is not at all clear that children have the natural instinct that routinely leads parents to engage in costly trade-offs on behalf of their off­ spring. Hence Lear’s demand for an extravagant display of love and hence too his catastrophic misreading of Cordelia’s response to this demand: “I love your majesty/According to my bond, nor more nor less” (1.1.92-93). What does her “bond” amount to? We know, and the tragedy makes amply clear, that Cordelia’s altruistic love for her father is incalculably deeper than her sisters’ hollow pro­ testations. But that incalculability is the point: though Lear extorts professions of adulation, though he rages against “filial ingratitude” (3.4.15) and though he cries out to the heavens to protect old men, he never discovers - and the play never establishes - whether there is any natural basis for the love he has demand­ ed from his children. Montaigne for his parr is deeply unsympathetic to parental resentment of the supposed ingratitude and indifference of their grown children:

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Indeed it seems that the jealousy we feel at seeing them appear in the world and enjoy it when we are about to leave it makes us more sting}' and tight with them; it vexes us that the}' are treading on our heels, as if to solicit us to leave. And if we had that to fear, then since in the nature of things [1’ordre des choses] the)' cannot in truth either be or live except at the expense of our being and our life, we should not have meddled with being parents.

As Montaigne develops this idea of natural order of things - parental resources inevitably and properly depleted by the existence of children - he gives powerful voice to the resentment of the young: It is an injustice that an old, broken, half-dead father should enjoy alone, in a corner of his hearth, possessions that would suffice for the advancement and maintenance of many children, and let them meanwhile, for lack of means, lose their best years without making progress in public service and the knowledge of men.

The best solution, Montaigne thought, was for the old to give away most of their possessions to their children. They should retain enough for themselves to live reasonably comfortably and should simply reserve the right to reclaim their pos­ sessions, if the children turn out to behave badly. Shakespeare seems to have regarded these notions as exceptionally naive. In King Lear the aged father does not cling to his possessions; as if he had taken Montaignes advice to heart, he gives them all away, retaining only the right to reside, with his retinue, at his daughters’ homes. But his gift affords him neither protection nor gratitude. “I gave you all,” he says to Regan, who replies, “And in good time you gave it” (2.4.248). As for taking anything back, the idea is a pathetic fantasy. Strength is on the side of the young; the old have merely empty threats: No, you unnatural hags, I will have such revenges on you both, That all the world shall - I will do such things What thet' are, yet I know not; but they shall be The terrors of the earth! (2.4.276-80)

Such words are the expression of an impotent rage, a rage that, failing to achieve its object, swells up in Lear into a more general loathing of the generative process on which he had relied. First there is the hideous cursing of his daughter’s womb: Hear, Nature, hear! Dear goddess, hear! Suspend th}' purpose, if thou didst intend To make this creature fruitful! Into her womb convey sterility'! Dr}' up in her the organs of increase;

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And from her derogate body never spring A babe to honor her! (1.4.271-77)

And then, when he grasps that both of the daughters on whom he had count­ ed have no intention to give him what he expected and demanded, a more gen­ eral curse on the “molds” and the “germens” - that is, the soma and the germ - that are the biological basis for human reproduction: “Crack Nature’s molds, all germens spill at once / That make ingrateful man!” (3.2.8-9). Lear initially calls his daughters’ ingratitude unnatural, but, as his general curse suggests, their selfishness and cruelty seem at least as much a part of nature as Cordelia’s altruism. Indeed Cordelia’s principled resistance to the love test and, later, her willingness to risk her own life to rescue her father are, at least in the vision of King Lear, little short of miraculous. Though Cordelia’s qualities are of inestimable moral value, the play does not resolve their place in the scheme of na­ ture. At the end the crazed Lear holds a feather to Cordelia’s lips and thinks he sees some movement: “This feather stirs; she lives! If it be so, / It is a chance which does redeem all sorrows / That ever I have felt” (5.3.265-67). “If it be so” - but it is not so. Cordelia is dead as earth. Her altruism, like the decency of the nameless servant who attempts to stop the torture of the aged Gloucester, is deeply admirable, but it is not rewarded by the nature that the play constantly interrogates. The strongest claim to a direct allegiance with the forces of nature is made by the bastard Edmund. For Edmund what most matters is the energy he possesses in abundance, an energy he traces back to the sexual vitality of his conception: Why brand they us With base? with baseness? bastardy? base, base? Who, in the lusty stealth of nature, take More composition and fierce quality That doth within a dull, stale, tired bed, Go to creating a whole tribe of fops, Got ‘tween asleep and wake? (1.2.9-15)

What for Augustine had been the infallible sign of human depravity and fallen­ ness - the “lusty stealth” of intercourse - is for Edmund the sign of vigor. Nothing in King Lear unequivocally falsifies this vitalism, which is set against both foppish weakness and the artificial constraints of social custom. Those con­ straints stigmatize illegitimate children, reducing parental investment in them regardless of their native fitness, and honor the elderly, protecting their author­ ity and material well-being regardless of their diminished strength or utility. In terms Shakespeare clearly adapted from Montaigne, Edmund gives voice to his unwillingness to accept the suppression of the natural interests of the young:

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This policy and reverence of age makes the world bitter to the best of our times; keep our fortunes from us till our oldness cannot relish them. I begin to find an idle and fond bondage in the oppression of aged tyranny; who swat's, not as it hath power, but as it is suffered. (1.2.46-51)

These are parricidal sentiments that Edmund is foisting on his legitimate bro­ ther, in order to destroy him, but everything in Edmund’s subsequent behavior suggests that he himself regards the “reverence of age” as intolerable. When he decides to betray his father to the murderous Earl of Cornwall, Edmund articu­ lates what he takes to be the natural principle, his own version of antagonistic pleitropy: “The younger rises when the old doth fall” (3.3.24). But if, with its closing spectacle of Cordelia’s lifeless body, King Lear emphati­ cally does not endorse the view that nature rewards altruism, neither does it en­ dorse the adaptive value of ruthlessness. To be sure, ruthlessness has its virtues. Through his fierce hunger, ambition, and cunning, Edmund rises from the status of social outcast to a position of enormous wealth, power, and erotic appeal. He displaces his older brother in his father’s love, accedes to his father’s title and lands, leads rhe army that defeats the French invasion of the kingdom, and has power of life and death over the captured Lear and Cordelia. Goneril and Regan feverishly compete with each other for his sexual favors. But the play sets harsh limits to the value of this life strategy as well: at the end Edmund is dead, along with Goneril and Regan. None of them has left behind a successor; the story of their lives is definitively over. “Is there any cause in nature that makes these hard hearts?” (3.4.76-7) the anguished Lear demands. The ingratitude of his selfish daughters had seemed to him incomprehensible: “Is it not as this mouth should tear this hand/For lift­ ing food to’t?” (3.4.16-17). But though the parent and his offspring share the same “blood,” as Lear puts it, he learns to his horror that their bodies and their interests are not identical, indeed that they may be in mortal competition. Still baffled, he dreams of some scientific investigation that might lead to an answer - “Let them anatomize Regan; see what breeds about her heart” (3.6.76-7) - but the play leaves his question unresolved. Though the term “nature” is used again and again, though the trade-offs are ceaselessly questioned, the strategies tested, the consequences weighed, Shakespeare’s tragedy cannot or will not settle the relationship between altruism and selfishness or establish basic norms for the successful negotiation of the stages of life history. “Unaccommodated man”, says the mad Lear, contemplating the naked figure of Poor Tom, “is no more but such a poor, bare, forked animal as thou art” (3.4.103-105). But what kind of animal this is remains unclear.

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Senescence is a tragic burden; that much is clear. “We that are young,” says Edgar in the final lines of the play, “Shall never see so much, nor live so long” (5.3.325-26). Though I have thought about these lines for many years, I never fully understood them, always taking them for some inarticulate, almost mute gesture toward the incomprehensibility of everything that has passed. Perhaps they are such a gesture, but they are also a simple recognition of the fact that Lear’s ex­ treme old age, in the world depicted in the play and in the world Shakespeare and his audience inhabited, is a very rare event. As Montaigne reminded his readers, natural death - if by that they meant death brought on only by the consequences of senescence - seems hardly to have been part of nature’s plan. It is weird. This weirdness is the basis for Shakespeare’s tragedy. He is interested precisely in the fact that senescence makes so little natural sense, from the perspective of the young and even from the perspective of the old themselves. And he focuses his astonishing powers of attention on the aspect of senescence that is least rel­ evant to the biological processes of life history: that is, to the consciousness of an aging figure fitfully aware that his mental as well as physical powers are waning and anxious about the support he will receive from his offspring as they are enter­ ing their own reproductive lives. This consciousness has no claim on the atten­ tion of the evolutionary biologist; it is, like the non-reproductive bodies of the very old, a kind of meaningless leftover. But for Shakespeare - and for literature - the leftover is the thing itself. Coda: “Up the age ofthirty, or beyond it,” Charles Darwin wrote in his autobiography, [...] poetry of many kinds, such as he works of Mil ton, Gray, Byron, Wordsworth, Coleridge, and Shelley, gave me great pleasure, and even as a schoolboy I took intense delight in Shakespeare, especially in the historical plays. I have also said that formerly pictures gave me considerable and music very great delight. But now for many years I cannot endure to read a line of poetry: I have tried lately to read Shakespeare, and found it so intolerably dull that it nauseated me.

Darwin is not proud of this nausea and does not commend it to his readers. But he is honest enough to acknowledge it, and he struggles to understand how it has come about: My mind seems to have become a kind of machine for grinding general laws out of large collections of facts, but why this should have caused the atrophy of that part of the brain alone, on which the higher tastes depend, I cannot conceive.

I have no solution to Darwin’s riddle, but I think it has been possible to perceive, in King Lear and, more generally, in Shakespeare’s sense of the shape of a life,

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at once an affinity with the problems that fascinate the evolutionary biologist and a profound difference. In literature life history is the platform for human experience. In biology, human experience is an epiphenomenon of life history, at best part of a ruse selected by nature to facilitate the transmission of genes, at worst an irrelevance. At the beginning of Lear, the old man recognizes that his life history has reached its end. Making the final and definitive parental invest­ ment, he is giving up everything. But what lies just ahead is what most matters to Shakespeare: the love test, the desire to retain “the name and all the additions to a king,” the insistence on the retinue, the rage, the grief, the madness, and the fantasy of a redemption that will never come.

PARTE I IL VOLO DELLA PAROLA

PER E A UN GUIDO AZZURRO Giacoma Limentani

Quando Modugno si è tinto di blu per volare nel blu, ancora non conoscevo Guido, ma anni dopo il blu di Modugno ha dato il via alla nostra prima conver­ sazione, di cui però non ricordo tempo né luogo. La mia memoria salta spesso da un evento all’altro come un uccello fra i rami. Per molti questa è una irritante peculiarità, che però non mi ha mai nuociuto nei rapporti con Guido. Forse perché Guido è un Fink e, come certo sapete, fink significa fringuello. Un fringuello che forse non canta, ma dei canti capisce il senso profondo... Quando lo hanno, ovviamente. Me ne accorsi mentre facevamo colazione allo stesso tavolo della saletta riser­ vata agli oratori di un convegno. In un angolo del soffitto, quella saletta ospitava un altoparlante. E dico che ospitava, perché quando lasciò filtrare la voce di Modugno, quell’altoparlante fu come una persona che ci spronasse a un dialogo che non prendeva il via. “Pensa anche lei che non basti tingersi di blu per volare nel blu?” chiese Guido. E fu subito chiaro che per entrambi noi il pur gradevole blu di Modugno non aveva niente a che fare con l’essere o il sentirsi blu. E blu di quella specialissima mood indigo che vibra nei luoghi dai quali una certa negritudine arriva ad abbracciare i pur variegatissimi bianchi. Perché quello è un sentirsi blu che inonda l’essere intero di un color indaco che è un azzurro sfumato di rosa, nel quale però rosa o azzurro prevalgono di volta in volta partendo dal quasi bianco del primo mattino, per arrivare al blu violaceo della notte.

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I doveri del convegno troncarono quell’inizio di dialogo, ma la mia memoria preferisce farlo proseguire senza soluzione di continuità, in un saletta di Bagni di Lucca, dove si cenava alla fine di un altro convegno. Seduto accanto a Daniela, Guido sollecitava un professore che sapeva suonare il piano e conosceva tutte le canzoni a noi care, anche quelle che permeano di indaco il doveroso blu di certe melodie. Forse fu proprio allora che credetti di scorgere la vena di malinconia che ai miei occhi tempera la gioia nei sorrisi di Guido. E quella malinconia la ritrovai intatta qualche tempo dopo a Firenze, dove il giovanissimo Enrico debuttava con una pièce canora ispirata a un avolo Fink. Avolo forse volante, perché volando doveva essersi districato dalle panie di una ostile Europa Orientale. Avolo certo canoro perché con sé, volando, aveva portato a Ferrara melodie e stile di canto tali da influire sulla liturgia della locale sinagoga. Sue, dunque, le musiche cui Enrico si era rifatto per quella prima pièce, e che tutt’ora nutrono la sua carriera artistica. Quella sera a Firenze, collegando il fortunato approdo ferrarese dell’avolo a come la sua eredità musicale veniva messa a frutto dal pronipote, pensai che il ciclo vitale dei Fink aveva acquistato un felice senso di continuità. Ma allora perché quella sottile vena di malinconia nel sorriso di Guido? Credo di aver avuto risposta a questa domanda nell’atrio della Galleria d’Arte Moderna di Roma, dove qualche tempo dopo, nella sua veste di critico cinema­ tografico, Guido doveva intervistare la diva dalle azzurre chiome Lucia Bosè. Venendo da un ulteriore, noiosissimo convegno, fui più che felice di ridere con lui dei diversi blu e azzurri che venivano a scandire i nostri incontri. E Guido li stava appunto collegando all’azzurro di certi uccelli che svolazzano fra le sequoie di un parco californiano, quando un tipo con tanto di taccuino e matita si intromise per “intervistare l’intervistatore”. Così disse, e senza riprendere fiato dichiarò di fregarsene altamente delle pri­ me donne. Lui stava scrivendo un saggio sugli intellettuali che gravitano intorno alle divette. Guido sorrise. Forse quel tipo lo divertiva come a volte divertono gli sce­ mi presuntuosi. Se non che: “Mi dicono che suo padre è morto ad Auschwitz. Quanti anni aveva lei quando gliel’hanno portato via? Perché, vede, traumi in­ fantili di questo genere possono indurre passione per gli orpelli.. Disse proprio così, e Guido continuò a sorridere. Il sorriso più blu che si possa rivolgere a un cretino. Più blu della più blu-violacea mood indigo. Voltò le spalle quasi urtandolo per solcare la piccola folla raccolta intorno alla diva dalle chiome azzurrate.

Per e a un Guido azzurro

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Poi si ricordò di me e girandosi, con un sorriso che era pura tristezza, disse: “Non dimenticare il bosco delle sequoie, se vai in California”. Non l’ho dimenticato. E un luogo bellissimo e silente. Tronchi e rami senza curve delle sequoie sono profumo solido. Le loro fronde filtrano la luce in un verde liquido che copre il cielo. Uccelli di un azzurro tendente all’indaco vi si slanciano in voli spesso verticali, che però non sembrano trafiggere il tetto intenso del verde: quella sorta di loro invalicabile arcobaleno. A Bagni di Lucca avevamo cantato anche Over the rainbow, ma una sola volta. Sia pure un arcobaleno, tutto ciò che tarpa i voli dell’anima, vela la luce degli sguardi proprio come la velano le precoci perdite laceranti. Le inesprimibili di­ sperazioni dell’infanzia. Oggi sono certa che Guido appartiene alla stirpe degli uccelli azzurri. Anche nella gioia, la sua malinconia si leva in un muto canto che dice: “other birds fly over the rainbow. Why dear, oh, why can’t I?”.

ANCHE UN PO’ CHARLIE CHAPLIN E PURE UN PO’ BOB DYLAN Franco Minganti

Quando iniziò a prendere forma l’idea del convegno dedicato a Guido, una delle parole chiave che circolava tra di noi era “metodo”: si aveva voglia di andare alla ricerca, se esisteva, di un “metodo Fink”. Non sono sicuro che, dopo i con­ tributi e i suggerimenti ricevuti, ne abbiamo messo a punto una qualche formula sintetizzabile - magari non era il concetto migliore possibile - però credo valga la pena continuare a girarci intorno almeno un po’, magari offrendo come con­ tributo un’altra piccolissima tessera del puzzle. Nei giorni in cui vado buttando giù queste note, complici taluni svolazzi nei cieli d’Europa e relativi tempi morti in qualche hub aeroportuale, sto lavorando a un paio di progetti dedicati alla musica, per lo più afroamericana, legata alle lotte per i diritti civili negli Stati Uniti tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’60. Che c’entra con Guido? C’entra eccome: al mio primo anno all’università - era il 1971 - arrivavo dalla maturità, per la quale avevo preparato una ricerca sullo stato dell’arte della popular music. Avevo un fratello maggiore che schitarra­ va insieme agli amici del suo complessino, suonavo anch’io la chitarra e sfogliavo Melody Maker le rarissime volte che riuscivo a trovarne una copia in edicola. La mia insegnante di Italiano, appassionata di musica classica, aveva tollerato che io trattassi il pop alla stregua di Musica (iniziale maiuscola) e doveva essere andata almeno un po’ in fibrillazione al mio citare i concerti brandeburghesi di Bach nella versione di Keith Emerson e dei Nice (Ars Longa Vita Brevis, 1968), così come il Concerto for Group and Orchestra ( 1969) dei Deep Purple accompagnati dalla Royal Philarmonic Orchestra diretta da Malcolm Arnold (anni dopo avrei

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capito che era fuorviante cercare di farsi ammettere al club della Musica accam­ pando chissà quale continuità con la classica: per una qualificazione “alta” e dignificata bastavano e avanzavano i galloni culturali che il rock si era guadagnato sul campo). Insomma, suonavo tra me e me, ascoltavo un sacco di musica inglese e americana, e mi interessavo allo studio e al racconto della cultura musicale in cui ero immerso... e mi ero iscritto all’Università di Bologna: corso di laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne della Facoltà di Lettere e Filosofia. Guido Fink aveva appena traslocato lì da Magistero, fresco di un’esperienza di insegnamento negli Stati Uniti. A differenza di tanti, conosceva la cultura ameri­ cana di prima mano e la viveva, e la seguiva, con attenzione, giorno dopo giorno. Nessuna sorpresa, allora, se a margine del suo corso di letteratura americana de­ dicato all’illustre sconosciuto, per me, Nathaniel Hawthorne e alla sua ottocente­ sca (orrore!) Scarlet Letter - un corso complementare cui mi ero iscritto di corsa dopo averne saggiato le primissime lezioni, animate da un giovane professore, magro e teneramente goffo, costantemente impegnato com’era a tirarsi su le ma­ niche di pullover di un paio di taglie troppo grandi (Daniela, ma glieli sceglievi tu “per il crescere”?) - Guido aveva aperto un seminario facoltativo dedicato alla spinosissima “questione nera” (non si usava ancora il termine “afroamericano” e l’editoria, anche progressista, faticava a rinunciare a “negro” in favore di un più dignificato “nero”, abitudine che avrebbe preso piede proprio in quegli anni). Avrò sempre in mente, e nel cuore, la scoperta dei territori cui quelle letture e quelle chiacchierate facevano accedere. Il paperback - bé, la Collana Paperback di Einaudi con Crisi in bianco e nero di Silberman e il mind-twisting II popolo del blues di LeRoi Jones - entrava di prepotenza nelle nostre biblioteche personali: di fatto, Guido ci stava invitando a vivere nel presente, nel mondo, dentro la cultura, non tanto, e non solo, dentro l’università e il suo rigidissimo impian­ to disciplinare. Stavamo in effetti frequentando un corso di “letteratura anglo­ americana”, ma “facevamo americano” comunque, e agli Stati Uniti di allora non potevamo certo essere indifferenti. Anzi, si potrebbe dire che l’americanistica ita­ liana qualitativamente migliore di quegli anni (e di quelli a venire) è stata quella in grado di farci guardare all’America con occhio disincantato, se non proprio critico (magari ferocemente), proprio perché volevamo che la nostra passione non fosse viziata dalla piaggeria dilagante nei confronti del Grande Paese e dai filtri e dai paludamenti ideologici perpetrati in nome suo. L’università - Guido, almeno - mi parlava di me, del mondo in cui vivevo, ed era così naturale che così fosse. E decisi di talk back, di rispondere sulla stessa lun­ ghezza d’onda: nel mio intervento al seminario avrei parlato della musica nera e del ruolo che aveva nel sostenere il movimento, Diritti Civili prima, Black Power poi. Non era facile procurarsela, quella musica - ad esempio, i dischi della Folkways

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non godevano di una distribuzione regolare da noi - ma mi venne in soccorso uno di quegli americanisti “migliori” di cui dicevo poc’anzi. Alessandro Portelli aveva da poco pubblicato per Laterza Veleno di piombo sul muro. Le canzoni del Black Power (1969), un libro a suo modo straordinario che tiene benissimo ancora oggi proprio per la sua intelligenza e lungimiranza. Come altri libri cui si ispirava quella raccolta - magari il songbook dell’SNCC We Shall Overcome! (\963) di Guy Carawan, - ad aprire la scheda dedicata a ciascuna canzone c’era uno scampolo di spartito che suggeriva quantomeno la linea melodica del brano in questione. Deciso: quelle canzoni che non fossi riuscito a proporre attraverso le cassette del Philipsino a pile che mi ero fatto prestare, le avrei eseguite e cantate con la chitarra. Quello fu in effetti il mio esordio all’università da studente: cantai e suonai per Guido, per i compagni di seminario e per me, insolito prologo al comple­ tamento di quel mio primo esame un mesetto dopo a Magistero (Guido aveva ancora l’ufficio lì), quando fui interrogato su Hawthorne & Co. - da cui nel frattempo non ero riuscito a non farmi contagiare - in un decrepito studio af­ frescato, con antico e tristissimo camino sbrecciato, sopra una palestra di karate il cui istruttore tuonava “picchiate più forte!” ai suoi discepoli, incurante degli effetti sulle tremebonde esaminande di americano al piano superiore. Nell’impossibilità di ricevere eventuali conferme dall’interessato - se ponessi le domande, sentirei probabilmente una mano stretta più forte o vedrei segni di commozione - a distanza di anni posso immaginare che quell’esame costituì una qualche apertura di credito da parte di Guido nei miei confronti, quella che poi, possibilmente insieme ad altro, qualche anno più tardi gli fece pescare il mio nome quale suo supplente (andava a New York, alla Columbia, a studiare con il suo amatissimo Samson Raphaelson, sceneggiatore sopraffino) dopo che France­ sco Meli, “nativeamericanisf di lungo corso e oggi appassionato “franksinatrologo”, aveva, bontà sua, declinato l’invito. In una lettera autografa del novembre 1981, credo indirizzata a una Commissione Fulbright cui poi mai feci domanda, Guido “doveva” tessere le mie lodi in termini imbarazzantemente lusinghieri, spiegando che “[w]hen taking a leave of absence with an ACLS grant in 1979-80, I had no hesitation in proposing [Franco Minganti] as a substitute teacher for my classes”. Poche righe più sopra aveva candidamente scritto: “I have frequently been satisfied or even happy with my students, in my classes both here and in the U.S., but seldom have I felt actually proud (or should I say embarrassed?) trying to teach something to someone like Franco Minganti, from whom I immediately felt I had much to learn”. Trovo quella capacità di Guido di aprirsi al mondo e ai suoi abitanti, quel disporsi all’ascolto e rendersi disponibile ad aperture di credito offerte d’istinto, “sentite” più che razionalmente meditate, come il nocciolo duro intorno al quale

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Guido è stato in grado di costruire un senso di fiducia reciproca, così come il clima per la condivisione di un certo sentire con chi gli stava intorno e veniva chiamato a collaborare con lui. Forse c’era un metodo in quella follia, o almeno una ratio. Altrimenti, come avrebbe potuto accettare di citare il Frank Zappa di 200 Motels da me caldeggiato mentre stava stendendo l’introduzione a Fool for Love ài Sam Shepard, totalmente incentrata sul motel come (non) luogo di un’A­ merica tanto moderna quanto in via di sparizione? Doveva proprio fidarsi di me sulla parola: chissà se aveva mai ascoltato davvero Frank Zappa, men che meno visto il film in questione... Il fatto è che si passava tantissimo tempo insieme: Guido, Daniela ed Enrico (cum gatta di turno) erano per me una seconda famiglia... un ambiente affettivo che respirava come un grande polmone entro cui circolava tanta aria e il mondo entrava e usciva a ritmi vertiginosi, secondo i calendari più diversi. Gli amici dei Fink - erano una marea - diventavano inevitabilmente i tuoi, così che il tuo osservatorio sul mondo si ampliava a dismisura, sempre che tu ne avessi voglia. E come non averne voglia? Non starò a fare nomi, ma in quel mondo-Fink - da non confondersi con l’università in cui studiavamo e lavoravamo - circolavano nomi planetari in libera uscita dagli ambiti più disparati, e in quel mondo, senza nulla togliere a nessuno, tu eri come loro e loro erano come te. Mica poco. E ti ritrovavi a diretto contatto con “the works”, come li chiama Hammett nella para­ bola di Flitcraft in The Maltese Falcon, in una nuvola di informazioni e di sapere a circolazione freewheeling, circostanze entro cui chiacchiere e idee si trasforma­ vano in progetti, e il dire assumeva le forme del fare, magari attraverso una risata e uno svolo di gossip. Dicevo di un’apertura di credito, o meglio, una carte bianche come quella che mi fece aprire gli occhi sul mondo del cinema. Attraverso Guido mi resi im­ provvisamente conto che c’era il cinema dietro i film che si andavano a vedere. Galeotto fu un invito che Guido procurò ad alcuni suoi studenti bolognesi, io tra questi, a partecipare a una retrospettiva fiesolana “cum convegno” dedicata a Orson Welles, con tanto di ospitalità pagata per due o tre giorni a Firenze. Sarebbe stata la mia prima esperienza da convegnista embedded, alle prese, forse persino un po’ sbigottito, con dibattiti infuocati e chilometrici per discutere, ad esempio, se la bomba alla fine del Processo esplodeva per davvero oppure no. E i convegnisti embedded, io con loro, finirono naturalmente risucchiati dentro il mondo-Fink che all’epoca gravitava intorno a via della Piazzuola (54, forse?), dove Guido officiava quei riti che successivamente avrei con un sorriso accostato a quelli dell’Arcadia jamesiana di Brooksmith, quelli in cui, in vero, Guido gio­ cava contemporaneamente in più ruoli, da quello dell’anfitrione a quello di un improbabile Brooksmith che, nell’offrirti qualcosa da bere, si premurava di dirti che “la Coca-cola è quella lì nella bottiglia col tappino rosso”.

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La gratitudine per l’apertura di credito copre naturalmente parecchie delle colla­ borazioni cui sono stato chiamato da Guido, là dove il mio nome compare accanto al suo: Guido Fink e Franco Minganti... generoso, Guido. Quelle andate in porto e quelle mai completate. Quelle rincorse sui binari della stazione di Bologna, luogo canonico di scambio di parti o capitoli delle cose su cui si stava lavorando, così come quelle negoziate con editors di oltre oceano. (Avevamo in cantiere un saggio sulla fortuna italiana del salingeriano Catcher in the Rye, lo avevamo anzi già mezzo scritto, ma non riuscimmo a rispettare la deadline, dato che, a differenza delle vo­ latili e ballerine scadenze editoriali di Cinema & Cinema, l’uscita improrogabile era prevista in occasione di un qualche anniversario legato al romanzo). Guido e io condividevamo la realtà di pendolari dell’università di Bologna, una realtà che avremmo condiviso anche con Liana Borghi per un periodo che, nella mia testa, continuo a pensare come uno dei momenti più fecondi e in­ novativi per la pratica e la didattica della “nostra” americanistica. Sarà banale, ma anche quell’ethos da pendolari è per me parte integrante del metodo-Fink, che, se mai ne scopriremo uno, non era senza il rispetto per la dignità del lavoro materiale degli altri, un atteggiamento sovente in frizione con una “bolognesità” accademica a volte chiusa, sorda ed elitaria. Allargherei anche questo “rispetto” al fatto di non aver mai visto in Guido atteggiamenti di patronizing o tracce di condiscendenza. Certo, era capace di rilanciare battute ficcanti che, sia pure con ironia, liquidavano questo o quello, il tal film o un certo romanzo, ma servivano giusto a sottolineare una differenza, non necessariamente una superiorità. In questi anni, dopo aver organizzato nel 2008 a Bologna un convegno interna­ zionale sulla figura di Woody Guthrie, mi è capitato di tanto in tanto di insegnare corsi sul folk revival e la scena del Greenwich Village degli anni ’60. Ogni volta che proietto per i miei studenti le immagini documentarie del Woody uscito suo malgrado dai palcoscenici della musica dopo la diagnosi della chorea di Hunting­ ton - un Woody dal volto sempre bellissimo, nonostante tutto - non riesco a non pensare al Guido che è sempre stato per noi “anche un po’ Charlie Chaplin e pure un po’ Bob Dylan”, come avevamo scritto nella presentazione al convegno. Mi piace pensare che, com’era accaduto per il silenzio calato su Woody Guthrie e la successiva riscoperta del suo straordinario contributo, queste rin­ novate attenzioni recenti - il convegno, il volume Nel segno di Proteo, gli scritti giovanili di cinema raccolti dalla Cineteca di Bologna, il libro che state leggendo e quant’altro bolle in pentola - porteranno nuovi frutti di conoscenza e di rifles­ sione intorno a Guido e al suo straordinario contributo. I segnali positivi non mancano; arrivano da tutti quelli che ci chiedono notizie di lui e di quanto si va pubblicando intorno a lui. Comunicano un’aura di commozione, di rispetto e di grandissima stima. Segnali belli.

A LETTO CON IL PROFESSORE. QUASI COME UNA FENOMENOLOGIA DI GUIDO FINK1 Roberto Barbolini

Per poco non finii a letto con Remo Ceserani. Non prendetelo per uno di quei coming out che oggi vanno tanto di moda: io e l’illustre studioso di letterature comparate rischiammo davvero di passare la notte nello stesso letto in una stanza del Caesars Palace di Las Vegas. Tengo a precisare che la stanza in questione era la mia, il letto a due piazze pure, e che Ceserani alla fine preferì pagare 180 dollari pur di non dormirci. Ma non posso fare a meno di ricordare che questo fu solo uno dei celestiali inghippi di quel raduno sulle meraviglie delfalso e della contraf­ fazione nell'arte, nella letteratura e nell'architettura che Guido Fink aveva organiz­ zato in omaggio al suo antico sodale Guido Almansi, scomparso l’anno prima. Il tema del falso era quanto mai appropriato: nel 1976, infatti, l’uno e l’altro Guido avevano lavorato a quattro mani a Quasi come, strepitosa antologia di falsi e contraffazioni all’insegna della parodia come letteratura e della letteratura come parodia. Quel titolo malandrino, che strizzava l’occhio aW'als ob di Kant trascinandolo nel regno senza corona delle menzogne romanzesche, era perfetto anche per il convegno. E poi Quasi come era stato uno dei libri capitali della mia formazione, aiutandomi parecchio a non restare invischiato in certe fumosità1 1 Purtroppo Remo Ceserani è mancato quando questo scritto era già in composizione. L’aned­ doto che qui racconto potrebbe col senno di poi apparire irriverente, ma lo stesso Ceserani l’ha rievocato in un articolo Immaginazione, la rivista diretta da Anna Grazia D’Oria per Manni editore. Spero quindi, rievocandolo a mia volta, di non fare un torto postumo al “sense of hu­ mour” dell’illustre studioso.

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filosofiche che negli anni ’70 erano in gran voga. Va da sé che al convegno non potevo mancare. Purtroppo non sapevo che per organizzarlo Guido sera messo in combutta con il Cappellaio Matto, la Lepre Marzolina e un’ineffabile “orga­ nizzatrice di eventi”, collaboratrice abbastanza sbadata dell’istituto italiano di cultura che all’epoca (eravamo alla fine del 2002) il mio amico dirigeva a Los Angeles, dove mi aveva già invitato due anni prima per una conferenza. Dato che lui e Daniela dovevano rientrare in Italia per un breve periodo di vacanza, nelle due settimane successive fui lasciato padrone assoluto dell’appartamento con vi­ sta Sull’Oceano e sulla spiaggia stile Bay Watch, che avevano affittato dalle parti del molo di Santa Monica. Forte di quell’esperienza, al mio secondo viaggio mi sentivo ormai un vete­ rano della West Coast. Partito in orario da Malpensa su un volo Lufthansa, a Francoforte avevo agganciato senza problemi il gruppetto dei bolognesi con cui ero in contatto: Giovanna Franci, Maurizio Ascari e Franco Minganti, ottimi compagni per resistere alla noia della trasvolata oceanica. Tutto bene fino all’Immigration dell’aeroporto di New York, dove incappiamo in un eskimo piuttosto cagacazzi addetto ai controlli, perfettamente corrispondente all’immagine che mi sono sempre fatto del Mighty Quinn, il possente esquimese della canzone di Bob Dylan. Finalmente ci imbarchiamo sul volo per Los Angeles, dove arrivia­ mo a pomeriggio inoltrato. La giornata successiva si svolge secondo i rituali ben collaudati di tutti i convegni, in un succedersi di relatori più o meno brillanti, rilassanti coffe-breaks, scambi di indirizzi con promesse di futuri contatti che ver­ ranno puntualmente disattese. Il bello però è venuto dopo. Niente da dire sulla location, l’idea della gita a Las Vegas era strepitosa: nessun posto al mondo è più adatto della capitale mondiale del falso per ospitare una banda di convegnisti che al falso hanno dedicato i loro migliori sforzi ermeneutici. Ricordo ancora, dopo il volo su una traballante carcas­ sa alata, il nostro approdo trionfale nella finta Roma imperial-barocca del Caesars Palace, il falso lago di Como dell’hotel Bellagio, la Venezia artificiale del Venetian, con i suoi ponti e le sue calli e i gondolieri che si sgolavano a cantare ‘O sole mioooo!!! tra una raffica di pioggia artificiale e l’altra; che è un po’ come fare Singirì in the rain in una Napoli di cartapesta, con dei finti Gene Kelly travestiti da scugnizzi... Ma in un posto dove tutto è copia, imitazione, “quasi come”, si può forse pretendere che le prenotazioni alberghiere siano autentiche? Nacquero inghip­ pi, quiproquo, misunderstandings. Un paio di stanze mancavano all’appello, fra cui quella di Ceserani. Fu qui che gli offrii di condividere il mio letto. Lo vidi tentennare: l’uomo, si sa, non è di legno. Alla fine preferì pagarsi una camera di tasca sua, salvando così l’onore di entrambi. Quell’episodio però non se l’è più dimenticato, e ne ha parlato abbastanza di recente in un articolo sulla rivista

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Eimmaginazione. Fu, insomma, un convegno indimenticabile, che ciascuno dei partecipanti potrebbe raccontare da un’angolatura diversa come in Rashomon. Ascari e Minganti, quei miei falsi amici, continuano ad esempio a dire in giro che il giorno della partenza da Los Angeles per tornare in Italia bussai alla loro came­ ra con alcune ore d’anticipo, svegliandoli di colpo nel bel mezzo della notte, per­ ché avevo dimenticato di regolare il mio orologio sul fuso orario giusto. Si tratta ovviamente di una calunnia2. Mi ero semplicemente sintonizzato sul cronometro del Cappellaio Matto, in combutta con il quale il grande Guido aveva profuso su convegno e convegnisti quella certa sublime vaghezza che è sempre stata una delle maschere del suo talento imprendibile, e imprevedibile. Dalla sua stanza del Caesars Palace, tanto per dire, cercò di spiegarmi il modo di pagare il conto per via elettronica, evitando la coda alla reception, ma invece di insegnare a me finì per pagare due volte il suo, redimendo così la mia goffaggine con la propria: una manifestazione di delicatezza di cui gli sono ancora grato.

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Il professor Guido Fink l’avevo sentito nominare per la prima volta da mia cugina Margherita, che s’era trasferita a Bologna per frequentare la facoltà di Lin­ gue straniere, mentre io m’ero iscritto con molte incertezze a Filosofia e facevo ancora il pendolare da Modena. Mia cugina stava con un inglese dai capelli lun­ ghi, diplomato in violoncello, che aveva trovato la sua via di Damasco ascoltando Sgt. Peppers’ Lonely Hearts Club Band fino a consumare la puntina del giradischi e i solchi di quel 33 giri memorabile. Si chiamava Guy Aston e al capolavoro dei Beatles avrebbe poi dedicato un saggio che grazie a Guido venne ospitato su Paragone Letteratura. Fu Margherita a parlarmi del corso che quell’anno (doveva essere il 1971 o il ’72) il professor Fink teneva su Edgar Allan Poe. E io, incerto sulla solidità del mio approccio filosofico ma sicurissimo della mia passione per quel geniale epigono di Stephen King, così abile da avere di gran lunga superato 2 In realtà la faccenda dell’orario rimane piuttosto oscura, ingigantita dai cachinni dei suddetti falsi amici, e per questo sono stato così generico. Nego fermamente di non aver regolato l’orologio dopo l’arrivo negli USA dall’Italia. Possibile che avessi effettuato un primo reset durante lo scalo a New York e poi mi fossi dimenticato di aggiornare il mio watch alla terra di Baywatch' Bah. Più probabile che, un po’ meno abile nelle matematiche rispetto al reverendo Dodgson amico del Cappellaio Matto, mi fossi semplicemente sbagliato di un’ora. Ma lasciamo agli esegeti futuri stabilire se bussai con alcune o con una sola ora d’anticipo all’uscio dei due reprobi: se a Shakespeare hanno perdonato di aver messo il mare a Milano, c’è da sperare che anche noi verremo graziati dai posteri. Anche se nei loro confronti nutro la stessa opinione di Groucho Marx, che qui trascrivo: “Diffido dei posteri. Che cosa hanno fatto finora per me?”.

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in anticipo il suo maestro, drizzai subito le orecchie. Per inserire Letteratura an­ gloamericana nel mio piano di studi dovetti però aspettare l’anno successivo. Il corso era dedicato alla narrativa americana contemporanea, trattava di Purdy e di Pynchon, di John Barth e Gore Vidal. Mi presentai all’esame senza aver frequen­ tato le lezioni, preparandomi solo sui testi in programma. E finalmente conobbi Guido. La prima impressione fu sconcertante: possibile che quel ragazzo fine dall’aria fragile, trasparente, e insieme dura come il vetro, fosse già professore? Quando era giovane supplente in una scuola di Argenta - mi avrebbe poi raccon­ tato lui - aveva prodotto un effetto analogo sul fornaio del paese, che vedendolo assieme alla sua scolaresca aveva chiesto ad alta voce: “Ma chi è quel bambino grande in capo alla fila?”. Quel fornaio aveva colto nel segno meglio di qualsiasi psicologo. C’è sempre stato in Guido qualcosa di eternamente ragazzesco: il guizzo mercuriale del puer come salutare antidoto alla sterile puerilità di ogni forma di pomposità accade­ mica. Il nostro fu davvero un incontro fortunato, da parte mia. Quell’anno Gui­ do era stato a lungo assente dalle lezioni per colpa - credo - d’una polmonite, e siccome il suo ferreo senso del dovere si rovesciava volentieri in inopinato senso di colpa nei confronti degli studenti, aveva deciso di svolgere le interrogazioni in italiano invece che in inglese. Fu così che presi trenta e lode e, sull’onda dell’en­ tusiasmo, trovai il coraggio di presentargli una cosa che avevo scritto ispirandomi ^Assassinio come una delle Belle Arti di Thomas de Quincey, con l’aggiunta di un po’ di spezie stilistiche palesemente rubate a Giorgio Manganelli. Un dadà lievemente micidiale non fu mai pubblicato su Paragone Letteratura, ma mi aprì la strada alla collaborazione con la rivista diretta da Anna Banti, di cui Guido era già da tempo redattore. Diventammo ben presto amici, grazie a quella generosità da fratello maggiore che credo Guido abbia sempre dimostrato nei confronti dei suoi studenti, anche se di complemento com’ero io. Nel frattempo mi ero trasferito a Bologna con mia moglie e il nostro primo figlio, un grosso boxer equilibrato e dolcissimo di nome Bilbo. Lo confesso: io e Silvia ci eravamo entusiasmati alla lettura del­ lo Hobbit, anche se la mia ammirazione per Tolkien non sarebbe sopravvissuta alla Trilogia dellAnello, quel poderoso mattone, e da allora lo trovo noiosissimo. Erano i famosi anni di piombo, anni bui anche per me, in attesa d’una borsa di studio presso la cattedra di estetica del professor Anceschi che mai arrivò. A ri­ pensarci mi rendo conto che l’amicizia e la frequentazione sempre più assidua di Guido furono la mia principale ancora di salvezza, alla quale aggiungevo nei miei veloci e parossistici ritorni modenesi gli incontri con il mago Leo Kaiti, autentico sapiente in incognito. Ma su questo mio coté esoterico, mi spiace per voi, non ho intenzione di rivelare altro.

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Il fatto è che a Bologna Silvia e io ci sentivamo soli. Mia cugina Margherita era in verità una cugina alla lontana, tant’è che si era allontanata, andando a vivere col suo Guy sull’Appennino, in una casetta rustica sopra Vergato dove ci avventurammo un’unica volta. Credo che lui ci abiti ancora, mentre lei è tornata a Bologna, dove io non vivo più da quasi trentacinque anni. Come se avessimo deciso più o meno inconsapevolmente di mantenere sempre fra di noi la giusta lontananza stabilita dalla genealogia parentale. Nel frattempo lei ha viaggiato moltissimo, s’è beccata la malaria nel Mali, è vissuta un po’ qua e un po’ là, per­ fino in Islanda dove ha insegnato italiano per diversi anni. Io invece ho sempre viaggiato poco, se non si dà per buono quel Voyage autour de ma chambre di cui de Maistre ha fissato le coordinate esemplari. Quando mi sono mosso davvero, a ripensarci, c’è stato quasi sempre di mezzo lo zampino di Guido. Ricordo benissimo l’indirizzo: 44 Cathies Road, SW12, London, vicino alla stazione metro di Clapham South. Era una giornata nuvolosa dell’agosto 1978 quando mia moglie e io suonammo alla porta di casa dei coniugi Steptoe. Guido, Daniela e Cimbe, il loro figliolo di nove anni oggi rispettosamente chia­ mato Enrico, ci accolsero sorridenti. Avevano fatto home swapping, scambiando per il periodo estivo l’indimenticabile casa d’affitto in via della Piazzuola, sui colli di Firenze verso Fiesole, con l’appartamento d’una giovane coppia d’inglesi (lui era il figlio di Patrick Steptoe, uno dei pionieri della fecondazione artificiale). Lo studio era pieno di libri e di dischi; ricordo che ascoltavamo i concerti per piano e orchestra di Mozart nell’edizione della Deutsche Grammophone mentre Daniela cuoceva nel forno un pollo che alla fine dovemmo buttare perché saltò fuori che non era stato eviscerato, così s’erano cotte anche tutte le frattaglie, spandendo nell’aria intrisa di note mozartiane un odore piuttosto disgustoso. A Londra c’ero già stato un paio di volte, la prima ancora ai tempi del liceo con una combriccola d’amici durante le feste di Pasqua; la seconda nel ’72 con mio fratello per frequentare uno di quei fatidici quanto inutili corsi estivi d’in­ glese che, tranne nel mio caso, servivano soprattutto a incrementare l’unione della gioventù europea sotto il profilo degli scambi sessuali. Franco Minganti che strimpella la chitarra a Piccadilly Circus, coi lunghi capelli da Navajo fuggito dalla riserva indiana del Sanremo sciolti sulle spalle, è uno dei flash memoriali più vividi affioranti dai miei ricordi confusi. Il periodo di Clapham South fu tutta un’altra cosa. La mia prima, vera espe­ rienza mutietnica. Il quartiere era abitato soprattutto da indiani - veri indiani dell’india, molto diversi da quelli provenienti dalla valle del Sanremo - che nel weekend passavano il tempo libero a lavare la macchina. Sui muri campeggiavano i manifesti di Trishul, melodramma targato Bollywood che fu uno dei maggiori incassi dell’annata, mescolati a quelli del primo episodio di Star Wars. Non an-

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dammo a vedere né l’uno né l’altro; Guido ci guidò invece con aria da cospiratore a una proiezione dell’Impero dei sensi in un cineclub dove bisognava tesserarsi e passeggiare almeno una mezz’oretta avanti e indietro nell’atrio per diventare soci. Vedemmo anche un film di Orson Welles, una storia d’intrighi balcanici legger­ mente incompiuta, della quale io e Silvia capimmo poco o niente. Tentavo co­ munque di bisbigliare all’orecchio di mia moglie, che l’inglese lo masticava ancor peggio di me, una goffa traduzione simultanea che non dovette sfuggire all’orec­ chio marziano di Guido, se alla fine, con un sorrisetto affettuoso, si congratulò per la mia fantasia. Ambiguo complimento, simile a quello che in anni più tardi avrei ricevuto da Giorgio Manganelli quando mi gratificò - testuali parole - di “una curiosa intelligenza tangenziale”, volendo probabilmente suggerire che sono tangenziale rispetto all’intelligenza, e solo a tratti ne sfioro i confini. A parte queste due botte di vita, le nostre giornate scorrevano tranquille. Gui­ do passava molto tempo al British per le sue ricerche (mi pare lavorasse sulla Tusitala Edition di Stevenson). Lontani dal centro affollato di turisti, a Clapham South eravamo probabilmente gli unici italiani del quartiere. Tanto che, vincen­ do il tradizionale riserbo inglese, le due deliziose vecchine in stile Miss Marple che vendevano pessimi dolcetti in un piccolo negozio vicino a quella che ormai consideravamo casa nostra ci confessarono con un sorriso pudico di essere state una volta a Merano, come se la pur deliziosa città altoatesina fosse un’epitome esaustiva dell’Italia intera, e la loro immersione nel sultry climate mediterraneo non fosse meno foriera di tentazioni scandalose della famigerata gita alle grotte di Malabar in Passage to India. Restammo ospiti dei Fink per un paio di settimane. Ci fu così l’occasione di conoscere Gian Paolo Biasin e sua moglie Rita, di passaggio a Londra prima di rientrare in America. Rinunciando per una volta alla tavola del Cappellaio Matto, Guido combinò d’incontrarci per il tè da Fortnum & Mason. Su Pa­ ragone avevo da poco recensito Le malattie letterarie, l’intelligente raccolta di saggi che Biasin aveva dedicato a un argomento che sospettavo mi riguardasse da vicino. All’epoca Gian Paolo non insegnava ancora a Berkeley ma all’Università di Houston, nel Texas. L’idea di conoscere quel professorone m’intimidiva; invece mi trovai davanti a una delle persone più umane e affabili che mi sia mai capitato di conoscere. Oltretutto un modenese come me, e ben contento di esserlo, a onta del cognome che rivelava l’origine veneta del padre. Da vero emiliano, Gian Paolo aveva il culto della buona tavola (sua madre era una cuoca strepitosa) e di quella speciale forma di convivialità che si celebra attorno a essa: da allora io e Silvia avemmo spesso occasione di sperimentarla quando i Biasin rientravano nella loro amata Sassuolo per le vacanze estive. Non a caso la passio­ ne per la tavola è alla base di un altro libro capitale di Gian Paolo, I sapori della

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modernità, che esplora il rapporto fra cibo e romanzo nella letteratura italiana. L’amicizia che si sviluppò con lui e con Rita è in fondo un altro regalo di Guido: questo maestro schivo che, come un piccolo nume in incognito, nella mia vita ha spesso rivestito il ruolo del Donatore nelle fiabe. Anche un po’ Zen, in quel suo nutrire il nostro rapporto all’insegna del paradosso e dello humour incessan­ te che annulla ogni distinzione gerarchica. Così va poi a finire che, perduto ogni senso di reverenza, per incominciare a parlare di lui sono partito dal mio mancato overnight con il professor Ceserani, e solo dopo un po’ che scrivevo mi sono accorto che stavo maliziosamente fischiet­ tando Let’s Spend the Night Together. Del resto, non c’era da aspettarsi niente di diverso dal fan scapestrato d’un tipo capace d’intitolare un saggetto su non so quale filmetto Sì, però le ginocchia... (non l’ho mai ritrovato ma sono sicuro che esiste), o di recitarmi serissimo il seguente distico: “Ma fu lunga sul tuo petto/ quella notte in vagon letto”, attribuendolo a una raccolta poetica di Sandro Pa­ ternostro, eterno corrispondente da Londra della Tv di stato. Guido non si capi­ sce mai quando scherza e quando dice sul serio. Ha sempre avuto un suo modo di infiorare gli aneddoti, trasformando il dato reale in una storia inventata che proprio nell’esagerazione finisce per trovare la sua verità. E allora come non essere grati a questo fratello maggiore che non ti fa mai cadere dall’alto le sue conoscenze, anzi è pronto a un continuo scoronamento carnevalesco del suo sapere, nel momento stesso in cui te lo sta inoculando come un farmaco in dosi omeopatiche ma ad azione perenne? Non ho mai trovato uno capace come lui di creare nessi velocissimi mettendo in relazione cose remote tra loro per svelarne nessi imprevisti. Il mio solo rammarico è di non aver mai imparato l’inglese in modo abbastanza accettabile da potermi definire suo allievo, come in realtà mi sono sempre sentito. Se non sono diventato un anglista, mi sono però specializzato in anglisti: e sempre grazie a Guido. Fu lui a presentar­ mi all’altro Guido, il rablesiano Almansi: un misto fra il crapulento Falstaff e il corpulento criminologo Gideon Fell dei gialli di John Dickson Carr. Mia figlia Daria da piccola lo chiamava “il ciclone Almansi”, e aveva ragione. Perentoria incarnazione del critico agonistico, l’altro Guido godeva fama d’avere un gran cattivo carattere, per il semplice fatto che ne possedeva uno. A unire due Guidi così diversi, al di là della comune ebraitudine, fu di certo l’interesse per la letteratura come menzogna: The Writer as a Liar s’intitola non a caso un saggio di Almansi sulla tecnica narrativa nel Decamerone. Ma penso che per Guido Fink la parodia, l’imitazione, il falso - a cominciare da quello, involontario, dei benintenzionati riduttori di capolavori a uso dell’infanzia nella mitica collana della Scala d’oro - siano stati assai di più d’un semplice esercizio letterario o d’un oggetto di studio un po’ eccentrico. Erano una valvola di sicu­

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rezza indispensabile fin da quando, bambino di sette o otto anni dalla memoria prodigiosa, negli anni bui della guerra e delle persecuzioni razziali leggeva Via col vento e riassumeva alla madre la trama di quel ponderoso polpettone. Forse amabilmente spossato dalla pur feconda collaborazione in Quasi come, Guido preferì suggerire il mio nome ad Almansi, a caccia d’un solerte famulo che l’aiutasse a compilare La passion predominante', un’antologia della poesia erotica italiana dal Duecento al Novecento che Longanesi pubblicò nel 1986 a firma di entrambi, in una lussuosa collana rilegata in cuoio infernale. La convivenza, lo ammetto, non fu facile, come facile non era Almansi perfino nelle sue generose manifestazioni di benevolenza, che finivano per assumere il sapore di seppur amabili imposizioni. Ma che gran bella palestra d’intelligenza libera e indipen­ dente, che scaldamuscoli era mai Guido A. per forgiare il carattere di un abatino com’era all’epoca il sottoscritto (e forse lo è rimasto)... Un analogo, positivo stretching delle meningi mi sarebbe poi capitato frequentando un personaggio praticamente agli antipodi di Almansi: Cesare Garboli, il critico forse più acuto e in fondo misterioso del secondo Novecento. E anche qui Guido F. ci mise sa­ lutarmente lo zampino. Voglio dire che Guido ha agito su di me anche per interposta persona, tenen­ do sempre quella sua distanza affettuosamente ironica dietro la quale conserva­ va una sua nicchia inesplorata, inattaccabile dal mondo, dentro la quale viveva nascosto. Non so quanto ciò avesse a che fare con la sua ebraitudine, allora non ne parlava mai. Sapevo che suo padre era morto ad Auschwitz, e poco altro. Solo negli anni della piena maturità Guido avrebbe lasciato trapelare anche ne­ gli scritti gli avvenimenti drammatici della sua infanzia, magari intrecciandoli a un’acuta analisi di critica cinematografica come nel saggio Le tre notti del ’43, lucido e struggente nel mescolare eventi autobiografici a quelli descritti nel film di Vancini; oppure rievocando la scuola ebraica di via Vignatagliata (dove si trovò Giorgio Bassani come supplente), o deliziandoci con l’esilarante figura d’uno zio straordinario che gli faceva da benevolo psicopompo durante la visita al cimitero ebraico di Ferrara, con biglietto di ritorno garantito. Penso che la leggerezza e 1’understatement siano sempre stati per Guido il modo di nascondere la pesante angoscia saturnina di chi - inopinatamente salvato - deve rendere conto con la sua stessa esistenza fisica alla memoria dei sommersi. Col tempo, Guido ha moltiplicato i saggi su scrittori e cineasti ebraici, fino a farli culminare in uno dei suoi libri più felici: Non solo Woody Alien. La tradizione ebraica nel cinema americano. Si trattava d’un incontro annunciato. Perché se esiste uno studioso-Zelig, un critico inafferrabile nella poliedricità dei suoi inte­ ressi (americanista, anglista, studioso di cinema, di teatro, comparatista), questo è proprio Guido Fink. Anzi, cronologia alla mano, è evidente che lo Zelig di

A letto con il professore

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Woody Alien lo ha copiato. Ma si potrebbe dire anche in un’altra maniera, ossia che l’opera di questo inesausto violatore dei confini tradizionali fra le discipline si colloca davvero Nel segno di Proteo, il numinoso antenato di Zelig. Appunto sotto questo titolo sua moglie Daniela e io, per festeggiare gli ottant’anni di Gui­ do, abbiamo raccolto e pubblicato presso l’editore Guaraldi una raccolta dei suoi saggi letterari. A leggerli risulta evidente la ricchezza e la flessibilità d’un metodo critico straordinariamente penetrante dietro l’apparente dispersività d’un talento poliedrico. Ma chissà se Guido vuole davvero sentirsi ricordare da noi quanto è bravo. Da schivo e autoironico campione del basso profilo, preferirebbe forse la frase che un altro Fink, Barton Fink, sente pronunciare da un produttore nell’o­ monimo film dei fratelli Coen: “Abbiamo bisogno di indiani per un western di Norman Steele.” “Ma io scrivo...” “Ci pensi su, Fink. Gli scrittori vanno e ven­ gono, di indiani c’è sempre bisogno”.

NON C’E MAESTRO MIGLIORE DI COLUI CHE RIESCE A GIOCARE CON TE Laura Falqui

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Raffaele Milani

L. - Quando penso a Guido Fink con lo sguardo di questo nostro presente, così arduo e incerto, vedo come la nostra giovinezza, quella di noi tutti allora, sia stata fortunata anche per la presenza viva e attiva di intellettuali e studiosi come lui. Succede che, andando avanti negli anni, vi siano circostanze che ci trascinano indietro e, d’un tratto, ci ritroviamo nel Tempo ritrovato, “come un aviatore che fino ad allora si sia trascinato penosamente a terra ‘decollando’ d’improvviso”, ci alziamo lenti “verso le silenziose altezze della memoria”1. Un tale decollo è il re­ spiro del passato, l’andare per vie inaspettate incontro, di volta in volta, alle varie immagini di se stessi fino alla parziale inconsapevolezza della giovinezza. I movi­ menti della vita, in questo percorso a ritroso deH’immaginazione, ci separano da coloro che hanno resa viva una certa età o un certo periodo. Così è stato per noi (per me e Raffaele) rispetto a Guido Fink. Ci siamo persi di vista da un paio di decenni, prima del suo soggiorno a Los Angeles e della malattia. Così è divenuto una cara ombra, uno struggimento quasi senza oggetto, riscoperto nei racconti delle visite di Maurizio a Firenze, in questi ul­ timi anni; trasformato, silenzioso. L’ho riconosciuto in una fugace esplorazione in Internet: Guido Fink and Friends (un video girato da Massimo Bacigaiupo a Bagni di Lucca, nel 1988). Eccolo, Guido! Proprio quel modo di parlare, quell’atteggiarsi a ragazzo svagato che s’inalbera proclamando per gioco il suo orgoglio, con un’iro­ nica fierezza... proprio il “bambino vecchio” che lui stesso sentiva d’essere. 1 Marcel Proust, Il tempo ritrovato, trad. Giorgio Caproni, Einaudi, Torino 1975.

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R. - Non posso dimenticare quando, poco prima del 1980, io, Roberto Bar­ bolini e Sergio Colomba andavamo a trovarlo nel suo studio, all’Università, a metà della settimana. La sua simpatia, generosità e sincera amicizia per noi, più giovani di lui, erano unite alla grande pazienza che si addice a un vero maestro. A volte andavamo anche al cinema, ai matinée del Roma d’Essai, discutendo dei film, degli spettacoli teatrali, dei testi letterari, dei saggi più recenti. Le sue parole erano sempre incoraggianti e stimolanti. L’ho frequentato anche negli anni ’80 e ricordo la fatica che gli feci fare revisionando un mio lungo articolo su Andy Warhol per Paragone. In quel testo, infatti, alcune frasi e alcune citazioni anda­ vano ritoccate. A volte mi raccontava di chiudersi in studio tutta la notte per leggere le tesi di laurea. La sua mente era di una vivacità sorprendente, sempre pronta a cogliere i significati più profondi e originali celati nelle arti del rappre­ sentare e del figurare. Invitò a un suo corso Laura e me per un colloquio sul romanzo poliziesco, particolarmente sul romanzo di Raymond Chandler, che aveva ispirato il nostro lavoro teatrale sulla figura di Philip Marlowe {Philip Marlowe, 1981). Aveva una cura e un’attenzione speciale per la nostra creatività e i nostri studi. Assistette anche a vari spettacoli che avevamo messo in scena in quegli anni. Tra noi si era creata una vera amicizia, come quella solidarietà che nasce tra i fratelli più anziani e quelli più giovani. Ricordi, Laura? L. - Oh sì, mi piace questa tua definizione di fraternità tra noi: è vera e io trepidavo per questo privilegio; il privilegio di poter parlare liberamente delle mie passioni sulla pittura preraffaellita, sul cinema, sul romanzo gotico, a uno specialista di quella misura. Frequentava la nostra casa e a volte si fermava anche a pranzo. C’era un film che amavo moltissimo, perché toccava le corde dei miei sogni teatrali e del sogno a occhi aperti; pensavo che poteva essere considerato un’opera sentimentale o troppo retorica. Si trattava di Scarpette rosse di Michael Powell e Emeric Pressburger: me lo aveva fatto scoprire mio padre quando avevo dodici anni e mi aveva proprio segnato! Citandolo, lui subito si accese dicendomi che era una delle sue opere preferite. Amavamo poi, tutti e tre, il musical americano, specialmente quello classico degli anni ’50 di Stanley Donen e Vincent Minnelli e allora gio­ cavamo alle citazioni. Insomma, era una vera felicità incontrarlo. Se penso alla Laura di quegli anni, vedo una ragazza piena di passioni, chiusa nella sua paura di non essere riconosciuta: questo accadeva per via dell’indifferen­ za degli intellettuali, degli studiosi, dei critici, sempre molto occupati da se stessi. Per queste persone, alla fine degli anni ’70, primi anni ’80, una giovane donna era da considerarsi sciocca per definizione e dunque non era da mettere in conto

Non ce maestro migliore di colui che riesce a giocare con te

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né di parlarle né di ascoltarla. Non era così per Guido Fink e pochi altri. Forse perché non ha mai perso il legame con quel “bambino vecchio”? Lui, così sorri­ dente, vivace, attento alle persone... Si ricordò di me, dei miei studi da outsider, per una breve intervista, comparsa sull’Europeo, sul pittore John Singer Sargent. Una cosa che non ho mai dimenticato. La sua generosità era possibile, io credo, perché il suo spirito era fratello dell’e­ vanescente Ariel, il folletto shakespeariano; altrettanto in grado di vagare per ogni dove; libero, indifferente alla regola, ma con un intelletto, e un cuore, fine­ mente forgiati. R. - Nel caso di Guido, l’immagine di un amico è l’immagine di un maestro. Infatti i miei anni di formazione non sono stati tanto segnati dai miei illustri accademici di riferimento, quanto da un fratello maggiore con il quale spaziavo, in libertà e con spirito ludico, non solo critico, tra i meandri deU’immaginario letterario, cinematografico, teatrale, filosofico. Nei luoghi della Facoltà di Lette­ re e del Dipartimento di Filosofia, ho frequentato e seguito due grandi vecchi. Uno di questi mi è stato molto caro fino a pochissimi anni fa e la mia devozione per lui è stata ricambiata con pieno e sincero riconoscimento della mia figura di studioso; ma il confronto con Guido, pone un’altra relazione: non c’è maestro migliore di colui che riesce a giocare con te.

HARD-BOILED RELOADED: OVVERO, DI UN VECCHIO QUADERNO PRIMA PERDUTO, POI RITROVATO Alessandra Calanchi

Correva l’anno accademico 1981-82 (anno più, anno meno) e io, matricola ancora fresca di liceo e inebriata di movimento studentesco, scoprivo grazie a Guido Fink la grande stagione del noir made in USA. Dopo la prima settimana di lezioni avevo già deciso che mi sarei laureata con lui e che avrei dedicato la mia vita allo studio della letteratura e della cultura angloamericana. Come ho già avuto modo di ricordare in un mio precedente saggio incluso ne Lo schermo gigante (un volume del 2011 dedicato alla memoria di Franco La Polla, a cura di Michele Fadda e Sara Pesce), non molti docenti universitari sareb­ bero riusciti a trascinare i loro studenti in una sala cinema del DAMS, il sabato mattina alle nove, solo per farci vedere una serie di vecchi film in bianco e nero, per giunta in lingua originale e senza i sottotitoli. Eppure noi studenti di Guido, il sabato alle nove del mattino, eravamo tutti là, assonnati e assiepati come sar­ dine; anzi, arrivavamo anche prima, per essere sicuri di riuscire a sederci. I titoli di quei film oggi mi suonano familiari e ne conosco bene la trama e il valore: ma allora erano solo parole esotiche e stranianti, che a pronunciarle ad alta voce pareva che danzassero come in una giostra, vorticando in un vuoto misterioso e suggestivo: falchi maltesi, signore di Shanghai, catene della colpa si mescolavano a viali del tramonto, fuochi incrociati e ombre del passato1... 1 II ciclo comprendeva, in questo ordine, i seguenti film: The Maltese Falcon (John Huston 1941; The Big Sleep (Howard Hawks 1946); Laura (Otto Preminger 1944); Out of the Past (Jacques

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È stata una sorpresa ritrovare, durante l’ennesima perlustrazione rituale del mio studio alla ricerca dell’ennesimo libro smarrito, non il libro in questione, bensì un quaderno che era rimasto schiacciato sotto molti volumi e che recava in copertina la scritta “Hard-boiled. Il giallo d’azione americano degli anni ’40”. Giuro, non credevo ai miei occhi: perché si trattava, non vi era il minimo dub­ bio, dei miei appunti presi a mano durante il corso di cui sopra. Non so perché, di decine e decine di quaderni, questo sia a ogni evidenza (e fino a prova contraria) l’unico superstite; e devo anche aggiungere, per chi non ha avuto la fortuna di conoscere Guido Fink, che prendere appunti durante le sue lezioni era una pratica impossibile. Ci si provava, per carità, con tutte la buona volontà che si possedeva; ma dopo pochi minuti la penna restava sul banco e gli sguardi di tutti noi vagavano per l’aula, sulla musica delle parole magiche di quel professore che guardava sempre un puntino lontano dietro le nostre spalle, che sapeva un’infinità di cose, che riusciva a collegarle tutte fra loro, che voleva dirle tutte in una volta, e che ci riversava addosso talmente tanti stimoli che dopo soli 45 minuti (era questa la durata delle lezioni negli anni ’80) eravamo più stanchi (e al contempo più “ca­ richi”) di una squadra olimpica dopo una giornata di allenamenti. Ma torniamo al quadernino. L’ho preso in mano, l’ho sfogliato, e ho ritrovato tutto: come una sorta di lampada di Aladino, il Genio uscito dal quaderno mi ha chiesto di esprimere un desiderio e subito me lo ha esaudito. Ho portato in classe (la mia classe) il quaderno e l’ho utilizzato, insieme ad altro materiale, nel mio corso sul noir americano. Ero ansiosa di sapere se sarebbe stato ancora valido, utile, non più che ragionevolmente vintage', se vi avrei ritrovato tutto quello che credevo smarrito; se gli studenti lo avrebbero capito e apprezzato. La risposta è stata: sì, sì, e ancora sì. Non è, quella che mi sono proposta di fare, un’operazione di archeologia, né un semplice rewind (un’azione che, a ogni modo, giustifica in pieno l’inserimento del volume in questa collana) bensì un reloading in piena regola. Come in un esperimento di laboratorio, ho voluto sottoporre al vaglio del tempo (sono passa­ ti quasi quarant’anni) e all’inesorabile displacement generazionale (insegno a stu­ denti nativi digitali) la lettura e la discussione di questi appunti che provenivano da un altrove lontano; io e i miei studenti siamo saliti sulla DeLorean DMC-12 e siamo partiti a tutta velocità... Il risultato è stato sorprendente (ma era quello atteso). Le idee e le intuizioni di Guido Fink sì sono rivelate acute, profonde, assolutamente moderne, ancora originali e innovative, strutturate sulla base di un’erudizione impeccabile. L’im­ Tourneur 1947); Cross Fire (Edward Dmytryk 1947); The Lady from Shanghai (Orson Welles 1947); Cry of the City (Robert Siodmak 1948); Sunset Boulevard (Billy Wilder 1950); Touch of Evil (Orson Welles 1958); Murder, My Sweet ! Farewell, My Lovely (Edward Dmnryk 1944).

Hard-boiled Reloaded: ovvero, di un vecchio quaderno prima perduto, poi ritrovato

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portanza della voce fuori campo, il complesso di Edipo, la matrice teatrale e quella espressionistica, la lotta di classe, il tema del labirinto e quello della discesa agli inferi, il ruolo del denaro, l’omosessualità e l’antisemitismo e, naturalmente, l’ombra della Germania di Hitler si mescolano in queste pagine fitte di appunti ai commenti di Moravia (che vide // mistero delfalco nel ’63), alle classificazioni degli sfondi urbani (Robert Liddell), agli ambienti che oppongono “resistenza” (Dmitry Likhachov), alle tipologie di city novel (Blanche H. Gelfant), alle trian­ golazioni di Karl Buhler, ai sistemi formali ed epistemici (quelli che per Marcello Bagnini definiscono i comportamenti dell’io), via via fino a Blanchot (secondo cui il libro non esiste fino al momento in cui viene letto), Segre (per il quale la lettura è una semplice operazione meccanica), Barthes (che vede il lettore come voyeur), Frye (che considera l’ascoltatore un overhearer), e poi ancora Wolfgang Iser, Thomas Carlyle, Henry James, Umberto Eco, fino a stordirci e sfinirci. Con Guido studiavamo tutto: la letteratura, la linguistica e la psicolinguistica, la pragmatica, la prossemica, la semiotica e il post-strutturalismo senza che queste parole astruse venissero mai nominate, senza nemmeno che noi studenti ci ren­ dessimo conto dell’ampiezza di visuale e della profondità del materiale di studio. Le storie di e su Guido sono tante, e ognuno/a degli autori e delle autrici di questo volume racconta la sua. Questa che vi ho raccontato è la mia. Pecchiamo forse di presunzione, noi suoi ex allievi (pur appartenenti a generazioni diverse), a pensare che, messe tutte insieme, queste storie ci restituiranno un ritratto com­ pleto, un ologramma alchemico del nostro caro e insostituibile amico e maestro. Ma crediamo sia proprio quel “bambino adulto” che affiora nei racconti di tutti coloro che ricordano un giovane Guido già saggio ma ancora capace di meravi­ glia a invitarci - oggi come allora, con un cenno del capo, e sorridendoci con ironia - a unirci alla sua avventura; e intanto continua a guardare lontano, oltre le nostre spalle, dalla sua camera con vista sull’infinito.

A LEZIONE DA FINK Maurizio Ascari

Era la migliore delle università. A tratti la peggiore. Certo diversa. L’Istituto di Filologia Germanica si trovava al piano nobile di un antico palazzo in Via Zamboni 16, di fianco all’Hotel San Donato. Per noi era “in Zamboni 16” o “al 16”, mentre al 32 c’era Italianistica e al 38 altri insegnamenti di Lettere. Era al 16 che appartenevamo. Lì c’erano gli studi dei nostri professori - gli anglisti, gli americanisti - e lì prendeva corpo la nostra identità di studenti. Il primo anno di università lo feci a metà. Tornai a casa dal servizio militare nell’aprile del 1986 e frequentai appena un mese di lezioni, poi cominciarono gli esami. Era un gran caos, ma ero felice. Letteratura angloamericana la iniziai al secondo anno. Tutti mi parlavano di Fink e fu per me la scoperta della letteratura ebraico-americana: un corso su Malamud che mi destabilizzò non poco perché sul momento non sapevo bene che fare di romanzi come The Assistant, The Fixer, Pictures ofFidelman. Eppure Fink era Fink: travolgente, incapace di deluderti, una lezione dopo l’altra, traboccante di energia critica. Riempivamo intere pagine di appunti men­ tre lui parlava, lo sguardo perso a mezz’aria o rivolto a un suo quadernetto. Così alla prima annualità di Angloamericana ne seguì un’altra. Erano in tanti a sceglie­ re questo esame come opzionale, e a lezione non si entrava. Il corso sull’immaginazione melodrammatica era ispirato a un recente volume di Peter Brooks. Mi tuffai con gioia nei libri di Hawthorne e James perché ero un passatista, ben più a mio agio nell’ottocento che nelle inquietanti comples­ sità del secolo a seguire... Non solo The Blithedale Romance e The Bostonians mi disvelarono il potere inquietante del mesmerismo, ma soprattutto scoprii che la

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scrittura romanzesca dell’ottocento era influenzata da quella teatrale, e con essa rivaleggiava. Il povero James in realtà avrebbe voluto trionfare sulle scene, come il rivale Oscar Wilde, ma invano. Conobbi l’insuccesso di Guy Domville, fischiato la sera della prima, e scoprii come James avesse saputo fare tesoro di questa espe­ rienza per rivoluzionare la sintassi del romanzo, sostituendo al prevedibile telling lo showing, dal raccontare al mostrare. Mi divertivo, c’è poco da fare, e per di più imparavo delle cose. A ogni corso si apriva tutto un mondo. E allora ecco inserita in piano di studi una terza an­ nualità, dedicata al teatro americano, per celebrare l’uscita di un monumentale studio in tre volumi -A Critical Introduction to 20th Century American Drama di Christopher Bigsby - da noi acquistato presso Feltrinelli a un prezzo esorbitante. Non era ancora l’epoca del commercio online e ogni libro straniero che compe­ ravamo era un salasso, specie i testi di critica. Cambia con questo corso lo sfondo dei ricordi: da Via Zamboni a Via Guer­ razzi, dove un’auletta del DAMS, di per sé piccola e poco attraente, era però dotata di videoregistratore. Perché se il corso sull’immaginazione melodramma­ tica aveva esplorato i rapporti tra teatro e romanzo, il corso sul teatro si allargò agli scambi fra teatro e cinema. The Little Foxes di Lillian Hellman fu ben presto per noi studenti non solo una commedia di cui fotocopiammo religiosamente il copione, ma un film del 1941, con Bette Davis come protagonista: un bianco e nero che ancora ricordo con emozione, fino alla scena in cui Regina lascia morire sotto i suoi occhi il marito malato di cuore. Allo stesso modo, conoscemmo Sam Shepard non solo in quanto autore di Foolfor Love, ma come sceneggiatore di Pa­ ris, Texas (1984), che guardammo nell’auletta di cui sopra, prevedibilmente over­ crowded. .. Andare a lezione da Fink era così: un’immersione rituale nell’umanità che pendeva dalle sue labbra, che si contendeva la sua attenzione, che sostava in file interminabili davanti al suo studio, come avrei scoperto di lì a poco. Sì, perché non uscii indenne dall’impatto di Fink. Le sue lezioni mi insegna­ rono tutto ciò che già avrei dovuto sapere e che non avevo mai osato chiedere. Che tutto si tiene, che il mondo dell’immaginazione è fatto di scambi, che non c’è alcun filo spinato tra romanzo e teatro, né tra teatro e cinema, né tra cinema e romanzo... Un circolo virtuoso. Un musicale circolo delle quinte, base dell’ar­ monia. Tutto si tiene: ogni confine è lì per essere attraversato, nel mondo reale come in quello delle forme e delle idee. Era ciò che avrei sempre voluto sentirmi dire, così Fink lo amai, come lo amavano tutti d’altronde. E poi, come faceva a sapere tutto, a capire tutto, a occuparsi di tutto? Ai corsi che frequentavo con lui si aggiunse un seminario, tenuto in inglese. Ci trovavamo attorno a un grande tavolo, al numero 16. Questa volta il coniglio bianco che Fink estrasse dal cilindro si chiamava William ed era nato a Stratford.

A lezione da Fink

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Eccoci dunque calati nel mondo violento della prima età moderna tra i dubbi di Amleto, le streghe di Macbeth e i monologhi di Shylock. Ma Fink non era un americanista? Non solo, ovviamente. Ricordo ancora il mio smarrimento di fronte a un saggio che Fink ci fece leggere e discutere: “Shakespeare in the Bush” di Laura Bhannon. Cosa ci faceva Shakespeare nel bush non era chiaro a un ingenuo studente sceso dall’Appennino. Per di più, questa evenienza vagamente surrealista serviva a decostruire un mito - l’universalità del Bardo - che all’epoca avrei volentieri sottoscritto... Da brava antropoioga, Bhannon metteva infatti in discussione la conclamata capa­ cità di Shakespeare di comunicare all’umanità intera, e lo faceva con un’indagine sul campo, provando a raccontare la storia di Amleto a una popolazione africana, facendosi in quattro per restituire le idee di parentela, spettralità e giustizia che il pubblico rinascimentale condivideva con Shakespeare, ma che i Tiv della Nigeria trovavano alquanto bizzarre. Nel mio brumoso orizzonte mentale, cominciava a palesarsi un mio doppio, simile allo spettro del Bròcken. Fink mi aveva rivoltato come un calzino. Non ero più io, o forse cominciavo davvero a essere io. E forse è questa la funzione cui l’università dovrebbe assolvere... Mi ritrovai così, insieme ad altri felici penitenti, nella lunga fila davanti allo stu­ dio di Fink, di fronte allo stanzino dove l’Ines — matronale, signorilmente umorale, ma dotata di provvidi sorrisi e occasionali parole di conforto - esercitava le sue funzioni, non so più se di bidella o segretaria. Scrivere a macchina rientrava certo fra i suoi compiti, fare fotocopie anche, e ben ricordo la macchina da caffè che pendolava fra il suo studiolo e il bagno per farsi veicolo di grati effluvi traboccanti in tazzine riservate all’empireo dei professori. Di Fink era una grande ammiratrice. Sentiva la stima e l’affetto degli studenti. Seguiva il lento svolgersi delle file... Zamboni 16 era anche una commedia all’italiana, e Fink - il più acuto e disponibile tra gli intellettuali - non mancava di contribuirvi con occasionali gag. Come quando all’arrivo per il ricevimento settimanale annunciò di aver dimenticato la borsa sul tettuccio dell’auto e di aver quindi perso tutti i capitoli delle tesi che aveva corretto. Erano i tempi della macchina da scrivere, magari elettrica, e riconsegnare un capitolo significava per molti doverlo ribattere per intero in bella copia. Credo che da quella volta tutti i presenti si siano attrezzati, fotocopiando preventivamente il materiale che consegnavano al geniale quanto distratto professore... Forse proprio questo episodio mi convinse ad acquistare un computer, quando ero a metà della tesi. Ricordo ancora il programma di videoscrittura - ChiWriter - che installai grazie a un vicino di casa argentino. L’ho usato per anni, ma proprio il computer fù all’origine di una sgridata che presi da Fink, e non vi dico

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la vergogna. Ero orgoglioso della mia stampante ad aghi, e questa tecnologica hubris fu all’origine della mia provvisoria, bruciante disgrazia... A differenza del­ le più ragionevoli stampanti di oggi, infatti, quelle di un tempo si nutrivano di lunghe strisce di fogli uniti gli uni agli altri a fisarmonica e dotati ai lati di strisce bucherellate che ne consentivano lo scorrimento. Stampato il capitolo, lo deposi, come concordato, nella buchetta del profes­ sore, ma quando la settimana dopo mi ritrovai alla porta dello studio fui redar­ guito per la malsana novità che avevo introdotto: un lungo “papiro”, una teoria di pagine che mi venne squadernata innanzi. Imparai così che i fogli andavano staccati prima dalle fascette laterali e poi gli uni dagli altri per riportarli a una fisiologica normalità... Mi accorgo che sono così arrivato al tempo della tesi, ma non passando dalla porta principale. Com’ero finito nella lunga fila che ostruiva il corridoio del 16? Già durante il mio terzo anno, avevo fatto amicizia con Mr. Henry James, complice il corso sulle metafore della lettura che la Prof. Fortunati insegnava in quello stesso anno attraverso saggi di Ruskin, James, Woolf, Proust... Nacque così l’idea di una tesi su lettura e scrittura nei racconti di James. Non sapevo che questo trampolino mi avrebbe lanciato verso tante altre occasioni di lettura e di scrittura. Fink, Fink, Fink. Questa è la storia di ciò che Fink mi ha dato negli anni di università, una singola storia, ma di studenti Fink ne aveva centinaia, e a tutti ha dispensato il suo entusiasmo e la sua attenzione. Li ha tutti affascinati con l’immensità del suo sguardo, capace di cogliere ovunque relazioni, di ribaltare il già noto per svelare un punto di vista più autentico e sorprendente. A lezione da Fink non imparavi solo la letteratura o il cinema o gli studi culturali: impa­ ravi anche un garbo, una levità, un certo modo di rapportarti agli altri, e sentivi nell’aria una felicità operosa, simile a quella dei bambini che giocano insieme. Eppure giocando crescevi, senza accorgertene, senza fare fatica. E questa magia del Fink-pensiero sono in tanti a portarsela dentro, e Fink non lo dimenticano. Conosco perfino una sua allieva che ha chiamato il figlio Guido. A lezione da Fink ci siamo stati in molti. Quando ne parliamo, sappiamo cosa voleva dire. Ma la lezione di Fink continua, spero, anche quando a fare lezione - a scuola o all’università - siamo tutti noi che lo abbiamo ascoltato, e troviamo la libertà di uno slancio intellettuale che ci porta d’un tratto dove non sapevamo di poter arrivare. E allora grazie, Guido, ancora grazie per essere entrato allora nelle nostre giovani menti con la tua voce carica di vita, con i tuoi racconti venati d’ironia, la tua intelligenza folgorante, la tua assoluta mobilità intellettuale, la tua passione senza confini. Ci hai insegnato ad andare oltre, a rimettere tutto in discussione, e insieme a godere della conoscenza e dello stare insieme. Sono doni grandi, che nessuno di noi mai dimenticherà.

GUIDO GUIDA Rocco Coronato

Nella noiosa realtà non ho frequentato Guido come speravo. Seguii nel 1988 e nel 1989 i suoi corsi di Letteratura angloamericana a Bologna. Almeno nell’ac­ cademia, so per certo che non sarò mai più felice come in quegli anni. Feci i miei primi passi alla luce variopinta di questo astro di intelligenza. Sole unico, dico ora: giusto in The Empire Strikes Back si vedono due soli, e al tramonto. Spesso il sole non si può fissare a lungo. Nel 1992 cominciai la carriera accademica altro­ ve. Da allora riuscii a vedere Guido poco, pochissimo, di fretta, in mezzo a una miriade di impegni suoi e timidezze mie. Frequento Guido ogni volta che faccio lezione, apro un libro o ne scrivo uno. E lui il mio primo lettore o ascoltatore implicito. Forse per effetto della lunga abitudine all’assenza, ancora adesso, in una gradevolissima allucinazione uditiva, mi illudo di sentire la sua voce risuonare come un salmo insieme ironico e sa­ pienziale. Provo a riferire qualche effetto dell’assenza. Userò il passato, ma è tale la vivezza di ciò che Guido ha detto e scritto che, non fosse stata una grossolana indelicatezza, avrei avuto la tentazione di coniugare tutto al presente.

***

Creatura di intelligenza solare, honey-tongued secondo l’espressione usata per Shakespeare dai suoi contemporanei, Guido si aggirava fra le opere come un’a­ pe che conosce e punzecchia abilmente mille fiori distanti, in testa sempre ben

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chiaro come sfruttare il sole per rincasare all’alveare pieno di frutto molteplice. Un’ape scaltra, che conosceva bene quali ragnatele evitare: di lui, sia quando parlava sia quando scriveva (ammesso che vi fosse una differenza tra questi due riflessi di un’unica arte), colpiva il rifiuto del gergo e delle appartenenze accade­ miche; o, se non proprio rifiuto, una sublime astensione degna di Bartleby. Non che avere un metodo accademico, un linguaggio, delle affiliazioni fosse di per sé esecrabile: era anche un modo per dimostrare che le humanities avevano una loro dignità, scientifica e umana, e ce ne accorgiamo con malinconia ora che le stanno spazzando via (magari in Italia con meno velocità: qui ce la prendiamo sempre comoda). Ovviamente, il metodo di Guido non era assenza di metodo, che sarebbe stato un vezzo uguale e contrario: Guido conosceva benissimo i me­ todi altrui. Ma amava la testarda singolarità dell’opera, e questo ce lo dovremmo tenere bene in testa. Innamorato del singolare, nell’arte come nella vita, Guido amava il moltepli­ ce e ne inseguiva mirabilmente le forme. Altro paradosso da segnarsi a memoria: Guido riconosceva perfettamente la singolarità di un’opera, di un passo, di una scena, di un autore, e pertanto coglieva meglio il molteplice. La mente poliedrica di Guido sintetizzava tomi e sistemi poderosi, spesso polverosi, con poche bat­ tute o, di converso, trovava nuova illuminazione in una scheggia minore. Negli anni ’80 certo non lo sapevamo, ma è curioso come Guido anticipasse un tratto a noi contemporaneo: la capacità di creare reti, stabilire connessioni imprevedibili e permettere agli altri di continuare questo gioco. E se il paragone con i networks (variante digitale delle ragnatele?) non piace, possiamo con Aristotele ricordare che il segno di un’intelligenza superiore è proprio quella di riconoscere il simile fra l’apparentemente diverso. Con il suo amore per i temi della somiglianza, del doppio, del “quasi come”, Guido ci ricorda (qui il presente è lecito) il compito di trovare le analogie, indicarle e spiegarle in maniera più chiara delle opere che le contengono. Essere crossiinter/trans/disciplinary (e magari col tempo ci verrà in mente un ulteriore prefisso) ora è necessario e di moda. Guido ci faceva sovvenire tuttavia che bisogna assomigliare a Proteo non nel senso aritmetico della molteplicità di interessi, e men che meno come figura del sofista che evade il dialogo, secondo il rimbrotto di Platone. Il Proteo di Guido è colui che, attraverso la parola, significa nella sua mutevolezza le diverse affezioni della mente umana e la sua molteplicità. Il magistero proteiforme di Guido si traduceva non solo nella citazione stra­ niarne, eccentrica, fuori fuoco rispetto alle attese di chi cercava conferme e non domande, ma anche nel divino gioco dell’allusione. Vertiginoso vedere come, nel giro di un periodo jamesiano, Guido riuscisse ad abbracciare simultaneamente autori, generi e opere distanti, spesso con quell’accalcarsi di parentesi che concor­ revano a definire quanto detto e insieme sviarlo in un detour che faceva balenare

Guida guida

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altre mirabili congiunzioni prima di ritornare arricchito nell’alveo principale. L’eccentrico spesso spiega meglio il centro, e le stelle più fulgide si scorgono meglio non fissandole direttamente. “By indirections find directions out”: Guido amava porre e porsi domande. E non erano retoriche: cosa rarissima, lui amava ascoltare le risposte. Viene in mente un celebre episodio riferito da John Cage su una lezione di contrappunto tenuta a UCLA da Schoenberg. Cage risolve un esercizio; Schoenberg dice che va bene, ma aggiunge di trovare un’altra so­ luzione; Cage ne trova un’altra, e Schoenberg dice che pure quella va bene, ma ne vuole un’altra; la sequenza continua finché Cage ammette di non avere altre soluzioni; allora Schoenberg gli chiede quale fosse il principio che sottostava a tutte le soluzioni. Anche nell’intonazione, unita a un moto di continua domanda che la parlata ferrarese accentuava, Guido assaggiava meravigliato e meraviglioso il suo fiore da prospettive diverse; ne sprigionava una sapienza iridescente dove chiunque trovava frammista la propria ricchezza, dal Midrash al cinema, dai clas­ sici europei e statunitensi alle arti contemporanee e al pop. Si sarà notato come le note di Guido tendessero spesso a ridursi in un unico poscritto: quando si parla non si mettono note. Guido, inoltre, scriveva o parlava spesso sull’occasione, richiesto da chi voleva intrappolare un raggio di quella luce. E sarà capitato a molti di sentirlo mentre, camminando di fretta sotto i portici di Via Zamboni dalle aule del 38 allo studio del 16 o viceversa, oppure schivando le macchine arrampicandosi sui marciapiedi striminziti di Via Alfani a Firenze, compiva letteralmente en passant le intuizioni più sublimi in stile peripatetico. Mettendo insieme questi ricordi viene il sospetto che accanto all’afflato visuale per l’allusione molteplice, il metodo di Guido si basasse su un modello ora­ le, ombra pesantissima della sua impareggiabile eloquenza. In questa arte quasi settecentesca della conversazione riemergevano frammisti, spesso camuffati, stili distanti quali il dialogare del prediletto Fielding o l’intermittenza di improvvisa sincerità e repentina reticenza di Rousseau. Per quelle curiose somiglianze che tanto lo dilettavano, affiora al ricordo anche l’incessante varietas di Montaigne, che nel giro di un paragrafo passa indifferentemente dalla citazione classica al proverbio, dall’aneddoto alla notizia contemporanea. Spesso pareva che Guido amasse a tal punto la conversazione da non disdegnare gli aspetti più curiosi, im­ barazzanti, grotteschi di scrittori, registi, attori. Ma anche questo era un modo di invitarci a vedere i grandi come esseri umani, a volte pure gretti, che comunque ci spiegano cosa voglia dire essere umani. Soprattutto, non era solo eloquenza. Guido inseguiva un’angelica vaghezza nel senso esclusivamente italiano del ter­ mine, la bellezza, in un ironico jeu de vagues che scovava i fenomeni interessanti nella loro indeterminazione e ne intuiva rispettoso la natura indecifrabile. L’ultimo mio punto riguarda gli effetti di questo metodo deH’innamoramen-

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to, verso l’arte e verso i suoi ascoltatori, sui destinatari. Un po’ come Amleto con il povero Polonio, nella sua nuvola (prefigurazione dell’attuale cloud} della conoscenza Guido ci mostrava delle forme sempre cangianti. La differenza era che Guido credeva che ognuno di noi potesse descriverle: a condizione, certo, di ricordarsi che erano nuvole sfuggenti. Guido non era uno stilita che sale sul­ la colonna a predicare, indifferente se lo ascoltino in pochi o in nessuno: non tanto perché arrampicarsi sulle colonne è difficile, ma perché ad ascoltare lui ci andavano in tantissimi. Oltre alla qualità solare di ciò che disse e scrisse, colpisce anche la varietà di persone che si riconoscono suoi compagni di viaggio, sia pure a debita distanza dalla guida (non credo che allievi renda giustizia alla profondità della traccia che Guido ha saputo lasciare in tanti, diversi, particolari), in misura diversa a seconda di come quel sole li illuminò, per quanto tempo e a quale lati­ tudine fra le tante incrociate da Guido nella sua carriera. Il suo celebre dono per la battuta, segno di mente eccelsa, ci ricorda infatti che l’intellettuale dovrebbe parlare a tutti, non solo ai suoi colleghi, che spesso nemmeno lo ascoltano: il falegname non crea un tavolo per gli altri falegnami.

***

Nella tristezza dobbiamo ricordarci che fortuna abbiamo avuto a essere ri­ schiarati da questo sole, per un giorno solo o per una vita intera. Mi rivolgo a chi magari leggerà questo libro senza aver mai conosciuto Guido: non sapete quanto vi siete persi. Bene, cercate di sapere cosa vi siete persi. Leggete un suo qualunque articolo, su qualsiasi argomento: per un genio non esistono grande e piccolo, classico e pop, alto e basso. Capirete perché, quando nel 1988 lo vidi tornare in Dipartimento dalla mostra su Guido Reni tutto felice e ironico con una maglietta che diceva Guide the Divine, pensai fosse solo una constatazione. Guido è divino.

CI SARA QUALCUNO Cristina Saffi otti

Quando penso alle mie prime impressioni di Guido Fink moltissimi momenti si affacciano alla mia memoria, e li accolgo con profonda gratitudine. Alcuni di questi sono apparentemente “piccoli”, marginali, ma riescono a rubare la scena a momenti più riconoscibilmente cruciali. Ecco un esempio. Bologna, 1987. Al mio primo anno di università, ero passata nello studio di Guido per chiedere in prestito un volume contenente un saggio utile per il mio primo paper di letteratura anglo-americana. Guido fu molto disponibile, e quando chiesi con titubanza se avrei trovato qualcuno a cui riconsegnarlo dopo mezz’ora, mi sorrise con calore e disse: “Ci sarà qualcuno”. Ricordo che mentre scendevo le scale, cercando di concentrarmi sul saggio che stavo elaborando, mi ritrovai invece a sentirmi risuonare nella mente quelle tre parole. Comunicavano un’informazione tecnica - “Non preoccuparti, troverai qualcuno qui a cui ri­ consegnare il libro” - ma la gentilezza che le aveva accompagnate mi aveva fatto sentire accolta in una maniera che non avrei dimenticato. Anche perché essere accolti da Guido doveva essere particolarmente interes­ sante - questo lo immaginavo già prima di quel giorno. Pochi mesi prima lo ave­ vo ascoltato parlare per la prima volta. La scena è la seguente. Sono seduta nella grande aula universitaria ad anfiteatro in cui si accalcano quattrocento studenti o più. Sta per iniziare la lezione. Tra i movimenti di assestamento, giù, vicino all’entrata e alla cattedra, comincia a prendere risalto una figura esile, in piedi le braccia tese con le mani appoggiate alla cattedra, in una posizione curiosa, al tempo stesso spigolosa e rilassata. Comincia a parlare. Lo sguardo è rivolto verso l’alto, ma oltre l’ultima fila di posti nell’anfiteatro, come se stesse, sì, rivolgendosi

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a noi, ma non solo. O forse come se ci stesse rendendo testimoni dei suoi processi di pensiero? Non ho tempo di chiedermelo a lungo - devo ascoltare. Sta parlando del trascendentalismo americano, e un attimo dopo sta raccontando il ruolo delle finestre nella letteratura e nel cinema, e, poco dopo, per chiarire un’analogia a be­ neficio di studenti disorientati, sta riassumendo in un batter di ciglia la trama di un’opera lirica, mettendo a fuoco, prima che ce ne possiamo rendere conto, ele­ menti che permettono di gettare un ponte sull’apparente abisso tra due concetti. Guido Fink si muove velocemente tra le idee, interrogandole, rovesciandole in modo giocoso. La mia mente di matricola innamorata di Oscar Wilde non trova modo migliore di descrivere a se stessa quello che sta ascoltando se non le metafore con cui in The Picture of Dorian Gray viene descritto l’eloquio di Lord Henry Wotton: “He played with the idea [...]; tossed it into the air and transformed it; let it escape and recaptured it; made it iridescent with fancy, and winged it with paradox”1. Guido ripeteva l’effetto attribuito a Lord Henry, “[to] charm[...] his listeners out of themselves, and they followed his pipe laughing”1 2. O almeno questo è l’effetto su alcuni degli ascoltatori. A dire il vero tra le file intorno a me le manifestazioni di interesse o ammirazione giungono alternate a lamenti sottovoce: “Parla troppo velocemente...”, “dice troppe cose e non riesco a prendere appunti! Senza appunti non capirò mai cos’abbia detto!”. Ma per chi resta in ascolto è un movimento vertiginoso, dal quale si atterra in piedi, attoniti e piacevolmente cambiati. E qui finisce bruscamente il paragone con Lord Henry, che nel suo modo di trattare le idee è “brilliant, fantastic”, ma anche “irresponsible”. Nel trattamento a cui Guido Fink sottopone le idee c’è molto poco di “irresponsible”: forse a volte un primo movimento irriverente - il gesto che permette di spostarsi da un equilibrio iniziale, quello che serve per prendersi la libertà. Da quel momento invece è, sì, come se stessimo giocando, ma Guido porta avanti il gioco accogliendo con grande generosità la sua respon­ sabilità di insegnante. E impegnato a far nascere il desiderio di leggere libri e ve­ dere film. Nell’osservare testi e concetti della storia della letteratura con sguardo libero e pronto ad accogliere la complessità apre anche il nostro sguardo. Dà per scontato che la letteratura e il mondo ci riguardino, e così, immediatamente, ci riguardano. E nel frattempo abbiamo la sensazione che anche lui stia imparando. Il fornaio di Argenta nell’aneddoto che Guido amava ricordare lo aveva chiamato un “bambino vecchio”. Ecco, noi durante le lezioni di letteratura anglo-america­ na di Guido Fink osserviamo il gioco serissimo di un “bambino vecchio” (a cui interessano gli ossimori). In seguito ho avuto la fortuna di conoscere molti altri aspetti di Guido. Ini­ 1 Oscar Wilde, in The Picture ofDorian Gray, Harmondsworth 1984, p. 50. 2 Ibid.

Ci sarà qualcuno

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ziai presto, per esempio, a imparare quanto fosse esperto nell’arte delicata del feedback. In occasione di uno dei primi esami che sostenni per il suo corso scrissi un paper su Morte di un commesso viaggiatore e Lo zoo di vetro. Ero molto soddi­ sfatta del mio lavoro, tanto che per qualche motivo avevo considerato accettabile l’idea di presentarlo in forma manoscritta, trascurando il fatto che la mia calligrafia avesse spesso portato i miei insegnanti a scomodare concetti come “geroglifici” o “rune” o, in una particolare occasione, “cinese”. Guido mi restituì il paper senza batter ciglio, con un bel trenta e lode e un commento molto positivo. Il commento si concludeva con una battuta a effetto - forse anche per esigenze di comic relief (era un saggio un po’ melodrammatico): “Merita di essere pubblicato - o, come minimo, battuto a macchina”. Fu solo la prima di molte occasioni in cui ebbi modo di ammirare l’eleganza - e spesso lo humour - con cui Guido sapeva incoraggiare e allo stesso tempo correggere, spostando la rotta in un progetto o in un testo giusto il necessario per evitare potenziali disastri, ma senza compromettere la sanità mentale dell’autore. L’ho dato per scontato per così tanti anni che vederlo con chiarezza adesso è particolarmente commovente: io lassù, nell’aula anfiteatro, ero incantata, ma an­ che, e soprattutto, soddisfatta. Sapevo di avere incontrato, in questo insegnante il cui sguardo sembrava andare oltre, qualcuno che poteva nutrire non solo l’amore per la letteratura, ma anche il desiderio di intelligenza, in tutte le forme censite. Non sapevo invece ancora, in quel momento, con quanta generosità Guido mi avrebbe incoraggiata e sostenuta - in qualche occasione anche lottando per me - e in quanti modi avrei sentito che cera qualcuno. A volte penso che il ricor­ do di quella piccola frase detta da Guido nel suo studio sia diventato così ricco perché devo averlo caricato di tutta la mia incredula gratitudine accumulata per le cose preziose che quel giorno non sapevo mi avrebbe riservato il futuro. E per­ ché so che nella mia mente ci sarà sempre quel qualcuno.

COME CI HA INSEGNATO GUIDO FINK? Sara Pesce

Tra la metà degli anni ’80 e la fine degli anni ’90 se eri una studentessa o uno studente di lingua e letteratura inglese della Facoltà di Lettere (poi di Lingue) a Bologna potevi fare l’incontro fortuito con due figure speciali, due maestri atipici: Franco La Polla e Guido Fink. Il loro insegnamento si chiamava Lette­ ratura angloamericana, ma i programmi dei loro corsi spaziavano dal musical hollywoodiano degli anni ’30 (per il primo) al teatro Yiddish (per il secondo). Così, scegliendo di allontanarsi un poco dal percorso della Letteratura inglese, capitava di accedere, per lo più impreparati, a una sfera di contenuti inesplorati e di imbattersi in un modo inusuale di proporli. Come insegnava Guido Fink? Per farsene un’idea basta pensare alle volte in cui, ora che insegno cinema, mi viene da dire agli studenti che propongono alcu­ ni argomenti di tesi: “dovresti andare a cercare qualcosa di Fink”. Loro non sanno che, sì, mi sto riferendo a uno scritto, rintracciabile in una miriade di sedi edito­ riali, tra periodici, volumi collettanei e monografie, ma che ho in mente qualcosa che va ben oltre la dimensione della scrittura. E qualcosa che “gli studenti di Fink” assorbivano gravitando attorno a lui, a lezione o nelle conversazioni estem­ poranee; talvolta persino inseguendolo per la città, a Bologna, Ferrara o Firenze, per discutere l’esito di un esame, o per avere una correzione di tesi. Riguarda, per esempio, l’andirivieni di personaggi che animavano i suoi corsi. Si potrebbe dire che, mentre insegnava, Fink entrasse in contatto con la vita palpitante e con le incongruenze di coloro che raccontava, che si trattasse di scrittori, registi, attori o dei personaggi di una novella o di un romanzo.

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Quando faceva lezione, Guido Fink parlava infatti continuamente di persone, tratteggiava cruciali dettagli biografici dei suoi autori, ricordava a menadito i nomi degli interpreti dei film, degli attori secondari, degli amici e dei rivali, degli incontri e delle maldicenze, così che attraverso il suo racconto il mondo lette­ rario e quello del cinema si animavano come sistemi complessi di esseri viventi, accesi da un movimento continuo dentro e fuori dal testo. La letteratura anglo­ americana era immagine in movimento, ascolto di voci, osservazione continua di oggetti. Un ritratto di Henry James veniva espanso attraverso gli adattamenti cinematografici. Il mondo shakespeariano brulicava di attori cinematografici (ho imparato presto da Fink che Laurence Olivier si pronuncia alla francese). E per questo che una scena cruciale di una novella di Abraham Cahan (Yekl. A Story ofthe New York Ghetto, 1896) - il ricongiungimento diffìcile tra un giovane im­ migrato ebreo e la moglie appena sbarcata a Staten Island con il figlioletto - è ora imprescindibile, per chi è stata studentessa o studente di Fink, dal potere evocativo della sua spiegazione, che ne commentava con delicatezza e con vividi dettagli l’imbarazzo e l’incongruenza. Le lezioni di Fink erano in verità profondamente impregnate dell’energia, della forza d’ispirazione e interpretazione proprie dell’oralità. La voce, il ritmo dell’esposizione, l’enfasi sull’esperienza del lettore e spettatore, l’apertura a una prospettiva personale in dialogo con più voci critiche dotavano di grande potere attrattivo la sua conoscenza. Gli insegnamenti di Fink prendevano la forma di una performance. Lui non si sedeva, non stava nemmeno molto fermo in verità; e la “spiegazione” era simile a un flusso di coscienza, poiché attingeva a una me­ moria ricchissima, a un’intelligenza che creava in quel momento, tenendo ben presente e incrociando punti di vista altrui e visioni contrastanti. Questa dimen­ sione dell’oralità nell’insegnamento di Fink ha lasciato una traccia profonda. Ha impresso una direttrice per gli studiosi a venire: il legame diretto, qui e ora, con l’oggetto, un contatto inventivo (e rigoroso!) con il testo, con il film, un rapporto estremamente vivo, che ammetteva molti registri linguistici e svariate prospettive di lettura, che invitava a porre domande - non necessariamente a dare risposte, come mi disse. Riusando le parole che Pasolini scelse in un’annotazione autobiografica dat­ tiloscritta del 1971, ispirata e carica di gratitudine, per descrivere colui che egli definisce il suo “maestro” all’Università di Bologna, di Fink possiamo dire: “il suo lessico era una completa novità... La sua curiosità non aveva modelli. La sua eloquenza non aveva motivazioni”. Infine: “il maestro viene vissuto... e la cono­ scenza del suo valore è esistenziale”.

PARTE II SCHERMI E PALCOSCENICI

PARTENDO DA SPONDE DIVERSE... Goffredo Fofi

Il nome di Guido Fink mi è stato familiare dai tempi di Cinema nuovo, una rivista fondamentale nella mia formazione e in quella di molti. E attraverso un fotodocumentario di Enzo Sellerio apparso su quella rivista che scoprii nel 1955 la figura di Dolci, gli scrissi, e lo raggiunsi appena diplomato maestro in Sicilia: e fu l’occasione che mi ha cambiato la vita. Con Cinema nuovo il rapporto fu, andando avanti negli anni, conflittuale: apprezzavo certi suoi collaboratori (soprattutto, con Guido, Spinazzola e Ferrero, e ovviamente Paolo Gobetti, che aiutai a Torino a fare // nuovo spettatore cinematografico, che era all’inizio quasi una filiazione di Cinema nuovo) e cominciai a detestare le idee e l’invadenza del suo direttore, bensì bravo nel cercare collaboratori che avessero una loro personalità, che avevano una visione del cinema molto più ricca della sua e che seppero difenderla. Il distacco, iniziato da tempo, diventò esplicito a partire dai miei anni parigini e dalla collaborazione a Positif, dal mio amore per il nuovo cinema (il “nuovo cinema” invece di Cinema nuovo?). Ma prima ancora, più irriverente di Paolo, non risparmiavo frecciate ad Aristarco, e quando con Paolo traducemmo per Sansoni i dizionarietti di Sadoul su film e registi, autorizzati da Sadoul a cambiare quel che volevamo e prendendoci quindi delle libertà fino al punto di cambiare molto suoi giudizi e far diventare brutti, per esempio, certi film russi e stalinisti che lui apprezzava eccetera, fù allora che con Fink ci fu un battibecco a distanza, molto “d’epoca”. Guido ci attaccò su Cinema nuovo per quelle libertà, e ricordo che la cosa che mi dette più fastidio furono le sue considerazioni sul Lang americano con­ trapposte alle nostre, anzi alle mie, perché allora erano Lang, Bunuel e Welles i miei registi prediletti. Io replicai su Ombre rosse, uno dei primi numeri, forse pri­

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ma dell’occupazione di Palazzo Campana e dell’esplosione del ’68, nella rubrica “Cronaca del cronopio” che scrivevo quasi sempre io, dandogli del critico bor­ ghese e altre cose che non ricordo (forse per vergogna...). Qualche tempo prima qualcuno, forse lo stesso Guido, aveva scritto una nota molto più velenosa contro Morandini, trattato quasi da agente americano per i suoi apprezzamenti di autori come Nicholas Ray, e da Parigi io avevo scritto a Morando, che non conoscevo, per dirgli la mia solidarietà... Guido replicò a sua volta al mio attacco con un editoriale di Giovane critica, la bella, molto bella rivista catanese diretta da un Mughini giovane e bravo, intito­ lato “Noi del night club”. E fu allora che mi innamorai di lui. Beninteso, leggevo e apprezzavo i suoi scritti (anche opuscoli, non solo su Cinema nuovo, sul cinema inglese e americano e altrove quelli sul teatro, testi che mi aprirono le idee e mi fecero scoprire autori poi molto amati, per esempio Pinter). Gli feci sapere che la sua risposta mi era molto piaciuta, per la sua ironia e signorilità, ma anche perché su alcune cose mi colpiva nel vivo e mi costringeva a pensare, e a “fare autocriti­ ca”.. . (sì, più di una volta ho fatto autocritica e me ne vanto, al contrario di quei critici e intellettuali d’area PCI di cui Flaiano diceva che erano bravissimi a fare l’autocritica degli altri). Guido non si è mai vergognato della sua formazione “borghese” e della sua probità e assiduità di studioso serio della cultura contemporanea, soprattutto angloamericana. Liberato dall’ipoteca aristarchiana, Guido ha scritto cose fonda­ mentali, su autori fondamentali. E ha scritto di cultura ebraica con la competen­ za e la libertà di giudizio dei migliori, anche su questo aiutandomi a scoprire au­ tori e opere, servendomi di stimolo a una migliore conoscenza di quel vastissimo campo. E ricordo una sua bella telefonata alla Feltrinelli, quando vi lavoravo alla fine degli anni ’70, di apprezzamento per la riproposta nell’universale Economi­ ca, che sapeva sollecitata da me, di opere di Zangwill, Aleichem, Peretz... Non ci siamo frequentati molto, ma ci si seguiva a distanza con attenzione e rispetto (mi telefonò quando lesse il mio libro su Brando, gli telefonai quando uscì il suo su Lubitsch) e insomma ci si è capiti e stimati, con qualcosa a unirci che era anche generazionale: un approccio simile ed esigente alla cultura americana, al cinema, agli inglesi, al teatro, a certi classici, mai chiuso e mai “corporativo”. Di Guido ebbi una volta a parlare con Cesare Garboli, che lo apprezzava moltissimo. Su sponde in parte diverse il nostro è stato ed è un rapporto con la storia della cultura italiana sostanzialmente laico e spesso controcorrente, anche se a tratti, in entrambi pur se da fronti diversi, un tantino settario in lui e molto settario in me... Rispetto a Guido, io sono sempre stato più interessato alla socie­ tà che alla cultura e più coinvolto di lui nelle “pratiche”, ma proprio per questo ho avuto bisogno di riferimenti culturali rigorosi e alti, e li ho tenuti cari, come quello che mi è stato offerto dal nostro amato Guido.

GRUPPO DI FAMIGLIA IN UN TEATRO Sergio Colomba

La presenza del teatro è una costante in tutto il percorso di Guido, dagli anni della formazione a quelli della piena militanza culturale e critica. Il retaggio fami­ liare, la qualità degli studi, l’ampiezza della sua curiosità intellettuale, la straordi­ naria capacità d’analisi si fondono con una sua attitudine naturale, una specie di vocazione a sentire il teatro. L’amatissimo Visconti si poteva ad esempio avvicinare con la medesima pas­ sione intellettuale guardando Bellissima oppure Ossessione, e seguendo le meravi­ glie del multiforme racconto scenico che si sgranava da un Cechov orchestrato da Luchino con la Morelli-Stoppa (Guido poteva così, in Tre sorelle, scoprire come un rabdomante la vena della sublime guitteria di Memo Benassi mescolata alle intemperanze di un Mastroianni giovane: culture, incroci, situazioni emotive, stili che si inseguivano). Ragione e passione del critico si alleavano, si articola­ vano in una storia irripetibile di formazione, squisita sensibilità estetica, finezza di percezione e anche militanza rigorosa con il dono della leggerezza. Questo era Guido, e certi autori come Visconti lo accendevano. A proposito di Bellissima, mi ricordo una sua intuizione più che illuminante, assoluta, una delle tante offerte dalla riflessione di Guido sul film. Diceva che in Bellissima è reale il mondo del cinema, il mondo dei provini di Blasetti e di Cinecittà, ed è finto invece il quartierino di Anna Magnani al Prenestino dove strepita tutto quel vociare romanesco: quello sì, diceva Guido, pieno di finzione teatrale. Ecco, abituato a questi capovolgimenti, a questi paradossi fulminan­ ti, uno sguardo che sa muoversi con naturalezza innata tra le architetture della drammaturgia. A smascherare il neorealismo, o a sublimarlo, ci pensa la finzione teatrale. Più vera del vero.

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L’educazione teatrale di Guido non è quindi semplicemente lo sguardo con­ seguente su una disciplina parallela al cinema e che confina con esso. Certo, lo schermo è stato sicuramente la prima e la più totalizzante fabbrica di sogni, ma il nostro critico ama anche scoprire le rughe e la biacca dell’attore sotto i riflettori, nello spettacolo dal vivo, subendo il fascino irripetibile di chi ancora si trucca ogni sera e sale sul palcoscenico per raccontare delle storie. Allora, come sempre avviene quando si circola fra i condotti, le articolazioni e i filtri preziosi del sistema-Guido, si scopre che per lui cinema e teatro sono un’estensione ideale dell’al­ tro, in un gioco continuo di rimandi e di rispecchiamenti. Così come si lega nella sua memoria l’odore pomeridiano dei cinemetti ferraresi che frequentava quando era giovane critico nella pagina locale de L’Unità, a quello appena più polveroso, ma non museale anzi vivissimo, di palchi, legni e velluti dentro i teatri frequen­ tati fin da bambino. In casa c’erano le abitudini culturali e lo stimolo di mamma Laura, dentro quel clima familiare che Enrico nella sua performance al convegno ha così efficacemente evocato, o di quella zia Pia che una volta, quando mi tro­ vavo in casa loro a Ferrara aspettando che Guido si preparasse per un incontro pubblico al Comunale sul Re Lear di Strehler, sotto le parvenze di una chiacchie­ rata amabile improvvisò un saggio shakespeariano degno di figurare in un corso universitario. Questo per ricordare dove è cresciuto e si è formato Guido. Ecco allora come per lui si accomunano idealmente, in modo naturale e spon­ taneo, le storie narrate dal cinema e dal teatro, i rispettivi linguaggi, i volti mitici, in un flusso vitale tutt’akro che indistinto nel quale il critico sa sempre fermare l’attimo, cogliere il lampo specifico, riconoscere cifre e codici svariando tra i materiali vivi di un immenso laboratorio di scienze umane sempre in funzione. E il caleidoscopio si allarga perché Guido a un certo punto ha incontrato Da­ niela, ideale compagna di vita e di lanterna magica. Mi piace pensarli come una specie di Fanny e Alexander diventati adulti ma non troppo, che lungo il corso degli anni camminano tenendosi per mano attraverso spettacoli, film e libri. Il teatro anche qui c’entra molto: perché Daniela è la figlia di Marisa Mantovani, un’attrice scomparsa da non molto e troppo poco ricordata. Che dagli anni ’50 ha percorso soprattutto le scene, ma anche i set cinematografici e gli studi televisivi lasciando sempre il segno di una presenza d’interprete colta e battagliera. Marisa è stata più che un’attrice: troppo moderna per i palcoscenici che attraversava, per il teatro che le stava intorno; non era semplicemente un’interprete, era l’attrice ragionatrice, l’attrice critica, la drammaturga che scriveva testi per il teatro ricchi di fermenti e di idee nuove. Colta, coerente, battagliera. Niente a che vedere con il prototipo dell’attrice di quegli anni, già appiattita nella recitazione dall’o­ mologazione televisiva, o sottomessa incondizionatamente al regista-artefice, ai canoni della produzione media. L’attitudine a filtrare criticamente il personaggio,

Gruppo di famiglia in un reatro

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e non già a lasciarsi possedere, fa di Marisa Mantovani (spesso ispiratrice di tante riflessioni di Guido, sempre sua appassionata e affiatata interlocutrice) uno degli esempi più compiuti di attrice critica. Per lei recitare è scrivere sulla scena un te­ sto che si fa; così come scrivere per il teatro diventa qualcosa d’inscindibile dalla sostanza dell’esperienza attorica. C’è dunque nel rispecchiamento reciproco di questi riverberi familiari quasi un’esigenza naturale di riconoscersi, di completarsi e legittimarsi a vicenda. Come dimostra nel circolo virtuoso la presenza e il lavoro di Enrico Fink: altro instancabile cercatore di teatro, anche lui artista-critico a modo suo, che traduce in drammatur­ gia musicale viva, vibrante, la questione dell’identità e delle sue radici. Pure Enrico scrive per il teatro, e possiede anch’egli la grazia, il dono dello spessore drammaturgi­ co più autentico. Che usa evocando spesso ombre familiari. Non simulacri indistinti da lanterna magica, però. Ricordi-corpo, ricordi-storia, oggetti emblematici nella memoria che prendono vita plastica. E lo abbiamo sentito - davvero, sentito - nella sua performance. Nel suo sguardo all’indietro sulla tradizione musicale ebraica, è sempre presente il momento per lui fondamentale dello sperimentare. Che gli serve poi per toccare il nuovo, per dar corpo a una ricerca innovativa. Ecco, una famiglia in cui così circolano le energie degli artisti-critici che ne fanno parte fa scaturire l’essenza di quel lavoro, di quella ricerca, direttamente dal critico-artista che li muove, motiva e irradia insieme essendone a sua volta stimolato, motivato: cioè Guido. Mi piace pensare a questa idea di critico come artista. E un’idea che nasce wildiana, certo, ma che qui, spogliata di tutto il pas­ sato decadentismo, pone l’accento sulla valenza e sulla funzione civile dell’essere critico, come appunto nel caso di Guido. Funzione etica, giustamente messa in luce nel corso dei nostri incontri nei giorni del Finkfest, del suo lavoro critico. Perché critica creativa? Critica creativa come presupposto dell’arte: non c’è arte senza critica. Perché è la critica a inventarsi il proprio oggetto, l’arte appunto. In tal modo la critica diventa creativa. Ma nel caso di Guido va aggiunto un tocco speciale di souplesse, leggerezza, eleganza; nel nome della grazia e dell’equidistanza del dandy. Vogliamo immagi­ narlo come uno Zarathustra o come un Fred Astaire che elargisce e snocciola con naturalezza il suo tip-tap dell’intelligenza, dello stile, mentre attraversa il chiuso delle accademie, della cultura burocratica, delle lobby intellettuali rimanendone indenne. Proprio come il critico dandy incongregabile, non assimilabile ad alcu­ no, disgregatore di massonerie che auspicava Savinio. Impossibile poi non ricordare la vicinanza a Shakespeare. Testimoniata non solo da studi acuti e profondi, saggi, corsi universitari che restano (come quello sugli adattamenti shakespeariani). C’è qualcosa di più, una pratica, una dimesti­ chezza, una complicità quasi da teatrante nel sottolineare la parte viva dello Sha-

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kespeare che più manca a Guido. Di tutto ciò resta esempio ideale la traduzione per Garzanti della Commedia degli errori: dove Guido non solo parla da vicino con Shakespeare, ma parla per lui. Lo fa nel senso del dargli voce al di là dello smalto linguistico, della brillantezza del colore verbale che pure sono restituiti al meglio. Ciò che colpisce in questa sua versione della commedia è che riesce a rendere il verso shakespeariano musicalmente, teatralmente ancora una volta. Leggiamo del teatro vivo. Si può ascoltare il movimento segreto dei versi già solo con la lettura. E la verifica della scena raddoppia tale sensazione. Mi è capitato di constatarlo quando ho potuto assistere con Guido e Daniela a una messa in scena bolognese del testo: le commedie shakespeariane sono di solito insidiosissime per gli attori, ma lì i versi prendevano forma e movimento da soli, fluttuando verso la platea come teatro da ascoltare.

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Dal 1973, per circa tre anni, Guido Fink è critico teatrale de II Mondo. Il glorioso settimanale di Pannunzio usciva allora nel formato grande (più o meno quello di un quotidiano: anche L’Espresso allora aveva il medesimo formato e una grafica simile). Per tutto ciò che abbiamo detto, e per molte ragioni di più, non si trattava semplicemente di un critico cinematografico (e di un intellettuale prezioso) prestato al teatro. Di critici “bifronti” che scrivevano sui quotidiani ne esistevano già: ricordo ad esempio Aggeo Savioli o Carlo Laurenzi. Ma quei tre anni di recensioni scritte da Guido segnano un punto di svolta da cui il teatro italiano non può prescindere. La sua presenza critica diventa un punto di con­ fronto per gli attori, un momento di riflessione, di dibattito. Qualche volta anche di polemica, visti gli strumenti affilati del recensore. La rubrica teatrale ha un posto fisso nelle pagine della cultura: taglio d’apertura, due colonne a scendere. L’andavi a cercare subito, e anche lo stile del giornale, quel modo paradossaleironico-metaforico di fare i titoli aiutava la curiosità. Di solito il titolo del pez­ zo di Guido, corto a causa delle due colonne, era un quadrisillabo variamente composto più gli spazi: secco, sintetico, definitivo. Mi ricordo una commedia di Franco Brusati, drammaturgo peraltro dotato e sensibile {La fastidiosa, Pietà di novembre; e nel cinema autore di Dimenticare Venezia). Si chiamava Le rose del lago e francamente era ben poco convincente. Guido la trattò con una signorile, sottilissima e sacrosanta perfidia. Titolo: Né rose né lago. C’era Paolo Stoppa, ridotto purtroppo alla caricatura di se stesso e di quel capocomico di Visconti così evocativo invece nelle memorie del nostro critico. Faceva il gangster italo-

Gruppo di famiglia in un teatro

americano Panizza, poco più di una macchietta su cui con Guido abbiamo riso per anni. Fasti e nefasti del teatro. Nel 1974 Carmelo Bene mette in scena con il Teatro dell’Aquila La cena delle beffe di Sem Benelli. E la prima volta che, dopo le cantine, Carmelo conta sul bud­ get generoso di uno Stabile e monta una specie di colossal (lui era Giannetto, Gigi Proietti Neri). Ma la cosa più sorprendente è che l’allestimento non risulta affatto la parodia del kitsch medioevale rococò di Benelli, secondo la poetica allegoricosatirica del Bene di quegli anni. Il testo viene invece tirato su, le sue doti di macchi­ na teatrale sottolineate nello spettacolo sontuoso che lo amplia e dilata. Senza farsi sviare dallo splendore visivo volutamente depistante, Guido coglie perfettamente il senso più autentico dell’operazione. Titolo: Non si beffa della cena. L’incrocio dei ricordi personali, delle coincidenze non certo casuali, si fa più stretto proprio in quel 1974. Grazie alla consueta generosità di Guido, che mi aveva presentato all’allora direttore Renato Ghiotto, cominciai a collaborate al Mondo. Il primo pezzo fu un intervista a Carmelo Bene: lo conobbi così, ed è nata un’amicizia che è durata quindici anni, prima di rompersi definitivamente per una di quelle litigate furiose che punteggiarono nell’89 l’esito tormentato di un’altra Cena delle beffe guarda caso. Venti minuti algidi un tempo, venti minuti il secondo. Tutto immobile, in scena non accadeva nulla. Carmelo era già da un pezzo andato oltre il teatro. In quel primo incontro per l’intervista (tre ore di chiacchierata, un pezzo ric­ chissimo di spunti per merito suo che uscì a tutta pagina, titolo Kant non va mai a teatro} Carmelo mi parlò di Guido. Non solo aveva letto la recensione della Cena e ne aveva apprezzato le intuizioni (a parole disprezzava i critici, ma gli piaceva intessere rapporti con quelli che riteneva intelligenti: Grande, Quadri, Fofi). Ciò che mi sorprese era che lui, l’autodidatta divoratore di libri che non si sa come ma conosceva ogni rigo, ogni titolo, ogni bibliografia, siccome stava preparando l’en­ nesimo Amleto da Shakespeare-Laforgue (avrebbe debuttato l’anno dopo, e forse fu l’edizione migliore) aveva degli studi di Fink, dei suoi scritti shakespeariani una considerazione che riteneva vitale per le ricerche del momento. E siccome anche in seguito il lavoro e la persona di Guido Fink ricorrevano spesso quando si trat­ tava di critica, letteratura o libertà di giudizio e di militanza, mi venne spontaneo pensare che i due si dovevano incontrare, conoscere più da vicino. Sarebbe ancora passato del tempo, ma la cosa mi riuscì una sera a Bologna, in un ristorante dopo lo spettacolo. Far avvicinare due tra le persone più significative e preziose che io abbia mai incontrato: non solo un’emozione personale, privata. Sembrava una cosa necessaria, vista la specularità e il reciproco completarsi (nelle reciproche dif­ ferenze, è chiaro) dell’artista critico e del critico artista. Carmelo, per cui ogni ope­ razione teatrale coincideva totalmente con un’operazione critica. Guido, che aveva

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sempre vissuto il teatro nella nostalgia dell’altrove, nel rimpianto di una pienezza perduta. E che sentiva di condividere con l’altro l’ammirazione e la fascinazione del cabotinage dell’attore ottocentesco ma anche il senso di perdita causato dalla sua sconfitta, dalla sua disgregazione. Sconfitta dell’attore, sconfitta del teatro: togliere il teatro per togliersi di mezzo dal teatro. Al di là delle rispettive timidezze, perché così era, l’incontro ha avuto dei momenti davvero indimenticabili: colpiva nei due la dimestichezza, segno quasi di un riconoscersi, di dare molte cose per scontate. Il teatro non entrò subito, era un territorio sfumato che s’intravedeva da lontano. Shakespeare? Sì, ma visto da Wilcock, da Manganelli come piaceva a Carmelo. Per rispetto al professore amico questi non bevve e non straparlò, non gli chiese di far mattina come usava quando si trovava bene con qualcuno. Ma prima del congedo ci fu tempo per scapolare tra Sade, Leopardi, Kafka, Majakovskij, Joyce: sempre presenti eviden­ temente con richiami più o meno sottolineati ed espliciti nella visione dell’arti­ sta. E tutto in modo sconnesso, vivo, ansioso. Guido parlava di meno, ma cono­ sceva già tutto. Fino a che non si arrivò lì, all’attore critico come unico possibile artefice della scena. Carmelo aveva in mente il Riccardo III che avrebbe fatto. E raccontò come nella sua riscrittura scenica avrebbe detto di sé, non di Gloucester. Del proprio scacco d’attore. Ricordo che a quel punto, invece che un saggio sul tragico, entrarono nel discorso anzi apparvero Keaton, Petrolini e Memo Benassi. Campioni massimi, nella recitazione, di quel sentire algido e parodico che nel Novecento ha costituito l’unica forma possibile del tragico. Guido lo sapeva bene: lui Benassi lo ricordava con Visconti; l’aveva visto in scena tante volte anche a fianco di Marisa. Capiva qual era in quelle citazioni il nodo centrale per Carmelo: frequentare un gesto divenuto ormai impossibile nella sua autentica compiutezza. Un gesto degradato, girato appunto in parodia, che ormai conosce solo la forma straziata di ciò che si dà negandosi. Riccardo non sarebbe morto in scena: si sarebbe addormentato in nome della sospensione del tragico. E Guido lo constatò infatti quando più avanti venne con Daniela al Bonci di Cesena per la prima del Riccardo III Si aspettava esattamente questo saggio scenico, me ne aveva parlato più volte dopo l’incontro di quella sera. Pec­ cato che non abbia potuto scriverne, abbiamo perso di certo qualcosa d’impor­ tante. Ma lui critico del Mondo non lo era più: gli era subentrato nel frattempo, come sempre accade, qualcuno molto più manovriero, diplomatico, malleabile. E molto meno bravo.

IL PIACERE DELLA CRITICA E IL FASCINO DELLE RETICENZE Giorgio Cremonini

Raggiungere età che una volta erano definibili venerabili presenta non po­ chi inconvenienti: fra questi, il numero crescente degli inviti a testimoniare del passato, di cui sembri diventato un testimone attendibile, come uno dei tanti “esperti” sopravvissuti più per caso che per meriti; poi proprio la venerabile età fa sì che la memoria, soprattutto quella lontana (anche se non abbastanza da tradursi in Alzheimer), si riduca progressivamente e instancabilmente, cosicché, bene che vada, ti ritrovi spesso a ricordare sì tante cose, ma non a saperle collo­ care nel tempo con l’esatta precisione - il che, per una testimonianza sul passato, è grave, anche se non irrimediabile. Come diceva Robert Mitchum in Yakuza (Sydney Pollack, 1974), “Che cosa vuoi che siano vent’anni alla nostra età?” E inevitabile allora che, malgrado tutta la migliore volontà e buona fede, alcune informazioni risultino approssimative, quando non sbagliate - o, peggio ancora, “false”, quando non viziate dalla tentazione peggiore di tutte, quella di parlare anche - o solo - di se stessi. Tuttavia accetto di correre i rischi conseguenti e di contribuire a questa “celebrazione” di una persona come Guido Fink, che non solo non è, per quanto mi riguarda, né un libro di testo, né un estraneo, ma so­ prattutto ha fatto tanto per la cultura italiana, cinematografica e non. E questo sarebbe già sufficiente in sé.

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Ho conosciuto di persona Guido Fink una sera a Bologna, alla fine degli anni ’60, quando tenne una conferenza sulle ultime avanguardie americane di allora, in una sala messa a disposizione dall’Azienda del Gas (di cui non ricordo il nome, ma penso sia ininfluente); in particolare ricordo la citazione, non forzatamente ironica, di Empire (Andy Warhol, 1964), che aveva visto a New York e trovato a suo modo affascinante; qualche tempo dopo entrambi, pur con percorsi estre­ mamente diversi, finimmo a scrivere su Cinema nuovo, rivista che lui abbandonò più o meno insieme a Adelio Ferrero, Lorenzo Pellizzari e Franco La Polla. In seguito non seppi far meglio che polemizzare con ironia piuttosto greve su un suo elogio a mio parere eccessivo di Twa Manniskor di Dreyer (per quanto viziato da una fondamentale incomprensione, il mio parere sul film non è molto cambiato da allora, ma non ho più sentito il desiderio di farne una bandiera contro cui lottare). In ogni caso non si trattò di una lite furibonda e credo che né lui, né io ci sentimmo risentiti e offesi - non più di tanto, almeno - tant’è che pochi anni più tardi, dopo essermi anch’io stancato delle vessazioni di Cinema nuovo (queste sì insopportabili con il loro zdanovismo censorio-parrocchiale), me ne allontanai e chiesi di essere accolto tra le braccia di Cinema & Cinema, cui Guido era approdato dopo un lungo e irritato silenzio e soprattutto dopo “La struttura era un albergo” {Paragone, n. 274). A quanto ne so, nessuno si oppose - e quindi nemmeno Guido. Per un minimo di precisione, senza entrare troppo nei dettagli, so che altri, probabilmente anche più illustri di me, videro in seguito respinte le loro richieste. Senza pretendere di stilare una graduatoria, posso dire di avere conservato un ottimo e proficuo ricordo di II cinema tra virgolette (n. 2, 1975), L’accostamento a Welles (n. 3, 1975 - monografico dedicato appunto a Welles), Gli usignoli dell’imperatore (n. 4, 1975 — dedicato a Bunuel), Losey: il principio d’indeterminazione (n. 5, 1975, principalmente su Una romantica donna inglese), Kubrick: non raccontare una storia (n. 9, 1976, su Barry Lyndorì). E via dicendo, fino ai primi anni ’80. Nel frattempo, in collaborazione con Guido Almansi, Fink trovò anche il tempo - e soprattutto le idee — per scrivere Quasi come (1976), oltre 300 pagi­ ne di arguzie, acume e conoscenza di letteratura (sembra, a dirlo, l’invenzione dell’acqua calda, ma nella nostra realtà italiana le cose non procedono sempre così di pari passo). A una analoga esuberanza scritturale appartengono anche il prezioso e illuminante “From Showing to Telling: Off-Screen Narration in the American Cinema” {Letterature d’America, anno III, n. 12, primavera 1982), chiosa e contributo al rilancio francese delle ricerche semiologiche sul linguaggio e la narrazione, ma più ancora la partecipazione organizzativa e culturale alla mostra-rassegna Freedonia. Cinema comico ebraico americano (l’omonimo cata­ logo, curato da F. Borin, è edito dai Comuni di Venezia e di Modena nel 1982).

Il piacere della critica e ilfascino delle reticenze

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Questo gusto per l’ironia e l’umorismo faceva parte del suo carattere come dei suoi interessi, aprendo la strada ai futuri “Castoro” su Ernst Lubitsch e a Non solo Woody Alien (2001), giustamente e meritatamente dedicato alla moglie Daniela, un volume che non cesserò mai di rimpiangere di non aver letto prima dei miei excursus nel mondo del cinema comico. Freedonia incontrò al suo nascere diffi­ coltà apparentemente imprevedibili, visto che erano i tempi di Sabra e Chatila e qualunque iniziativa a favore degli ebrei e della cultura ebraica suonava sospetta persino a sinistra. Lo scoglio fu tuttavia superato e il prezioso volume fu stampa­ to a regola d’arte e soprattutto senza troppe timorose compromissioni. Tornando a Cinema & Cinema, mi riesce difficile celebrarne l’elogio, ma solo perché ne facevo parte anch’io: posso solo dire che era una soddisfazione, un piacere e a volte un divertimento farne parte, trovarsi ogni qualche settimana per scambiarsi civilmente opinioni che andassero oltre un mi piace o un non mi piace. Forse non era un vero gruppo o forse lo era a modo suo, con differenze anche profonde, ma in cui non cercavamo di farci le scarpe più o meno sistematicamen­ te (come al contrario era accaduto a Cinema nuovo). Tuttavia qualcosa col tempo cambiò e le oscillazioni d’opinione lasciarono il posto forse a delle gelosie più o meno nascoste, forse alla ricerca di una più assidua - e tutto sommato “sinistra” - “verifica interna” come nel caso di L’apocalisse e poi (n. 24, 1980), in cui tutti scrivemmo sull’allora “mitico” film di Coppola, che avrebbe dovuto preannun­ ciare e racchiudere il secolo o almeno il decennio successivo; l’idea risultò sì inte­ ressante, ma troppe risultarono alla fine le ripetizioni - il che era comunque un buon segno. Come forse dimostrano alcuni successivi tentativi, meno esplicita­ mente programmatici, come Hitchcock. La dimensione nascosta (n. 25-26, 1980) o Mae, Marlene, Marilyn e le altre (n. 27-28, 1981), fino a quella Fantascienza: il nome della cosa (n. 29, fine 1981), in cui solo uno dei redattori si occupò del tema-guida. Non tutti i temi monografici (forza indubbia della rivista, a tratti della sua unicità) avevano insomma la forza di diventare termometro culturale dell’epoca - il che non toglieva qualità al progetto, ma ne limitava gli orizzonti. A partire dal gennaio 1982, la direzione della rivista passò da Lorenzo Pelizza­ ri (che non abbandonò la rivista che aveva così entusiasticamente co-fondato, or­ ganizzato e diretto) a Guido Fink, regolarmente e democraticamente eletto dopo una sorta di ballottaggio interno con Giorgio Tinazzi. Fu parzialmente rinnovato il comitato di redazione, senza traumi, e la nuova serie iniziò nel gennaio 1982, col n. 30, dedicato monograficamente e forse un po’ provocatoriamente a una fi­ gura solo apparentemente secondaria del neorealismo come Giuseppe De Santis. L’organizzazione del lavoro nel complesso non cambiò e non ci fu, che io sappia, un solo giorno in tutta la sua conduzione in cui Fink abbia mostrato tendenze esplicitamente direttoriali; non ce nera bisogno, bastava la stima di cui godeva.

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Le obiezioni ovviamente non mancarono, ma non si tradussero mai, nemmeno velatamente, in divieti o proteste, furono parti integranti di un lavoro collettivo che voleva ancora chiamarsi fuori da ingerenze esterne, politiche o di comodo, pur continuando a collocarsi a sinistra - una sinistra incerta, in cui pochi erano i rivoluzionari e molti i sognatori. Certo, buona parte del pubblico cui la rivista si rivolgeva era un pubblico universitario (“il ventre molle della borghesia”, si di­ ceva, faticando non poco a trovare quello “duro” della classe operaia), ma non ci fu mai ombra di quell’operazione “accademica” che sarebbe stata solo la gestione triumvirata damsiana che avrebbe gestito la sua estinzione. E necessario che a questo punto io precisi che tutto quanto scrivo in quest’oc­ casione non è storia, come si dice, ma risponde a una lettura molto personale dei fatti e potrebbe non avere niente a che fare con la storia. Niente a che vedere, insomma, con una morte annunciata, né oggi con un’operazione nostalgia. Le cose cambiano ed è giusto che sia così: non tutto il passato è un bene, ma nem­ meno un male. Qualche anno più tardi Fink fu chiamato a occupare, con evidente merito, il posto di direttore dell’istituto italiano di cultura di Los Angeles, ma qui non solo la nostra storia comune finisce, ma per di più, e peggio, ha inizio la malattia. In pratica, per quanto mi riguarda, comincia un distacco forse colmabile, forse no. Comunque non colmato. Strade non più convergenti, ma inesorabilmente divergenti o parallele. Notizie filtrate da intermediari volonterosi.

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Un resoconto schematico e superficiale come questo non può rendere conto adeguatamente di un’attività così ricca di sfumature e di implicazioni come quel­ la di Fink, sempre spinto dalla curiosità, anche laddove potrebbe essere guidata da ulteriori spiegazioni, come forse dovrebbero fare i veri critici, quelli che ti spiegano con la stessa precisione perché pensano, dormono, si svegliano - quella curiosità che lo porta a spaziare per tutti i campi di suo gradimento. Si può anche tentare di costringerlo in un recinto etno-culturale come la cultura ebraica, che pure viene ampiamente ribadito e - perché no? - difeso, ma si capisce ben presto che non sarebbe sufficiente (di certo essa gioca un ruolo fondamentale nella sua storia, ma - che lo si voglia o no - anche nella nostra, di tutti). E un’arma che apre spazi, vedute, prospettive non trascurabili, perché ci appartiene come storia: ogni scritto “serio” sul cinema non può che tenere conto di un proprio, personale o collettivo o storico background, un bagaglio che chi lo possiede si trascina die­

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tro o dentro di sé e forse più ancora di una dimensione culturale costantemente in fieri e in evoluzione, ma proprio per questo sempre attuale nel suo apparirti in faccia anche quando meno te l’aspetti. La conoscenza del cinema non può prescindere dal suo essere sempre anche altro, letteratura, teatro, pittura, musica, ecc, nonché passato e presente - e la Cinema & Cinema diretta da Guido Fink ha cercato per qualche tempo di scavalcare il torpore degli smemorati, di celebrare a oltranza Xhic et nunc di una contemporaneità cui sarebbe stato più facile strap­ pare le radici. Senza concessioni, ma anche senza pomposità accademica. Era per esempio difficile pensare come inevitabile approdo del pensiero comico un caso Zalone (sarebbe stato difficile persino per Totò) - oppure pensare come originale il cinema di Tarantino: sia l’un caso che l’altro sarebbero stati messi alla prova dei fatti, cioè della loro originalità ed eventuale ricaduta; si sarebbe pensato che tutto ha radici e passato e che la memoria è perennemente chiamata a fondersi con l’intelligenza e la cultura - non un optional maniacale, ma una forza e uno strumento. Allo stesso modo si sarebbe pensato che non bastasse un volo poetico per spiegare qualcosa che probabilmente ci aveva affascinati, ma non ci aveva chiarito le idee; sarebbe stato facile abbandonarsi, almeno a partire dagli anni ’70, alle metafore allusive, mimeticamente poetiche, come se ogni critico avesse in sé le capacità di risolvere attraverso la traslazione poetica i dubbi della ragione. Più o meno come oggi, trasformati da poeti a telegrafisti, ci si accontenterebbe di un tweet. La prosa di Fink non cedeva a queste tentazioni, facili e deludenti: ab­ bondava di rimandi e di citazioni, di deviazioni con successivo ricongiungimen­ to, non sempre facilmente riconoscibili (perché pochi avevano la sua memoria), ma - se lette con la dovuta attenzione - chiarificatrici. Abbondava di idee, non di sensazioni o informazioni. Lasciava sempre intendere la presenza di un mondo da scoprire, perché c’era, ma era nascosto nelle apparenze di superficie. Tutto ciò di cui parlava rimandava ad altro, a una testualità diffusa, a un segreto comune che chiunque avrebbe potuto rivelare se solo avesse trovato le chiavi giuste. Non ci si aspetti di trovare nella sua scrittura una dimensione compiaciuta, né apertamente e banalmente didattica, la riduzione, magari brillante, a “bignamino” d’occasione; se c’è una caratteristica che affascina in essa è la costante non citabilità del testo, il non procedere aritmeticamente (se 2 + 2 = 4, la chiave di tutto è quel segno +, che nasconde e rivela allo stesso tempo). E raro trovare nelle sue pagine una frase che ne racchiuda didascalicamente il senso; quello che troviamo è semmai una frase che nasconde e al tempo stesso apre altre frasi, come un sentiero che tenda apparentemente a disperdersi e allontanarsi dalla linea retta, ma alla fine si riconduce - e mai apoditticamente - al proprio nucleo. Non esiste un nucleo, infatti, se non nella banalità riduttiva degli slogan, ma una sorta di magma razionale (“liquido”, si direbbe oggi - proprio come la sua

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prosa) in cui abbiamo tutti gli strumenti, più o meno nascosti, per ricostruire il senso, sapendo che ogni ricostruzione sarà inevitabilmente riduttiva e insuffi­ ciente. La sintassi di questa sorta di piano-sequenza di parole, rimandi, citazioni esplicite ed implicite, non sfiorava mai la didatticirà fulminante della paratassi, ma al contrario lasciava che immagini e pensieri affiorassero da un disordine ap­ parente, da un labirinto immaginario, da uno stile apparentemente dispersivo e quasi colloquiale, che alcuni definivano sistematicamente “brillante” - cosa che altrettanto sistematicamente lo irritava. Dopo tutto un omissis è più seducente di tante affermazioni nette e private del fascino dell’equivoco - e un manque cela e rivela quello che rimane del piacere della critica, ovvero dell’incontro fra ragione e passione, fra significazione e comunicazione. E proprio quest’ultima diventava il senso profondo di un labirinto apparente.

LA PIU GRANDE RIVISTA DI CINEMA Leonardo Quaresima

Partimmo da Bologna in quattro. L’auto, nuova, era di Guido. Ed era lui al vo­ lante. La meta: Bagni di Lucca. Appresi durante il percorso che l’Alma Mater aveva nella cittadina toscana un suo Centro Studi e soprattutto che... non eravamo diret­ ti in una località di mare. L’occasione era un convegno sul melodramma cinemato­ grafico. Noi tre eravamo stati reclutati da Guido. Il viaggio fu lungo, la guida tutta particolare. Io non ho mai avuto la patente, ma chi se ne intendeva riteneva che l’uso delle marce non fosse proprio canonico. Tuttavia il tempo volò rapidissimo, come sempre quando si è in compagnia di Guido. Ci furono anche problemi di localizzazione della destinazione, tragitti percorsi avanti e indietro, salite ripetute, chi se ne intendeva capiva che il motore era messo a dura prova... Appena arrivati (non c’erano ancora telefonini) ci avvertirono che per un contrattempo, per un qualche equivoco, nessuno sarebbe venuto. A parte gli organizzatori, dunque, noi quattro saremmo stati i relatori e il pubblico del Convegno. Guido non si scompose. Per nulla contrariato, era ben disponibile a far svol­ gere egualmente l’incontro (io, molto meno. Non ero affatto sicuro di quello che avevo preparato e l’idea di potermi sottrarre a un rischio era più forte della delusione di aver lavorato a un intervento per nulla). Finì che rinunciammo, an­ che se Guido accettò la decisione controvoglia. Passammo il resto del pomeriggio in una trattoria, assieme a chi ci aveva invitato e, ricordo, Sergio Staino, che mi guardava interrogativo e sospettoso a ogni battuta che facevo per cercare di vin­ cere il disagio (inesistente in realtà: la situazione era la più distesa, il problema era soltanto mio, per via del senso di sollievo e insoddisfazione, assieme). Guido aveva contattato altri relatori; aveva intrapreso un viaggio in più (la sua vita era

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quella del pendolare quasi giornaliero tra Firenze e Bologna); non era certamente un giovane debuttante: eppure la disorganizzazione, la mancanza di un uditorio non lo preoccupavano più di tanto. Il piacere di esporre le proprie idee e di con­ frontarle con altri - fossero anche i soli compagni di quel viaggio - non solo era prevalente, era l’unica cosa che contava e dava pieno senso anche a quella escur­ sione oltre Appennino. Ero ammirato. Per quell’occasione Guido aveva selezionato studiosi giovanissimi, dando loro, dando a noi, la più grande fiducia. Non si trattò di un’eccezione. Con lui questa era la norma. Era la cosa che mi aveva colpito di più, da subito, appena cono­ sciuto. L’incontro non era avvenuto in un’aula universitaria o nel suo studio, ma nelle riunioni di fondazione di Cinema & Cinema, di cui, con Adelio Ferrero e Lorenzo Pellizzari (tutti venivano da un’esperienza ormai impossibile in Cinema nuovo, dopo la rottura con Guido Aristarco), Franco La Polla, Giorgio Tinazzi e altri, era stato promotore. Da quelle riunioni la consuetudine degli incontri si era estesa anche a occasioni legate all’attività universitaria. E qui, oltre all’incre­ dulità e felicità di essere catapultato al centro di uno dei gruppi più prestigiosi dell’Ateneo, anglisti e americanisti, di cui Guido non era il solo ad avere anche curiosità cinematografiche, ciò che mi colpì era il modo con cui sviluppava le sue relazioni. A pranzo come nel suo studio, ciascuno aveva la stessa autorevolezza, lo stesso peso, la stessa legittimità a esprimere le proprie opinioni. Nei primissimi anni ’70 il clima egualitario, antigerarchico aveva aperto larghe brecce nel mondo e nelle consuetudini accademiche (almeno così sembrava a me, che frequentavo le aule del neonato Dams in Strada Maggiore 34, assai più di quelle di Ingegneria di Viale Risorgimento, tra il profondo scoramento dei miei). Ma l’atteggiamento di Guido non dipendeva da questo, non era il frutto di una scelta di aggiorna­ mento o di adeguamento, non era dettato dalle nuove circostanze. Era - si capiva benissimo - del tutto istintivo, naturale, prodotto dalla curiosità e attrazione per le voci, sensibilità, esperienze che incrociava, non importa se fossero di studenti, laureandi o giovanissimi appassionati di cinema. Nelle sedute di laurea, almeno quelle di area Dams, neppure lontanamente comparabili a quelle attuali, Dams o che altro, la discussione era reale, il candi­ dato veniva considerato (Umberto Eco non si stancava di ripeterlo ogni volta) il massimo esperto dell’oggetto che aveva studiato, la commissione era pronta a uno scambio di opinioni alla pari. La stessa cosa avveniva in quelle di anglistica o ame­ ricanistica cui partecipava Guido, e con una naturalezza di cui solo Eco o Roberto Leydi erano capaci. Anche l’attribuzione della stessa legittimità di opinione ai gio­ vanissimi correlatori, assai spesso coinvolti, era totale. Per me (che venivo da Viale Risorgimento...) già partecipare a queste commissioni era un grandissimo, im­ meritato, onore. Ma poteva anche capitare di vedersi nominato da Guido relatore

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d’ufficio per una tesi il cui relatore ufficiale era stato costretto all’ultimo momento all’assenza. E il ricordo di una nomina simile, nel caso di una tesi su Tolkien, resta indelebile. Dello scrittore inglese (non amavo il genere fantasy, e il limite ancora mi accompagna) avevo letto davvero poco; le domande alla studentessa furono, per forza di cose, generalissime, e la candidata non sapeva più cosa pensare. Guido era tranquillissimo, da qualche conversazione doveva essersi fatto l’idea che avessi frequentato anche questo terreno e mi aveva dato la massima fiducia. L’opposto si verificò per Antonioni. I suoi film li conoscevo meglio dei ro­ manzi di Tolkien, ma sul regista ferrarese non avevo mai scritto (o forse poche righe in un volume dedicato al paesaggio). E fu Guido a consentirmi di farlo. A Ferrara era stato organizzato un importante omaggio al regista. Un paio di relatori avevano accettato, poi declinato l’invito. Rimaneva scoperto, nella parte iniziale della sua carriera, il rapporto con il neorealismo. Tutto quello che Guido sapeva delle mie “competenze” era il risultato delle chiacchierate in comune, eppure mi ritrovai investito della responsabilità di una relazione e su un aspetto (pure a così grande distanza, si era all’inizio degli anni ’80) scivolosissimo e con­ troverso. Questa volta arrivai preparato. Tra le tante cose dimenticate di quegli anni, quelle pagine, inserite negli Atti, ebbero anche qualche benevolo riscontro. E Antonioni entrò stabilmente tra i miei ambiti di ricerca. Analogo il ruolo di Guido per la rivista (per molti protagonisti di quell’espe­ rienza Cinema & Cinema è ancora “la rivista”). La conduzione era stata da subito collegiale - e, di nuovo, un gruppo di giovanissimi era stato coinvolto nell’impre­ sa. Era bastato sentirci intervenire a una lezione - o a un’assemblea della Statale. Quando Guido ne assunse la direzione una nuova schiera di debuttanti si vide aprire le porte. I pezzi venivano minuziosamente corretti, talvolta anche riscritti, ma si offrivano occasioni per imparare; le idee, anche se formulate non proprio limpidamente, venivano raccolte e rilanciate; l’obiettivo era una rivista colta, di eccellenza; ma aperta, costruita valorizzando quanto di meglio veniva da giovani studiosi, appassionati. Anvur e VQR non esistevano ancora; scrivere di cinema era la risposta a una esigenza e a una spinta più forte del profitto che se ne poteva trarre. Oddio, non intralciava la possibilità di avvalersene per una carriera univer­ sitaria, ma non era questa la motivazione principale e diretta per nessuno - meno che mai per Guido, la cui collocazione accademica, se con il cinema non appariva inconciliabile, era comunque diversa. Certo, se ne potevano ricavare vantaggi concreti. Per esempio avere un accredito ai festival. Negli anni ’70 e ’80 - quasi impossibile oggi, quando se ne parla a lezione, che gli studenti riescano a capa­ citarsene - le possibilità di vedere film erano limitatissime e i festival svolgevano una funzione insostituibile. Il videoregistratore, quando arrivò, fu salutato come un dono portato da un altro pianeta: e nello studio di Guido iniziò a lampeggiare

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in continuazione il display di un VCR, tra lo sconforto di qualcuno di noi, che non si rassegnava all’idea che l’ora non fosse regolata, una volta per tutte... Un anno, un intero gruppetto della redazione aveva ottenuto l’accredito per Venezia, assieme a Guido (qualche anno prima eravamo stati ospitati addirittura al Des Bains...). A posteriori ricavo la data: 1982. Fu l’edizione della Mostra in cui si potè assistere alla sorprendente rivelazione di Greenaway. I misteri del giar­ dino di Compton House ci aveva incantati. Ma quanto doveva quella fascinazione al modo con cui tu, Guido, ce ne parlasti subito, alla fine della proiezione e nei giorni seguenti? Di lì in avanti la rivista avrebbe dedicato un’attenzione costan­ te e ammirata al cineasta inglese, facendone una delle sue bandiere. Cinema & Cinema, diretta da Guido, usciva allora nelle edicole, aveva Gianni Sassi come art director, era “la più grande” (in termini di formato l’affermazione era incon­ testabile: c’era Variety, certo, o, in casa, Il Giornale dello Spettacolo, ma non le consideravamo riviste)’, era la più grande rivista di cinema...

IL DEMONE DELL’ANALOGIA Sandro Bernardi

Se quello che dice Blanchot sul rapporto fra allievo e maestro, che secondo lui implica una distanza infinita e insormontabile, nella realtà quotidiana non è vero, questa distanza infinita si era però davvero tentati di crederla vera quando si parlava con Guido Fink. La ricchezza di idee e di riferimenti che sgorgavano dalla sua mente nella semplice conversazione, la vastità di orizzonti, capace di mettere insieme e di reperire analogie fra arti in apparenza così diverse come la pittura, il teatro, la letteratura, la musica, il cinema o la danza, e anche di collegarle a eventi attuali, come la politica, la cronaca quotidiana comune e straordinaria, la capaci­ tà di ritrovare esempi di ciò che accade quotidianamente nell’arte, nella letteratu­ ra come nel cinema, mi hanno fatto sempre pensare a qualcuno di superiore, che guarda tutto da un punto di vista lontanissimo, irraggiungibile. Tanto maggiore era allora la mia meraviglia quando mi telefonava per chie­ dermi informazioni su qualche problema teorico o qualche argomento narrativo, letterario o cinematografico: e ciò accadeva, nonostante la mia incredulità (pos­ sibile che non lo sapesse di già?). Eppure Guido non esitava a chiedere sugge­ rimenti, idee o particolari informazioni, considerandomi, considerandoci tutti come suoi amici, come suoi pari, con cui poteva avvenire solo uno scambio, mai una “erogazione”, come oggi si dice. Ma questo aspetto del maestro, che ti fa sentire o semplicemente credere (per­ ché non è vero, ha ragione Blanchot) di essere un suo pari, con cui avviene uno scambio e non una “erogazione” (mi sono sempre chiesto se il sapere sia “erogabi­ le” come il gas e se abbia lo stesso effetto letale), Guido riusciva sempre a crearlo: ci si sentiva uno dei suoi amici, uno dei suoi pari; andare a chiedergli una cosa era

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impossibile, si andava da lui per “chiacchierare”: era questa la forma che Guido riusciva a dare a ogni richiesta di aiuto, anche al più acrobatico e più faticoso, che passasse magari dalla mitologia alla letteratura contemporanea, dalla letteratura americana a quella italiana, francese o russa e così via. Lo svolgimento di ogni ricerca in forma di gioco mi ricordava sempre Platone, che definisce “paidià” (gioco, appunto) ogni esercizio di logica e di riflessione. E però Platone era famoso per essere un individuo molto robusto a differenza di Guido Fink. Se Platone “giocava” con i concetti, come faceva (questo mi do­ mandavo sempre) uno piccolino come Guido a fare la stessa cosa con la massi­ ma agilità? Forse appunto per questo, perché era più agile, poteva saltare da un riferimento all’altro attraverso gli scogli emergenti dell’analogia: l’analogia era il suo “gioco” preferito, e forse dobbiamo riconoscere che l’analogia è la forma più serrata e compatta della logica. Direi che Guido Fink era ispirato dal demone dell’analogia. Grazie a essa era capace di trovare l’uguale nel diverso e il diverso nell’uguale, a seconda che partisse dall’uno o dall’altro. Tutto questo potrebbe anche risolversi in un gioco, il gioco dell’analogia, del ritrovare sempre il familiare nel non familiare. Ma se pensassimo che il modello culturale di Fink fosse quello attualmente dominante, quello appunto dei giochi intellettuali fine a se stessi, come principio estetico tout-court, come nel citazionismo contemporaneo, espressione di una cultura troppo ricca per riuscire a pensare, secondo cui la citazione, il riferimento a qualcos’altro di simile vale solo per se stesso, e non per ricavarne una visione più complessa dell’oggetto, sarebbe un grosso errore, una grossa confusione. La lezione sapiente che ho ricavato da Fink, e di cui non sono ancora neppure sicuro di sapere approfittare, sia per la mia scarsità di letture, sia per la mia mino­ re lucidità di sguardo, era sempre questa: che la cultura e i sistemi delle analogie non sono affatto un gioco, ma un lavoro, una ricerca infaticabile dei modelli che stanno alla base del comportamento dell’uomo e della mente. Ciò che rimane analogo per Guido era il contenuto, la sostanza (per usare il termine nel senso aristotelico di materia sottostante gli attributi), ma quello che lo interessava era la variazione sul tema, poiché tutto cambia, anche se niente cambia, ovvero, cam­ biano le forme in cui gli stessi modelli si manifestano. La differenza impostata dai formalisti, ma prima ancora dai filosofi greci tra forma ed evento, fra sostanza e accidenti, era l’essenziale del suo gioco-lavoro, che si risolveva in uno sforzo infinito per capire le culture. Per questo motivo direi che per Guido Fink la nozione di “contesto” era fon­ damentale, e in questo possiamo anche avere un’idea della differenza nella somi­ glianza che il suo lavoro proponeva rispetto alle estetiche e alle filosofie classiche. Se nell’estetica classica di impostazione marxista il contesto è fondamentale in

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un rapporto di dipendenza fra struttura e sovrastruttura, nella visione del mondo di Fink (e questo era il suo lato più vicino alla modernità) il contesto è fonda­ mentale, ma in una situazione di assoluta parità fra struttura e sovrastruttura, tra influenze e discendenze. Il contesto che interessava a Guido era quello culturale assai più che quello materialista, anche se non ha mai messo da parte quest’ulti­ mo. Tutt’altro. Si trattava di saper collegare, connettere, vedere le derivazioni, le suggestioni, le analogie, certe volte stupefacenti, fra le manifestazioni della poe­ sia, dalla parola all’immagine. Come diceva Paul Valéry, i poeti in fondo dicono sempre le stesse cose, ma quello che conta è il modo in cui le dicono; così, per Fink, l’analogia era solo una profondità minore, di fronte a una sostanza ancora più profonda, la pelle, la superficie. E questo si potrebbe dire di tutti gli artisti. Per questo, l’idea di cinema proposta da Guido Fink era vecchia e insieme nuova. Un’idea di cinema che se dovessi riassumere in poche parole direi “cinema come arte e come cultura”, cultura nel senso pieno della parola, non solo come somma di conoscenze, ma anche come sistema di rappresentazione del mondo; cultura intesa come il modo in cui una società rappresenta (a se stessa e agli al­ tri) il mondo e se stessa, come la somma degli strumenti che una società ha e si procura per dare forma alle relazioni fra i suoi membri, o fra questi e l’esterno. Cultura come la forma imposta al mondo, e arte come elaborazione del mon­ do. Non quindi nel senso pseudo-marxista secondo cui la cultura sarebbe una sovrastruttura che cerca di conoscere il mondo per cambiarlo, ma in un senso più profondo della concezione marxista del mondo, secondo cui i termini del percorso vanno invertiti e l’arte è un modo di cambiare il mondo per conoscerlo. Cambiare il mondo per conoscerlo: potrebbe sembrare un paradosso, un gioco di parole, alla Unamuno, di quelli che gli piacevano tanto, eppure non è quello che facciamo anche ogni giorno semplicemente, quando “cerchiamo di capire” un avvenimento, o una piccola parte di quello che accade? Cerchiamo di dare alle cose una forma, che ce le renda più familiari, comprensibili, interpretabili e quindi conoscibili, per prolungare l’illusione di non vivere dentro un caos privo di forma e di logica, per continuare a pensare che il mondo non è “una favola raccontata da un idiota” come dice Macbeth, ma che invece c’è un metodo in questa follia, come direbbe Claudius. Non saprei dire se per Guido Fink il mondo avesse un senso, un metodo, ma posso dire con sicurezza che per lui la cultura era la ricerca di questo metodo, la sovrapposizione, l’imposizione di una forma a un mondo che forse ne è privo. Ma quale forma? Di nuovo qui si scivola nel paradosso, di cui Guido era amante: una forma senza forma. Un libro di Guido Fink, quello su Lubitsch, una volta venne definito da qual­ cuno: “una concezione del mondo”. E questo che intendo. Fink in quel libro

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descrive l’opera del grande maestro ebreo-tedesco-americano come un tentativo disperato di dare una forma a un mondo che non ha altra forma che il caos. Essere o non essere, il suo film preferito, era una trasposizione chiara della follia di Am­ ieto nei tempi moderni, la follia di chi cerca una logica dentro gli avvenimenti. C’è un’altra frase di Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, se­ condo cui l’educazione dei cinque sensi sarebbe il prodotto dell’intera storia uni­ versale. Il cinema, allora, che viene alla fine della storia, potrebbe essere il sistema delle arti, il loro impiego simultaneo, la loro sintesi. Potremmo dire che per Fink il cinema era il prodotto dell’intera storia universale occidentale. Ma non come creazione originale, ultima e perfetta, bensì come sogno secolare di una sintesi in cui potessero trovare il loro posto tutte le arti e convivere in un Parnaso del tempo e dello spazio. Fink vedeva nel cinema il prodotto dell’educazione dell’occhio e della mente operato in qualche migliaio di anni (dovrei dire milione di anni?) dalle altre arti. Non certo nel senso che il cinema fosse superiore alle altre arti, ma nel senso che il cinema le raccoglieva, consentiva loro di unificare i loro seducenti poteri, di unire le loro bacchette magiche per fare un ultimo grande esorcismo contro il nulla. La danza, la musica, la pittura, la letteratura - tutti i generi della letteratura - e soprattutto il teatro, naturalmente, in cui Guido Fink vedeva una sintesi ori­ ginaria, da cui potevano essere nate le arti. La musica, presente nel cinema non solo come ritmo di montaggio, ma anche come senso del tempo, elaborazione della durata in maniera significante ed espressiva; la pittura, come composizione dell’inquadratura, ma anche e soprattutto come modo di guardare il mondo: non è forse il quadro una forma imposta al visibile, di per se stesso prova di confini e di forma? I generi della letteratura, a cominciare dall’epica: che cosa di più epico del cinema americano, dominato dall’immagine dell’eroe, e del cinema di Ford, che egli considerava lo Shakespeare o l’Omero moderno, con i suoi eroi perdenti, i suoi Ettore contemporanei, come vedremo alla fine di questo discorso. La lirica: non era forse Fink un precorritore dell’idea di poesia visiva? Basterebbe leggere le sue pagine su Keaton e su Chaplin per vedere come siano dominate dalla conce­ zione del cinema come poesia visiva. Una poesia spesso dadaista: chi legge il sag­ gio di Fink “La struttura era un albergo” (1972), in cui metteva in luce il modo in cui le forme architettoniche cambiano continuamente di senso a seconda del procedere del racconto, vede come per lui il cinema sia una sintesi di poesia e di architettura. La scultura, poi, da cui il cinema sembra così lontano, è invece così prossima da avere dato a uno degli autori che Fink più amava, Tarkovskij, l’idea che il cinema scolpisce il tempo; ma scolpisce anche lo spazio, può allungarlo, restringerlo, configurarlo in tanti e tanti modi differenti. E poi il teatro, che cosa di più vicino al cinema, che cosa di più lontano, nello stesso tempo? Soprattutto in alcuni generi: commedia, tragedia, melodramma

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sentimentale. Secondo la poetica di Fink occorreva, occorre essere in grado di apprezzare non soltanto i grandi capolavori, ma anche i film cosiddetti minori e i “B” movies americani. Ma non come nell’estetica contemporanea, nel citazionismo postmoderno, che giustappone tutto a tutto, e che fa equivalere il più mo­ desto film western all’italiana (non dico Leone, ma che so, Corbucci) ai maggiori film di John Ford. Non in questo senso che coincide con una perdita del Canone, una rinuncia al principio di qualità, ma nel senso molto più complesso che un frammento di qualità si trova ovunque, che anche il peggior film o il peggior romanzo ha una scena o un’inquadratura, o una pagina di strana e conturbante bellezza, che rimanda poi a tante altre opere realizzate prima e dopo. Del resto, secondo la poetica di Fink non esisteva nemmeno la differenza tra film di prima o seconda qualità: esisteva la qualità, la qualità e basta, che si trova sparsa un po’ dappertutto, tanto che a volte valeva la pena di sopportare sequenze noiosissime per arrivare a trovare autentiche perle sparse. In qualunque film, anche nel più miserabile, secondo lui, si potevano trovare momenti di altissima tensione epica, lirica o melodrammatica, posto che l’epica, la lirica e la drammaticità non sono privilegio di alcuni grandi ispirati, ma sono proprietà di un popolo, di una cul­ tura che ne fa l’uso che vuole, ora dispersivo ora condensato. Alla poetica di Fink dobbiamo anche un concetto che è poi stato accettato universalmente e che ha avuto grande rilievo per comprendere la Hollywood classica del periodo fra gli anni ’30 e i ’60. Intendo il concetto di “lingua franca di Hollywood”. E qui possiamo comprendere quanto fosse diversa la poetica di Fink da quella contemporanea degli studiosi americani, come Bordwell, Thomp­ son, Staiger, che hanno definito Hollywood, relativamente alla standardizzazione e ai modi di produzione, come un’industria di qualità, ma anche di serialità (ricordo solo i quattro sistemi hollywoodiani da loro individuati: Studio System, Star System, Genre System, Continuity System) sulla base del sistema taylorista e della concezione fordista dell’industria moderna. Fink vedeva Hollywood in modo profondamente differente, molto più vicina alla Babilonia della Bibbia, o di John Ford. Una città in cui convergevano persone da tutti i paesi e da tutte le culture, una babele di infinite creazioni, germinanti da innumerevoli meticciati, da distanze e vicinanze coatte ma nello stesso tempo cercate e volontarie, quelle di cui parlava appunto Ford nel 1928. Lingua franca, di una zona franca, una terra di nessuno, una lingua, un’arte che non appartengono né all’Europa né all’America, perché sta fra le due. E la Hollywood degli innumerevoli immigrati, punto di vista privilegiato per osservare Europa, America, Asia. Un luogo reale, geografico che diventava un luogo della mente, un osservatorio per guardare se stessi: l’incarnazione insomma della diaspora e dell’antica espressione ebraica: “lontano da dove”. Tutt’altro quindi che una fabbrica, come l’hanno disegnata

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successivamente gli storiografi americani, nemmeno una fabbrica di sogni, ma piuttosto un autentico sogno, o un incubo, un luogo sognato. Oppure, utilizzan­ do e rovesciando una definizione ora tanto di moda, non certo un “non-luogo” ma anzi, un “super-luogo”, dove tutti i luoghi convergono. Il concetto di “lingua franca di Hollywood” è anche collegato al concetto di popular, molto differente dall’italiano “popolare”. Un concetto di cinema popular molto simile a quello di popular literature, che implica uno stile molto alto, alla francese, che include esempi grandi come le figure di Hawthorne, di Melville, Henry James o Balzac. Nella poetica di Fink in sostanza il popolare è sinonimo di creatività, d’invenzione, di ricchezza, non certo di imitazione, ripetizione, standardizzazione. Così i grandi nomi hollywoodiani erano popolari: Ford, Hitchcock o Lubitsch, ma anche Ulmer o Wyler, per il quale Fink aveva adottato la definizione di Bazin, “lo stile senza stile”, ma rovesciandone l’interpretazione, e aggiungendo la bella definizione “lo splendore del falso”; tutti costoro erano da considerare autori popolari, ricchissimi e semplicissimi nello stesso tempo. Per Fink infatti Wyler è il simbolo di tutta questa Hollywood, che nell’appiattimento apparente sa trovare il massimo della qualità, nella semplicità la condensazione più intensa di motivi e problemi, nella cancellazione di se stessi come autori la grandezza di una nuova forma e di una nuova poetica, non certo realistica, come pensava Bazin, ma stilistica. Seguendo Fink vediamo ancora oggi in Hollywood il laboratorio della cul­ tura moderna e contemporanea, che si sviluppa sempre più chiaramente nella direzione del “melting pot”. In questo senso Hollywood potrebbe anche essere paragonata al “Mondo Nuovo”, quella scatola ottica che sta di diritto fra le ante­ nate del cinema, che veniva portata a spalla nel Settecento e nell’ottocento dagli ambulanti e che serviva a trasformare in leggenda i fatti della storia. Rappresentate dentro al Mondo Nuovo, portate in giro da uomini di ogni paese, la Rivoluzione Francese, le campagne napoleoniche, mostrate e raccontate a chi non sapeva leg­ gere né scrivere, subito cadevano in leggenda. “Print the legend”, avrebbe detto un personaggio di John Ford. Per Fink la leggenda è la verità nascosta dietro la realtà, e questa non è che lo scenario, il fondale dipinto davanti al quale si rappresenta la leggenda. Hollywood ha creato una nuova forma di coalescenza fra il reale e l’im­ maginario, fra la Storia accaduta e quella vissuta, fra i fatti e la loro rappresenta­ zione. Se volessimo a questo punto fare un paragone fra Fink e Lacan, non sarebbe certo difficile. Ricordiamo quello che dice Lacan: che nel punto d’incontro fra il reale e il simbolico c’è l’odio (la scienza, la volontà di dominare il mondo) mentre nel punto d’incontro fra il reale e Fimmaginario c’è l’amore (l’unione affettiva che ignora le differenze). Seguendo la poetica di Fink potremmo dire che nel punto d’incontro fra il reale e l’immaginario c’è la poesia, l’arte come atto d’amore verso

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il mondo, un’arte che trasforma il mondo per amarlo, un’arte che lavora per fare del vasto mondo una casa, adatta all’uomo. L’arte e in particolare il cinema, un’ar­ te che sa amare l’altro, interessarsi, non dominarlo, come cerca invece di fare la scienza (ovvero il simbolico come sistema conoscitivo). A questo proposito vorrei solo ricordare un’idea che lui mi ha regalato, che poi è diventata, grazie a lui, un convegno e un libro, intitolato Storie dislocate. E un convegno che abbiamo progettato insieme, ma da un’idea sua, nel 1997. “Perché - suggerì Fink - non proviamo a studiare i film che raccontano storie tratte da romanzi spostandole nello spazio e/o nel tempo rispetto alla collocazione in cui sono state scritte?” In questo convegno abbiamo parlato dei tanti adattamenti di Madame Bovary, dalle ambientazioni ottocentesche tradizionali a quelle appun­ to “dislocate” come il film La valle del peccato di Manoel De Oliveira, dei tanti adattamenti di Jules Verne, in tempi ed epoche completamenti diversi, dai viaggi immaginari di Méliès ai film classici americani; abbiamo parlato di Pirandello nelle versioni italiane, americane, di altri paesi. Insomma una riedizione del cro­ giuolo, del continuo, infinito melting pot in cui Fink vede l’essenza della cultura, l’incontro delle differenze, l’abbraccio delle differenze, la loro sovrimpressione. E c’era anche Fink, al convegno, a parlare naturalmente di Amleto e delle sue infinite edizioni e rielaborazioni. Credo che l’idea gli fosse venuta proprio da quest’opera, che è forse la più “dislocata” di tutti i tempi, almeno nella cultura occidentale. E credo proprio che, per Fink, l’Amleto più bello fosse quello reci­ tato in modo apparentemente casuale, ma in effetti sostanziale, nei film di John Ford, soprattutto quella parte di monologo recitata da Doc Hollyday in Sfida infernale. Ricordiamo quella scena in cui un cattivo attore ambulante, trombone, ciabattone, ma molto simpatico e ubriacone, arriva a Tombstone e comincia a recitare in un bar il monologo: “Essere o non essere...”, ma dopo i primi versi s’incaglia, dimentica il seguito. Allora dal fondo del saloon un altro ubriacone, ma colto e raffinato, Doc Hollyday, lo continua al suo posto, facendone non solo un grande pezzo di teatro che diventa poesia sull’uomo e sul suo destino di nullificazione (dato che Doc sta parlando, anche se ancora non lo sappiamo, di se stesso e della propria morte). Credo che Doc Hollyday sia stato per Fink non solo una sintesi della sua poetica, ma anche una concezione della vita: Doc Hollyday, pistolero raffinato, che getta via, spargendola così a caso la sua cultura come faceva proprio Guido Fink, Doc Hollyday simbolo dell’America, che non è nessuno ma è tutti gli uomini in nessun posto e dovunque, e anche Ettore moderno, l’eroe dei giorni nostri, perdente destinato a una vita eterna: “E tu onore di morte Ettore avrai..Il romantico Fink è foscoliano e vede nella figura del’eroe perdente un simbolo dell’uomo che percorre il mondo alla ricerca di un posto dove recitare la sua parte e poi morire.

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Questa cosa credo di averla capita quando nel 1993 ricevetti una cartolina da Guido, che allora stava insegnando in America. Era appunto una fotografia di Doc Hollyday, che sul retro, oltre alla firma di Guido, recava anche una scritta: “Doc Hollyday, gambler, gunfighter, dentist”. Non è forse questo un ritratto di Guido Fink, giocatore che gioca con l’intelletto e con la morte, pistolero che lotta contro l’ingiustizia, dentista, nel suo piccolo ufficio all’università, dove toglieva agli studenti i denti cattivi e otturava le carie dei cervelli malati? Un Guido Fink sempre lontano da casa, ma lui ci avrebbe chiesto: “Dov’è casa?”

LA CHIUSURA DEL CERCHIO Ermelinda M. Campani

Il ritratto che intendo tracciare di Guido Fink passa attraverso esperienze che sono sia professionali sia personali, ma tutte vissute in prima persona; e dunque mi scuso fin da ora se nel raccontare di lui sono costretta a raccontare un po’ anche di me. Sono arrivata all’Università di Bologna da un liceo di provincia e sono arrivata in ritardo di almeno un paio di settimane rispetto all’inizio delle lezioni essendo, già dalla metà della quinta superiore, madre di un bambino, ora un uomo, Nicolò. In avanscoperta per me, in via Zamboni al 38, erano andate le mie compagne di classe che con me avrebbero avuto un appartamento in affitto a Bologna per tutti gli anni dell’università. Ricordo perfettamente quando al telefono mi lessero l’ora­ rio e la lista di quelle che sarebbero state le mie lezioni nella Facoltà di Lingue e Let­ terature Straniere Moderne. Tra i corsi, ce ne era uno di letteratura anglo-americana il cui docente era un certo Guido Fink. Poiché il corso era indicato come comple­ mentare e io non sapevo nemmeno che cosa fosse la letteratura anglo-americana, decisi di starmene alla larga e di concentrarmi invece sui corsi fondamentali. Tra questi corsi, c’era ovviamente la letteratura inglese (per me materia quadriennale) che avrei seguito con Franco La Polla, visto che era a lui che toccavano i cognomi la cui iniziale era compresa nella prima metà dell’alfabeto. Guido Fink e Franco La Polla, per vie molto diverse, sarebbero diventati i due personaggi in assoluto più influenti nella mia vita accademica bolognese prima, e in quella americana poi. Diversi per carattere, per scelte e per gusti, Guido e Franco per me sono state due figure straordinariamente formative. Ma appunto erano molto diversi. Per Guido la traduzione italiana di decade era “decennio,”

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per Franco era “decade;” Franco amava a dismisura la serie originale di Star Trek su cui aveva incentrato un improbabile quanto bellissimo corso di Letteratura Inglese (di quarto anno) e Guido si divertiva a sottolineare di non aver mai visto nemmeno un episodio di quella serie. Con Franco, ho seguito tanti corsi. Con Guido, nemmeno uno. Con Franco ho scritto la tesi di laurea sui libri di Robert Coover (in particolare, A Night at the Movies, 1987); Guido è stato il mio pun­ tualissimo e attento correlatore al momento della discussione della tesi. Già a partire dal secondo anno di università, però, mi ero amaramente pentita di non aver seguito nemmeno un corso con Guido, perché i miei compagni di studi ne parlavano straordinariamente bene e uscivano dalle sue lezioni comple­ tamente soggiogati dalla sua coinvolgente retorica, dalla sua ironia, e dalla sua conoscenza sterminata (solo più tardi ho saputo che i colleghi di Guido lo avevano soprannominato La Bibbia, a indicare che lui era una sorta di compendio di co­ noscenza, in lui c’erano tutti i libri). Allora, per mettere riparo a ciò che continuo a considerare un grave errore, e poiché il mio piano di studi a quel punto non mi consentiva più di seguire corsi con Guido, avevo preso ad andare a sentire i suoi esami. Ne ricordo moltissimi. Qui ne cito uno solo. Nella sua stanza in via Zam­ boni 16 Guido interrogava uno studente su The Fixer (1966), il quarto romanzo di Bernard Malamud e quello che gli valse il premio Pulitzer per la fiction'. Guido nel porre le sue domande, in realtà, faceva sempre una sorta di lezione, come in questo caso, quando si mise a parlare della straordinaria prosa di Malamud e di quanto potentemente riuscisse a trasmettere il senso profondo dell’umano. Argo­ menti verso i quali l’esaminando mostrava assoluto accordo con Guido, a giudi­ care almeno dai cenni di assenso con cui accompagnava ogni sua affermazione. Sì, perché fino a questo punto non era ancora uscita una parola dalla sua bocca. Guido cercò allora di coinvolgerlo su altri temi, ad esempio sulla Kiev del 1911, evocata così drammaticamente nel romanzo attraverso le paure e le con­ traddizioni che la solcavano e che percorrevano un intero periodo storico, quello a cavallo tra la rivoluzione del 1905 e la caduta dell’ultimo czar. Anche questo non produsse significative reazioni nello studente e dunque fu Guido a rispon­ dere alla sua stessa domanda e a raccontare del precario clima politico dell’epoca, della paranoia che aveva dato la stura a una cultura dell’odio e a paure che, fino ad allora, erano state più o meno latenti. Da ultimo, Guido chiese allo studente di parlare un po’ di Yakov Bok, il protagonista del romanzo. Lo studente in que­ stione, che doveva aver letto solo molto sommariamente il libro di Malamud, non ne infilava una giusta e non ricordava nemmeno che cosa facesse Yakov per 1 Ricordo qui un articolo di Guido in una collettanea dedicata a Malamud che avevo letto dopo quella sessione di esami: Guido Fink, “‘Ecco la chiave’-. Malamud s Italy as the Land of Copies”, in J. Salzberg (ed), Critical Essays on Bernard Malamud, G. K. Hall, Boston 1987, pp. 151-65-

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vivere. Guido, credendo di aiutarlo, gli chiese allora quale fosse la traduzione in italiano del titolo del libro: “che cosa significa The Fixer, come si traduce in ita­ liano?” gli domandò. Avrà pensato che in effetti la traduzione letterale del titolo avrebbe dato allo studente la risposta che cercava, gli avrebbe cioè chiarito che lavoro faceva Yakov. Lo studente rispose, “il fissatore”. E facile dunque prevedere come andò a finire l’esame. Partecipavo anche alle numerose conferenze che Guido organizzava e dove avevo incontrato Stephen Greenblatt e Gavriel Moses, per citare solo due dei molti studiosi che spesso facevano visita al nostro dipartimento. Infatti, Guido e Franco riuscirono a dare un respiro fortemente internazionale ai nostri anni uni­ versitari e molti dei loro colleghi, specialmente americani (ma non solo, c’erano anche straordinari personaggi italiani, da Guido Almansi a Gianni Celati), veni­ vano spesso a Bologna. Mi ricordo del grande regalo che Guido mi fece quando mi chiese se avessi potuto far fare un giro del centro di Bologna a Stephen Gre­ enblatt. Per me fu un pomeriggio indimenticabile. Gli anni universitari sono passati piuttosto velocemente e con grande spen­ sieratezza. Le frequenti e prolungate incursioni notturne nelle storiche osterie di Bologna, con la musica dal vivo, e le serate trascorse a cantare James Taylor con Franco La Polla alla chitarra, nonché i pranzi a casa di Franco in via Indipenden­ za, fatti di piatti diversi (spesso etnici), ma tutti con lo stesso comun denomina­ tore, il peperoncino, hanno lasciato ricordi indelebili e pieni di gioia. Mi sono laureata a marzo del 1988 e il settembre dello stesso anno sono par­ tita per gli Stati Uniti incoraggiata tanto da Guido quanto da Franco. Fu proprio Guido a mettermi in contatto con un professore di Brown che passava lunghi periodi a Bologna, Tony Oldcorn. E fu Guido a suggerirmi di far domanda per la graduate school a Brown dove, tra l’altro, a insegnare creative writing c’era proprio l’autore su cui avevo scritto la mia tesi, Robert Coover, che, nel frattempo, avevo incontrato (grazie a Franco) a Venezia dove con la moglie Pilar stava trascorren­ do un anno sabbatico mentre scriveva un suo altro romanzo, Pinocchio in Venice (1991). Brown University è diventata la mia altra alma mater, è lì che ho conse­ guito un Master e poi un Ph.D. E a Brown sono arrivata grazie allo sconfinato amore per la letteratura, per il cinema e per l’americanità, che avevo coltivato sotto la guida di Franco e di Guido. Finiti tutti i corsi del Ph.D. e anche gli esami preliminari, sono tornata in Italia con un lavoro al Programma di Brown a Bologna e la necessità di mettermi a scrivere la dissertazione. Avendo completato tutti i corsi e gli esami, inclusi i preliminari, ero una abd, cioè all but dissertation. Ricordo perfettamente un pranzo nella casa di Guido e Daniela immersa nel verde, sotto Fiesole, in via della Piazzuola. Fu nel corso di quel pranzo che decisi su quale argomento avrei scritto

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la dissertazione per il mio dottorato. Guido, senza mezzi termini, mi suggerì di scriverla su Bernardo Bertolucci, il cui cinema apprezzavo e conoscevo già abba­ stanza bene, senza però aver mai pensato di farne oggetto di studio meticoloso e sistematico. Guido non si limitò a incoraggiarmi in questo senso. Mi indicò precisamente come contattare Bernardo. La strada era, non sorprendentemente, quella ferrarese. Mi disse della lunga amicizia che legava Giorgio Bassani ad Atti­ lio Bertolucci e dunque mi suggerì di rivolgermi allo stesso Bassani (che era stato suo insegnante supplente nella scuola elementare ebraica di via di Vignatagliata a Ferrara) perché lui parlasse con Attilio e Attilio con Bernardo. Portia Prebys, la compagna di Bassani, era mia amica e anche amica dei Fink. Fu così che, grazie al suggerimento e all’aiuto di Guido, riuscii non solo a intervistare Bernardo Bertolucci, ma ebbi anche la fortuna di averlo come primo e attentissimo lettore della mia dissertazione. Andavo a incontrarlo a Roma, a casa sua in Trastevere, e lui commentava il mio manoscritto e parlava dei suoi film. Guido, nel frattempo, mi prestava di continuo pellicole che avrei dovuto ve­ dere per meglio capire la filmografia di Bertolucci e mi consegnava intere annate di Cinema & Cinema (la rivista che aveva ideato insieme a Adelio Ferrero e a Lo­ renzo Pellizzari e che poi aveva anche diretto per anni), e di Bianco&Nero, perché lì avrei trovato interviste, recensioni e informazioni utili alla stesura finale del libro. Confesso che molte di quelle riviste e di quelle videocassette (che Guido registrava da Raitre a orari impossibili della notte) non gliele ho mai restituite! La tesi di dottorato andò molto bene e presto diventò il manoscritto del mio primo libro, la cui presentazione vide la presenza di Bernardo Bertolucci, Franco La Polla e, ovviamente, Guido Fink. Nel frattempo, io avevo preso a lavorare per Stanford University, sia in qualità di direttore del Programma italiano con sede a Firenze, sia in qualità di docente di cinema. Nel corso degli anni ’90, insegnavo a Firenze per due trimestri e sul campus nel terzo trimestre. E fu proprio a Firenze che, nella biblioteca dell’Università del Programma di Stanford, trovai un altro regalo di Guido: tanti libri di cinema insieme a una serie straordinaria di dispense. Posso confessare adesso che il programma di uno dei miei primi corsi, quello che era dedicato alla storia del cinema italiano, lo stesi sulla base delle dispense che Guido aveva lasciato a Stanford, dove egli stesso aveva insegnato il cinema italiano anni prima. C’erano tutti gli articoli e i film di cui avrei avuto bisogno. C’era un’ampia saggistica e una altrettanto completa filmografia che percorrevano tutto il grande cinema ita­ liano, a partire da Cabiria (Pastrone, 1914) attraverso il neorealismo di Rossellini e di De Sica, e poi Visconti, Antonioni e Fellini fino alla filmografia degli anni ’70 e ’80. Insomma, in quelle dispense e tra quelle videocassette avevo trovato il programma di un corso già perfettamente tracciato.

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Ciò che mancava da quella bibliografia (non sorprendentemente, data la gran­ de modestia di Guido), erano i suoi articoli e le citazioni dai suoi volumi, dei quali però io ero a perfetta conoscenza e che dunque somministravo opportuna­ mente ai miei studenti. Alcuni “classici” finkiani mi venivano in soccorso tanto quando facevo lezione sul cinema italiano degli anni ’30, in particolare Mario Camerini, tanto quando discutevo del ruolo del cinema americano in Italia, so­ prattutto nel secondo dopoguerra (Fink 1980), quando leggevamo Mario Soldati (Fink 1986), ogni volta che proiettavo II Giardino dei Finzi-Contini (Fink 1988), o quando volevo far conoscere Firenze ai miei studenti attraverso i film ivi girati (Fink e Bernardi 2005). Volumi come Non solo Woody Alien: la tradizione ebraica nel cinema americano (2001), le due monografie della serie “Il Castoro cinema”, dedicate rispettivamente a Ernst Lubitsch e a William Wyler (quest’ultima valse a Guido il prestigioso Premio U. Barbaro) o la monografia dedicata a Robert Altman e non ultima la sua Storia della letteratura americana (1991), sono stati per me testi seminali che mi hanno insegnato dei contenuti ma anche un metodo di ricerca e uno stile. D’altra parte, Guido è sempre stato un critico e al contempo uno scrittore, è sempre stato un grande affabulatore, quando raccontava il cinema, il teatro o la letteratura. Molte domande e molte discussioni su questi volumi ho potuto intrattenerle con Guido di persona perché, nel corso degli anni ’90, avevo la fortuna di incon­ trarlo insieme a Daniela piuttosto spesso a Firenze. Ricordo incontri conviviali nella loro nuova casa, quella di via Stoppani, i pranzi frugali aH’Osteria delle Belle Donne, le serate estive al cinema all’aperto al Forte Belvedere, o quelle al Teatro Romano di Fiesole per gli eventi collegati al Premio Fiesole ai Maestri del Cinema. Poi, credo che fosse più o meno il 1999, Guido e Daniela partirono per per Los Angeles, dove Guido sarebbe diventato uno dei più amati e memorabili Direttori dell’istituto Italiano di Cultura. Ricordo che Guido mi raccontava compiaciuto e commosso il fatto che Daniela, pur non avendo la patente (assolutamente ne­ cessaria in una città come Los Angeles), aveva accettato con entusiasmo (lui di­ ceva scherzosamente “con assoluta incoscienza”) l’idea di trasferirsi lì per qualche anno. Guido ha lasciato un ricordo indelebile a Los Angeles. Lo so perché amici e colleghi di UCLA, Thomas Harrison ad esempio, ancora oggi ne parlano con gratitudine e nostalgia; e lo so perché una mia ex-studentessa era una intern all’i­ stituto proprio durante la direzione di Guido. Mi ha raccontato che Guido aveva portato le iscrizioni dei corsi di Lingua Italiana all’istituto da 80 a 800, mi ha detto che le presenze annue agli eventi che organizzava superavano le cinquemila unità, ha aggiunto che grazie a Guido hanno organizzato straordinarie retrospet­ tive dedicate al grande cinema italiano: Olmi, Germi, Zurlini, Taviani, Petri, Mastroianni, Fellini e Antonioni (Guido aveva perfezionato una collaborazione

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che coinvolgeva Cinecittà Holding, Renzo Rossellini, il Festival di Palm Spring, l’American Film Institute, lo UCLA Film and Television Archive e l’American Cinematheque). A Los Angeles, Guido ha proiettato il cinema italiano fatto di classici e di film d’archivio, ma anche le pellicole di allora giovani registi come Campiotti, Muccino, e Tavarelli. Guido e Daniela erano a Los Angeles quando un loro grande amico, Roberto Benigni, vinse l’Oscar per La vita è bella (1998). Anche nel caso di Benigni, so quanto profonda sia la loro amicizia. Tornato da Los Angeles, a Guido venne conferito un prestigioso premio da parte dell’associa­ zione che riunisce tutte le Università americane in Italia, l’AACUPI (Association of American College and University Programs in Italy). E un premio che riconosce stu­ diosi e personalità che hanno dato un contributo straordinario e fattivo ai rapporti tra l’Italia e gli USA, nonché alla diffusione della cultura italiana oltreoceano e di quella americana qui da noi2. Guido il professore, il saggista, il critico cinemato­ grafico e il direttore dell’istituto Italiano di Cultura era il candidato ideale. Per la cerimonia di conferimento del premio, l’AACUPI decise di coinvolgere studiosi e amici di Guido. Chiesero a me di intervenire, ma io suggerii anche i nomi di Franco Minganti e di Roberto Benigni, al quale avevo già lasciato un messaggio a proposito del premio attraverso Cristiana Caimmi. A riprova del forte affetto che lega Benigni a Guido fù la delicatezza con cui Benigni volle comunicare la sua im­ possibilità a partecipare. Non mi fece recapitare un messaggio da Cristiana ma mi telefonò di persona per raccontarmi della sua amicizia con Guido e per esprimere tutto il suo rammarico per l’impossibilità di venirlo a onorare. Recentemente, Guido mi ha fatto un altro grande regalo. Un paio di estati fa, io e Daniela abbiamo passato in rassegna la sola parte cinematografica dell’im­ mensa biblioteca di Guido, e la sua videoteca. In quella occasione, mi sono pas­ sati tra le mani volumi straordinari, impensabili, mi sono venuti in mente ricordi accademici e personali, ho avuto la possibilità di appuntarmi titoli di saggi e di articoli e di farmi una sorta di bibliografia personale basata su quella di Guido. E ho percorso capillarmente la storia del cinema occidentale attraverso le videocas­ sette che Guido teneva in un ordine assolutamente perfetto. E stata un’esperienza molto emozionante. Ho sentito il privilegio che viene dall’aver avuto libero ac­ cesso alle “fonti” di Guido, e ho provato una forte commozione mentre sfogliavo i suoi libri o mentre passavo in rassegna i titoli dei suoi film. E stato come aver seguito tutti i corsi di Guido che avevo perso negli anni universitari bolognesi. E per me ha chiuso il cerchio. 2 Ecco come recitava la parte iniziale della motivazione del premio: “We are gathered here today to honor Guido and to thank him for the vast waves of intercultural exchange between Italy and the Unites States of America that he inspired, instigated, facilitated and achieved throughout his long, fruitful life and that he continues to promote today on many levels of international interaction” (Premio AACUPI 2004, a Guido Fink).

TRANSMEDIA STORYTELLER Leonardo Gandini

Molto prima del web, molto prima delle narrazioni spalmate su vari media, Guido Fink faceva dell’intermedialità il punto di partenza del suo approccio alla cultura. Dati i tempi (gli anni ’80, almeno per quanto mi riguarda), non è tanto importante che sapesse muoversi con disinvoltura fra cinema, letteratura e teatro (con occasionali digressioni in ambiti ulteriori), quanto che lo volesse fare, per individuare temi e figure che attraversavano film, romanzi e drammi e per met­ terne in risalto le linee comuni e quelle divergenti. A emergere era soprattutto un metodo, uno stile transfrontaliere e nomade di rapportarsi alla produzione este­ tica, felicemente ignaro dei confini che separano le singole discipline artistiche. Tutto questo in un’epoca in cui andavano di moda (anche troppo) le rifles­ sioni intellettuali sul cosiddetto “specifico filmico” (o cinematografico), che tra­ divano l’ansia di cintare il campo del cinema, distinguendolo dal teatro e dalla letteratura; dove intanto avvenivano, o si erano già svolte, analoghe operazioni in difesa della purezza della disciplina, perlopiù improntate a forme di discrimina­ zione contrabbandate da rigore metodologico. Sotto questo punto di vista Fink era un alessandrino, nel senso pieno del termine: per lui i confini non esistevano, le discipline andavano frequentate con spensierata ubiquità, perché proprio da qui nasceva la possibilità, attraverso il confronto, di coglierne i tratti tipici, le caratteristiche di fondo. Per me, allora semplice studente, questa è stata una lezione importante, direi fondamentale: un punto di riferimento cui aggrapparsi tutte le volte in cui mi imbattevo in pensie­ ri (e, ahimè, in pratiche) accademici che raccomandavano di studiare il cinema in maniera monodisciplinare, quindi monocorde e monotona, senza provare a guardare oltre il suo territorio.

COSA VUOI FARCI, E FINK! Moni Ovadia

Il mio vuole essere poco più che un saluto, una brevissima riflessione su una figura di intellettuale, studioso, critico ed essere umano di straordinaria statura, impegnato sia nell’ambito civile, sia in quello culturale. Per me Guido è stato anche e soprattutto un amico, una di quelle figure che trasformano gli orizzonti della tua vita. Durante la nostra lunga amicizia non ho avuto modo di conoscere a fondo il grande anglista, ma ho apprezzato e attinto alla sua sconfinata cultura nel campo della cinematografia statunitense e dello show business americano e nel suo specifico - dell’ebraismo diasporico statunitense e della sua relazione con la storia e la società del Nuovo Mondo. Ricordo ancora oggi la prima volta che lo vidi: fu quando apparve in televi­ sione per raccontarci il genio di Ernst Lubitsch. La Rai di allora ci offriva queste magnifiche monografie e lui ci conduceva per mano all’interno del percorso arti­ stico e delle caratteristiche espressive del grande regista. Fece lo stesso anche nei suoi scritti, focalizzandosi su altri registi e, in generale, su tutto il fenomeno del cinema ebraico-statunitense. Fu in seguito, quando lo incontrai di persona, che diventammo amici e forse qualcosa di più, quasi un piccolo nucleo familiare: io, lui, sua moglie Daniela e suo figlio Enrico con il quale ho stretto poi un sodalizio artistico. Ricordo che veniva sempre a seguire i miei spettacoli con puntualità e grande generosità. Poi, un giorno è apparsa la sua pietra miliare, un volume con un titolo non proprio felice - Non solo Woody Alien - un’opera straordinaria per capire una certa temperie culturale degli Stati Uniti che ha determinato una parte significa­ tiva di ciò che è diventato il nostro immaginario. Questo saggio ci ha condotti,

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attraverso analisi e intuizioni acutissime e luminose, nella grande avventura della cultura ebraica nelle sue sfaccettate declinazioni, attraverso le diverse forme nelle quali si è cimentata - in particolare il cinema - segnando l’intero Novecento. Per me leggere quel libro, che presentai con lui a Bologna, è stato fonte di grande arricchimento e ispirazione per un mio viaggio rapsodico, fatto di parole, di musica e di canzoni, attraverso quello straordinario meticciato tra la cultura ebraica della diaspora - nella fattispecie della diaspora centro-est europea - e quella del meltingpot statunitense, che ha così profondamente segnato quel paese. Da questo viaggio è germinato un mio spettacolo intitolato “Es Iz Amerike”, titolo di una canzone di Aaron Lebedelf, “Wot Ken You Makh? Es iz Amerike!”, che vuol dire “Cosa vuoi farci, è l’America!” con il testo in yinglish, yiddish me­ scolato all’inglese. Mi sono cimentato in una sorta di percorso molto libero e anche un po’ ciar­ latanesco, addentrandomi in quell’epopea, cosa che tuttavia non mi sarebbe stata possibile con i miei modesti mezzi, se non avessi fatto l’incontro folgorante con Guido Fink. Guido è stato per molti di noi un intellettuale e un maestro che ha illuminato orizzonti culturali con un acume, una finezza, una capacità di analisi e di lettura rimasti esemplari, perché assomma in sé caratteristiche rare in una sola persona: è un uomo con una tempra etico-civile adamantina unita a una straordinaria gra­ zia, che sa coniugare passione intellettuale con la capacità di cogliere i fenomeni culturali e sociali nel loro incontro e nel loro farsi, sempre con grande sense of humour e una specialissima ironia. Questo è il mio breve saluto ed è anche il mio riconoscimento alla figura dello studioso, dell’essere umano, dell’uomo impegnato nella comprensione di questo mondo e di alcuni dei suoi fenomeni più entusiasmanti. Mi manca, ci manca la presenza attiva di Guido, il suo sguardo intelligente e lungimirante; manca la sua vicinanza che ci conforti in questa temperie volgare e superficiale uscita da un mondo davvero mediocre e deprimente come quello in cui stiamo vivendo. Lui, con la sua sola presenza e le sue sole parole, sarebbe in grado di mostrarci che oltre l’attualità c’è un cammino dell’essere umano che vale la pena di essere conosciuto, indagato e studiato per fare di noi degli uomini più ricchi e meno banali.

PARTE III DI SCRITTURE E NARRAZIONI

GUIDO FINK REDATTORE DI PARAGONE Fausta Garavini

e

Alessandro Duranti

L’immagine di Guido che si presenta a chiunque l’abbia conosciuto è simile a un prisma cristallino, iridato, che irradia luci e colori diversi. E un’immagine perfino banale: tutti conosciamo la sua attività poliedrica. Una delle facce del prisma è il suo ruolo di redattore di Paragon e-Letteratura, la rivista fondata da Roberto Longhi e Anna Banti nel 1950 con intento e ritmo gemellati (un numero di arte, un numero di letteratura, dove arte del pennello e arte della penna vengono messi a “paragone”). E grazie a Paragone che ho conosciuto Guido - ma ho potuto presto ap­ prezzarlo anche in altre vesti, sia di amico, sia di studioso: tant’è che quando si liberò, alla Facoltà di Lettere di Firenze, la cattedra di Letteratura inglese che era di Giuliano Pellegrini, feci quanto era nelle mie possibilità perché Guido fosse il candidato prescelto (cosa che non so se i suoi colleghi e allievi bolognesi mi abbiano mai perdonata), auspicando che nell’aria grigia e stantia del mondo ac­ cademico Guido portasse - come avvenne - una ventata fresca, una voce vivace, brillante, puntuta. Ma questo è successo assai più tardi, nel 1989. Era invece il 1962, cioè venti­ sette anni prima, quando Guido pubblicò il suo primo contributo su Paragone, uscito nel numero di ottobre: “Appunti su Viridiana (con postilla su Truffaut)”. Fink esordì quindi non da anglista o da americanista, ma da critico di cinema - e forse invece di critico, con quel che di togato la parola sempre comporta e che riesce difficile associare a una mente e a una penna come quelle di Guido, sarebbe meglio dire scrittore di cinema. E spiritoso scrittore. Basti l’esordio: “Premiato a Cannes nel 1961 con il massimo riconoscimento (sia pure condiviso, forse per

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fare deH’umorismo, con Une aussi longue absence di Colpi)...”. In quell’inciso tra parentesi credo ci sia già tutto lo humour, giustappunto, di Guido. Io invece cominciai a collaborate alla rivista l’anno successivo, nel 1963. Gui­ do entrò poi in redazione, come segretario, nel 1968 (i redattori all’epoca erano Anna Banti, Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci, Giulio Cattaneo, Cesare Garboli, Aldo Rossi, Vittorio Sermenti, Giovanni Testori), io nel 1972, Duranti nel 1974 e da allora abbiamo lavorato insieme. Duranti, da segretario entrante, ricorda che, a parte le riunioni istituzionali al Tasso di via Fortini, la villa di Longhi e della Banti, si incontrava in privato col segretario uscente a casa sua, in via della Piazzuola, per problemi di bozze e più in generale per consigli di galateo su come muoversi in una redazione tanto illustre e in particolare con la Signora Banti (che mai per lui - né per Fink - fu Lucia come per i più intimi), su cui gli erano stati dati avvertimenti terrorizzanti. Ricorda Duranti che Guido contribuì non poco a tranquillizzarlo, in particolare proprio sulla Banti e sulle molte leggende ingiustificate circa la sua terribilità, e che fossero davvero leggende ebbe poi modo di constatarlo di persona nei non moltissimi anni che la frequentò, perché la Signora, almeno con lui, fu sempre gentilissima e premurosa. Guido lo avvertì solo che avrebbe dovuto abituarsi alle sue telefonate molto mattiniere sull’/^r redazionale della rivista. E in effetti si abituò a quella sveglia quasi quotidiana. C’è un aneddoto che Guido raccontava spesso e che ha consegnato in un’in­ tervista raccolta da Beatrice Guarneri, una studentessa che aveva fatto una tesi di dottorato sulla storia di Paragone-Letteratura, in parte pubblicata, con gli indici della rivista, nel numero di febbraio-giugno 2006: Ricordo che la Banti mi telefonava la mattina alle sette, anche di domenica. Una volta ero andato una settimana a Bologna per l’università e c’era bisogno di correggere le bozze di un articolo di Sandro Serpieri sui Sonetti di Shakespeare. La Banti telefonò a casa e le rispose mia suocera [Marisa Mantovani] che in quel periodo recitava al teatro Metastasio di Prato. La Banti intendeva mandare le bozze da correggere tramite l’autista Ottavio, alle otto di mattina, e mia suocera, che facendo l’attrice andava a letto molto tardi, le rispose che alle otto dormiva e che non aveva nessuna intenzione di alzarsi. “Io e mio genero (disse) facciamo due mestieri diversi, io prima delle undici non apro la porta a nessuno!”. La Banti allora, la domenica mattina alle sette, telefonò a Sandro Serpieri dicendogli che a casa di Guido Fink rispondeva al telefono un’attrice. Serpieri, nel sonno, le rispose: “Se va bene a sua moglie, qual è il problema?”. “Il problema è che c’è l’attrice, ma non c’è Guido Fink!” replicò allarmata la Banti. Io poi tornai il giorno dopo, corressi le bozze e tutto fu sistemato.

Ma chi era Guido Fink prima di Paragone? Diciamo che ufficialmente non era nessuno. Tra i suoi primi scritti vi sono proprio quelli apparsi sulla rivista, con­

Guida Fink redattore di Paragone

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temporanei del suo contributo al volume su Edward Bellamy uscito a New York nel 1962 e della biografia (vita e opere) di Pearl Buck (per la collana dei Nobel dei Fratelli Fabbri 1963 diffusa con una tecnica di vendita porta a porta straor­ dinariamente efficace se ancora oggi quei libri massicci, dalle legature pacchiane - colori sgargianti e fregi in oro - non mancano mai in qualsiasi Remainder’s o negozio di libri usati). Fu Bassani, che era redattore di Paragone dal 1953, a presentare Guido alla Banti. Guido le mandò quello che lui stesso definisce il suo “primo e unico rac­ conto”, “Un ribelle a Princeton”, che le piacque molto e uscì nel numero 158, febbraio 1963 (è di fatto un racconto delizioso, che traccia un ritratto assai diver­ tente del conformismo dell’università americana e al tempo stesso, a contrasto, un autoritratto di Guido insegnante che in quel contesto pare un geniale alieno). Se questo, per testimonianza dell’autore, è il “primo e unico racconto” di Gui­ do, si trova qualità narrativa anche in una prosa sul cimitero israelitico di Ferrara, “In fondo a via delle Vigne” {Paragone 476, ottobre 1989): Non riesco a ricordare quando sono entrato per la prima volta, bambino o ragazzo, nel cimitero di via delle Vigne. Credo senz’altro dopo la guerra: prima, e durante, ero molto piccolo, e senza dubbio con me si evitavano certi discorsi. In qualche modo, però, devo sempre aver saputo che là, in fondo a via Terranuova dove abitavano gli zii Anau (noi stavamo in via Mazzini, quasi all’angolo con via Scienze), e poi al di là di Giovecca, di tutta via Montebello e dell’incrocio con Porta Mare, ci doveva essere questa via delle Vigne, in cui “si doveva prima o poi finire”: lo dicevano spesso i miei parenti più anziani, anche quelli che purtroppo per loro non ci sarebbero finiti affatto.

Qualsiasi scritto di Guido è frutto di penna felice. Almeno nella prima fase delle sue collaborazioni, Guido su Paragone si occupò soprattutto di cinema: militante (Uccellacci e uccellini nel 1966, Blow up nel 1967, 2001 Odissea nello spazio nel 1968, varie cronache da Venezia ecc.) e storico (Castellani, i telefoni bianchi...). Paragone allora era molto attento al cinema - attenzione oggi pur­ troppo dimenticata: nella prima annata della rivista la Banti stessa pubblicò un “paragone” tra la Manon di Clouzot e quella dell’Abate Prévost, nonché un saggio sul neorealismo, e nel 1953 Garboli ci fece il suo esordio scrivendo su Luci della ribalta di Chaplin. Per trovare un suo primo contributo letterario da angloamericanista mi sem­ bra si debba aspettare il 1968 (su Edmund Wilson). L’italianista che era, per diletto (e per competenza), lo precedette con recensioni a romanzi di Benedetti e di Bernari (1964). Nello stesso numero del saggio su Wilson comparve una recensione a Pi con zero in cui si rammaricava che Calvino non avesse ancora dato quelle prove assolute che dalle sue doti si aspettavano. A Calvino non sfuggì

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l’acume del suo giovane lettore e gli rispose con una lettera, privata, molto bella, sul concetto di autore minore come Fink l’aveva di fatto qualificato. Nel 1985, in occasione della morte di Calvino, le nostre insistenze convinsero un riluttante Fink a pubblicare sulla rivista quella lettera, per ricordare un autore molto caro a Paragone, che nei suoi primi anni di vita ne aveva accolto alcuni racconti e un saggio teorico tra i suoi più citati, Il midollo del leone. Per la sua proverbiale leg­ gerezza Calvino, minore o maggiore che fosse, era, per affinità elettiva, un autore di Guido. Per lo meno quanto Mario Soldati, scrittore, regista e anche “ameri­ cano” per ambizioni cinematografiche che non si realizzarono e per una storia coniugale finita troppo presto, e comunque autore di America primo amore, era in fondo il personaggio che poteva mettere d’accordo le tre anime (le tre anime principali...) di Fink, che infatti gli dedicò più di un’attenzione. Della sua letteratura angloamericana Fink si occupò con saggi della quali­ tà che gli competeva, cioè primissima, e dalla fresca brillantezza mai velata da un’appannatura: tra gli altri “Da Pamela a Shamela (e viceversa)” su parodie, contraffazioni e simili della Pamela di Richardson del 1972 (che in qualche modo prelude alla citatissima antologia, ormai un classico del genere, Quasi come alle­ stita in collaborazione con Guido Almansi) e un saggio sui nomi dei personaggi di Wodehouse (1985) spassoso almeno quanto l’autore di cui parla, e non gli si potrebbe fare complimento migliore. O “L’isola che non c’era” (1979), sul tema dell’isola nella letteratura americana. In totale i suoi pezzi sulla rivista sono più di settanta, su un arco di trentasei anni, dal 1962 al 1998 (praticamente una media di due all’anno) e rispecchiano non solo la frequenza del suo lavoro, ma anche la varietà dei suoi interventi. Si possono catalogare sommariamente contributi sul cinema, sulla letteratura anglo-americana, sulla narrativa italiana, sul teatro, e poi sulla narrativa francese, ebraica, sulla saggistica varia... Oltre alle sue proprie collaborazioni, Guido procurava collaborazioni di altri (cito alla rinfusa, oltre a Franco La Polla, Roberto Barbolini, Alessandro Serpieri, Paola Pugliatti, Giovanna Mochi, Valentina Poggi, Francesco Rognoni; e gli allora giovani collaboratori o amici che aveva a Bologna: Maurizio Ascari e gli altri organizzatori di queste giornate: Alessandra Calanchi, Rocco Coronato, Franco Minganti, e naturalmente Stephen Greenblatt, che figura in un numero shakespeariano con un saggio intitolato La trappola del topo, tradotto da Rocco Coronato). Guido era insomma una colonna portante della redazione. L’incarico americano come direttore dell’istituto Italiano di Cultura di Los Angeles dal 1999 al 2003 allentò fatalmente i rapporti con la rivista. Dopo il suo ritorno, con il pepe e sale dell’età che lo faceva somigliare sempre di più a Chaplin, non pubblicò più nulla su Paragone, ma il suo ruolo di redattore, di

Guido Fink redattore di Paragone

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lettore e di procacciatore di testi, riprese come prima. Per non molto, purtroppo. Comunque, dopo la morte di Garboli, capitò di ritrovarci ancora - Duranti e io - a casa di Guido, già provato dalla malattia, per discutere le molto incerte sorti della rivista e stabilirne le future strategie.

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Forse fu soprattutto sua l’idea di proporre ogni tanto nella rivista degli inserti monografici, sfruttando e selezionando soprattutto convegni, giornate di studio, incontri come questo. Una pratica che poi è diventata nostra regola solo dal 2004, e non più limitata a pubblicare anticipi di atti, ma quasi sempre legata a progetti diciamo in esclusiva. Non fu solo lui certamente a pensare di dare rilievo ai convegni su Mario Soldati e su Anna Banti, ma a tutti e due aveva partecipa­ to, e i suoi interventi finirono naturalmente nella nostra scelta. Ma porta la sua inequivocabile firma di ideatore un inserto (collocato come “Giornale” - così si chiama una rubrica della rivista) dedicato al sogno nell’ottobre 1987, e un nu­ mero su Shakespeare e la cultura ebraica (febbraio-aprile 1998) per cui scrisse un saggio introduttivo che in fondo dava il titolo a tutta la sezione: “Shakespeare nostro correligionario”. Duranti ricorda che, in particolare con lui, aveva progettato anche un numero completo, monografico, sul fantastico in letteratura e forse non solo in lettera­ tura, che aveva incontrato l’approvazione particolarmente entusiasta della Banti, appassionata del genere. Non è possibile ricostruire dopo tanto tempo a che punto fossero i lavori in corso; forse Guido aveva solo scelto alcuni argomenti e possibili collaboratori - qualcuno probabilmente presente anche in questa occa­ sione - ma sta di fatto che Garboli, da anni redattore latitante, fece allora la sua riapparizione, non esattamente discreta, sulle scene di Paragone per pubblicarci certe sue carte molieriane: il numero sul fantastico saltò e fu rimandato, in pra­ tica però sine die, perché da quel momento Garboli decise di tornare a occuparsi regolarmente della rivista, e, forte anche dell’ascendenza che aveva sulla Banti e su molti di noi, se non proprio su tutti, era difficile arginare il suo protagonismo. Per qualche anno comunque quel progetto monografico diventò uno scherzoso tormentone di Guido quando ci mancavano idee e materiali: si potrebbe fare un numero sul fantastico... Per chi - non tutti - ne coglieva l’ironia.

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Scomparsa la Banti, nel 1985, Garboli praticamente divenne il direttore effet­ tivo della rivista (anche se formalmente Paragone non ha mai avuto un direttore, neppure la Banti). Riunioni, con tè e pasticcini, non se ne facevano già più da un pezzo, i rapporti erano diventati solo telefonici e talvolta epistolari (non esi­ stevano ancora le e-mail). Anche se la Banti diceva sempre che le riviste si fanno, sul serio, solo in due o tre, di sicuro quella certa idea di redazione “larga” che comunque mensilmente si ricreava alla villa II Tasso - con Raboni, Cattaneo, Aldo Rossi - divenne presto un ricordo. L’ultima riunione vera di redazione di quei tempi, una redazione che ormai di fatto si limitava a Garboli, Fink, Duranti e me, forse si tenne a Vado, nella vecchia dimora di famiglia - un enorme paral­ lelepipedo umido e cadente sepolto nel verde delle Apuane camaiorine - dove Garboli, lasciata Roma, era tornato a risiedere e a cui Vittorio Sereni dedicò “Una casa vuota”, una poesia accolta in Stella variabile. Dopo aver lavorato, an­ dammo a pranzare in un grazioso ristorantino in mezzo ai boschi apuani che fu proprio Fink a dire che sembrava la casina di marzapane di Hànsel e Gretel. Fu un momento festoso, a tavola gli affari di redazione cedettero alla conversazione privata e non si sa come il discorso cadde su Feltrinelli, della cui casa editrice si celebrava una ricorrenza. Garboli, da quell’affabulatore stregonesco che era, rie­ vocò un suo lontano incontro con l’editore, insieme a Soldati e Bassani, proprio gli scrittori italiani più familiari a Guido. Il racconto della tetraggine disperata di Feltrinelli, dei folli starnazzamenti di Soldati, del rassegnato fatalismo di Bassani (di lì a poco licenziato dalla casa editrice) ci entusiasmò tanto che tutti e tre lo pregammo di metterlo per scritto. Lui si schermiva, disse che non era il caso, ma l’indifferenza all’ammirazione non era esattamente una delle sue doti, così quell’aneddoto conviviale divenne nel giro di pochi giorni una prosa autobiogra­ fica per Paragone (“Feltrinelli. Trent’anni di cultura”, Agosto 1985), una delle sue cose più belle. Quel giorno sembrò davvero che uno spirito di redazione fosse vivo, o almeno rinato. Ma si era, appunto, nella casina di Hànsel e Gretel, nel mondo delle fiabe3.

3 L’“io” di questo intervento che porta una doppia firma è quello di Fausta Garavini, che doveva presentarlo nella giornata bolognese. Un contrattempo dell’ultima ora le impedì di parteciparvi e al suo posto lo lesse Alessandro Duranti, che già aveva contribuito alla sua elaborazione e che in sede di comunicazione vi aggiunse alcuni ricordi e considerazioni personali. Il testo scritto che qui si presenta rispetta sostanzialmente la versione orale, ripristinando alcuni tagli dettati da esigenze di tempo e trasponendo in terza persona quello che Duranti disse in prima.

“COMINCIARE QUI”: GUIDO FINK STUDIOSO DI LETTERATURA Massimo Bacigalupo

Oh! Rabbi, rabbi, fend my soulfor me And true savant ofthis dark nature be. Wallace Stevens, “The Sun This March”

Guido Fink è stato talmente poco trombone e soverchiante, talmente schivo e antiprotagonistico, che perfino chi lo conosce bene stenta a capacitarsi della ma­ gnitudine del suo contributo agli studi di cui si è occupato. Il volume Nel segno di Proteo, curato da Roberto Barbolini per i suoi ottant’anni, contiene saggi fra i più acuti, utili e leggibili in circolazione sui tanti autori di cui tratta, “da Shakespeare a Bassani”, passando soprattutto per gli amati e studiati americani James, Twain e compagni, senza trascurare i vari Lear, Carroll, Collins e Joyce. Fink è un ottimo saggista, uno dei migliori che abbiamo, ma per quanto sprizzi intelligenza a ogni frase, non è mai autoreferenziale e i suoi saggi sono fra i più documentati (senza pignoleria ma con precisione) che io conosca. Dove abbia trovato il tempo di leggere tanti libri, raccogliere tante schede e vedere tanti film è un mistero. Con la sua caratteristica generosità sembra disposto a trovare spunti dovunque, anche in quella critica più accademica che altri si permetterebbero di ignorare. Sembra veramente che per lui esista una comunità della ricerca, almeno sulla pagina, e fra l’altro è sempre aggiornatissimo senza essere à la page: strutturalisti, decostruzionisti, marxisti, neostoricisti convivono amichevolmente nei suoi saggi quando magari di persona non si parlerebbero nemmeno, senza che il metodo abbia mai il sopravvento e ovviamente divenga esibizione. Conta il testo e ciò che ci svela.

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Così generoso nel dare merito ad altri, Fink è ben lontano dall’adontarsi se non viene ricambiato magari per distrazione da colleghi e protegés', veramente vola alto, vola e basta. Sicché in circa quattro decenni di lavoro - nei quali come noto è stato, oltre che studioso di letteratura, critico cinematografico, recensore, organizzatore di progetti, convegni, eventi culturali, rappresentante degnissimo della cultura italiana all’estero - Fink ha lasciato studi imprescindibili per chi vorrà seguirlo nella inesauribile frequentazione e nello scandaglio di testi classici e contemporanei. Nel 1978, quarantaquattrenne, pubblicò I testimoni dell’immaginario. Tecni­ che narrative dell’ottocento americano. Già il titolo contiene da una parte la verve dello studioso del fantastico, del gioco anche, e (nel sottotitolo) il tranquillo professore che mette a frutto la lunga tradizione del discorso sul narrare. I testi­ moni dell’immaginario è dedicato soprattutto a Irving, Hawthorne, Poe, James, Melville, ed entra fra le pieghe di quelle opere immense, leggendo e rileggendo testi più e meno noti, con la curiosità dello specialista che senza forzature rivela come tutto si tiene, ed è guidato dall’ammirazione serena per quelle grandi le­ zioni di stile e di vita. Gli schizzi di Hawthorne e Irving paiono davvero temi da specialisti, ma i fortunati che leggeranno I testimoni dell’immaginario scopriran­ no quanto hanno perduto ignorando le opere minori (e dire che non so quanti conoscano persino le opere maggiori di un Hawthorne). Non sorprende che Fink parlando dello sguardo dei suoi “testimoni” evochi il Marcel di Proust, o Kafka, o Borges. Ma non cade nel comune errore di apprezzare, ad esempio, Sterne perché “anticipa” Joyce. In Fink non ci sono di queste cadute. Quanto allo stile, è felice come si è detto, attento, curato, ricchissimo di spun­ ti. E un discorso all’altezza, che presume un lettore che condivida interesse, se­ rietà, passione. Ma non è un discorso per iniziati, o addetti; anzi, fornisce senza insistenza tutti gli strumenti per partecipare al banchetto, sapido ma essenziale. I testimoni è un libro di 379 pagine fitte, compresi gli ottimi indici, ma resta l’im­ pressione di un saggista in fondo laconico, che va dritto all’argomento, dice tutto quello che serve e basta. Non perde (fa perdere) tempo. Sicché veramente i saggi di Fink sono da rileggere e riscoprire data la loro ricchezza che tornerà sempre utile finché vorremo sapere qualcosa di più e magari condividere la sua tenacia. Tutti siamo un po’ malati di letteratura, in cui cerchiamo delle conferme, ma­ gari delle evasioni o rivelazioni, ma non di rado i nostri interessi si fermano entro confini temporali, nazionali, specialistici, accademici. Fink invece legge perché profondamente interessato a capire, a scoprire, convinto evidentemente che la pagina sia un fatto vitale, imprescindibile. La letteratura è una serie infinita di fenomeni. Può sembrare casuale che se ne conosca questa o quella parte, come questo o quel film, questo o quel musicista. Un fatto di cultura. In Fink c’è un

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rapporto più intenso, come una necessità vitale, ma poi il bello è che questo non si traduce in una affabulazione personale, bensì in studi rigorosi scritti non per sé ma per noi. E una fortuna poter tornare a queste numerose indicazioni che il laconico Guido ci ha comunicato; resteranno sempre una via d’accesso a un mondo in fondo ideale in cui quello che ci sta intorno risulta più trasparente. Non senza qualche risentimento e ironia, che trovano spazio nella tessitura com­ posita e sorvegliata eppure spontanea e sempre fresca del suo scrivere. Fink non manca di esprimere valutazioni: molto indulgente di solito quando cita i compagni critici (non necessariamente a lui vicini per posizioni e interessi), preciso senza malizia riguardo ai soggetti di studio. Si veda ad esempio il ritratto di Edmund Wilson riproposto in Nel segno di Proteo, dove a un certo punto salta fuori (senza campanilismo) la pressoché totale ignoranza della cultura italiana da parte del pacioso Wilson, o magari il “discutibile titolo” Saggi letterari dato dall’editore italiano a “una scelta delle literary chronicles degli anni Venti e Tren­ ta”. O, altrove, l’antisemitismo “doc” del pur grande James (Fink 2015: 52). Fink sa essere pungente, ma sempre con serenità collaborativa. Ha saputo districarsi per decenni nel labirinto dell’accademia, dell’editoria, dei media (ricordo le sue ottime rassegne delle pagine culturali su Radio3) conservando un’ammirevole lucidità e fortuna. E grazie a persone e studiosi come Fink che uno riacquista fiducia nella comprensibilità del mondo.

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Qualche esempio dello stile-Fink. Nella sua Prefazione a La commedia degli errori per il “Tutto Shakespeare” dei Grandi Libri Garzanti curato de Nemi D’A­ gostino, apprendiamo che in questa prima (forse) commedia del drammaturgo [...] C’è il ricordo, forse involontario e automatico, dell’inganno di Narciso; c’è la spontanea adesione a un’onnipresente immagine barocca; al tempo stesso non è del tutto assurdo leggervi fra le righe la premessa ai veleni insidiosi del Moderno, la stagione dei ritratti stregati e degli specchi-delle-mie-brame1.

Oppure, a Shakespeare è attribuita [...] la capacità davvero ineguagliata di non tradire lo schema ludico e farsesco del plot, ricavandone anzi il massimo di effetto comico e teatrale, e al tempo stesso

1 Guido Fink, Prefazione a: William Shakespeare, La commedia degli errori, a cura di Nemi D’Agostino, Garzanti, Milano 1995, p. xxxix.

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la tendenza a “decostruirlo”, lasciando intravedere e di tanto in tanto emergere in piena luce un subtext angoscioso e malinconico2.

O ancora: Ladro e imbroglione, questo “tempo in bancarotta” non può che scappare all’impazzata; e non a caso, del resto, ad Adriana che invidia il dominio sul tempo dell’uomo, la sua libertà assoluta rispetto al tempo delle donne, la sorella Luciana ricorda che in realtà l’uomo può e deve comandare su tutto, ma non sul tempo: “ Time is their master' (II, i, 8)3.

Poi Fink cita Gamini Salgado, attribuendogli “le osservazioni forse più illumi­ nanti che a quest’opera siano mai state dedicate”. Non senza integrarle: Forse, potremmo aggiungere, questo duplice percorso del plot [“un’azione interna a un’azione esterna o cornice”] è un altro doppio, accanto a quelli che riguardano i personaggi-gemelli: lo spazio (basta pensare alle coordinate invisibili che attirano via via verso il mercato, centro dell’intrigo, e verso il porto, luogo della fuga sempre possibile e sempre rimandata) e naturalmente il Tempo, che non è solo quello minuscolo degli orologi (impazziti) ma anche il Tempo, maiuscolo e crudele, che deforma la bellezza dell’infelice Adriana (II, i, 90) e rende i padri irriconoscibili ai figli (V, i, 299)4.

Sono passati vent’anni da questa Prefazione, come ne sono passati pressoché qua­ ranta da I testimoni dell’immaginario, e su Shakespeare Poe e Hawthorne ovvia­ mente si è continuato a scrivere, ma si può ben capire che pagine così precise e illuminanti sono contributi duraturi, tutt’altro che di routine. Lo studente, studioso e lettore, saprà che in Fink troverà sempre indicazioni attendibili e sti­ molanti, con quel tanto di fantasia che ci dice non solo come ma perché leggere. Qualcuno sosteneva che i grandi critici sono più rari dei grandi scrittori. Non so se sia vero, e Guido, il mercuriale Guido, detesterebbe essere considerato “grande” (come Max Beerbohm si rivoltava a chi lo voleva incluso in una serie di “Modern Library Giants”5). Però non siamo troppo lontani dal vero quando parliamo dell’eccellenza del suo contributo, quelle pagine scritte per pura intelli­ gente passione per riviste come Paragone - e qui va anche detto che perché il fe­ nomeno Fink abbia potuto aver corso c’è voluto anche un contesto che ha saputo cogliere il suo valore, e qui avranno contato Garboli, la Banti, magari Bassani, a 2 Ibid., p. xli. 3 Ibid., p. xlii. 4 Ibid., p. xliii. 5 S.N. Behrman, Portrait ofMax: An Intimate Memoir ofMax Beerbohm, Random House, New York I960, p. 16.

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cui sono legati alcuni suoi scritti fra i più notevoli, come la prefazione del 1960 alle Storie ferraresi e il saggio Le tre Notti del 1943 (1994), uno dei più preziosi recuperi di Nel segno di Proteo. Quando avremo una bibliografia completa di Guido Fink sapremo dove indirizzarci all’inizio di una ricerca e dove indirizzare chi eventualmente ci chiederà indicazioni. Per dare ancora un esempio delle scoperte che Fink ci consente, Nel segno di Proteo ripropone il lungo saggio “Mark Twain in fondo al pozzo” (da Paragone, 1983), che si addentra magistralmente in quel gustoso e strano labirinto o pozzo, rimandandoci al racconto “The Mysterious Stranger”, la sua complicata storia di riscritture editoriali, come a tanti altri testi ed episodi e interpretazioni. Qui Fink se ne esce con un ardito accostamento: Il 1916 è un anno cruciale. Samuel Clemens è morto da sei anni, ma il suo ex­ segretario e il suo editore danno alle stampe l’accennata versione del “Mysterious Stranger”, che a lungo viene ritenuta autentica; contemporaneamente escono due film, Intolerance di D. W. Griffith e Civilization di T. Ince, che uniscono alle intenzioni nobilmente ma tardivamente pacifiste (quando appaiono sugli schermi l’America sta per entrare in guerra) una tecnica narrativa per quei tempi rivoluzionaria, basata soprattutto nel primo caso su sovrimpressioni, mescolanze di epoche e luoghi diversi, e traduzioni visive di concetti astratti6.

Quello che il Satana di Twain promette ai ragazzi è lo stesso potere visionario at­ tribuito da Griffith al cinema. Non ripercorreremo qui l’argomentazione di Fink, ma la citazione vale ad esempio del suo modo di raccontare e di farci partecipi delle sue scoperte in campi diversi che si illuminano a vicenda. Il film Civiliza­ tion di Ince, pochissimo noto, pare sia perduto, ma esso viene ricostruito, e infine apprendiamo che Comune sia a Twain sia ai due registi, alla vigilia o agli inizi del primo grande conflitto mondiale, è la visione apocalittica deU’umanità giunta al punto più basso del suo cammino o apparente progresso: di qui, ancora una volta in tutti e tre i testi, l’interesse per il soprannaturale o il sovrumano; e non fa differenza se Griffith e Ince mettono in scena Cristo e Twain ricorre invece a un Satana giovane dalle inequivocabili caratteristiche divine7.

Il 1916 come anno cruciale, dunque. E infatti era già in stato avanzato quel “suicidio dell’Europa” che fu la Grande Guerra. Occorrerà rileggere (ristudiare) il tardo Twain del “Mysterious Stranger”, caro anche a Mario Praz. Ma quand’è che l’abbiamo letto l’ultima volta? Forse da studenti. Fink non cessa di insegnare, 6 Guido Fink, “Mark Twain in fondo al pozzo”, ora in Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di R. Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 119-120. 7 Ibid., p. 123.

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di essere di stimolo, di dirci che vale la pena di riprendere in mano il Libro. E magari di non spaventarci davanti all’impresa temeraria di penetrare un po’ più addentro in un Mark Twain, o in uno Shakespeare. L’ultimo capitolo di I testimoni dell’immaginario prende il titolo da un appun­ to di Melville: “Cominciare qui”. Ed è ammirevole come Fink riesca a portarci alle sue conclusioni melvilliane attraverso il perspicuo intrico delle sue pagine. La Parte III dei Testimoni, dedicata a Poe e Melville, è intitolata “Epistemologia e terrore”, è divisa come le precedenti due parti del volume in tre capitoli (sim­ metria dunque), e i titoli di questi sono appunto: “I. I fantasmi dell’io”, “IL Le grandi chiuse del mondo”, “III. Cominciare qui”. Questa la conclusione di I testimoni dell’immaginario: Billy Budd, l’ultimo prigioniero di Melville, idoleggiato e crocifisso senza nemmeno il diritto di parlarci attraverso la voce di un Narratore vero e proprio (forse perché, come archetipo, appartiene a tutti noi), Billy Budd, dicevamo, chiede soltanto che gli si allentino i ceppi, che lo si lasci scivolare giù, fra le “oozy weeds” e le alghe che lo accoglieranno sul fondo, insieme ai marinai del Pequod e alla donna di Blithedale. Forse è l’unica cosa da farsi, almeno per noi che restiamo al di qua, quando si richiudono le acque, e le pagine del libro8.

8 Guido Fink, I testimoni dell’immaginario, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1978, p. 365-

PER GUIDO. ARS SCRIBENDI, ARS LOQUENDI, ARS VIVENDI Mario Domenichelli

Con Guido ci siamo conosciuti in qualche altra era geologica, credo. Ricor­ do bene l’occasione, a Pescara, in occasione di un convegno dell’associazione di americanistica, sarà stato, che so, verso il 1971 o il 1972. Ho dieci anni meno di Guido; al tempo di quel convegno, Guido era già uno studioso conosciuto, affer­ mato americanista, noto esperto di cinema, e io un borsista a Urbino, ma Guido mi mostrò amicizia. Non è mai stato capace di darsi arie, di darsi importanza; e trovavi nel suo modo d’essere, in fondo, sempre un bambino, un “bambino vecchio”, diceva lui, ricordando una battuta di un fornaio di Argenta, dove ebbe il suo primo insegnamento nella scuola media, alla fine degli anni ’50, inizio ’60, immagino. E quel suo essere, rimanere bambino, essere capace di rimanere bambino, mi affascinò; ne rimasi catturato. Ebbi immediata simpatia per Guido, non fu difficile. Guido è naturalmente simpatico, basta apra bocca e ne esce una qualche battuta, un qualche giudizio, ritagliati con una precisione impressionanti, e in tutta leggerezza. La levitai, certo, con la quickness, sono, o mi sono sempre sembrati, per Guido, principi di poetica esistenziale. Ma non una leggerezza fatua, non c’è mai stata alcuna fatuità in Gui­ do, piuttosto la consapevolezza che lo humour rende più leggero il peso di vivere, finché si può, certo, e per quel che si può. E la velocità, la rapidità delle associa­ zioni mentali, scoprii presto, coincideva con quella sua levitas, e la leggerezza è esattamente ciò che consente la mercurialità, quella qualità mercuriale di Guido, quei passaggi rapidi da un’idea alla prossima con ferrea tenuta dell’insieme però,

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e con una memoria, un modo di coltivare la sua memoria, una vera e propria mnemotecnica, io credo, che è forse il vero segreto di Guido e della sua vocazione intellettuale. Quelle associazioni così quick, sono il principio costruttivo del pen­ sare di Guido, della sua retorica, e del caratteristico fluire del suo discorso, orale o scritto. Esattezza, visibilità, molteplicità... Già Calvino, Le lezioni americane". ecco io credo che indipendentemente da Calvino, che rispose a Guido, apprezzan­ done la recensione a Ti Con Zero {Paragone, 216, febbraio 1968), con quella sua lettera del 24 giugno 1968, anche essa poi pubblicata su Paragone (428, ottobre 1985, pp. 7-9), credo, dicevo, che indipendentemente da Calvino, quei principia siano sempre stati, per Guido, principia di poetica dell’esistere, e anche di poetica “critica”, dell’idea di cinema di Guido, di letteratura, e più in genere di pratica intellettuale, poiché leggerezza e rapidità sono solo l’inizio, il completamente lo si ha con l’esattezza, con la visibilità, la molteplicità. Principi di poetica dell’esistere, del pensare, dello scrivere, dell’agire. Provo a esemplificare. Non ricordo di quale occasione si trattasse, che ci si può fare, ormai mi capita spesso di non ricordare! Comunque si trattava di un convegno, di una tavola rotonda a cui Guido e io eravamo invitati a Bologna. Sarà stato il 1992, il 1993Guido insegnava all’Università di Firenze, io in quella di Pisa, entrambi prove­ nienti da Bologna, entrambi abitanti a Firenze. Sicché facemmo il viaggio insie­ me, è capitato diverse volte e, invariabilmente, Guido mi diceva: ho riflettuto, ho letto - parlava del soggetto di cui di volta in volta si doveva andare a discutere ma non mi sono scritto nulla. Allora il viaggio da Firenze a Bologna durava un’o­ ra, un’ora e dieci minuti. Guido mi intimava di non disturbarlo, e si metteva a scrivere, con una rapidità davvero inconsueta. Il tempo di scrittura corrispondeva più o meno al tempo di parola, e davvero non so come facesse, ma in mezz’ora il pezzo era pronto, pronto da leggere, trenta trentacinque minuti, con ogni nesso al posto giusto, ogni frase al posto giusto. Il bello però, quella volta, fu che quel pezzo, scritto in treno, con quella rapidità, mica lo lesse, Guido, a Bologna, e finì per fare un altro discorso, come del resto gli capitava visto che, di solito, sempre per quel che posso testimoniare, quello che scriveva non corrispondeva affatto a quello che poi diceva. Guido non si ripeteva. Sentirlo parlare era una meraviglia tanto le idee fluivano dalla mente e divenivano parole, con armonia, con un’idea precisa delle combinazioni, delle sorprese, agudeza, eh sì, a man ofwit, a wit in the old sense; un homme d'esprit. Un uomo dall’intelligenza davvero peculiare. Non ce ne sono molte altre così: un’intelligenza rara, che non si trova spesso. Si sarà capito che ho grande ammirazione per Guido, per la sua parola mer­ curiale, per la quickness, la velocità delle associazioni, in un’elaborazione concet­ tuale rispetto alla quale si è sempre un passo indietro; e il senso della battuta di spirito, lo humour istintivo, connaturato, che ne caratterizza il discorso, ne segna il rapporto con la vita, con gli altri, con l’arte, esso stesso un’arte di vivere. Una

Per Guido. Ars scribendi, ars loquendi, ars vivendi

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meraviglia, un miracolo quella fluidità, quella facilità di discorso, apparente, e però temprata da una pratica d’anni che ne fanno la disciplina del pensare. Se dovessi dire quale dei suoi libri più mi corrisponde a quello che penso di Guido, penserei al suo Lubitsch (1977? forse persino più che non al suo lavoro su Stevenson (Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, 1990; Favole, 1992) che pure era, come mi diceva spesso, il “suo” autore. Ma Guido ha scritto tanto, di cinema, naturalmente, (su William Wyler, 1988; su Altman, 1982; su Kubrick (1971 e 1985, con La Polla e Brunetta); sul cinema ebraico americano (Non solo Woody Alien, 2001), su Lubitsch - Lubitsch, certo, con il quale la scrittura di Guido, pare a me, intrattiene un rapporto del tutto speciale), così come ha scritto su, e tradotto da, James: Ritratto di Signora, LAmericano, Le bostoniane... E ancora quelle chicche che sono la Shamela di Fielding (curato con Daniela Fink, 1997), o la sua postfazione a L'Onesto Iago di Michael MacLianmoìr nella traduzione di Daniela Fink (1995), o, più di una chicca, piuttosto l’esempio di cosa debba essere una traduzione di un testo difficilissimo come II buon soldato di Ford Madox Ford (I960). Quel romanzo, quel grande romanzo, il romanzo davvero “perfetto”, rimane tale nell’italiano di Guido, nel quale, quasi miraco­ losamente, niente rimane della difficoltà della trasposizione in altra lingua, e l’ironia sottile che affiora sempre a scoppio ritardato, l’ironia che domina così l’intera costruzione ritrova in quell’italiano tutta la sua affilata crudeltà e l’alone di malinconia, l’amarezza per ciò che si credeva perduto senza mai esser stato. Cito solo poche righe: Già, la stabilità, la sicurezza! Ma non posso credere, in fondo, che sia finita, e che quella lunga vita serena a passo di minuetto si sia dissolta in quattro giorni rovinosi dopo nove anni e sei settimane. Parola mia, la nostra amicizia era regolata dal ritmo sottinteso di un minuetto: in ogni occasione, in qualsiasi circostanza, sapevamo dove andare, dove sederci, quale tavolo avremmo scelto aU’unanimità; poi ci alzavamo, tutti e quattro insieme, senza che nessuno dovesse fare un cenno d’intesa, sempre in armonia con le musiche dell’orchestrina del kursaal, e ai raggi di un sole temperato, o, se pioveva, in ripari discreti1 (1975: 5).

La fluidità dell’italiano non tradisce mai l’arduo lavoro di interpretazione e di resa dell’inglese colloquiale, non da narratore di professione, di Dowell. C’è una forma di nonchalance e, al tempo, come di imbarazzo, nel tono e nelle forme di quella voce, e nell’ironia del tutto esterna ad essa che domina sovrana. Il risulta­ to è quello che in altri tempi si sarebbe definita “grazia”. E quella grazia, quella nonchalance, quella leggiadria, tutta ritrovo nella traduzione di Guido. E non era facile riuscirci.1 1 Guido Fink, “L’arte di decomporre”, Prefazione a: Ford Madox Ford, Il buon soldato, Garzanti, Milano 1975, p. 5.

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Ma Guido ha lavorato anche su Hawthorne {Leggende del palazzo del Gover­ natore, 1990, curato con Daniela), su Edith Wharton (introduzione a La Casa della Gioia, 1994), su Hardy (introduzione a Jude l’oscuro, trad, di Suso Cecchi d’Amico, 1990). Ha lavorato tanto, scritto moltissimo. E tutti “i conti tornano”, cinema, teatro, letteratura americana, letteratura inglese... letteratura italiana. Sì, “i conti tornano”, come scrive Guido chiudendo la sua Introduzione ai romanzi di Saul Bellow (I Meridiani 2007), e certo con altra intenzione, commentando il Bellow che corregge Sartre e Lincoln Steffens, e Freud. Tornano sì i conti, e io credo che ciò che fa tornare tutti i conti sia quello humour dall’intelligenza affilata come una lama, quella che vedi all’opera a partire dal suo Lubitsch a cui ritorno, To be or not to be... e che ritrovi in Quasi come, quel formidabile libro scritto con Almansi (1976), sulla parodia, e sulla forza della parodia capace di rovesciare il mondo e ogni rapporto di forze. Nella parodia si esprime una forza maggiore dell’arte, un meccanismo dell’intelligenza alle prese con la stupidità, della leggerezza contro il peso della storia, il peso, a volte, della vita. Ma quello che si è riusciti a fare, e a fare bene, è quello che conta. Guido, come lui scrive di Bellow, può essere “ragionevolmente soddisfatto” (Introduzione, p. LUI), e in quel “ragionevolmente” c’è qualcosa che davvero fa molto Fink, l’intelligenza, la ragionevolezza per l’appunto, come forza formante, come forza discorsiva quale che sia la forma che prende, spesso in Fink, in modo più o meno scoperto, forma arguta, lieve, e tanto più nella gravitas. Non capita sempre, non capita a tutti, anzi quasi mai, a meno che non si abbia quel talento, quella quickness, quella prontezza, “readiness is all”, e magari - so che non sarebbe d’accordo ed espri­ merebbe il suo dissenso scuotendo il capo con un sorriso scettico - anche quella saggezza che a Guido non è mai mancata.

UN OMAGGIO A GUIDO FINK, ACCADEMICO MULTITASKING Vita Fortunati

Vorrei cominciare questa breve testimonianza sul significato della mia cono­ scenza e amicizia con Guido Fink dalla brillante idea che Roberto Barbolini ha espresso nell’appendice al volume Nel segno di Proteo1. Guido Fink come il mitico Proteo: un uomo, un intellettuale, un critico e un letterato dagli svariati interessi - il cinema, il teatro, la letteratura e la musica, - un uomo che proprio per avere una personalità poliedrica sfugge da ogni definizione perentoria. Lo scavo nella propria memoria e la sua rielaborazione è, come si sa, un atto complesso che dipende dal contesto e dalle emozioni: un atto in cui realtà e verità si mescolano con la finzione, perché il tempo, come dice Doris Lessing, è tricky, ingannevole12, rende impossibile una totale fedeltà ai fatti. “Ricordare” in italiano significa rievocare, dare voce ai ricordi; nell’etimologia della parola latina vuole dire “riportare al cuore”, e assume dunque il significato di rievocare emozioni forti; ricordare nel senso di ricomporre, rimettere insieme ciò che è disperso, ricordare nel senso di rimembrare un evento assieme con qualcuno. La memoria ha un carattere selettivo, procede a sbalzi, a salti; è soprattutto frammentaria. In questo senso ricordare Guido oggi per me significa ripercorrere alcuni momenti rilevanti della mia vita e del mio lavoro nei quali egli ha svolto un ruolo importante. Significa mescolare vita personale ed emozioni con aspetti di quella che è stata la mia professione come docente universitaria e critica. 1 Roberto Barbolini, “Nota Editoriale: Filottete e L’isola che non c’era”, in Guido Fink, Nel segno di Proteo da Shakespeare a Bassani, a cura di R. Barbolini, Guardaldi, Rimini 2015. 2 Doris Lessing, Under My Skin, Harper Collins, London 1994, p. 185.

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1. Ho incontrato Guido per la prima volta quando, come giovane studen­ tessa all’ultimo anno di università, mi accingevo a scrivere la mia tesi di laurea su uno scrittore quasi sconosciuto in Italia; si trattava di Ford Madox Ford, che scoprii quasi per caso nello scaffale delle novità vagando per la libreria Feltrinel­ li. Proprio Guido in quegli anni ne aveva tradotto in maniera mirabile II buon soldato. Fu un libro che mi colpì profondamente, tanto da decidere non solo di scrivere la mia tesi di laurea su questo romanzo, ma anche di incontrare il suo traduttore. Tale incontro fu facilitato da mia madre, ferrarese, che aveva cono­ sciuto la madre di Guido, e soprattutto da mia cugina Antonia, una sua cara amica. Il nome di Guido in realtà era circolato nei discorsi familiari quando si parlava della Ferrara del dopoguerra e del destino degli intellettuali ferraresi che, pur amando ed essendo legati alla loro città natale, avevano deciso di lasciarla. Si trattava di personaggi come Giorgio Bassani e Michelangelo Antonioni, uomini a cui Guido era legato, soprattutto Bassani, colui che consigliò a Guido di tra­ durre proprio Ford. Quel primo incontro con Guido fu particolarmente utile per la mia futura ricerca. In quell’occasione apprezzai la sua disponibilità e la generosità nel for­ nirmi preziosi consigli. I suoi suggerimenti si basavano sulla penetrante cono­ scenza delle tecniche narrative del romanzo americano e inglese dell’ottocento e del Novecento e soprattutto sul personaggio-narratore, sulle tecniche del limited point of view e del time-shift. Una competenza, quella di Guido, che potei in se­ guito apprezzare leggendo il suo bel volume I testimoni dell’immaginario. Tecniche narrative dell’ottocento americano0 e il suo saggio che comparve nella riedizione del Buon soldato del 1984 e che aveva come titolo “L’arte di decomporre”3 4. Di Guido apprezzavo il metodo, perché nell’analisi dei testi, sempre così attenta nel metterne in evidenza le strutture formali, non si dimenticava mai di porli in rap­ porto al contesto storico-politico in cui lo scrittore viveva e operava. Un’analisi narratologica, quindi, mai fine a se stessa, ma sempre ancorata alla realtà storico­ politica. Il saggio di Guido su Ford rappresenta un bell’esempio di questo suo metodo di lettura: l’analisi raffinata delle varie funzioni e sfumature psicologiche di John Dowell - il complicato personaggio-narratore che ingarbuglia le fila del racconto creando una sorta di labirinto, di gioco degli specchi in cui il lettore rischia di perdersi - si accompagna all’esame di una società in decadenza e che si sta decomponendo. Guido mette in luce proprio questa perfetta compene­ trazione tra la forma frammentaria ed ellittica del romanzo e i suoi contenuti. Non è un caso, come ricorda Guido, che II Buon Soldato è stato pensato e scritto 3 Guido Fink, I Testimoni dell’immaginario. Tecniche narrative dell’ottocento americano, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1978. 4 Guido Fink, “L’arte di decomporre”, Postfazione a Ford Madox Ford, Il buon soldato, a cura di G. Fink, Feltrinelli, Milano 1984.

Un omaggio a Guido Fink, accademico multitasking

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quando scoppiava la Prima Guerra Mondiale, un evento che segna una sorta di spartiacque tra un vecchio mondo con specifici valori etici e politici e quelli della società inglese, allora in profonda trasformazione: “Insieme alla Vecchia Inghilterra, il convulso récit di John Dowell mette a morte un altro organismo che sembrava eterno e inamovibile, o meglio ne registra e ne accelera il processo di decomposizione al tempo stesso in cui sembra rimpiangerne la decadenza. Si tratta del romanzo borghese, che proprio in quell’Inghilterra agreste e provinciale affonda le sue radici”5. Si diceva della capacità di Guido di connettere vari codici artistici, così anche in questo saggio Guido non solo mette in luce gli aspetti teatrali, melodrammatici di The Good Soldier, ma anche i frequenti richiami all’arte preraffaellita, a quei preraf­ faelliti che Ford affermava di detestare, ma da cui non riuscì mai a liberarsi. Questo suo interesse per gli aspetti formali e per la storia spiega anche il motivo per cui, finite le mode degli stanchi epigoni dello strutturalismo, Guido potè apprezzare sia la corrente critica del neostoricismo, sia Stephen Greenblatt, uno studioso a cui è legato da una profonda amicizia basata su passioni comuni, il teatro - Shakespeare “in primis” - e l’interesse per il suo metodo nella critica e nella ricerca.

2. Quando Guido venne a Bologna a insegnare letteratura anglo-americana (1972-1988) condividemmo per alcuni anni un piccolissimo studio in via Zam­ boni. Di quegli anni ricordo le vivaci conversazioni sui libri che leggevamo, sul cinema, sul teatro. Erano anni complessi dal punto di vista politico e le nostre discussioni non potevano prescindere da quanto stava succedendo nella vita pub­ blica così come in quella universitaria. Ci sforzavamo con costanza e caparbietà di capire quanto stava succedendo. Erano gli anni che seguirono l’esperienza devastante del terrorismo, la cui analisi era ancora difficile da proporre, anni che culminarono non solo con la caduta del muro di Berlino, ma anche con il crollo del sistema comunista e nei quali cominciavano ad apparire pericolose forme di “revisionismo” storico. Guido portò nel nostro Istituto una ventata di aria fresca, perché era un ac­ cademico sui generis-, pur credendo profondamente nella ricerca e pur essendo un bravissimo insegnante (era molto amato dagli studenti!), la sua cultura non era mai paludata. Lui attingeva da varie fonti e per questo il suo sapere era ricco, vitale, mai scontato. Infatti il suo impegno nella vita intellettuale era molteplice; accanto alla sua vita di accademico c’era quella di direttore della rivista Cinema & Cinema, collaboratore della rivista Paragone, e membro di molte giurie di premi letterari. Il suo atteggiamento nei confronti dell’accademia era critico, ironico; 5 Ibidem, p. 221.

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non amava i riti formali, detestava l’arrivismo e il presenzialismo, i suoi giudizi erano talvolta taglienti e scomodi, perché guardava alla sostanza delle cose, anda­ va in profondità e non rimaneva mai in superficie. Guido non amava gli scontri, ma era sempre lucido nell’analisi della politica e delle scelte universitarie. Si di­ ceva prima di quanto Guido fosse amato dagli studenti e di come essi seguissero le sue lezioni con attenzione. Guido insegnava, a mio avviso, ad amare la lettura, che lui considerava un atto fondamentale per l’apprendimento della letteratura, perché come lui stesso ebbe a dire: “La lettura, o rilettura che sia, è sempre un primo incontro, per vari aspetti sconcertante e traumatico, proprio come Blan­ chot, vorrebbe che accadesse per tutti il libri e lettori degni di questo nome”6. L’atto della lettura diventa un momento privilegiato perché attraverso i libri noi andiamo incontro altro, misurandoci con la sua alterità. L’atto della lettura nello studio della letteratura è un momento ineliminabile perché attraverso di esso si istaura una sorta di amicizia ideale con i grandi del passato. Una lettura quindi che induce e conduce alla scrittura. Più volte Guido nei suoi saggi ha affermato “che i libri invecchiano, muoiono, rinascono, in un processo fluido e altamente combinatorio che è in fondo l’unica vera prova della loro vitalità, la loro garanzia, magari offensiva e beffarda, di una sopravvivenza che non sia quel­ la fantomatica delle biblioteche e delle tesi di laurea”7. In questa prospettiva si comprende l’interesse di Guido per le riscritture shakespeariane e i suoi brillanti studi con Guido Almansi sulla parodia.

3. Fra i ricordi legati alla mia vita personale uno in particolare mi è gradito: un’estate a Oxford in agosto ci ritrovammo con le rispettive famiglie a trascorrere in piacevoli conversazioni pomeriggi e serate. Una sera i bimbi non tornavano a casa ed eravamo molto preoccupati; e quando, finalmente, comparirono sudati e trafe­ lati, Cimbo, l’allora giovanissimo figlio di Guido, raccontò un’avventura che ave­ vano avuto sulle colline di Oxford, una vera e propria fiction. Non potrei né saprei descrivere ora i particolari della storia, ma ciò che ricordo è la straordinaria capacità fabulatoria del piccolo Cimbo, che già preannunciava le sue straordinarie capacità teatrali. Ricordo anche i commenti arguti e intelligenti di Daniela, una donna con una forte personalità che ha sempre, in maniera pacata, ma con fermezza, consi­ gliato Guido non solo nelle sue scelte personali, ma anche in quelle professionali. Un altro ricordo vivissimo sono le serate che Guido trascorreva a casa nostra quando si fermava a cena e a dormire dopo giornate faticose di lavoro: con i miei 6 Guido Fink, “L’Arte di decomporre”, op. cit., p. 211. 7 Guido Fink, ‘“Thou Should Print More...’ Shakespeare e la proliferazione del Testo”, in Ibidem, Nel segno di Proteo, a cura di R. Barbolini, op. cit., p. 23.

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ragazzi parlava degli ultimi film che aveva visto, si interessava della loro scuola e, nonostante la stanchezza, aveva sempre una straordinaria capacità di ascoltare e di conversare con loro. Era curioso di capire quelli che erano i loro interessi e le loro passioni. Il dialogo inter-generazionale era per lui uno stimolo. Si parlava anche inevitabilmente soprattutto con Claudio, mio marito, di politica, e si fa­ cevano interessanti paragoni tra la situazione italiana e quella americana, data la grande conoscenza che Guido aveva di quella realtà. Ricordo anche la visita che abbiamo fatto, con la mia cara amica Giovanna Franci, a Los Angeles quando Guido era direttore dell’istituto di cultura italiana ( 1999-2003), un periodo della sua vita estremamente ricco e vitale. A Los Ange­ les Guido lavorò intensamente e con grande passione per far conoscere la cultura italiana nelle sue varie espressioni — dal cinema alla pittura, dalla letteratura alle arti visive e alla musica. In quegli anni cercò di trasmettere a chi frequentava l’i­ stituto un’idea di cultura in cui tradizione e innovazione potevano lavorare in un armonico equilibrio; così per esempio accanto ai film classici d’archivio venivano presentate al pubblico anche rassegne sul cinema sperimentale e d’avanguardia. Un’idea di cultura che abbracciava non solo i linguaggi creativi più diversi, ma anche la cosiddetta cultura materiale: il folklore, il cibo, la moda.8 Durante quel­ la visita Guido e Giovanna mi aiutarono a comprendere e conoscere Los Angeles, una città per cui non avevo sufficienti parametri culturali per apprezzare nella sua complessità e che avevo da sempre osservato con un certo distacco e con uno sguardo un po’ da “snob” europea.

4. Un altro momento per me importante è stato quando Guido ha comin­ ciato a interessarsi della letteratura ebraico americana alla fine degli anni ’80, per­ ché in quella occasione non si parlò solo dei grandi romanzieri ebreo americani che lui tanto amava (Bernard Malamud, Henry Roth, Isaac Bashevis Singer), ma anche dell’importanza e del significato delle sue radici ebraiche. Non avevamo mai approfondito questo argomento, non ne avevamo mai parlato prima. Fu proprio in occasione di una ricerca interuniversitaria dedicata al “Recupero del testo nella letteratura ebraico-americana” e nello specifico di un convegno che Guido parlò non della memoria, ma dell’oblio: del grande e insaziabile desiderio di oblio di cui ogni civiltà ha sentito il bisogno per la sua funzione lenitiva e rasserenante soprattutto dopo gli eccidi e le grandi sventure nazionali. In quella occasione scoprii le qualità di Guido come critico. A colpirmi fu la sua capacità di affrontare un tema, nel caso specifico quello della memoria, da una prospettiva 8 Laura Zanetti, “Guido Fink e la sua idea di cultura italiana a Los Angeles”, .

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obliqua, quella appunto dell’oblio. Nella postfazione che Guido scrisse per il vo­ lume Memoria e tradizione nella cultura ebraico-americana*, egli ricorda una serie di romanzi in cui si invoca un silenzio riparatore contro una memoria retorica che diventa una sorta di maledizione, una vera e propria condanna. In questo saggio Guido affronta la questione del ricordo, della memoria nella tradizione ebraica e in particolare dell’olocausto non in maniera scontata, ma problematiz­ zando in profondità una questione delicata e complessa. L’oblio appare inestri­ cabilmente connesso alla memoria; sono assenti le nette separazioni tra memoria e oblio, perché ambedue trovano la loro espressione nella scrittura, nella fiction.

5. Guido possiede il dono di scrivere in maniera raffinata ed è un “critico creativo”. Ogni suo saggio nasce da una brillante intuizione che viene consolida­ ta, rafforzata dalla sua ricchissima cultura. Un saggio che ho letto recentemente e che non conoscevo, “Le tre notti del 1943”9 1011 , mi sembra riassumere in maniera eccellente non solo il suo metodo comparato fra testo narrativo (il racconto di Bassani Una notte del 43) e testo cinematografico (il film di Vancini La lunga notte del 43), ma anche il suo profondo interesse per la storia e il forte legame con Ferrara, città lasciata, ma mai dimenticata. La storia di un evento così tragico come la notte dell’eccidio perpetrato dai fascisti il 15 novembre del 1943 a Ferra­ ra viene interpretata non solo da Bassani e da Vancini in un complicato intreccio tra storia e fiction, ma viene anche alimentata dai ricordi dello stesso Vancini, allora ragazzo diciassettenne a Ferrara. Lo stesso Guido ricorda quella notte da bambino, con la madre che gli leggeva per distrarlo Via col Vento, mentre il papà e il fratello della mamma venivano imprigionati: Vancini si trova di fronte, diciamo, a due testi se non di più: quello di Bassani (che gli parla di dicembre) e quello della realtà storica, o dei suoi ricordi di ragazzo diciasettenne a Ferrara, che lo riportano al novembre. La differenza può sembrare ed in pratica è irrilevante: ma conferma come testo ed evento non possano non “mescolarsi”, non intrecciarsi in una serie di rimandi e di scambi e di apporti reciproci, proprio come quelli su cui insiste il neostoricismo di Stephen Greenblatt della sua scuola: secondo una parabola che del resto è già rinvenibile in Bassani11.

In questo saggio Guido ripercorre anche le diverse fasi della ricezione del film e 9 Guido Fink, Postfazione, “La fortezza di Yabneth e le tentazioni dell’oblio”, in Ibid, e G. Morisco (a cura di), Memoria e tradizione nella cultura ebraico-americana Clueb, Bologna 1990, pp. 387-402. 10 Guido Fink,” Le Tre Notti del 1943”, in Ibid., Nel segno di Proteo, a cura di R. Barbolini, op. cit., p. 369. 11 Ibid., p. 369.

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del racconto di Bassani in rapporto alla diversa situazione politica italiana, in­ frammezzandole ancora una volta con i suoi ricordi personali fino ad arrivare al Festival di Venezia del 1993 quando il film di Vancini viene presentato in una retrospettiva del cinema del 1943: Altri tempi: tempi altri, rispetto all’epoca in cui racconto e film si svolgono; conferma se ce ne fosse bisogno, che i testi oltre a proiettarsi all’indietro, verso il cosiddetto tempo dell’azione si immergono nei tempi in cui vengono realizzati, li rispecchiano, li riflettono, contribuiscono in certi casi a modificarli; e se sopravvivono, come in questo caso, continuano ad assorbire nuove istanze e nuove suggestioni, via via che vengono rivisti o riletti, in contesti nuovi che gli autori non potevano prevedere12.

Da questo saggio si evince come per Guido il testo letterario e quello cinema­ tografico siano testi complessi, stratificati. Per analizzarli e interpretarli non solo bisogna aprirsi ad altre discipline, in questo caso la storia, ma è necessario in­ dagarli da diversi punti di vista, da diverse angolazioni. Si percepisce in questo testo una continua tensione tra la scrittura, nelle sue strategie formali, retoriche e poetiche e le componenti ideologiche e politiche, di volta in volta re-interpretate a seconde del contesto in cui sono recepite. Guido è un critico che interpreta i testi riportandoli alla nostra contemporaneità, non si dimentica mai del conte­ sto in cui hanno visto la luce e in cui prendono forma. Per questo le pagine dei saggi di Guido, indagando il nodo intricato tra il mondo, il testo e il critico con le sue emozioni e passioni, si caricano di una potente valenza euristica. Tutti i suoi scritti hanno sempre una forte ripercussione sul presente. Il testo critico di Guido produce una lucida consapevolezza del nostro essere nel mondo, che, an­ che se non comporta un effetto politico diretto sulla realtà, sfocia in una lucida e sofferta coscienza storica.

12 Ibid., p. 377.

“QUELLA PARTE DEL MONDO INVENTATA DA MOLIERE”: UN ASSAGGIO DEL CARTEGGIO MARY McCarthy - nicola chiaromonte Francesco Rognoni

Scommetto che nessuno riuscirà mai a compilare una bibliografia davvero com­ pleta degli scritti di Guido Fink, tanta è la sua generosità, curiosità, prensilità intel­ lettuale; e poi una certa negligenza, o forse semplicemente l’incapacità congenita di prendersi troppo sul serio, di “darsi importanza”... Così sembra che anche a molti degli amici e collaboratori più stretti sia sfuggita la sua smagliante introduzione a Una giovinezza americana (How I Grew, 1987), la prima “puntata” dell’autobiogra­ fia di Mary McCarthy (1912-89), pubblicata dal Mulino nel ’921. Ricordo bene quando, più di vent’anni fa, Guido mi aveva accennato alla freschezza di quel libro, che l’aveva sorpreso: come forse succede quando ci s’im­ magina d’aver già fatto i conti con un certo autore, e invece una lettura casuale li riapre aH’improwiso. Mi aveva consigliato di procurarmelo, non c’è dubbio, e neanche così en passant, ma - in perfetto stile-Guido-Fink - senza preoccuparsi d’aggiungere che l’edizione italiana l’aveva tenuta a battesimo lui. Altrimenti, son quasi certo, il libro mi sarei affrettato a comprarlo, e almeno l’introduzione l’a­ vrei letta a suo tempo, non solo qualche settimana fa, nell’unica malconcia copia che son riuscito a rimediare nella Biblioteca Sormani. Accattivante fin dal titolo - “Una parte del corpo alla volta” - il saggio di 1 Mary McCarthy, Una giovinezza americana, Il Mulino, Bologna 1991.

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Guido Fink su Mary McCarthy è un magnifico esempio del suo “non-metodo” (un sinonimo di libertà in un periodo in cui, ricordiamoci, nei “boschetti dell’accademia”2 metodi e teorie prosperavano, soffocando i veri lettori): quello d’immergersi completamente nell’opera di uno scrittore e - senza disdegnare, anzi valorizzandone la “critica”, di qualsivoglia provenienza - d’attraversarla in lungo e in largo a bracciate di intelligenza e cultura. Alla prima occasione andrà ripubblicato. Intanto lo tengo in filigrana: trapelerà un paio di volte in questo canovaccio d’un lavoro che chissà se vedrà mai la luce in forma di libro - e allora sullo scaffale starebbe proprio accanto a Una giovinezza americana', il carteggio Mary McCarthy - Nicola Chiaromonte ( 1948-71 )3.

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In Una giovinezza americana — che si ferma al 1933, l’anno della laurea (all’esclusiva Vassar) e del primo, alquanto provvisorio matrimonio di Mary McCarthy - Nicola Chiaromonte (1905-72) è nominato fuggevolmente come l’ultimo dei “pilastri della mia [di Mary] esistenza” scomparsi aH’improwiso all’inizio degli anni ’704. Un secondo volume di ricordi, Intellectual Memoirs, uscito postumo nel ’93, ricostruisce gli anni newyorkesi, dal 1936 al ’38. Se mai il terzo fosse stato scritto, è probabile che alla rievocazione del suo turbolento matrimonio con Edmund Wilson (1939-45), Mary McCarthy avrebbe fatto seguire le sue memorie dell’estate del ’45: i giorni in cui, mentre Hiroshima era bombardata dagli americani, la trentaduenne, vigorosissima scrittrice traduceva in spiaggia - la macchina inceppata dai granelli di sabbia - l’aspro saggio di Simone Weil sUX Iliade, o il poema della forza, come in un’illustrazione quasi da manuale di quella “violenza dall’interno che ci protegge dalla violenza di fuori”, la contropressione dell’immaginazione alla pressione della realtà (come 2 Per parafrasare il titolo del perfido campus novel di Mary McCarthy, The Groves ofAcademe (1952). 3 Le lettere di Mary McCarthy sono conservate alla Beinecke Rare Book & Manuscript Library della Yale University (New Haven, CT), quelle di Chiaromonte alla Archives and Special Collections Library di Vassar College (Poughkeepsie, NY) e sono qui pubblicate per gentile concessione dei rappresentanti dei rispettivi estates, Sophia Wilson Nielhaus e Wojciech Karpinski. Un grazie particolare a Dean Rogers, Special Collections Assistant alla biblioteca di Vassar, che da anni mi assiste in svariate ricerche. 4 M. McCarthy, Una giovinezza americana, op. cit., p. 248. Gli altri “pilastri” erano il mercante d’arte Mannie Rousuck, Heinrich Bliìcher, marito della Arendt, e Philip Rahv, condirettore della Partisan Review e amante della McCarthy nell’interludio tra il suo matrimonio con l’attore Harald Johnsrud e quello con Edmund Wilson.

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scriveva, cito a memoria, un altro grande lettore “laico” della Weil, Wallace Stevens). Simone Weil a Mary McCarthy l’aveva fatta scoprire Niccolò Tucci, intelligente, infaticabile, logorroico; ma la frequentazione veramente importante di quell’estate sarebbe stata con un altro italiano espatriato, l’assai più silenzioso, riflessivo Nicola Chiaro monte. Eppure, son davvero pagine che ci mancano, quelle in cui Mary McCarthy avrebbe descritto quell’incontro tanto importante nella sua vita? Abbiamo per­ so, senza dubbio, qualche tocco da memorialista d’antan, quasi una gran dama della “civiltà della conversazione” (“la McCarthy mette insieme i vari pezzi del suo personaggio con lo spirito dei filosofi meccanicisti del Settecento”, osserva Guido Fink, “quelli che parlavano di uomo-macchina o uomo-pianta”5); ma, nella sostanza, non credo che Mary avrebbe potuto aggiungere nulla a quando aveva già scritto, il 6 marzo 1968 - fra un reportage dal Vietnam e l’altro - allo stesso Chiaromonte, allora critico teatrale a Roma (e, ancora per qualche mese, condirettore, con Ignazio Silone, di Tempo Presente'): Nicola, I’ve long wanted to tell you — and this seems a good occasion - that seeing you on the Cape in the summer of ’45 was a crossroads in my life. In fact, the crossroads. I became a different person, though perhaps you didn’t notice it, and I only saw it myself after a time, looking back. This has convinced me - of something you don’t believe yourself - that change is possible for people. I mean inner change of course. All this sounds too redemptive, like Catholic literature for young people, but I haven’t time tonight to put it better. Amway I am your convert.

Una confessione a cui Chiaromonte - tanto distante daH’“uomo-macchina” quanto il suo adorato Platone era lontano dall’uomo delle caverne (eppure, si veda subito sotto, capace di riconoscere la “pianta” crescere in sé!) - tre giorni più tardi risponde, pieno di commozione: At the end of your letter you tell me something that brings tears to my eyes, dearest Mary. It makes me not proud but immensely grateful to life (no, not life, which in itself is a mess or a frightful chaos: to the Supreme Powers, which have to remain nameless in order to be truly revered). I liked you from the very first moment I saw you, because you radiated beauty, grace and generosin; because you were intelligent, gay and free. I was enchanted by you, and yet I somewhat felt that I did not quite belong in your world. This is hard to explain, especially since we did like each other very much, didn’t we? We liked to be in each other’s company, and you were always very specially sweet to me and Miriam. Whatever the reason, love, real love, for you, grew in me like a plant, almost unconsciously, and became what it is now a long time ago, although in these last few years it has

5 Guido Fink, “Una parte del corpo alla volta”, Introduzione a M. McCarty, Una giovinezza americana, op. cit., p. 10.

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certainly grown as firm as a tree. We were lucky enough to be able to spend more than just a few days together, after a long separation. You won me over, Man; yours was the magic touch that broke my sullenness and my shyness. So that now I have the joy of loving you truly, and simply and enormously. And is not love in itself a conversion, in the true sense of the word? A fact that makes one into a different and better person? Let’s do this to each other more and more.

Se di più concreto genere d’“amore” ci fosse stato bisogno, la spigliata Mary McCarthy probabilmente non si sarebbe fatta grandi scrupoli a procurarselo, quell’estate, anche se Chiaromonte - il quale, nel ’40, in fuga dalla Francia invasa dai nazisti, aveva perso la prima moglie - solo da un paio d’anni si era risposato con Miriam Rosenthal. Quell’estate; o più tardi, fra uno o l’altro dei quattro matrimoni di lei. Ma evidentemente la loro relazione aveva trovato così, plato­ nicamente, la sua misura anche erotica completa (misura o “limite”: un termine prediletto, che Chiaromonte utilizzava senza accezione restrittiva). Può darsi che i romanzi di Mary McCarthy ormai accusino gli anni (io, per far solo un esempio, non sono mai riuscito ad arrivare in fondo a The Group}', e così i saggi più elaborati di Chiaromonte, quelli raccolti nel Tarlo della coscienza e in Credere e non credere. Ma le loro cose più occasionali - le pagine autobiografiche, i taccuini, le lettere soprattutto - acquistano smalto col tempo, come giungessero a noi, con tutta la bella urgenza del loro momento, da un’età dell’oro dell’intelli­ genza e dell’entusiasmo intellettuale: quando, si credesse o non si credesse, la fede nella parola scritta - la parola scritta capace di restituire la presenza umana - non era mai messa in discussione, neanche dai più disincantati. Sbilanciato nei numeri (75 le lettere di lui, contro le 12 di Mary) ma non nella continuità delle rispettive voci, il loro carteggio costituirebbe ben più che una postilla al magnifico Between Friends. The Correspondence ofHannah Arendt and Mary McCarthy, 1949-1975 (1995), o alle lettere di Chiaromonte a “Muska” (Melaine von Nagel Mussayassoul) raccolte da Wojciech Karpinski e Cesare Panizza in Fra me e te la verità (2013), uno dei libri davvero emozionanti di questi ultimi anni6. Un giorno o l’altro andrà pubblicato integralmente; e non sarà facile trovare un editore, anche perché è scritto tutto in inglese eppure, ad occhio, mi sembra riguardi più la società (letteraria, culturale, politica) italiana dell’e­ poca, che non quella americana. La quale, invece, è quasi data per scontata, nei vizi come nelle virtù: non fosse altro perché, rispetto alla sempre più spaventosa “volatilità” dell’Europa, l’America resta (parole di Chiaromonte) “a real place”: “there you touch ground all the time”. 6 Nicola Chiaromonte, Fra me e te la verità. Lettere a Muska, a cura di Wojciech Karpinski e Cesare Panizza, Una Città, Forlì 2013. Per questo libro, davvero importante ma passato troppo sotto silenzio, mi permetto di rimandare alla mia recensione su Alias, 9 novembre 2014, p. 5.

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Qui non posso offrirne che un piccolo assaggio. Così - rinunciando, molto a malincuore, ai piccoli scandali sulla Partisan Review come a una divertente descrizione del caos di casa Schlesinger (lo storico dei Kennedy), o dell’ordine d’un ricevimento di Jacqueline alla Casa Bianca, alle riflessioni di Chiaromonte sull’arte del romanzo come alla faida puskiniana fra Edmund Wilson e Vladimir Nabokov, alla lotta per la sopravvivenza di Tempo Presente come a una missione quasi segreta in Vietnam - ho deciso di pubblicare il loro ultimo scambio di lettere, non particolarmente “gioioso” (a detta di Chiaromonte), ma incrostato malgrado una certa stanchezza accusata da entrambi - di vivacissimi carnei. Prima, però, non resisto alla tentazione di concedermi almeno una di cita­ zione stravagante (da una lettera di Chiaromonte del 1966). Perché, se il brio di Mary McCarthy non sorprenderà nessuno, Chiaromonte non è certo noto per il suo humour. Anzi. “Austero cavaliere, tu non mi fai ridere, e neppure sorridere”7, aveva annotato, appena diciottenne, a proposito di Don Chisciotte: un appunto -“Non mi fai ridere, e neppure sorridere” - che, con assorta gratitudine, Wojcie­ ch Karpinski, l’intellettuale polacco che così magistralmente tiene viva la me­ moria, ora rivolge allo stesso Chiaromonte... Eppure, sarà il “magico tocco” a distanza della sua interlocutrice, in queste lettere più d’una volta anche Chiaromonte dà prova di una comicità deadpan quasi irresistibile: come se il mondo (lo dice la McCarthy nella lettera trascritta integralmente) l’avesse davvero inventato Molière... Nel raccontare questo aneddoto, ad esempio, magari di pubblico do­ minio ai tempi (non ho verificato) e ora ben noto ai cultori di Moravia e Pasolini, ma che a me è giunto nuovo di zecca, e ho appena riletto ridacchiando come avrà fatto Mary McCarthy cinquant’anni fa: I will tell you a funny story. It is the story of Moravia’s trip to Cuba. Last December, Moravia wanted to go with Dacia to Morocco for a holiday. Since, for reasons best known to him, he does not seem to be able to travel without Pasolini, he asked him to join them. Pasolini said no, he was going to Cuba. Moravia did not like the idea of Cuba at all: what he wanted was a holiday, and going to Cuba was political involvement, since you can’t go there except as a guest of the Government in the first place. So he tried to argue with Pasolini. Nothing doing. It had to be Cuba. Moravia, who is a good chap, finally surrendered, and went to the Cuban embassy to ask for a visa. It was handed to him in a gold platter, of course. So he got ready for the trip. But no news of Pasolini. Finally Moravia called him up to ask whether he was getting ready to go. Pasolini said “No”, he had been denied a visa as a notorious homosexual, since in Cuba homosexuality is a criminal offense. Moravia became doubly angry and went to the Cuban Embassy to protest and ask for the visa to Pasolini (“After all, he is a great writer, and so forth...”). Nothing doing. Impossible to let into Cuba a notorious pervert. And that’s how Moravia went to Cuba (where, I am told, 15% of the population is homosexual, starting 7 Cit. da Karpinski nel suo saggio di postfazione a Chiaromonte, op. cit., pp. 271, 274.

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with Castro himself) alone with Dacia. He was very well received there, and the other hand, and didn’t have to spend a cent. But Pasolini stayed in Rome (or maybe went to Morocco, I don’t know about that). (14 February 1966)

E poi mi piace offrire probabilmente (ma forse non del tutto) alla disapprova­ zione di Guido Fink, la prima e immagino unica reazione di Chiaromonte alla lettura del romanzo “non-epistolare” - eppure fatto quasi tutto di lettere - d’un autore a cui Fink ha dedicato molto lavoro e molta passione: I have read Bellow’s Herzog. Aside from his obvious (in both senses, I am afraid) talent, I don’t like that kind of writing at all. It is lively, it makes itself read (although with a constant irritation). But it is essentially meaningless. I smell psychoanalysis a mile away. In fact, the only story the author really tells you is that of his hero’s (but in fact, his, it is made only too clear) paranoic hatred for that former wife of his. But there is only one page in which this comes to any kind of artistic fruition, and it is the description of the woman’s dressing and making herself up. The rest is beating about the bush or just plain, embarassing “confession”. In fact, it reminded me of Miller’s Afier the Fall (but Bellow is better, of course). As for the intellectual pretense that runs through the book, the less said about it the better. (Rome, November 2, 1964)

Il saggio introduttivo al Meridiano-Bellow si intitola “Saul Bellow o dell’auto­ biografia indiretta”, e infatti Guido Fink vi si usa molta più cautela nel misurare il grado di autobiografismo del romanzo: nel quale ritrova, senza dubbio, anche le “mille delizie” per cui a suo tempo l’aveva lodato, forse un po’ iperbolicamente, il giovane Philip Roth (citato nell’introduzione). Ma che HerzogXo convincesse fino in fondo, Guido non lo dice mai. Mentre ammette che la misoginia del protagonista - e dell’“autore”, aggiunge — per Madeleine sia effettivamente di­ sturbante, e per dimostrarlo sembra rimandare alla stessa pagina che ha in mente Chiaromonte, quella in cui Herzog, che ha sorvegliato Madeleine intenta alla sua “toilette - cipria, rossetto, un tocco di neretto nell’angolo di entrambe le so­ pracciglia, controllo del profilo destro e di quello sinistro -, sente crescere il suo disgusto man mano che le operazioni proseguono”8. Così, per tornare con una specie di cortocircuito anche a Mary McCarthy, non posso non ricordare l’aneddoto - raccontato infinite volte da Saul Bellow - che meglio illustra, fra autobiografia e invenzione, quella che Fink, nell’in­ troduzione a Una giovinezza americana, chiama la “cattiveria” delle pagine “più sfavillanti” di Mary9:

8 Saul Bellow, I Romanzi, vol. I, a cura di G. Fink, Mondadori, Milano 2007, p. xlii. 9 McCarthy-Chiaromonte, Una giovinezza americana, Il Mulino, Bologna 1991, p. 15.

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I can remember her at Partisan Review parties. She was very elegant, the only elegant woman present. Her face was done up in a kind of porcelain makeup. Youd run into her on the street as Nicola Chiaromonte once told me he did - she was blooming, he said, and he asked, “Why are you looking so well, Mary?” She said, “I just finished a piece against so-and-so and now Im writing another about such-and-such. Next Im going to tear you-know-who to pieces.” She was our tiger-lady1011 .

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Nessuna informazione supplementare è necessaria a godersi gli stralci appe­ na citati. Mentre alle due lettere integrali che seguono ne servirebbero un bel po’11. Al volo, in ordine (più o meno) di apparizione: Angelique (“Anjo”) Spitzer, moglie di Mario Levi, era la traduttrice francese di Mary McCarthy. Francesco Grandjacquet (1904-91), pittore ed attore, un amico di lunga data, sia di Mary sia di Chiaromonte (Nathalie Sarraute - lo dico per inciso, non servendole una nota — spunta più di una volta in queste lettere). Un’altra coppia di amici, Ei­ leen (traduttrice) e Stanley Guest, eran noti a Parigi per le belle feste che dava­ no. “Nick” è l’autore e cineasta Nicholas MacDonald, figlio di Nancy e Dwight MacDonald (divorziati da quasi vent’anni: ma evidentemente l’amarezza non era passata...), Dwight direttore della rivista Politics (1944-49), cui Chiaromon­ te collaborò intensamente (anche il carteggio MacDonald-Chiaromonte, assai voluminoso, andrebbe studiato e pubblicato). “Cai” era il poeta Robert Lowell (1917-77), affetto da bipolarismo (per questo la disincantata precisazione: “appe­ ars to be sane”), il quale aveva appena lasciato la seconda moglie, Elizabeth (“Liz­ zie”) Hardwick (1916-2007), per la conturbante Caroline Blackwood ( 1931-96), allora moglie del compositore russo-americano Israel Citkowitz (ma era stata, giovanissima, anche moglie di Lucian Freud). Castine, sulla costa del Maine, è il villaggio dove sia i Lowell sia Mary MacCarthy e il suo quarto marito, James R. West (“Jim”), avevano una seconda casa (mentre - saltando alle vacanze d’un quarto secolo prima — Polly Boyden era la padrona della casa di North Truro, a Cape Cod, affittata da Mary nell’estate del 1945, quella della “conversione”...). Hannah è, naturalmente, la Arendt. Per Giorgio Agamben non serve più nessuna nota: l’articolo in questione, “Sui limiti della violenza” {Nuovi Argomenti, 17, 1970). Paradossalmente, ormai quasi servirebbe una nota per Jean Paul Sartre, 10 G. Cronin and B. Siegei (eds), Conversations with Saul Bellow, University Press of Mississippi, Jackson, MS 1995, p. 284. 11 Le desumo dalla bella tesi di laurea magistrale di Anissa Eleuterio, An Edition of the Correspondence ofMary McCarthy and Nicola Chiaromonte, 1948-1970, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, a.a. 2015-16.

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che spunta spesso - e sempre per irritarli - nel carteggio McCarthy-Chiaromonte: quella primavera aveva assunto la direzione de La Cause du Peuple, il giornale della Guacheprolétarienne. Bocca di Magra è il paese dello spezzino in cui talvolta anche Mary aveva villeggiato: il “posto di vacanza” del poemetto (1973) di Vitto­ rio Sereni (Luisa sua moglie). La madre troppo ingombrante era Paula Bowinkel, vedova del commerciate d’arte Attilio Bowinkel (1904-67). Enzo Tagliacozzo, storico del Risorgimento, esule negli Stati Uniti durante la guerra, aveva collabo­ rate a Tempo Presente (e così Sereni). Il libro di Chiaromonte in uscita (da Bompiani del 1971, da Weidenfeld and Nicolson nel 1972) era la rielaborazione delle sue Christian Gauss Lectures a Princeton (1966), a proposito delle quali Mary McCarthy, qualche anno prima, gli aveva dato uno di quei saggissimi consigli che è quasi impossibile seguire: “The trouble with writing up lectures is that, if you begin to mess around with them and ‘improve’ them, they get fudgy, like a painting that has been worked over too much. The thing is to stay as close as possible to the original inspira­ tion - which came from the lecture hall - and to take them down, as it were, in dictation from yourself, just as though you were writing up what someone else had said. Then publish, at the risk of being incomplete or merely suggestive” (7 dicembre 1967). 141 rue de Rennes Paris 6ème June 26,1970

Dearest Nicola and Miriam: It was true friendship to send me the birthday telegram. I was in a rather desolate mood—though for no direct personal reason—and needed cheering. And I’d been thinking, as part of my desolation, how long it had been since we’d seen each other, as though this too were a sign that everything was being crushed to rubble. Of course I could have written but in those moods one feels unequal to it. We’d had a curious birthday-eve dinner, in which just about everybody was at their worst. We had too much to drink, or rather some of us had, and I was full of anti-biotics because of an abscess in my gum, which I had vowed to myself not to mention. And Anjo and Nathalie Sarraute got into an interminable wrangle, which Anjo persisted in, and I felt powerless to stop. Mario made one amusing intervention and then quit. Francesco sat silent. After the others left, the Geists stayed on, to savage Anjo and Stanley to patronize me in his own ineffable way. I defended Anjo; Jim said, “You should have stopped her.” But that evening was just a culmination of an unsatisfactory and tiring period. Malaise of my generation. Of course we are getting old and rubbing on each other’s nerves, all of us. And our replacements, on the whole, are not of a kind to encourage us to quit the scene and say “Nunc dimittis". Nancy Macdonald came to see us, for example, and showed us pictures of Nick, with progeny, that

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made him look like an old sick dirty scraggly-bearded hermit. Nancy herself was somewhat tart or perhaps I imagined it; she gave a dry bitter account of Dwight, which I gather is more or less accurate. A piece of news that mat' or may not be on the positive side: Cal Lowell has left Lizzie for Caroline Citkowitz. You must know her, Miriam. A strange beautiful girl, Irish, who was born Lady Caroline Dufferin of the Guinness family. They are living together in London, and Cal appears to be sane. I saw them the other night. But it’s a shaking event for our summer Arcadia, Castine. And one worries for Lizzie, though my view is that she will be better off if she can get through the next few months without degrading herself by vituperation or by bleeding him for alimony. In fact if she can get through the next few months without talking... But as you used to say, Nicola, “If Polly Boyden could become St. Theresa!” I myself don’t think she will try the alimony-punishment, but others aren’t so hopeful. I meant that she will be better off without Cal, which I told him. His reaction, startled and wondering, was rather funny. Of course that is obviously was he has been telling himself and Caroline: “Lizzie will be happier without me.” But to have instant corroboration is not exactly what he wanted. Sometimes I think the world was invented by Molière. Or that part of it inhabited by one’s friends. I don’t know who is responsible for the rest. And Bocca di Magra? And your book, Nicola? It’s ages since I’ve had any news of you. Someone told me—I forget who—that you hated your American trip. Strangely enough, I no longer feel that way about America. It ought to be depressing, but it’s less so than France, I find recently. At least I’m excited and curious when I’m there. In New York, I mean. Castine is simply Nature. Gardening and cooking and sailing and swimming and reading aloud. It could be the Cape long ago or anywhere. About Castine, we and Jim in particular have just had a blow. The children aren’t coming this summer. Or maybe Jonny will come alone for two weeks. Too long to write about in a letter. What are you reading? I only bits and pieces. Nothing solid. By the way, when I went to visit Hannah recently in the Ticino, she gave me something to read for her by a Giorgio Agamben. Who is he? I know I’ve heard the name but I can’t place it. But it has a negative ring in my ear. This was about violence - a pamphlet or article which had been sent her. He started out fairly well, with an effort to link the eruption of violence into the modern world to the eruption of pornography into literature and the arts. He felt that both involved a denial or perversion of discourse. And the characteristic of pornography, as opposed to the old erotic literature, is that it introduces violence (not persuasion) into language by forcing from the reader, whether he wishes it or not, an automatic response, i.e., an erection or whatever. I thought he had an interesting point here, which Hannah characteristically waved aside. But the rest of the article was rather tiresome. Liberation and purification through violence, Fanon, Sartre, Dionysus.... I am just about giving up on politics. Here Sartre is up to his old stupidities again. I think he did a good thing in taking up the editorship of La Cause du Peuple, while sating that he was in disagreement with the young editors on many points and standing simply on the civil liberties issue. If he could only have stopped there. Instead, he had his usual logorrhea and gave all sorts of foolish

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and pretentious interviews and statements in which he managed to completely obscure the crucial distinction between speech and acts. It was the same as with the Nobel Prize. If he could have refused it, which was his right, and then just shut up and shut Simone up too. It would be interesting to get to the bottom of this peculiar political behavior, which appears to be compulsive. An awful avidity for the spotlight is certainly part of it, but that can’t be all. It must go beyond Sartres personal psycholog}’. And it has to do with a conception of action. Now I must stop and change my clothes to go out to one of the series of OECD dinners that occupy the lower half of my calendar all through the month of June. “Norwegian Ambassador, black tie.” “Secretary General, black tie, long dress.” Etc. We shall be in Castine, starting July 15- Much, much love to both of you. And please write. Mary

P.S. Jim sends his own manly love

Rome, July 1st, 1970

Dearest Mary, To get a letter from you is always a joy, even when the letter itself, as in this case, is not so joyful. But what, or even more: who is cheerful, today. Children, fortunately, or wise old men (but where are they? They certainly exist, but leading the life most of us do, we must have lost sight of them...). The story of your party, Anjo fighting Nathalie Sarraute, Mario leaving on a sarcastic remark, and Francesco silent in the background is certainly true to life. The only thing that remains to be clarified is what the fight was about. We have no doubt that Anjo will provide several colorfill versions of this, in Bocca di Magra. Yes, alas, we are going to Bocca di Magra sometime round the 15th of July, again for the seventeenth time in seventeen years. (The number is not considered auspicious in Southern Italy, so let’s keep our fingers crossed...). But “basta”. Any other place will do, next year. It was good as long as it went, that is as long as the kids were kids, and the years you came. But now, to see Luisa Sereni again after so many summers in a row. Not to speak of Signora Bowinkel. Some woman, some mother, that one. You know what? Not satisfied with tyrannizing her son (26 years old) all year around at home, and making of him a real mental deficient (she has already prevented him from marrying a quite nice, and not destitute, Italian girl), this year she established herself right on the campus where he is still trying to get his MA. The information comes from Enzo Tagliacozzo, hence is unimpeachably objective... Well, I hope to do some work, this summer. The book is coming out, both in England and in Italy, next January. The English title (quite uninspired, and uninspiring, but that the way it went after many debates...) will be The Paradox of History. The Italian title (of which Bompiani is satisfied, but not I) will probably be Credere e non credere. The English edition is much shorter than the Italian.

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I intend to make the Italian even a little longer. But, frankly, this book smells terribly stale to me, and I don’t even know what it finally means. Miriam assures me that it makes sense, and I go by her word. As for me and America, Mary dear, I don’t know who gave you the information according to which I hated it, this time. Possibly Francesco, to whom I had written that New York was a frightful place. Yes, it is. But that does not mean at all that I hate it. In fact, I feel more and more that, were I free to choose a city in which to live (and I would rather live somewhere else than in a city, today), I would choose New York. Because of its dereliction, mainly. Of its squalor, yes. Of its scaring brutality and crushing weight. But, by God, it is a real place. And so is America today. A country that is going through an earthquake, social, moral, physical (natural, that is), political and possibly religious. But there you touch ground all the time. The ground is contemporary barbarism, mostly. But what is happening in Europe, if it is not its progressive barbarization? Plus the unreality of the splendid past and traditions. Which are certainly a respectable patrimony, but, I think, precisely the kind that one can take with oneself anywhere if one is of a certain age. I cannot really describe the impression New York made on me this time. One of great compassion, of a misery by which I feel deeply touched, and from which I just cannot desolidarize myself. At the same time, no matter what the Frenchies and the Italians say, and Vietnam plus Nixon and the rest notwithstanding, I feel that America today is a place of good faith. It does not mean that Americans in general are people of good faith, which would be some silly notion... It simply means that those who grapple with problems, over there, are confronted with real issues, not with fictions or wishful thinking. In fact, wishfulness, taking solutions for granted, empty moralizing are the main criticism I would make against what is still called (but for how long?) the New Left. But, for example, I have met two or three extremely nice young men, utterly lost, and in utter good faith. Individuals for whom fakery, intellectual or other, simply will not do any longer. And I would even venture an [jz?] hypothesis. Should something like the phenomenon of the ancient Roman men and women who gave up their riches and became Christian repeat itself in a different form, it will be in America, not in Europe. Europe is under a strange narcosis, today. “Moritur et dormitat”. To put it in a nutshell: everything is bare, in America. Which is terrible, but also, in a serious sense, tonic (I would not say “exciting”, really, out of fear of finding myself as “excited” as Dwight...). This, of course, can sound as an [jz?] eulogy only to you. How impossible it is to make Europeans who have not lived long enough in America understand what one is talking about when one tries to describe, for example, what “poverty” means, over there; or “brutality”; or “violence”, for that matter. What they understand is that all those descriptions amount to saying that, except (possibly) for the Black Panthers and the Weathermen, America is a very uncivilized place. Merci. Imagine if one were to describe to them what a High School in Harlem is like, and what kind of reality a poor young school teacher has to face, there. (However, on this chapter, after Nanterre and Grenoble, maybe even the French are beginning to wonder). Well, really, we must see each other as soon as possible, to talk of this and of other

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subjects. We are both very sorry to hear of the disappointment Jim and you will have this summer, of not being able to see the children. We hope you have a calm and fruitful vacation in spite of this. I close this letter with the frustrating feeling of not having even begun to talk to you. Just a summary, a “digest” (what a horrible image...). But the fact is I am not quite equal to letter writing myself, these days. I am trusting the summer and some open air to help me pull my wits together. We wish you both a good summer, and you hugs and love. A special hug with special love to you, Mary dearest, from Nicola

Il carteggio comprende altre quattro lettere di Chiaromonte; il quale, arrivato all’ultima pagina di Birds ofAmerica (1971), il più recente romanzo dell’amica, “I was charmed. There is no other word”, le avrebbe subito scritto: “I love a certain apparently ‘old fashioned’ rhythm and tone, in the story. Modernity is in the sto­ ry itself- in the ‘facts’ (certainly) and in the novelist’s mind. But the form, thank Heaven, is classical - is traditional, which for me is an even better adjective” (25 giugno 1971). Se anche Mary McCarthy gli scrisse, nel 1971, le sue lettere sono andate perdute. Mentre ci resta la lettera che scrisse, ancora incredula, a Hannah Arendt, il 19 gennaio 1972: Nicola died yesterday. [...] It happened in an elevator in the Italian Radio building [...] and was dead in a minute - no pain, or so one thinks. [...] I talked to Miriam, who was in an extraordinary state of control and, yes, sweetness. Of course she must have been preparing herself for a long time - it’s 11 years today, if I remember right, since he had his first coronary and someone called me from Rome. I remember it clearly - where I was standing. That he’s dead, though, is still unbelievable to me. I have not yet started missing him because he is still there. I suppose one had got used to his not dying for so long that one took him for eternal. I loved him so much1213 .

Quasi immediatamente, da Parigi Mary volò a Roma, per aiutare Miriam a ri­ ordinare le carte del marito, e a organizzare un piano e raccogliere fondi per le loro pubblicazione. Gli Scritti sul teatro usciranno nel 1976 da Einaudi, con una bella prefazione di Mary McCarthy, Chiaromonte: un'idea del teatro, poi raccolta in Occasionai Prose (New York, Harcourt 1985) col titolo, ancor più suggestivo, The “Place” of Nicola Chiaromonte (1905-1972)x\ E nello stesso volume è rac­ 12 Hannah Arendt and Mary McCarthy, Between Friends. The Correspondence ofHannah Arendt and Mary McCarthy, 1949-1975, ed. by Carol Brightman, Harcourt, New York 1995, p. 305. 13 Una nota a piè di p. 9 spiega: «In the medieval theatre the “place” was the central stationary acting area, or platea, usuali)' free of scenary, around which were grouped the various “pageants” or “mansions” representing Herod’s place, Pilate’s hall, and so on» - dove credo che la specificazione

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colta (o meglio anticipata) anche la postfazione all’edizione americana di The Paradox of History, dove la McCarthy riscatta “this brilliant, searching book” dalle “generally respectful, even laudatory reviews” della stampa inglese, “which differed from each other only in their degree of deafness to what the author was saying”*14. Ma se Chiaromonte “runs up against British practicality, empiricism, dread of abstraction”, chissà cosa lo rende ancor oggi così inaccettabile anche in Italia, dove i tre splendidi volumi apparsi a ruota dal Mulino negli anni ’90 - Il tarlo della coscienza (1992), Credere e non credere (1993) e Che cosa rimane. Tac­ cuini 1955-1971 (1995) - son finiti al macero? Eppure Karpinski da Varsavia non smette di ricordarcelo: Chiaromonte “osservava il mondo, se stesso e noi con grande attenzione e senza isterismi. Era capace di dialogare. Questo dialogo non si è ancora concluso. Occorrono nuove edizioni dei suoi testi, nuove letture, nuovi incontri”15.

importante, la più rievocatrice l’essenzialità dell’uomo, sia “usually free of scenery”. 14 Nicola Chiaromonte, The Paradox of History: Stendhal, Tolstoy, Pasternak, and Others, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1985, p. 257. 15 Nicola Chiaromonte, Fra me e te la verità, op. cit., p. 274.

LA DIFFERENZA IRRIDUCIBILE: EBRAISMO E CRITICA IN GUIDO FINK Andrea Malaguti

Questa è una nota scritta veramente da lontano: lontano da Ferrara e dalle campagne circostanti, da cui provengono rispettivamente Guido Fink e l’autore, dal 1988, quando si sono conosciuti, dal 1997, quando si sono rivisti per l’ultima volta, e dal 2004, quando per l’ultima volta si sono sentiti al telefono. Per l’occa­ sione, mi è sembrato il caso ricostruire e raccontare il rapporto con l’ebraismo di Guido Fink, interpretandolo e aggiungendo appena qualcosa di mio, più o meno come si faceva una volta agli esami. Perciò, parafrasando la mia attuale vicina di casa Emily, questo è l’esame di angloamericano con Fink che non sostenni mai (anche perché studiavo altrove)1. L’interesse di Guido Fink per la cultura ebraico-americana, si sa, matura negli anni, ma trova il momento chiave in un’occasione politica importante. All’indo­ mani delle stragi di Sabra e Chatila, tra il 16 e il 18 settembre 1982, il festival del cinema ebraico americano Freedonia rischia la sospensione. Gli organizzatori, e soprattutto Guido Fink, decidono invece di tenerlo comunque aperto e quindi di opporre a quello che l’Assemblea Generale dell’ONU aveva definito “atto di geno­ cidio” un atto di pace e di apertura culturale, facendo conoscere le opere di Woody Alien, dei Fratelli Marx, di Ernst Lubitsch. Al sopruso della guerra si contrappone quindi l’invito a conoscere l’ebraismo preso a modello per il suo rapporto com1 Una prima versione di questa nota è stata la comunicazione orale “Ferrara, Wielopole, and the Lower East Side: Guido Fink’s Quest for a Jewish Secular Identity”, nell’ambito della sessione “The Jewish Experience in Contemporary Italophone Literature and Cinema”, Northeast Modern Language Association, Rochester, NY, 15-18 marzo 2012.

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plesso tra conservazione e trasformazione e tra lettera e interpretazione. E infatti il modello è destinato a studi, ricerche, seminari e corsi, nonché ad alcuni importanti volumi collettivi2, per culminare in un vero e proprio caposaldo della critica cine­ matografica (ma non solo)3. Proprio nell’introduzione a questo volume, l’autore racconta le sue prime impressioni, durante il suo primo viaggio a New York nel 1961-62, vent’anni prima della presa di posizione degli organizzatori di Freedonia, di fronte al ri­ conoscimento sociale dell’ebraismo. Prima, per lui l’ebraismo era quasi un fatto privato e personale, di cui naturalmente si poteva parlare, ma senza una vera rilevanza pubblica. Semmai, essere ebreo significava essere “altro”, cioè avere una riserva identitaria di alterità che avrebbe comunque impedito una vera e propria integrazione: è la tesi che l’amico scrittore (e punto di riferimento essenziale) Giorgio Bassani sviluppa almeno fino a Gli occhiali d’oro (1958) e quindi rivisita dall’interno ne II giardino dei Finzi-Contini (1962). Se “l’antico volto materno della mia città”4 fa perdere al giovane narratore anonimo de Gli occhiali d’oro la paura del pericolo incombente delle persecuzioni, le innumerevoli insegne in ebraico e in yiddish della Upper West Side, le sinagoghe in serie e l’osservanza delle solennità nei campus universitari convincono Guido Fink che esiste una piena realizzazione sociale se non della religione, almeno della cultura ebraica e del modo di vivere degli ebrei: “e se fra colleghi o studenti sentivo qualcuno che se ne lamentava, o ridacchiava, o raccontava storielle antisemite, potevo stare tranquillo: erano ebrei anche loro, proprio come me”5. L’ebraismo che però Fink affronta in prima istanza è quello della letteratura americana, che fin dall’epoca delle immigrazioni di massa dall’Europa orientale, verso la fine del diciannovesimo secolo, mette alla prova il linguaggio. Le comu­ nità immigrate della Lower East Side, infatti, sono destinate a cambiare l’ingle­ se americano, dicono i rappresentanti più illustri - maschi - della letteratura WASP: per Henry James, finiranno col corrompere lo stile di una letteratura che solo allora comincia a raffinarsi, mentre per Mark Twain immetteranno qualche elemento nuovo di corroborante realismo6. Dal punto di vista delle comunità immigranti, però, si tratta di una vera e propria lotta con Proteo. Lo si nota in 2 Guido Fink, Gabriella Morisco (a cura di), Il recupero del testo e Memoria e tradizione nella cultura ebraico-americana, 1988 e 1990. 3 Guido Fink, Non solo Woody Alien: la tradizione ebraica nel cinema americano, Marsilio, Venezia 2001. 4 Giorgio Bassani, Il romanzo di Ferrara, Mondadori, Milano 1991, p. 304. 5 Guido Fink, Non solo Woody Alien: la tradizione ebraica nel cinema americano, op. cit., p. 10. 6 Guido Fink, “Al di qua della ‘parola’: l’ebreo fra Henry James e Mark Twain”, in Ibidem e Gabriella Morisco (a cura di), Il recupero del testo. Aspetti della letteratura ebraico-americana, Clueb, Bologna 1988, pp. 29-50.

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Call It Sleep di Henry Roth. Il ragazzino polacco David Schearl, protagonista del romanzo, appena approdato al caos di Manhattan, si trova imbrigliato in quattro lingue: l’inglese della strada, l’yiddish di casa (soprattutto nel rapporto con la madre), l’ebraico del rabbino e della scuola e il polacco usato dai genitori in riferimento a un passato che David non conosce. In tutte queste lingue David riconosce ancora un suono che identifica con un’enorme potenzialità di signifi­ cazione, ma a cui non riesce ad attribuire ancora un vero senso7. La ricerca di senso (a volte sfuggente) della parola è alla base della pratica re­ ligiosa ebraica proprio attraverso l’interpretazione dei testi sacri, insegna Piero Stefani. Nella teca della sinagoga si conservano i rotoli della versione consonantica della Torah, che però va letta in pubblico integrando le vocali. La traccia immuta­ bile della rivelazione, per essere comprensibile e quindi accettata dal popolo eletto, ha bisogno di un’integrazione, perché la Legge vive solo nella presenza della pub­ blica lettura e quindi della sua interpretazione, normativa (Midrash Halakah) od omiletica (Midrash Haggadah} che sia. Le interpretazioni da un lato riconducono sempre alla lettera della Legge, dall’altro ne costituiscono l’inverarsi storico. La Legge esiste nel momento della Rivelazione, ma altresì si dà nella storia attraverso le sue interpretazioni; allo stesso modo, il Popolo Eletto vive nella storia, ma an­ che nel momento della Rivelazione attraverso le interpretazioni della Legge8. Alla luce di questa intensa dialettica interpretativa è da leggere il riferimento di Fink al saggio di Harold Bloom Free and Broken Tablets: the Cultural Prospects ofAmerican Jewry, che ritiene che sia il trasferimento di questa tensione dai libri sacri alla let­ teratura profana a consentire il sopravvivere dell’ebraismo americano9. In Bloom si profila, per così dire, un ebraismo laico, che mantiene il metodo dialettico quasi ossessivo di commento e interpretazione ai testi, ma esce dalla si­ nagoga ed entra in biblioteca. La textuality, l’ossessione verso il linguaggio oltre la mera alfabetizzazione (ibid. 321) è la forza che definisce la cultura ebraica nell’America moderna, anche sulla scorta di un ebraismo originariamente di lingua tedesca che si appropria di due principi: uno di Novalis, per il quale fare filosofia significa sentirsi a casa in ogni luogo, e l’altro di Nietzsche, per cui l’arte esprime il desiderio di essere diverso e di essere altrove (ibid. 324). Perciò l’intellettuale ebraico americano da un lato si adatta al luogo e alla lingua inglese (e a volte ne diventa uno degli artefici più raffinati, come Deimore Schwartz, per esempio, an­ che nel ritratto allusivo che ne dà Saul Bellow nel personaggio di Von Humboldt 7 Elèna Mortara Di Verdi, “Henry Roth e le lingue di Babele”, in Guido Fink e Gabriella Morisco (a cura di), Il recupero del testo, op. cit., pp. 96-106. 8 David Bidussa (a cura di), Ebrei moderni: identità e stereotipi culturali, Bollati Boringhieri, Milano 1989, pp. 85-87. 9 Harold Bloom, Agon: Towards a Theory of Revisionism, Oxford University Press, Oxford and New York 1982, pp. 319-329.

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Fischer), dall’altro punta sempre verso un altrove, verso una diversità irriducibile che la società tende a trascurare, se non addirittura a sopprimere (“The German Jewish intellectuals foundered upon this conflict of definitions, both of which were used against them by the Germans”)1011 . All’interno della cultura ospitante, la riserva identitaria ebraica si dà infat­ ti spesso proprio come parodia, come “canto a fianco” che passa l’originale al contrappelo, lo radiografa, lo viviseziona, ne mostra i punti forti e deboli. In un primo tempo, la parodia si proietta su altre etnie, come è il caso ne II cantante di jazz (Al Crosland, 1927): Jakie Rabinowitz diventa Jack Robin per sfondare a Broadway e si tinge di nerofumo, ma resta sempre e comunque un cantore di sinagoga. E se non c’è dubbio che, come nota Michael Rogin parafrasato da Fink, il blackface sia “facile divertimento a spese degli afroamericani, gruppo et­ nico ancora sottomesso e sofferente”11, cinquant’anni più tardi circa sarà proprio il regista ebreo Mel Brooks a usare proprio il conflitto razziale per dar vita allo sceriffo nero Bart di Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974), in cui si sovrappon­ gono l’aplomb afroamericano di Cleavon Little e l’ingegno comico infaticabile dello Schlemiel (come conferma, del resto, la presenza costante del compagno di sventure Jim, ex-galeotto e bevitore, interpretato dall’inconfondibile ebreo Gene Wilder). Anche un volto afroamericano autentico (forse anche quello polemico di Richard Pryor, per cui il ruolo era stato pensato in origine; ma la produzione volle altrimenti) può prestarsi con successo a un’efficacissima parodia ebraica, in cui traspare comunque lo spirito d’origine, il dybbuk che passa attraverso il corpo altrui, il vecchio che si vede attraverso il nuovo. La metafora pertinente è quindi quella enunciata da Walter Benjamin nella prima delle sue “Tesi di filosofia della storia”: il nano nascosto dentro al pupazzo, che lo manovra e gli fa vincere la partita a scacchi12. Per vincere, bisogna nascon­ dersi: l’ebreo prende forza proprio dal non farsi vedere, dal sottrarsi al contatto (o al contratto) sociale immediato dietro una maschera, un paravento o addirittura un muro. E infatti il caso estremo del regista teatrale Lucas Steiner, ne L'ultimo metrò (1980) di Francois Truffaut, che controlla l’intera messa in scena ascoltan­ do le voci degli attori attraverso un condotto che arriva fino al suo nascondiglio. La storia si svolge nella Parigi del 1942, quindi la metafora di Benjamin è più che mai pertinente: la partita va vinta e, operando con attenzione e di nascosto, alla fine la si vincerà13. 10 Ibid., p. 324. 11 Guido Fink, Non solo Woody Alien, op. cit., p. 20. 12 Walter Benjamin, Angelus novus: saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1982, p. 75. 13 Guido Fink, “Nella soffitta”, in appendice a Ernestina Pellegrini, La riserva ebraica: il mondo fantastico di Arturo Loria, Diabasis, Reggio Emilia 1998, pp. 157-169

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Se in Europa, specie in certi tempi, ci si deve nascondere, in America bisogna invece salire alla ribalta; lì l’identità ebraica entra di prepotenza. Perciò Zero Mostel mantiene tanti tratti del teatro yiddish anche quando recita in inglese e i Fra­ telli Marx si dimostrano sempre per gli askenaziti che sono anche quando i loro personaggi sono diversissimi: avvocati di grido, professori di prestigio e rettori d’università, immigrati italiani, vagabondi... Resta comunque costante il loro rapporto complesso col linguaggio: dai gag di parola e dai “cortocircuiti verbali” di Groucho14, alla pronuncia storpiata di Chico e ai suoi giochi di parole abbinati ai muti e mimati enigmi barocchi di Harpo. In ogni personaggio, i Marx restano i Marx, ognuno con la sua cifra caratteriale: il rimosso ritorna nella parodia. L’altro caso (opposto) alla ribalta è Woody Alien, il cui l’ebraismo è ormai dichiarato. L’ebreo diventa quindi non la parodia dell’altro, ma di sé stesso. Già il nome d’arte è in sé un soprannome: “Alien pezzo-di-legno”, l’epiteto-destino di un ragazzino un po’ rigido e quindi destinato al ludibrio in quello Shletl di riporto che è Midwood a Brooklyn, suo quartiere d’origine. Però Alien rimane woody anche lontano da Midwood, in piena Manhattan, quando, alla bionda che dichiara di aver lasciato perdere Dio e ogni senso di colpa, risponde: “Anch’io, e mi sento in colpa per questo!”. L’allusione continua al proprio essere ebreo è il segno che nel Woody Alien personaggio (nella silhouette proiettata sul fondale nelle ultime sequenze di Stardust Memories, del 1980), lo schlemiel è finalmen­ te scomparso del tutto. Al suo posto c’è un intellettuale moderno e integrato nella grande città, che ormai è diventata il suo habitat indispensabile (e trattata con affetto, ma anche con incessabile parodia, come all’inizio di Manhattan, del 1979). Alien è l’ebreo moderno che ogni giorno, tra agio e disagio e tra gioia e depressione, affronta una vita piena di solitudine e miseria (e troppo breve), ma riesce anche a raccattare una qualche elargizione di grazia, or whatever works. E sa di essere sotto osservazione di fronte a una folla di sconosciuti, come un comico in pedana (e spesso è proprio un comico in pedana), e e di doverli convincere di essere uno di loro; ma ciononostante resta sempre sé stesso, l’outsider irriducibile, l’Ebreo Errante, la maschera che è ormai diventata il volto. “E quando le maschere cadono, o non c’è tempo o modo di infilarsele? In questi casi, l’immagine - meglio: lo sguardo altrui - ci sorprende nella nostra nudità, nel nostro essere o sembrare un’immagine inguardabile del Padre; e la reazione può essere traumatica”, ci dice Fink (2001: 21). L’ebreo allora risponde con la consapevolezza di vivere il conflitto tra una tradizione che spesso gli sfrig­ ge e un mondo nuovo fatto di ingratitudine e di desolazione. Però ogni tanto la storia dà qualche occasione diversa, forse proprio nel momento del pericolo (e la storia va riconosciuta come pericolo, insegna Benjamin). Alla fine de II grande 14 Italo Calvino, Una pietra sopra: saggi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980, p. 302.

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dittatore (1941), al barbiere ebreo capita di finire in pedana per sbaglio, proprio quando non vorrebbe, e al posto del suo assassino. Allora tutte le maschere ca­ dono davvero e resta solo Chaplin uomo, invecchiato e solcato dalle rughe e dai capelli bianchi; ed è un’immagine inguardabile, un momento di protagonismo narcisista fuori luogo, che però si stempera e si redime nella voce dell’amore del Padre, che, evangelicamente e cristianamente (“il regno di Dio è già in mezzo a voi”, cita Chaplin da Luca 17:21), accoglie nel Popolo Eletto il mondo intero, liberandolo non solo dal male, ma anche dalla vergogna. La differenza irriduci­ bile è tutta lì.

GUIDO FINK: MOMENTI DI UN INCONTRO Elèna Mortara

Ringrazio gli organizzatori dell’incontro a Bologna, così commovente e così festoso insieme, per averci permesso di essere riuniti a esprimere tutto l’affetto e l’ammirazione che sentiamo per Guido, insieme alla gratitudine per quanto ci ha dato e continua a darci con i suoi scritti. Già altri hanno citato le Lezioni america­ ne di Italo Calvino, il libro uscito postumo nel 1988, in cui sono raccolte cinque delle sei “proposte per il prossimo millennio” che Calvino, a metà degli anni ’80 del Novecento, si stava preparando a esporre nelle Charles Eliot Norton Lectures all’Università di Harvard1. I valori da ricordare e portare con sé nel millennio successivo per Calvino erano: la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità, e infine, rimasto incompiuto per l’improvvisa morte dello scrittore, la coerenza. Ebbene, volendo offrire un sintetico ritratto di Guido Fink, mi sem­ bra che non vi siano parole più adatte di queste proposte da Calvino: perché quei valori, il Guido che abbiamo conosciuto li ha riuniti in sé, sono stati caratteri essenziali della sua personalità. E quanto alla coerenza, quella consistency che per Calvino includeva anche l’idea della openness (l’apertura dell’io al mondo), anche il tragico incompiuto di quest’ultima voce non scritta si stende come un’ombra sul doloroso incompiuto della vita di Guido, nei suoi ultimi anni di malattia affettuosamente assistita. La mia conoscenza e amicizia con Guido è nata inizialmente in contesto di studi americani, nell’ambito dell’Associazione Italiana di Studi Nord-Americani (AISNA), alla cui fondazione abbiamo partecipato nella prima metà degli anni ’70. Questa amicizia si è poi alimentata nel corso di tanti anni per una sorta di 1 Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988.

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sotterranea complicità, basata innanzitutto sul comune interesse verso il filone del contributo ebraico alla cultura americana e su un comune sentire rispetto a questi temi: eravamo sulla stessa lunghezza d’onda, bastava poco per intenderci e apprezzarci vicendevolmente. Alcuni dei momenti di incontro scientifico si sono svolti proprio nella città di Bologna. Ricordo, a proposito della capacità di Guido di creare contatti, che lì, in occasione di un qualche evento organizzato per l’AISNA, lui fece conoscere personalmente a me e altri americanisti italiani il grande critico Leslie A. Fiedler, un tempo fondamentale punto di riferimento per chi si occupava di letteratura americana ed ebraico-americana negli anni ’60 e ’70. Poi, un decennio dopo, a metà degli anni ’80, promosse un gruppo di ricerca interuniversitario che coin­ volse le Università di Bologna, Feltre, Firenze, Genova e Roma, dedicato a “Il re­ cupero del testo nella letteratura ebraico-americana”, e, insieme a Gabriella Mo­ risco, organizzò il primo convegno di questo gruppo di ricerca, svoltosi nel 1986. Due anni dopo, a cura di Guido Fink e Gabriella Morisco, uscivano gli atti del convegno nel volume // recupero del testo. Aspetti della letteratura ebraico-america­ na. Sempre nel 1988, in giugno, nell’ambito della stessa ricerca interuniversitaria ebbe luogo il secondo convegno, questa volta sul tema della “Memoria e tradi­ zione nella cultura ebraica”, che si svolse con ampia partecipazione di studiosi al Centro Studi Sorelle Clarke di Bagni di Lucca, e che, puntualmente, due anni dopo portò all’uscita di un secondo volume, Memoria e tradizione nella cultura ebraico-americana, con stessi curatori e stessa casa editrice, la Clueb. Nella post­ fazione al volume, la riflessione di Guido si soffermava, con guizzo come sempre originale, sulle “tentazioni dell’oblio” colte nella letteratura contemporanea. Tutto questo filone di ricerca, e i molti suoi articoli sulla produzione cinema­ tografica disseminati in varie testate, confluirono poi nel capolavoro di Guido Fink del 2001, il volume sul contributo ebraico al cinema americano, Non solo Woody Alien, libro di una vita e dedicato alla donna della sua vita, “Per Daniela, che ha visto e rivisto con me tutti questi film”, pubblicato nel periodo felice in cui Guido viveva a Los Angeles con un incarico istituzionale importante: un’o­ pera chiave nella storia della produzione letteraria di Fink e una pietra miliare di questi studi in senso assoluto. Dietro a questa opera, vi è tutto un lavoro preparatorio precedente, su cui conviene ancora soffermarsi. Tra i molti scritti da lui dedicati al tema del cinema ebraico americano, vorrei in particolare segnalarne uno, meno noto ma impor­ tante (che sarebbe bello vedere un giorno incluso in una nuova edizione del suo volume postumo a cura di Roberto Barbolini, Nel segno di Proteo. Da Shakespe­ are a Bassani, 2015). E un testo che si intitola: “Se un ebreo mangia un pollo... Censura e autocensura nell’umorismo ebraico”, uscito in volume nel 1992 in un repertorio bibliografico di cui io curai la sezione letteraria e linguistica, e a

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cui Guido contribuì con questo saggio, profondo e ricco di humour, collocato tra quelli introduttivi. “Se un ebreo mangia un pollo”, recita un racconto tradizionale dell’umorismo ebraico di matrice yiddish citato da Guido, “uno dei due è malato”. E da lì lui muove per una variegata dimostrazione degli opposti significati (dalla be­ nevolmente ironica autocommiserazione alla denigrazione basata sullo stereotipo) che la battuta può assumere a seconda degli uditori in cui viene ascoltata: Se un ebreo mangia un pollo... Il fatto che un pasto del genere sia un evento raro, può significare che l’ebreo è povero', esempio di lettura patetica (e “simpatetica”). Può significare che l’ebreo è avaro-, lettura antisemita, o almeno lettura che in certi contesti può diventare tale2.

Ma il quadro si complica ancora se ci si domanda, con Guido: “Se un ebreo mangia un pollo... Ma quale ebreo? Forse è uno di quei padri o nonni askenaziti di cui l’ebreo ‘moderno’ si vergogna, trovandolo ‘troppo sfacciatamente ebraico’. E quale ebreo sta parlando, quale ebreo sta ascoltando?”3. Così, di domanda in domanda, il ragionamento procede in un esercizio ermeneutico che, attraverso un mosaico raffinato di citazioni e accostamenti letterari e cinematografici, scava nella complessità del reale, delineando la storia di un filone culturale e della sua fortuna, anche critica, nel tempo. E una sintetica esplorazione del campo che al­ cuni anni dopo sarà oggetto di studio nel più ampio e articolato lavoro del 2001. In Non solo Woody Alien. La tradizione ebraica nel cinema americano, vi è un capitolo intitolato “Chutzpah”, termine yiddish entrato nel vocabolario inglese­ americano che, come specificato nel Cambridge Dictionary ofAmerican English citato nel libro, significa “Comportamento sfacciato, spesso scortese, senza ri­ guardo per le opinioni o la sensibilità degli altri”. In questo capitolo viene rac­ contato il momento verso la fine degli anni ’60 in cui nel cinema ebraico ameri­ cano “si inaugura ufficialmente l’era della chutzpah, dell’ebraicità vissuta in modo orgoglioso e aggressivo”4. La chutzpah è sfacciataggine e insolenza, ma è anche audacia di fronte ad un mondo ostile, è il coraggio di esprimersi in maniera pie­ na, anche con i propri difetti. E di una certa dose di chutzpah sembra aver avuto bisogno anche Guido allorché, in una sorta di cornice personale all’inizio e alla fine di Non solo Woody Alien, racconta il modo in cui è arrivato a riconoscere l’esistenza del fenomeno ebraico-americano, tema del suo libro, e a ritornare in contatto pieno con la sua stessa ebraicità. 2 Guido Fink, “Se un ebreo mangia un pollo... Censura e autocensura nell’umorismo ebraico”, Quaderni di Libri e Riviste d’Italia n. 27. La cultura ebraica nell’editoria italiana (1955-1990). Repertorio bibliografico, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1992, p. 117. 3 Ibid. 4 Guido Fink, Non solo Woody Alien, op. cit., p. 209.

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Questo percorso viene descritto nel capitolo che funge da Introduzione, che con briosa inventiva si intitola “Prima di Cominciare”. Qui Guido racconta il suo rapporto con l’identità ebraica, un’identità vissuta dapprima solo nell’ambito fa­ migliare, abitando a Ferrara, in una Comunità ebraica, come lui spiega, “ridotta ai minimi termini dopo la guerra”, senza nessun sopravissuto della famiglia paterna e materna se non lui stesso e la madre, e senza rapporti con il mondo ebraico cir­ costante. “Forse senza rendermene conto, avevo finito col pensare che essere ebrei fosse un fatto privato, di cui non parlare se non sottovoce e fra noi”: una strate­ gia di difesa, la sua, cui non era estraneo il clima ostile avvertito nel rapporto col mondo circostante. Andando alla scuola media, racconta Guido, “vari compagni (e alcuni professori) si preoccupavano del mio futuro nell’al di là invitandomi ener­ gicamente alla conversione e infilandomi santini nella cartella.” Ma anche dopo, ai tempi del liceo, in un contesto apparentemente più aperto e progressista, “avrei in­ contrato ragazzi militanti di sinistra (e iniziato le collaborazioni come ‘vice-critico cinematografico’ alle pagine ferraresi dell’ Unità, non senza futuri problemi per la concessione del visto per gli USA), scoprendo così che del mio essere ebreo potevo benissimo parlare, specialmente in quanto figlio e nipote di vittime del nazifasci­ smo, ma stando bene attento a non sfiorare mai argomenti come il sionismo e lo stato di Israele”5. Sono gli anni delle sue collaborazioni giovanili, non solo all’ Uni­ tà, ma anche al settimanale comunista di Ferrara La Nuova Scintilla, su cui ha scrit­ to Alessandra Calanchi in un recente articolo6. Anche in questo contesto altamente ideologizzato, continuava dunque la paura di esporsi, l’autocensura. Soltanto dopo la laurea, andando in America all’inizio degli anni ’60 con un incarico di insegnamento dell’italiano in una università del New Jersey, e recan­ dosi spesso a New York per visionare da cinefilo vecchi film degli anni ’30 e ’40, è soltanto allora che per la prima volta Guido scopre con sua meraviglia un mondo in cui l’identità ebraica viene esposta senza paura e ritegno: insegne in ebraico e in yiddish appese all’ingresso delle botteghe del Village, una quantità incredibile di sinagoghe di diversa denominazione in uno stesso isolato dell’Upper West Side; e poi, nel campus universitario del New Jersey, il fermarsi di praticamente tutte le attività nei giorni delle maggiori festività ebraiche; “e se fra colleghi o studenti sentivo qualcuno che se ne lamentava, o ridacchiava, o raccontava sto­ rielle antisemite, potevo stare tranquillo: erano ebrei anche loro, proprio come me”7. “Potevo stare tranquillo”, confessa significativamente Guido, rievocando quel primo momento di incontro con l’America e di scoperta, non ancora appro­ fondita e rielaborata, con il mondo ebraico-americano. 5 Ibid., p. 9. 6 Alessandra Calanchi, “Guido Fink and American Film Studies: The Early Years (1952-1953)”, RSA Journal, n. 26, 2015, pp. 77-92. 7 Guido Fink, Non solo Woody Alien, op. cit., p. 209.

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Il cerchio delle confessioni si chiude nelle ultime pagine di Non solo Woody Alien, in un capitolo dal titolo altamente allusivo: “Al cinema nel buio... Per un identikit dello spettatore ebreo”. Qui Guido affonda nei ricordi di infanzia, rie­ vocando il suo primo incontro furtivo con il cinema, all’età di nove o dieci anni, nell’estate del 1945: [...] subito dopo la fine della guerra, in un angolo dell’atrio dell’unico cinema aperto a Ferrara, il Teatro Nuovo, riservato alle truppe angloamericane di occupazione, e alle loro accompagnatrici: avevo scoperto, in quell’epoca di cinematografi a ingresso continuato, che ogni volta che entrava una nuova coppia di spettatori, e si scostava la pesante tenda rossa che divideva l’atrio dalla platea, potevo cogliere immagini rubate a un contesto misterioso, commentate da una lingua allora per me sconosciuta. Per me era un’esperienza a un tempo eretica e religiosa8.

Questa rievocazione si iscrive, come in un gioco di scatole cinesi, all’interno di un altro più recente ricordo connesso, anch’esso evocato, che risale al 1980, quando Guido era di nuovo in America, questa volta alla Columbia University di New York. Tra le altre cose, si era iscritto come auditor in un corso sul cinema tenuto da un ultraottantenne Samson Raphaelson (autore della commedia The Jazz Singer, il cui testo del 1925, riadattato, aveva ispirato il mitico primo film sonoro della storia del cinema, del 1927), e in quel contesto aveva cominciato a scrivere un ricordo della sua esperienza di incontro col cinema nel 1945, senza però riuscire a terminare quella scrittura. Si trattava in fondo di fatti suoi per­ sonali, commenta Guido, giustificandosi; anche se, aggiunge, già allora lui si rendeva conto che a quei fatti e a quelle esperienze doveva il grande amore che aveva sempre provato per il cinema americano. Ma nel 1980, quando in quel suo incompiuto incipit di memoria autobiografica aveva cercato di rievocare l’allet­ tante aprirsi delle tende rosse del cinema di Ferrara e al di là di esse il suo primo sbirciare le immagini cinematografiche, vi era, invece, un’altra cosa importante che ancora ignorava, e che riguardava se stesso: “Che poi, al di là di quella pesan­ te tenda rossa, avrei trovato anche qualcosa che mi avrebbe di fatto ricollegato al mio essere ebreo, ancora, invece, non lo sapevo”9. Questa è la confessione-chiave con cui si conclude il libro Non solo Woody Allen. Il quale, nelle circa 250 pagine precedenti, cerca di dare ordine e coerenza di discorso alla quantità di scoperte relative allo straripante fenomeno del ci­ nema ebraico-americano, fatte nel corso dei venti anni precedenti, a partire da una data ben precisa, di poco posteriore a quel 1980, e in contesto italiano. E il 1982, quando Guido viene coinvolto nell’organizzazione di Freedonia, una ras­ 8 Ibid., pp. 275-276. 9 Ibid., p. 276.

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segna del cinema comico ebraico americano ideata da Fabrizio Borin1011 . È allora, come racconta nel libro, che comincia “a pensare in modo più sistematico e, diciamo, specialistico o ‘settoriale’, alle possibili caratteristiche di un contributo ebraico al cinema americano mainstream^. Ma l’importanza della data del 1982 per Guido Fink, quale incipit di un suo duplice percorso, di ricerca sul cinema ebraico-americano e di ricollegamento per questa via al proprio “essere ebreo”, ha un suo secondo risvolto, politico: connesso al fatto che Freedonia fu, nelle parole di Guido, “vicenda per certi aspetti disgraziata”. Il 1982, anno della rassegna, fu, infatti, anche l’anno delle stragi di Sabra e Chatila, il massacro di palestinesi compiuto nelle vicinanze di Beirut dalle Falangi cristiano-maronite libanesi e dall’Esercito del Libano del Sud, con la supposta complicità dell’esercito israelia­ no che, presente nel paese, non intervenne per evitare la strage. Osserva Fink a questo proposito, riferendo quello che avvenne: Nella comprensibile e giustificata indignazione per quelle che secondo varie fonti erano le responsabilità israeliane, l’ondata di antisemitismo generalizzato che si poteva avvertire nel nostro paese, e che spingeva, per precauzione, le autorità comunali delle città che avevano promosso la manifestazione a rinviarla forse sine die, è sembrata a me e ad altri [...] un fatto gravissimo: su quali basi, se non su un allarmante razzismo, si poteva attribuire responsabilità o “concorsi di colpa” anche a Lubitsch, Woody Alien, e ai fratelli Marx, oltre che a Leslie Fiedler e Jules Feiffer, i quali ultimi erano già stati invitati per le conferenze introduttive?12

E a questo punto che, di fronte allo scandalo di un risorgente antisemitismo di tipo politico-culturale, Guido Fink sentì il bisogno di agire, opponendosi, come spiega dando conto delle sue reazioni: “dopo quel ‘rinvio’, e la sofferta decisione di ‘denunciarlo’ alla stampa, non avrei più avuto esitazioni di sorta. [...]: era op­ portuno, se non un preciso dovere, spiegare cosa volesse dire essere un regista (o un attore, o uno scrittore) ebreo”13. Un impegno di informazione e formazione, che fu da quel momento profuso da lui non solo nella ricerca e nella critica mili­ tante, poi confluite nel volume del 2001, ma anche nell’insegnamento universi­ tario a Bologna e poi a Firenze: con un po’ di necessaria chutzpah, e come sempre con molta capacità di collegare vari mondi, saperi, e discipline, in un continuo rapporto con il contesto di quello che avviene nel mondo presente.

10 Fabrizio Borin (a cura di), Freedonia. Cinema comico ebraico americano. Comune di Comune di Modena e Comune di Venezia, Venezia 1982. 11 Ibid., pp. 10-11. 12 Guido Fink, “Ach, l’America!”, in E Borin (a cura di), Freedonia (1982), p. 11. 13 Ibid., p. 12.

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Nel gennaio del 2000 ebbi la fortuna di poter andare a trovare Guido Fink e Daniela a Los Angeles, accolta da loro, insieme a mio marito Sergio, nella solita maniera così affettuosa e ospitale, nella loro casa che dava sull’oceano, ricordo luminosissima. Era questo il momento probabilmente più splendido della car­ riera e della vita di Guido, il periodo in cui, dal 1999 al 2003, è stato direttore dell’istituto culturale italiano di Los Angeles, riuscendo a dare un grandissimo impulso alle attività dell’istituto, con centinaia di iscritti ai corsi di lingue, mi­ gliaia di partecipanti alle attività culturali, grandi retrospettive cinematografiche, e una stretta collaborazione con il Dipartimento di Italiano della UCLA. Mentre ero lì, ebbi il piacere di accompagnare Guido a un incontro all’università con Luigi Ballerini, poeta e studioso di origini milanesi ma da molti anni docente presso la UCLA. Il piacere per me era accresciuto dal fatto che a metà degli anni sessanta, quando ero ancora studentessa universitaria, avevo condiviso con Ballerini e altri studenti dalle diverse università italiane la felice esperienza di un Seminario di studi americani presso il Centro Studi Americani di Roma. Si trattava dunque di rivedere un vecchio amico, cosa che fu occasione gioiosa per entrambi. Dopo il Seminario di studi americani, nel 1966 Luigi Ballerini aveva tradotto l’importante libro di Leslie Fiedler Waiting for the End, uscito con il titolo Aspettando la finex\ e aveva poi iniziato una carriera di poeta e docente universitario in America. Ora, mettendo da parte i ricordi personali, vorrei far sentire, per quanto pos­ sibile, la voce di Guido, leggendo le epigrafi da lui anteposte a due dei suoi libri: in queste note iniziali selezionate da testi altrui, vi è sempre il senso di qualcosa di essenziale che si vuole segnalare sinteticamente al lettore. La prima epigrafe è quella con cui si apre la sua “Presentazione” della raccolta di saggi II recupero del testo, da cui sono partita in questo ricordo. E una battuta di black humour, tratta da Zelig di Woody Alien, un film molto amato da Guido, e anche da me. Ecco il breve testo: Sul letto di morte, disse ai dottori di essere soddisfatto della sua vita; solo una cosa gli dispiaceva. Aveva appena cominciato a leggere Moby Dick, e avrebbe voluto sapere come andava a finire14 15. 14 Leslie A. Fiedler, Waitingfor the End: The Crisis in American Culture, Race, and Sex, Stein and Day, New York 1964, trad. Aspettando la fine. La crisi della cultura, della razza, del sesso negli Stati Uniti, Rizzoli, Milano 1966. 15 Guido Fink, “Presentazione”, in Id. e Gabriella Morisco (a cura di), Il recupero del testo. Aspetti della letteratura ebraico-americana, Clueb, Bologna 1988, p. 7'.

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Vi è affettuosa autoironia in questo scherzare sul proprio desiderio di continuare a vivere, aggrappandosi alla scusa di voler leggere un libro fondamentale che non si è mai letto fino in fondo. La vita non basta per fare tutto quello che si vorrebbe. Sul crinale tra la vita e la morte, quello che prevale è sempre l’attaccamento alla vita. Ed ecco la seconda epigrafe, scelta per quello che credo sia stato il suo ultimo lavoro importante, il suo saggio introduttivo all’opera di Saul Bellow nei Meridiani Mondadori da lui curati, il cui primo volume è uscito nel giugno del 2007. Ricordo con quanta fierezza e quanta fatica Guido stava lavorando alla curatela di quei volu­ mi, ormai tornato da Los Angeles e già all’inizio della sua malattia, una volta che lo andai a trovare a Firenze. La citazione anteposta al saggio è dello stesso Saul Bellow, ed è riportata da un saggio fondamentale dedicato a questo autore da Agostino Lombardo nel 1965: saggio che ben conosco, perché a quell’epoca ero allieva di Lombardo all’Università degli Studi di Milano, e lui, conoscendo il mio embrionale interesse per il filone della letteratura ebraico-americana, durante un ricevimento mi mostrò un brano importante del suo testo ancora in versione manoscritta, con grande umiltà chiedendo alla sua allieva un parere su quanto aveva scritto. Ebbene, la citazione da Bellow che Guido ha scelto come epigrafe nel suo saggio per i Me­ ridiani ha di nuovo per tema la vita. Citata da lui nell’originale inglese, essa dice: “Either we want life to continue or we do not. If we don’t want it to continue, why write books?”16. Ancora una volta, ci troviamo ad un bivio, tra la vita e la fine della vita; e nell’incitamento a una letteratura che sia inno alla vita, invito che attraverso il doppio tramite di Bellow e Lombardo ci viene rivolto da Guido, sentiamo l’eco lai­ cizzato del verso biblico: “io ho posto davanti a voi la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli la vita” (Deuteronomio 30: 19). Certo, è struggente cogliere questa sua insistenza nell’evidenziare il tema dell’attaccamento alla vita, e questo continuo giocare sul tema del rapporto tra vita e letteratura. Con una nota più allegra, concluderò facendo ascoltare la voce di Guido non mediata da citazioni altrui, ma quale si può riascoltare nella trascrizione di una bella intervista rilasciata ad Armando Adolgiso nel periodo in cui Guido dirigeva l’istituto di cultura italiana a Los Angeles, intervista che si può leggere in rete. L’intervistatore introduce Fink, cita la recente pubblicazione di Non solo Woody Alien, e, dopo essersi dichiarato suo ammirato lettore da tempo, esalta, con paro­ le molto azzeccate, “il modo spigliato, vispo, lontano da accademismi, che segna la sua scrittura”. Quindi, dopo un vivace scambio di battute scherzose, chiede al suo ospite di auto-presentarsi, offrendo un proprio ritratto interiore che risponda a questa prima domanda: “chi è Guido secondo Guido”. Ed ecco la risposta:

16 Guido Fink, “Saul Bellow o dell’autobiografia indiretta”, in Ibid, (a cura di), Saul Bellow. Romanzi, Meridiani Mondadori, Milano 2007, p. xi.

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Chi è Guido secondo Guido? Ti rispondo con le parole di un fornaio di Argenta, paese romagnolo in provincia di Ferrara. Avevo ventidue o ventitré anni, insegnavo nella scuola media locale, e stavo portando i miei scolari - prima media - a visitare non so che mostra. Il fornaio ci ha visto passare e ha chiesto a uno dei bambini che conosceva: “Ma chi è quel bambino vecchio lì con voi?”. Ecco, Guido Fink è un bambino vecchio che per anni e anni ha fatto l’insegnante, e forse per qualche anno lo farà ancora, e invece avrebbe voluto e vorrebbe ancora imparare17.

In questo autoritratto scherzoso di Guido, il “bambino vecchio” che avrebbe voluto e vorrebbe ancora imparare, noi lo riconosciamo per come lo abbiamo conosciuto: con la sua freschezza, la sua grazia, la sua gentilezza di modi, la sua dolcezza, la sua ironia ed arguzia, la sua curiosità, la sua raffinatezza umana e intellettuale, la sua capacità di creare rapidi collegamenti, la sua apertura al mon­ do e alle diverse culture (basti pensare all’iniziativa, presa da neo-docente, di far uscire i ragazzi da scuola), la sua capacità di riconoscere il valore degli altri e la generosità di giudizio verso le persone stimate (fosse anche il più umile fornaio), e insieme il suo coraggio neH’esprimersi criticamente di fronte a giudizi non condivisibili, anche se di figure influenti del mondo intellettuale e accademico; e poi, la sua vasta cultura, il suo senso dell’umorismo, e, dote preziosa, la lievità unita alla profondità.

17 Armando Adolgiso, Intervista a Guido Fink, Enterprise. Voci e pensieri dallo spazio, 2001, (ultima consultazione 5 giugno 2016).

AFTERWORD: “MI RISULTA CHE” Enrico Fink

Mi risulta che il primo Fink ad arrivare in quella che poi sarebbe stata Italia, perché non lo era ancora, è stato... son stati i miei nonni, mio nonno Benzion Fink e sua moglie Rosa Birnbaum. Questo è l’inizio di una lunga intervista che feci a mio padre nel settembre del ’96; avevo appena fatto una scelta complicata e definitiva sul mio futuro, che aveva creato non poco sconcerto in casa; e, fedele al percorso che mi ero scelto, mi proponevo di investigare e studiare la storia di famiglia, o almeno di quella parte della famiglia. L’intervista la feci più che altro per mettere insieme i pezzi di una mia personale ricerca identitaria, per avvicinarmi a e appropriarmi di nomi, ricordi, fantasmi vari (per lo più della comunità ebraica di Ferrara) che avevano colorato la mia infanzia, tra gli accenni di mio padre e di mia madre e quelli più consistenti ma meno frequenti di mia nonna Laura, che era scomparsa da un paio d’anni. E così feci un sacco di domande a mio padre sulla composizione della comunità, sugli ashkenaziti, i sefarditi e gli italiani, se si pregasse a scuola tedesca o scuola spagnola, o da quale parte d’Ucraina venissero i bisnonni Fink; ma le parti senz’altro più interessanti di quella conversazione restano, a oggi, i ricordi personali dell’infanzia di mio padre, la sua voce di allora sessantenne che racconta il suo sguardo di bambino negli anni prima della e durante la guerra. Quell’intervista è rimasta poi un punto fermo di tutta la mia vita lavorativa, ol­ tre che personale; grande parte delle cose che ho fatto pensato scritto e cantato hanno trovato una qualche ispirazione o traccia di partenza in quel materiale, e per tutta la mia vita da allora ho cercato di riordinarlo, di riscriverlo, di porlo

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in una qualche forma definitiva, forse in una specie di romanzo di formazione mettendoci tanto tempo da superare abbondantemente l’età buona per scrivere romanzi di formazione, credo. Qui ne porterò qualche frammento, pieno come in tutte le memorie di im­ precisioni, e come in tutte le riscritture di libertà, libertà che mi sono preso di spostare un ricordo qui o lì o cambiarlo giusto un poco. Libertà in fase di editing e di missaggio, come si direbbe nel produrre un disco. Ma i ricordi di mio padre sono interessanti, anche per capire meglio tante delle cose che ha fatto negli anni successivi, tante delle cose di cui si parla anche in questo volume. Non so quanti, fra chi lo ha letto fin qui ma anche fra chi ha partecipato alla sua stesura, possa sapere che forse il volume stesso non avrebbe ragione di esistere, forse non sarem­ mo qui, forse mio padre non si sarebbe mai occupato di letteratura americana, non fosse stato per un certo maitre d'hotel sfollato ad Albarea durante i bombar­ damenti, nell’inverno del ’44-’45. Parto da qui, quasi dalla fine del racconto; ma tanto la trama non è il punto, come comincia - con le persecuzioni, le leggi razziali - e come finisce - col salvarsi di mio padre e di sua mamma, nascosti in campagna sotto falso nome - non è certo un mistero.

***

...Lentamente l’estate passò, le giornate tornarono ad accorciarsi e il freddo a farsi sentire. Col procedere della guerra, ormai un gran numero di ferraresi si era spostato fuori città; e la fattoria di Albarea adesso ospitava non più solo Laura, Guido, Berto Annunziata e i loro nove figli - ma anche la signorina Balboni e sua madre; e un ometto rotondo, piccolo, con degli occhiali sottili su di un naso grassoccio. Di mestiere faceva il maitre d’hotel, e mostrava chiaramente quanto fosse seccante essere qui, sfollato in campagna, in una compagnia molto meno elevata di quella a cui era abituato. La signorina Balboni aveva con sé un libro, un romanzetto d’amore dal titolo Bionda in Viola. Sulla copertina giallognola, una donna si stringeva a un uomo che assomigliava un po’ a uno di quegli attori americani dei film proibiti dal regime, alto, bello, sicuro: insieme guardavano lontano, appoggiati a un parapetto sul mare, mentre un gabbiano volava in lon­ tananza. Non era la migliore lettura possibile per un ragazzino di nove anni e mezzo, o questo aveva insistito a dire la signora Balboni, ma Guido l’aveva tanto pregata di prestarglielo; e anche Laura, interpellata sull’opportunità che il suo bambino leggesse un romanzo d’appendice, aveva detto “Mah, se non è un gran disturbo, Guido è così tanto un gran lettore, si figuri che Via col Vento lo sa a

Afierword: “Mi risulta che”

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memoria ormai...”. Così, non appena lo ebbe finito, la signorina Balboni glielo passò, e Guido ci si lanciò con la fame arretrata di un prigioniero tenuto per mesi a pane e acqua. Il maitre era infastidito da questo bimbette saputello che se ne stava tutto il giorno a leggere, o forse dalla madre che non perdeva occasione di magnificarne l’intelligenza - “è un genio, il mio piccolo Guido, Via col Vento or­ mai lo sa a memoria, ma parola per parola eh! Chissà da chi avrà preso...”; tanto che un giorno sbottò, con la sua vocetta un po’ stridula “Ma insomma basta con questa storia di Via Col Vento a memoria. Cosa vuole che lo sappia a memoria, che è un librone alto così.” “Glielo assicuro. Lo metta alla prova”. Guido era sdraiato nel suo letto, troppo impegnato a leggere per fare caso a sua mamma, al maitre e alle Balboni madre e figlia che erano salite in casa come una proces­ sione per questa sfida lanciata - a sua insaputa - alle sue capacità mnemoniche; il maitre aveva preso il grosso libro che stava lì in bella vista, appoggiato su un ripiano del mobile azzurro; l’aveva aperto poco oltre la metà, e aveva cominciato a declamare a voce alta: “Miss Rossella”, furono le sue prime parole, “quanto denaro contante avete da parte.” “Vi proponete di sposarmi per il mio danaro, Will?” chiese leggermente irritata. “No, signora. Volevo solo saperlo.” Lei lo guardò con aria interrogativa.

Era Guido, ora che guardava con aria interrogativa sua madre. Il maitre gongolan­ do continuò la lettura, quasi prendendo in giro il bambino sdraiato sul letto. Will non pareva serio, ma d’altra parte non pareva mai serio su alcunché. Ella sentì però che c’era qualcosa di strano.

Laura fece un sorriso d’incoraggiamento, annuì come a dire a Guido di far vedere quello che sapeva fare. Guido alzò le spalle, riabbassò la testa nel libro che aveva da­ vanti. Il maitre si girò verso la piccola platea, gonfio d’orgoglio per averla avuta vinta. Guido, senza più alzare il naso da Bionda in Viola, lesse con tono assente:

“Ho dieci dollari d’oro”, disse. “Gli ultimi soldi di quello Yankee.” “Allora non basterà.” Le signorine Balboni proruppero in un applauso, mentre Laura guardava il maitre, immensamente soddisfatta. “Le mie scuse signora”, fece lui. Poi aggiunse in ferrarese, con studiata cattiveria, “Mo, al sarà purassà intelligent so pàdar” mah, sarà molto intelligente suo padre...

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Però, da quel giorno il maitre aveva preso Guido sotto la sua protezione; aveva deciso che era uno spreco che un bambino simile non andasse a scuola, e si era preso carico della sua istruzione. Dopo qualche tentativo fallimentare di impe­ gnarlo sulla matematica, che del resto non era certo il suo campo d’elezione, decise di insegnargli l’inglese, che a guerra finita sarebbe senz’altro servito - e poi del proprio inglese, perfezionato in anni di educata conversazione con clien­ ti d’oltremanica, il maitre andava particolarmente fiero. In questo modo gettò anche le basi per quella che sarebbe stata la vita futura di Guido, le sue scelte di lavoro in anni lontani a venire: ma nessuno lì ad Albarea aveva modo di sa­ perlo. Nessuno era in grado di fare previsione alcuna sul futuro, in quei giorni d’autunno del ’44; soprattutto quando, mentre ancora l’inverno pareva lontano, arrivarono i tedeschi.

***

Ecco, ora non lo so se davvero quei pochi mesi di studio dell’inglese ad Alba­ rea siano stati fondamentali per tutto quello che sarebbe venuto dopo, la laurea su Henry Fielding, l’America e tutto il resto. Ma mio padre ci faceva riferimento spesso, e poi è una bella storia. Chi la sapeva già forse ha notato che ho cambiato qualche dettaglio qua o là - “al sarà purassà intelligent so pàder” credo fosse una delle battute preferite del bovaro, e non del povero maitre-, ma come vi ho detto, mi sono preso qualche licenza in fase di editing e missaggio, ho rifatto qualche collegamento a modo mio. E poi le riscritture hanno sempre le proprie libertà, e le memorie le proprie imprecisioni...

BIBLIOGRAFIA DI GUIDO FINK1il

Libri 1967 — “Pearl S. Buck: la vita e l’opera” (pp. 27-280), in AAW, Pearl Buck: premio Nobel per la letteratura 1938, Fabbri, Milano. Contiene: “Il conferimento del premio Nobel a Pearl Buck” di Kyell Stromberg e il “Discorso ufficiale di Per Hallstrom”. 1971 - Orizzonti di gloria: un film di Stanley Kubrick, Radar, Padova. 1976 - Quasi come: letteratura come parodia, parodia come letteratura (con Guido Almansi), Rizzoli, Milano (n.e. 1991). 1977 - Ernst Lubitsch, Il Castoro (La Nuova Italia), Firenze (n.e. 1995, 2008). 1977 — Cinema e teatro: verso una totalità dello spettacolo e una partecipazione critica del pubblico (con Antonio Miccolo, a cura di), Guaraldi, Firenze. 1978 -1 testimoni dell’immaginario: tecniche narrative dell’ottocento americano, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma. 1982 - Ifilm di Robert Altman, Gremese, Roma.

1 La bibliografia completa di Guido Fink è estremamente ampia e complessa. Ciò che segue è il frutto di ricerche incrociate fra le nostre biblioteche personali e quelle pubbliche, tanto tradi­ zionali e cartacee, quanto digitali. La sua redazione non sarebbe stata possibile senza l’aiuto di Daniela Fink, cui vanno i nostri più sentiti ringraziamenti. Non avanziamo pretese di esaustività: mancano all’appello parecchi articoli che non ci è stato possibile reperire, così come mancano i dati relativi alla registrazione di svariate trasmissioni radiofoniche e televisive. Ci auguriamo tuttavia che questo nostro lavoro di mappatura possa dare un’idea della varietà e vastità degli interessi e del lavoro intellettuale di Guido, e indichi percorsi per le ricerche e gli studi a venire. Abbiamo provveduto a creare una pagina di Wikipedia che riporta la bibliografia qui inserita, e gran parte di questo materiale è in corso di dematerializzazione e catalogazione presso la Biblio­ teca Renzi della Cineteca del Comune di Bologna, soprattutto grazie all’interessamento di Anna Fiaccarini, a cui rinnoviamo i nostri ringraziamenti. E ringraziamo infine per la sua collabora­ zione Martina Eduardo Pedone, studentessa dell’Università di Urbino che nella sua tesi Progetto di digitalizzazione dei lavori di Guido Fink, studioso, critico ed ex docente universitario, presso la Cineteca di Bologna (novembre 2016) ha incluso anche un’intervista a Giorgio Cremonini e una a Gabriella Morisco. Anche questa tesi verrà archiviata e sarà consultabile presso la Cineteca.

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1982 - William Wyler, Il Castoro (La Nuova Italia), Firenze. La monografia valse a Fink il presti­ gioso Premio U. Barbaro edito dai Comuni di Venezia e di Modena nel 1982. 1986 - The Celebrated Art of US Short-Story Writing (con Gianni Celati), Mucchi, Modena. 1988 - // recupero del testo. Aspetti della letteratura ebraico-americana (con Gabriella Morisco, a cura di), Clueb, Bologna. Contiene: Guido Fink, “Al di qua della parola’: l’ebreo fra Henry James e Mark Twain”, pp. 29-50. 1988 - Critici eccentrici a Ferrara, Liberty House, Ferrara. 1989 - L’avventura. Michelangelo Antonioni, director (with Seymour Chatman, eds), Rutgers University Press, New Brunswick, N.J. 1990 - R. L. Stevenson: Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, Lindau, Torino. 1990 - Memoria e tradizione nella cultura ebraico-americana (con Gabriella Morisco, a cura di), Clueb, Bologna. Contiene: Guido Fink, “Postfazione: La fortezza di Yabneh e le tentazioni dell’oblio”, pp. 387-402. 1991 - Storia della letteratura americana (con Mario Malli, Franco Minganti, Bianca Tarozzi), Sansoni, Firenze; n.e. Milano: Rizzoli, 1994, 2001, 2003, come Storia della letteratura ameri­ cana dai canti dei pellerossa a Philip Roth. 1991 - “Il cinema inglese e la folla solitaria”, in Emanuela Martini (a cura di), Free Cinema e dintorni. Nuovo cinema inglese 1956-1968, EDT, Torino, pp. 117-139. 1993 - Dies Lrae: il cinema del 1943 (con Francesco Bolzoni, a cura di), Milano-Venezia: La Bien­ nale-Fabbri, pp. 235. Pubblicato in occasione dell’omonima retrospettiva in concomitanza con la 50° mostra internazionale d’arte cinematografica, Venezia, 31 agosto - 11 settembre 19931994 - John Cassavetes: più vero del vero (con Roberta Andreucci e Luca Mazzei, a cura di), Firen­ ze: Festival dei Popoli, p. 81. 2001 — Non solo Woody Alien: la tradizione ebraica nel cinema americano, Marsilio, Venezia, p. 299. Premiato a “L’Efebo d’oro” ad Agrigento. 2003 - Le seduzioni della scena: il teatro nel romanzo fra Otto e Novecento (con Maurizio Ascari, Alessandra Calanchi, Ornella De Zordo), Le Lettere, Firenze, p. 208. Guido Fink, “In principio era Fielding” e “Una doppia condanna”, pp. 7-46. 2015 - Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani (a cura di Roberto Barbolini), Guaraldi, Rimini, p. 414.

Introduzioni,

postfazioni, traduzioni, ecc.

1960 - Prefazione a: Giorgio Bassani, Cinque storie ferraresi, Einaudi, Torino (n.e. 1977 Mon­ dadori, Milano). 1964 - Traduzione di: Paul Rotha e Richard Griffiths, Storia del cinema, Einaudi, Torino. 1969 - Prefazione a: Giorgio Bassani, Cinque storie ferraresi, Club degli Editori, Milano (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Gua­ raldi, Rimini 2015, pp. 383-394). 1972 - Prefazione a: Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano (n.e. 1991, 1995, 2000). 1975 - Traduzione di: Ford Madox Ford, LI buon soldato, Garzanti, Milano; n. e. con Postfazione di G. Fink, “L’arte di decomporre”, Feltrinelli, Milano 1984. 1980 - Traduzione e introduzione a: Lionel Trilling, Al di là della cultura: saggi su Austen, Wordsworth, Keats, Freud, Babel’, Leavis, Snow, Hawthorne e Joyce, La Nuova Italia, Firenze. 1983 - Presentazione di: John Steinbeck, Diario di bordo dal Mare di Cortez, Jaca Books, Milano. 1984 - Introduzione a: Sergio Colomba, La scena del dispiacere: ripetizione e differenza nel teatro italiano degli anni Ottanta, Longo, Ravenna.

Bibliografia di Guido Fink

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1985 - “Wodehouse: il nome di che cosa?”, Introduzione a: P. G. Wodehouse, Perfetto, Jeeves!, Rizzoli, Milano, pp. 5-15. 1986 - “Vernice fresca”, Postfazione a: Nathaniel Hawthorne, La figlia di Rappaccini, Edizioni II cavaliere azzurro, Bologna, pp. 72-97. 1988 - (a cura di), Un brindisi per Ava Gardner di Robert Graves, Theoria, Roma-Napoli, p. 127. Contiene: Guido Fink, “Presentazione”, pp. 7-13. 1989 - “Sulla soglia dei Sette abbaini", Introduzione a: Nathaniel Hawthorne, La casa dei sette abbaini, Sansoni, Firenze, pp. 7-13. 1989 - Introduzione a: Leslie Fiedler, L’ultimo ebreo in America, traduzione di Daniela Fink, La Giuntina, Firenze. 1990 — Prefazione (e curatela) a: Ennio Flaiano, Nuove lettere d’amore al cinema, Rizzoli, Milano. 1990 - “Hawthorne e i fantasmi della libertà”. Introduzione e Nota biobibliografica a: Natha­ niel Hawthorne, Leggende del Palazzo del Governatore, traduzione di Daniela Fink, Marsilio, Venezia, pp. 9-43. 1990 - “Soltanto la lettera”, Introduzione a: Thomas Hardy, Jude l’oscuro, Einaudi, Torino. 1990 - “La lingua della disperazione”, Prefazione a: Alessandra Calanchi, Vicini lontani. Solitu­ dine e comunicazione nel romanzo americano, Longo, Ravenna, pp. 7-11. 1990 - “La scuola di Sisifo”, Prefazione a: Enrica Sorelli, LI testo ritrovato: le sceneggiature di Ha­ rold Pinter, MCS edizioni, pp. 7-13. 1991 - Introduzione a: Leslie Fiedler, Dodici passi sul tetto. Saggi sulla letteratura e l’identità ebrai­ ca, Donzelli Editore, Roma. Contiene: Guido Fink, “Introduzione”, pp. VII-XI. 1992 - “La cornice in frantumi”, Introduzione a: H. G. Wells, Il giocatore di croquet, Sansoni, Firenze, pp. 5-29. 1992 — Introduzione a: Alberto Fiz, Mel Brooks: ilfratello maleducato di Woody Alien, Eumorismo ebraico tra tradizione e innovazione, Carocci, Roma, pp. 5-16. 1992 - Introduzione a: R. L. Stevenson, Le favole, Le Lettere, Firenze. 1992 - “Una parte del corpo alla volta”, Introduzione a: Mary Me Carthy, Una giovinezza ame­ ricana, Bologna, Il Mulino. 1993 - “Le tre notti del 1943”, Introduzione a: Florestano Vancini, La lunga notte del ’43, Fer­ rara: Libert)7 House, pp. 7-22. 1993 - Prefazione a: Giorgio Bassani, Cinque storie ferraresi, Club degli editori, Milano. 1993 - Postfazione a: Curt Goez, Tatiana, Giunti, Firenze. 1993 - Introduzione a: Heny James, Eamericano, Newton Compton, Roma. 1994 - Introduzione a: Edith Wharton, La casa della gioia, Newton Compton, Roma. 1995 - Traduzione, note e Prefazione (pp. xxxvii-liii) a: William Shakespeare, La commedia degli errori, Garzanti, Milano. 1995 - Postfazione a: Michael MacLianmoir, Eonesto Iago, trad. Daniela Fink, Giunti, Firenze. 1995 - “Lubitsch, i giochi possibili”, Introduzione a: Emanuela Monaco e Alessandro Pamini (a cura di), Ernst Lubitsch: l’arte della variazione nel cinema, Ente dello spettacolo, Roma, pp. xxxi-xxxiv. 1996- “Un muro cieco, un milione di finestre”, Introduzione a: Henry James, Ritratto di signora, Newton Compton, Roma, pp. 7-18. 1996 - Postfazione a: Bruce Jay Friedman, Stern, La Giuntina, Firenze. 1997 - Introduzione e note a: Henry Fielding, Shamela (tradotto da Daniela Fink), Marsilio, Venezia. Contiene: Guido Fink, “La doppia voce di Shamela Andrews”, pp. 9-60. 1997 - “Tre tragedie e qualche interrogativo”, Introduzione a William Shakespeare, Romeo e Giulietta, Amleto e Otello, Newton Compton, Roma, pp. 5-11. 1998 - “L’inventario dei sogni”, Introduzione a: Maurizio Ascari e Alessandra Calanchi (a cura di), Stanze segrete. Racconti sensazionali inglesi, Le Lettere, Firenze, pp. 5-15. 1998, n. e. 2004 - Introduzione a: Quentin Clewes, Lei, Fazi, Roma. 2001 — Prefazione a: Lorenzo Cuccù (a cura di), Il Cinema di Paolo e Vittorio Taviani, Gremese, Roma, pp. 7-8.

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2004 - Prefazione a: Marco Cipolloni e Guido Levi (a cura di), C’era una volta in America: cine­ ma, maccartismo e guerra fredda, Falsopiano, Alessandria, pp. 9-15. 2005 - Introduzione a: Henry James, Le bostoniane, Newton Compton, Roma. 2007 - Introduzione e cronologia a: Saul Bellow: romanzi vol. 1 e 2, I Meridiani Mondadori, Milano. Contiene: Guido Fink, “Saul Bellow o dell’autobiografia indiretta”, pp. 11-57; cro­ nologia pp. 61-109.

Articoli e saggi in volume

1961 - “Lettera dalla nuova Atene”, in Quaderni del CUCMI, numero monografico 15 anni di cinema americano (1946-1961), 4, pp. 22-27. 1962 - “The Italian Controversy”, in Sylvia E. Bowman (ed.), Edward Bellamy Abroad: An American Prophet’s Influence, Twayne, New York, pp. 324-51. 1964 - “Antonioni et le film policier à l’envers” e “La reali té acceptée”, in Michel Estève (a cura di), Antonioni: l’homme et l’object, Etudes cinématographiques, Paris, pp. 7-16; 92-96. Il primo dei due è ripubblicato in: Michelangelo Antonioni 1942-1965, a cura di Carlo di Carlo, Ente autonomo gestione cinema, Roma 1987, pp. 183-188. 1969 - “Il lavoro”, in Mario Sperenzi (a cura di), L’opera di Luchino Visconti: atti del Convegno di studi (Fiesole 27-29 giugno 1966), Tip. A. Linari, Firenze, pp. 312-321. 1972 - “Dream or vision: i fantasmi domestici di Nathaniel Hawthorne e Charles Lamb”, in AAW, Hurrahingin Harvest, Saggi in onore di Carlo Izzo, Galeati, Imola, pp. 151-1691972 - “Etre ou avoir etè: le cinema de l’histoire”, in Cultures, vol. I, Les Presses de l’Unesco Press et la Baconnière, pp. 123-145. 1974 - “To Be or To Have Been: Italian Cinema, Time, and History”, in Cultures, off print, vol. II, 1, numero monografico flashback films and history, The Unesco Press and la Baconnière, pp. 115-138 // “‘Etre’ ou avoir été’: le film italien, le temps et l’histoire”, in Cultures, tire à part, vol. II, 1, numero monografico le cinema de l’historie, Les Presses de l’Unesco et la Ba­ connière, pp. 123-145. 1975 - “Immagini da una realtà senza teatro”, in Isintomi (Materiali di F. Taviani, R. Perrelli, G. Fink et al), Teatro laboratorio di Grotowski, Biblioteca teatrale, Bulzoni, Roma, pp. 18-26. 1976 - “La porta era proprio d’oro”, in AAW, America 1930/1955, Centro Studi del Consorzio Toscano Attività Cinematografiche, Firenze, ottobre, pp. 5-11. 1976 - “Il colore sul vuoto: James e Malamud a Firenze”, in Tiziano Bonazzi (a cura di), AmericaEuropa: la circolazione delle idee, Il Mulino, Bologna, pp. 11-34 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 289-313). 1977 - ‘“Conosca il sacrifizio...’. Visconti fra cinema e melodramma”, in Adelio Ferrero (a cura di), Visconti: il cinema, Ufficio Cinema del Comune di Modena, pp. 84-97. 1978 - “Griffith: cominciare qui”; “L’ascesa del cinema americano. Sennet e Chaplin”; ed “Evo­ luzione e maturità di Chaplin: la maschera e l’occultamento”, in Adelio Ferrero (a cura di), Storia del cinema: dalle origini all’avvento del sonoro, Marsilio, Venezia 1978, pp. 46-58, 5972, e 239-250. 1978 - “Il cinema inglese e Laurence Olivier”, in Adelio Ferrero (a cura di), Storia del cinema: dall’affermazione del sonoro al neorealismo, Marsilio, Venezia 1978, pp. 210-222. 1978 - “Il Free Cinema”, in Adelio Ferrero (a cura di), Storia del cinema: autori e tendenze negli anni cinquanta e sessanta, Marsilio, Venezia 1978, pp. 173-188. 1978 - “Testo teatrale e sceneggiatura cinematografica”, in Enzo Lauretta (a cura di), Pirandello e il cinema, Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, Agrigento, pp. 209-223.

Bibliografia di Guido Fink

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1979 - ‘Una politica degli autori negli anni cinquanta. Ovvero, come truccare della merce ru­ bata” e “Il cerchio e la cesura: le riviste italiane di cinema negli anni cinquanta”, in Giorgio Tinazzi (a cura di), Il cinema italiano degli anni cinquanta, Marsilio, Venezia, pp. 88-99. 1980 - “Il cinema americano e l’immagine dei giovani: ovvero, i graffiti cancellati”, in Bruno Torri (a cura di), Hollywood 1969-1979: immagini, piacere, dominio, Marsilio, Venezia, pp. 226-235. 1980 - “Vincitori e vinti: il neorealismo in America”, in Saveria Chemotti (a cura di), Il mito americano. Origine e crisi di un modello culturale, Cleup, Padova, pp. 72-87. 1982 - “Ach, l’America!” (pp. 19-45), “Giovanotto, è solo un film” (pp. 85-92), “Perché Lubitsch” (pp. 243-250), in Fabrizio Borin (a cura di), Freedonia. Cinema comico ebraico-ameri­ cano, Comuni di Modena e Venezia. 1982 - ‘“Foreign Affairs’: il viaggio e il ritorno. L’Europa vista dall’Europa (filmografia). L’Europa vista dall’America (filmografia)”, in Leonardo Quaresima (a cura di), Il sogno hollywoodiano della Mitteleuropa, Quaderni della Cineteca 1, Bologna, pp. 8-29. 1982 - “Voce di macchina e voce del Padre”, in Paola Daniela Giovanelli (a cura di), Pirandello saggista, Palumbo, Palermo, pp. 272-282. 1982 - “Il sogno hollywoodiano della Mitteleuropa”, Quaderni della Cineteca, a cura di Mariella Fumo, Bologna, pp. 3-12. 1983 — “Le parole provvisorie, ovvero, Michelangelo Antonioni critico cinematografico”, in AAW, Michelangelo Antonioni. Identificazione di un autore (vol. 1, Gli anni della formazione e la critica su Antonioni), a cura del Comune di Ferrara, Ufficio Cinema, (relazioni tenute al convegno svoltosi a Ferrara il 20 e 21 dicembre 1982), Pratiche, Parma, pp. 3-21. 1983 - “Gli ultimi fuochi del mito americano”, in Pier Paolo d’Attorre (a cura di), La gover­ nabilità degli Stati Uniti: mutamenti e continuità nell’America contemporanea, con Maurizio Vaudagna, Tiziano Bonazzi, et al, Franco Angeli, Milano, pp. 262-272. (Atti del seminario di studio Mutamento e governabilità. Gli Stati Uniti da Carter a Reagan, Bologna, 20-2122 maggio 1981, Istituto Gramsci Sezione Emilia-Romagna), 1983 - “Parlare americano”, in Giorgio Tinazzi e Marina Zancan (a cura di), Cinema e letteratura del neorealismo, Marsilio, Venezia, pp. 133-150. 1983 - “La visione e l’eccesso: George Eliot allo Overlook Hotel”, in Maria Pia De Angelis, Vita Fortunati e Valentina Poggi (a cura di), Atti del VCongresso Nazionale dell’Associazione Italia­ na di Anglistica, Clueb, Bologna, pp. 103-112. 1984 - “Chi è Victor Milgrim? Il romanzo americano e lo studio system", in Vito Zagarrio (a cura di), Hollywood in Progress: itinerari, cinema, televisione, Marsilio, Venezia, pp. 94-1051984 - ‘“Mimicry and sublime’ in The Two Temples di Herman Melville”, in Vita Fortunati e Giovanna Franci (a cura di), Il sublime: creazione e catastrofe nella poesia, Atti del convegno tenuto presso l’Università di Bologna, 30-31 maggio, pp. 187-199. 1984 - “Pinter senza Lose)7; ovvero cinque centesimi in più”, in Gianni Volpi e Paolo Bertinetti (a cura di), Pinter e il cinema, Aiace, Torino, pp. 21-30. 1984 — “Come uccidere uno svedese”, in Hemingway e il cinema, Cooperativa Immaginaria, Lignano Sabbiadoro (Udine), pp. 3-13. 1985 - “Scene di strada nel teatro degli Anni Trenta”, in AAW, La frontiera proletaria nell’Ame­ rica del New Deal, Marsilio, Venezia, pp. 45-64. 1985 - “The Other Side of the Moon: Myths and Images of America in Italian Cinema”, in Fo­ rum Italicum, Buffalo, N.Y., pp. 3-17. 1985 - “Marilvn Monroe”, ne Le dive, con Bernardini, Bignardi, et al, Laterza, Roma-Bari, pp. 237-265. 1985 - “Marlon Brando”, in AAW, Idivi, Laterza, Roma-Bari, pp. 148-229. 1985 - “Lo schermo del sonno” e “E cosi questa è la Terra Promessa”, in Mario Materassi (a cura di), Rothiana: Henry Roth nella critica italiana, La Giuntina, Firenze, pp. 75-85 e 143-154. 1985 - “Per un viaggio nella città del cinema” (pp. 23-28) e “Scene di strada nel teatro degli anni

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trenta” (pp. 45-64), in Franco Minganti (a cura di), 1930s. La frontiera urbana nell’America del New Deal, Marsilio Editori, Venezia. 1986 - “A Strange Couple: Hawthorne and His “Gentle Reader”, in Letture anglo-americane in memoria di Rolando Anzilotti, Nistri Lischi, Pisa, pp. 127-145. 1986 - “‘What do you see?’ King Lear dalla scena allo schermo”, in Mariangela Tempera (a cura di), King Lear dal testo alla scena, Clueb, Bologna, pp. 179-192. 1986 - “Senso antiorario, ovvero le due immortalità di Lolita”, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick: tempo, spazio e mondi possibili, Pratiche, Parma, pp. 121-133. 1987 - “Ecco la chiave-. Malamud’s Italy as the Land of Copies”, in Joel Salzberg (ed), Critical Essays on BernardMalamud, G. K. Hall, Boston, pp. 151-65. 1987 - “Ferrara e il cinema, vol. I. Dai primordi fino alla seconda guerra mondiale”, in Fran­ cesca Bocchi (a cura di), Storia illustrata di Ferrara, 64, Nuova Editoriale Aiep, Milano, pp. 1009-1024. 1987 - “‘Questo matrimonio non s’ha da fare’: un progetto non realizzato di Vasco Pratolini”, in Andrea Vannini (a cura di), Vasco Pratolini e il cinema, La Bottega del Cinema, Firenze, pp. 65-74. 1987 - “Antonioni et le film policier à l’envers” e “Les paroles provisoires ou Michelangelo Anto­ nioni critique de cinema”, in Carlo di Carlo (a cura di), Michelangelo Antonioni 1942-1965, Ente autonomo gestione cinema, Roma, pp. 183-188 e 297-304. 1987 - “Sara Bernhardt e i cani ammaestrabili”, in Franco La Polla (a cura di), L’insospettabile Joseph Leo Mankiewicz, Edizioni La Biennale, Venezia, pp. 75-88. 1988 - (con Franco Minganti), “La vita privata italiana sul modello americano”, in Philippe Ariès e Georges Dubv (a cura di), La vita privata, voi. 5 II novecento, Laterza, Roma-Bari, pp. 352-380. 1988 - “Una regione vista dalla luna”, Catalogo Agrifilm Festival: La terra nel cinema e nei media: sviluppo e sottosviluppo, Orbetello, 4-8 maggio, pp. 55-65. 1989 - “Ferrara e il cinema IL Dal dopoguerra”, in Francesca Bocchi (a cura di), Storia illustrata di Ferrara, 65, Nuova Editoriale Aiep, Milano, pp. 1025-1040. 1990 - L’ebreo nella soffitta”, in AAW, Ebraismo e cultura europea nel Novecento, La Giuntina, Firenze; ristampato come “Nella soffitta”, in appendice a Ernestina Pellegrini (a cura di), La riserva ebraica: Il mondo fantastico di Arturo Loria, Diabasis, Parma, 1998, pp. 157-169. 1990 - “Riletture e misletture di Hamlet", in Mariangela Tempera (a cura di), Hamlet dal testo alla scena, Bologna: Clueb, 1997, pp. 171-183 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 7-21). 1990 - “Eppur si muove! The American Rome as Text”, Rivista di Studi Americani. The City as Text (Atti del Convegno AISNA di Sassari), vol. VI, 8, pp. 301-314. 1991 - “Voiding the words: Faulkner’s Artist as a Self-effacing Mask”, in Agostino Lombardo (a cura di), The Artist and His Masks: Faulkner’s Metafiction, Bulzoni, Roma, pp. 155-164. 1991 - ‘Per una stelletta in più: mito sovietico e mito americano nella critica cinematografica ita­ liana”, in Pier Paolo D’Atto rre (a cura di), Nemici per la pelle: sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, Franco Angeli, Milano, pp. 349-361. 1991 - “Sopra l’automobile, una carrozza: Dora Nelson e Quartieri alti", in AAW, Mario Soldati. La scrittura e lo sguardo, Lindau, Torino, pp. 181-187. 1991 - ‘Fumare le caramelle, ascoltare le sigarette. Le parole in Lubitsch e il suo codice”, in Francesco Bono (a cura di), Lubitsch, Officina Edizioni, Roma, pp. 31-37. 1992 - “Se un ebreo mangia un pollo (uno dei due è malato): censura e autocensura nell’umori­ smo ebraico”, in AAW, La cultura ebraica nell’editoria italiana 1955-1990, Istituto Poligrafi­ co dello Stato, Roma, pp. 1154-1193. 1992 — “Gesù, che balena!”, in AAW, Rotte di lettura attorno a Moby Dick, Marietti, Genova, pp. 43-51. 1992 - “Où vont les autres”, in Alberto Farassino (a cura di), Mario Camerini, Locamo: Editions du Festival International du Film, pp. 62-76.

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1992 - “Una cosa che si muove”, in Orio Caldiron (a cura di), Michael Curtiz, un ungherese a Hollywood, La meridiana, Bari, pp. 58-66. 1994 - “Essere e non essere: la parola e i suoi codici”, in Raffaella Baccolini e Rosa Maria Bollettieri Bosinelli (a cura di), Il doppiaggio: trasposizioni linguistiche e culturali, Clueb, Bologna, pp. 29-39. 1994 - “Una città e il suo doppio” (7 pp. non numerate a inizio del volume), in Paolo Zappaterra (a cura di), Ferrara, Il Cardo, Venezia. 1994 - “Whitman e Griffith: le mani sulla culla”, in Loretta Innocenti, Franco Marucci, Paola Pugliatti (a cura di), Semeia. Itinerari per Marcello Pagnini, Il Mulino, Bologna, pp. 541-5531994 - “Le tre notti del 1943”, in AAVV, La lunga notte del ’43- La sceneggiatura originale, Li­ berty House, Ferrara (poi in Lumière. Cinema e altro, a. XIV, 49-50-51, 2008, pp. 21 -28; ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 367-381). 1995 - “I play God, you play Satan: frammenti del Libro sui palcoscenici di Broadway”, in Fede­ rico Doglio (a cura di), Il teatro e la Bibbia, Garamond, Roma, pp. 213-225. 1995 - “As in an Inn or Resting Place: la suddivisione degli spazi in Henry Fielding”, in Loret­ ta Innocenti (a cura di), Scene, itinerari, dimore: lo spazio nella narrativa del ’700, Bulzoni, Roma, pp. 95-111. 1996 - “Il cinema, nuova provincia; linguaggio visivo e narrazione; alcune dinamiche di scam­ bio; l’incontro dei generi e delle strutture, ecc.”, in Franco Marenco (a cura di), Civiltà lette­ raria inglese, Volume III: Il moderno, il dopoguerra e ilpostmoderno, Utet, Torino, pp. 503-528. 1996 - “The Proper Use of Words: il dialogo e l’educazione delle fanciulle”, in Carla Dente Ra­ schierà, Mario Domenichelli, A. L. Johnson (a cura di), Lo spazio della conversazione, ETS, Pisa, pp. 33-46. 1996 - “Presentazione della pubblicazione della sceneggiatura del film La lunga notte del ’43”, in Anna Maria Quarzi (a cura di), Ferrara 1943-1993 a cinquantanni dall’eccidio di Castello Estense, Corbo, Ferrara, pp. 99-108. 1996 - “Le maschere, i manichini, e l’America”, in Aldo Tassone (a cura da), Julien Duvivier, France Cinéma - Il Castoro, pp. 83-94. 1996 - “Un lampo fra le quinte: la guerra del Vietnam sulle scene americane”, in Stefano Ghislotti e Stefano Rosso (a cura di), Vietnam e ritorno. La “guerra sporca” nel cinema, nella narra­ tiva, nel teatro, nella musica e nella cultura bellica degli Stati Uniti, Marcos v Marcos, Milano, pp. 187-200. 1996 - “Cinema e letteratura: Cielo, questa è la mia mano”, in Leonardo Quaresima (a cura di), Il cinema e le altre arti, La Biennale-Marsilio, Venezia, pp. 99-105. 1997 - “Stranieri nella terra promessa: Israele nel romanzo ebraico-americano”, in Mario Dome­ nichelli e Pino Fasano (a cura di), Lo straniero, vol. I, Bulzoni, Roma, pp. 135-155. 1997 - “Il cinema: i cimeli pallidissimi”, in Enza Biagini (a cura di), E opera di Anna Banti, Olschki, Firenze, pp. 31-40. 1997 - “La letteratura in 101 anni di cinema”, in Enzo Siciliano (a cura di), Antologia Viesseux, Firenze, pp. 110-124. 1997 - “Al Ristori, in un pomeriggio del 1943...” (pp. 7-18), in Gianfranco Rossi, Gli amici del buio: sette racconti ferraresi, prefazione di Alberto Poggi e Alberto Ronchi, Passigli, AntellaBagno a Ri poli. 1998 - “Una lastra invisibile”, in Antonio Gagliardi (a cura di), Giorgio Bassani: lo scrittore e isuoi testi, La Nuova Italia Scientifica, Firenze, pp. 51-60. 1998 - “Shylock and his Daughter: An Anti-Semitic Archetype in Jewish-American Fiction”, in Franco La Polla and Gabriella Morisco (eds), Intertextual Identity: Reflections on Jewish-Amer­ ican Artists, Patron, Bologna, pp. 39-54. 1998 — “Uncle Giacomino’s walk”, in L’antico orto degli ebrei. Il cimitero ebraico a Ferrara, saggio fotografico di Paolo Ravenna, Corbo, Ferrara.

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1998 - “Testo teatrale e sceneggiatura cinematografica”, in Enzo Lauretta (a cura di), Pirandello e il cinema, Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, Agrigento. 1998 - “Il cinema. La doppia porta dei sogni”, in Piero Boitani e Richard Ambrosini (a cura di), Ulisse: archeologia dell'uomo moderno, Bulzoni, Roma, pp. 293-302. 1998 - “Le figure dell’Apocalisse: cinema e fantascienza”, in Mimma Bresciani Califano (a cura di), La realtà e i linguaggi. Ai confini tra scienza e letteratura, Le Lettere, Firenze, pp. 201-220. 1999 - “Voyages to Purilia: Negotiations and Exchanges between American Theatre and Film ”, in Bianca Maria Tedeschini Lalli and Maurizio Vaudagna (eds), Brave New Words, The VU University Press, Amsterdam, pp. 193-212. 1999 - “Pallottole su Broadway: il teatro nel cinema ebraico americano”, in Fabrizio Deriu (a cura di), Lo schermo e la scena, Marsilio, Venezia, pp. 125-136. 1999 - “La commedia sofisticata” e “L’umorismo ebraico”, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale LL. 1. Gli Stati Uniti, Einaudi, Torino. 1999 - “Essere o essere altrove: peregrinazioni cinematografiche delle parole di Amleto”, in San­ dro Bernardi (a cura di), Storie dislocate, ETS, Pisa, pp. 47-60. 2000 - Vari contributi in: Giulio Morlia (a cura di), L'immagine della parola: incontri fra cinema e letteratura nella storia del Premio letterario Viareggio — Repaci, pp. 1-3, 24, 42, 43. 2000 - “Sanguinare per finta: fascismo e antifascismo nel cinema italiano del dopoguerra”, in Enzo Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo: rimozioni, revisioni, negazioni, Laterza, Bari, pp. 493-502. 2000 - “Gaio e tragico! Breve e interminabile! Le frontiere della commedia” e “Forse una foto, forse un samovar: gli ebrei e il cinema americano”, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, Einaudi, Torino, voi. 2, pp. 1019-1048, 1239-1279. 2001 - “Immagini nel buio”, in C. Jandelli, B. Manetti, G. M. Rossi (a cura di), Harold Pinter: dal teatro della minaccia al cinema delle ceneri, Aida, Firenze, pp. 35-41. 2001 - “Le acque della contraddizione. Dall’immagine biblica all’immagine cinematografica”, in Stefano Socci (a cura di), LI cinema e la Bibbia, Morcelliana, Brescia, pp. 37-44. 2003 - “As the nobles of Bagdad”, in Giovanna Franci e Giovanna Silvani (a cura di), The Importance ofBeing Misunderstood: Homage to Oscar Wilde, Patron, Bologna, pp. 417-425. 2003 - contributi vari in Enzo Siciliano (a cura di), Enciclopedia Treccani Cinema, Roma. Voci: Allen, Woody, pp. 209-212; e Chaplin, Spencer (detto Charlie), pp. 745-748; Commedia, pp. 114-128; Coward, Sir Noel, pp. 173-174; Italia (con Marco Pistoia), pp. 305-319; Laughton, Charles, pp. 480-482; Maccartismo, pp. 260-265; Marx, fratelli, pp. 21-24; Lubitsch, Ernest, pp. 590-592; Odets, Clifford, pp. 292-295; Olivier, sir Laurence, pp. 296 -2972003 — “Verbal poetrv, visual equivalents: Un tram chiamato desiderio da Williams a Kazan”, in A Streetcar Named Desire (Un tram che si chiama desiderio), Libretto di Philip Littell, Musica di Andre Previn, Teatro Regio di Torino, pp. 27-38. 2003 - “L’ultimo spettacolo?” e “Per un discorso su cinema e identità ebraica”, in Pierluigi Basso (a cura di), Vedere giusto. Del cinema senza luoghi comuni, Guaraldi, Rimini, pp. 187-196 e 230-233. 2004 - “Cinema e sterminio”, in AAW, Figure della memoria. Atti dei seminari di formazione per insegnanti, Pisa University Press, Pisa, pp. 87-91. 2004 - “Anatevka, o del confine”, LEA —Letterature d’Europa e d’America: Soglie, margini, confini. Scritture in limine, Carocci, Roma, pp. 206-2152005 - “Accadde anche ai visigoti: Firenze nel cinema americano / It Happened to the Visigoths, Too: Florence in American Films” (con Sandro Bernardi), in E. Di Nolfo (a cura di), Tosca­ na — Stati Uniti d’America / Tuscany - United States ofAmerica, Firenze, 2005, pp. 145-1552006 - “La scuola ebraica di via Vignatagliata”, in Anna Dolfi e Gianni Venturi (a cura di), Ritorno al “Giardino”. Atti del Convegno “Una giornata di studi per Giorgio Bassani” (Firenze, 26 marzo 2003), Bulzoni, Roma, pp. 221-224 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 395-408). 2006 - “Una lettera per il 26 marzo”, in Anna Dolfi e Gianni Venturi (a cura di), Ritorno al

Bibliografia di Guido Fink

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“Giardino”. Atti del Convegno “Una giornata di studi per Giorgio Bassani” (Firenze, 26 marzo 2003), Bulzoni, Roma, pp. 201-202. 2014 - “L’universo di Woody Alien declinato nelle sue componenti fondamentali: il rapporto tra cultura ebraica e umorismo”, in Emilia Bandel (a cura di), Il genio dell’umorismo, p. 80, conte­ nuto in Tutto quello che avreste voluto sapere su Woody Alien... e non avete mai osato chiedere, cofa­ netto dvd Woody Allen: A Documentary (ed. Robert B. Wéide, 2012) + libro, Feltrinelli, Milano. 2015 - “Quel fascio di raggi luminosi in movimento”, in Lorenzo Pellizzari (a cura di), L’avven­ tura di uno spettatore: Italo Calvino e il cinema, Art Digiland, Dublin, pp. 92-107. s.d. - “Questo sgabello sarà il mio trono: Welles e Shakespeare”, in Conoscere il cinema, 7, numero monografico II cinema di Orson Welles, a cura dell’ufficio cinema del comune di Modena, pp. 25-37. Anche intervento nella Tavola Rotonda, pp. 52-59. s.d.- Emigrazione a Hollywood”, in Cinema II / 22, pp. 505-513.

Articoli, saggi e recensioni su riviste e quotidiani

1952-1953 vedi: . 1957 - “Alla ricerca del personaggio” (nella rubrica “Cinema”), pp. 35-39, e Recensione di: Giuseppe Bartolucci, Lettera d’amore a, Feltrinelli, Milano 1957 [siglato g.f.], p. 44, in Com­ petizione democratica. Periodico del socialismo e della democrazia ferraresi, a. Ili, 2. 1958 - “Eric Von Stroheim / Retrospettiva di Stroheim”, Cinema nuovo, a. VII, 135, pp. 159-162. 1959 - “Cento opere e un interrogativo”, Cinema nuovo, a. Vili, 141, pp. 441-447. 1959 - “Henry Fielding precursore di Monsieur Verdoux”, Cinema nuovo, a. Vili, 142, pp. 499-509. 1959 - SCHEDA: “Ascensore per il patibolo” e “Ordine di uccidere”, Cinema nuovo, a. Vili, 137, pp. 54-55, 61. [siglato g.f.]. 1959 - SCHEDE: “Femmina, Marie - Octobre”, “Appuntamento con il delitto” e “Gli amanti del chiaro di luna”, Cinema nuovo, a. Vili, 139, pp. 248-249; 253; 255. [siglato g.f.]. 1959 - “La divina” (con Antonio Covi, Louis Marcorelles, Pietro Pintus, Derek Prouse), SCHE­ DE con antologia critica da Cinema nuovo, Letture, La Gazzetta del Popolo, ne II nuovo spetta­ tore cinematografico, 5, pp. 110-112. 1960 - “La critica”, Inquadrature, 7, pp. 23-28. I960 - “Rocco e gli altri film” e “Occhi senza volto”, Cinema nuovo, a. IX, 147, pp. 406-416 e 457-458. 1961 - “Mack Sennett, re delle comiche”, Cinema nuovo, a. X, 153, pp. 418-420. 1961 - “Questione di pelle”, opuscolo pubblicato dal Circolo Monzese del Cinema. 1962 - “Appunti su Viridiana (con poscritto su Truffaut)”, Paragone / Letteratura, a. XIII, 154, pp. 123-128. 1962 - “Le beau Serge” (con Raymond Borde, Jean Courtelin, Jean De Baroncelli, Gian Maria Guglielmino), brani da Cinema nuovo, Le Monde, Premier Pian, La Gazzetta del Popolo, ne II nuovo spettatore cinematografico, 30-31, pp. 197-200. 1962 — “Hollywood e le sirene del New Deal”, Cinema nuovo, a. XI, 160 (Retrospettiva), pp. 435-439. 1962 - “Broadway 1962, isola in un’isola”, Cinema nuovo, a. XI, 158, pp. 276-286. 1962 - “Il cinema indipendente americano: una finestra sull’America”, Cinestudio. Quaderni del Circolo Monzese del Cinema, pp. 5-29. 1962 - Il signor Antonioni e gli uomini dell’Oklahoma”, Cinestudio: Quaderni del Circolo Mon­ zese del Cinema, 5, pp. 25-30.

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1963 - “Un ribelle a Princeton”, Paragone /Letteratura, a. XIV, 158, pp. [91]-103. 1963- “Venezia 1964”, Paragone /Letteratura, a. XIV, 168, pp. 104-112. 1963 - “Antonioni e il giallo alla rovescia”, Cinema nuovo, a. XII, 162, pp. 100-106. 1963 - “Il grande paese dei critici felici”, Cinema nuovo, a. XII, 166, pp. 423. 1963 - “Monsieur Antonioni et les hommes d’Oklahoma”, Positif, Paris, 50-51-52, marzo, pp. 124-130. 1963 - “Il divismo”, Cinema italiano: Quaderni del Cenobio, 31, pp. 141-173. 1963 — “Otto domande a Nathan E. Douglas”, Cinestudio: Quaderni del Circolo Monzese del Cinema, 6, pp. 28-29. 1963 - “Stanley Kramer: la democrazia come spettacolo”, Cinestudio: Quaderni del Circolo Mon­ zese del Cinema, pp. 1-26. Contiene un’intervista con Nathan E. Douglas. 1963 - “ Lord ofthe Flies', BN Bianco e Nero, 1, 102-104. 1964 - “Sociologia del cinema”, Paragone / Letteratura, a. XV, 170, pp. 100-103. 1964 - “Trieste: cinema e fantascienza” e “Benedetti e Bernari”, Paragone / Letteratura, a. XV, 178, pp. [92]-95 e 98-103. 1964 - “Libertà velletaria a Porretta Terme”, Cinema nuovo, a. XIII, 170, p. 288-292. 1964 - “Uomini e no nelle quattro opere prime”, Cinema nuovo, a. XIII, 171, pp. 354-358. 1964 - “Il cinema indipendente americano”, Filmquademo del Circolo del Cinema di Imola, p. 32. 1964 - “Luis Bunuel”, Cinestudio: Quaderni del Circolo Monzese del Cinema, p. 24. 1964 - “Il cinema inglese e la folla solitaria”, Cinestudio: Quaderni del Circolo Monzese del Cine­ ma, 13, pp. 1-20. 1964 - “Orson Welles: il cinema come galleria di specchi”, Inquadrature, 12, pp. 1-18. 1964 - “Orson Welles, il cinema come galleria di specchi”, Inquadrature, 12, pp. 1-18. 1965 - “I molti vizi del critico disoccupato”, Cinema nuovo, a. XIV, 175, pp. 178-185. 1965 - “E il cinema è nato l’altro ieri”, Cinema nuovo, a. XIV, 176, pp. 266-273. 1965 - “La vecchia signora indegna e le velleità dei giovani”, Cinema nuovo, a. XIV, 177, pp. 353-357. 1965 - “Lingua della prosa e lingua della poesia”, Cinema nuovo, a. XIV, 177, pp. 372-377. 1965 - “Struttura e mito in Fellini”, Cinestudio: Quaderni del Circolo Monzese del Cinema, 14, pp. 11-16. 1965 - “Kubrick o del cinema indiretto”, Giovane critica, 7, pp. 44-60. 1966 - “Il male oscuro del cinema italiano”, Paragone /Letteratura, a. XVII, 192/12, pp. 137-148. 1966 - “Epitaffio per gli anni cinquanta”, Paragone /Letteratura, a. XVII, 198/18, pp. 134-142. 1966- “Venezia 1966: Balthazar”, Paragone / Letteratura, a. XVII, 202/22, pp. 141-147. 1966 - “Salinger e la magia del nome proprio”, Studi americani, 12, Roma, pp. 258-276. 1966- “Zinneman, fascino perduto”, Cinema nuovo, a. XV, 179, pp. 15-19. 1966 - “Trieste. Morte prematura del film fantascientifico?”, Cinema nuovo, a. XV, 183, pp. 370-373. 1966 - “Prosa e crisi dell’ideologia nell’ultimo film di Pier Paolo Pasolini”, Cinema nuovo, a. XV, 184, pp. 417-423. 1966 - “Stanca epifania di ‘stelle’ passate e presenti”, Cinema nuovo, a. XV, 181, pp. 178-181. 1966 - SCHEDA: “Delitto quasi perfetto e Città senza legge”, Cinema nuovo, a. XV, 182, pp. 298-299 [siglato g.f.]. 1966 - “La fantapolitica. Paura alla Casa Bianca”, Cinestudio: Quaderni del Circolo Monzese del Cinema, 16, pp. 1-36. 1966 - “ Quarto potere di Orson Welles”, Civiltà dell’immagine, a. I, 1, pp. 77-79. 1966 - “Tempi duri per il diavolo”, Occhio critico, a. I, 1, pp. 62-70. 1967 - “Blow Up, La guerre estfinie, Persona’, il cinema come telescopio”, Paragone / Letteratura, a. XVIII, 208/228, pp. [134]-143. 1967 - “Il cinema in Eccles Street”, Paragone /Letteratura, a. XVIII, 213/232, pp. 135-1431967 - “Venezia 1967, o delle vittime inutili”, Paragone / Letteratura, a. XVIII, 214-234, pp. 136-144.

Bibliografia di Guido Fink

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1967 - “Chi ha paura del cinema americano?”, Cinema nuovo, a. XVI, 186, pp. 110-113. 1967 - “Harold Pinter e i conflitti momentanei (prima parte)”, Cinema nuovo, a. XVI, 187, pp. 178-193. 1967 - “Pinter, uno specchio del mondo in cui abitiamo? (seconda e ultima parte)”, Cinema nuovo, a. XVI, 188, pp. 280-285. 1967- “Otto opere prime con tendenza all’anonimato”, Cinema nuovo, a. XVI, 189, pp. 348-3531968 - “Edmund Wilson e la ‘sofferenza accettabile’” Paragone / Letteratura, a. XIX, 216, pp. 31-60 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 57-91)1968 - “Ti con zero”, Paragone /Letteratura, a. XIX, 216, pp. 148-153 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 133-139). 1968 - Styron, Malamud. Le nuove vie del best-seller umanitario”, Paragone /Letteratura, a. XIX, 218/38, pp. 130-136 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 315-329). 1968 - “Cinema italiano: l’escalation dei nuovi registi”, Paragone/Letteratura, a. XIX, 220/40, pp. 133-139. 1968 - “Auden, l’eccezione e la regola”, Paragone /Letteratura, a. XIX, 224/44, pp. 81-99. 1968 - “Gli scritti letterari di Mario Alicata”, Paragone / Letteratura, a. XIX, 226/46, pp. [124]-130. 1968-“La cinepresa importuna al Festival dei Popoli”, Cinemanuovo, a. XVII, 192, pp. 126-1271968 - “La notte dei demoni nell’ora del lupo”, Cinema nuovo, a. XVII, 196, pp. 442-4491968 - SCHEDE: “Gangster Storv”; “Quella sporca dozzina”, Cinema nuovo, a. XVII, 191, pp. 47-51, 52-551968 - SCHEDA: “Il giorno della civetta”, Cinema nuovo, a. XVII, 193, pp. 210-211 [siglato g-f.]1968 - SCHEDA: “Tre passi ne delirio”, Cinema nuovo, a. XVII, 195, pp. 378-380 [siglato g.f.]. 1968 - “La notte dei demoni nell’ora del lupo”, Cinema nuovo, a. XVII, 196, pp. 442-449. 1968 - “Per ora ha parlato l’uomo bianco”, RC Rivista del cinematografo, 6-7, pp. 376-3791969 - “Il teatro contro la struttura”, Paragone /Letteratura, a. XX, 228, pp. 36-47. 1969 - “2001, il cinema e lo spazio”, Paragone ILetteratura, a. XX, 232, pp. [56]-651969 - “I bambini terribili di Henry James”, Paragone / Letteratura, a. XX, 236, pp. [4]-28 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 259-287). 1969 - “Fellini, Visconti, ecc.: cinema e antropofagia”, Paragone / Letteratura, a. XX, 238, pp. 140-1511969 - “77 con zero e l’inciviltà dell’immagine”, Cinema nuovo, a. XVIII, 197, pp. 23-291969-“Pirandello, Moravia e il codice di Ticonzero”, Cinema nuovo, a. XVIII, 198, pp. 101-1051969 - “La critica francese lasciamola ai francesi”, Cinema nuovo, a. XVIII, 199, pp. 174-179E SCHEDE: “Nostra signora dei Turchi”; “Dove osano le aquile”, pp. 214-215, 222-223[siglato g.f.]. 1969 - “Altre voci e altre stanze lontane dalle nostre posizioni”, Cinema nuovo, a. XVIII, 200, pp. 284-294. 1970 - “Ribellioni rientrate: Berryman/Bradstreet”, Paragone / Letteratura, a. XXI, 242, pp. 125-1311970 - “La menopause de la reine”, Paragone /Letteratura, a. XXI, 246, pp. 149-152. 1970 - “James Purdy e le gaie esequie del romanzo americano”, Paragone / Letteratura, a. XXI, 248, pp. 82-98 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 333-351) e “Venezia 1970: alla ricerca della verginità”, pp. 148-156. 1970- “Lear, il nonsense e l’epiteto ‘differente’”, Paragone/Letteratura, a. XXI, 250, pp. 155-161 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 167-175)-

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1970 -“Il ‘corsivo vivente’ di Washington Irving”, Studi americani, 16, pp. 25-56. 1970 - “Film anti-sexy e monito alle Famiglie”, Cinema nuovo, a. XIX, 204, pp. 92-97. 1970 - “Ancora alla ricerca di una credibilità. Ma quale?” (Risposte di Guido Fink e Adelio Fer­ rero”), Cinema nuovo, a. XIX, 208, pp. 420-428. 1970 - SCHEDA: “I girasoli”, Cinema nuovo, a. XIX, 206, p. 301. [siglato g.f.]. 1971 - “Neorealismo Revisited,” in Twentieth-Century Studies, 5-6 September, pp. 1-11. 1971 - “Donne tradotto da Cristina Campo”, Paragone /Letteratura, a. XXII, 256, pp. 114-120. 1972 - “Da Pamela a Shamela (e viceversa)”, Paragone /Letteratura, a. XXIII, 266, pp. [3J-351972 - “La struttura era un albergo: note su Keaton”, Paragone / Letteratura, a. XXIII, 274, pp. 66-98. 1973 - “Nota conclusiva a: Emanuele Carnevali, Cinque poesie”, Paragone / Letteratura, a. XXIV, 280, pp. [791-88. 1973 - “Cinema: La borghesia e i suoi fantasmi”, Paragone / Letteratura, a. XXIV, 286, pp. [126]-139. 1973 - “Le parole di Polonio”, LI Verri, 4, pp. 155-177. 1973 - “Pearl Buck, la Cina lontana”, LI mondo, 29 marzo, a. XXV, 13, p. 21. 1973 - “Il ritorno di Jack London”, Il mondo, 17 maggio, a. XXV, 20, p. 21. 1973 - “Non muore: diventa cinema”, LI mondo, 21 giugno, a. XXV, 25, p. 22. 1973 - “Strindberg senza parole”, Il mondo, 28 giugno, a. XXV, 26, p. 22. 1973 - “L’inesauribile Medea”, Il mondo, 5 luglio, a. XXV, 27, p. 22. 1973 - “Shakespeare e il suo doppio”, Il mondo, 12 luglio, a. XXV, 28, p. 22. 1973 - “Lotta con Proteo e con il mito”, limando, 19 luglio, a. XXV, 29, p. 22. 1973 - “Dal recitare a scuola”, Il mondo, 26 luglio, a. XXV, 30, p. 22. 1973 - “La metamorfosi di una bisbetica”, Il mondo, 9 agosto, a. XXV, 32, p. 22. 1973 - “Brecht, la pietra e la borraccia”, Il mondo, 16 agosto, a. XXV, 33, p. 22. 1973 - “Terribile e un po’ buffo”, Il mondo, 30 agosto, a. XXV, 34-35, p. 22. 1973 - “Antigone sceglie i morti”, Il mondo, 6 settembre, a. XXV, 36, p. 22. 1973 - “L’impresario col frustino”, Il mondo, 13 settembre, a. XXV, 37, p. 22. 1973 - “Il terzo atto di Dario Fo”, Il mondo, TI settembre, a. XXV, 39, p. 22. 1973 - “Il travestito di Chelsea”, Il mondo, 11 ottobre, a. XXV, 41, p. 22. 1973 - “In attesa del già visto”, Il mondo, 18 ottobre, a. XXV, 42, p. 22. 1973 - “Bevuto l’uovo, il guscio vuoto”, Il mondo, 25 ottobre, a. XXV, 43, p. 22. 1973 - “Un inferno nell’altro”, Il mondo, 8 novembre, a. XXV, 45, p. 22. 1973 - “Il rituale del potere”, Il mondo, 15 novembre, a. XXV, 46, p. 22. 1973 - “Operazione Adelchi”, Il mondo, 22 novembre, a. XXV, 47, p. 22. 1973 - “La prigione dell’angoscia”, Il mondo, 29 novembre, a. XXV, 48, p. 22. 1973 - “Supermercato dei regnanti”, Il mondo, 6 dicembre, a. XXV, 49, p. 22. 1973 - “Non bastano le primedonne”, Il mondo, 13 dicembre, a. XXV, 50, p. 22. 1973 - “I briganti e Garibaldi”, Il mondo, 20 dicembre, a. XXV, 51, p. 22. 1973 - “Lo Strindberg di Missiroli”, Il mondo, TI dicembre, a. XXV, 52, p. 22. 1974 - “Rimettere ordine nella terra desolata”, Paragone /Letteratura, a. XXV, 288, pp. 102-106. 1974 - “Sparecchiare il padre”, Il mondo, 10 gennaio, a. XXVI, 1-2, p. 23. 1974 - “Gli esami di Eduardo”, Il mondo, 17 gennaio, a. XXVI, 3, p. 23. 1974 - “Gozzi saccheggiato”, Il mondo, 24 gennaio, a. XXVI, 4, p. 22. 1974 - “Svevo: una sorpresa”, Il mondo, 31 gennaio, a. XXVI, 5, p. 22. 1974 - “Non tanto strafottenti”, Il mondo, 7 febbraio, a. XXVI, 6, p. 22. 1974 - “Recitare allo specchio”, Il mondo, 14 febbraio, a. XXVI, 7, p. 22. 1974 - “Campanile, tasso e Tasso”, Il mondo, 28 febbraio, a. XXVI, 9, p. 22. 1974 - “Non si beffa della Cena”, Il mondo, 7 marzo, a. XXVI, 10, p. 22. 1974 - “Oktoberfest al circo”, Il mondo, 14 marzo, a. XXVI, 11, p. 22. 1974 - “La lavagna del sordo”, limando, 21 marzo, a. XXVI, 12, p. 22. 1974 - “Un Brecht americano”, Il mondo, 28 marzo, a. XXVI, 13, p. 22.

Bibliografia di Guido Fink

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1974 - “Ruzante e la parola”, Il mondo, 4 aprile, a. XXVI, 14, p. 22. 1974 - “Re Lear, un monte”, Il mondo, 11 aprile, a. XXVI, 15, p. 22. 1974 - “Ulisse borghese”, Il mondo, 18 aprile, a. XXVI, 16, p. 22. 1974 - “Una rosa per Wanda”, Il mondo, 25 aprile, a. XXVI, 17, p. 22. 1974 - “Processo a Pavese”, Ilmondo, 2 maggio, a. XXVI, 18, p. 22. 1974 - “Pellegrini in salotto”, Il mondo, 9 maggio, a. XXVI, 19, p. 22. 1974 - “La festa impossibile”, Ilmondo, 23 maggio, a. XXVI, 21, p. 22. 1974 - “Il gesuita a scacchi”, Ilmondo, 30 maggio, a. XXVI, 22, p. 22. 1974 - “Pubblico in scatola”, Ilmondo, 6 giugno, a. XXVI, 23, p. 22. 1974 - “Nello stile di Brueghel”, Ilmondo, 13 giugno, a. XXVI, 24, p. 22. 1974 - “L’ ‘off-off è già finito?”, Il mondo, 20 giugno, a. XXVI, 25, p. 22. 1974 - “I pericoli della salute”, Il mondo, 4 luglio, a. XXVI, 27, p. 22. 1974 - “L’attore rallentato”, Il mondo, 11 luglio, a. XXVI, 28, p. 22. 1974 - “Poca festa a Chieri”, Ilmondo, 18 luglio, a. XXVI, 29, p. 22. 1974 - “Negromante disoccupato”, Ilmondo, 25 luglio, a. XXVI, 30, p. 22. 1974 - “Spartiti in polvere”, Il mondo, 1 agosto, a. XXVI, 31, p. 22. 1974 - “Eravamo contadini”, Il mondo, 8 agosto, a. XXVI, 32, p. 22. 1974 - “Nella parte di Cesare”, Il mondo, 29 agosto, a. XXVI, 34-35, p. 22. 1974 - “La bisbetica anni ’30”, Il mondo, 12 settembre, a. XXVI, 37, p. 24. 1974 - “L’autunno di Bulgakov”, Il mondo, 19 settembre, a. XXVI, 38, p. 22. 1974 - “Arlecchino al circo”, Il mondo, 26 settembre, a. XXVI, 39, p. 22. 1974 - “Un trucco a Vicenza”, Ilmondo, 3 ottobre, a. XXVI, 40, p. 22. 1974 - “Fratello e sorella”, Il mondo, 17 ottobre, a. XXVI, 42, p. 22. 1974 - “Coinvolti ma soli”, Il mondo, 24 ottobre, a. XXVI, 43, p. 22. 1974 - “Spiritose invenzioni”, Ilmondo, 31 ottobre, a. XXVI, 44, p. 22. 1974 - “Con l’Odin in Puglia”, Ilmondo, 7 novembre, a. XXVI, 45, p. 22. 1974 - “Le orecchie e gli occhi”, Il mondo, 14 novembre, a. XXVI, 46, p. 22. 1974 - “Il ‘calicio’ di Testori”, Il mondo, 21 novembre, a. XXVI, 47, p. 22. 1974 - “Che diavolo fanno in cantina”, Il mondo, 28 novembre, a. XXVI, 48, pp. 16-17. 1974 - “Famiglia confessata”, Il mondo, 5 dicembre, a. XXVI, 49, p. 22. 1974 - “Il nemico è Lutero”, Il mondo, 12 dicembre, a. XXVI, 50, p. 20. 1974 - “Cleopatra e il potere”, Il mondo, 19 dicembre, a. XXVI, 51, p. 22. 1974 - “Il monarca in scena”, Il mondo, 26 dicembre, a. XXVI, 52, p. 22. 1974 - “Fellini: al pavon d’ai cont”, Cinema & Cinema, a. I, 1, pp. 89-95. 1975 - “Thou shouldst print more: Shakespeare e la proliferazione del testo”, Paragone / Lette­ ratura, a. XXVI, 300, pp. 48-70 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 23-49). 1975 - “Barth, o della rilettura”, Paragone / Letteratura, a. XXVI, 302, pp. [38]-63. 1975 - “Dal lager al luna park”, limando, 9 gennaio, a. XXVII, 1-2, p. 22. 1975 - “Ritorna Scarpetta”, Ilmondo, 16 gennaio, a. XXVII, 3, p. 22. 1975 - “Manifesto goldoniano”, Ilmondo, 23 gennaio, a. XXVII, 4, p. 22. 1975 - “In un buco nel cielo”, Ilmondo, 6 febbraio, a. XXVII, 5-6, p. 22. 1975 - “Un ribelle in gabbia”, Ilmondo, 13 febbraio, a. XXVII, 7, p. 22. 1975 - “Né rose né lago”, Ilmondo, 20 febbraio, a. XXVII, 8, p. 22. 1975 - “Scomodo e grande”, Il mondo, YI febbraio, a. XXVII, 9, p. 22. 1975 - “Il cinema tra virgolette”, Cinema & Cinema, a. II, 2, pp. 14-20, e Recensione della rivista Take One, pp. 87-88. 1975 - “L’accostamento a Welles”, Cinema & Cinema, a. II, 3, pp. 9-20. 1975 - Gli usignoli dell’imperatore”, Cinema & Cinema, a. II, 4, pp. 79-89. 1975 - “Losey: il principio d’indeterminazione” e “America: le donne, i cavalieri...”, Cinema & Cinema, a. II, 5, pp. 63-68 e 95-98.

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Finkfest

1976 - “Le finestre di Hawthorne: spazio scenico e tecnica narrativa in Twice-Told Tales", Para­ gone /Letteratura, a. XXVII, 316, pp. [3]-40. 1976 - “Il mare avverso”, Paragone /Letteratura, a. XXVII, 320, pp. [113]-125. 1976 - “Anna, o dell’abdicazione”, Cinema & Cinema, a. Ili, 7-8, pp. 67-76, e “Griffith: comin­ ciare qui”, pp. 147-158. Ripubblicato in Adelio Ferrero (a cura di), Storia del cinema: dalle origini all’avvento del sonoro, Marsilio, Venezia 1978, pp. 46-58. 1976 - “Kubrick: non raccontare una storia” e “America: verso un nuovo divismo”, Cinema & Cinema, a. Ili, 9, pp. 78-85 e 95-97. 1977 - “Vincitori e vinti: il neorealismo italiano in America”, Paragone / Letteratura, a. XXVIII, 334, pp. 3-19. 1977 - “Cassavetes: il teatro privato”, Cinema & Cinema, a. FV, 11, pp. 80-84. 1977 - “Alla ricerca del tragema”; “Montaggio: ovvero il ‘puzzle’ della seconda signora Kane”; e “Se tre volumi vi sembran pochi”, Cinema & Cinema, a. IV, 12, pp. 23-33; 98-101; e 101-103. 1977 - “ Lord ofthe Flies di Peter Brook” e “Suspiria”, Bianco e Nero, a. XXXVIII, 1, pp. 102-104 e 106-108. 1977 - “Picnic at Hanging Rock", Bianco e Nero, a. XXXVIII, 2, pp. 129-130. 1977 - “Black Sunday, the domino principle”, Bianco e Nero, a. XXXVIII, 5-6, pp. 189-190. 1978 - “La visione nella visione: Lang e Antonioni in TV”, Paragone /Letteratura, a. XXIX, 338, pp. 105-112. 1978 - “Smiling Unconcern-, tre racconti malesi di W. S. Maugham”, Studi Inglesi, 5, pp. 261-280 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 189-211). 1978 - “Qui e altrove: il teatro alla tv”, Cinema & Cinema, a. V, 15, pp. 17-26. 1978 - “Fatti e opinioni. Ebbene sì, parliamo un po’ di noi”, Cinema & Cinema, a. V, 16-17, pp. 223-227. 1978 - “The Choir Boys dà Robert Aldrich”, Bianco e Nero, a. XXXIX, 2, pp. 132-134. 1978 _ “Julia" e “The Serpent’s Egg", Bianco e Nero, a. XXXIX, 3, pp. 132-134 e 138-140. 1978 - “Ideologia e mestiere. Trentanni alla ricerca di un’identità”, Cinecritica, 0, pp. 12-19. 1978 - “Una scomparsa che tutti rimpiangiamo”, Cinecritica (sulla scomparsa di Adelio Ferrero), 1, p. 71. 1978 - “Che mago quel mago!”, Corriere della Sera, 6 agosto. 1979 - “Lingua egemone e lingua marginale: il cinema italiano degli anni Settanta”, Stanford Italian Review, Spring, pp. 145-162. 1979 - “Ipotesi per Not I”, Paragone /Letteratura, a. XXX, 348, pp. 21-33. 1979 - “L’isola che non c’era”, Paragone /Letteratura, a. XXX, 350, pp. 4-21 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 239-257). 1979 - “Calvino, Wilder: già perché le ginocchia...”, Paragone / Letteratura, a. XXX, 356, pp. 130-136. 1979 - “I diavoli di Isaac Bashevis Singer”, Paragone /Letteratura, a. XXX, 358, pp. 106-111 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 325-331). 1979 - “L’angolo di incidenza e l’angolo di rifrazione: note sulle competenze della critica cinema­ tografica e teatrale”, Quaderni di teatro. La critica teatrale, a. II, 5, pp. 87-95. 1979 - “Il crollo delle case di cartapesta”, Cinema & Cinema, a. VI, 18-19, pp. 57-73. 1979 - “Palcoscenico di William Wyler” e “Wilder (e Calvino): già perché le ginocchia”, Cinema & Cinema, a. VI, 21, pp. 76-85 e 102-107. 1979 - Wunderbar: o del contagio”, Cinema & Cinema, a. VI, 22-23, pp. 22-23. 1979 - “Quali giovani? Quale cinema?”, Città e regione, 4, pp. 56-62. 1980- “Il meridiano Defoe”, Paragone / Letteratura, a. XXXI, 368, pp. 76-83. 1980 - “Hitchcock e la commedia”, Paragone / Letteratura, a. XXXI, 370, pp. [72]-83.

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1980 - “Il ponte invisibile”, Ipotesi, 25-26, pp. 33-36. 1980 - “Due, tre, molte apocalissi”, Cinema & Cinema, a. VII, 24, pp. 62-73. 1980 - “Due note su Delitto perfetto” (con Sandro Bernardi), Cinema dr Cinema, a. VII, 25-26, pp. 26-40. 1981 - “Sul set ad ali mozze”, Paragone/Letteratura, a. XXXII, 378, pp. [48]-59. 1981 - “Laura, Alice, la signora Dietrich(son): quadri di un’esposizione”, Cinema dr Cinema, a. Vili, 27-28, pp. 43-57. 1981 - “E voi li riconoscerete dai loro frutti”; “Sul set ad ali mozze”; e “Il signor Sorlin, uno e due (e tre)”, Cinema dr Cinema, a. Vili, 29, pp. 103-108; 114-115; e 124-125; e Recensione di: Samson Raphaelson, Freundschaft, pp. 133-134. 1981 - “Erich von Stroheim. Gli odori di Polk Street”, Quaderni di cinema, a. I, 1, pp. 3-12. 1981 - “Hammett, Huston e i misteri de falco” e “Tutto Hammett, anno per anno”, Quaderni di cinema, a. I, 2-3, pp. 23-31, 32-37. 1982 - “From Showing to Telling: Off-screen Narration in American Cinema”, Letterature d’America, III, 12, pp. 5-37. 1982 - “Chi è Victor Milgrim e perché parliamo tanto male di lui? Note sul romanzo hollywo­ odiano”, Paragone / Letteratura, a. XXXIII, 394, pp. [74]-85 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 353-365). 1982 - “Il salotto del diavolo e la casa del vicino”, Quaderni di teatro. Le visioni del teatro, a. IV, 16, pp. 129-143. 1982 - “e poi” (con Lorenzo Pellizzari”, Cambio della guardia al vertice di Cinema & Cinema', i propositi del nuovo direttore Guido Fink), Cinema dr Cinema, a. IX, 30, pp. 3-5, e “Al cine­ ma, di pomeriggio”, pp. 26-31. 1982 - “All the noble books’: a proposito di una trilogia proletaria”, Cinema & Cinema, a. IX, 31, pp. 24-31. 1982 - “Sul luogo del delitto”, Cinema & Cinema, a. IX, 32, pp. 23-30. 1982 - “Visibilità zero”; “Gaio e tragico! Breve e interminabile!”; “Venezia. Greenaway: bisogna disegnare il proprio giardino”; “Venezia. Gli originali li ho ancora io”, Cinema dr Cinema, a. IX, 33, pp. 3-5; 8-18; 77-80; 80-82. 1982 - “Cadute e ricostruzioni della casa degli Usher”, Segnocinema, 3, pp. 23-26. 1983 - “Mark Twain: in fondo al pozzo”, Paragone ILetteratura, a. XXXIV, 402, pp. [3]-30 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 93-126), e “Nota conclusiva a: Cyril Clemens, Mark Twain e Mussolini”, pp. [75]-78. 1983 - “Una merenda sull’erba e altri equivoci”, Paragone ILetteratura, a. XXXIV, 406, pp. [55]63 (n.e. in La bella forma: Poggioli, i calligrafici e dintorni, a cura di Andrea Martini, Marsilio, Venezia 1992, pp. 51-58). 1983 - “‘La porta non è mai chiusa’: Broadway e la seconda guerra mondiale”, Quaderni di teatro. Il teatro e la guerra, a. V, 19, pp. 101-110. 1983 - “Poscritto - Nachtrag”, “Cronistoria (1948-1978) del serial televisivo made in USA” e “Paradiso proibito?”, Cinema & Cinema, a. X, 35-36, pp. 111-116, 117-119 e 120-121. 1983 - “Gli occhi degli angeli” e “Venezia. Palazzi del cinema e scenografie dei sentimenti”, Cinema dr Cinema, a. X, 37, pp. 16-24 e 69-72. 1984 - “Ecco un libro da scrivere”, Lettere di Carlo Izzo a Giovanna Bemporad, Paragone /Let­ teratura, a. XXXV, 412, pp. [62]-83 (a cura di, con Maria Pia De Angelis). 1984 — “Una commedia in tre atti”, Quaderni di teatro. Il teatro americano in Italia (sezione mo­ nografica a cura di G. Fink, pp. 3-116), VII, 26, pp. 3-10. 1984 - “Orgoglio e pregiudizio: stereotipi hollywoodiani e doppiaggio di casa nostra”, Cinema & Cinema, a. XI, 38, pp. 26-35. 1984 - “Elogio della seconda chance” e “ These Three e Quelle due. il remake come addizione e sottrazione”, Cinema dr Cinema, a. XI, 39, pp- 23-26 e 44-51.

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1984 - “Aprite quella porta” e “Chiamiamolo Tamiroff”, Cinema & Cinema., a. XI, 40-41, pp. 8-9 e 52-58. 1985 - “Sulla punta della lingua. Nomi e luoghi in P. G. Wodehouse”, Paragone /Letteratura, a. XXXVI, 420, pp. [68]-76 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 177-187). 1985 - “Da dove vengono tutte le storie”, Paragone /Letteratura, a. XXXVI, 426, pp. 67-73 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 127-132). 1985 - “Nota introduttiva a Italo Calvino, Lettera di uno scrittore ‘minore’” e “Riccione: teatro in tv”, Paragone /Letteratura, a. XXXVI, 428, pp. [6]-9 e 81-87. 1985 - “Cambiare argomento: Alice in No Mans Land', Paragone /Letteratura, a. XXXVI, 430, pp. 96-104 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Ro­ berto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 155-166). 1985 - “Andare al cinema negli anni trenta (con un omaggio ai Dead End Kids)”, Cinema & Cinema, a. XII, 42, pp. 13-23. 1985 - “Com’è nato Citizen Kane: un inedito del ’41” e “Venezia. Vecchie favole per bambini irrequieti”, Cinema & Cinema, a. XII, 44, pp. 3-4 e 86-89. 1986 - “Venezia: neuf heures et demie de soir, au mois de juin 1926...”, Paragone/Letteratura, anno XXXVII, 438, pp. [94]-100. 1986 - “L’uso del vetrino: il cinema nelle pagine di Mario Soldati”, Paragone / Letteratura, a. XXXVII, 442, pp. 52-61. 1986 - “To change the focus of one’s eyes”, Rivista di Studi Angloamericani, a. IV, 6, pp. 59-68. 1986- “Visconti, la bellezza inaccessibile”, Cinema & Cinema, a. XIII, 45, pp. 29-33. 1986 - “Era proprio questo. Tutta la memoria del cinema: autobiografia e ricordi dello spettatore collettivo”, Cinema & Cinema, a. XIII, 46, pp. 37-40, e “Oltre il giardino” (con Rossana Di Fazio, Conversazione con Peter Greenaway), p. 94. 1986 - “Le città del cinema: Venezia. Cartoline da Venezia XLIII” (con Emanuela Martini e Giovanna Rosetti), Cinema & Cinema, a. XIII, 47, pp. 75-82, e “La mamma non si tocca!”, pp. 93-95. 1986 - “Rapporto confidenziale su Orson Welles e la critica italiana” (con Alessandra Calanchi), Bianco e Nero, 1, pp. 7-29. 1986 - “A prova di regista. Il Teatro Inglese e i suoi protagonisti”, Il Messaggero Cultura, 3 feb­ braio, p. 3 (su Arnold Wesker). 1986 - “Allegria Allegria. Intellettuali e TV”, Il Messaggero Cultura, 4 marzo, p. 5. 1986 - “Metafora, lampo sulfureo. Eliot da rileggere: con i gatti e la grande poesia”, Il Messaggero, supplemento “Il Segnalibro”, a. I, 6, p. ii, 3 dicembre. 1987 - “Carmen e Violetta: prima dopo e durante”, Paragone / Letteratura, a. XXXVIII, 5 (452), PP- [451-54. 1987 - “In cucina con Paolo Stoppa”, Paragone /Letteratura, a. XXXVIII, 5 (452), pp. [87]-931987 - “Quando comincia la fine?” e “Mark Twain n 44. Lo straniero misterioso”, In forma di parole, numero monografico Pensare la fine, Liviana editrice, Bologna, pp. 62-80 e 81-84. 1987 - “La signora contessa è in camera sua: teatralità nel cinema italiano del dopoguerra”, Qua­ derni di teatro, numero monografico Di scena ilfilm, a. IX, 35, pp. 51-61. 1987 - “Mi dispiace, non ho visto lo stop”. De Carlo, Calvino, Moravia e la tirannia del visibile”, Cinema & Cinema, a. XIV, 49, pp. 43-46. 1987 - “Broadway va a Hollywood”, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Cinema & Film, 25, Roma, pp. 587-596. 1987 - “E poi, il West”, Il Messaggero, supplemento “Il Segnalibro”, a. II, 13, 1 aprile, p. ii. (su Edmund Wilson). 1987 - “Ma di che segno sei?”, Il Messaggero, 12 giugno, p. 17. (su un seminario di studi a Bagni di Lucca). 1987 - “Il Sai della vita”, Il Messaggero Cultura, 5 settembre, p. 15. (su Salinger e Kerouac)

Bibliografia di Guido Fink

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1987 - “Squarci nel buio, il racconto ‘The Dead’”, Il Messaggero Cultura, 26 settembre, p. 16. 1987 - “L’avventura è l’avventura”, Il Messaggero Cultura, 19 novembre, p. 17. (su Lisola del tesoro di Stevenson) 1987 - “H Newspaper Movie”, Cinema & Cinema, a. XIV, 48, pp. 16-17. 1987 - “Mezzo secolo di Cinema & Cinema , Editoriale che celebra il 50° numero della rivista, a. XIV, 50, pp. 5-6, e “Insieme, più piccoli”, pp. 77-79. 1988 - “Ulysses e la ricerca del limite”, Paragone I Letteratura, a. XXXIX, 10 (462), pp. [84]-94 (ora in Guido Fink., Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 141-153). 1988 - “L’eroe furioso torna a casa: Anniversari / duecento anni fa nasceva Lord Byron”, Il Mes­ saggero Cultura 22 gennaio, p. 15. 1988 - “Joyce, che maleducato. A proposito dell’ Ulisse emendato e di un convegno”, Il Messag­ gero Cultura, 27 giugno, p. 15. 1988 - “Il Messia delle dune, Anniversari/ Cento anni fa nasceva Lawrence d’Arabia...”, Il Mes­ saggero Cultura, 18 agosto, p. 14. 1988 - “Una malattia chiamata Byron, In mostra a Ravenna un poeta e la moda che ispirò”, Il Messaggero Cultura, 23 agosto, p. 12. 1988 - “L’ombra dei mondi”, Il Messaggero, 21 settembre, p. 15. (sulla fantascienza) 1988 - “Una palla di neve dove leggi il futuro, Letture/”I1 quinto incomodo” di Robertson Da­ vis”, Il Messaggero Cultura, 26 novembre, p. 17. 1988 - “Lucia Bosè fra presenza e assenza”, Cinecritica, a. Ili, 9, pp. 53-60. 1988 - “Vedere i mostri: alcune frontiere della Science Fiction”, in Fondamenti, 11, pp. 103-118. 1988 - “Le ombre di Mamoulian”, in Bianco e Nero, a. XLIX, 1, pp. 59-64. 1989 - “In fondo a via delle Vigne”, Paragone /Letteratura, a. XL, 17 (476), pp. [3]-9. 1989 - “Sui sentieri del tempo, la morte di Bruce Chatwin”, Il Messaggero Cultura, 27 gennaio, p. 16. 1989 - “Se il mostro è servito al supermarket. Il fenomeno Stephen King”, Il Messaggero Cultura, 4 marzo, p. 17. 1989 - “Il fantasma ha carta bianca”, Il Messaggero, 3 aprile, p. 12. (su John Updike) 1989 - “Delirio e barocco”, Il Messaggero, 23 maggio, p. 17. (su William Faulkner) 1989 - “L’implacabile logica del caos”, Il Messaggero, 30 maggio, p. 16. (su Dashiell Hammett) 1989 - “Un magnifico sbadato”, Il Messaggero, 2 giugno, p. 17. (su Francis Scott Fitzgerald) 1989 - “E vacilla la città delle parole. Narrativa/Bellow, Purdy, Heller”, Il Messaggero Cultura, 19 giugno, p. 15. 1989 - “L’Arcadia perduta del grande snob”, Il Messaggero, 6 settembre, p. 17. (su Henry James) 1989 - “Profondo Sud senza esagerare”, Il Messaggero, 17 settembre, p. 16. (su Robert P. Warren) 1989 - “Beckford perfido califfo, Classici/ Torna il ‘Vathelo’ catalogo di gotiche perversioni”, Il Messaggero Cultura, 23 ottobre, p. 13. 1989 - “La ribelle di Manhattan. Ricordo di Mary McCarthy la scrittrice dell’ altra’ America, Il Messaggero Cultura, 27 ottobre, p. 17. 1989 - “Viaggi verso la foce”, ne II cinema in Padania: i luoghi, le immagini, la memoria, a. Ili, n. 5-6 a di Padania: storia, cultura, istituzioni, Torino: Rosenberg & Sellier, pp. 3-11. 1989 - “Pinter et le cinema: une presence dans le noir”, Positif, 339, Paris, May, pp. 15-22. 1989 - “Film literacy”, in “Venezia XLVI e la babele dei festival”, di G. Fink e Alberto Morsiani, Cinema & Cinema, a. XVI, 54-55, pp. 131-134. 1990 - “Alberto Cecchi: il silenzio (relativo) delle ombre”, Paragone / Letteratura, a. XLI, 19 (480), pp. [104]-107. 1990 - “Il cinema: i ‘cimeli pallidissimi’”, Paragone /Letteratura, a. XLI, 24, pp. [56]-63. 1990- “Cadaveri in salotto”, Il Messaggero, 28 aprile, p. 17. (su Alfred Hitchcock) 1990- “AU’ombra di Hemingway”, Il Messaggero, 31 agosto, p. 17. (su Morley Callaghan) 1990 - “E il pedone investito si trasformò in un cartoon”, Il Messaggero, 4 settembre, p. 17. (su Faulkner, Kerouac, Calvino e Buzzati; rapporti fumetto-letteratura)

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1990 - “Siepi fiorite e cadaveri in giardino. Vestale dell’ordine o della trasgressione? I dubbi della critica”, Il Messaggero Cultura, 16 settembre, p. 16. (su Agatha Christie) 1990 - “Che bella fiaba l’avventura”, Il Messaggero, 23 settembre, p. 17. (su Roberto Mussapi e Robert Louis Stevenson) 1990 - “Le raffiche di Groucho”, Il Messaggero, 2 ottobre, p. 17. (su Groucho Marx) 1990 - “Labirinti in corpo nove. I libri da regalare a Natale: la narrativa/Due signore inquietanti, WillaCather e Flannery O’Connor. Gli incubi metropolitani di Woolrich e quelli domestici di Samonà. O le avventure di Chrichton e Chatwin”, Il Messaggero Cultura 18 dicembre, p. 16. 1990 - “C’era una volta il mascherino” e “Due cose diverse allo stesso tempo”, Cinema & Cine­ ma, numero monografico Doppelberg. Specchi, comici, mondi paralleli, dentro e fuori lo scher­ mo, a cura di Guido Fink e Franco Minganti, a. XVII, 59, pp. 13-17 e 61-70. 1990 - “Sopra l’automobile una carrozza: Dora Nelson e Quartieri alti", Paragone /Letteratura, a. XLII, 26 (494), pp. 31-40. 1991 - “La misteriosa sintassi di Roberto Barbolini”, Paragone / Letteratura, a. XLII, 29 (500), PP- [83]-86. 1991 - “Monumento a Soldati”, La rivista dei libri, luglio, pp. 4-7. 1991 - “Il tempo nel cassetto. Cinquantanni fa moriva Virginia Woolf”, Il Messaggero Cultura, 28 marzo, p. 16. 1991 - “Bond e Marlowe in fotocopia”, Il Messaggero Cultura, 29 giugno, p. 19. 1991 - “David Lynch ha iniziato da qui. Gli eterni Hammett, Spillane, Hadley Chase”, Il Mes­ saggero, Supplemento “Il Segnalibro”, 5 luglio. 1991 - “Il cinema e la creatura, amore senza fine”, Il Messaggero Cultura, 14 luglio, p. 16. (su Frankenstein al cinema) 1991 - “Un cantastorie dal ghetto”, Il Messaggero Cultura, 26 luglio, p. 17. 1991 - “Due duri da brivido, Chandler contro Hammett...”, Il Messaggero Cultura, 17 agosto, p. 17. 1991 - “Chi ha paura di Ezra Pound. Saggi/Due libri in prosa e gli articoli fascisti del poeta”, Il Messaggero Cultura, 26 agosto, p. 17. 1991 - “In viaggio con il Fantasma. Racconti/Ritorna ‘Il segnalatore’ di Dickens”, Il Messaggero Cultura, 14 ottobre, p. 15. 1991 - “Altro che Biancaneve. Miti Infranti/Walt Disney? A venticinque anni dalla morte viene descritto come una spia e un traditore. E anche nei suoi film...”, Il Messaggero Cultura, 2 dicembre, p. 13. 1991 - “Nello specchio della scrittura. I libri di Natale: narrativa anglosassone, arte e favole/ dai sonetti di Shakespeare all’india di Naipaul”, Il Messaggero Cultura, 23 dicembre, p. 14. 1991 - “Vada dunque a ripigliarsi la sua immagine”, Cinema & Cinema, a. XVIII, 61, pp. 81-88. 1992 - “Nel segno di Proteo” e “Togliere le virgolette”, Paragone / Letteratura, a. XLIII, 32-34 (504-506), pp. [3]-8 e 47-63 (sezione Le risorse di Wilkie Collins di Guido Fink, Maurizio Ascari e Alessandra Calanchi, traduzioni di Daniela Fink). Ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 213-218 e 219-238. 1992 - “Dove vanno gli altri... Il cinema di Camerini e il resto del mondo”, Paragone /Lettera­ tura, a. XLIII, 32-34 (504-506), pp. [92]-991992 - “Voci da Gerusalemme”, La rivista dei libri, novembre, pp. 10-12. 1992 - “Carnevali messia selvaggio”, Il Messaggero Cultura, 13 gennaio, p. 14. 1992 - “Noia ed effetti speciali”, Il Messaggero Cultura, 8 febbraio, p. 16. 1992 - “Seduti in platea fra piacere e paura. Un secolo di cinema/Nel febbraio 1892 Leon Bouly brevettava il ‘cinematographe’”, Il Messaggero Cultura, 10 febbraio, p. 15. 1992 - “Ma la storia non fa cassetta. Nuovi strumenti/Un video più un libro sul 1948 in Italia”, Il Messaggero Cultura, 13 febbraio, p. 18. 1992 - “L’inferno postmoderno. Metropoli/New York vista da Colombo, Portelli e Sennett, Il Messaggero Cultura, 17 febbraio, p. 14.

Bibliografia di Guido Fink

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1992 - “Tutte le maschere del desiderio. Poesie e favole di Angela Carter scomparsa all’età di 52 anni”, Il Messaggero Cultura, 18 febbraio, p. 17. 1992 - “Hollywood che bella giungla. Ottant’anni fa nasceva Tarzan”, Il Messaggero Cultura, 24 febbraio, p. 15. 1992 - “Tre per uno, uguale Marx”, Il Messaggero Cultura, 9 marzo, p. 14. 1992 - “Il respiro dell’America”, Il Messaggero Cultura, 21 marzo, p. 19. (Cent’anni dalla morte di Walt Whitman) 1992 - “Se dal buio nasce un veggente”, Il Messaggero Cultura, 4 maggio, p. 15. (su II dono oscuro di John M. Hull) 1992 - “Amleto nell’età della plastica. Convegni/Dove va la letteratura degli autori di lingua inglese”, Il Messaggero Cultura, 25 maggio, p. 19. 1992 - “E’ solo questione di ‘shining’. George Eliot tra visioni angosciose e deliranti ritorni al futuro”, Il Messaggero Cultura, 10 luglio, p. 18. 1992 - “Hemingway, ancora matador”, Il Messaggero Cultura, 17 luglio, p. 19. 1992 - “Che brividi, dietro l’albero si nasconde una spia. Da Maugham a Mailer e Pynchon”, Il Messaggero Cultura, 14 dicembre, p. 14. 1992 - “Con la stoffa dei sogni. Abiti e Oscar”, Il Messaggero Cultura, 28 dicembre, p. 17. 1993 - “Quella notte del ’43”, Paragone /Letteratura, a. XLIV, 39-40 (520-522), pp. [12]-31 • 1993 - “Cinema del ’43 a Venezia” (con Gian Piero Brunetta, Nedo Ivaldi, Gianni Rondolino), dossier che raccoglie due articoli (da La Repubblica e La Stampò} e una lettera di risposta del curatore della rassegna, Immagine: note di storia del cinema, 25, pp. 5-9. 1993 - “Antonioni senza Antonioni”, La rivista dei libri, giugno, pp. 4-6. 1993 - “L’agghiacciante sorriso di Mary Postgate, Il Messaggero Cultura, 18 gennaio, p. 15- (su un discorso antitedesco pronunciato da Kipling nel 1918) 1993 - “Stranieri in patria, che tragedia. Identità/la condizione ebraica nella letteratura italiana”, Il Messaggero Cultura, 22 febbraio, p. 14. 1993 - “Che sapore amaro ha la commedia”, Il Messaggero Cultura, 24 febbraio, p. 19. (nel de­ cennale della morte di Tennessee Williams) 1993 - “Grandi schermi e piccoli film. Il cinemascope ha quarantanni”, Il Messaggero Cultura, 25 febbraio, p. 19. 1993 - “Ecco la nostra mostra-utopia”, RC Rivista del cinematografo, 11, pp. 72-73. 1994 - “Scimmie, specchi, spiriti: Shakespeare e gli equivoci delle somiglianze”, Paragone /Lette­ ratura, a. XLV, 43-44 (528-530), pp. [5]-251994 - “La meraviglia di Greenblatt”, La rivista dei libri, settembre, pp. 13-14. 1994 - “Sperduti nel buio”, La rivista dei libri, ottobre, pp. 15-17. 1994 - “Due terzi a lui, uno a me: Samson Raphaelson e il cinema di Lubitsch”, Drammaturgia, l,pp. 116-144. 1994 - “La salute e il contagio: Hollywood anni Trenta”, Cinema studio, 13, pp. 115-118. 1995 - “Ronconi e Cecchi, due partite a scacchi”, La rivista dei libri, aprile, pp. 22-24. 1995 - “Il primo è stato Amleto”, L’indice dei libri del mese, 11, pp. 13-14. 1995 - “Rapacità”, RC Rivista del cinematografo, 1, p. XI. 1996 - “I pinoli e le ciliegine: Omaggio ai caratteristi americani”, Paragone ! Letteratura, a. XLVII, 3-4 (552-554), pp. [62]-76. 1996 - “A piedi da Wielopole: note sul cinema yiddish”, La rassegna mensile di Israel: il mon­ do yiddish, a cura di Elèna Mortara Di Verdi e Laura Quercioli Mincer, vol. LXII, Roma, pp. 375-386. 1996 - “La musa inquietante di Henry James” (recensioni di The Tragic Muse di Henry James e Daniel Deronda di George Eliot), La rivista dei libri, giugno, pp. 14-17. 1996 - “Deserto Rosso”, RC Rivista del cinematografo, 9, p. 47. 1996 - “Libri. Il Cecchi di Bolzoni” (recensione), RC Rivista del cinematografo, 5-6, p. 71. 1996 - “I caratteristi: uomini senza qualità?”, Circuito cinema, numero monografico Sull’attore, 56, pp. 32-42.

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1997 - “Ritorno al bianco e nero”, Paragone I Letteratura, a. XLVIII, 9-10 (564-566), pp. [21]34. Ripubblicato in Franco La Polla (a cura di), Poetiche del cinema hollywoodiano contempo­ raneo, Lindau, Torino 1997, pp. 173-184. 1997 - “Broadway 1997”, La rivista dei libri, settembre, pp. 21-23. 1997 - “Mrs. Dalloway al cinema: un fondale garbato e un po’ inutile”, L Indice dei libri del mese, 11, p. 13. 1997 - “Colloquio con William Shakespeare”, Close Up: storie della visione, 1, pp. 138-143. 1998 - “Shakespeare nostro correligionario?” Paragone /Letteratura, a. XLIX, 15-16 (576-578), PP- [3]-7 (ora in Guido Fink, Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani, a cura di Roberto Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015, pp. 51-55 col titolo Shakespeare ebreo?). 1998 - “Deconstructing Woody”, L’Indice dei libri del mese, 4, p. 43. 1998 - “Benigni e il Leviatano” (recensione de La vita è bella), La rivista dei libri, febbraio, pp. 14-16. 1998- “Intervento”, Schede Umanistiche, 1, pp. 13-20. 1999 - “Semo turi cristiani: ebrei visibili e invisibili nel cinema italiano”, Quaderni de II Ponte, numero monografico In nome del cinema, a cura di Vito Zagarrio, 6, pp. 83-102. 1999 - “L’altro giorno a Polesella”, Ferrara, 11, Fondazione Cassa di Risparmio, Ferrara, pp. 24-32. 2000 - “Il gioco dei doppi: un ricordo di Giorgio Bassani e di Bruno Lattes in Ferrara”, Ferrara, 12, Fondazione Cassa di Risparmio, Ferrara, pp. 25-30. 2004 - “Growing up Jewish in Ferrara: The Fiction of Giorgio Bassani, a Personal Recollection in Judaism”, A Quarterly Journal ofJewish Life and Thought, American Jewish Congress, Uni­ versity of California at Santa Cruz, Summer/Fall, pp. 293-299. 2005 - “Giovanotto, io sono nato in Canada”, in Diario, allegato settimanale a L’Unità, numero speciale dedicato a Saul Bellow {Play It Again, Saul), 15 aprile.

Traduzioni per la

radio o la televisione italiana

Cyril Tourneur, The Revenger’s Tragedy T.S. Eliot, Cocktail Party Eugene O’ Neill, Anna Christie

Traduzioni per il

doppiaggio (con

Daniela Fink)

È tutto vero (Orson Welles, 1941) Lista di Schindler (Steven Spielberg, 1993) Vanya sulla Quaranta seconda strada (Louis Malle, 1994)

Collana Rewind Studi culturali britannici e angloamericani British and Anglo-American Cultural Studies

1. Alessandra Calanchi, Alieni a stelle e strisce. Marte e i marziani nell’immaginario USA. 2. Janice Kulyk Keefer, La zona desolata. La letteratura al confine tra cittadini e potere, (introduzio­ ne, curatela e traduzione di Elena Lamberti). 3. M. Ascari, A. Calanchi, R. Coronato, E Minganti (a cura di), Finkfest. Letteratura, cinema e altri mondi: Guido Fink nei luoghi del sapere.

Finito di stampare nel mese di novembre 2016 da Digital Team (Fano - PU) per conto di Aras Edizioni srl su carta Bioprima book 85 gr/mq.

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