Metropoli e luoghi del consumo 8857523101, 9788857523101

Il volume cerca di spiegare l'importante ruolo assunto nelle società contemporanee dai luoghi del consumo. Gli indi

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Metropoli e luoghi del consumo
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SOCIOLOGIE N. 1

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Collana diretta da Mariella Nocenzi (Sapienza Università di Roma) e Angelo Romeo (Pontificia Università Gregoriana) COMITATO SCIENTIFICO Marco Centorrino (Università di Messina) Vanni Codeluppi (Università di Modena e Reggio Emilia) Gemma Marotta (Sapienza Università di Roma) Maria Cristina Marchetti (Sapienza Università di Roma) Maurizio Merico (Università di Salerno) Domenico Secondulfo (Università di Verona) Mariselda Tessarolo (Università di Padova) Paolo Jedlowski (Università della Calabria) Michel Maffesoli (Universitè de Paris - Sorbonne) George Ritzer (University of Maryland) Junji Tsuchiya (Waseda University of Tokyo)

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VANNI CODELUPPI

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METROPOLI E LUOGHI DEL CONSUMO

MIMESIS Sociologie

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© 2014 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana: Sociologie, n. 1 Isbn 9788857523101 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

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INTRODUZIONE

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1. DALLA MERCE ALLA SUPERMERCE L’illusione del nonluogo La “metropolizzazione” del sociale Los Angeles Lo spettacolo della merce

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2. I LUOGHI DEL CONSUMO NELLA STORIA Mercati, fiere e negozi Dai passages ai grandi magazzini Le esposizioni universali

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3. I LUOGHI DEL CONSUMO ODIERNI Il centro commerciale Ritorno in città Centri urbani e centri commerciali Concept store: il negozio che comunica

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4. I LUOGHI DEL TEMPO LIBERO L’industrializzazione del tempo libero Gli alberghi a tema Dal ristorante all’eatertainment Aeroporti: i nuovi shopping center

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5. I PARCHI DI DIVERTIMENTO Prima dei parchi

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Coney Island I parchi d’attrazione I parchi a tema

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BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

Le merci hanno da tempo evidenziato di essere interessate da un processo di progressiva spettacolarizzazione. Dal momento in cui sono uscite dall’ambito della produzione artigianale, e soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale della seconda metà dell’Ottocento, hanno mostrato infatti di possedere la capacità di trasfigurare i loro caratteri puramente funzionali per assumere dei precisi significati culturali e soprattutto una seducente aura. Per potersi adeguare a tale processo, le merci hanno sviluppato una forte capacità di suscitare sorpresa presso gli individui. Hanno inoltre amplificato la loro natura di oggetti visibili, la loro particolare forma di comunicazione che procede per ostensione. Ma hanno soprattutto dovuto utilizzare le possibilità offerte da particolari luoghi, che hanno funzionato per esse come veri palcoscenici teatrali. È noto come lo spettacolo abbia sempre avuto bisogno di specifici luoghi per potersi esprimere: la commedia ha il teatro, la partita di calcio lo stadio, ecc. Anche lo spettacolo offerto dalle merci, pertanto, è strettamente legato a precisi luoghi. Apparentemente, le mirabolanti possibilità offerte dalle nuove tecnologie della comunicazione sembrano rendere obsolete le tradizionali categorie di tempo e di spazio. Infatti, come ha mostrato da tempo Paul Virilio, l’istantaneità comunicativa produce l’annullamento degli intervalli temporali (e la nascita di un presente perpetuo che sgretola la coscienza del divenire storico), mentre la presenza artificiale o «telepresenza» creata dalle nuove tecnologie della comunicazione rende lo spazio fisico sorpassato e l’ubiquità una capacità alla portata di tutti. Nonostante ciò, però, mai come oggi il tempo è vissuto come una risorsa di cui non si può fare a meno, mentre gli spazi assumono una crescente centralità sociale. Non è inopportuno,

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Metropoli e luoghi del consumo

allora, chiedersi quali siano i rapporti che le merci intrattengono con le più importanti realtà di tipo spaziale che consentono loro di esercitare un ruolo spettacolare e comunicativo: i luoghi del consumo. È pertanto all’analisi di tali luoghi che è dedicato il presente volume. Si tratta di luoghi intesi secondo un’accezione molto ampia, che va dalla bottega artigiana, al negozio, ai passages (le anticipatrici gallerie commerciali sviluppatesi a Parigi nel corso dell’Ottocento), ai grandi magazzini e alle esposizioni universali, sino a quegli spettacolari edifici che sono rappresentati dai grandi centri commerciali extraurbani. Per concludere con luoghi che originariamente non avevano molto a che vedere con la cultura del consumo, ma sono stati via via pervasi da quest’ultima: alberghi, ristoranti, aeroporti, parchi di divertimento, ecc. Gli obiettivi primari di questo volume consistono nel mettere in luce le caratteristiche e le funzioni che sono proprie dello spettacolo offerto dalle merci, ma soprattutto nell’individuare come oggi tale particolare forma di spettacolo stia progressivamente trasformando la sua natura. E come stia anche diventando la frontiera più avanzata di evoluzione del mondo aziendale, non soltanto perché il tempo che gli individui dedicano alle attività di shopping va da tempo aumentando, ma anche perché le imprese si stanno progressivamente orientando verso strategie che cercano di sedurre i consumatori facendogli sperimentare delle potenti sensazioni fisiche ed emotive durante l’esperienza sviluppata con i prodotti e le loro marche. Sensazioni che vengono stimolate da tutte le forme di comunicazione emesse e dal design dei prodotti. È però soprattutto cruciale il ruolo svolto dall’aspetto attribuito ai luoghi di vendita, il principale strumento in grado di consentire alle aziende di stabilire un vero rapporto interattivo con i consumatori. Tali luoghi, pertanto, tendono sempre più a costituire il cuore di quell’attività di produzione simbolica che nelle società ipermoderne va progressivamente affiancando quella di tipo materiale. Di conseguenza, determinano delle profonde modifiche anche nelle caratteristiche delle città contemporanee (Mazzette, Sgroi, 2007; Miles, 2010). Per analizzare lo spettacolo della merce, verrà inizialmente adottato uno sguardo di tipo retrospettivo, che consentirà di osservare come nel Settecento sia nata la vetrina, un fondamentale mezzo di

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Introduzione

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comunicazione per gli spazi commerciali che ha progressivamente esteso la sua logica di messa in scena spettacolare prima all’intero punto vendita e poi alla società nel suo complesso. Ne è derivato un processo di “vetrinizzazione” della cultura sociale. Cioè un’adozione da parte di quest’ultima di quella particolare logica visiva che caratterizza le modalità comunicative della vetrina (Codeluppi, 2007a). Un’attenzione particolare verrà dedicata alla crescente diffusione dei concept store, i negozi che cercano di comunicare in maniera spettacolare l’identità di una determinata marca. Così come si tratteranno con attenzione molte forme innovative che i luoghi del consumo hanno assunto negli ultimi decenni. Per ragioni di sintesi, verranno trascurate alcune categorie di spazi commerciali che sono notevolmente articolate al loro interno e che richiederebbero pertanto un’analisi molto approfondita. Pensiamo, in particolare, agli spazi creati dalle aziende del settore della moda e del lusso (Marenco Mores, 2006; Morone, 2007) oppure a quelli che si sono sviluppati negli ultimi anni sugli schermi dei computer, cioè quel commercio elettronico che si è installato direttamente dentro le abitazioni dei consumatori. In generale, come vedremo, tutti i luoghi del consumo analizzati hanno in comune la capacità di offrire alle persone la possibilità di entrare in un altro tipo di realtà. Cioè di sperimentare la sensazione di fare un particolare viaggio che consente di evadere dai problemi della quotidianità. Questa capacità costituisce la chiave del successo di tali luoghi e li rende pertanto complementari rispetto a quelli in cui si svolge abitualmente la vita quotidiana degli individui.

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1. DALLA MERCE ALLA SUPERMERCE

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L’illusione del nonluogo La merce è un oggetto paradossale: la sua natura è a un tempo individuale e collettiva, privata e pubblica. Vissuta dal singolo come qualcosa che soddisfa i suoi bisogni personali, ha un’assoluta necessità della cultura sociale, di una rete di relazioni che le permetta di operare come oggetto significante. Ma ciò è vero soprattutto prima che la merce si trasformi in proprietà esclusiva di qualcuno, perché, una volta acquistata, essa vive sostanzialmente nel privato. Nello spazio pubblico, invece, continuano a vivere quelle che possiamo chiamare «supermerci», cioè particolari architetture collettive adibite principalmente ad attività legate all’acquisto, che contengono al loro interno migliaia di merci, dalle quali hanno appreso la loro capacità autopromozionale. Le supermerci non esistevano prima di quel processo di progressiva industrializzazione delle società occidentali che si è sviluppato a partire dalla metà dell’Ottocento. Oggi rientrano generalmente in quelli che l’antropologo francese Marc Augé ha denominato «nonluoghi» (1993), riprendendo un concetto già utilizzato in precedenza da Melvin Webber (Webber et al., 1968). Per Augé i non luoghi sono «le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti “mezzi di trasporto” (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e aerospaziali, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e, infine, la complessa matassa di reti cablate senza fili che mobilitano lo spazio terrestre» (1993, p. 74). Augé ha sostenuto che tali particolari luoghi sono accomunati dal fatto di contrapporsi alla tradizionale concezione antropologica che considera il luogo come uno spazio fisico legato a

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Metropoli e luoghi del consumo

una precisa cultura, cioè dotato di solide radici in un contesto sociale e storico ben determinato, e pertanto in grado di consentire quelle relazioni con il prossimo grazie alle quali ciascuna forma di identità, sia essa personale o di gruppo, può costituirsi e mantenersi stabile nel tempo. Per Augé infatti nei nonluoghi l’individuo è costretto a vivere in una condizione di solitudine e provvisorietà e pertanto deve liberarsi completamente da quel gravoso fardello che è rappresentato dalla sua identità personale, che può ritrovare soltanto al momento dell’uscita. Diventa cioè una sorta di anonimo viaggiatore che attraversa un territorio a lui estraneo, anche se per poterlo fare deve prima fornire una prova dell’identità posseduta, attraverso un documento di riconoscimento o una carta di credito, altrimenti gli vengono negati l’accesso e ogni possibilità di fruizione. In realtà, in quelli che Augé chiama nonluoghi l’individuo non perde la sua identità, la quale viene invece trasformata e resa adeguata a una situazione di tipo consumistico. Perché se possiamo trovare oggi un tratto comune ai tanti e diversi nonluoghi considerati da Augé questo è senz’altro l’esplicita appartenenza alla cultura del consumo contemporanea. Il processo di espansione dei nonluoghi è infatti stimolato anche dalla comparsa della necessità per l’individuo di costruire e radicare la sua identità sociale soprattutto mediante il consumo, cioè mediante i comportamenti d’acquisto, i beni comperati e quello specifico linguaggio che è possibile attivare grazie a tali beni (Codeluppi, 2005). D’altronde, non è un caso se, come sostiene lo stesso Augé, «lo straniero smarrito in un Paese che non conosce (lo straniero “di passaggio”) si ritrova soltanto nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio, dei grandi magazzini e delle catene alberghiere. L’insegna di una marca di benzina costituisce per lui un punto di riferimento rassicurante ed è con sollievo che ritrova sugli scaffali del supermercato i prodotti sanitari e i casalinghi consacrati dalle marche multinazionali» (1993, p. 97). Anche perché di fatto oggi in tutto il mondo, a Hong Kong come a Parigi o a New York, può comperare gli stessi prodotti e le stesse marche. Ma questo non è, come conclude invece Augé, un fenomeno paradossale, dal momento che i nuovi luoghi del consumo sono in grado di produrre identità allo stesso modo dei luoghi tradizionalmente studiati dagli antropologi.

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Augé non trae infatti tutte le necessarie conseguenze da ciò che egli stesso sostiene e cioè che oggi l’antropologo ha la necessità di imparare a leggere i nuovi luoghi che compaiono sulla scena sociale. Perché per gli individui questi luoghi, lungi dall’essere asettici e privi di socialità, sono altrettanto ricchi di significato dei luoghi antropologici tradizionali. Certo, in essi la storicità è limitata, in quanto sono di nascita recente e non hanno ancora avuto il tempo d’integrarsi pienamente nell’ambiente sociale circostante, ma non è comunque assente. Soprattutto, però, ci sono l’identità e la relazione, gli altri due elementi che insieme alla storicità, secondo lo stesso Augé, caratterizzano il luogo antropologico tradizionale (ivi, pp. 137-138). Il consumatore, infatti, è in grado di costruirsi delle paradossali identità temporaneamente stabili ma “nomadiche”, cioè legate al territorio sebbene non radicate in nessun luogo particolare, e si affeziona ai nuovi luoghi del consumo, di cui impara a riconoscere gli spazi, i percorsi e gli ambienti di ritrovo. È pertanto in questi luoghi che si manifestano oggi molte importanti forme di relazione tra gli individui. Pensiamo, ad esempio, alle stazioni ferroviarie e all’abitudine a stabilire appuntamenti in questi grandi spazi di transito. Ma pensiamo soprattutto agli shopping mall, ovvero a quei centri commerciali che hanno progressivamente popolato le periferie delle città. Infatti, «Quando la famiglia va allo shopping mall insieme nel fine settimana, il mall procura una forma di svago, di strutturazione del tempo e un luogo per costruire le relazioni familiari relative al genere e alle generazioni. Le nostre identità e le nostre esperienze sono prodotte dalla nostra esperienza di partecipazione al forum culturale del tardo capitalismo – lo shopping mall» (Lunt, Livingstone, 1992, pp. 21-22). E anche molte subculture adolescenziali si sono potute sviluppare grazie ai centri commerciali, che hanno offerto loro delle possibilità d’incontro libere dal controllo dei genitori e degli insegnanti. Dunque, i nuovi luoghi del consumo sono sede di forme di socialità di vario genere, ma comunque simili a quelle che si sviluppano abitualmente negli spazi pubblici tradizionali delle città (Poupard, 2005; Sassoli, 2008). Addirittura, spesso il loro successo dipende dalla capacità di rivestire una qualche centralità per la comunità che vive nel territorio d’insediamento. Ne consegue che tale centralità

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viene ricercata e coltivata anche attraverso l’integrazione (sponsorizzazioni, raccolte di fondi) con avvenimenti propri della comunità, la creazione di eventi specifici e l’inserimento di attività all’interno del tempo ciclico regolato dal succedersi delle stagioni (saldi estivi e invernali) e delle feste religiose e civili (Natale, Pasqua, San Valentino). Ma si pensi anche alle «botteghe (dal calzolaio al parrucchiere e a chi fa le chiavi) che erano nelle antiche piazze e che, ormai quasi scomparse dai centri storici, hanno trovato appunto spazio nelle piazze degli ipermercati» (Triani, 1996a, p. 24), proprio con l’intenzione di associare a tali piazze dei servizi ritenuti essenziali dalla comunità. I nuovi luoghi del consumo devono dunque essere considerati capaci di ospitare molteplici usi e interpretazioni da parte di tutte le possibili categorie di utenti. Proprio per questo motivo, sono, come abbiamo sostenuto, degli spazi di costruzione dell’identità personale. Ma come si è arrivati a tutto ciò? Come si è sviluppato quel processo di evoluzione storica che ha portato a una situazione di questo tipo? Soprattutto attraverso il passaggio dall’esperienza di vita nel piccolo centro rurale alla nuova condizione tipica degli spazi cittadini e metropolitani che è ora necessario analizzare più in dettaglio. La “metropolizzazione” del sociale Diversi anni fa, Massimo Cacciari ha sostenuto, sulla scia delle riflessioni sulla condizione metropolitana condotte da Georg Simmel e Walter Benjamin, che la metropoli rappresenta «la forma generale che assume il processo di razionalizzazione dei rapporti sociali. È la fase, o il problema, della razionalizzazione dei rapporti sociali complessivi, che segue a quello della razionalizzazione dei rapporti produttivi» (1973, p. 9). Si tratta cioè del frutto di un nuovo assetto organizzativo che il sistema capitalistico si è dato in conseguenza di quella seconda rivoluzione industriale che si è sviluppata nella seconda metà dell’Ottocento. La crescente “metropolizzazione” del sociale ha innanzitutto comportato per gli individui un’esperienza di disorientamento che è stata più volte descritta in lucide analisi sociologiche. Nell’Ottocen-

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to, si è presentato infatti un incremento della mobilità geografica e sociale delle persone, in quanto grandi masse di popolazione rurale si sono recate per la prima volta a vivere nelle nascenti grandi città. Queste si sono così gonfiate a dismisura e hanno assunto le sembianze di enormi agglomerati urbani spaventosi e malsani, dove il mondo esterno è diventato un mondo di “estranei”, il mondo “freddo” della città, nel quale, a differenza dei piccoli paesi, i vicini di casa non si conoscono, perché sono tanti, anonimi e per di più cambiano continuamente. In tale mondo, i modelli di comportamento e di vita dei soggetti non erano più correlati ai ritmi umani e naturali dell’esistenza comunitaria, ma ai ritmi accelerati della metropoli, dei nuovi mass media e delle merci, le quali nella metropoli, attraverso le vetrine e i manifesti pubblicitari, hanno potuto adeguatamente esprimere per la prima volta la loro capacità comunicativa. L’occhio è stato sempre più sollecitato da un rutilante caleidoscopio di immagini inusuali e Simmel, già all’inizio del Novecento, ha sostenuto a tale proposito che l’esperienza metropolitana è caratterizzata da una «intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e continuo avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori» (1995, p. 36). Gli individui per difendersi da quella vera e propria “tempesta emozionale” che si è abbattuta su di loro hanno adottato una strategia di “raffreddamento” dei rapporti sociali. Ha cominciato così a evidenziarsi il particolare «carattere intellettualistico della vita psichica metropolitana, nel suo contrasto con quella della città di provincia, che è basata per lo più sulla sentimentalità e sulle relazioni affettive» (ivi, p. 37). L’intelletto, infatti, a differenza, dei sentimenti, è più cosciente, superficiale e flessibile. È perciò meglio in grado di adattarsi alle mutevoli situazioni comportate dal vivere metropolitano. Da tale predominio dell’intelletto è derivato, secondo Simmel, l’atteggiamento blasé di distacco che è tipico del soggetto che vive in una condizione metropolitana e che si sviluppa proprio come forma di reazione all’incapacità di reagire all’eccesso di nuovi stimoli. È stata centrale nelle nuove metropoli ottocentesche anche l’esperienza della folla, lo sperimentare il contatto con la massa, «pluralità informe e incoerente, ma intensamente coesa in un insieme che ha vita propria: entità fisica, dotata di passioni più che di intelletto, che si fa visibile in un determinato spazio, che ne viene saturato, distin-

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guendosi per accensioni, turbolenze, immaginazioni più estetiche che etiche, in cui la singola persona si perde e insieme si esalta» (Abruzzese, Colombo, 1994, pp. 275-276). La massa, cioè, mette in discussione la specifica identità del singolo individuo, ma al tempo stesso tende ad attribuire a quest’ultimo difesa e protezione. Un altro aspetto centrale della condizione metropolitana dell’Ottocento è stato lo sviluppo del concetto di tempo libero, in conseguenza della progressiva riduzione dell’orario di lavoro diffusasi in tutti i Paesi industrializzati per consentire alla classe operaia di recuperare le forze dopo il lavoro. La divisione tra tempo di lavoro imposto dalla società e tempo libero a disposizione dell’individuo si è sviluppata infatti soltanto con la seconda rivoluzione industriale. In precedenza, il tempo di non-lavoro era un tempo collettivo di festa regolato principalmente dalle istituzioni religiose. Ma, come vedremo meglio in seguito, il tempo libero è sempre più diventato anche tempo di consumo, tempo disponibile cioè per consumare prodotti generici e prodotti delle industrie dello spettacolo e del divertimento. Nel corso del Novecento, questi fenomeni si sono intensificati, sino a stabilirsi definitivamente all’interno delle società avanzate. Il processo di “metropolizzazione” del sociale si è così compiuto e ha consentito il pieno manifestarsi della fase di massa del mondo dei consumi. Ma negli ultimi decenni la situazione delle metropoli è mutata. Si è manifestato, infatti, un inarrestabile processo di declino del centro della città storica, con una conseguente fuga verso l’esterno degli abitanti. Il centro storico si è addirittura diffuso nell’ambiente circostante, dando vita alla nuova realtà della “metropoli diffusa” sul territorio, o meglio alla «città territorio» (Picon, 1998). Nel panorama urbano odierno spiccano inoltre da tempo le nuove realtà costituite dalle cosiddette «edge city», cioè le città costruite ai margini delle metropoli. Come ha scritto Giandomenico Amendola, tali città sono «Sorte per impulso degli speculatori come appendici urbane in aree dove minore era il costo dei suoli e maggiori i fattori naturali di trazione, queste città si sono affermate grazie al fatto che potevano offrire qualcosa di diverso rispetto alla metropoli. In queste “città extraurbane” la vita è certamente piacevole e presenta meno problemi di quella nella città tradizionale. La edge city offre verde ed aria pulita, vicinanza all’ufficio visto che gran

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parte delle aziende sta abbandonando la città tradizionale per inseguire i dipendenti, garantisce un posto di lavoro circondato dal verde, scuole nuove e funzionanti e, soprattutto, un vicinato che è in genere socialmente omogeneo e fatto ad immagine e somiglianza del residente» (1997, p. 15). Il risultato di tutto ciò è stato un intenso processo di sviluppo della città sul suo territorio. Negli Stati Uniti, ad esempio, una persona su due vive oggi nella periferia suburbana. E in Italia, poco a Nord di Milano, in un territorio che è compreso tra l’aeroporto di Malpensa e quello di Orio al Serio, vivono quasi cinque milioni di abitanti e circa 500.000 imprese (Bonomi, Abruzzese, 2004). Si tratta dunque di una città di dimensioni nettamente superiori a quelle di Milano ed è andata pertanto in crisi la “forma città” tradizionalmente perseguita dalla cultura europea, razionalmente progettata in tutti i particolari a partire da un centro che contiene dei monumenti in grado di simboleggiare l’autorità religiosa e quella civile e che costituisce il vertice di una piramide che distingue nettamente e gerarchizza le diverse zone urbane (centro, periferia residenziale, zone industriali, ecc.). Il centro città tende a indebolire il suo ruolo e a essere sempre più consumato come uno spettacolo nostalgico di cui gli abitanti della periferia fruiscono occasionalmente e con distacco, mentre la periferia diventa il nuovo polo di elaborazione dell’identità degli individui, la quale non dipende dall’importanza dei monumenti e della storia che ci si è lasciati alle spalle, ma dalla vita e dai rapporti sociali che i luoghi consentono di praticare. Il modello che appare sempre più vincente è perciò spesso quello che l’architetto Rem Koolhaas ha chiamato «junkspace» (2006). Si tratta di una realtà urbana sviluppatasi senza un progetto, costruita autonomamente e spesso caratterizzata da una situazione di abusivismo. In metropoli come Città del Messico, Rio de Janeiro, Shangai, Los Angeles, a fianco di una ristretta élite che vive in condizioni di agiatezza, troviamo oggi una moltitudine di persone che sono arrivate con la speranza di trovare migliori condizioni di vita, ma che in realtà hanno incontrato numerose difficoltà e non hanno potuto accedere a un’abitazione se non nei modi di quell’edilizia abusiva di cartone e lamiera che consente di ridurre al minimo le spese. Nelle grandi metropoli del Sud America, ogni quartiere è regolarmente

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dotato della sua favela, dove vive la maggioranza della popolazione. Ma un fenomeno analogo si presenta anche nelle grandi città dell’Africa. Secondo le stime delle analisi effettuate dalle Nazioni Unite, si tratta di un’enorme quantità di persone: più di un miliardo, che dovrebbe diventare due miliardi entro il 2030 e tre miliardi entro il 2050 (Minardi, 2007). Sebbene la cultura occidentale avanzata abbia solitamente la tendenza a considerare queste aree abitative come marginali, precarie e destinate alla scomparsa, esse in realtà rappresentano una dimensione fondamentale della vita metropolitana contemporanea. Non hanno quel centro storico che caratterizza le città europee tradizionali e pertanto in esse non è riconoscibile un ordine organizzato attorno a un centro, una struttura ordinata razionalmente. Semmai, presentano una struttura simile a quella del palinsesto televisivo, basata sulla giustapposizione di elementi differenti. Ma persino i centri storici tradizionali subiscono l’influenza di questo modello e tendono sempre più ad adottare lo stesso tipo di organizzazione caotica basata sull’unione di frammenti disomogenei. Tende dunque ad avverarsi quanto è stato sostenuto molto tempo fa da Walter Benjamin, il quale, di fronte allo sviluppo caotico della prima vera metropoli e cioè Parigi, ha pensato che «La città è la realizzazione dell’antico sogno umano del labirinto» (1986, p. 560). Tutto ciò è soprattutto il frutto del rifiuto sociale di quello specifico modello abitativo che è stato proposto dal movimento architettonico moderno e che soltanto trenta o quarant’anni fa sembrava un destino inevitabile per le nostre città. E del rifiuto da parte della popolazione dell’idea che tale modello sia adatto a soddisfare una progettualità collettiva. Probabilmente perché non esiste più una vera civitas urbana e non si sente dunque più il bisogno di quelle piazze e strade che erano indispensabili per il funzionamento del modello moderno. Ma anche perché tale modello proponeva un progetto assolutamente subordinato a un principio di tipo funzionalistico, il quale, sacrificando ogni cosa al valore supremo della razionalità e dell’efficienza, ha fortemente indebolito la capacità di significare degli spazi urbani. Anche altri fattori contribuiscono a favorire lo sviluppo dei sobborghi e a togliere al centro urbano il suo potere di aggregazione e di attribuzione d’identità: il trasferimento su Internet di molte attività

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economiche e sociali, la tendenza a sviluppare raggruppamenti basati sulle differenti etnie che vivono nelle metropoli contemporanee, la crescente ossessione sociale per la circolazione di persone e beni, la quale tende a sviluppare le aree territoriali che favoriscono gli spostamenti, grazie alle linee di trasporto ad alta velocità (ferroviario ed automobilistico). È appunto in queste aree che vanno solitamente a collocarsi le supermerci. Queste sono infatti luoghi di consumo che hanno la necessità di sfruttare i punti di massima intensità dei processi di circolazione sociale. Cioè proprio quello che gli spazi angusti delle città storiche non consentono più di fare. Ecco perché è fuori dagli insediamenti urbani che vengono da tempo costruiti i centri commerciali, i luoghi del divertimento (luna park, parchi a tema, ecc.) e le altre megastrutture del tempo libero. Non a caso alcuni autori italiani hanno coniato l’etichetta «superluoghi» allo scopo di indicare i nuovi luoghi del consumo, che sono in grado di dominare il territorio, generare fenomeni di urbanizzazione e attirare masse e flussi (Agnoletto, Delpiano, Guerzoni, 2007, p. 7). Se la città prevista dal progetto moderno ha sempre più indebolito la sua identità è dunque anche perché il suo intenso sviluppo ha dato origine a problemi insormontabili di gestione e razionalizzazione dei flussi circolatori: ingorghi del traffico automobilistico, impossibilità di parcheggiare, inquinamento dell’ambiente, eccesso di comunicazioni, furti, atti di violenza, ecc. Si è così reso necessario creare degli spazi immuni dai problemi urbani: i nuovi luoghi del consumo. Delle oasi di pace e felicità dove ci si può rendere anonimi e isolare dal caos della metropoli e dove si è al riparo dalle intemperie, ma anche sorvegliati per poter usufruire di una situazione di massima sicurezza. I comportamenti devianti, infatti, sono proibiti e tutto è costantemente controllato e reso visibile. Il centro commerciale, ad esempio, «nel suo perfetto ordine spaziale (regolato da percorsi obbligati, scale mobili che scendono e salgono in un solo senso, casse elettroniche, circuiti televisivi e vigilantes) crea un clima di sicurezza che, per quanto in realtà ferreo ma assolutamente discreto e comunque non percepito come oppressivo, risponde esemplarmente a una domanda sociale oggi più che mai forte e quasi assillante» (Triani, 1996a, p.

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Metropoli e luoghi del consumo

23). Il consumatore, anche se non è consapevole della presenza di un sofisticato sistema di sicurezza, solitamente nascosto alla sua vista, è però conscio della protezione di cui gode rispetto alla situazione di violenza della città che si trova all’esterno e tende ad attribuirla, oltre che all’ambiente, alla qualità degli altri visitatori. Per questo motivo, le attenzioni maggiori dei gestori delle supermerci sono volte a filtrare il pubblico tenendo fuori tutte le persone che possano non tanto costituire un reale pericolo, ma essere interpretate come un segnale di pericolo da parte dei consumatori. Eppure va considerato che in realtà, nonostante le notevoli misure di sicurezza che vengono adottate, i centri commerciali non sono immuni da attività criminose di vario genere, come le violenze sessuali, i furti d’auto e le rapine a mano armata (Kiger, 1998). Ma il vero problema è probabilmente costituito dal fatto che a volte il consumatore non trova nelle supermerci che frequenta quella situazione di tranquillità che gli viene promessa e che ricerca fuggendo da un mondo metropolitano dove è sempre più obbligato a comunicare con il prossimo. Anche i luoghi del consumo, infatti, possono essere considerati come una specie di mezzo di comunicazione in cui vengono continuamente trasmesse agli individui delle informazioni attraverso vetrine, eventi, sistemi di sonorizzazione, ecc. Possono dunque ricreare gli stessi problemi di ansietà che gli individui tentano di evitare quando vi cercano rifugio. Los Angeles Lo sviluppo storico che Los Angeles ha avuto nel corso del Novecento testimonia in maniera esemplare il verificarsi di quel processo di mutazione delle città di cui abbiamo parlato. Già a partire dagli anni venti del Novecento, infatti, in questa città è nata una strategia tesa verso la “deurbanizzazione” e basata sullo sviluppo di zone residenziali decentrate in grado di garantire alla classe media un riparo dalle tensioni imposte dalla convivenza razziale. Non è un caso pertanto che la rete ferroviaria sia stata progressivamente smantellata mediante una politica governativa di prezzi alti che ha favorito lo sviluppo di una rete di autostrade di collegamento gratuite e facil-

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mente accessibili (le freeways), e conseguentemente dell’impiego di mezzi di trasporto privati come le automobili. Ma ciò che soprattutto caratterizza Los Angeles è la sua particolare natura di metropoli “poliziesca”. Di metropoli cioè dove il ruolo abitualmente svolto dalla polizia per garantire la sicurezza dei cittadini non è considerato sufficiente. Pertanto, vi è stato sviluppato un peculiare modello urbano basato sulla divisione della popolazione in comunità isolate e non interagenti. L’ossessione per la sicurezza personale è dunque il fattore principale che ha modificato la struttura della città di Los Angeles. Essa ha portato a un vero e proprio processo di “privatizzazione” dello spazio pubblico del centro cittadino. Come nel caso esemplare del distretto finanziario Bunker Hill, rigidamente separato dal resto della città tramite recinzioni e barriere fisiche di vario genere. La chiarezza con cui Los Angeles ha perseguito la sua strategia di “deurbanizzazione” ha consentito a Mike Davis, David Harvey, Fredric Jameson e altri autori di considerare tale luogo il modello per eccellenza di metropoli del futuro. Contrariamente infatti a tutte le prefigurazioni fantascientifiche, è chiaro da tempo che la metropoli del futuro non corrisponderà a quello che nel corso del Novecento è stato vissuto come l’archetipo della metropoli per eccellenza: New York, con la sua ideologia d’illimitata espansione verso l’alto (Koolhaas, 2001; Terranova, 2006). È invece Los Angeles la realtà urbana maggiormente in grado di dare l’idea di quella che sarà la struttura reticolare e interetnica della metropoli di domani, grazie alla sua sterminata successione di bassi villini, dove non c’è più nessuna soluzione di continuità tra il centro e la periferia, tra la città legale e la metropoli abusiva, tra i quartieri residenziali e i luoghi di lavoro. A Los Angeles tutto ciò è tenuto insieme dal flusso circolatorio costantemente in movimento delle freeways. Mancano delle architetture riconoscibili e un vero tessuto urbano, perché in questa metropoli, come ha affermato Jean Baudrillard, «Non verticalità né underground, né promiscuità né collettività, non strade, non facciate, niente centro né monumenti: uno spazio fantastico, una successione fantomatica e discontinua di tutte le funzioni sparse, di tutti i segni senza gerarchia – fantasmagoria dell’indifferenza, fantasmagoria delle superfici indifferenti – potenza dell’estensione pura» (1987, p. 100).

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L’efficacia della strategia di “deurbanizzazione” sviluppata da Los Angeles è dimostrata dalla crescente diffusione di tale strategia negli Stati Uniti, dove si sono progressivamente moltiplicate ad esempio le cosiddette «comunità-fortezza», in cui vivono attualmente circa 15 milioni di persone (Zucconi, 2011). Le città americane hanno cioè sempre più adottato lo stesso modello difensivo che è stato messo a punto dalle supermerci. A differenza di Los Angeles, molte grandi città hanno saputo reinventarsi negli ultimi decenni, attribuendo dei significati “forti” a propri particolari spazi urbani e trasformando così i centri storici in enormi centri commerciali “a cielo aperto”, con parcheggi, vie pedonali, feste e manifestazioni di vario genere. La cultura del consumo si è sempre più estesa all’intera città e metropoli come Parigi, Londra e Berlino, ad esempio, hanno saputo fare del proprio centro storico un enorme magnete di attrazione per consumatori e turisti, dando vita a una nuova tipologia di luoghi del consumo. Così, gli edifici dismessi sono stati trasformati in locali di intrattenimento, mentre i cinema multiplex hanno preso il posto delle fabbriche e dei magazzini inutilizzati. Sono esemplari a questo proposito le operazioni di “estetizzazione” effettuate su luoghi urbani degradati come il Pelourinho di Salvador de Bahia o il Barrio Chino di Barcellona (Miles, Miles, 2004). Non disponendo di un centro storico, ma anche a causa dell’elevato tasso di violenza presente, Los Angeles ha puntato su parchi a tema come Disneyland e gli Universal Studios, ma anche su City Walk, un’area pedonale che è stata inaugurata nel 1994 nel sobborgo di Universal City e che è rapidamente diventato il suo quartiere più affollato. Su di essa si affacciano negozi, ristoranti, attrazioni ludiche e riproduzioni delle più celebri architetture della metropoli californiana. City Walk non si presenta dunque soltanto come un centro commerciale, ma anche come un parco di divertimenti e soprattutto come una realtà urbana maniacalmente riprodotta e idealizzata, perché vuole costituire l’essenza migliore della città, totalmente liberata dalla violenza di Los Angeles. È cioè un’esemplare testimonianza dell’esistenza di quel modello della «fantasy city» che, come ha sostenuto John Hannigan, è quello verso il quale tendono le città nell’attuale contesto sociale ipermoderno e rappresenta «il prodotto finale di una contraddizione

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culturale da lungo tempo presente nella società statunitense tra il desiderio della classe media di sperimentare esperienze interessanti e la parallela riluttanza di tale classe a correre dei rischi, soprattutto quelli che comportano un contatto con le fasce più povere della popolazione cittadina» (1998, p. 7). A Los Angeles, dunque, appare con maggiore evidenza anche il modello di sviluppo che viene seguito dalle principali metropoli mondiali nel processo di rilancio della loro immagine e delle loro capacità di attrazione turistica e consumistica. Un modello che, in fondo, è molto simile a quello che è stato adottato dalle città “barocche” europee del Seicento e del Settecento, dalle città cioè che trasformavano le loro piazze e i loro palazzi in palcoscenici teatrali in grado di legittimare, con le loro sorprendenti rappresentazioni, il potere del principe e della chiesa. Gli spettacoli avevano però dei confini ben delimitati in termini di tempi (carnevale o feste particolari), luoghi (teatri o particolari piazze), ma soprattutto di ruoli riservati rispettivamente ai protagonisti attivi e al pubblico passivo. Oggi invece, nel centro della nuova città, lo spettacolo non è più confinato in momenti delimitati o in luoghi chiusi, perché si è diffuso nella città. Dunque, «Non solo la città produce e contiene spettacoli ed eventi ma, obiettivo finale, è che essa stessa diventi spettacolo» (Amendola, 2010, p. 40). Tende pertanto a saltare qualsiasi distinzione tra attori e pubblico, scena e platea, rappresentazione e realtà. Lo spettatore è immerso nello spettacolo e opera perciò anche come attore, realizzando il vecchio sogno delle avanguardie artistiche novecentesche di dare vita a un’opera d’arte totale. Lo spettacolo della merce Il grande fascino che viene esercitato dalle supermerci deriva probabilmente dalla natura paradossale di tali luoghi e il paradosso, com’è noto, è una figura retorica in grado di sorprendere e coinvolgere grazie alla sua particolare identità duplice. Questa natura paradossale delle supermerci spiega come mai possa essere applicato a esse il concetto di spazio eterotopico messo a punto da Michel Foucault. Secondo quest’ultimo, infatti, in tutte le forme societarie esi-

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stono degli spazi di tipo particolare che possono essere raggruppati in due grandi categorie: gli spazi «utopici», ovvero degli spazi irreali perché ideali e dunque privi di un luogo fisicamente sperimentabile, e degli spazi contrapposti ad essi, cioè gli spazi «eterotopici», che sono invece dei luoghi effettivi, ma anche dei «controluoghi», specie di «utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi che si trovano all’interno della cultura, vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti, una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili» (1994, p. 14). La nave rappresenta l’eterotopia per eccellenza, ma, come si è detto, è senz’altro possibile considerare anche i nuovi luoghi del consumo come delle vere e proprie eterotopie. Tra le varie forme di paradosso che caratterizzano i luoghi del consumo (Codeluppi, 2005), la più importante è senz’altro quella che riguarda la relazione esistente tra la tendenza all’accumulo e la ricerca di innovazioni. La prima è nata nell’Ottocento, con la borghesia che, dopo aver conquistato il potere, ha cercato di costruirsi una specifica identità. Lo ha fatto soprattutto creando un modello di abito da indossare (il completo grigio per gli uomini), un tipo di arredo per le abitazioni e delle architetture per le città. Ma ha anche cercato di rappresentarsi socialmente attraverso operazioni come lo sventramento e la ricostruzione di Parigi che il prefetto GeorgesEugène Haussmann ha fatto realizzare a partire dal 1853, lo sviluppo della Londra Vittoriana o la costruzione del Ringstrasse a Vienna. La cultura della borghesia è contrassegnata però soprattutto da un profondo legame con quello sviluppo industriale che la borghesia stessa ha stimolato e diretto. Infatti, la struttura urbanistica e architettonica delle metropoli europee della seconda metà dell’Ottocento è direttamente influenzata dal ruolo ricoperto in essa dalle fabbriche e la cultura borghese ha progressivamente assorbito la logica industriale della produzione in serie. La logica cioè della creazione di oggetti standardizzati per un gusto standardizzato come quello del “consumatore massa” della società industriale. Tale logica è eminentemente quantitativa e procede per accumulo progressivo. Ne consegue che anche i luoghi del consumo contemporanei, i quali, come vedremo, hanno le loro radici principalmente nell’Ottocento, manifestano di

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essere direttamente discendenti dalla cultura industriale della produzione in serie e dalla sua logica che tende all’accumulo. Dal negozio singolo si è passati infatti a insiemi sempre più grandi di negozi (la galleria commerciale, il grande magazzino e il centro commerciale). A lungo andare, però, la produzione in serie annoia. La sua logica di ripetizione costante del sempre uguale fa progressivamente calare l’interesse degli individui. Pertanto, quanto più essa si è diffusa e si è imposta nella società, tanto più è diventato necessario introdurre al suo interno delle innovazioni, delle variazioni in grado di suscitare un effetto sorpresa, in grado cioè di dare vita a un vero e proprio spettacolo. Al processo di crescita sul piano quantitativo delle dimensioni dei luoghi del consumo si è perciò affiancato un processo teso a fare assumere a tali luoghi anche dei ruoli e dei significati completamente differenti, a trasformarli cioè in potenti “macchine per comunicare” che operano su un piano prevalentemente spettacolare. Alberto Abruzzese ha teorizzato diversi anni fa il passaggio dalla società dello spettacolo alla società dell’informazione. In realtà, la sua opinione era condizionata dal fatto di privilegiare un punto di vista interno al sistema dei media. Scriveva infatti che teatro e cinema sono stati i linguaggi più caratteristici della società dello spettacolo, ma anche che «da tempo teatro e cinema non esistono più in quanto forme conchiuse: i loro prodotti non sono più identificabili come opere, ma annegano in una somma di stimoli quotidiani, qualitativamente e quantitativamente complessi, che distrugge, o per il momento tende a distruggere, la società dello spettacolo. A questa si contrappone la società dell’informazione, che si costruisce sulla crisi e morte dello spettacolo e delle sue funzioni storiche. Schematizzando: da un lato lo spettacolo dall’altro la televisione; televisione non in quanto schermo televisivo, ma in quanto sistema di produzione di consumo. Produzione non più dell’opera ma del palinsesto, cioè della programmazione globale di immagini con assoluta contiguità di linguaggi espressivi, di livelli culturali, di funzioni sociali, di “pubblici”. Dunque televisione come organizzazione globale dello spettacolo dentro all’informazione, come parte di essa, come materiale intercambiabile, come stimolo accanto ad altri stimoli» (1979, p. 225). L’evoluzione successiva del sistema sociale ha però consen-

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tito di vedere che l’informazione non ha sostituito né inglobato lo spettacolo e che tra i due c’è, semmai, una complessa interazione. Perché, per far funzionare l’ipercomunicazione di flusso c’è ancora bisogno di dare vita a degli eventi altamente spettacolari. E ciò vale, in particolare, nel caso dei nuovi luoghi del consumo, che devono essere in grado di consentire alle persone di vivere un’esperienza sorprendente e spettacolare. Il che appare vero soprattutto alla luce dell’attuale situazione di saturazione che è presente a tutti i livelli delle società avanzate e che rende necessaria un’azione più decisa per attribuire visibilità ai soggetti che comunicano. Ecco allora perché si punta sempre più massicciamente sullo sfruttamento di uno specifico tema, ovvero sulla «tematizzazione», una tecnica di auto-rappresentazione centrata su una particolare categoria concettuale che dovrebbe essere già conosciuta dal fruitore e consentire pertanto di ottenere un elevato coinvolgimento di quest’ultimo (Gottdiener, 1997). Vale a dire che «La tematizzazione è oggi una forma di simulazione che opera attraverso la proiezione di un altro luogo, tempo, mondo o cultura. Tali effetti sono simultaneamente prodotti dal design architettonico, dalla tecnologia più avanzata e da spettacoli messi in scena per suscitare esperienze sensoriali, realizzare associazioni di tipo performativo e ottenere un’efficace risonanza tra gli originali e le copie» (Lukas, 2007, p. 18). Il parco a tema, come vedremo, non è pertanto che l’esempio più eclatante di quel modello pervasivo e intrigante di organizzazione per temi dello spazio urbano e sociale che va sempre più caratterizzando le società contemporanee. La tematizzazione non implica però necessariamente quel processo di «reincanto del mondo» di cui ha parlato George Ritzer (2000). Se, come ha sostenuto Max Weber, nelle società moderne si produce un «disincanto del mondo» per effetto dei processi di razionalizzazione comportati dallo sviluppo economico e sociale, nel contempo, secondo il sociologo americano, si creano anche nuove forme di «reincanto del mondo». Tale capacità è propria soprattutto dei nuovi luoghi del consumo, come ad esempio i centri commerciali. Tali luoghi infatti, per Ritzer, «hanno un carattere religioso di tipo magico, a volte sacro, per tante persone» e «avvertono l’esigenza di offrire, o almeno danno l’impressione di offrire, un numero sempre maggiore

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di scenari magici, fantastici e incantati in cui fare gli acquisti» (ivi, p. 18). In realtà, Ritzer non è il primo a interpretare il consumo come una religione e i luoghi del consumo come delle cattedrali. Lo hanno fatto diversi autori, a cominciare, ad esempio, da Charles Wright Mills nella sua celebre analisi della classe media americana Colletti bianchi (1966, pp. 227-228). Ma se una visione quale quella di Mills poteva essere giustificata dal contesto culturale arretrato degli anni cinquanta in cui tale sociologo operava, oggi appare evidente come essa debba essere considerata anacronistica, poiché presuppone una irrealistica passività del consumatore. Questa interpretazione del consumo come una religione nasconde infatti l’idea che i consumatori si comportino come dei fedeli e dunque rinuncino sostanzialmente a utilizzare la loro capacità di raziocinio. Non è un caso, pertanto, che per Ritzer i luoghi del consumo contemporanei siano anche caratterizzati da una «perdita del senso del tempo, uno stato di sospensione nel quale il tempo, a differenza che nel resto della vita, sembra non avere molta importanza» (2000, pp. 177-178). I casinò di Las Vegas sono per Ritzer un perfetto esempio di questo fenomeno, in quanto operano mediante una strategia che è caratterizzata dai seguenti aspetti: il funzionamento ininterrotto, l’eliminazione di tutti i possibili riferimenti al tempo naturale (la luce solare, il buio, ecc.) attraverso l’abolizione di porte e finestre aperte sull’esterno, la soppressione degli orologi, l’eliminazione dei segni dell’età sulle architetture attraverso continue manutenzioni e ristrutturazioni, la costruzione di enormi spazi architettonici ben diversi dagli angusti spazi quotidiani, la ripetitività delle azioni che gli individui vengono indotti a compiere, l’offerta di attrazioni spettacolari tratte da momenti diversi del passato, del presente e del futuro dell’umanità. Dunque, ciò che nei luoghi del consumo si tenderebbe a ottenere, secondo Ritzer, è un effetto di disorientamento del consumatore, che perde il senso del tempo e ogni legame con la realtà sociale, diventa vulnerabile e finisce per acquistare prodotti di cui non ha realmente bisogno e spesso non si può nemmeno permettere, ricorrendo perciò all’indebitamento. Naturalmente, lo scopo di questa strategia è di avere «un maggior numero di clienti e maggiori acquisti, e quanto più cresce il tempo da dedicare ai consumi, tanti più beni e servizi si potranno vendere. Inoltre, sarà più facile disorientare ulteriormente,

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in particolare riguardo al denaro, consumatori già disorientati rispetto al tempo» (ivi, p. 180). Questa interpretazione è una diretta conseguenza della concezione sviluppata da Ritzer che vede sostanzialmente il consumatore come un fedele di una religione istituzionalizzata e tende perciò a considerarlo come un soggetto che viene guidato dalle strategie di chi ha realizzato e gestisce i luoghi del consumo. Ma tale visione, come abbiamo detto, dev’essere considerata superata. Se è vero, infatti, che, come sostiene Ritzer, luoghi come i centri commerciali sono in grado di produrre nel consumatore un effetto di disorientamento, è anche vero che il consumatore, a sua volta, conserva comunque un’autonomia decisionale. Quella del gestore del luogo di consumo è una precisa strategia tesa a far perdere la nozione del tempo al consumatore, ma questi, a sua volta, contrappone ad essa una sua specifica strategia. Il risultato finale deriva dunque da un complesso processo di contrattazione tra le strategie che vengono attivate da parte dei due soggetti che si confrontano.

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2. I LUOGHI DEL CONSUMO NELLA STORIA

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Mercati, fiere e negozi Luoghi specificamente destinati alle attività di tipo commerciale sono presenti in quasi tutti gli insediamenti umani. Anzi, generalmente i centri urbani sono nati e sono cresciuti, più che in conseguenza della concentrazione di attività di produzione o della popolazione, soprattutto in funzione della presenza di scambi di tipo commerciale. Lo sviluppo del commercio, cioè, ha condizionato quello socioeconomico e, conseguentemente, quello demografico. Non è un caso dunque che le città siano sorte dove era più facile svolgere delle attività commerciali. Nelle città dell’Antica Grecia, ad esempio, l’agorà costituiva un luogo in cui l’individuo era in grado di esercitare il suo potere come cittadino, partecipando alle assemblee pubbliche, ma anche di acquistare merci di varia provenienza. Ciascuna bottega all’epoca era un semplice locale rettangolare, con un’ampia apertura verso l’esterno, occupata in parte dal banco di vendita e recante dei gradini per esporre le merci. La vendita, invece, era solitamente costituita da una contrattazione che si svolgeva sulla strada. A Roma, nell’antichità operavano numerosi negozi al dettaglio, ma soprattutto il Foro, una vasta zona all’aperto riservata ai mercati. Soltanto in un secondo tempo tale luogo è diventato quello centrale per lo svolgimento dell’intera vita cittadina. Via via che la civiltà romana si è sviluppata, sono stati creati anche degli ampi edifici appositamente dedicati alle attività commerciali. L’esempio più evidente è costituito dai Mercati Traianei, che possono essere considerati una specie di anticipazione degli odierni centri commerciali. All’inizio del II secolo d.C., l’imperatore Traiano e il suo architetto Apollodoro

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hanno ideato infatti un avanguardistico complesso comprendente uffici e ben 150 botteghe dove era possibile acquistare di tutto: gioielli, seta e spezie provenienti dal Medio Oriente, olio, vino, pesce fresco, grano, frutta, verdura e fiori. Nell’antichità, e sostanzialmente sino alla fine del Medio Evo, per quanto riguarda l’atto di vendita, «la competenza è tutta nelle mani del venditore-artigiano, che funge completamente da tramite tra l’oggetto e il consumatore: è lui che garantisce, con la sua competenza, la qualità dell’oggetto. Dal punto di vista del consumatore (o meglio del cliente) è la relazione sociale col venditore che garantisce della sua correttezza e lo qualifica come esperto di fiducia» (Secondulfo, 1996, p. 68). I prodotti, pertanto, svolgevano un ruolo di tipo passivo e traevano i significati che erano in grado di esprimere dal luogo in cui si trovavano e dalla relazione che veniva a stabilirsi tra il venditore e il compratore. Nel corso del Medio Evo, ha cominciato a svilupparsi un’intensa attività commerciale che ha reso la piazza dove si teneva da secoli il mercato il polo primario, insieme alla chiesa, della vita economica e culturale. La nuova economia urbana si è caratterizzata infatti non per la produzione dei beni primari, ma per il consumo di tali beni. Con la crescita dunque del numero di abitanti le era indispensabile disporre di un’ampia offerta di beni, un’offerta che soltanto una manifestazione ciclica con un’elevata periodicità come il mercato era in grado di garantire. Durante l’epoca comunale, si è arrivati addirittura a realizzare delle strutture stabili e delle mura in grado di garantire la sicurezza dei commercianti e appositamente progettate e costruite per la piazza dove si doveva tenere il mercato. Spesso, i mercati erano specializzati, come le piazze delle Erbe di Vicenza e Mantova, oppure come le corti delle Uova e del Pesce e le piazze dei Cocomeri, della Legna e delle Erbe di Lucca. Così, a partire dal Quattrocento, si è presentata quella che è stata denominata «rivoluzione commerciale». Una rivoluzione che si è manifestata non soltanto nel rendere disponibili sui diversi mercati dell’Europa occidentale, grazie agli enormi progressi compiuti nell’ambito dei mezzi di trasporto, una vasta serie di prodotti sino ad allora sconosciuti perché provenienti da altri Paesi europei e addirit-

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tura da altri continenti, ma anche nel dare vita a quella che Chandra Mukerji ha chiamato «cultura materialistica» (1983). All’epoca, le botteghe erano ancora molto povere e quasi sempre costituite da un laboratorio artigianale, da un deposito (posto in genere sul retro) e da uno spazio destinato al commercio, che però non era solitamente che una piccola appendice del resto. Progressivamente, però, le botteghe hanno cominciato a differenziarsi a seconda delle merceologie e, a tale scopo, si è notevolmente sviluppato l’impiego delle insegne commerciali. Queste, a dire il vero, erano già in uso sin dall’antichità, ma durante l’epoca comunale hanno dovuto essere rigidamente regolamentate da parte delle autorità, perché la loro spesso notevole sporgenza, le elevate dimensioni raggiunte e le quantità eccessive creavano addirittura dei problemi al traffico stradale. La funzione estetica e di richiamo spettacolare che era precedentemente svolta dalle insegne è stata perciò assorbita dalle decorazioni, che hanno cominciato ad apparire sulle facciate e all’interno dei negozi. E si è dovuto anche massicciamente puntare sulle capacità commerciali dei venditori, cioè sulla loro abilità quasi “teatrale” di attirare i clienti e convincerli all’acquisto. A volte, le botteghe appartenenti allo stesso settore merceologico si sono concentrate in una stessa via o nello stesso quartiere. Hanno dato così vita a degli aggregati di botteghe in grado di esercitare una forte capacità di attrazione. A Milano, ad esempio, la commercializzazione dei prodotti degli armaioli lombardi si è concentrata in Via degli Armorari, mentre a Londra i banchieri e i finanzieri provenienti dall’alta Italia si sono radunati soprattutto in Lombard Street. Nella Firenze del Trecento, invece, le botteghe specializzate nell’arte della lana si sono raccolte attorno alle chiese di S. Martino e S. Michele alle Trombe, in Via della Vigna Nuova e in Via Maggio, mentre le botteghe degli orafi erano in Via degli Orafi, nel Mercato Vecchio e sul Ponte Vecchio. A partire dall’epoca della rinascita dell’economia medioevale, si sono sviluppate anche le fiere, in ragione della notevole domanda di beni creata dall’elevata espansione demografica avvenuta nel corso del X e dell’XI secolo in tutta l’Europa occidentale. Inizialmente, le fiere, come i mercati dell’antichità, radunavano venditori e compratori soltanto in occasione di particolari feste religiose (con cadenza

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generalmente annuale o semestrale) e si svolgevano dunque per lo più in prossimità delle chiese. In breve tempo, però, le fiere, pur continuando a conservare anche il loro fondamentale carattere di momento di aggregazione sociale e di divertimento, sono diventate delle manifestazioni continuative dotate di un valore significativo all’interno dell’economia europea. Rivolte prevalentemente al commercio all’ingrosso di prodotti agricoli, consentivano a mercanti di zone anche assai distanti di commerciare tra loro. Soprattutto nella regione francese della Champagne e nelle Fiandre, le fiere hanno assunto, tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del secolo successivo, un ruolo fondamentale all’interno dei grandi flussi di scambio del commercio internazionale. Se dunque i mercati svolgevano essenzialmente una funzione utile agli abitanti delle città per il loro approvvigionamento di beni, le fiere rappresentavano il primario canale di collegamento tra i mercanti europei, tra la città e la campagna e tra le zone di produzione e quelle di commercializzazione e consumo. Con l’inizio del Trecento, il sistema fieristico europeo incentrato su Champagne e Fiandre è andato in crisi, per essere sostituito da un sistema basato su numerose fiere, che però, anche nei casi più importanti (Ginevra, Lione, Francoforte, Lipsia, ecc.), non sono riuscite che ad assumere una valenza regionale, o al massimo nazionale. Nel Settecento, con il crescente instaurarsi del sistema capitalistico di produzione dei beni, che ha incrementato il divario tra la città e la campagna, e soprattutto con un intenso sviluppo della distribuzione, che ha ampliato enormemente le possibilità di commerciare (estensione delle vie di comunicazione, eliminazione di molte barriere doganali e corporative, affermarsi di organismi commerciali più agili come le grandi Compagnie che operavano nelle Colonie ma anche in Europa, nascita e sviluppo delle borse, che hanno accresciuto l’importanza commerciale di città come Londra, Amsterdam, Amburgo, ecc.), anche questo secondo sistema fieristico è andato in crisi. Successivamente, e cioè a partire dai primi decenni dell’Ottocento, hanno cominciato a svilupparsi, dapprima in Germania e poi anche in altri nazioni, le moderne forme di fiera, come quella detta «campionaria» (dove avviene una contrattazione sulla base dei «campionari», cioè degli insiemi di campioni di merci) o quelle che si caratterizzano per un’elevata specializzazione merceologica.

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La rivoluzione commerciale del Quattrocento ha progressivamente determinato anche una differenziazione tra due tipi di commercio: uno diffuso e riservato al popolo e uno concentrato, perché rivolto a quell’élite sociale che era rappresentata dai gruppi egemoni. Sono nate infatti le botteghe specializzate nei beni di lusso, come le stoffe preziose e i gioielli, che si sono insediate pertanto in prossimità dei luoghi di residenza della Corte o dei grandi potentati nobiliari. In realtà, tali botteghe erano frequentate anche da cittadini benestanti e ricchi forestieri di passaggio, anche se è stato soprattutto con lo sviluppo di una fascia borghese altolocata che esse hanno visto il loro pubblico diventare sempre più numeroso ed esigente, spingendole a loro volta a moltiplicarsi e qualificarsi. Il crescente sviluppo demografico e commerciale delle città borghesi ha sostituito una clientela conosciuta e abituale con clienti anonimi e sempre più frettolosi che dovevano essere persuasi a entrare nelle botteghe. È stato pertanto necessario modificare il rapporto esistente da secoli tra la bottega e la strada. Il che è stato principalmente possibile grazie all’introduzione delle vetrine, che hanno consentito di esporre verso la strada le merci in vendita. Già nel Settecento si è cominciato infatti a chiudere con dei vetri le aperture della bottega verso la strada ed è nata così, probabilmente a Londra, la prima forma ancora primitiva di vetrina. La quale era generalmente costituita da lastre di piccole dimensioni unite tra loro, giacché non era ancora tecnicamente possibile realizzare vetri molto grandi. Ma, nonostante ciò, la vetrina, che fino a quel momento era stata poco più che una semplice finestra, si è trasformata in un palcoscenico sul quale disporre al meglio le merci. Pertanto, sono apparsi anche numerosi altri strumenti di abbellimento: vetrine di cristallo, specchiere, lanterne dorate, candelieri, colonne scolpite, ecc. È nato dunque in questo modo il negozio moderno, che ha perso progressivamente il laboratorio dove venivano realizzati i prodotti venduti, trasferito di solito fuori città, e ha puntato sulla sua capacità di attirare i clienti sul piano visivo. Inoltre, lo spazio interno del negozio è andato sempre più allentando il suo legame con lo spazio esterno, dove in precedenza si poteva anche svolgere un’attività relazionale e di contrattazione. La vendita si è trasferita infatti all’interno ed è cambiata la funzione delle merci, le quali non erano più

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nascoste alla vista e stipate alla rinfusa in retrobottega inaccessibili al pubblico o in cassetti profondi e armadi chiusi da cui il venditore le prelevava per magnificarle e l’acquirente pertanto non sapeva in precedenza che cosa avrebbe comperato, anche se era comunque consapevole che qualcosa avrebbe dovuto portare a casa in cambio dello sforzo compiuto dal venditore per convincerlo all’acquisto. Le merci, invece, erano ora esposte all’interno della bottega per cercare di “catturare” lo sguardo e il desiderio dei clienti. Ne consegue che ha cominciato a svilupparsi una nuova fase di evoluzione del commercio caratterizzata dal fatto che «I beni non traggono più la maggior parte del loro significato dal rapporto sociale diretto e personale all’interno del quale vengono venduti, ma sono “nudi” rispetto al cliente, ormai divenuto consumatore, e affidano a strutture esterne (le comunicazioni di massa e la pubblicità) il loro “appeal” nei suoi confronti. Il consumatore, dal canto suo, si “emancipa” dal rapporto individuale di affidamento e fiducia nel venditore, e sviluppa una autonoma competenza di acquisto. Lasciato solo di fronte al prodotto, costruisce una propria conoscenza che gli permette di selezionare i prodotti “migliori”» (Secondulfo, 1996, p. 70). Si è diffusa inoltre l’usanza, già operante in realtà dal Seicento, di esporre dei prodotti confezionati, anziché preparati su ordinazione. Non è un caso che nell’Ottocento anche nell’abbigliamento sia stato adottato questo comportamento. Il couturier Charles-Frédéric Worth ha abbandonato infatti per primo la tradizionale prassi dei sarti di eseguire su commissione gli abiti richiesti dalle donne aristocratiche, per proporre invece alle clienti degli abiti già confezionati e in grado di esprimere il suo personale stile (Codeluppi, 2007b). A partire all’incirca dal 1850, è stato possibile produrre delle lastre di vetro di grandi dimensioni e quindi vetrine in grado di occupare tutta la superficie esterna dei negozi. Le nuove vetrine hanno fatto diventare i colori delle merci decisamente più brillanti e l’impressione che si aveva delle merci era simile a quella prodotta dal vetro delle cornici sui dipinti. È stato inoltre estremamente importante il ruolo svolto dalla combinazione delle nuove lastre con l’illuminazione artificiale interna, la quale ha consentito di amplificare la trasparenza del vetro. A ciò va aggiunta anche la funzione di amplificazione della luce svolta da numerosi specchi presenti all’interno dei negozi e nelle vetrine.

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I negozianti hanno cominciato perciò a cercare di attirare l’attenzione dei passanti sulle proprie vetrine mediante spettacolari giochi di luce. Hanno tentato cioè di utilizzare le vetrine come se fossero il palcoscenico di un teatro sul quale rappresentare uno spettacolo, considerando dunque la strada come la platea e i passanti come il pubblico. Non è un caso pertanto che «In linea generale l’illuminazione delle vetrine ricalcò le orme dell’illuminazione teatrale. Sino a quando le fonti luminose furono troppo deboli per poter essere utilizzate indirettamente, vale a dire tramite riflettori, esse vennero poste sulla vetrina stessa, in mezzo alla merce. Quando con la luce a gas e con quella elettrica aumentò la portata del raggio luminoso, le fonti luminose scomparvero dal campo visivo [...] Con la luce elettrica, infine, che non dovette più essere installata all’esterno della vetrina per limitare il pericolo d’incendio, fu possibile riprodurre gli stessi effetti di luce che a teatro» (Schivelbusch, 1994, p. 152). Il risultato per i prodotti esposti in vetrina è stato di essere nobilitati, in quanto hanno assunto «un’aura luminosa che li trasfigura, li allontana mentre nello stesso tempo li offre illusoriamente: se la vetrina impedisce di prendere o di toccare, essa autorizza contemporaneamente un’orgia dello sguardo. Essa traccia i contorni di uno spazio magico – quello del lusso, magnificato dal prestigio dell’inaccessibilità» (Fauconnet, Fitoussi, Leopold, 1997, p. 44). Dunque, se la vetrina esercita una funzione di esclusione, allo stesso tempo ne svolge anche una di inclusione. È in grado infatti di fare sperimentare un particolare tipo di piacere visivo che il passante è spinto a cercare di prolungare entrando all’interno del negozio. Un piacere dunque che può essere considerato tipicamente «romantico» (Campbell, 1992; Brown, Doherty, Clarke, 1998), in quanto frutto di un sogno ad occhi aperti dove l’immaginazione individuale può svilupparsi liberamente. Dai passages ai grandi magazzini Con l’inizio dell’Ottocento, la produzione in grandi quantità delle merci, resa possibile dalla seconda rivoluzione industriale, e l’intensa fase di sviluppo attraversata dai processi di “metropolizzazione”

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del sociale hanno moltiplicato i consumi e i luoghi di acquisto. A Parigi, però, l’elevato numero di negozi aperti era comunque insufficiente rispetto ai progressi della produzione industriale e soprattutto rispetto all’enorme ingordigia di beni manifestata dalle nuove masse urbane. La struttura dell’ambiente urbano parigino era inoltre risalente all’epoca medievale, con vie strette e scomode, senza marciapiedi né fognature per convogliare l’acqua piovana, rumorose e anche pericolose, e i grandi marciapiedi dei boulevard voluti dal prefetto Haussmann e animati da negozi e caffè non erano ancora apparsi. La vendita al dettaglio ha cominciato perciò a spostarsi dal centro urbano verso i più spaziosi e confortevoli viali situati a Nord della città. È nata pertanto l’esigenza di creare nel centro della città degli spazi che gli architetti post-rivoluzionari dell’epoca concepivano come “democratici”, perché potenzialmente accessibili a tutti, sebbene lussuosi e confortevoli come gli spazi privati, e nei quali la funzione commerciale si poteva fondere con quelle ludiche, di relazione sociale e di affari. Nei quali cioè un gruppo di negozi particolari e raffinati veniva fatto convivere con caffè, sale da tè, sale per la lettura di giornali e libri, ritrovi e locali di spettacolo. Si trattava della nuova tipologia commerciale basata sulla galleria coperta denominata «passage». La prima galleria di questo tipo è stata probabilmente quella realizzata a partire dal 1786 su progetto dell’architetto Victor Louis all’interno del giardino del Palais Royal. Non si presentava in realtà come una vera galleria, ma come una progenitrice dei centri commerciali odierni, con cortili e lunghi porticati lastricati di vetrine di negozi, caffè e ristoranti. È stata fatta costruire dal Duca D’Orléans, con l’intenzione di effettuare una speculazione immobiliare che potesse consentirgli di raccogliere dei fondi per realizzare importanti opere pubbliche a Parigi. Contava ben 355 negozi e probabilmente all’epoca era il principale polo d’attrazione di tutta Parigi, il luogo da cui si irradiavano tutte le novità commerciali più importanti. Realizzata parzialmente in legno, dopo un incendio è stata dotata di una solida struttura in muratura. Nel 1829 è nata infatti la Grande Galérie d’Orléans au Palais-Royal, dotata di un’ampia tettoia di vetro che copriva quello che all’epoca era il più ampio passage di Parigi: 65 metri di lunghezza e 8,5 metri di larghezza. Non ha avuto però lo

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stesso successo della struttura che l’aveva preceduta. Per la quale «Il modello scelto per il progetto dal duca, anglofilo convinto, era rappresentato non tanto dai negozi londinesi, noti e invidiati in tutto il continente, quanto da Bath, la città dell’evasione e dello svago per eccellenza [...] l’esempio classico della città termale europea, la prima città creata esplicitamente per il divertimento ed il consumo e per offrire alla nobiltà – soprattutto di campagna – ed alla borghesia rampante uno spazio di evasione e di autorappresentazione» (Amendola, 1997, p. 126). Ma, sul piano architettonico, è significativa anche l’influenza esercitata sull’ideazione della galleria del Palais Royal dai modelli rappresentati dai chiostri monastici, dai precedenti edifici dei mercati coperti, dalle prime strade con portici e colonne (Rue des Colonnes del 1794 e Rue de Rivoli, la cui lunga costruzione è stata avviata nel 1802) e dal modello di accumulazione delle merci in uno spazio ridotto e illuminato da una luce diffusa e tenue perché filtrata da veli che è tipico del souk arabo, modello che è stato scoperto in Europa grazie a delle incisioni riprodotte nei libri dell’epoca. I primi veri e propri passages sono stati realizzati a Parigi alla fine del Settecento, ma i periodi di massimo sviluppo di tali luoghi commerciali si sono presentati tra il 1823 e il 1828 e tra il 1839 e il 1847, grazie alla fase di notevole prosperità economica creata dalla fine delle guerre napoleoniche, alla grande voglia di investimenti dei primi capitalisti e uomini d’affari e all’elevata disponibilità di terreni e immobili prodotta dalla rivoluzione francese. Pertanto, nel 1828 se ne potevano contare già ben 280 (di cui oggi ne sono rimasti circa una ventina). Tra i più significativi, possiamo citare il primo che è stato realizzato: il Passage Feydeau, aperto nel 1791. Poi, nel 1799, sono nati il Passage du Caire e il Passage des Panoramas, collegato a una famosa attrazione spettacolare che utilizzava dei panorami dipinti e che è stata inaugurata da James Thayer nel 1779. Sono poi arrivati il Passage Delorme, costruito nel 1808 con una copertura interamente di vetro e ferro che è stata ripresa da tutte le gallerie successive, la Galérie Vivienne del 1823, il Passage du Grand Cerf del 1825, la Galérie Colbert, diventata famosa per la sua grande cupola rotonda di 17 metri di diametro, e la Galérie Véro-Dodat, entrambe del 1826,

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il Passage Jouffroy (il primo a essere dotato di un sistema di riscaldamento), del 1845 come la sua continuazione: il Passage Verdeau. L’ultimo passage a essere costruito a Parigi nell’Ottocento è stato il Passage des Princes, inaugurato nel 1860. Questa geniale invenzione francese si è diffusa rapidamente anche in altre nazioni, perché le principali città del mondo hanno compreso che per incrementare il loro fascino dovevano cercare di disporre di gallerie più belle di quelle delle città concorrenti. Si è avviata così un’intensa competizione internazionale, anche se raramente è stato raggiunto il livello di ricchezza e opulenza delle più belle gallerie parigine. Delle gallerie particolarmente significative sono state costruite anche a Londra, come ad esempio la Piccadilly Arcade nel 1810, la Royal Opera Arcade nel 1818, la Burlington Arcade (concepita nel 1819 come un tentativo di replicare il parigino Passage des Panoramas) e la Lowther Arcade nel 1831. I passages parigini sono stati realizzati con un abbondante impiego di ferro e vetro, per cercare di ottenere una buona illuminazione naturale durante il giorno, ma anche di attribuire a tali costruzioni un’immagine di grande modernità, dato che l’accoppiata ferro-vetro rappresentava all’epoca la tecnologia più avanzata e una delle massime forme di espressione della seconda rivoluzione industriale. Tale tecnologia ha consentito di coprire i cortili interni ai palazzi con lucernari vetrati, trasformandoli così in saloni illuminati per banche, alberghi, ristoranti o negozi e ampliando enormemente lo spazio commerciale al di là dei soli fronti stradali. La luce risultante, proveniente dall’alto, era particolarmente bianca e fredda e questa è diventata un’importante caratteristica dei passages. Non è un caso, pertanto, se i negozi dei passages sono stati i primi in assoluto a importare per le loro vetrine le grandi lastre di vetro prodotte in Inghilterra. Ma ciò che nei passages soprattutto affascinava era il particolare intreccio che si veniva a creare tra lo splendore delle luci e lo sfavillio delle merci. L’epoca d’oro dello sviluppo dei passages è stata infatti all’incirca il periodo in cui a Parigi ha cominciato a diffondersi nelle strade, al posto dell’illuminazione a olio, l’impiego della decisamente più potente illuminazione a gas. Ne hanno beneficiato soprattutto la vita notturna e quei negozi prestigiosi con i quali tale

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città si è candidata a essere la capitale mondiale del lusso e della moda. Ma il nuovo tipo di illuminazione è stato fondamentale anche per il successo dei passages, perché nei negozi lussuosi di questi ultimi la luce era forte e splendente, mentre nelle strade e nei negozi tradizionali era ancora piuttosto debole. Non è un caso dunque che a funzionare come la prima via pubblica completamente illuminata a gas sia stato nel 1818 proprio uno di questi luoghi: il Passage des Panoramas. La particolare natura posseduta dalla luce a gas è stata estremamente importante per il successo di questo tipo di illuminazione, ma anche per quello dei passages. Infatti, «Per quanto apparisse realistica, neutrale, razionale, a confronto dei vecchi mezzi luminosi, essa possedeva ancora la vivace, magica qualità che deriva dalla fiamma aperta. Era al tempo stesso moderna luce espansiva, capace di illuminare ambienti incomparabilmente più grandi di qualsiasi tecnica di illuminazione precedente, e luce “vecchia”, legata alla fiamma. Da tale doppia natura nasceva il suo fascino» (Schivelbusch, 1994, p. 155). Grazie ai passages, l’atto d’acquisto, per una parte della popolazione, ha cominciato a mutare il suo significato, in quanto si è trasformato sempre più in un’occasione per vestirsi elegantemente. Fare acquisti all’interno di questi spazi protetti dalle intemperie, nonché dal caos e dalla sporcizia delle strade della città, dava la sensazione di appartenere a una ristretta élite, di essere pienamente parte del nuovo mondo borghese che si stava imponendo nella società. Si poteva allo stesso tempo vedere ed essere visti e ciò consentiva ai ricchi commercianti borghesi di differenziarsi socialmente e di ostentare il nuovo status sociale acquisito. Costoro infatti «amavano soprattutto godere del loro proprio spettacolo. Ci si accalcava all’uscita delle rappresentazioni teatrali – molti dei passages coperti sono gemellati con dei teatri – per essere visti» (Delorme, Dubois, 1996, pp. 19-20). Per questo motivo, le fasce più benestanti della popolazione hanno adottato subito i passages come luoghi d’elezione, ma anche i ceti meno abbienti erano comunque attirati da essi e amavano perciò passeggiarvi. I passages erano considerati una specie di “salotto dell’industrializzazione”, perché rappresentavano una delle massime espressioni

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della seconda rivoluzione industriale e della borghesia. Erano però anche un segno di arretratezza della cultura borghese dell’epoca, in quanto si presentavano come luoghi in cui coltivare l’intimità e dunque ben diversi dalle successive e fastose gallerie commerciali del Secondo Impero. Hanno potuto dunque diventare anche i salotti del flâneur, figura descritta da Charles Baudelaire e Walter Benjamin (1986) come un modello di comportamento individuale sostanzialmente “antimoderno” e che nei passages si sentiva isolato e protetto dalle intemperie, ma anche dalla moltitudine anonima e poteva tentare in tal modo di difendersi da quella che percepiva come una vera e propria aggressione proveniente dalla folla e dalla nascente società di massa (Nuvolati, 2006). Il flâneur, inoltre, era solitamente di sesso maschile, perché amava vagare senza meta, oltre che nei passages, negli altri spazi pubblici della città, un comportamento che alle donne non era ancora consentito dalla rigida morale dell’epoca, la quale imponeva loro di vivere prevalentemente al chiuso. I passages erano un luogo ambiguo, perché in essi lo spazio esterno praticamente si fondeva con quello interno. Erano in continuità architettonica con le strade e le piazze, ma, nello stesso tempo, anche uno spazio chiuso. Si trovavano dentro i palazzi, ma la strada era comunque vicina e raggiungibile. Ed erano anche un luogo dove negozi e abitazioni si intrecciavano inestricabilmente. Pertanto, consentivano di attraversare lo spessore dell’isolato: «il pedone può passare dall’esterno all’interno della città. Questo gioco di altalena tra fuori e dentro è uno dei motivi del fascino dei passages, perché esprime tutta l’opacità e la profondità della città, mentre, al contrario, la città del XX secolo si sogna trasparente e immateriale. I passages giocano sul mistero, sul gioco del mostrato e del nascosto, del chiaro e dello scuro» (Delorme, Dubois, 1996, p. 29). Nei passages, i vetri sovrastanti filtravano la luce, producendo una illuminazione quasi “acquatica” in grado di creare una sorta di “effetto sogno”, per dare vita a un luogo a metà strada tra quelli reali e quelli della fantasia. Norbert Fischer ha addirittura sostenuto che «quei vetri non servono né a dare luce né ad alleggerire il corpo esterno della costruzione: sono inutili; ma sono l’emblematico riflesso di un sogno, con i suoi segreti, in quel collegare casa a casa,

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l’essere e non essere strada: l’orientamento si confonde e lo spazio si espande come nelle favole» (Lauter, 1989, p. 28). Il passage poteva dunque assumere il ruolo di tipico luogo del consumo: fuori dal tempo e privo di una collocazione precisa. Poteva realmente essere, pertanto, anche per l’effetto straniante prodotto da tanti negozi diversi ma presentati uno di seguito all’altro, un passage in senso proprio, cioè un luogo dove è possibile passare dal mondo reale a quello magico e surreale. Con il procedere dei processi d’industrializzazione e massificazione della società, i luoghi del consumo hanno dovuto però modificare la loro natura. Le fabbriche ottocentesche, infatti, immettevano con grande rapidità sul mercato beni sempre più numerosi e che necessitavano di luoghi d’acquisto adeguati. Luoghi di grandi dimensioni, spesso articolati su più piani per sfruttare razionalmente lo spazio di vendita a causa della crescita del costo degli affitti, che comunicavano immediatamente ai clienti che vi potevano trovare qualunque cosa desiderassero e che potevano essere facilmente raggiunti grazie allo sviluppo dei collegamenti ferroviari e delle reti del trasporto pubblico urbano (tram, metropolitana, ecc.). Sono nati così nuovi luoghi di vendita specificamente dedicati alle nuove masse urbane, dove il flâneur non poteva più trovare un sicuro rifugio per isolarsi dal mondo e dove comunque veniva sempre più affiancato dalla flâneuse (Friedberg, 1993), cioè dalla donna borghese alla quale era per la prima volta concessa la possibilità di fare shopping da sola. Aveva infatti finalmente a disposizione degli spazi pubblici protetti e differenti da quelli riservati agli uomini, come i club e i caffè, ma anche differenti dalle strade, lo spazio pubblico per eccellenza, che era ancora considerato un luogo adatto solo agli uomini. A Parigi, a partire dalla metà dell’Ottocento, hanno ottenuto un notevole successo i grandi magazzini, preceduti dai caotici «bazar», che si sono sviluppati dagli anni trenta sui grandi boulevards, e ancora prima dai «magazzini di novità» (che nel 1850 erano circa 400, ma i cui primi esemplari risalgono alla fine del Settecento), dove le merci vendute erano essenzialmente costituite da capi d’abbigliamento femminile. Il termine «novità», infatti, all’epoca indicava degli oggetti rari o curiosi in generale, ma soprattutto gli articoli o gli

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accessori della moda femminile (stoffe, biancheria intima, gioielli), che dovevano essere frequentemente rinnovati. Ciò è stato possibile anche perché, in conseguenza dell’editto del 1776, che «distingue i mercanti della moda dai merciai, ufficializzando l’esistenza di un commercio del frivolo e dell’effimero, a fianco del commercio tradizionale, i cui valori sono l’esatto opposto: l’utile, il funzionale, il solido, il durevole» (Fauconnet, Fitoussi, Leopold, 1997, p. 44), hanno cominciato di fatto a svilupparsi i fenomeni legati alla moda intesa nel senso contemporaneo del termine. Tra i magazzini di novità più importanti, vanno ricordati Le Tapis Rouge del 1784, Le Petit Matelot, del 1790, À la Belle Jardinière, del 1824, e Aux Trois Quartiers, del 1829, mentre i grandi magazzini parigini più significativi dell’Ottocento sono stati il Bon Marché, del 1852, Les grands magasins du Louvre, del 1855, Printemps, del 1865, Samaritaine, del 1869 e le Galeries Lafayette, del 1895. Il modello dei grandi magazzini si è diffuso rapidamente nelle principali città mondiali. A Londra, ad esempio, sono nati nel 1849 Harrods e nel 1875 i grandi magazzini Liberty, nei quali Sir Arthur Lasenby Liberty proponeva i tessuti e le sofisticate merci che importava dall’estremo Oriente, mentre nel 1893 sono stati inaugurati a Mosca i grandi magazzini Gum. In Italia, invece, i fratelli Luigi e Ferdinando Bocconi hanno aperto nel 1877 a Milano Aux villes d’Italie, un grande magazzino specializzato in abiti confezionati, che è stato ricostruito dopo un incendio e inaugurato nel 1921 come La Rinascente. A esso i Bocconi hanno affiancato anche alcune filiali nelle principali città italiane, caratterizzate da un’offerta di prodotti di discreta qualità e con prezzi contenuti. Negli Stati Uniti, tra il 1860 e il 1880, ha avuto un intenso sviluppo nelle principali città il similare modello dei department stores o empori commerciali, che si è diffuso progressivamente su tutto il territorio (Schudson, 1986; Lancaster, 1995). Tra questi vanno ricordati Macy’s, aperto a New York nel 1857, e Woolworth, aperto nel 1879, sempre a New York, e primo al mondo a praticare una politica di prezzi estremamente bassi, in quanto tutto vi costava solo 5 cents. Ma è soprattutto importante rilevare che anche per i consumatori statunitensi si è presentata la possibilità di fare con i beni di consu-

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mo un’esperienza simile a quella sperimentata dai frequentatori dei grandi magazzini delle principali città europee. Il pubblico a cui i grandi magazzini si rivolgevano era costituito dalla nuova classe borghese, in ascesa sul piano sociale e in forte crescita dal punto di vista quantitativo, non ancora in grado di permettersi di usufruire dei negozi di lusso, ma non più disposta a frequentare le vecchie botteghe e i mercati popolari, perché il suo obiettivo era di cercare di esprimere la conquista di una posizione più elevata nella società attraverso il possesso dei nuovi beni. I grandi magazzini, perciò, offrivano loro la possibilità di acquistare beni per la prima volta prodotti industrialmente su larga scala, di basso prezzo e dunque accessibili, ma, di conseguenza, anche abbastanza scadenti e dunque necessitanti di un’atmosfera lussuosa in grado di conferire prestigio come quella presente in tali luoghi. Non è un caso, pertanto, se «nei primi grandi magazzini l’abbondanza di servizi forniti gratuitamente agli acquirenti e il trattamento di cortesia che veniva loro riservato contribuivano a ricreare un ambiente quasi aristocratico: la cliente doveva sentirsi come una regina, o almeno come una nobildonna, quando andava a fare acquisti dato che si trovava in un ambiente in cui aleggiava l’atmosfera di un palazzo e che era completamente pervaso dal lusso» (Laermans, 1993, p. 93). Perciò, i grandi magazzini hanno fatto massicciamente ricorso anche a messaggi pubblicitari su giornali, manifesti, volantini e cartoline. Ma si trattava di messaggi diversi da quelli impiegati in precedenza, che erano prevalentemente costituiti da semplici spiegazioni razionali di ciò che veniva offerto al consumatore, in quanto le merci ora venivano promosse tramite l’impiego di frasi accattivanti e slogan. Diventavano cioè dei seducenti oggetti di desiderio che sembravano aver accantonato il loro valore d’uso e che erano in grado di esprimere il valore di status richiesto dalle persone. Erano in grado, inoltre, di consentire agli appartenenti alla nuova classe media d’indicare il proprio stato sociale alle numerose persone che non conoscevano nel nuovo ambiente urbano. Non è un caso, pertanto, che tale nuova classe media fosse «particolarmente sensibile all’aspetto esteriore considerandolo uno strumento per indicare l’appartenenza di classe» (Corrigan, 1999, p. 107).

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Comunque, sia i magazzini di novità che i grandi magazzini erano caratterizzati dalla ricerca dei maggiori volumi di vendita possibili, dall’offerta di prodotti a prezzi nettamente più bassi della concorrenza, dalla possibilità per il cliente di girare liberamente nello spazio di vendita senza sentirsi obbligato all’acquisto, da un’offerta di prodotti molto ampia e sempre più diversificata, dalla promessa di cambiare o ritirare la merce che non soddisfaceva il cliente e, soprattutto, dall’innovativo principio del prezzo fisso e applicato direttamente sui prodotti. In realtà, alcuni negozi di lusso avevano già cominciato a introdurre tale principio, che però soltanto quando è stato adottato dai grandi magazzini ha potuto rappresentare una rottura di grande portata in un contesto commerciale quale quello dell’epoca, nel quale la trattativa era la prassi abituale, e ha permesso di ridimensionare in maniera sostanziale quel ruolo di promozione dei prodotti che precedentemente veniva svolto dal venditore, il quale è diventato così un semplice consigliere. Le merci dunque hanno cominciato a esercitare un’opera di seduzione e convincimento sui consumatori, grazie anche alla capacità dei grandi magazzini di metterle in scena. Se infatti, come abbiamo visto, il passage aveva spesso un rapporto di tipo parassitario con il modello del teatro, il grande magazzino si è fatto esso stesso teatro, perché l’esposizione delle merci era trasformata in specie di show teatrale, dove anche l’oggetto più banale diventava desiderabile. Per attirare e sorprendere i consumatori, i grandi magazzini hanno infatti spesso cercato «di conferire agli oggetti un significato eccitante immergendoli in un’atmosfera esotica e questo lo si faceva inserendoli in uno sfondo che rappresentava, ad esempio, l’Oriente – l’intero magazzino poteva essere trasformato in un tempio egiziano o in un giardino giapponese. Negli Stati Uniti, ovviamente, l’esotico poteva essere rappresentato dall’Europa e quindi alcuni negozi venivano addobbati in modo da apparire come strade o appartamenti di Parigi» (ivi, p. 104). A Philadelphia, ad esempio, John Wanamaker ha costruito nel 1896 all’interno del suo grande magazzino una replica a grandezza naturale della parigina Rue de la Paix dove era possibile acquistare beni di lusso senza dover attraversare l’Oceano. I grandi magazzini, insomma, hanno tentato di spingere i consumatori, grazie ai loro ampi spazi, ad abbandonare un atteggiamento

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ancora orientato verso la contrattazione con il venditore e ad adottare un atteggiamento più “passivo”, che implicava i comportamenti di guardare, toccare, provare e acquistare i prodotti esposti, ma in una situazione di isolamento all’interno della folla dei visitatori. Per ottenere questo risultato, i grandi magazzini si sono dotati di edifici dalle facciate monumentali e hanno cercato di «attirare gente con una adeguata disposizione delle merci di modo che nessun angolo rimanga deserto, ma dappertutto ci siano clienti e confusione, e soprattutto sia affollato l’ingresso, motivo certo di curiosità per i passanti. All’interno l’ambiente è confortevole con più di un tocco esotico. L’accostamento delle merci è tale da colpire l’occhio con la contiguità dei colori più accesi, mentre sui banchi stoffe e tessuti sono posti in modo apparentemente disordinato. Le sezioni sono collocate in modo tale che il cliente si muova il più possibile e venga stimolato ad acquisti cui non aveva pensato entrando» (Ravazzoni, Zamagni, 1991, p. 72). Va considerato inoltre che le enormi gallerie e le imponenti scalinate cercavano di attribuire all’edificio un aspetto maestoso, mentre le balconate permettevano di guardare in basso verso la folla in costante movimento e di riceverne una frastornante sensazione di vitalità. Lo scrittore Émile Zola, nel suo romanzo Il paradiso delle signore, per rendere con efficacia la realtà del grande magazzino ottocentesco ha impiegato la metafora dell’officina animata da potenti macchine in azione: «C’era il rombo continuo della macchina in moto, che portava dentro i clienti, li ammassava nei vari reparti, li stordiva con mille mercanzie, per poi gettarli alle casse. Tutto questo, regolato, organizzato con la precisione di un meccanismo: una folla di donne spinta dalla forza e dalla logica di un ingranaggio» (1986, p. 10). Con il grande magazzino è nata infatti l’esigenza di fare circolare il più rapidamente possibile grandi quantità di merci, per mantenere bassi i prezzi, ma anche di spostare fisicamente le grandi folle che dovevano acquistarle, spingendole a salire ai piani superiori. Ecco dunque comparire strumenti meccanici di trasporto come gli ascensori e le scale mobili. Il grande magazzino più innovativo è stato senz’altro il Bon Marché (Miller, 1981). Non è un caso dunque che sia stato utilizzato da Zola come principale fonte d’ispirazione per scrivere Il pa-

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radiso delle signore. I suoi fondatori, Aristide e Marguerite Boucicaut, hanno acquistato nel 1852 un ben avviato negozio di tessuti e abbigliamento e hanno esteso progressivamente la loro attività commerciale ad abiti pronti per signora, biancheria, cappelli, calzature, ecc. Nel 1869 hanno dato inizio alla costruzione del primo edificio appositamente realizzato per ospitare un grande magazzino, progettato da Boileau e Eiffel, il creatore della celebre torre. L’edificio è stato inaugurato nel 1887, ma già alla morte di Aristide Boucicaut, nel 1877, il Bon Marché era probabilmente diventato la più grande società di vendita al dettaglio al mondo. Ciò è potuto accadere grazie alle innovative strategie di vendita adottate. Boucicaut, ad esempio, allo scopo di tranquillizzare i clienti increduli e sospettosi di fronte ai prezzi estremamente contenuti proposti, ha fatto mettere dei piccoli difetti di fabbricazione nei prodotti. Una trovata degna del marketing contemporaneo. Ma, soprattutto, la genialità dei Boucicaut è stata di «aver fatto del magazzino stesso un grande spettacolo. La vista di tutta quella merce in esposizione è qualcosa di strabiliante. Ci sono sale per riposarsi, fornite di giornali e di rinfreschi gratuiti, per far sì che i clienti prolunghino il tempo di permanenza dedicandosi agli acquisti senza stancarsi troppo. Promozioni spettacolari attirano la gente in massa, fino a 70.000 persone al giorno! Ai bambini vengono regalati palloncini che poi portano in giro per la città il nome di Bon Marché» (Stoquart, 1992, p. 28). Dopo la chiusura, venivano organizzati dei corsi di lingua e musica per i dipendenti, così come ricevimenti, feste e mostre di pittura. In realtà, anche tutti gli altri grandi magazzini hanno stimolato il rinnovamento delle arti decorative aprendo degli atelier per gli artisti e commissionando lavori a questi ultimi. Ma, soprattutto, hanno fatto a gara a chi era in grado di offrire lo spettacolo più sorprendente. La novità rappresentata dall’ascensore idraulico è stata utilizzata anche per attirare l’attenzione dei consumatori. E sono state impiegate allo stesso modo anche l’introduzione del riscaldamento e dell’illuminazione elettrica. Quest’ultima, in particolare, ha consentito ai grandi magazzini, come già era successo con la luce a gas per i passages, di distinguersi rispetto agli altri negozi grazie all’utilizzo del più potente sistema d’illuminazione disponibile.

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L’epoca d’oro della luce a gas si è presentata infatti nelle principali metropoli europee nel periodo compreso tra il 1850 e il 1870, dopodiché tale illuminazione ha cominciato a essere progressivamente sostituita da quella elettrica, con le lampade a carbone e ad arco di Volta. Ma si è perso in tal modo quel chiarore soffuso e quella luce dolce, mutevole e quasi “magica” che veniva emessa dalle lampade a gas, perché l’illuminazione elettrica dell’epoca era decisamente più fredda. Occorrerà dunque aspettare il 1890 perché, con la crescente diffusione delle lampade a incandescenza di Edison, la luce elettrica si imponga grazie ai bassi costi degli impianti, alla facilità di gestione e alla qualità della luce emessa. Dunque, «Se la galleria era il mezzo di espressione della borghesia la cui l’emancipazione era stata avviata dalla rivoluzione francese, il grande magazzino è l’espressione dell’industrializzazione, della produzione e del consumo di massa» (Lauter, 1989, p. 138). L’ingresso della cultura del consumo nella sua nuova fase di massa ha provocato però l’inizio di una crisi dei piccoli passages. L’apertura a Parigi di nuove stazioni ferroviarie (Gare du Nord nel 1845, Gare de l’Est nel 1849) e la nuova concezione haussmanniana dello spazio urbano, basata su grandi viali alberati (che consentono anche l’apparizione sfolgorante di grandi manifesti pubblicitari), sulla rigida separazione tra la funzione commerciale e quella abitativa (la prima all’esterno, sulla strada, e la seconda all’interno) e sul gigantismo delle costruzioni, hanno fatto apparire anacronistiche le modeste dimensioni dei passages e la natura a un tempo commerciale e abitativa di questi luoghi. Dopo il 1860, pertanto, le nuove gallerie che sono state costruite non potevano più essere come quelle che le avevano precedute e sono dovute passare alla fase della monumentalità, una fase che le ha allontanate notevolmente dalle piccole dimensioni e da quello spirito intimo che erano propri del modello dei passages parigini. La prima di queste nuove gallerie monumentali è stata la Sillem’s Bazar di Amburgo del 1845, seguita dalle Galeries Royales St.-Hubert, realizzate a Bruxelles nel 1847. Altre sono state approntate in Inghilterra e Germania e anche in Italia, dopo le prime gallerie di ridotte dimensioni, si è arrivati alla realizzazione di grandi gallerie urbane: la Mazzini a Genova, terminata nel 1875, la Vittorio

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Emanuele II a Milano, ultimata nel 1878, la Principe di Napoli e l’Umberto I a Napoli, rispettivamente inaugurate nel 1878 e nel 1891. La galleria Vittorio Emanuele II di Milano, probabilmente la più grande del mondo, si è presentata con una cupola centrale grande come quella della chiesa di San Pietro in Roma (36,6 metri di diametro e 47 metri di altezza) e offrendo anche lo spettacolo supplementare di una piccola locomotiva a vapore che correva lungo la balconata superiore. Ma, mentre i passages parigini erano stati sostanzialmente il frutto della libera iniziativa di alcuni privati, le nuove gallerie monumentali italiane hanno costituito lo strumento delle principali città per l’affermazione di una volontà politica e per acquistare prestigio nella corsa per diventare la capitale dello Stato appena formatosi. Nel Novecento, le gallerie sono entrate definitivamente in crisi, perché non erano più in grado di reggere la forte concorrenza esercitata dai grandi magazzini e dalle principali strade commerciali delle maggiori città europee. Sebbene Le Corbusier e altri architetti modernisti considerassero il modello che esse incarnavano adeguato a rappresentare il loro ideale di costruzione urbana, molte sono state demolite. Poche sono le eccezioni a questo quadro, come le gallerie nate negli anni venti a Parigi sugli Champs Elysées, divenuta la nuova arteria alla moda, tra le quali va senz’altro ricordata Les Arcades du Lido. Le esposizioni universali Come abbiamo visto, durante l’Ottocento, tutti i nuovi spazi di vendita sono diventati degli strumenti estremamente efficaci per permettere ai prodotti di sperimentare una strategia di promozione diretta di se stessi. Tale strategia ha potuto svilupparsi però anche grazie all’azione della comunicazione pubblicitaria e si è ulteriormente intensificata con l’arrivo delle grandi esposizioni universali. Dal punto di vista dell’evoluzione dei luoghi del consumo, la lunga serie di esposizioni succedutesi nelle maggiori città mondiali nel corso della seconda metà dell’Ottocento ha assunto, infatti, un ruolo estremamente importante.

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La cultura dell’epoca era dominata sia da una cieca fiducia nelle possibilità di sviluppo della scienza, della tecnica e dell’industria, sia dall’ideologia del progresso, concepita come uno strumento per diffondere il modello dell’industria e del commercio all’intero pianeta. Per questo motivo, i luoghi stabili del commercio collocati nelle città (anche quelli di maggiori dimensioni come le gallerie e i grandi magazzini) apparivano insufficienti a esporre tutti i prodotti e a fornire informazioni su di loro. Ciò che si voleva, infatti, era offrire all’ammirazione generale i frutti migliori prodotti dallo sviluppo della civiltà occidentale. Il primo tentativo di mostrare attraverso un’esposizione temporanea i prodotti creati dalle industrie dei vari Paesi è stato effettuato a Londra nel 1756. È stato seguito dall’Esposizione Nazionale dell’Industria francese che si è tenuta al Campo di Marte di Parigi nel 1798, ma anche da diversi altri tentativi simili. Occorrerà però aspettare il primo maggio del 1851 per vedere la realizzazione della prima vera esposizione di respiro universale, tenutasi a Londra in un palazzo di ferro e cristallo appositamente costruito: il Palazzo di Cristallo (Crystal Palace) progettato da Joseph Paxton (Hetherington, 2008). Mirabile sintesi di tradizione (per la forma) e di innovazione (per i materiali impiegati), si è trattato di un palazzo che permetteva alle merci di risplendere grazie alla sua trasparenza e alla sua notevole luminosità. In quel luogo, raggiunto in poche settimane da oltre sei milioni di visitatori, sono stati mostrati gli oggetti più disparati: «le moderne macchine per la lavorazione del cotone [...] palme e sculture di tigri e di amazzoni, telescopi e ambienti che riproducono una corte medievale. In scala ridotta o, in qualche caso, in grandezza naturale, sono ricapitolati luoghi o capitoli della storia: dal frontale del tempio greco, alla casa romana al palazzo rinascimentale. È un Grand Tour per le masse. Per queste c’è anche – straordinaria anticipazione del kitsch del secolo successivo – una Venere di Milo scolpita nel burro» (Amendola, 1997, pp. 136-137). Ha avuto così il via un periodo di accesa competizione tra tutte le principali città dell’Occidente per assicurarsi il primato nell’ambito dell’esposizione delle meraviglie dell’industria e della tecnologia mondiale, che è durato sino alla grande esposizione tenutasi a Parigi

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nel 1900. Per circa cinquant’anni, infatti, sono state organizzate nel mondo (prevalentemente in Europa, tranne ventisei nelle Americhe, due in Asia, una in Africa e una in Australia) oltre 250 grandi manifestazioni espositive in grado di attirare vaste masse di persone. Tali esposizioni, rapidamente abbandonato l’obiettivo iniziale di tipo pedagogico orientato a informare ed educare le nuove masse urbane, si sono sempre più trasformate in enormi contenitori di merci e hanno sviluppato una crescente concorrenza sul piano delle dimensioni. Sono cioè diventate dei potenti strumenti per sorprendere l’opinione pubblica e per creare un evento unico e irripetibile (anche per distinguersi dalle esposizioni nazionali e locali che avevano solitamente una periodicità fissa). Pertanto, venivano rapidamente create delle città effimere che erano poi altrettanto velocemente demolite, perché dovevano avere quella vita intensa e a termine che caratterizza di solito le moderne forme di comunicazione. Nell’esposizione parigina del 1867, l’attenzione dello spettatore era colpita soprattutto «dalla galleria delle macchine, che si distingueva dalle altre per le sue dimensioni di 35 metri di larghezza per 25 di altezza: al centro una piattaforma di 3 metri per 1200 di lunghezza a 5 metri dal suolo consentiva al pubblico di percorrere l’intero padiglione guardando dall’alto le macchine in movimento» (Ravazzoni, Zamagni, 1991, p. 63). Ma le nuove meraviglie della tecnica potevano essere osservate anche dall’altezza di 25 metri per mezzo dell’ascensore idraulico realizzato da Léon Edoux, un’altra delle principali attrazioni dell’esposizione. L’esposizione di Parigi del 1867 è però soprattutto importante perché in essa è stato superato per la prima volta il modello dell’edificio di esposizione unico, in favore di un’articolata struttura a padiglioni collocata in un luogo specificamente dedicato e in grado di configurare una vera e propria proposta di “città nella città”. L’esposizione universale ha mostrato cioè in tal modo la volontà della borghesia di imporre un proprio modello urbanistico orientato a ridefinire lo spazio cittadino e della vita sociale. A ciò si lega anche il fatto che gli edifici delle esposizioni non potevano limitarsi a essere dei meri contenitori di merci, ma, come il Crystal Palace, dovevano proporsi essi stessi con modalità spettacolari, attraverso architetture estremamente innovative e in sintonia

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dunque con quella selezione delle creazioni più avanzate della società industriale che proponevano. Così, per l’esposizione di Parigi del 1889, nel centenario della rivoluzione francese, è stata costruita, allo scopo di celebrare l’epoca delle costruzioni in acciaio, la Torre Eiffel, che è diventata poi il simbolo di Parigi in tutto il mondo e ha costituito uno dei principali motivi di attrazione di un’esposizione in grado di richiamare ben 32 milioni di visitatori. Inoltre, in tale esposizione si è sviluppato ulteriormente quel processo di ricostruzione di ambienti relativi a particolari periodi storici o a luoghi esotici affascinanti (dai totem indiani ai villaggi congolesi) che aveva preso il via a Londra nel 1851. Ma è stata probabilmente la luce elettrica la grande protagonista delle esposizioni universali, con la sua natura spettacolare e la sua capacità di incarnare la fiducia ottocentesca nell’industria, nel progresso tecnologico e nelle possibilità dell’energia sapientemente sfruttata dagli esseri umani. A Parigi nel 1889, a Chicago nel 1893 e soprattutto a Parigi nel 1900, la luce elettrica ha fatto vivere le esposizioni di giorno ma soprattutto di notte. Così, con l’Esposizione Universale del 1900, Parigi ha potuto realmente presentarsi come quella Ville Lumière che aveva già cominciato a essere grazie all’illuminazione a gas, ad esempio mediante il Palais de l’Electricité, un grande spettacolo di luce con una fontana a giochi d’acqua luminosi e colorati. All’importante ruolo rivestito dalla luce elettrica si è affiancato anche quello ricoperto dai viaggi e dai nuovi mezzi di trasporto che li rendevano concretamente possibili. Infatti, praticamente tutte le forme di viaggio e tutti i mezzi di trasporto sono stati messi in scena all’interno delle esposizioni. E non mancavano i padiglioni dei principali grandi magazzini di Parigi, a conferma dello stretto legame esistente tra tali luoghi e le esposizioni universali. Infine, come ha messo in evidenza Alberto Abruzzese, «L’Esposizione del 1900, con la sua collocazione simbolica di fine e inizio secolo, può essere l’esplicitazione ultima e insieme l’enfatizzazione di un dispositivo che sfrutta sino in fondo le sue possibilità spettacolari esplodendo su altri media. È il cinema, che appunto, come linguaggio dell’immaginario collettivo e non semplice mezzo tecnico, si sviluppa dalle e nelle sperimentazioni di massa delle esposizioni,

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perché in esse trova forme e modelli di rappresentazione, generi e figure, modalità di consumo già preesistenti nelle simulazioni del paesaggio, dei viaggi in treno, delle varie macchinerie in cui si erano andati sviluppando i “quadri viventi”, le “lanterne magiche”, il “teatro dei trucchi e delle attrazioni”, la fotografia, le cartoline illustrate, i giochi meccanici» (Abruzzese, Colombo, 1994, pp. 176-178). Però, con quest’ultima grande manifestazione parigina (che è riuscita ad avere 50 milioni di visitatori, una cifra enorme considerate le difficoltà di movimento dell’epoca) la stagione delle grandi esposizioni universali si è praticamente conclusa. L’Italia in questa competizione tra le principali nazioni del mondo ha accumulato un notevole ritardo, in quanto, nonostante l’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino fosse riuscita ad essere nel 1902 un evento innovativo e in grado di raggiungere un prestigio di livello internazionale (Morozzi, 2002), non ha potuto mettere in piedi un’esposizione di livello mondiale prima di quella del 1906 a Milano e, soprattutto, prima di quella del 1911, che è stata distribuita tra tre città: Torino, Firenze e Roma. In generale, dunque, l’Italia ha dovuto accontentarsi di esposizioni di modesto livello e di interesse regionale o, al massimo, nazionale. Le grandi esposizioni hanno esercitato una profonda influenza non soltanto sulla produzione intellettuale dell’epoca, influenza testimoniata ad esempio dalla nascita contemporanea della teoria marxiana sul carattere feticistico della merce (Marx, 1974; Agamben, 1977), ma soprattutto sulla cultura dell’epoca. E ciò perché alle esposizioni mondiali dell’Ottocento le merci sono state per la prima volta “spettacolarizzate”, allo scopo di farle vedere ed ammirare da parte di un grande numero di persone. Come ha scritto Walter Benjamin, ciò significa che «Le esposizioni mondiali trasfigurano il valore di scambio delle merci; creano un ambito in cui il loro valore d’uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre» (1962, p. 151). E per poterlo fare riprendevano la caotica atmosfera delle fiere del passato: un ambiente totalmente invaso di immagini, suoni, profumi e persone di ogni genere che è in grado di produrre negli individui uno stato di eccitazione, ma anche una sensazione di stordimento mentale e sensoriale.

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Insomma, come è stato proclamato anche dal principe Alberto nel discorso di presentazione della prima grande esposizione londinese del 1851, tramontava l’antico principio della segretezza in favore di quello dello spettacolo, della pubblicità e della trasparenza della comunicazione (mirabilmente evidenziato dalla struttura di vetro del Crystal Palace). Un nuovo principio reso necessario dal diffondersi, con lo svilupparsi degli effetti della seconda rivoluzione industriale, dell’ideologia liberale del libero scambio e del valore dell’universalità e della cooperazione pacifica tra i popoli. È la cultura della democrazia borghese, che comporta la necessità di un’assoluta visibilità sociale, in quanto la visione dell’altro rende possibile un controllo reciproco tra gli individui. Non a caso Parigi, nella seconda metà dell’Ottocento, è stata pervasa dall’ansia d’illuminare ogni cosa, di sostituire al caos ansiogeno delle tenebre l’ordine tranquillizzante della luce, di adottare la stessa modalità di “rendere pubblico” che caratterizza la pubblicità (Codeluppi, 1996). Dunque, anche le esposizioni universali hanno sviluppato ulteriormente negli individui quel nuovo tipo di sensibilità nel rapporto con i beni di consumo che era già presente nell’altro potente medium rappresentato dalle vetrine dei negozi e dei passages e che è fondamentalmente di tipo “scopico”, poiché si basa soprattutto sulla grande capacità d’impatto della comunicazione visiva, sull’apparenza e sull’immagine. Cioè, come ha scritto Abruzzese, «La tecnica del colpo d’occhio è uno degli strumenti principali di questo spettacolo per annullare progressivamente la volontà dello spettatore, per atrofizzare le sue capacità individuali di riflessione, e costringerlo alla sua funzione sociale di pubblico. L’immagine, la disposizione temporale e spaziale di questa, il suo ritmo e colore, cancellano la coscienza sociale dell’individuo: esso si dimentica della propria condizione e del proprio ruolo politico. Si dimentica cioè dei caratteri fondamentali della propria classe. Il visitatore delle grandi esposizioni universali si trovava ad esistere in uno spazio senza dimensioni e senza tempo» (2011, p. 73). Abruzzese ha sostenuto, insomma, che quello che le esposizioni mondiali hanno messo in scena all’interno del loro spazio chiuso è un territorio di libertà e felicità che tende a collocarsi al di fuori del tempo e delle classi. Dove cioè, allo stesso modo di come le meraviglie della tecnica e le creazioni più sorpren-

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denti dell’uomo vengono presentate unicamente come oggetti “meravigliosi”, così proletari e piccolo-borghesi sono unificati dal fatto di provare lo stesso tipo di piacere ed entrano a far parte della stessa categoria di pubblico. Nel corso del Novecento, sono state organizzate altre esposizioni universali, ma nessuna è stata in grado di rappresentare un potente polo di attrazione come quelle realizzate nel secolo precedente. Anche perché proprio nell’epoca d’oro delle esposizioni sono state progressivamente messe a punto quelle nuove tecnologie comunicative (stampa popolare, fotografia, cinema, radio) che in poco tempo hanno consentito alle nascenti forme spettacolari di massa di avere un rapido sviluppo e di dare vita alla moderna industria culturale, ma anche agli individui di conoscere le novità create dal mondo dell’industria senza doversi sobbarcare i costosi e faticosi viaggi necessari a raggiungere le esposizioni. Pertanto, il pionieristico ruolo di medium di comunicazione svolto dalle esposizioni universali è diventato improvvisamente superfluo e le esposizioni universali hanno continuato a essere organizzate e a rappresentare degli eventi, ma nessuna è più stata in grado di ottenere lo stesso impatto delle sue progenitrici ottocentesche, né di riproporre fedelmente ciò che di nuovo e interessante si manifestava nel mondo. Non a caso l’enorme potenza simbolica posseduta da un evento come la fine del secondo millennio ha reso possibile creare un’altra esposizione significativa: quella allestita a Londra dentro il Millennium Dome. Una cupola di teflon, progettata da Richard Rogers e collocata in riva al Tamigi, che conteneva 16 spettacolari attrazioni tematiche ed era talmente grande che al suo interno poteva starci due volte lo stadio da calcio di Wembley. Dunque, Londra, un secolo e mezzo dopo la prima grande manifestazione del 1851, ha cercato di rinverdire i fasti dell’epoca d’oro delle esposizioni universali e lo ha fatto ancora una volta con un edificio altamente spettacolare come era stato il Crystal Palace. Tale edificio però durante il suo anno di apertura ha avuto 6,5 milioni di visitatori anziché i 12 previsti e ha costretto pertanto il governo britannico a rifinanziarlo più volte. Luca Massidda (2011) ha comunque messo in luce come negli ultimissimi anni le esposizioni siano ritornate d’attualità in conseguenza del presentarsi di una situazione sociale paragonabile a quel-

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la attraversata dalle società occidentali alla fine dell’Ottocento. Una situazione estremamente dinamica, caotica e disorientante per gli individui, alla quale l’esposizione promette di opporsi attraverso la sua struttura ordinata e il potente messaggio che è in grado di proporre. Vedremo dunque se, come ha affermato Massidda, le esposizioni universali saranno in grado di riacquistare quella forte centralità sociale di cui godevano nell’Ottocento.

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3. I LUOGHI DEL CONSUMO ODIERNI

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Il centro commerciale La struttura dei centri commerciali è generalmente costituita da una o più gallerie contenenti un grande ipermercato, attorno al quale sono disposte decine di negozi, ristoranti, punti di ristoro e di divertimento di ogni genere. Si tratta cioè di un matrimonio perfettamente riuscito tra due diversi modelli commerciali: quello pre-industriale del tradizionale mercato del centro urbano, in cui il rapporto di vendita era umanizzato, personalizzato e basato su molteplici punti d’acquisto, e quello tipicamente industriale, nato con il grande magazzino ma perfezionatosi prima con il supermercato (Humphery, 1998; Scarpellini, 2007) e poi con l’ipermercato. Il modello del centro commerciale è oggi diffuso in tutto il mondo, anche se è soprattutto concentrato nel Nord America. È nato negli anni venti (per la precisione nel 1924, con il Country Club Plaza, realizzato in stile mediterraneo da J.C. Nichols a Kansas City), ma sembra che i primi prototipi risalgano al 1907 (Roland Park Shop Center di Baltimora) e al 1916 (Market Square di Lake Forest, sobborgo di Chicago). Tale modello ha cominciato però a svilupparsi negli anni trenta, come reazione alla profonda crisi economica attraversata dagli Stati Uniti a partire dal 1929 (in conseguenza della quale i negozianti erano pronti ad abbandonare la città dove incontravano molte difficoltà e dove, inoltre, era estremamente diffuso presso la popolazione un atteggiamento d’insofferenza verso l’ambiente urbano, vissuto come sporco e pericoloso). Ma non avrebbe potuto effettivamente insediarsi senza la disponibilità della refrigerazione domestica per le derrate alimentari, che ha reso possibile alle famiglie concentrare gli acquisti, né senza la diffusione della

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motorizzazione privata, che non ha soltanto favorito gli spostamenti per le spese, ma ha portato anche allo sviluppo di un intenso traffico urbano, il quale ha notevolmente ridotto la capacità delle vetrine dei negozi e dei prodotti in esse collocati di colpire la vista dei potenziali clienti. Ne è derivata pertanto la possibilità di sviluppare un modello distributivo alternativo a quello urbano come quello costituito negli Stati Uniti dallo shopping center extraurbano o mall: grandi strutture commerciali collocate in aree strategiche, cioè a basso costo e situate nelle vicinanze di importanti arterie di collegamento, facilmente raggiungibili in automobile, ma anche con ampi parcheggi a disposizione. I negozi contenuti negli shopping center hanno potuto così ritornare a stabilire un rapporto diretto con la vista del consumatore, al quale il centro commerciale consentiva di passeggiare liberamente in aree pedonali chiuse e protette. È stato comunque soltanto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, con la realizzazione nel 1947 a Seattle del centro commerciale Northgate, che il modello del centro commerciale ha avviato un vero processo di diffusione sul territorio statunitense, in conseguenza anche dello sviluppo delle città verso l’esterno, della nascita di nuove zone residenziali suburbane e della costruzione, stimolata dall’emanazione del Federal Highway Act, di nuove autostrade di collegamento tra le grandi città. È stato sostenuto che «Lo shopping mall è nato come invenzione del mondo suburbano in quanto surrogato della città per chi viveva ai margini della città stessa. Nei sobborghi-dormitorio dove non vi era nulla di vita associata, il mall costituiva anche la piazza, lo spazio pubblico indispensabile per creare una comunità» (Amendola, 1997, p. 167). In molti sobborghi statunitensi, infatti, se non c’era un centro commerciale non esisteva nemmeno un centro della vita comunitaria. In molti casi, i centri commerciali extraurbani degli Stati Uniti sono stati persino capaci di costituire un elemento propulsivo in grado di dare vita a nuovi agglomerati urbani subordinati a essi. Mentre, parallelamente, già a partire dagli anni sessanta i tradizionali negozi collocati nei centri urbani, in gran parte a causa del successo dei centri commerciali extraurbani, hanno cominciato a perdere d’importanza, con un conseguente processo di degrado dei centri urbani stessi.

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Per i centri commerciali si è avviata così una fase più matura, nella quale ai beni ad alta frequenza d’acquisto e basso valore unitario inizialmente venduti si sono aggiunti quelli di tipo voluttuario. Inoltre, i centri, che avevano ancora molte parti a cielo aperto, sono stati dotati di gallerie chiuse e climatizzate (il primo, realizzato nel 1956, è stato il Southdale Center di Edina, sobborgo di Minneapolis, firmato dall’architetto Victor Gruen), cominciando nel contempo a essere rigorosamente progettati anche dal punto di vista dell’aspetto estetico. Nei primi tempi, infatti, il centro commerciale era concepito come una forma di rifiuto nei confronti della cultura della vita urbana e pertanto doveva essere estremamente semplice e privo di legami specifici con il luogo nel quale si trovava. Doveva essere progettato più pensando alle necessità di razionalizzazione distributiva e alla logica ottimizzatrice del marketing che alla sua natura di oggetto architettonico. La progettazione degli spazi interni si dedicava principalmente a cercare di facilitare la circolazione dei carrelli della spesa, anziché preoccuparsi di valorizzare e spettacolarizzare le merci esposte. Anche perché il grande successo sociale ottenuto dalla televisione al suo arrivo negli anni cinquanta e sessanta faceva sì che le merci venissero sognate dai consumatori non più davanti alle vetrine o agli scaffali, ma nelle abitazioni, davanti al piccolo schermo e alle pubblicità che esso trasmetteva. Ciò è continuato anche in seguito, ma progressivamente l’apparecchio televisivo è entrato nelle abitudini domestiche e ha perso gran parte del suo fascino (Codeluppi, 2011). Il centro commerciale ha cominciato pertanto a svolgere anch’esso un ruolo di tipo comunicativo. È andata dunque necessariamente incrementandosi l’importanza per ogni centro commerciale di un buon design e degli elementi d’arredo (aree di relax con panchine, fontane, sculture, portici, chioschi, piante, aiuole e lampioni), che consentono di aumentare la capacità di attrazione, la durata della visita e la fedeltà di frequenza dei consumatori. Questi elementi infatti permettono di creare un ambiente piacevole e di attribuire un’immagine positiva al centro commerciale. L’esterno rimane povero, ma l’interno diventa oggetto di sempre maggiori cure. Nel corso degli anni sessanta, il modello statunitense del centro commerciale extraurbano ha cominciato a diffondersi anche in tutti

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i principali Paesi avanzati, ma durante il decennio successivo una grave crisi economica e la parallela riscossa del centro città, che ha potuto avvantaggiarsi del successo ottenuto dai prodotti delle industrie d’abbigliamento e dalle loro boutique (Zukin, 1991), hanno determinato una crescente difficoltà per il modello residenziale suburbano medioborghese. Di conseguenza, la diffusione del mall suburbano ha subito un rallentamento. Il gruppo di architetti “radicali” Site (Toraldo di Francia, 1989) ha proposto in quegli anni negli Stati Uniti un’innovativa strategia di rivitalizzazione basata sulla spettacolarizzazione del punto vendita. Tale gruppo ha creato infatti per la catena di distribuzione Best dei sorprendenti edifici che si sfogliavano, si sbriciolavano, si frammentavano, simulavano di essere ancora in costruzione oppure tendevano a fondersi con l’ambiente naturale. Ma l’operazione tentata da Site non usciva comunque dai binari di una sperimentazione d’avanguardia. In generale, è stato necessario affiancare alle attrezzature commerciali degli shopping center, che non disponevano più di una sufficiente attrattiva, delle attività di ristorazione, di tempo libero, di spettacolo e di intrattenimento. Si è così avuta la nascita degli shopping and leisure center, che contengono al loro interno molteplici attrazioni, quali bar, ristoranti, sale cinematografiche, parchi gioco, ecc. In questi luoghi, l’atto d’acquisto risulta fortemente incentivato dalla nuova combinazione delle attività di consumo considerate “ordinarie” con le più piacevoli attività proprie del tempo libero. Qualcuno ha chiamato questo fenomeno anche «retailtainment» (unione di retail ed entertainment), ma ciò che conta comunque è che in centri commerciali di questo tipo è come se le banali attività quotidiane di shopping delle persone venissero valorizzate attraverso il loro collocamento sul palcoscenico di un teatro. Per ottenere questo risultato, si è cercato anche di fare assumere ai nuovi centri commerciali il familiare aspetto della città, la quale è andata nel frattempo perdendo buona parte della sua immagine negativa. Della città è stata principalmente riprodotta la struttura, che contiene strade principali e vie secondarie, incroci, slarghi e piazze, ma anche cinema, banche, ristoranti, uffici, sale polivalenti, servizi pubblici, ecc. E si è tentato anche di riprodurre la vita che si svolge in essa. Non è un caso, perciò, se negli Stati Uniti la durata media

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della permanenza negli shopping mall si è allungata progressivamente, arrivando a circa tre ore (Amendola, 1997). Il modello di città a cui si fa riferimento è naturalmente quello della “città ideale”, di una città cioè assolutamente perfetta e priva di problemi, ma che nella realtà contemporanea non esiste e che effettivamente non è mai esistita neanche in passato, sebbene a partire dal Rinascimento sia stata parecchie volte immaginata da filosofi, letterati e pittori. A questo proposito, Ricardo Ferreira Freitas ha utilizzato la distinzione tra il concetto di copia (in relazione di somiglianza con un originale) e quello di simulacro (in rapporto di dissimilitudine e tradimento rispetto a un modello originario) che Gilles Deleuze (1975) ha sviluppato a partire dalle riflessioni filosofiche di Platone. Ha sostenuto infatti che «si può dire che il mall è simultaneamente copia e simulacro. Copia in quanto formula transnazionale che rispetta una struttura architettonica di base: piazza centrale, piazza adibita alla ristorazione, parcheggio, ecc. Simulacro in quanto proposta di luogo “safe” (in quasi tutti i casi) – simulazione della sicurezza (della città ideale) dove si possono ritrovare parecchi aspetti tipici della convivialità urbana» (Ferreira Freitas, 1996, p. 14). Ciò appare evidente in numerosi centri commerciali. Ad esempio, nel Barrashopping, che si estende a Rio de Janeiro su oltre 210.000 metri quadrati di superficie e comprende 540 negozi. Qui, infatti, è stato ricostruito fedelmente l’antico Mercato Municipale della Praça XV, che è esistito nel centro di Rio sino all’inizio degli anni sessanta. Ma anche le altre piazze di Barrashopping sono riproduzioni di antiche piazze di Rio de Janeiro. Copia e simulacro sono presenti simultaneamente anche nel Borgata, uno shopping mall all’aperto costruito a Scottsdale, nel deserto dell’Arizona, che reinterpreta la città medievale toscana di San Gimignano, con la sua piazza principale e le sue famose torri, nell’Olde Mystick Village, che sorge nel Connecticut e riproduce una tipica strada settecentesca del New England, oppure nel Mercato Mall, nato nel 2005 a Dubai e ispirato alle architetture medievali italiane e in particolare a quelle toscane e veneziane. Ma anche nell’enorme centro commerciale West Edmonton Mall, realizzato a Edmonton in Canada, sono state ricostruite le suggestive atmosfere dei boulevards parigini di fine Ottocento e del celebre quartiere “a luci rosse” di New Orleans.

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I centri commerciali hanno però sempre più manifestato anche un’ambizione che è, in fondo, la stessa delle esposizioni universali: quella di costituire una riproduzione concentrata e spettacolare del mondo intero. Si sono così riempiti, come si è detto, di numerose attrazioni di varia provenienza. Come ha fatto lo stesso West Edmonton Mall o quel gigante che è nato nel 1992 a Bloomington, un sobborgo di Minneapolis nel Minnesota, e che è stato a lungo il più grande shopping center del mondo. Denominato «Mall of America», ha una superficie al coperto di oltre 300 mila metri quadrati, quasi 400 negozi (tra cui quattro grandi magazzini), 50 ristoranti, 14 cinema, 8 night club e parcheggi per 13.000 automobili. Vi si trovano anche tre grandi alberghi, un centro congressi, una scuola, una chiesa, un campo da golf con 18 buche, un acquario sotterraneo lungo 100 metri, una cascata alta quattro piani, un lago artificiale intorno al quale sono stati piantati più di 30.000 tra alberi e fiori, un trenino interno, il Lego Imagination Center (una maxi-esposizione con 30 gigantesche costruzioni della Lego, tra cui anche un dinosauro alto sei metri), delle montagne russe e un enorme parco a tema al coperto ispirato a Snoopy e agli altri personaggi dei fumetti creati da Charles Schulz. Sulla scia del successo ottenuto nel territorio nordamericano, il modello del centro commerciale si è sempre più imposto nel mondo. Quello che attualmente detiene il maggior numero di negozi (circa 1,200) è il Dubai Mall (che occupa circa 1 milione e 100.000 metri quadrati e ha annualmente più di 50 milioni di visitatori), ma appare evidente che è in Cina che si stanno concentrando i più vasti tra i nuovi centri commerciali, tutti con una superficie superiore al milione di metri quadrati. Anche in Europa i centri commerciali sono stati realizzati applicando il modello statunitense, sebbene solitamente su una minore superficie complessiva. Particolarmente ampio è il Bluewater, aperto nel 1999 all’interno di una ex-cava di gesso collocata nei dintorni di Londra. Offre oltre 5.000 posti a sedere nella food court e nei vari punti di ristoro e presenta un elevato livello di ricercatezza nelle decorazioni degli arredi e degli ambienti. È affiancato da un parco artificiale con diversi laghetti e ha preso dalla natura la maggior parte delle tematiche che lo caratterizzano sul piano architettonico: l’acqua, gli animali, le piante, la volta celeste, ecc. Nel

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2012 però è stato costruito, esattamente di fronte allo stadio realizzato per le Olimpiadi di Londra, Westfield London, il più vasto centro commerciale d’Europa. Comprende 265 negozi, circa 50 ristoranti, un centro benessere, un cinema con 16 sale e dispone complessivamente di una superficie commerciale di 150.000 metri quadrati. In Italia, i centri commerciali sono arrivati in ritardo rispetto agli altri Paesi economicamente avanzati. In sostanza, hanno cominciato a diffondersi a partire dall’inizio degli anni novanta e oggi sono diventati circa un migliaio. Tra essi, alcuni presentano anche dimensioni ragguardevoli. A Roma, ad esempio, operano tre centri di notevole estensione: Porta di Roma (220 negozi), Roma Est (210 negozi) e Parco Leonardo (210 negozi). Il primo centro italiano a seguire la strada dello shopping and leisure center è stato La Grande Mela, che si trova vicino a Verona e nel 1998 ha inaugurato un terzo piano di attrazioni per il tempo libero in stile Tex-Mex, dotato di un bowling a 20 piste, una zona per il ballo, una “baby area” con giochi per bambini e servizio di baby sitting, un cinema multisala con 10 sale, una food court e una sala giochi. Ma vanno senz’altro ricordati anche I Gigli, un centro commerciale di 70.000 metri quadrati sito nei pressi di Firenze (che comprende al suo interno anche una piazza-mercato popolata da artigiani e ambulanti e un grande pub dove si svolgono spettacoli dal vivo), Le Gru, collocato a Grugliasco vicino a Torino (che allestisce nel periodo estivo il Gru Village, un vero e proprio festival con spettacoli musicali di grande richiamo), il Bicocca Village a Milano (un centro commerciale costruito attorno ad un grande cinema multiplex e a una sala giochi), I Petali di Reggio Emilia (un centro commerciale realizzato non soltanto attorno a un cinema multiplex e a un grande centro fitness Virgin, ma addirittura attorno a uno stadio di calcio) e Vulcano Buono, vicino a Napoli, che l’architetto Renzo Piano ha progettato riprendendo le forme del vicino Vesuvio. Da alcuni anni nel nostro Paese sono arrivati anche gli outlet, giganteschi centri commerciali extraurbani all’aperto che vendono prodotti scontati e che spesso nelle loro realizzazioni giocano a citare ironicamente il passato delle città. Come ad esempio gli outlet dell’azienda inglese McArthur Glen, il leader europeo del settore: Serravalle Scrivia, che riproduce le tipiche architetture delle cittadine italiane, Barberino del Mugello (vicino a Firenze), che riprende

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le fattezze di un villaggio medievale delle colline toscane, e Castel Romano, che ricostruisce fedelmente alcune tipiche architetture della Roma storica. È dunque possibile sostenere che all’interno del modello del centro commerciale «Lo shopping oscilla tra il farsi museo e farsi theme-park. Un nuovo, potente ibrido in cui consumo, divertimento, tempo libero, comunicazione, media, sport si rincorrono e si incrociano l’uno con l’altro o con tutti gli altri» (Canevacci, 1997, p. 150). Anche perché negli ultimi anni, di fronte alla ritrovata vitalità di alcuni centri storici, gli shopping center esterni alla città hanno spesso intrapreso la via della “tematizzazione”, dell’espressione cioè di un tema che consente di acquisire un’identità specifica e attrattiva per i consumatori. Tale tema può essere trovato nella particolare atmosfera di una città, ma anche in moltissimi altri contesti sociali e culturali. E può essere addirittura di tipo “anti-consumistico”, come nel caso del centro commerciale che si trova a Rommelmühle, in Germania, il quale è uno shopping center di dimensioni ridotte, frutto di un recupero urbanistico che ha saputo combinare l’ecologicità dei materiali di costruzione impiegati con un percorso che mira a incentivare dei corretti comportamenti negli acquisti dei prodotti. Ritorno in città A partire dalla seconda metà degli anni settanta, i nuovi shopping center hanno cominciato a essere costruiti anche all’interno delle città, sebbene su superfici minori a causa della cronica mancanza di spazio e spesso recuperando vecchi edifici. Dopo avere saturato il territorio extraurbano, a volte gli shopping center sono dunque ritornati in città tentando di attuare la stessa operazione. È il caso del centro commerciale parigino Le Carrousel du Louvre, il quale, grazie alla specializzazione, alle limitate dimensioni e alla particolare natura “sotterranea”, può svolgere la sua funzione di vendita di beni di alta gamma senza recare disturbo al contesto urbano in cui si colloca, né al funzionamento di quel museo del Louvre cui è strettamente legato, e che viene anzi a essere ulteriormente valorizzato dal-

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la sua presenza. Ma è il caso anche dei centri commerciali parigini Le Quatre Temps, nel quartiere della Défense, del Forum des Halles e della Gare St. Lazare. Oppure del Beverly Center a Los Angeles e del Trump Tower a New York. E, in Europa, di centri come Quartier 207 a Berlino, Kamppi a Helsinki, Polygone a Montpellier, Victoria Square a Belfast, One New Change a Londra e Liverpool One. In Italia, ne sono degli esempi l’8 Gallery Lingotto, nell’ex-sede torinese della Fiat, Piazza Portello a Milano e San Donato-Novoli a Firenze. Ma è stato necessario naturalmente apportare gli opportuni aggiustamenti, ad esempio sperimentando la formula del cosiddetto «lifestyle shopping center», ovvero una formula che si basa su dei mall urbani di dimensioni necessariamente contenute, ma in grado comunque di selezionare per un consumatore di fascia alta un’offerta di prodotti che è ricca e gratificante. Spesso anche attraverso l’offerta di spazi all’aperto, esattamente come fanno le città nelle quali i lifestyle center si collocano. Negli Stati Uniti, ad esempio, è il caso del Time Warner Center a New York, del Crocker Park di Cleveland nell’Ohio, del South Lake Town Square a South Lake in Texas, di The Grove a Los Angeles e del Santa Monica Place Mall. In Italia, invece, il primo centro di questo tipo è Le Piazze, che è stato realizzato a Castel Maggiore, vicino a Bologna. Ha cominciato così a ricostituirsi quel potente polo di attrazione commerciale che aveva caratterizzato in passato le città europee. Pertanto, l’arredo urbano interno ed esterno dei centri commerciali ha cominciato ad assumere un’importanza addirittura maggiore rispetto all’intero edificio, anche in termini di costo. E si è fatto spesso ricorso ai progetti di architetti di grido, che hanno consentito di costruire degli edifici dotati di una personalità particolarmente spiccata. Ma la scelta di andare a installarsi in uno spazio già rigidamente strutturato quale quello della città si è configurata come più difficoltosa per quella strategia di egemonia sull’ambiente culturale e sociale circostante che guidava in precedenza gli shopping center. Per continuare ad attirare su di sé l’attenzione dei consumatori, gli shopping center hanno dovuto infatti cercare, nonostante la loro tradizione di uniformità e standardizzazione, di essere flessibili e di

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sapere simultaneamente adattarsi al contesto urbano e a quel processo di crescente frammentazione dei gusti e degli stili di vita dei consumatori che si è manifestato nelle società occidentali a partire dagli anni settanta. Ciò non ha impedito però loro in molti casi di essere vincenti e di produrre dei cambiamenti nella struttura e nelle funzioni dello spazio urbano. Si pensi che da anni ormai «una passeggiata nel centro di Singapore – semplicemente seguendo la folla – diventa una passeggiata attraverso una serie di shopping center con aria condizionata e grandi magazzini» (Falk, Campbell, 1997, p. 9). E, similmente, anche città quali Hong Kong e Dubai sembrano al visitatore molto somiglianti a degli enormi centri commerciali. Certo, non tutte le operazioni di insediamento di centri commerciali nel centro urbano sono perfettamente riuscite. Lo dimostra il caso del Forum des Halles, aperto a Parigi nel 1979 sulle ceneri dell’antico mercato delle Halles, nato nel 1181 sebbene abbia preso il suo nome nel XV secolo, e divenuto nei secoli successivi un luogo di intensa attività commerciale, soprattutto per i beni alimentari, ma anche un ambiente favorevole all’insediamento di mendicanti, barboni, saltimbanchi e artisti. Cioè quella fauna pittoresca che lo scrittore Émile Zola ha descritto con precisione nel romanzo Il ventre di Parigi e che ha spesso dato origine nella storia a numerose proteste. L’architetto Victor Baltard ha ricevuto pertanto nella seconda metà dell’Ottocento l’incarico da Napoleone III e dal prefetto Haussmann di progettare dodici padiglioni che avevano il compito di migliorare le Halles dal punto di vista architettonico, ma soprattutto da quello della vita sociale che vi si svolgeva. Le proteste degli abitanti di Parigi però sono continuate sino a che nel 1974 il vecchio mercato è stato raso al suolo per lasciare spazio al nuovo Forum des Halles. Un centro commerciale contenente 250 negozi su una superficie commerciale di 56.000 metri quadrati ripartita su 5 piani. Ma, nonostante ciò, lo spirito “trasgressivo” del vecchio mercato popolare non si è perso e anzi è sopravvissuto nel nuovo reticolo di moderne gallerie commerciali dove si ritrovavano abitualmente tribù metropolitane di ogni tipo. Giandomenico Amendola (1997) ha sostenuto che questo è stato il risultato della particolare conformazione urbanistica attribuita a questo luogo, che tende a ostacolare lo sviluppo di ogni forma abituale di relazione sociale e di vita comunitaria. In esso,

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infatti, «La folla delle migliaia di visitatori è letteralmente pompata in avanti senza alcuna possibilità di fermarsi. Il progetto, anzi, evita esplicitamente l’arresto del flusso: mancano panchine e punti di sosta, la polizia sempre presente, grazie al sistema di telecamere a circuito chiuso, è pronta ad eliminare qualsiasi grumo di persone che possa rallentare il traffico. La sosta è oggetto di consumo a pagamento – bar, ristoranti, cinema – e il rallentamento è possibile solo nei grandi negozi» (ivi, pp. 183-184). Per questo motivo, in seguito il Forum des Halles è stato modificato dal punto di vista architettonico e altri aggiustamenti sono in corso allo scopo di rimediare ai problemi indicati. Anche a Londra il vecchio mercato ortofrutticolo di Covent Garden è stato recuperato nel 1980 nella forma dello shopping center, ma qui l’intera comunità del quartiere ha lottato affinché fossero mantenute in vita le strutture architettoniche del mercato. E oggi tali strutture sono ancora massicciamente utilizzate da parte di consumatori e turisti. Le operazioni di recupero di architetture preesistenti, meglio se dotate di una storia e una memoria, si sono comunque abbastanza diffuse, soprattutto negli Stati Uniti. Sono i cosiddetti «festival marketplaces», di cui sono un esempio le trasformazioni in shopping center delle vecchie fabbriche Ghirardelli Square e The Cannery a San Francisco, del South Street Seaport, la zona del più vecchio insediamento portuale di New York, e dell’ex mercato Quincy Market, con l’attiguo Faneuil Hall, luogo di Boston importante durante la guerra per l’indipendenza americana in quanto vi si riunivano i patrioti per organizzare la rivoluzione. E simile è l’intervento di recupero effettuato sulla storica Central Station di New York, la quale è oggi in grado di offrire più di 80 prestigiosi negozi alle circa 500.000 persone che quotidianamente la percorrono. Ma sono associabili a queste operazioni anche il Las Arenas di Barcellona, aperto nel 2011 dentro un’ex-arena per le corride costruita a fine Ottocento, e il Freccia Rossa di Brescia, che ha recuperato l’ex-stabilimento delle Acciaierie e Tubifici Bresciani. D’altronde, per i centri commerciali il modello dell’integrazione con la città può essere considerato come particolarmente efficace. Essendo infatti in corso da tempo in quasi tutte le principali città un

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processo di rivitalizzazione della vita urbana, il centro commerciale può prendere atto di tale processo e tentare di parteciparvi in maniera attiva.

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Centri urbani e centri commerciali Diversi anni fa, Jean Baudrillard ha sostenuto che, a differenza dei grandi magazzini nati nel cuore delle grandi città moderne e adeguatisi alla struttura urbanistica di queste, i grandi centri commerciali extraurbani sono stati spesso in grado di dare origine allo sviluppo di nuovi insediamenti urbani attorno a sé che hanno dato una risposta adeguata al bisogno di allontanarsi da città sempre più invivibili. Con le parole di Baudrillard, «le nuove città sono satellizzate dall’ipermercato o shopping center» (1981, p. 116), cioè sono nate e si sono sviluppate in funzione di queste grandi strutture di distribuzione delle merci. È successo, ad esempio, per Milton Keynes in Inghilterra, Marne-la-Vallée vicino a Parigi (grazie alla gigantesca operazione di Disneyland Paris), Columbia nel Maryland e per i centri commerciali Galleria, situati vicino a Houston, e South Coast Plaza a Orange County in California. Per Baudrillard, anche il tipo di struttura urbana a cui gli shopping center hanno dato vita nei nuovi insediamenti da essi originatisi è diversa: «l’agglomerazione», un ammasso caotico di abitazioni che richiama quell’agglomerato informe di beni che caratterizza la struttura dello shopping center. Ciò che però secondo Baudrillard principalmente contraddistingue gli shopping center è che sono stati costruiti, più che per svolgere una funzione precisa, quale era ad esempio la funzione commerciale per i grandi magazzini, per assecondare quel generale processo di iperspecializzazione e conseguente disintegrazione delle funzioni che coinvolge l’intero sistema sociale. Il risultato finale di tale processo è la condizione di “iperrealtà” sperimentata dagli shopping center. Ed è soprattutto questo che attira i consumatori: la possibilità di isolarsi dal mondo esterno, di perdersi in un rifugio protetto, dove non si percepisce lo scorrere del tempo ed è piacevole vagabondare incontrando altre persone e giocando con le vetrine e i prodotti. Non è necessario comperare

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qualcosa, l’importante nello shopping center è recitare un ruolo davanti agli occhi degli altri consumatori, esplorare e vedere, come fa il turista (Urry, 1995). Il che può culminare oppure no con l’atto d’acquisto. D’altronde, già diverse ricerche hanno mostrato che molti frequentatori dei centri commerciali non fanno acquisti. Da uno studio effettuato ad esempio in Italia è emerso che questi “nonacquirenti” sono il 64% dei visitatori (Testa, 2007, pp. 62-63). Ma la possibilità di poter solamente guardare le merci che i centri commerciali offrono è indubbiamente un altro dei principali motivi alla base del fascino posseduto da tali luoghi. Il centro commerciale consente dunque una specie di ritorno al modello archetipico rappresentato dal passage e da quella figura di flâneur che si aggirava in esso. Soltanto che ciò che il flâneur era costretto a inventare e sperimentare oggi viene offerto “già confezionato”. Infatti, mentre il flâneur ottocentesco era libero di giocare a proprio piacimento, il centro commerciale impone di dover partecipare a un gioco le cui regole sono state definite da qualcun altro. La nuova condizione di esplorazione del consumatore non impedisce però a quest’ultimo di essere un soggetto attivo e non quel soggetto totalmente massificato tratteggiato da Baudrillard. D’altronde, la situazione di omogeneità culturale supposta dal sociologo francese per quanto riguarda gli shopping center appare essere oggi decisamente smentita dall’estrema diversità delle situazioni riscontrabili. Non è corretto pertanto accusare, come fa Baudrillard, lo shopping center di essere un luogo totalitario nei confronti dei suoi frequentatori, un luogo cioè che induce l’individuo ad accettare una condizione di passività. Infatti, «Probabilmente, lo si può meglio comprendere se lo si vede come un luogo d’alienazione relativa: ci sono troppe informazioni e, di conseguenza, troppa dispersione. Lo shopping center non impone una linea, esso riunisce molteplici modi, molteplici modalità di guardare l’oggetto. Si tratta, infatti, di un luogo di consumo e di de-consumo allo stesso tempo» (Ferreira Freitas, 1996, p. 19). Né è possibile interpretarlo come un luogo di totale simulazione (Baudrillard, 1981) oppure dove regna il falso (Eco, 1977), in quanto è evidente che costituisce comunque qualcosa di reale, che incorpora tra l’altro numerosi servizi già esistenti in precedenza all’interno dello spazio urbano.

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Baudrillard, invece, ha ragione quando accusa lo shopping center di esercitare una funzione totalitaria rispetto al territorio, anche se ciò risulta particolarmente evidente rispetto al territorio del centro cittadino. Gli shopping center, infatti, in quanto enormi concentrazioni di negozi, sono anche dei grandi magneti d’attrazione che, quando vengono collocati nel centro della tradizionale città europea di piccole e medie dimensioni – con un centro storico significativo – oppure appena fuori da tale città, come spesso succede, possono rappresentare un problema per il tessuto commerciale operante nelle aree centrali storiche e conseguentemente per la vita culturale della città stessa. Questa viene infatti a essere impoverita sul piano delle attività commerciali, ma soprattutto su quello delle relazioni interpersonali e sociali. Ciò è il risultato di una passiva importazione, avvenuta in Europa a partire dalla seconda metà degli anni sessanta e in Italia nel decennio successivo, di un modello legato a un differente contesto culturale quale quello statunitense, ignorando tra l’altro che gli anglo-americani vivono prevalentemente al chiuso, mentre le differenti condizioni climatiche dell’Europa centrale e meridionale hanno portato allo sviluppo di abitudini d’acquisto molto differenti. Il risultato è che generalmente i negozi tradizionali (drogherie, macellerie, panetterie, cartolerie, ecc.) sono costretti ad abbandonare il centro urbano o a lasciare il proprio spazio ai nuovi negozi di lusso e a strutture terziarie come le agenzie bancarie, turistiche e immobiliari. In Italia, questo fenomeno appare particolarmente grave. Qui, infatti, sono stati costruiti pochissimi centri specializzati urbani e si è quasi esclusivamente praticata la formula del grande centro esterno alla città. Con il risultato che i negozi tradizionali si sono drasticamente ridotti nel giro di pochi anni e continuano a scomparire. Se in una grande città, come ad esempio Milano, il modello del centro commerciale extraurbano può assumere anche un ruolo positivo perché è in grado di contribuire a decongestionare il centro cittadino, esso certamente svolge una funzione negativa dal punto di vista della qualità della vita sociale in quelle piccole e medie città di provincia di cui è prevalentemente costituita la struttura della società italiana. Infatti qui, più che in qualsiasi altro Paese, l’apparato distributivo rappresenta la matrice vitale e indispensabile per il funzionamento dei centri storici.

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Ciò non significa però che sia necessario salvare a tutti i costi i centri storici, secondo modalità troppo spesso adottate in Italia che hanno portato alla conservazione dell’apparenza, ad edifici salvati così come sono, ma privati della loro vera anima. Non è del resto nemmeno necessario conservare a tutti i costi quella struttura distributiva tradizionale e frammentata in tanti piccoli negozi che ha caratterizzato per molto tempo la natura del commercio italiano, anche se va ricordato che tale struttura, sebbene certamente troppo arretrata, consentiva al consumatore di usufruire di diversi vantaggi: la comodità dell’acquisto sotto casa, le attenzioni del venditore, un servizio accurato e su misura, la gratificazione di rapporti umani “caldi” con gli altri clienti-vicini di casa. Pertanto, anche se la struttura dotata di un’ampia superficie di vendita permette di solito al consumatore di pagare meno i prodotti grazie alle economie di scala di cui dispone e consente inoltre di beneficiare di una maggiore offerta merceologica, non è il caso di puntare alla scomparsa della distribuzione tradizionale, ma semmai di tentare di ricercare le modalità attraverso le quali sia possibile ottenere un’armonica integrazione tra le due formule distributive. Umberto Collesei e Francesco Casarin hanno sostenuto infatti a tale proposito che «è possibile pervenire alla concezione di un centro cittadino come di un terreno di integrazione commerciale, di superamento dei conflitti tra piccolo commercio e grande distribuzione. In particolare, possiamo ritenere che, facendo leva sul carattere flessibile delle varie forme di centro commerciale pianificato, si possa ottenere la ricostruzione della complementarietà dell’offerta commerciale, la quale, accompagnata dalle iniziative fiscali, finanziarie e di marketing urbano, rende possibile la rivitalizzazione duratura del centro urbano. Si tratta di cessare di demonizzare i centri commerciali pianificati, e di interpretarli invece come strumenti per la rivitalizzazione del centro urbano» (1999, p. 133). Per ottenere questo risultato, è ovviamente necessario procedere anche a una riorganizzazione del centro urbano in grado di consentire di arrivare a una soluzione per i numerosi problemi che attanagliano da tempo quest’ultimo: trasporto e movimentazione delle merci, viabilità, parcheggi, aree per l’intrattenimento e la socializzazione dei cittadini. Probabilmente, una spinta in tal senso arriverà anche dal mercato. La grave crisi economica che ha preso avvio nella seconda metà del

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2008 ha prodotto infatti degli effetti particolarmente negativi sulle vendite di tutte le strutture distributive. Ma per i centri commerciali extraurbani vanno considerate anche le conseguenze determinate dalla crescente concorrenza esercitata da molti nuovi canali distributivi (discount, catene low cost, outlet, centri specializzati, acquisti via Internet), dalla crescita del prezzo della benzina e dai fenomeni di cambiamento in corso per la struttura della popolazione (come l’aumento del numero dei single e la sempre maggiore presenza di anziani). Tutto ciò configura un quadro molto chiaro delle difficoltà che i grandi shopping center extraurbani incontreranno nei prossimi anni e che determineranno la necessità di una maggiore integrazione tra tali strutture commerciali e il contesto urbano e sociale. D’altronde, già oggi negli Stati Uniti lo spazio occupato dagli shopping center sul totale dell’attività commerciale è andato notevolmente ridimensionandosi (Pomodoro, 2013). Il che sta comportando da tempo la necessità di riconvertire e riutilizzare i mall esistenti. Così come la necessità di concepire nuove strutture meno esclusivamente concentrate sul tema che è stato di volta in volta scelto, ma capaci di dialogare in maniera efficace con il territorio urbano vicino. Concept store: il negozio che comunica Le aziende di produzione stanno sempre più considerando i luoghi del consumo come l’ambito strategicamente più rilevante della loro attività. Stanno perciò progressivamente allargando il loro raggio d’azione, affiancando all’attività produttiva anche quella di distribuzione diretta dei prodotti ai consumatori. Dietro a ciò vi sono certamente esigenze di riduzione dei costi (grazie all’eliminazione degli intermediari commerciali), ma soprattutto motivazioni legate alla necessità di comunicare al meglio l’identità dei prodotti e delle marche anche nel momento dell’acquisto, attraverso la creazione di punti vendita estremamente espressivi e spettacolari. Sempre più spesso, infatti, le aziende tentano di proporre al consumatore un insieme di valori e di significati, cioè un vero e proprio universo immaginario di marca, che diventa più credibile se si appoggia su uno spazio a esso integrato ma realmente esistente come

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quello di vendita (Codeluppi, 2012a). Pertanto, è possibile sostenere, come ha fatto Mark Gottdiener, che «Lo spazio dei negozi oggi non è altro che l’estensione della televisione, dei giornali e della pubblicità sulle riviste. Essi forniscono lo spazio per la realizzazione delle fantasie dei consumatori» (1997, p. 90). Di conseguenza, a partire dagli anni ottanta molte aziende hanno cominciato a creare dei punti vendita tematici: i concept store. Dei luoghi cioè le cui componenti ruotano tutte attorno a un’unica tematica e dove prima dei prodotti ciò che si vuole vendere è la gratificante esperienza che il consumatore può provare nel negozio stesso, che dev’essere in grado di esprimere una vera e propria “filosofia” della marca, messa in scena in maniera spettacolare attraverso un particolare sistema d’arredo e un’offerta di prodotti appositamente selezionati allo scopo di dare vita al concetto che si vuole comunicare. Una delle prime aziende a credere nelle potenzialità dei concept store è stata quella dello stilista statunitense Ralph Lauren. Il tema attorno al quale ruotano da sempre i negozi di tale azienda, ma in realtà anche tutti i suoi numerosi prodotti e le diverse forme di comunicazione utilizzate, è l’americanità. Non si tratta però di un’americanità generica, ma «basata su evocazioni facilmente riconoscibili: il ranch del West, la fattoria sperduta in mezzo alla prateria, Newport Castle, l’Ivy League College» (Rybczynski, 1989, p. 12). Un’americanità cioè molto familiare alle persone, anche se in realtà non è mai esistita, perché corrisponde alle rappresentazioni del passato degli Stati Uniti che sono state fornite dalla letteratura e dal cinema. Infatti, «A Lauren non interessa ricostruire in modo attendibile un periodo storico; gli sta a cuore, invece, evocare l’atmosfera di una dimora di famiglia solida, tradizionale, con profonde radici nel passato» (ivi, pp. 19-20). Perché, in fondo, la nostalgia per il passato nasce proprio dal bisogno di certezze, di quei valori stabili che sono necessari per rassicurare il consumatore in un mondo in sempre più rapida evoluzione. Ecco perché entrando in Madison Avenue a New York nel primo concept store di Ralph Lauren (un edificio del 1895, ristrutturato, arredato e riaperto nel 1986) si ha l’impressione di entrare in un vero palazzo storico e tuttora abitato. Gli ambienti sono lussuosi e perfettamente ricostruiti come se fossero all’interno di uno studio

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cinematografico. Dappertutto ci sono mobili di legno pregiato intagliati a mano, ornamenti in ottone, tappeti orientali e rami di orchidee e passeggiando all’interno dell’edificio sembra di trovarsi in un albergo inglese di stile edwardiano. Questo negozio costituisce un potente strumento d’immagine che, insieme ovviamente ad altri, ha consentito alla Ralph Lauren di diventare nel corso degli anni una delle aziende più importanti al mondo nel settore dell’abbigliamento e di espandersi anche in numerosi altri settori: scarpe, borse, occhiali, profumi, cosmetici, biancheria per la casa, tappeti, ecc. Più o meno negli stessi anni in cui Ralph Lauren inaugurava il suo “palazzotto” newyorkese, l’azienda di calzature e abbigliamento Timberland cominciava ad aprire nel mondo i suoi punti vendita tematici che richiamano direttamente i boschi e le fattorie del New England e che rimandano inoltre ai quattro elementi naturali: aria, acqua, terra e fuoco. Ma oggi, data la forte diffusione della sensibilità ecologista, il tema natura viene molto utilizzato nei concept store ed è possibile ritrovarlo, ad esempio, anche nei negozi di cosmetici ecologici Body Shop e L’Occitane o negli 85 grandi spazi ludici della francese Nature & Decouvertes, dove si può trovare tutto ciò che serve per stabilire un rapporto attivo e coinvolgente con l’ambiente naturale (binocoli, telescopi, libri, giochi, minerali, richiami per uccelli, accessori per il giardinaggio, ecc.), ma si organizzano anche corsi sulla natura, conferenze di astronomia, visite collettive e viaggi di presa di contatto con l’ambiente naturale. Tra le tante catene di concept store che si sono sviluppate negli ultimi anni, si possono ricordare anche i negozi di biancheria intima Victoria’s Secrets, dall’aspetto “vittoriano” e perciò in grado di creare un sorprendente contrasto con il contenuto erotico dei prodotti venduti, gli Original Levi’s Store, gli Swatch Store, i Ferrari Store, i Diesel Store, i Disney Store e si potrebbe continuare a lungo, arrivando fino ai Mercedes Benz Spot, spazi multimediali che vendono raffinati oggetti dell’importante azienda automobilistica tedesca. Un discorso particolare meritano i luoghi creati da Sony, che nel 1995 ha aperto in Madison Avenue a New York il suo Sony Style Store, uno spazio che ha proposto una modalità innovativa di offrire al consumatore la tecnologia elettronica: legni pregiati, eleganti mobili imbottiti e molto velluto che fanno da contrasto al minimalismo

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essenziale dei prodotti elettronici dell’azienda. In seguito, ha aperto anche il Sony Center di Berlino, un complesso di edifici sito nella ricostruita Potsdamer Platz e comprendente negozi, cinema e ristoranti, e una vera e propria catena internazionale di luoghi di vendita denominati Sony Center. Dal punto di vista della tematizzazione, sono interessanti soprattutto i negozi della Nike, a cominciare dai Nike Town, aperti dagli anni novanta in poi dalla celebre azienda statunitense di abbigliamento sportivo (Codeluppi, 2012a). Quello di New York, che è stato inaugurato nel 1997 e che, con i suoi 6.200 metri disposti su cinque piani, è, insieme a quello di Chicago, il più ampio, è stato descritto in questo modo: «Il vestibolo crea una zona di decompressione che dà ai clienti il tempo di adeguarsi alla velocità dello shopping: questo è un luogo adatto all’esposizione, più che alla vendita. L’atrio crea, inoltre, un chiaro campo visivo che attira il consumatore ai livelli superiori del negozio. E, poiché la gente, entrando in un negozio, circola invariabilmente a destra, è qui che sono situati gli ascensori che portano gli acquirenti in alto e dentro al negozio. Più i clienti vengono sospinti nei meandri profondi del magazzino, più aumentano le probabilità che comprino. Nell’atrio troneggia un gigantesco orologio sportivo che esegue un conto alla rovescia di trenta minuti. Quando arriva al minuto 00.00, cala un sipario sulla finestra del Palladium che si affaccia sulla 57a strada, e un immenso telone discende per tutta la lunghezza dell’atrio. Nel negozio si abbassano le luci e sul telone viene proiettato un ispirato spot pubblicitario della Nike. Il trucco ingenuo è che il cliente rimarrà nel centro commerciale per la proiezione successiva, avendo così più tempo a disposizione per consumare – più tempo per lo spettacolo che gli mostra che cosa deve consumare. L’atmosfera di Nike Town New York City è un po’ quella di un museo con un ritmo più serrato. I commessi in uniforme se ne stanno al loro posto come educati e informati custodi, mentre i clienti studiano compunti le dimostrazioni del prodotto in una sorta di eccitato silenzio. C’è tutta una serie di oggetti prodigiosi sparsi per Nike Town New York City. Il cliente può usare il sistema digitale di misura NGAGE per eseguire un accurato scanning a raggi infrarossi dei propri piedi. E se uno decide di comprare un paio di scarpe, queste vengono trasportate dallo scantinato a un punto qualsiasi del

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negozio in uno dei ventisei tubi Lucite trasparenti. Ci sono vetrine “tocca e senti” interattive per i tessuti Nike e i materiali per le suole, e moltissimi prodotti a portata di mano – i clienti acquistano con più probabilità vestiti che è possibile provare» (Blair, 1997, p. 54). Abbiamo dunque a che fare con luoghi di vendita estremamente tecnologici, ma anche dove non è stato trascurato l’aspetto di relazione sensoriale con il consumatore, attraverso un sofisticato sistema di suoni, immagini e luci. In quello di Chicago, troviamo ad esempio uccelli che cinguettano nel reparto dell’outdoor, palline che rimbalzano nel reparto del tennis, rumori di scarpe che corrono e di rimbalzi del pallone nel reparto del basket, un acquario di pesci tropicali alle spalle dello spazio dove si possono provare i sandali. Si è riusciti inoltre a trasmettere al meglio la fascinazione esercitata dal mondo dei grandi eventi sportivi. Nei Nike Town, infatti, gli acquisti mettono in collegamento il consumatore con i più importanti atleti della storia dello sport. Non mancano, pertanto, collezioni d’oggetti appartenuti ad atleti sponsorizzati da Nike e “oggetti culto” dei più grandi campioni. Ovviamente, nei Nike Town viene comunicata con forza anche l’identità della marca Nike, come testimonia la pervasività dello swoosh, il baffo che simboleggia graficamente la marca e che è presente dappertutto: negli espositori dei prodotti, negli ascensori, nelle maniglie delle porte e nella balaustra delle scale. Ed è inoltre ripreso ed amplificato anche attraverso l’ampia presenza di forme ellittiche nel punto vendita (sedili, espositori, oblò). Schmitt e Simonson (1997), tuttavia, si sono giustamente chiesti se questo eccesso di forza e coerenza manifestato dalla marca Nike nel comunicare nel proprio punto vendita non possa alla fine rivelarsi un “boomerang” che disturba il coinvolgimento dei consumatori. Negli ultimi anni, si sono imposti all’attenzione dei consumatori anche gli Apple Store. Oggi nel mondo sono più di 400 e presentano un aspetto decisamente essenziale e minimalista, in coerenza con i criteri estetici adottati per il design dei prodotti della marca, ma anche per permettere a tali prodotti di farsi il più possibile notare all’interno degli ambienti di vendita. Tra gli Apple Store, merita di essere ricordato il gigantesco spazio aperto nel 2006 sulla Fifth Avenue, nel cuore di Manhattan. Si sviluppa sottoterra, mentre all’esterno si pre-

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senta con un enorme cubo di vetro al centro del quale spicca soltanto una grande mela luminosa, il simbolo grafico della marca. Forse non è un caso che questo venga considerato il negozio più redditizio al mondo. Porta avanti infatti al meglio quel progetto di spettacolarizzazione attraverso la trasparenza che era già evidente, ad esempio, nel Crystal Palace londinese dell’Ottocento, ma rappresenta anche uno strumento di comunicazione e di rafforzamento di quella particolare estetica semplice ed estremamente razionale che si trova alla base dell’identità della marca Apple (Morozov, 2012). Particolarmente interessanti sono anche i negozi di profumi e cosmetici Sephora, di proprietà della multinazionale del lusso LVMH. Dopo aver aperto il primo spettacolare punto vendita sugli Champs Elysées, Sephora si è diffusa nel mondo con riproduzioni di diverse dimensioni di tale punto vendita. Attualmente, ad esempio, dispone in Italia di una rete di 115 Beauty Store. Il tema scelto da Sephora è il minimalismo, proposto attraverso un raffinato mix di estetica giapponese e filosofia New Age. Gli spazi di vendita si sviluppano solitamente in lunghezza e presentano un ambiente interamente attraversato da righe orizzontali bianche e nere, i codici cromatici della marca. Nei negozi più grandi sono presenti un museo sulla storia dei profumi e una piccola libreria, ovviamente relativa alle merceologie proposte. Non manca evidentemente la tecnologia, con monitor e terminali interattivi per chiedere informazioni sui numerosi prodotti in vendita. Ben diversa è la proposta di prodotti cosmetici proveniente da Lush. Questa infatti è una catena inglese che dispone attualmente di più di 800 punti vendita nel mondo e che offre prodotti a base di frutta e verdura fresche e rispettosi della salute del consumatore, ma soprattutto prodotti ludici e nostalgici. I suoi saponi, ad esempio, hanno spesso l’aspetto di un alimento, mentre i suoi spazi commerciali presentano le sembianze di un negozio di frutta e verdura d’altri tempi. Pertanto il consumatore, proprio come succedeva solitamente in tale luogo, è invitato a servirsi da solo, tagliando la quantità di prodotto che desidera e divertendosi così anche attraverso la partecipazione attiva al processo d’acquisto. Tra i concept store vanno senz’altro ricordati anche gli “empori culturali”, cioè quei grandi spazi di vendita dove vengono offerti

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libri, riviste, cd musicali, dvd di film e tutto quello che può far parte del ricco universo dei consumi culturali. La francese FNAC è stata la prima a operare in questo ambito e ad aprire nel 1979 a Parigi il suo primo grande spazio all’interno del centro commerciale Forum des Halles, creando in seguito una catena di oltre 100 punti vendita presente in vari paesi tra cui l’Italia. FNAC, dopo aver attraversato un lungo periodo di difficoltà, è stata acquistata da Trony, ma altri operatori hanno seguito da tempo il suo esempio. Nel nostro Paese, è stata soprattutto la casa editrice Feltrinelli a percorrere la strada degli “empori culturali”, dando vita a una vasta rete che comprende attualmente più di 100 spazi, cui si è recentemente aggiunto, nella Stazione Centrale a Milano, il più grande punto vendita dell’azienda, che si estende su quattro piani per una superficie di 2.500 metri quadri. Dato il grande successo internazionale della formula del concept store, i punti vendita da analizzare in questa sede sarebbero numerosi. Ma riteniamo che siano sufficienti quelli che sono stati citati, perché sono particolarmente efficaci nell’integrare un’elevata capacità di seduzione del consumatore attraverso strumenti di tipo comunicativo con la necessaria funzione commerciale. D’altronde, il concept store tematico oggi appare meno attuale di fronte a consumatori caratterizzati da un crescente livello di eclettismo. Nelle loro scelte, infatti, mescolano indifferentemente prodotti di lusso e prodotti del discount, alimenti edonistici e alimenti biologici. I tradizionali modelli di riferimento sono andati in crisi e gli individui devono necessariamente seguire un personale processo di costruzione d’identità che procede per prova ed errore. Così, cercano di fare le loro esperienze all’interno della gamma più ampia possibile di prodotti. La distribuzione di conseguenza si adegua: allarga progressivamente la sua offerta e propone, anziché un concetto omogeneo, spazi articolati che contengono numerose merceologie e richiamano i vivaci bazar del passato. Ma siamo di fronte in realtà a un altro concetto. Naturalmente, la formula viene rivisitata: il bazar è aggiornato nel suo aspetto e soprattutto presenta una selezione di prodotti che viene da un soggetto che si pone come il garante della qualità di tale selezione. In passato, alcuni punti vendita pionieristici avevano già tentato di praticare questo modello. A Milano, ad esempio, l’hanno speri-

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mentato a partire dagli anni settanta Fiorucci, High Tech e 10 Corso Como. Mentre all’estero hanno praticato questo modello Conran Shop a Londra, Vinçon a Barcellona e Colette a Parigi. Quest’ultimo punto vendita, aperto nel 1997, è diventato, nonostante le dimensioni contenute di soli 700 metri quadrati, uno dei più importanti al mondo. La collocazione in una metropoli avanzata come Parigi e in un quartiere alla moda come il Marais, ma soprattutto la capacità di selezionare prodotti di qualità, innovativi e dal design raffinato l’hanno reso infatti uno spazio di vendita unico da cui si originano molti nuovi fenomeni di moda e di consumo. Vero e proprio bazar postmoderno, Colette mescola prodotti costosi di griffe di tendenza con gadget estremamente accessibili sul piano economico, ma sempre promettendo al consumatore che acquistandoli potrà comunicare socialmente il proprio buon gusto. Il modello del bazar postmoderno, trascinato dalla sua attualità culturale, si va sempre più sviluppando e arricchendo di varianti. Una declinazione particolare di tale modello è quella praticata dagli oltre 500 concept store di Muji, che si ispirano a un minimalismo di origine orientale. Siamo di fronte infatti a una catena di oggetti personali e per la casa che è nata in Giappone e ha cominciato a diffondersi nel mondo a partire dall’inizio degli anni novanta per proporre una strada alternativa alla mania nipponica per le firme e le marche. Non a caso il nome della catena è l’abbreviazione di «mujirushi ryohin», che significa «prodotti di qualità senza marchio». Gli oggetti di Muji, sia dal punto di vista cromatico che formale, sono essenziali, funzionali e perseguono quei principi di rigore che sono propri della cultura giapponese tradizionale. Dunque, si può dire che Muji «ha applicato nei propri punti vendita il modello della riduzione agendo sull’assenza di elementi come fonte di valore» (Bucchetti, 2004, p. 34). Vale a dire che ha optato per una strategia basata sulla sottrazione, ma ugualmente in grado di produrre sul mercato un’identità che presenta un aspetto deciso e ben differenziato rispetto ai concorrenti. Il successo dei concept store deriva anche dal bisogno del consumatore odierno di un contatto fisico con gli ambienti. La realtà comunicativa e “dematerializzata” in cui si trova sempre più a vivere lo spinge infatti a cercare per compensazione delle esperienze da per-

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cepire con il corpo e con i sensi. D’altronde, anche quella modalità esplorativa che il consumatore adotta in maniera crescente nelle sue scelte comporta la ricerca di un contatto diretto con i prodotti. Come è sempre avvenuto del resto anche nei bazar e nei mercati tradizionali, luoghi caratterizzati da una completa immersione sensoriale. I nuovi bazar postmoderni, perciò, cercano di assecondare, con la loro ricchezza d’offerta, questo bisogno di fisicità del consumatore, creando spazi che tentano di stimolare tutti i sensi del corpo umano.

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4. I LUOGHI DEL TEMPO LIBERO

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L’industrializzazione del tempo libero Prima dell’Ottocento, il tempo era considerato dagli individui un’entità casuale, lenta e discontinua, perché soggetta a imprevisti e pause. La seconda rivoluzione industriale ha introdotto invece un’organizzazione del lavoro e della vita che ha reso necessario sincronizzare le azioni delle persone, modificando radicalmente la percezione del tempo stesso, divenuto un’entità lineare e calcolata, che richiede puntualità e precisione (Corbin, 1996). Si è diffuso perciò socialmente un nuovo principio di efficienza, il quale ha comportato l’istituzione di un momento dedicato al riposo per consentire a chi lavorava di recuperare le energie spese durante le ore di lavoro. È nato così il concetto di tempo libero. Nell’Ottocento, però, a beneficiare di questo nuovo concetto è stata soprattutto la ricca borghesia cittadina. Non è un caso, infatti, che inizialmente questa concezione “ristoratrice” del tempo libero sia stata soprattutto intesa come uno strumento per migliorare la salute dell’individuo. A partire dalla fine dell’Ottocento, perciò, si è sviluppata un’inedita attenzione per il corpo e per attività come le nuove pratiche sportive, le gite all’aria aperta, i soggiorni al mare e in montagna. Inoltre, progressivamente il tempo libero è andato anche a identificarsi con attività di divertimento di vario genere. Ecco diffondersi, pertanto, manifestazioni come i caffè, le sale da ballo, le grandi esposizioni universali e, soprattutto, molteplici forme di spettacolo: vaudeville, music hall, varietà, teatro, cinema. È stata comunque, nel Novecento, solamente «la grande “crisi di sovrapproduzione” del ’29 a fornire una legittimazione etica e sociale al tempo libero. La produzione a cui non corrisponde un mercato

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di massa di grandi proporzioni è inevitabilmente destinata ad andare in tilt» (Fabris, 1993, p. 6). Pertanto, è stato necessario fornire al consumatore sia delle risorse economiche, che il tempo libero necessario a spenderle. Di conseguenza, nei Paesi industriali avanzati, si è progressivamente manifestato nel corso del Novecento un incremento del reddito individuale, nonché del tempo libero a disposizione degli individui e dei consumi correlati a esso. Ma il tempo libero è stato progressivamente sottoposto anche a un processo d’industrializzazione avente l’obiettivo di razionalizzarlo e organizzarlo nei minimi dettagli. Lo dimostra il successo ottenuto dal modello di tipo industriale proposto per le vacanze già negli anni cinquanta da Gérard Blitz e Gilbert Trigano con il Club Méditerranée e la loro innovativa formula del villaggio “tutto compreso”, ma lo dimostra, soprattutto, il cambiamento che ha subito (Leed, 1992; Chesneaux, 1999) la secolare figura del viaggiatore (cioè colui che intraprende un viaggio per arricchirsi di esperienze), sempre più trasformato in turista (che invece viaggia solamente per soddisfare il suo piacere). Al punto che, come ha sostenuto John Urry (1995), il turismo è andato praticamente a identificarsi con la più avanzata cultura industriale moderna, cioè con una concezione dell’identità personale basata non più sull’attaccamento a un luogo specifico, ma su quel processo di movimento incessante che caratterizza l’ipermodernità. È noto da tempo che la progressiva crescita del tasso d’industrializzazione ha comportato che il tempo libero sia sempre più diventato tempo disponibile per il consumo. Ciò che però sta avvenendo nelle attuali società ipermoderne è che il consumo tende progressivamente a invadere delle aree del tempo libero dove prima non era presente. Oggi, infatti, non esistono praticamente aree del tempo libero dove non siano penetrate logiche di tipo commerciale: la pubblicità e le promozioni nell’offerta televisiva, le sponsorizzazioni di spettacoli e manifestazioni sportive, il merchandising nei musei e nelle mostre d’arte, ecc. Si produce così un territorio sociale ibrido e indifferenziato nel quale tematiche di diversa natura (shopping, sport, intrattenimento, cultura) tendono sempre più a fondersi tra loro e vengono unificate dalla comune cultura di consumo (Codeluppi, 2012b).

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Si è creato perciò il terreno propizio alla nascita dei nuovi luoghi del consumo, che non sono più luoghi “di classe”, cioè rivolti a una specifica classe sociale, come quella media borghesia alla quale erano indirizzati i grandi magazzini. Sono invece luoghi concepiti per un pubblico come quello che fruisce dei media, che si presenta in apparenza come assolutamente omogeneo, anche se in realtà è frammentato in numerosi stili di vita differenti.

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Gli alberghi a tema Per tutto ciò che è stato sostenuto a proposito dell’evoluzione del concetto di tempo, non è casuale che nella seconda metà dell’Ottocento sia andato definendosi il modello dell’albergo così come oggi lo conosciamo. In realtà, l’albergo ottocentesco era propriamente un “grand hotel”, ovvero un luogo di grande prestigio destinato a ospitare poche persone privilegiate appartenenti all’aristocrazia e all’alta borghesia. Grazie all’arrivo della locomotiva ferroviaria e del piroscafo, infatti, il viaggio poteva trasformarsi da tormento in piacere e le famiglie aristocratiche hanno cominciato a muoversi con sempre maggior frequenza, sviluppando la necessità di dimore temporanee e pubbliche, ma di tipo principesco. Le famiglie aristocratiche potevano permettersi di non far coincidere i periodi di soggiorno con quelli delle festività e delle vacanze, ma di distribuire tali periodi durante tutto l’arco dell’anno e spesso di protrarre ciascuno di essi per diverse settimane. A volte, ciò riguardava anche nobili sfaccendati e decaduti o pittori e artisti, mentre coloro che viaggiavano per affari solitamente si fermavano invece in pensioni di modesto livello. Pertanto, il modello al quale l’albergo faceva riferimento era la grande dimora aristocratica, che veniva ripresa nella distribuzione degli spazi e anche nell’organizzazione dell’arredo. Non è un caso che all’epoca fosse abbastanza normale per i clienti sistemare arredi e suppellettili personali nelle camere dell’albergo durante il soggiorno. Il grande albergo ottocentesco aveva soprattutto l’obiettivo di offrire riposo, intrattenimento e la possibilità di fare nuove conoscen-

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ze, unitamente a condizioni ambientali particolarmente favorevoli, quali ad esempio la vicinanza con stabilimenti per le cure termali. In tale luogo, il tempo era regolato da cerimoniali e rituali e i comportamenti delle persone assumevano una natura ostentativa e “teatrale”. Pertanto, «Gli spazi comuni, l’atrio d’ingresso, i saloni di intrattenimento e le sale da pranzo, erano sovradimensionati e legati all’idea del lusso, dell’opulenza. Vi era uno scarto proporzionale tra l’ampiezza degli spazi collettivi e la relativa modestia delle singole camere. Quest’ultime erano organizzate in funzione del riposo, mentre le altre occupazioni, come la lettura o la scrittura, venivano svolte negli spazi comuni. Questa dispersione presupponeva una grande disponibilità di tempo da parte degli ospiti dell’hotel che, per svolgere anche un limitato numero di incombenze, dovevano percorrere lunghi corridoi e insediarsi in luoghi diversi» (Dedini, Scevola, 1991, p. 121). Si ritiene che risalga alla decisione di Lord Maugham di andare a trascorrere l’inverno del 1834 tra i pescatori di Cannes, all’epoca poco più che un villaggio, la nascita dell’usanza di andare in villeggiatura in Costa Azzurra (il cui nome è nato soltanto nel 1877). Usanza che è diventata in poco tempo una moda e, di conseguenza, a Montecarlo sono stati aperti nel 1856 il Casinò e la Societé des Bains De Mer, mentre nel 1864 è stato inaugurato il lussuoso Hotel de Paris, così vicino al Casinò da identificarsi praticamente con esso. In pochi anni, l’aristocrazia non ha potuto fare a meno di trascorrere una parte consistente della sua esistenza in questi luoghi e infatti nel 1896 ben 18 teste coronate hanno trascorso l’inverno in Costa Azzurra: da Sissi, principessa d’Austria, alla regina Vittoria. E con esse sono arrivati anche molti artisti importanti dell’epoca: Offenbach, Diaghilev, Nietzsche, Mann, Matisse, Scott Fitzgerald e tanti altri. Dalle località di villeggiatura marina, il concetto del grand hotel ha cominciato a trasferirsi anche in quelle situate nelle Alpi e, soprattutto, nelle principali città dell’epoca. Ecco dunque nascere il Sacher (1860) e l’Imperial (1873) a Vienna, il Grand Hotel Europe (1875) a San Pietroburgo, lo Zermatterhof (1879) a Zermatt, il Savoy (1884) e il Carlton (1897-1899) a Londra, mentre a Saratoga Springs (nello Stato di New York) è stato inaugurato nel 1875 il

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Grand Union Hotel, che con i suoi 1500 letti era considerato all’epoca il più grande del mondo. È stata però l’apertura nel 1898 da parte di César Ritz dell’hotel recante il suo nome in Place Vendôme a Parigi a costituire probabilmente la nascita del primo vero grand hotel della storia. Nell’antico palazzo del duca di Lauzun, Ritz ha infatti cercato di creare una dimora che fosse in grado di offrire tutte le raffinatezze che un principe potesse desiderare: un arredamento particolarmente sfarzoso, luce elettrica in ogni piano e camere che per la prima volta erano dotate di toilette e sala da bagno. Nei primi anni del secolo successivo, sono stati aperti numerosi altri alberghi di lusso: l’Hotel des Bains (1901) di Venezia, il Ritz (1906) di Londra, l’Excelsior (1908) di Venezia, l’Astoria (1911) di San Pietroburgo, il Palace (1912) di Madrid, il Suvretta House (1912) di Saint-Moritz, il Palace Hotel (1913) di Gstaad e il Negresco (1913) di Nizza, che presenta nel proprio Salon Royal una cupola disegnata da Gustave Eiffel, un lampadario di Baccarat con 16.309 cristalli e il più grande tappeto del mondo, di ben 375 metri quadrati. Nel Novecento, però, la vacanza ha cominciato a essere un’abitudine praticata da un pubblico più ampio di quello che frequentava il grande albergo ottocentesco. Pertanto, gli alberghi hanno dovuto sviluppare una sorta di “meccanizzazione” dei servizi offerti e il loro ruolo è andato progressivamente ad assumere una fisionomia autonoma, invertendo quella subordinazione rispetto all’ambiente domestico che aveva dominato nel secolo precedente. Così, negli anni venti si è largamente diffusa negli Stati Uniti la camera d’albergo con bagno annesso, che ha influenzato l’evoluzione successiva dell’organizzazione delle abitazioni private. A partire dagli anni cinquanta del Novecento, con lo svilupparsi della moderna industria delle vacanze e la costruzione di importanti opere di collegamento stradale, come ad esempio l’Autostrada del Sole ultimata nel 1964 (Menduni, 1999), l’albergo ha spesso cessato di essere considerato un unicum, entrando invece in molti casi a far parte di una vasta catena, composta da più edifici situati in differenti luoghi e costretta a industrializzarsi ulteriormente attraverso delle rigide procedure di standardizzazione degli ambienti e delle prassi

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gestionali. Negli anni settanta, invece, l’evoluzione tecnologica ha consentito di introdurre delle tecnologie informatiche via via sempre più sofisticate e aventi l’obiettivo sia di migliorare la gestione degli alberghi, che di offrire un miglior servizio alla clientela. Cioè di dotare ogni camera di attrezzature che possano essere liberamente utilizzate dall’ospite e di monitorizzare costantemente ciò che avviene all’interno dell’edificio allo scopo di offrire il maggior livello possibile di sicurezza e comfort. Nel corso degli anni ottanta, sono intervenuti altri cambiamenti per quanto riguarda il ruolo svolto dall’albergo. Anche questo luogo infatti ha dovuto sempre più imparare a vendersi sul mercato e a differenziarsi rispetto ai concorrenti, offrendo agli utenti un sovrappiù di tipo comunicativo. Non più, come nell’Ottocento, presentandosi come un luogo teatrale disponibile per la recitazione praticata dai suoi frequentatori, ma facendosi esso stesso spettacolo. Come nel caso del Gaylord Opryland Hotel di Nashville, che ha collocato i suoi ristoranti e negozi in una giungla tropicale artificiale, o dell’Hotel Teufelhof di Basilea, che ha fatto interpretare le sue camere da parte di alcuni importanti artisti internazionali. Ma sono stati soprattutto gli architetti, sino a quel momento pochissimo utilizzati per le strutture alberghiere, a diventare i veri protagonisti della creazione dei nuovi alberghi e la presenza della firma di un architetto, oppure di un designer o uno stilista di successo, ha assunto perciò un’importanza fondamentale sul piano dell’immagine. Il concetto di design hotel (Salvaderi, 2013) è nato nel 1984, quando Ian Schrager ha aperto a New York il Morgans Hotel, ma è stato Philippe Starck il primo a dare una vera identità a questo concetto, con la ristrutturazione nel 1988 dell’Hotel Royalton e nel 1990 dell’Hotel Paramount a New York. Questo albergo risalente agli anni venti è stato completamente reinventato per creare un ambiente raffinato e al di fuori dal tempo, come è testimoniato ad esempio dall’arredo delle camere, che fa convivere comodini e bagni rigorosamente high tech con poltrone retrò dalle forme arrotondate e con testate dei letti costituite da una grande cornice dorata, che nelle stanze singole contiene una riproduzione su tela del celebre dipinto La merlettaia di Vermeer. Starck è stato successivamente chiamato in numerosi altri alberghi nel mondo per effettuare interventi simili

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a questo. Anche in Italia, dove nel 2009 è stato inaugurato a Venezia, in un edificio del Seicento, il suo hotel Palazzina Grassi. Simile all’operazione effettuata con l’Hotel Paramount è quella successivamente tentata con il raffinato Mercer Hotel di New York, una sorta di santuario del minimal-chic realizzato dall’arredatore francese Christian Liaigre, che ha immaginato ogni stanza come se fosse un loft della vecchia Soho degli artisti. Il Mercer, insieme ai numerosi alberghi di Starck, a un altro albergo di New York come il Gramercy Park Hotel, che il proprietario Ian Schrager ha affidato alle cure dell’artista Julian Schnabel, al My Hotel Bloomsbury, realizzato a Londra dal “papà” del design inglese Sir Terence Conran, e all’Hotel Puerta América di Madrid, dove praticamente ogni piano è stato creato da un architetto diverso (Jean Nouvel, Zaha Hadid, Marc Newson, Ron Arad, Javier Mariscal, ecc.), rappresenta bene la diffusione del modello del design hotel. Cioè alberghi a volte anche di dimensioni contenute, ma a cui architetti e designer cercano di trasmettere – nelle architetture, negli arredamenti, nei colori, nel comfort e negli optional – l’idea dell’abitazione di una persona che possiede uno stile raffinato e uno stile di vita estremamente moderno, dove il piacere e il benessere hanno sostituito il lusso e lo sfarzo. In questi alberghi si cerca pertanto di offrire un’atmosfera familiare e informale, ma con un’elevata attenzione per i dettagli e un altissimo livello di servizio che fa sentire accuratamente coccolati e accuditi. Siamo dunque ben lontani da quella impersonalità e da quella standardizzazione dei servizi che caratterizzavano i grand hotel di un tempo. Siamo però lontani anche da un’altra concezione dell’albergo sviluppatasi a partire dagli anni ottanta: quella basata su un edificio altamente spettacolare. Come, ad esempio, il grande anfiteatro luminoso del Grand Hotel progettato ad Atlantic City da Robert Venturi e alcuni progetti dell’architetto John Portman, che ha offerto un contributo innovativo da questo punto di vista con i suoi edifici raggruppati attorno a corti interne percorse in altezza da ascensori trasparenti, come ad esempio il Marriott Marquis di Atlanta e vari hotel della catena Hyatt. Portman ha progettato anche quel celebre Westin Bonaventure Hotel che si trova nella downtown di Los Angeles e che, come ha sostenuto Fredric Jameson (1989), è un esempio perfetto di quella

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strategia architettonica che tale autore definisce «postmoderna», la quale, anziché tentare, come gli edifici più caratteristici dello stile moderno, di inserirsi con un linguaggio innovativo nel sistema di segni commerciali della città, si limita, al contrario, a cercare di essere complementare a questo sistema di segni. Jameson cerca cioè di mostrare come il Bonaventure, esattamente come i centri commerciali o i parchi a tema, non pretenda di presentarsi come una parte della città, ma piuttosto come un mondo chiuso che si pone in alternativa a quest’ultima. Pertanto, le sue tre entrate sono piuttosto discrete, a differenza di quei monumentali ingressi che caratterizzavano i grand hotel del passato. Inoltre, la sua enorme facciata di vetro riflettente «respinge la città esterna; una repulsione analoga a quella esercitata dagli occhiali a specchio, che rendono impossibile all’interlocutore vedere gli occhi di chi li porta e in tal modo si caricano di aggressività e potere sull’altro. Così, il rivestimento di vetro produce una peculiare e inubicata dissociazione del Bonaventure dal suo ambiente: non è neppure un esterno dato che quando tentate di guardare le pareti esterne dell’hotel non si vede l’hotel, ma soltanto le immagini distorte di tutto ciò che lo circonda» (ivi, p. 78). Secondo Jameson, in questo albergo è presente anche un elevato numero di ascensori e scale mobili, che tendono a sostituire con il loro incessante dinamismo i movimenti effettuati dagli esseri umani attraverso la classica passeggiata. Tendono cioè a negare un ruolo al corpo umano e a definire l’ambiente come autoreferenziale. L’architettura del Bonaventure cerca infatti di essere più potente della capacità di orientarsi del corpo umano. Ciò è particolarmente evidente nel vestibolo dominato da quattro torri che sono assolutamente simmetriche. Il risultato è che si genera una situazione di confusione e disorientamento, dove ogni cosa sembra svolgere male la sua funzione e, pertanto, l’individuo è costretto a restare più a lungo negli spazi dell’albergo e a dedicare una maggiore quantità di tempo alla frequentazione dei negozi presenti. La spettacolarità in fatto di alberghi ha assunto oggi varie forme. Si pensi soltanto all’Everland Hotel, un albergo costituito da un’unica suite a cinque stelle realizzata in legno e fibra di vetro da due designer svizzeri, che viene continuamente spostata nelle principali metropoli del mondo. Ma gli alberghi spettacolari sono naturalmente

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di casa soprattutto nel mondo Disney: nel parco Disney World situato a Orlando, in Florida, operano infatti da tempo lo Swan Hotel, un colorato palazzo sormontato da colossali conchiglie e cigni scultorei, e l’analogo Dolphin Hotel, entrambi progettati dall’architetto Michael Graves. Si tratta di alberghi che rappresentano un’estensione del colossale territorio di divertimenti adiacente, in quanto, con la loro spettacolarità surreale, consentono al fruitore di prolungare l’esperienza che ha appena provato. E anche a Disneyland Paris sono stati concepiti alberghi simili, come l’Hotel New York, firmato anch’esso da Michael Graves, che richiama ironicamente lo skyline di Manhattan. Ma in questo parco di Parigi la Disney ha potuto fare tesoro dell’esperienza precedentemente effettuata negli Stati Uniti. Pertanto, accanto alla replica del tradizionale parco Disney, è stata costruita una vasta zona dedicata alla ricettività alberghiera. Con tutte queste operazioni la Disney ha tentato di rilanciare il modello del grande albergo ottocentesco, spettacolare e sorprendente, sebbene l’abbia indirizzato soprattutto verso chi solitamente non può permettersi di frequentarlo. Non è un caso, pertanto, che proprio a Disneyland Paris abbia ripreso, con quel Disneyland Hotel che è stato collocato all’ingresso del parco a costituire un monumentale ingresso, l’aspetto vittoriano e Belle Époque proprio degli alberghi “aristocratici” costruiti in passato nel Nord della Francia. Ma c’è una città che più di tutte ha contribuito allo sviluppo di una concezione spettacolare degli alberghi: Las Vegas. Questa, infatti, è una città che gode da tempo di una fama leggendaria che la fa istintivamente associare al mondo dello spettacolo, cioè a personaggi mitici come Elvis Presley o Frank Sinatra. Può dunque essere definita la prima «città a tema» (Gottdiener, Collins, Dickens, 1999). In realtà, tutti gli spettacolari alberghi nati negli ultimi anni a Las Vegas sono soprattutto il frutto di interventi di tipo decorativo, che internamente modificano soltanto in minima parte la struttura e i caratteri dell’edificio alberghiero come sono andati definendosi nel corso dei decenni. Resta comunque il fatto che in generale oggi gli alberghi hanno sempre più bisogno di associarsi a un particolare tema che attribuisca loro una precisa identità da vendere sul mercato e che sono senz’altro quelli di Las Vegas ad avere scelto i temi più spettacolari. Forse perché, come ha scritto Ralph Rugoff, il deserto

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che circonda questa città «fornisce una barriera profilattica contro la realtà» (1995, p. 6), cioè una rigida forma di isolamento che attribuisce alle persone l’impressione di trovarsi in una dimensione lontana dalla vita quotidiana. Abbiamo descritto in dettaglio gli alberghi di Las Vegas in un altro volume (Codeluppi, 2012b, pp. 48-51), dove sono stati analizzati anche i numerosi alberghi che sono sorti negli ultimi anni a Dubai. Questa infatti sta portando avanti a suo modo lo stesso modello alberghiero che è stato praticato dalla città del Nevada e forse non è un caso che abbia in comune con tale città la necessità di contrastare attraverso architetture altamente spettacolari la povertà semantica del deserto che la circonda. Dal ristorante all’eatertainment Gli imprenditori Isaac Tigrett e Peter Morton hanno lanciato nel 1971 a Londra con il loro Hard Rock Café un innovativo modello per la ristorazione. Statunitensi trapiantati in terra britannica, sentivano nostalgia di casa e volevano ricreare l’atmosfera tipica dei locali del loro Paese. E cosa c’è di più originario degli States della musica rock? Ecco dunque nascere un locale nostalgico centrato sul rock e sulla sua cultura. Successivamente, gli Hard Rock Café si sono moltiplicati nel mondo diventando circa un centinaio, ma la società che li gestisce ha cercato di mantenere il più vitale possibile il progetto iniziale di utilizzare per l’arredo dei diversi locali degli oggetti realmente appartenuti ai più importanti personaggi della musica rock. Così, gli oltre 22.000 cimeli originali della collezione (il giubbotto di pelle di Elvis Presley, la chitarra di Jimi Hendrix, il disco d’oro dei Beatles, ecc.) vengono fatti periodicamente ruotare nelle vetrine che si trovano alle pareti dei vari ristoranti. Ma insieme a questi vi sono anche delle riproduzioni dello stesso genere di oggetti. Per i frequentatori, in fondo, non fa molta differenza: l’importante è che ci sia un’atmosfera altamente spettacolare. Atmosfera ravvivata, spesso, da un un’attività continuativa di concerti di gruppi musicali giovanili. Il modello dell’Hard Rock Café ha fatto scuola e altri imprenditori della ristorazione hanno cercato di trovare un tema sufficientemente

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forte da consentire di sviluppare con coerenza attorno a esso l’identità di un locale di ristoro, “tematizzando” in maniera coerente arredi, divise del personale, menu, animazioni, ecc. È nata così la strategia dell’eatertainment, cioè del locale dove è possibile mangiare, ma dove si può anche godere della rappresentazione spettacolare di un determinato tema. Una strategia che prevede soprattutto che la comunicazione pubblicitaria “tematizzi” l’identità di marca della catena, la quale deve poi andare a integrarsi con lo spazio interno del ristorante, progettato per funzionare come un ambiente estremamente coinvolgente (Gottdiener, 1997, p. 79). Tra l’altro, i ristoranti a tema sono anche un ottimo strumento di comunicazione che consente di contribuire allo sviluppo di una determinata marca o al lancio di nuovi film e del relativo merchandising. Pertanto, hanno spesso di fianco dei negozi che vendono oggetti legati al tema proposto e sono in grado di contribuire in una maniera estremamente significativa al fatturato del locale. Il che consente, insieme alle entrate derivanti dalla ristorazione vera e propria, di recuperare l’elevato investimento iniziale richiesto. La strategia dell’eatertainment consente anche di replicare lo stesso modello in realtà geografiche diverse apportandovi minime variazioni e ammortizzando così ulteriormente gli investimenti effettuati. Il costo per lo sviluppo iniziale del modello è infatti praticamente lo stesso per un locale o per dieci, ed è sempre possibile apportare strada facendo, e con costi minimi, delle migliorie al progetto. Da un primo locale si sono pertanto solitamente sviluppate delle catene di ristorazione che portano in tutto il mondo una proposta che è quasi identica. Per tutti questi motivi, molte delle principali imprese mondiali specializzate nel settore dell’intrattenimento sono entrate negli ultimi decenni nel settore della ristorazione a tema: Disney, Paramount, Sony, Dream Works, Marvel, ecc. In molti casi però tali imprese hanno fatto inizialmente l’errore di puntare tutto sulla componente di intrattenimento del locale, trascurando il fondamentale livello qualitativo del cibo e del servizio. O l’errore di puntare eccessivamente sulla possibile presenza nel locale di divi dello spettacolo che di solito, tranne che nel momento dell’inaugurazione, si guardano bene dal farsi vedere. Si spiega così perché alcuni ristoranti a tema

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hanno avuto una vita breve: Fashion Cafe, All Star Cafe, Marvelmania, ecc. Va considerato però che è insito nella strategia dell’eatertainment un problema dovuto proprio alla natura consumistica di tale strategia. Nel momento in cui cioè un ristorante diventa un luogo di consumo, si lega strettamente alle dinamiche e ai cicli che caratterizzano la cultura del consumo e corre pertanto il rischio, esattamente come le mode e i beni, di una rapida obsolescenza. Si tratta però di un problema inevitabile, che è determinato da quel continuo bisogno di novità che caratterizza la cultura del consumo e che si può soltanto cercare di controllare e ridurre con un rinnovamento periodico degli spazi. Costituisce un problema anche la prevalenza di frequentatori infedeli, che considerano la visita ai ristoranti a tema come la visione di un film: da effettuare una volta soltanto. Tali locali vengono pertanto solitamente collocati dove possono incontrare un pubblico che è occasionale, ma anche estremamente cospicuo: nei centri storici di città che possono contare su un grande afflusso di turisti durante l’intero arco dell’anno, nei centri commerciali, nei parchi a tema, ecc. Cercano inoltre di sollecitare nei bambini il desiderio di ritornare nel locale per ripetere delle esperienze piacevoli a essi specificamente riservate e che spesso costringono alla frequentazione tutta la famiglia: menu speciale per i piccoli, promozioni con giocattoli, animazioni ludiche, ecc. Una breve rassegna dei principali ristoranti a tema esistenti ci potrà mostrare la molteplicità dei concetti che sono stati sinora sfruttati nell’ambito dell’eatertainment e la ricchezza comunicativa che ciascuno di tali concetti può esprimere. Ad esempio, la catena Planet Hollywood, che opera attualmente con 15 ristoranti, è stata lanciata nel 1991 dall’imprenditore britannico Robert Earl, il quale ha posseduto per alcuni anni anche gli Hard Rock Café, contribuendo fortemente al loro successo mondiale. Per Planet Hollywood, ha avuto la brillante idea di vendere quote azionarie della società agli attori Sylvester Stallone, Arnold Schwarzenegger, Bruce Willis, Demi Moore, Patrick Swayze, Whoopi Goldberg e ad altre 30 star del cinema americano, che hanno funzionato da preziosi testimonial per la catena. Inoltre, ha dato un aspetto particolarmente spettacolare ai

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ristoranti, collocando all’esterno di questi un hollywoodiano calco di gesso con le impronte delle mani degli attori, mentre sulle pareti interne ha posizionato importanti cimeli della storia del cinema: «un abito da sposa indossato da Sophia Loren, un violino suonato nel Titanic, uno specchio usato da Claudette Colbert sul set di Cleopatra, un’impronta di rossetto di Brooke Shields, la scatola di cioccolatini tenuta sulle ginocchia da Forrest Gump» (Laurenzi, 1998). Poiché il tema cinema offre una vasta scelta dal punto di vista dei film e degli attori utilizzabili, Planet Hollywood ha cercato, per quanto possibile, di attribuire delle specifiche varianti locali a ogni ristorante della catena. Al cinema si rifanno anche i locali della GameWorks, una catena, che ha cambiato di proprietà più volte, ma che è stata creata negli Stati Uniti dalla società di produzione Dream Works di Steven Spielberg, la quale ha dato vita, insieme alla Sega e alla Universal Studios, a dei particolari ristoranti-intrattenimento dove si mescolano richiami e merchandising provenienti dai film di successo di Spielberg (da Et a Jurassic Park), flipper, videogiochi della Sega e simulatori di realtà virtuale. Ha cercato invece una fonte d’ispirazione nel più esteso mondo dei media Baywatch, una catena di ristoranti a tema fondata dall’attore David Hasselhoff (che nel celebre serial televisivo interpretava il ruolo di bagnino capo), la quale ha aperto diverse sedi negli Stati Uniti con menu a base di frutti di mare e specialità di pesce e camerieri e cameriere prestanti che servono ai tavoli vestiti solamente con un costume da bagno. I circa trenta Rainforest Cafe sparsi per il mondo si caratterizzano per un’ambientazione di tipo esotico e si differenziano dai concorrenti anche per la loro vocazione ecologista che si pone l’obiettivo di salvare le foreste tropicali. Nell’immancabile negozio vendono ad esempio prodotti per il corpo e il bagno importati dalle foreste equatoriali, mentre nella sala da pranzo «si incontra la vista di un’intera famiglia di gorilla, animati e a grandezza naturale. Gli avventori sono disposti a semicerchio intorno a una cascata alta 12 metri. Ancora acqua, ma questa volta racchiusa in un acquario a volta che accoglie i visitatori del punto di vendita nella sala principale e che tiene più di 30.000 litri d’acqua, con pesci tropicali e una barriera corallina fatta a mano. Altri 3 acquari di dimensioni più modeste sono disposti nel

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ristorante. Il mezzanino, 130 posti a sedere, da cui si guarda l’intero ristorante, compresi gli enormi alberi che arrivano al soffitto, si raggiunge con una scala a corda. L’atmosfera è creata grazie a effetti speciali, lampi e tuoni, pioggia tropicale, animali-robot che impazzano, tra cui un albero parlante, farfalle e coccodrilli. Il gorgoglio della cascata e i diffusori di essenze tropicali rifiniscono l’esperienza multisensoriale» (Lazzati, 1998, pp. 52-53). Nei Rainforest Cafe vengono organizzate anche visite guidate gratuite per le classi scolastiche, come se questi ristoranti fossero dei musei di scienze naturali in cui tenere lezioni sull’ecologia e le specie protette. Un tema differente è quello proposto da Starbucks: la tipica convivialità che ha tradizionalmente caratterizzato i bar italiani (Clark, 2009). L’azienda è nata nel 1971 a Seattle, ma soltanto dalla fine degli anni ottanta ha cominciato a offrire caffè in locali appositamente concepiti, incontrando un grande successo e arrivando ad aprire oltre 20.000 locali nel mondo, di cui quasi la metà negli Stati Uniti. La principale chiave del suo successo risiede probabilmente nel fatto che concepisce il suo ruolo come una sorta di missione. Non si limita infatti alla torrefazione e alla vendita del caffè in tazza, ma vuole offrire la possibilità di degustare questa bevanda in locali piacevoli, caldi e rilassanti. Tali luoghi sono tutti diversi tra loro (proprio come i bar italiani), pur conservando comunque dei forti tratti d’identità in comune, a cominciare dal mix ben pianificato di materiali organici e materiali prodotti dagli esseri umani. Starbucks, inoltre, presenta il caffè come una salutare alternativa all’alcol, ma soprattutto come un prodotto con una profonda cultura alle spalle che è necessario conoscere e valorizzare. Cerca infatti costantemente di istruire i suoi clienti per trasformarli in veri intenditori del caffè, nella consapevolezza, ovviamente, che creare una cultura del caffè serve anche a sviluppare il consumo dei suoi prodotti. Ogni locale Starbucks è dunque molto più di un bar, è una sorta di “cantina” che offre principalmente una ricca selezione di caffè provenienti da tutto il mondo, insieme ad altri generi di conforto: bevande varie, piccola pasticceria, gelati, ecc. Il successo di questa catena è stato tale negli scorsi anni che anche un gigante della ristorazione mondiale come McDonald’s non ha potuto fare altro che cercare di riprodurne la for-

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mula attraverso i suoi McCafé. E anche dei produttori di caffè come Lavazza e Illy stanno seguendo la stessa strada. Pret a manger è invece una catena di ristorazione che è nata a Londra e si è poi sviluppata sia in Inghilterra che all’estero. Oggi conta circa 300 ristoranti e si caratterizza per la sua proposta ibrida di cibi allo stesso tempo veloci e assolutamente naturali. I suoi locali, infatti, non hanno nulla di quel look “mortificante” che ha tradizionalmente caratterizzato i ristoranti vegetariani: sono realizzati con un grande impiego di acciaio e presentano un aspetto decisamente high tech. In tali locali campeggia solitamente al centro un grande frigorifero self service dove i clienti possono rifornirsi di alimenti naturali (insalate, sandwich, macedonie, succhi, ecc.), ma anche oralmente gratificanti. Perché non soltanto l’ambiente, ma anche i prodotti di Pret a manger rifuggono dal cliché del cibo salutare necessariamente povero e punitivo. Soprattutto nel banco dei prodotti caldi, dove il personale offre croissant, dolci, caffè e cappuccini di buona qualità. Dunque, la scelta vincente di Pret a manger è stata quella di evitare quelle convenzioni culturali che portano a vivere tutto ciò che è ecologico come austero e semplice e di proporre invece un’ecologia “accessibile”, comunicata in maniera chiara e popolare. A cominciare dal nome stesso della catena, che esprime immediatamente la natura di ciò che viene offerto, data l’universale conoscenza del termine «prêt-à-porter» da cui deriva. La vocazione popolare è perseguita anche con la già sottolineata centralità nei locali del frigorifero a libero servizio, che evita ai clienti ogni timore reverenziale (oltre a consentire alla società di economizzare sulle spese di personale), e la collocazione strategica in zone di grande afflusso di persone. La sensibilità per la comunicazione è un altro dei punti di forza di Pret a manger. La filosofia ecologista molto particolare dell’azienda è comunicata, ad esempio, tramite vistosi testi verbali presenti sulle vetrine dei locali e sulle confezioni trasparenti dei prodotti. Pret a manger riserva inoltre una costante attenzione alla coerenza della sua immagine di marca, pur nella diversità di metrature e disposizioni dei locali. Lo dimostra l’assidua presenza della stella a cinque punte che costituisce il simbolo visivo della marca e che si può ritrovare persino sulla schiuma del cappuccino che viene offerto.

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Dunque, il tema della naturalità e della salubrità degli alimenti, essendo centrale nell’attenzione delle persone, è oggi fondamentale anche nelle nuove proposte formulate dalle catene di ristorazione. L’ha portato avanti, ad esempio, anche la catena di ristoranti e supermercati Eataly dell’imprenditore piemontese Oscar Farinetti, sebbene declinandolo soprattutto dal punto di vista del recupero della tradizione gastronomica italiana (Farinetti, 2008). Eataly oggi dispone di una decina di locali in Italia, 12 in Giappone e uno di 7.000 metri quadrati nel centro di New York, ma negli Stati Uniti sta per aprirne molti altri. Analoga è la proposta sviluppata nell’ambito delle gelaterie dalla Grom, un’azienda creata nel 2003 da Guido Martinetti e Federico Grom che, dopo aver creato numerosi punti vendita in Italia, ne sta aprendo anche all’estero (Grom, Martinetti, 2012). Non mancano però anche in Italia proposte di catene incentrate su temi spettacolari molto simili a quelli presenti all’estero. Un esempio di questo tipo può essere Old Wild West, che oggi dispone di quasi 100 ristoranti assolutamente identici nell’ambientazione interna ai tanti saloon resi celebri dal cinema western hollywoodiano. Il processo di sviluppo di quell’articolato mondo dei ristoranti a tema che abbiamo succintamente descritto è reso possibile dal fatto che nelle società ipermoderne la natura simbolica e comunicativa dell’alimentazione diventa sempre più evidente. Inoltre, quanto più aumenta il benessere materiale degli individui, tanto più gusti ed abitudini alimentari cominciano a formarsi e a mutare velocemente e in maniera imprevedibile, uniformandosi così alle dinamiche già operanti in altri settori, come ad esempio quello dell’abbigliamento. Il cibo cioè, non solo si fa sempre più simbolo e significato, ma anche, e probabilmente di conseguenza, moda. Aeroporti: i nuovi shopping center Sino a pochissimi anni fa, gli aeroporti venivano generalmente considerati dei luoghi che dovevano essere poco ospitali, anonimi e collocati lontano dalla città, perché quasi da nascondere. Erano cioè dei semplici luoghi di transito, concepiti per passarci solamente il tempo necessario a espletare le formalità necessarie per volare.

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Ma, progressivamente, ci si è accorti che, non solamente la quantità di passeggeri che accoglievano cresceva per effetto del processo di liberalizzazione dei mercati internazionali e del successo ottenuto dalle nuove compagnie low cost, ma si trattava anche di luoghi dove parecchi individui di livello socioeconomico elevato erano costretti a passare molto tempo e dunque era possibile offrire loro delle proposte commerciali appositamente studiate. Il fenomeno, in realtà, ha riguardato anche le stazioni, i porti, gli autogrill e le aree di sosta sulle autostrade, cioè tutti quei luoghi che sono stati racchiusi nell’etichetta «spazi di transito» (Pomodoro, 2013), ma nel caso degli aeroporti è stato particolarmente evidente. Dunque, ad un certo punto tali luoghi hanno tentato di essere più attraenti, migliorando la loro offerta di servizi e il loro aspetto estetico. Prima timidamente, con il generalizzato arricchimento dell’offerta di cibi e con l’innovativo esempio rappresentato dall’aeroporto di Chicago, che alla fine degli anni ottanta era quello che negli Stati Uniti aveva il maggior volume di traffico. Tale aeroporto, infatti, ha commissionato delle installazioni artistiche, come una scultura al neon con effetti musicali di tipo elettronico collocata nella galleria che collegava i due principali terminal. E similmente l’aeroporto di San Francisco ha riempito un corridoio con mostre temporanee di artigianato e arti minori, ma anche design d’avanguardia. Il vero cambiamento però è avvenuto quando si è cominciato ad affidare agli architetti l’incarico di progettare aeroporti dotati di un ambiente famigliare e maggiormente collegato con la città vicina. Cioè con i più recenti interventi di allargamento degli aeroporti esistenti e soprattutto con la progettazione di nuovi aeroporti, realizzata avendo come obiettivo la trasformazione di questi luoghi in aree di divertimento e di consumo (Gottdiener, 2001). In Europa, esemplare è il caso dell’aeroporto di Francoforte, che con quasi 60 milioni di passeggeri si trova al terzo posto del continente (dopo Londra e Parigi) per volume di traffico. Tale aeroporto infatti sembra svolgere per il visitatore ormai più una funzione di centro commerciale che di vero e proprio “porto” per gli aerei. Si pensi che nella sequenza infinita di ristoranti etnici, negozi di abbigliamento e accessori è possibile trovare una grande clinica medica, dei centri estetici e di benessere, la discoteca più frequentata della città e persino due sexy

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shop. Ma, limitandoci all’Europa, simili sono i casi dello Schwechat di Vienna, del Klotern di Zurigo e dello Schiphol di Amsterdam. Quest’ultimo, ad esempio, contiene un parco di quasi 2.000 metri quadrati (con alberi secolari, tavoli da picnic, suoni artificiali di cinguettii e risate di bambini e immagini di farfalle proiettate sui muri) e una sede distaccata del Rijksmuseum, che consente ai viaggiatori di fruire della vista di opere dei più importanti pittori olandesi. Ma è soprattutto esemplare il caso dell’aeroporto londinese di Heathrow, che, dopo l’apertura nel 2008 del gigantesco Terminal 5 progettato da Richard Rogers con la collaborazione di Vico Magistretti, è diventato l’aeroporto più grande d’Europa, con circa 70 milioni di passeggeri e quasi 50.000 metri quadrati di spazio dedicato alle attività commerciali (144 negozi e 125 ristoranti). Anche qui però è stata aperta una galleria d’arte, in questo caso di giovani artisti emergenti. Analoga sta diventando la situazione di tutti gli aeroporti italiani più significativi, ma gli esempi più eclatanti, dopo il fallimento dell’operazione di allargamento di Malpensa, sono da ricercare soprattutto all’estero. Come il Chek Lap Kok, l’aeroporto di Hong Kong progettato da Norman Foster e realizzato in parte sulla terraferma, ma soprattutto su un’isola artificiale appositamente costruita e che contiene anche un albergo di 1.200 stanze, oltre 140 negozi e un campo da golf con 9 buche. Gli aeroporti, dunque, tendono sempre più a diventare simili agli shopping center. Proprio per questo motivo, esattamente come gli alberghi e i ristoranti, devono cercare di vendere prima di tutto se stessi. Eccoli perciò ricorrere ai progettisti maggiormente alla moda che attribuiscono loro una specifica identità con architetture innovative e sorprendenti, come testimoniano oggi parecchie realizzazioni aeroportuali: Osaka-Kansai di Renzo Piano, Londra-Stansed di Norman Foster, Bilbao di Santiago Calatrava, Madrid di Richard Rogers. Ne deriva che «Lo spazio nel suo complesso, sia esterno che interno, viene concepito e progettato per produrre un’esperienza di visita coinvolgente, intensa, memorabile» (Pomodoro, 2013, p. 141). Si pensi, ad esempio, al Singapore Changi Airport, che offre ai suoi viaggiatori un cinema che proietta film in 4D, una piscina e lussureggianti giardini tropicali con cactus e orchidee. O, ancora, all’aeroporto di Kuala Lumpur, in Malesia, che comprende un parco

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a tema sulla cultura locale, un parco per poter effettuare un safari e dei centri che consentono di svolgere attività sportive di vario genere (golf, equitazione, pesca, tiro, ecc.). E all’aeroporto di Pechino, che dal 2008 può contare sul Terminal 3, l’edificio coperto più grande del mondo (un milione e 300.000 metri quadrati), firmato da Richard Rogers e con una copertura rossa a scaglie triangolari che richiama alla mente la tipica pelle di un dragone cinese. Naturalmente, esistono anche dei veri e propri “aeroporti a tema”. Ne costituisce un esempio quello che può essere considerato il primo aeroporto ecologico al mondo: Gardermoen. Inaugurato ad Oslo nel 1998, presenta un aspetto estremamente rilassante: vi sono opere d’arte disseminate ovunque, sono stati ridotti al minimo i rumori superflui, sono presenti una “camera del silenzio” per chi voglia praticare la meditazione e sei postazioni per il relax sonoro, che consentono di sentire i suoni della natura (il rumore del vento, lo scrosciare di un ruscello di montagna, il cinguettio di un uccellino). Inoltre, Gardermoen è completamente circondato da alberi, mentre l’edificio dell’aerostazione è stato quasi completamente costruito con materiali naturali (a cominciare da numerosi tipi di legno). Per ridurre al minimo l’impiego di cemento, la struttura dell’edificio è stata dotata di un’enorme vetrata che gira tutt’attorno ed è stata riservata un’elevata attenzione alla riduzione dell’impatto ambientale dell’intero complesso. Il successo di queste strutture risiede però anche nel fatto che sfruttano una condizione di particolare vulnerabilità dei viaggiatori. Questi infatti, quando sono in aeroporto, si trovano generalmente ad essere vittime di una situazione di stress psicologico crescente fino al momento del superamento del controllo bagagli. Una situazione acuita dai numerosi controlli di sicurezza introdotti dopo la tragedia delle Twin Towers del 2001. Superati però tutti i controlli, i viaggiatori tendono a rilassarsi (almeno fino al momento dell’imbarco) e, come è stato dimostrato (Scholvinck, 2000), diventano particolarmente disponibili nei confronti degli stimoli a consumare che ricevono. Vale a dire che si trasformano in soggetti deboli e particolarmente influenzabili, che non esercitano più quell’attività di controllo razionale cui farebbero ricorso in una qualsiasi situazione di normalità.

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L’operazione funziona anche perché, come ha messo in luce Gottdiener (2001), i viaggiatori sono particolarmente ben disposti nei confronti delle strutture aeroportuali, in quanto vi vedono la possibilità di un cambiamento esistenziale, ovvero di una fuga dalla realtà, di un’evasione dalla routine per approdare in una condizione piacevole ed eccitante. Ciò ne costituisce la principale ragione di successo, ma rimane comunque una possibilità che non sempre si realizza. Anche perché l’aeroporto rimane pur sempre un luogo di passaggio. Sembra a prima vista riprodurre le fattezze delle città e poter offrire agli individui la stessa ricchezza di possibilità posseduta da queste, in realtà è notevolmente differente ed è in grado di sviluppare soltanto alcune delle principali funzioni urbane.

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5. I PARCHI DI DIVERTIMENTO

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Prima dei parchi I parchi di divertimento costituiscono un fenomeno particolarmente importante delle società contemporanee sia dal punto di vista economico che da quello sociale. I principali parchi sono infatti dei grandi “magneti” in grado di attirare ogni anno diverse decine di milioni di visitatori. Soltanto i parchi Disney che si trovano nell’enorme complesso Disney World di Orlando in Florida (Magic Kingdom, EPCOT, Disney’s Hollywood Studios, Disney’s Animal Kingdom e altri parchi minori) vengono visitati annualmente da circa 50 milioni di persone, mentre, secondo la IAAPA (International Association of Amusement Parks and Attractions) i numerosi parchi europei ricevono complessivamente ogni anno circa 150 milioni di visitatori. I parchi di divertimento si caratterizzano solitamente per la loro capacità di offrire all’individuo numerose esperienze coinvolgenti per il fisico e per la mente. Si tratta perciò di luoghi complessi che sono composti da elementi molto differenti: intrattenimento, gioco, socializzazione, istruzione, tecnologie avanzate, consumo, ecc. Ne deriva che è estremamente difficoltoso tentare una classificazione di tali parchi, ma almeno due categorie spiccano al loro interno in modo particolare: i parchi d’attrazione e i parchi a tema. Meritano pertanto un approfondimento, a cominciare dalla prima categoria, che può essere considerato il modello originario da cui sono derivati tutti gli altri tipi di parchi di divertimento. Se è vero però che i parchi d’attrazione sono stati storicamente il primo modello di parco ad avere uno sviluppo autonomo, è vero anche che hanno rappresentato la sintesi di una lunga storia di spettacoli e divertimenti inventati e realizzati dagli esseri umani. Hanno infatti

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delle origini che si perdono all’interno di quegli spettacoli di varia natura che erano presenti già nell’antichità. Ma il loro sviluppo è stato influenzato soprattutto da ciò che è comparso nell’epoca moderna. Innanzitutto, la tradizione degli spettacoli popolari che viaggiavano in continuazione per fiere e sagre di paese. Tali spettacoli si confondevano con i mercati e si svolgevano solitamente in piazze che erano piene di confusione e animate da banchetti di dolciumi e spazi per la vendita del bestiame. Il divertimento offerto consisteva per lo più in prove di forza tra uomini e animali, incontri di pugilato o vere e proprie gare, quali ad esempio il tiro alla fune e la corsa con i carri (Minardi, Lusetti, 1998). Nel corso dell’Ottocento, gli spettacoli singoli si sono sempre più aggregati tra loro, per potersi aiutare reciprocamente, ma anche per avere una maggiore capacità di attrarre degli spettatori. Sono nati così i primi lunapark, che si spostavano in continuazione da una città all’altra. Sempre nell’Ottocento, hanno fatto progressivamente la loro comparsa le prime rudimentali attrazioni meccaniche (come le giostre con cavalli di legno) e delle attrazioni che richiedevano particolari abilità: i cavallerizzi, gli acrobati, i mangiafuoco, ecc. Spesso venivano esposti anche esseri umani “mostruosi” (nani, gemelli siamesi, uomini con due teste, donne barbute, donne cannone, ecc.) oppure esseri umani considerati esotici e selvaggi, provenienti da tribù primitive e presentati all’interno di ricostruzioni artificiali del loro habitat (Martini, 2007). Tali esibizioni etnologiche erano presenti anche nei circhi, sviluppatisi dopo che Philip Astley aveva cominciato a dare forma, a partire dal 1773, a questo nuovo modello di spettacolo. Ed erano soprattutto presenti nel circo più grande del mondo, quello di Phineas Taylor Barnum, colui che ha maggiormente innovato il mondo circense (Barnum, 1972). È stato dato un notevole spazio a questo genere di esibizioni anche all’interno degli zoo, che hanno cominciato a diffondersi a partire dal Settecento, ma hanno ottenuto un notevole successo di pubblico tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. A New York, ad esempio, lo zoo del Bronx ha esposto nel 1906, all’interno della gabbia dell’orango Dolong, Ota Benga, che era stato già mostrato due anni prima come pigmeo alla fiera di Saint Louis. Ha esposto cioè

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insieme quelli che all’epoca venivano considerati il più umano tra i primati e il più “scimmiesco” tra gli esseri umani. Un altro importante antecedente del modello dei parchi d’attrazione contemporanei è rappresentato dalle esposizioni universali che si sono tenute nelle principali città mondiali nella seconda metà dell’Ottocento e su cui ci siamo soffermati a lungo in precedenza. Poiché però tale modello si è sviluppato soprattutto negli Stati Uniti, occorre considerare fondamentale la diretta influenza esercitata su tale modello dalle grandi esposizioni universali organizzate in quel Paese. Anche il cinema, dopo l’invenzione avvenuta nel 1895 ad opera dei fratelli Lumière, è andato rapidamente ad assumere un ruolo spettacolare importante nella cultura sociale. Così, è stato inserito sia nelle esposizioni universali che nei parchi d’attrazione. E insieme al cinema si sono sempre più diffusi socialmente anche numerosi strumenti ottici per la proiezione di immagini che erano già attivi negli anni precedenti dell’Ottocento. Si trattava di strumenti in grado di sorprendere lo spettatore attraverso «quadri viventi» o simulazioni di paesaggi e di viaggi sulle carrozze dei treni: la lanterna magica, la fantasmagoria, il panorama e il diorama (Pesenti Campagnoni, 2007). Infine, tra gli antecedenti alla nascita dei parchi d’attrazione vanno ricordati anche i musei delle cere. Come il parigino Museo Grévin, fondato nel 1882 dall’omonimo caricaturista, e il Madame Tussauds, aperto a Londra nel 1884, ma in realtà soltanto trasferito nella capitale britannica dall’originaria sede parigina inaugurata nel 1770 dal pioniere Philippe Curtis. Il Museo Grévin era particolarmente ricco di personaggi storici e comprendeva anche un’attrazione altamente spettacolare come il Palais des Mirages che lo scrittore Joseph Roth ha descritto con queste parole: «Al centro ci sono delle colonne, la cui funzione non è sostenere il soffitto, ma moltiplicare se stesse. È un sistema particolare di specchi rotanti che provocano un fracasso incredibile non appena li si mette in moto. Per coprire il fracasso, un organo meccanico suona una musica operistica che sembra provenire da cieli di porcellana, sfere di ottone e pianeti di stagnola. Per un momento si fa buio pesto. Una pausa che serve a preparare i sensi eccitati a una nuova fiaba e dà a tutti i visitatori l’opportunità

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di percepire come ignote meraviglie, nel buio, i corpi familiari delle loro accompagnatrici. Poi, alla luce di centomila lampade e lampadari, l’ambiente lentamente s’illumina di viola, giallo, verde, blu e rosso, e ci si ritrova in un palazzo orientale, sorretto da colonne trasparenti. Pochi minuti prima c’erano ancora querce e aceri fronzuti, e ci si trovava in un bosco da fiabe francesi e tedesche con cinguettii d’organo. Subito dopo si ode nuovamente un rombo, e in un baleno siamo sotto una tenda blu di stelle e comete» (1997, p. 36). In sostanza, si può dire che alla fine dell’Ottocento il parco d’attrazione si presentava già con un’identità ben definita e che tale identità era il risultato di un processo di sintesi e rielaborazione di numerose forme spettacolari che l’avevano preceduta. Di conseguenza, si trattava di un’identità dalla natura ibrida, anche perché mescolava efficacemente attrazioni meccaniche, ottiche e dal vivo (Darley, 2006). Coney Island Negli Stati Uniti, i parchi d’attrazione hanno cominciato ad apparire già all’inizio dell’Ottocento. Ma tra l’Ottocento e il Novecento ha preso vita a Coney Island (un’isola vicina a quella di Manhattan e considerata la spiaggia di New York) un sistema di parchi di grandi dimensioni che può essere considerato il più importante modello sviluppato dal mondo dei parchi d’attrazione (Kasson, 1978) e merita perciò di essere analizzato approfonditamente. Lo sviluppo turistico di Coney Island è stato incentivato dalla costruzione dei nuovi ponti di Manhattan (come il ponte di Brooklyn, inaugurato nel 1883) e dallo sviluppo dei moderni sistemi di trasporto, che l’hanno resa più facilmente accessibile. La prima ferrovia ha attraversato l’isola nel 1865 e arrivava sino in riva al mare. La spiaggia della costa oceanica di Coney Island è diventata così per gli abitanti di Manhattan un obiettivo facilmente raggiungibile e pertanto si è progressivamente istituzionalizzata come un’abituale meta di massa durante i fine settimana. Secondo l’architetto Rem Koolhaas (2001), nel periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento Coney Island ha svolto un ruolo di laboratorio urbanistico in costante cambiamento, un laboratorio nel

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quale sono state sperimentate molte delle soluzioni di cui Manhattan si è in seguito appropriata. Soprattutto però ciò che è avvenuto a Coney Island è stata la rapida costruzione di un sistema di parchi d’attrazione unico al mondo. Dapprima vi è approdata nel 1878 una torre alta 90 metri che proveniva dalla grande esposizione Centennial Celebration di Philadelpia. Tale torre ha avuto sin dall’inizio un notevole successo di pubblico, grazie alla spettacolare vista dall’alto che consentiva. È stata affiancata nel 1883 da un’altra attrazione: il Giro della Morte. Si trattava di un carrello con quattro passeggeri che si muoveva velocemente su un binario in grado di compiere un giro attorno a se stesso. L’anno successivo il Giro della Morte è stato affiancato da un’attrazione di dimensioni ancora maggiori: le «montagne russe» (il cui nome derivava dal fatto che erano state inventate in Russia a metà del Seicento). E insieme a queste sono arrivate anche: Sfreccia sullo scivolo, cioè un toboga che veniva issato meccanicamente su una torre per farlo poi scendere su un piano inclinato che finiva nell’acqua, e delle attrazioni “erotiche” come le Botti dell’Amore (due cilindri rotanti che facevano cadere uomini e donne gli uni sopra le altre) e il limitrofo Tunnel dell’Amore (dove le coppie salivano su delle imbarcazioni e scomparivano in un tunnel buio che conduceva a un lago interno). Successivamente, l’imprenditore George Tilyou ha pensato di creare Steeplechase («percorso di siepi»), cioè una lunga rotaia che passava attraverso una serie di paesaggi naturali e sfruttava la gravità come forza motrice per far muovere una mandria di cavalli meccanici che potevano essere facilmente cavalcati da chiunque. L’attrazione rimaneva aperta tutto il giorno e ha avuto da subito un enorme successo. Così Tilyou ha deciso di affiancare allo Steeplechase altre attrazioni, tra cui una ruota panoramica proveniente dall’Esposizione Universale di Chicago del 1893 e Terremoto, un piano vibrante che consentiva di provare la drammatica esperienza delle scosse sismiche. Tilyou ha così progressivamente dato vita a una sua specifica area di divertimento, che nel 1897 ha pensato di separare fisicamente dal resto dell’isola erigendovi attorno un muro. Inoltre, ha fatto costruire degli ingressi sormontati da archi trionfali coperti da figure di clown e da maschere comiche e ha dato al nuovo spazio il nome di Steeplechase Park.

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Le folle newyorkesi sono accorse in misura sempre maggiore a Coney Island. Si sono perciò dovute creare delle nuove strutture ricettive, naturalmente in sintonia con lo spirito del luogo, come un hotel a forma di elefante, che ospitava un negozio di sigari in una delle zampe anteriori e un diorama nell’altra. Il problema di Coney Island era però che lo spazio costiero era limitato e insufficiente ad accogliere l’enorme quantità di persone che già all’epoca risiedevano a Manhattan e avevano voglia di andare al mare e di divertirsi. Per questo, con l’arrivo dell’elettricità, si è pensato d’illuminare la costa e di aumentare così lo sfruttamento temporale dell’isola, dando la possibilità di fare il bagno anche di sera e di notte. Possibilità che non era vissuta come una soluzione di second’ordine, ma come un comportamento alla moda, ovvero come un eccitante «bagno elettrico». Visto il successo di Steepplechase Park, ma anche grazie alle maggiori possibilità di raggiungere l’isola determinate dall’apertura del nuovo ponte di Williamsburg, a Coney Island è stato costruito un secondo parco: Luna Park. Inaugurato nel 1903, si è presentato da subito come il più grande del mondo. L’imprenditore Elmer Dundy e l’architetto Frederick Thompson hanno inoltre dato vita a un parco d’attrazione che si avvicinava in parte al concetto contemporaneo di parco a tema. In effetti, il nome Luna è stato scelto perché l’intenzione dei due promotori era di dare ai visitatori l’impressione di entrare all’interno di un altro mondo e cioè su un frammento della superficie lunare. Perciò in un’attrazione collocata al centro del parco era possibile, grazie all’effetto prodotto da un diorama in movimento, venire trasformati in astronauti che facevano un viaggio simulato mediante un’aeronave che muoveva le sue enormi ali e si innalzava a 30 metri d’altezza. Nella zona centrale di Luna Park, che dava lavoro nella stagione estiva a circa 1700 persone, c’era un lago che richiamava la grande laguna che caratterizzava la struttura dell’Esposizione Universale di Chicago del 1893. A una delle estremità di Luna Park si trovava l’attrazione di grande successo Sfreccia sullo scivolo, ma a caratterizzare soprattutto l’identità di questo parco era una selva infinita di torri che crescevano in continuazione. Tre anni dopo l’apertura del parco, il progettista Thompson dichiarava orgogliosamente che vi

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si potevano contare ben 1221 tra torri, guglie e cupole. Il che evidentemente incrementava la somiglianza di Luna Park con l’area di Manhattan, che all’epoca era già discretamente invasa dai grattacieli. Ciò avveniva soprattutto di notte, dopo che i profili delle torri del parco sono stati evidenziati installandovi dei fili elettrici con delle lampadine. In tutto, le lampadine impiegate per l’illuminazione del parco erano circa un milione e trecentomila e svolgevano anche la funzione di rassicurare i visitatori, perché davano loro l’impressione di essere protetti dai pericoli abitualmente presenti nella metropoli: furti, violenze, catastrofi, ecc. (Lukas, 2007). A Luna Park c’erano naturalmente moltissime altre attrazioni, tra cui Fuoco e Fiamme (uno spettacolo che si svolgeva in un auditorium all’aperto dove dei vigili del fuoco spegnevano dei paurosi incendi), Stagno per la Pesca (dove convivevano pesci vivi e pesci meccanici) e i Giardini Pensili Babilonesi (creati facendo crescere 160.000 alberi sui tetti e dando vita così a spettacolari giardini sopraelevati in grado di aumentare la capienza del parco di più di 70.000 persone). Il parco rivale Steeplechase ha reagito alla concorrenza esercitata da Luna Park racchiudendo tutte le attrazioni all’interno di un’unica grande copertura di vetro, costruita a imitazione di quella del Crystal Palace di Londra. Ma questa innovazione in realtà, anziché incrementare l’attrattività del parco, l’ha ridotta, perché le singole attrazioni hanno perso sul piano dell’identità in quanto sono state omogeneizzate dal tetto comune e le facciate spoglie della nuova struttura hanno ridotto la capacità di suscitare interesse presso i potenziali visitatori. Complessivamente però Coney Island ha continuato ad avere un grande successo. Soltanto a Luna Park nel 1907, cioè a quattro anni dall’inaugurazione, i biglietti venduti in totale erano più di 60 milioni. Ma nell’isola c’era comunque spazio per un altro concorrente. Così, il senatore William H. Reynolds ha pensato di creare un terzo parco: Dreamland. Tale parco è stato progettato attorno a un’insenatura dell’Atlantico e i suoi portici d’ingresso sono stati collocati sotto gigantesche navi di gesso a vele spiegate, per dare ai visitatori l’impressione di entrare in un parco che si trovava in un terreno sommerso. Inoltre, tutto è stato dipinto di bianco, per accentuare l’effetto

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d’immersione in un mondo sottomarino, ma anche per differenziare ulteriormente il nuovo parco dai due predecessori, che presentavano invece degli edifici vivacemente colorati. Per attribuire cioè al parco Dreamland un’immagine di pulizia e ordine e anche un’immagine in grado di differenziarlo dal caos e da quella mescolanza di razze che caratterizzavano la vita nella vicina Manhattan. Dreamland era disposto a ferro di cavallo attorno ad una laguna e la sua struttura era stata progettata con ampi spazi in modo da poter accogliere sino a 250.000 visitatori al giorno. Un battello a vapore collegava ogni ora Manhattan direttamente con il parco. Le attrazioni di Dreamland in parte erano simili a quelle degli altri due parchi, in parte erano originali. Generalmente erano basate su sistemi ad acqua in grado di assicurare il movimento dei visitatori. Le montagne russe del parco erano le più grandi sino ad allora costruite. C’erano poi una sala da ballo (i cui 2.500 metri quadrati ne facevano anche in questo caso la più grande al mondo), la simulazione di un viaggio in sottomarino, l’Edificio Incubatore (un ospedale ultramoderno dove molti dei bambini di New York nati prematuramente venivano accolti e assistiti con incubatrici e attrezzature particolarmente avanzate), la Cupola Blu della Creazione (la più grande cupola esistente, all’interno della quale era possibile per il visitatore andare all’indietro nella storia sino ad arrivare al momento drammatico e spettacolare insieme della creazione), un circo con la più grande raccolta di animali addomesticati al mondo, un’attrazione che metteva in scena La Fine del Mondo così come era stata raccontata da Dante nella Divina Commedia, la simulazione di un volo su Manhattan prima ancora che il primo aeroplano prendesse il volo, un’accurata ricostruzione di Venezia (che era posta all’interno di un palazzo riproducente il Palazzo Ducale ed era visitabile con delle vere gondole), il Viaggio in Svizzera (che simulava un viaggio sulle Alpi a bordo di una slitta ed era dotato di un potente impianto di raffreddamento che diffondeva aria ghiacciata), la Lotta contro il fuoco (un ambiente metropolitano perfettamente ricostruito con strade, case e un hotel, dove vivevano vigili del fuoco che si esibivano periodicamente spegnendo l’incendio di un edificio di quattro piani), la Rimessa del Dirigibile (mezzo con il quale era possibile effettuare un vero volo sopra Coney Island), il Treno saltatore (con due treni a forma di proiettile che

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procedevano a tutta velocità sullo stesso binario in senso contrario e magicamente non si scontravano perché erano dotati sul tetto di rotaie ricurve che permettevano all’uno di passare sopra all’altro), la Beacon Tower (cioè una torre alta 115 metri con due ascensori e un potentissimo faro visibile a 30 miglia di distanza) e, infine, varie simulazioni di disastri come l’eruzione del Vesuvio che ha causato la distruzione di Pompei, gli incendi di Roma e Mosca e il terremoto di San Francisco. L’attrazione più innovativa di Dreamland era però Lillipuzia, una piccola città dove erano stati chiamati a vivere 300 nani che lavoravano in precedenza come attrazioni in diverse esposizioni mondiali. Si trattava dunque di un laboratorio di vita sociale assolutamente unico. La “città dei nani” comprendeva addirittura un parlamento e una caserma dei vigili del fuoco e attirava i visitatori anche perché in essa la direzione del parco incentivava fortemente dei comportamenti ritenuti all’epoca immorali: promiscuità sessuale, omosessualità, ninfomania, ecc. I parchi di Coney Island hanno fatto scuola negli Stati Uniti, dove nel 1919 si potevano contare tra i 1.500 e i 2.000 parchi d’attrazione attivi. Inoltre, all’esterno delle maggiori città si sono diffusi anche i trolley park, aperti dalle compagnie di trasporto per promuoversi, ma anche per incentivare l’uso dei mezzi pubblici nei fine settimana allo scopo di ammortizzare il canone fisso che le imprese di distribuzione dell’energia elettrica facevano loro pagare. Nel maggio del 1911, l’impianto d’illuminazione dell’attrazione La Fine del Mondo di Dreamland è andato in cortocircuito e il forte vento proveniente dal mare ha alimentato un incendio che ha distrutto completamente il parco, successivamente trasformato in un parcheggio per automobili. Nel 1914, invece, un altro incendio ha distrutto Luna Park. Solo Steeplechase è rimasto indenne, ma le sue attrazioni hanno subito un processo di degrado progressivo che è stato ulteriormente peggiorato dalla Grande Depressione del 1929 e dall’arrivo della seconda guerra mondiale, che hanno imposto un drastico ridimensionamento alle attività delle industrie del divertimento. E Coney Island è diventata così in parte un luogo frequentato da malavitosi di vario genere, in parte un ghetto multietnico occupato in successione da italiani, afroamericani e russi. Il suo esempio

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continua però a fungere da modello di riferimento per i parchi d’attrazione odierni.

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I parchi d’attrazione Inizialmente, i parchi d’attrazione erano, come si è detto, esclusivamente itineranti. In seguito, come nel caso di Coney Island, hanno cominciato a insediarsi in maniera stabile su qualche terreno. D’altronde, parallelamente si è sviluppata quella politica di specializzazione funzionale degli spazi che si è resa necessaria per razionalizzare la grande crescita fatta registrare dalle città e ha dato origine anche a zone urbane specificamente adibite ad attività di divertimento. È avvenuta perciò una progressiva stabilizzazione dei parchi d’attrazione che ha consentito a tali parchi di definire con sempre maggiore precisione quelle caratteristiche comuni che ora cercheremo sinteticamente di delineare. Innanzitutto, va considerato che già nei parchi d’attrazione di un secolo fa, come ha scritto Andrew Darley, «Dal momento in cui entravano nel parco e per tutta la durata della loro visita, gli spettatori erano sistematicamente coinvolti e spinti a partecipare attivamente, a diventare attori essi stessi, contribuendo così allo spettacolo d’insieme» (2006, p. 75). Dunque, la sensazione di evadere dalla vita quotidiana e di entrare in una realtà differente era particolarmente intensa nei parchi d’attrazione del passato ed è rimasta tale ancora oggi. Il parco d’attrazione comunque ha progressivamente definito un suo modello. Secondo Marialuisa Lusetti (Minardi, Lusetti, 1998), a partire dalla metà del Novecento tale modello può essere sostanzialmente considerato costituto da tre tipologie di attrazioni. La prima è rappresentata dall’«ebbrezza della velocità», cioè da una situazione che fa provare all’individuo una sensazione particolarmente intensa di paura e di rischio. Come ad esempio l’attrazione Superman: Escape from Krypton, che si trova nel parco californiano Six Flags Magic Mountain e consente un’ascesa verticale su una torre alta come un edificio di 41 piani con un’accelerazione da 0 a 160 chilometri orari in 7 secondi. Oppure come le montagne russe del parco Ferrari

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World di Abu Dhabi, che portano da 0 a 220 chilometri orari in 4 secondi. Ci sono poi le cosiddette «attività mimetiche», le quali si basano su una riproduzione della realtà che avviene solitamente attraverso un processo di miniaturizzazione della realtà stessa (piccoli treni, piccole automobili, personaggi del mondo delle fiabe trasformati in giostre rotanti, ecc.). Infine, la terza tipologia di attrazioni è costituita dalle attrazioni del terrore e del mistero, le quali generalmente sfruttano il gusto dell’orrore e del macabro (castelli, labirinti, treni fantasma, ecc.) per fare sperimentare ai visitatori una sensazione di paura controllabile. Ma a fianco di queste ci sono anche le attrazioni in grado di sorprendere e impaurire gli spettatori mettendo in scena spettacoli d’azione con stuntmen e acrobati che spesso imitano scene provenienti da celebri film. Ciò che però è soprattutto importante, come si diceva, è che nei parchi d’attrazione, a differenza di altre forme tradizionali di spettacolo, lo spettatore viene totalmente coinvolto. Il suo intero corpo è bombardato da sensazioni di differente natura: non sono soltanto l’occhio e l’orecchio a essere interessati, ma tutti i sensi, che vengono continuamente messi in movimento, stimolati e sedotti. Quello che oggi soprattutto i parchi d’attrazione promettono è la possibilità di sperimentare delle sensazioni di vertigine molto forti. E tale risultato viene generalmente ottenuto con una curiosa inversione rispetto a quell’immagine di allegria e felicità che questi luoghi sembrano a prima vista suscitare. Il genere di spettacoli infatti che lo spettatore può più frequentemente incontrarvi è basato su dei drammi: orrori, disastri, terremoti, incendi, ecc. Esattamente ciò che, come abbiamo visto, veniva già offerto dai parchi d’attrazione operanti nel periodo che si colloca a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Ma naturalmente tutto ciò avviene oggi con quella maggiore intensità che può essere raggiunta grazie alle nuove tecnologie disponibili. Probabilmente, rimane ancora operante però la capacità di tali spettacoli di costituire un laboratorio per l’allenamento alla vita metropolitana. Soprattutto per imparare a esorcizzare le ansie e le paure suscitate dalle nuove condizioni di esistenza, che prevedono il con-

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fronto con ritmi sempre più accelerati e processi di cambiamento intensi e in grado di generare instabilità sociale, incidenti e disordini. Non è un caso perciò che gli spettacoli che vengono messi in scena, oggi come ieri, si concludano solitamente con un lieto fine: i pompieri spengono il fuoco, i poliziotti catturano i ladri, ecc.

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I parchi a tema Disneyland, inaugurato il 17 luglio 1955 a sud di Los Angeles, viene generalmente considerato il primo parco a tema. In seguito la Disney ha dato vita nel mondo a diverse repliche di tale parco (a Orlando, Tokio, Parigi, Hong Kong e prossimamente Shangai) e i concorrenti hanno fatto nascere numerosi parchi sviluppati a partire dai temi più disparati. Ad esempio, il cinema è il tema presentato dagli Universal Studios di Hollywood e Orlando. Ma sono stati aperti negli ultimi anni anche due parchi legati alle avventure del “maghetto” creato dalla scrittrice J.K. Rowling: The Wizarding World of Harry Potter, presso il resort della Universal a Orlando, e The Making of Harry Potter, situato vicino a Londra e che offre la possibilità di entrare in tutti i set originali impiegati nelle varie trasposizioni su grande schermo della celebre saga. E oggi è possibile visitare anche Dickens World, ovvero la ricostruzione realizzata nei pressi di Londra degli ambienti inventati con la fantasia e di quelli realmente abitati dal celebre autore di Oliver Twist, i 6 parchi Legoland, che presentano delle attrazioni costruite naturalmente mediante i celebri mattoncini di plastica colorata, e Rainbow Magic Land, un parco ipertecnologico sorto vicino a Roma e incentrato sulle Winx, le “fatine” italiane divenute famose presso le ragazzine di tutto il mondo. La differenza fondamentale tra il parco d’attrazione e il parco a tema consiste nel fatto che mentre il primo si basa di solito su una giustapposizione di attrazioni che sono scarsamente collegate tra loro, il secondo cerca invece di esprimere la maggiore continuità possibile tra le varie aree in cui è strutturato. In generale, infatti, un parco a tema è caratterizzato dalla presenza di un nucleo concettuale in grado di attribuire uno specifico significato all’intero luogo. Al tema, perciò, è solitamente assegnata una triplice missione: «Assi-

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curare al parco un’identità che lo differenzi dagli altri parchi possibili, in questo senso il tema è un’immagine, una rappresentazione. Assicurare tra i diversi “mondi” del parco e le attrazioni che essi contengono una “attrazione molecolare”, cioè una coerenza interna, in questo senso il tema è un filo conduttore. Offrire un significato “tipico” a delle attrazioni che sono relativamente standardizzate, in questo senso il tema è un pretesto» (Eyssartel, Rochette, 1992, p. 91). In teoria, può essere impiegato qualsiasi tema, ma più questo è riconoscibile e accessibile, più l’identità del parco può essere facilmente definita. Scott A. Lukas (2007) ha classificato i parchi a tema esistenti in quattro categorie: quelli che si fondano sull’idea di autenticità (e cioè che presentano delle ricostruzioni fittizie, ma così credibili da indurre nei visitatori un processo di sospensione dell’incredulità), quelli che impiegano l’idea di nazione come principio di base, quelli che puntano sulla biografia di un individuo particolarmente celebre e quelli che mettono invece al centro dell’attenzione i visitatori (direttamente coinvolti attraverso una spettacolarizzazione interattiva e polisensoriale). Stefano Calabrese (2009, p. 72) ha invece sostenuto che tra tali categorie esistono delle sovrapposizioni di ordine concettuale e che sia meglio ripartire i parchi a tema in due sole classi: da un lato, i parchi fondati sul cinema e la letteratura, dall’altro, i parchi che assumono come riferimento il passato storico. Anche la morale di fondo adottata differenzia il parco d’attrazione dal parco a tema. Laddove infatti il primo ha anche consentito a volte di sperimentare il gusto del proibito, ad esempio con gli spettacoli di strip tease o i padiglioni di lotta violenta, il parco a tema ha sempre rispettato delle norme rigide dal punto di vista morale. Ad esempio, a Disneyland, il parco a tema per eccellenza, sono banditi tutti i riferimenti al sesso, alla religione e alla politica ed è persino proibita la vendita di prodotti a bassa gradazione alcolica (Codeluppi, 2012a). I parchi a tema hanno cominciato il loro sviluppo negli Stati Uniti alla fine degli anni sessanta e durante gli anni settanta, quando molte società (Bally, Marriott, Taft, ecc.) hanno tentato di dare vita a catene aventi l’obiettivo di ripetere il successo ottenuto dalla Disney con la creazione del pionieristico Disneyland. Hanno perciò cercato d’individuare le principali arterie di flusso delle persone per collo-

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carvi i propri parchi, esattamente come già si faceva con i centri commerciali. E come questi, anche i parchi a tema hanno cominciato così a “deterritorializzare” la città. Ma, durante gli anni ottanta, le società che possedevano i parchi a tema, accortesi che questi richiedevano una gestione complessa ed estremamente onerosa sul piano economico, hanno ritenuto opportuno disfarsene, di solito vendendo i loro impianti alle principali società operanti nel settore dei media (Time-Warner, Paramount-Viacom-Blockbuster, MCA-Universal). La ragione per cui sono state soprattutto le società che si occupano di media ad assumere il controllo dei maggiori parchi a tema è principalmente legata alle possibilità offerte da tali parchi di promuovere l’acquisto di prodotti al loro interno o altrove. Il parco, infatti, può anche funzionare come un mezzo di comunicazione estremamente potente che consente di arrivare a un ampio pubblico. Ciò è reso possibile dal fatto che il parco a tema permette di materializzare agli occhi dei consumatori prodotti cinematografici e digitali. Il parco a tema può essere perciò particolarmente utile a promuovere le vendite dei cosiddetti «prodotti autorizzati» o tie in, cioè quei prodotti che vengono fatti realizzare su licenza e che contengono generalmente dei riferimenti a un film. Prodotti che garantiscono margini elevati, incentivano gli acquisti d’impulso grazie alla loro gradevolezza, prolungano e richiamano nel tempo il ricordo del parco presso chi lo ha visitato, operano come strumento di comunicazione verso chi non è mai stato nel parco, rafforzano l’identità del parco e aumentano il valore di marca di quest’ultimo (Valdani, Guenzi, 1998, p. 244). Non è un caso, perciò, se nel corso del tempo il numero dei prodotti autorizzati è costantemente cresciuto e oggi solitamente nei parchi a tema circa il 50% delle entrate è costituito dai ricavi derivanti dai biglietti d’ingresso venduti, mentre il restante 50% proviene dalle vendite di alimenti, bevande, souvenir e gadget di vario tipo (Miles, 2010). Le principali tendenze in corso per quanto riguarda l’impiego del tempo da dedicare alle vacanze e al turismo sembrano favorire la frequentazione dei parchi a tema, in quanto oggi si tende a distribuire il tempo-vacanze nel corso dell’anno, cioè a fare molte vacanze brevi. Contemporaneamente, cresce la disponibilità a concepire ed organizzare il week-end come se fosse una sorta di piccola vacanza.

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Negli ultimi anni, però, i parchi a tema hanno incontrato delle difficoltà, soprattutto in conseguenza della grave crisi economica attraversata dai principali Paesi occidentali. Pertanto, hanno cominciato a espandersi in Oriente, ma soprattutto a rompere il loro tradizionale isolamento nei confronti dei territori a forte afflusso turistico in cui solitamente si collocano e a cercare di sviluppare una strategia di complementarietà rispetto a tali territori. Cioè a divenire parte importante di complessi sistemi reticolari. Inoltre, durante gli ultimi decenni, i parchi a tema sono andati sempre più articolandosi al loro interno, perdendo qualcosa sul piano della coerenza tematica, ma configurando delle complesse aree di vacanza pensate su misura per il ceto medio. Il loro obiettivo primario è cioè diventato quello di costruire, seguendo il modello di successo lanciato in Florida dalla Disney con Disney World, dei resort (centri vacanze onnicomprensivi), trasformando le visite solitamente giornaliere ai parchi in soggiorni di maggior durata ed effettuando nel contempo delle redditizie operazioni di tipo immobiliare. Va sottolineato inoltre che tutti i parchi sono luoghi di flusso, perché il loro spazio interno adotta una logica sequenziale e pertanto ciascuno di essi è costruito non per essere contemplato da un particolare punto di vista, ma per essere percorso. Ciò che succede però di solito nei parchi a tema è che al loro interno viene organizzata una mobilità obbligata, cioè un’attenta programmazione del movimento degli esseri umani attraverso lo spazio. La strategia è quella di racchiudere le opportunità commerciali – dagli stand alimentari alle boutique – attorno alle principali attrazioni, in modo da farvi scorrere il pubblico secondo una velocità che è stata attentamente determinata al fine di aumentare il volume delle vendite pro-capite. Va considerato inoltre che il percorso del visitatore «è concepito in funzione di una durata della visita leggermente superiore a quella di una giornata, in modo da generare nel visitatore frustrato il desiderio di ritornare e il gusto sottile del “non abbastanza” che riaccende il piacere» (Auricoste, 1991, p. 17). Le diverse aree tematiche del parco ricevono generalmente la loro unitarietà dalla natura di narrazione spettacolare che ciascuna di esse possiede e dalla cura meticolosa con la quale anche i più piccoli dei loro componenti sono fatti rientrare in un universo simbolico coe-

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rente. Infatti, viene riposta molta attenzione affinché non vengano lasciati «varchi temporali o fisici che consentano di sbirciare dietro le quinte e che, quindi, possano rendere visibili elementi che smentiscano la rappresentazione. Gli eventi devono succedersi rapidamente e senza sosta per non lasciare al visitatore il tempo di riflettere. Nulla che non sia il parco deve essere visibile dall’interno del parco» (Amendola, 1997, pp. 140-141). A ciò contribuisce anche il fatto che l’integrità del parco viene tutelata in molti modi. Infatti, vicino al parco non c’è solitamente nulla, è possibile arrivare soltanto in automobile e, dopo avere lasciato questa in uno sterminato parcheggio, si può unicamente avvicinarsi al parco con un apposito trenino, entrare ed uscire attraverso un solo ingresso e passeggiare a piedi all’interno. Il che crea una situazione di isolamento psicologico, un principio di separazione e decontestualizzazione rispetto all’ambiente urbano abituale che era già stato introdotto nell’Ottocento dalle esposizioni universali e che è fondamentale per produrre la sensazione di entrare in un’altra dimensione spazio-temporale. Da questi mondi, infatti, è difficile uscire, perché il frequentatore dev’essere indotto a rimanere all’interno dello spazio del parco, affinché spenda in esso il più possibile. A Gardaland, ad esempio, il tempo medio di visita è di oltre sei ore (Sanguanini, 1998). Ma bisogna anche pensare che i parchi a tema oggi sono molto di più che un insieme ben calibrato di architetture spettacolari e servizi ed eventi in grado di offrire stimoli per divertirsi. Vale a dire che tali parchi costituiscono uno spazio “brandizzato”, uno spazio cioè che è intimamente connesso con l’immaginario, le ideologie e i miti che appartengono al mondo delle marche aziendali. Pertanto, è possibile sostenere che «Essi sono luoghi di consegna fisica nei quali le ideologie della società dei consumi vengono installate nelle persone» (Lukas, 2008, p. 196). E ciò avviene attraverso un efficace processo di “naturalizzazione” che riesce a rendere più facilmente accettabili tali ideologie. Ciò risulta particolarmente evidente nel caso della Disney, la quale d’altronde è l’azienda che ha inventato il modello del parco a tema. Tale azienda infatti «comunica l’american way of life come un segno universale di progresso e il consumo è il veicolo attraverso il quale il

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I parchi di divertimento

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progresso può essere raggiunto» (Boyer, 1992, p. 201). L’esistenza di tale processo è resa evidente dalla presenza del fenomeno della «disneyzzazione», ovvero quel fenomeno di cui ha parlato Alan Bryman (2004) secondo cui i principi regolanti il funzionamento dei parchi a tema disneyani vengono sempre più adottati dalle società occidentali e dai loro principali settori d’azione. Dunque, tali principi costituiscono un modello in grado di accrescere il fascino di beni e servizi e sempre più largamente seguito per le città, i centri commerciali, i musei e le principali istituzioni sociali. Secondo Bryman, la disneyzzazione è caratterizzata da quattro principali aspetti: tematizzazione (fornisce agli individui una narrazione che non è collegata a ciò a cui viene applicata e opera come un’attrazione che procura un’esperienza piacevole rendendo più probabili gli atti d’acquisto), consumo ibrido (le diverse forme di consumo sono sempre più connesse tra loro e diventa pertanto difficoltoso distinguerle, ma ciò incrementa anche le possibilità di scelta dei consumatori), merchandising (la promozione e la vendita di una vasta gamma di prodotti realizzati su licenza e legati all’immagine di una determinata marca), lavoro performativo (la tendenza a concepire le mansioni dei lavoratori che offrono un servizio come una performance spettacolare nel corso della quale è necessario esprimere delle emozioni e dimostrare partecipazione al divertimento dei consumatori). Il parco a tema, cioè, è uscito in qualche misura dai suoi cancelli, anche perché le nostre città hanno visto crescere la quantità di “spazi a tema” presenti, cioè di luoghi di consumo spettacolari, che spesso recuperano e rilanciano degli spazi urbani dotati di una memoria storica. Dunque, anche i tradizionali spazi pubblici delle città vengono “privatizzati” e, come ha sostenuto Steven Miles, «ciò costituisce una radicale riformulazione della relazione individuale con la sfera pubblica» (2010, p. 163). L’esperienza pubblica, pertanto, tende a trasformarsi in qualcosa di simile a quell’esperienza privata che caratterizza da sempre il regno del consumo.

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