Vedere giusto. Del cinema senza luoghi comuni 8880492004, 9788880492009

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Vedere giusto. Del cinema senza luoghi comuni
 8880492004, 9788880492009

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A. Aprà M. Augé P. Basso H. Becker J.L. Comolli A. Farassino G. Fink S. Prosali J. Giono L. Mazzei J. Meny F. Minganti G. Paba T. Seppilli P. Sorlin

VEDERE GIUSTO o del cinema senza luoghi comuni

Saggi perii Festival dei Popoli 1989-2002

a cura di Pierluigi Basso

Edizione in progress ad uso esclusivo dei giornalisti in occasione del 43° Festival dei Popoli 2002. Edizione definitiva: febbraio 2003

Guaraldi

INDICE

Premessa

9

0. Introduzione

11 11 14 15 19 21

0.1. 0.2. 0.3. 0.4. 0.5.

L’alterità al cinema Ragioni di un progetto Futuro passato Strutture mobili Vedere giusto

Parte prima: Principi di realtà e critica della rappresentazione

Presentazione

29

1. Il documentario in questione

35 35

1.1. Cinema e storia (P.Sortin') 1.2. L’uso dell’immagine nella ricerca sociale (H. Becker) 1.3. Problemi del cinema come documento: lo statuto controverso dell’immagine e l’attendibilità del documentario (5. Prosali) 1.4. Il trattamento della realtà (P Basso)

5

48

52 65

INDICE

Parte seconda: Temi a prova di

sguardo (filmico)

Presen fazione

87

2. Estatica del cinema

93

2.1. Estasi, uscita di scena. A proposito di Partie de Campagne (J.-L. Comolli) 2.2. Variabilità estatiche tra beat, post-beat e new edge (E Mingantì) 2.3. L’umano e il divino. Il rapporto con il soprannaturale fra tradizione e modernità (7? Seppilli)

93

101

115

125 3.1. La città e il cinema (M. Auge) 125 3.2. La città sospesa nel tempo (J.-L. Comolli) 130 3.3. Eyes wide open: lo sguardo del cinema sulla città (G. Paba) 135

3. Schermi della città

139 4.1. L’ultimo spettacolo? (G. Fink) 139 4.2. L’assente da ogni specchio (J.-L. Comolli) 149 4.3. «Non fermate quella manovella!» (L. Mazzeì) 157

4. La morte al cinema

5. Identità, colonialismo e traduzioni post coloniali

5.1. Esserci o esserci stati. Per un discorso su cinema e identità ebraica (G. Fink)

6

177

177

VEDERE GIUSTO

Parte terza: Documentare l’autore

Presen tazione

191

6. Godard, il poeta della grammatica

195

6.1. L’altra faccia del cinema: il documentario secondo Godard (A. Farassinò) 6.2. Note su Godard video-asta(A.Apra) 6.3. L’idiota della manovella (J.-L. Comolli)

195 199 204

215 7.1. Giono scrittore-cineasta (J.Meny) 215 7.2. Scrittura e cinema (J. Giono) 221 7.3. Qualche riflessione sul cinema (J. Giono) 223

7. Jean Giono cineasta

7

PREMESSA

La presente edizione vive come progetto in fieri; nasce come piano di lavoro in vista della XLIV edizione del Fe­ stival dei Popoli, ma si predispone già ad accoglierne i ri­ sultati. Questa mobilità è dispiegata sia dalla nuova, im­ portante, agile collaborazione dell’istituzione fiorentina con la casa editrice Guaraldi, sia da un programma di re­ cupero e rivalorizzazione della produzione culturale di cui il Festival si è fatto in passato promotore, sia infine da una volontà di estendere e razionalizzare la vocazione edi­ toriale, fuoriuscendo così dalla mera logica dei cataloghi annuali funzionali alla rassegna. La natura di work in progress di questo progetto spiega la sua struttura in divenire, la rarefazione di sezioni che si an­ dranno a “gonfiare” con gli apporti provenienti dall’Edizione 2002 del Festival, nonché le ulteriori revisioni reda­ zionali che attendono il volume.

Il lavoro nasce all’intersezione di più apporti, di cui il cu­ ratore è fortemente debitore; innanzi tutto, una guida di lavoro imprescindibile è rappresentata da chi custodisce attivamente la memoria storica del Festival dei Popoli, Mario Simondi e Tullio Seppilli, i quali rimangono assi trainanti, anche nel presente, dell’istituzione fiorentina. In secondo luogo, il progetto editoriale si inquadra nell’o9

PREMESSA

pera di rinnovamento del Festival infusa dalla presidenza di Paolo Fabbri, il quale ha attivato questo felice contatto con la Guaraldi, in grado di garantire una nuova proget­ tualità scientifica e un nuovo impatto culturale. Il curatore è infine grato a Maria Giulia Dondero, senza la quale questo work in progress sarebbe avanzato meno ra­ pidamente.

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0. INTRODUZIONE di Pierluigi Basso

0.1. L'alterità al cinema

Questo libro si offre al lettore come un compendio della ricerca teorica e dell'analisi storico-critica che si è svilup­ pata attorno all'attività promossa dal Festival dei Popoli di Firenze negli ultimi anni. Ne raccoglie, infatti, gli inter­ venti più significativi che, presentati nel corso di confe­ renze e di tavole rotonde o redatti appositamente per i cataloghi delle diverse edizioni, esemplificano nell'insieme una nuova vocazione del Festival: quella di offrire sguardi trasversali lungo la storia del cinema in grado di mettere in luce autonomia e ricchezza di un'indagine e di una rifles­ sione condotte con mezzi specificatamente filmici. Il mero ventaglio di temi, aperto e agitato dal cinema, si ritrasfor­ ma in una serie di traiettorie discorsive e nel contempo la nuova attenzione all'estetica cinematografica, imperniata su un'efficacia sensibile ed affettiva, si emancipa da qual­ siasi piega puramente autoriflessiva. Infatti, se si privilegia un discorso cinematografico che problematizza se stesso, ciò è in funzione della coscienza critica con cui dota di senso le rappresentazioni che la realtà sociale dà di sé stes­ sa. A queste ultime, tra l'altro, esso consapevolmente si autoascrive, pur cercando di proporsi come interruzione del­ la catena di specchi mediatica, come audiovisione del pro­ li

VEDERE GIUSTO

prio tempo in grado di fare la differenza. La promozione di assi di divergenza, di sguardi che sappiamo disassimi­ larsi sia dal coro della globalizzazione (la quale intona il proprio inno sulle strofe stesse del multiculturalismo poli­ tically correct) sia dai richiami seduttori di identità eclissa­ te ma disseppellite in ragione della reinvenzione di nazio­ nalismi, diviene compito precipuo di un'istituzione cul­ turale come quella fiorentina, la quale da sempre intende rendere manifesta la coimplicazione, se non la co-appartenenza a ciò che, prospetticamente, di volta in volta, chia­ miamo alterità. L'arco teso tra vocazione antropologica e disamina socio­ logica, che ha fatto la storia del Festival dei Popoli, segna­ la clinicamente la sutura assente tra due emisferi, quello delle sopravvivenze1 e quello delle sopravvenienze, ossia la crisi costitutiva di un'epoca che, da un lato, mitizza un primitivismo antioccidentale ancora ecosistemicamente armonico con la natura e, dall'altra, prefigura un futuro di­ stopico, nefasto, disumanizzato. Dal film etnografico al cinema-verità, il Festival ha testimoniato delle loro con­ traddizioni interne, sia testuali (in quanto a valori docu­ mentali) sia comunicative (in quanto ad attivazione di in­ teressi su un vasto pubblico), forgiandosi progressiva­ mente una inclinazione anticelebrativa. Nel contempo ha stigmatizzato, rincarando di anno in anno la dose di im­ magini inassimilabili, la massiva tentazione di ridurre ogni cosa all'identico. L'inattualità del Festival si esplica nel suo disadattamento al consumo della diversità e la sua disarti­ colazione costitutiva si specchia nella volontà di rendere ragione di un quadro di mondo, ben testimoniato dal ci­ nema, dominato dagli anacronismi. Di qui l'editing ossimorico del Festival: lucore della fame e oscurità del mer­ cato, spettacolo della guerra e squallore del quotidiano, senso stento del documentale e ragionevolezza della rifi­ 12

INTRODUZIONE

gurazione finzionale, riprese silenti e tabulazioni paranoi­ che, trasparenza della scrittura e virtuosismi inesausti. Ne esce la testimonianza di una compitazione del mondo, propria del discorso filmico, dove le salienze sono soprat­ tutto le scorrettezze, gli ammanchi di senso, i blanks nar­ rativi, le inevitabili débàcle enumerative sulle concause (il riflettere sulla complessità implode statutivamente nel no­ stro essere riflessi di essa, nel nostro abitarla). In questo senso, si continua ad inciampare nel Festival dei Popoli, e la caduta del sipario sul cinema-spettacolo ne costituisce la cifra che si rinnova. La resistenza alla prete­ stuosità del richiamo ai valori ludici deve essere opportu­ namente controbilanciata dal pericolo di trasformare il ci­ nema in puro pretesto, ostensione di immagini a latere ri­ spetto a discorsi che impongono voci e confini disciplinari. Fiducia nel cinema significa innanzitutto valorizzazione del suo pensare per figure, siano esse visive o sonore. Un tale pensiero svincola dalla prosaicità stereotipica del fi­ gurativo, sia pur esso quello più esotico, certo venduto oramai dovunque a buon mercato. La figuralità del pen­ siero cinematografico rimette in gioco il materiale plastico (colori, forme eidetiche, ritmi, rime, risonanze, ecc.), con le sue dinamiche interne, per riarticolare nuove pertinenze di senso, che lo emancipano dal suo mero fungere da piano dell'espressione del mondo naturale. Il cinema rimotiva così gli assi connettivi tra significanti e significati, adibisce un paesaggio figurale in grado di esemplificare delle tra­ sformazioni di valori sensibilizzati (che afferiscono, cioè, alle nostre precipue forme di vita), attraverso specifiche configurazioni enunciative del discorso filmico. Ecco trat­ teggiata la ragionevolezza della sempre maggiore atten­ zione prestata dal Festival dei Popoli all'estetica del cine­ ma documentario, sottraendola a un quadro di pertinenze puramente stilistiche per riporla al centro dell'efficacia 13

VEDERE GIUSTO

del testo cinematografico, la quale verte soprattutto sulla capacità di mediare la percezione del valere dei valori. Non basta infatti rivendicare la pluralizzazione delle pro­ spettive assiologiche sul mondo, aperte dai popoli o dai singoli individui, dalle classi sociali o dai quadri ideologici, né tantomeno può risultare decisivo entrare nella querelle che oppone descrizioni dell'omologazione dei valori, o della loro inflazione o della loro riproduzione puramente strategico-distintiva. Ciò che risulta oltremodo importante è la risemantizzazione, la capacità di mettere in discorso l'i­ nerenza dei valori, il loro essere perno di una forma di vi­ ta. Il modo specifico con cui il cinema può mediare questa apprensione della cogenza di certi valori per qualcuno pas­ sa per l'esperienza sensibile delle sue strutture testuali.

0.2. Ragioni di un progetto

Il lavoro promosso dal Festival dei Popoli si offre come un esempio di indagine critica sulle pratiche filmiche che fini­ sce inevitabilmente per trascendere il raggio delle sue atti­ vità. In questo senso, il materiale che compone questo libro è stato scelto sia in ragione del fatto che esso si svincola dal­ le contingenze presentative riguardo a concorsi, rassegne, retrospettive, sia in quanto pone il cinema come indiscusso protagonista. Il lettore potrà quindi tener conto dell'origine comune dei contributi qui raccolti, e in questo senso stori­ cizzarli; nel contempo, potrà assumerli come corpus teorico e storico-critico la cui riorganizzazione è funzione di un'or­ ganicità tematica e di una dialogicità intertestuale, non pri­ va di spunti polemici. Con ciò, il volume si sottrae, coe­ rentemente, sia a qualsiasi intento celebrativo, sia a una visione meramente archivistica. In tal senso, abbiamo cer­ cato di rendere testimonianza di questo spirito attraverso la 14

INTRODUZIONE

contìnua frapposizione, lungo il volume, di intervalli con­ nettivi e interpretativi tra i vari contributi. Non solo: l'esi­ genza di articolare il quadro tematico del libro con gli in­ teressi mirati del lettore ha consigliato di optare - pur non nascondendoci i costì di tale operazione - per una colla­ zione dei soli contributi imperniati sul cinema, tralasciando tutto un insieme di scritti scientifici, di pari valore rispetto a quelli qui raccolti, che entravano in risonanza dialogica, di volta in volta, con i programmi festivalieri, ma che non lasciano spazio ad analisi storico-filmologiche. Del resto, la scelta che sta alla base di questo volume, sia temporale (gli ultimi anni del festival) che tematica (argo­ menti filmologici), riduce lo spettro della selezione anche in quanto è auspicio della collana, in cui il libro viene edi­ to, offrire in futuro altri capitoli di questa ricostruzione dei saperi sedimentati lungo la pluridecennale attività dell'i­ stituzione culturale fiorentina. Il lavoro di ripresentazione dei contributi del passato non può che trovare linfa e coesione nel momento in cui si ar­ ticola con l'attività del presente. In questo senso, il lettore troverà nel volume non solo l'apparato critico e teorico che sta alla base dell'ultima edizione del festival (2002), ma già piena testimonianza di un completo ripensamento del­ la produzione scientifica, della sua testualizzazione e di­ stribuzione, fuoriuscendo dalla logica del catalogo, per inserirsi appunto in quella di una silloge di saggi.

0.3. Un futuro passato Se non si tratta affatto di operare un mero recupero stori­ co-archivistico o autocelebrativo, va pur detto che questo libro si pone come memoria che rovescia un'occasione perduta. Se si ripercorre la vita quarantennale del Festival, 15

VEDERE GIUSTO

si può constatare come aU'enorme quantità di interventi, di tavole rotonde, di dibattiti, di incontri con gli autori cor­ risponda una rarefazione di tracce documentali pubblica­ te2 (per lo più esse sono restate allo stato di registrazioni, in larga parte non sbobinate). Non solo: la capacità di "graf­ fiare" l'opinione pubblica, riconosciuta al Festival soprat­ tutto nei primi decenni della sua vita, si è riflessa in una dose cospicua di articoli sui quotidiani nazionali e locali, mentre sulla pubblicistica specialistica, ossia sulle riviste di cinema italiane e straniere, storicamente si registrano rare testimonianze e rielaborazioni critiche delle attività fio­ rentine, impedendo così la sedimentazione di esperienze e riflessioni di più ampio respiro. La prima edizione del Festival risale al dicembre del 19593, e la sua vocazione scientifica è testimoniata sia dal suo na­ scere sull'onda della fondazione, nel 1953, del Centro ita­ liano per il film etnografico e sociologico4, sia dal fatto che attorno all'istituzione fiorentina iniziano subito a gra­ vitare personalità di primissimo piano: basti pensare, in questo senso, che nella prima giuria del concorso figura­ vano tra gli altri Ernesto De Martino, Edgar Morin, Jean Rouch e Cesare Zavattini. Nel rileggere il passato, colpisce soprattutto il fatto che fin dagli esordi, il Festival ha articolato delle pressanti questio­ ni teoriche, sia in termini di valore documentale del testo ci­ nematografico (soprattutto nel momento in cui esso è pro­ dotto in qualità di materiale storico e scientifico), sia in ra­ gione delle «politiche della documentazione visiva» [Seppilli 1982, pp. rv-v]. Gli incontri animati dal Festival negli anni Sessanta da un lato si offrivano come mezzo di risonanza della nuova strada documentaristica prospettata dal dnémaverité di Jean Rouch, dall'altro non smettevano di interro­ garla criticamente5, già a partire dalla divaricazione delle domande come documentare? e che cosa documentare? [ivi]. 16

INTRODUZIONE

Alla pervasività dell'informazione mediatica odierna, che attiva (e forse persino si avvale) della anestetizzazione del pubblico, si contrapponeva negli anni Sessanta la nient'affatto tacita sottrazione o persino interdizione della messa in immagine dei "disagi della civiltà" e della sperequazione mondiale delle ricchezze. Il cinema documentario poteva allora apparire costitutivamente come "controinformazio­ ne" in grado di ergersi contro le imposizioni della censura. Le tensioni agonistiche (divieti o interruzioni di proiezioni, tagli di fotogrammi o di intere sequenze) occupano in quegli anni la scena del Festival e attivano un pubblico che si ritrova a non poter vedere, in alcuni casi, il film premia­ to dalla giuria6. I dibattiti sulla censura coinvolsero forzatamente i membri delle giurie, anno dopo anno, da Barthes a Cohen-Seat, da Morin a Verdone, da Tullio Altan a Sartre7, così come non poterono sottrarsi dal confronto con la querelle sulla pre­ dilezione per le opere di valore etnografico o per i film di denuncia sociale, o con le discussioni sulla pregnanza o meno del valore prettamente estetico delle opere8. Questi importanti fermenti teorici che hanno attraversato il Festival, fino al punto di indagare nel dettaglio singole questioni metodologiche, come ad esempio la manipola­ zione e l'attendibilità dell'intervista (Colloquio Intema­ zionale del 1965), hanno faticato a divenire memoria attiva del Festival e parte integrante del patrimonio culturale ci­ nematografico italiano proprio per un mancato lavoro di trascrizione e pubblicazione. La sottovalutazione di questo passaggio cruciale trova spiegazioni più profonde proba­ bilmente sia nella pur ragionevole fecalizzazione sull'e­ vento (il dibattito pubblico intorno a temi "caldi"), sia meno avvedutamente - nella valorizzazione dei saperi umanistici convocati a risposta delle questioni di volta in volta sollevate, a tutto scapito del riconoscimento di un'au­ 17

VEDERE GIUSTO

tonomia della riflessione filmologica. La disponibilità del­ le risposte a monte ha forse lasciato impercepita l'esigenza di una sedimentazione dei saperi a valle, in cui misurare l'apporto dei testi filmici e della riflessione teoretica e poe­ tica interna al mondo del cinema. Una tale spiegazione non è forse pretestuosa nel momento in cui si può registrare solo nel 1971 una tendenza a cam­ biare atteggiamento, ad assumere «i film, non come pre­ testo o occasione di dibattiti, bensì come oggetto d'analisi» [Tasselli 1982, 63]. Se l'attenzione comincia a spostarsi anche verso la televi­ sione9, e non manca la felice incursione di una star del ca­ libro di Jane Fonda10, pronta nel 1975 ad accompagnare la presentazione del film sul Vietnam, girato assieme con il marito e soprattutto con l'apporto fotografico di Haskell Wexler (Introduction to the enemy, 1974), bisogna aspet­ tare il 1979 per trovare una grande retrospettiva dedicata a Jean Renoir, appena scomparso, e l'anno successivo per as­ sistere al tentativo di allestire una rivista (Immagine del­ l'uomo) come sbocco teorico-critico del Festival11. Questa nuova strada del Festival fu accolta in maniera controversa, in quanto comportava una ibridazione della sua natura originaria, tra l'altro in controtendenza rispetto alla coeva nascita dell'importante festival francese Cinénta du réel'2 (1979). A ben vedere, il Festival dei Popoli non ha mai abdicato rispetto alla centralità data al cinema docu­ mentario, lo ha però sottratto dal pericolo di una ghettiz­ zazione e ne ha testimoniato il processo progressivo di "creolizzazione" (frutto di "contaminazioni" finzionali) e di autoriflessione poetica e teorica. I compiti istituzionali non potevano che essere rifigurati, in ragione del fatto che l'accesso alle opere non può più essere l'obiettivo pri­ mario di un festival; mirare al reperimento di una cornice critico-interpretativa in grado di sventagliare il pensiero-ci­ 18

INTRODUZIONE

nema e la diffrazione degli sguardi è razionalizzazione mi­ nima delle ragioni di un festival che in questo senso può e deve ripensarsi in termini di agenzia culturale.

0.4. Strutture mobili

L'articolazione del volume si snoda lungo tre sezioni. Nel­ la prima viene raccolta l'eredità di un dibattito quaran­ tennale sullo statuto del cinema documentario, sugli assetti testuali e sui contratti comunicativi che lo caratterizzano. Dall'uso dell'audiovisivo negli studi antropologici e so­ ciologici, all'assunzione del testo filmico come documento storico, fino al "trattamento" della realtà deliberatamente messo in atto per cercare di forzare lo scrigno di simulacri del sociale, si compone una mappa dei modi di esistenza e dei quadri epistemici propri del cinema documentario. Nella seconda sezione entrano in gioco un ventaglio di te­ matiche che testimoniano dei poliedrici interessi, ma che in comune hanno la capacità di porre il cinema come doppio agente di storia, sia per l'influsso diretto nell'autorappresentazione del sociale (rappresentazione delle utopie/distopie metropolitane, preservazione dell'immagine dalla morte e scandalo della morte in immagine, ecc.), sia per la prestazione storico- e etno-grafica che esso è in grado di ga­ rantire. Il ritrarre cinematografico non mette in posa, cli­ nica o estetica, solo attori collettivi, ma anche i singoli in­ dividui, i loro precipui stati percettivi, finanche le loro esperienze estetiche/estatiche. Non solo: discopre l'identità costitutiva del suo sguardo che s'affaccia verso altre co­ struzioni identitarie. Una tale intersezione non è che esem­ plificazione della correlazione e dell'incassamento dei "co­ lonialismi" che demitizzano infine qualsiasi origine incon­ taminata di sé e dell'altro. Il post-colonialismo si scopre in­ 19

VEDERE GIUSTO

temo all'occhio cinematografico, il suo essere abitato dall'alterità, rispetto alla quale riesce a contornare un'iden­ tità solo come equilibrio tensivo tra forze cui non riesce più ad assegnare marche di autonomia o eteronomia. Il volume si conclude con una sezione che raccoglie brevi interventi critici su alcuni autori, quali Godard e Giono. E piuttosto palese che ciò rappresenta un semplice campione degli attraversamenti critici di alcuni registi chiave della storia del cinema che si registrano anno dopo anno presso il Festival dei Popoli. Tale campione è nel contempo non arbitrario e deliberatamente laterale. Se Godard non è certo famoso per la sua attività di documentarista, benché la sua carriera inizi con Operation béton e sfoci infine in un macroprogptto quale Histoire(s) du cinéma, Giono è uno scrittore, i cui contributi cinematografici sono miscono­ sciuti, soprattutto in Italia, e che in ogni caso non ha mai affrontato il genere documentario, se si eccettua la pro­ gettazione di un lungometraggio mai realizzato (L'or13). E proprio la valorizzazione della differenza come auspicio costante alla mobilitazione e messa in variazione delle no­ stre comici interpretative che conduce a trascegliere esem­ pi di "centrale lateralità", in grado, per i loro indici di pa­ radossalità e irriducibilità, di farci "fuorviare" dalle strade maestre del puro buon senso. L'ilarità del serio, emblema di un'"idiozia sagace", è ciò che accomuna questi due au­ tori, pronti a «inquadrare precisamente il contrario di ciò che cadrebbe naturalmente sotto il senso» (Giono), a do­ mandarsi perché mai «fare le cose semplici quando pos­ sono essere complesse» (Godard). Allo stesso modo, senso e complessità del volume possono essere colti attraverso mobili percorsi che interrelano plurivocamente i diversi contributi, smobilitando i confini tra le diverse sezioni e talvolta risignificando l'occasionalità di taluni interventi nella trama di un discorso polifonico. 20

INTRODUZIONE

0.5. Vedere giusto

Resta da ultimo l'esigenza di rimotivare un titolo quale vedere giusto. Con esso indichiamo una visione che non aspira più ad al­ cuna "verità": da una parte perché consapevole della me­ diazione culturale che la attraversa e che le permette l'ac­ cesso al senso, dall'altra in quanto critica rispetto a una realtà sociale che è già discorso, rappresentazione simulacrale, contrattazione di valori. La visione si vota casomai a una giustezza, a una appropriatezza localmente sondata e intersoggettivamente contrattabile . Il "vedere giusto" non si conforma a un diritto, a una nor­ matività, né aspira a neutralizzare le distorsioni soggettive, per ritrovare un accesso trasparente alle cose. Piuttosto mi­ ra a cogliere il proprio sguardo dentro alla visione stessa che attiva e sostiene. Il vedere giusto può quindi "andare a segno" nel momen­ to stesso in cui (si) rende sensibile il punto di vista, la sua competenza specifica, le sue mire e le sue cecità. Uno sguardo "calza a pennello" la propria visione, come se fossero fatti a misura, come se questo modellarsi l'un l'altro fosse già aderenza, investimento di valore scambie­ vole (questo vedere "gli/le sta giusto"). Una reciprocità comporta familiarizzazioni quanto straniamenti, dato che confronta due alterità irriducibili, destini coimplicati, ma disgiunti o quanto meno disgiungibili. L'esser-altro per l'altro dispone fronti di sovraesposizione, accessi reciproci alla vulnerabilità di ciascuno che si tra­ mutano facilmente in eccessi. Eccessi come traduzioni che finiscono per smarrire l'alterità, trasfigurandola nell'i­ dentico, ma che possono persino violarla nell'affondo del­ lo sguardo. Si tratta allora anche di "vedere il giusto", di resistere alla tentazione di affondare nella carne (del mon­ 21

VEDERE GIUSTO

do e del sé), inseguendo il miraggio di un oltre-visibile, di un al-di-là della superficie, di un fondo del piacere15; o di reagire di fronte alla seduzione di un monitoraggio pa­ nottico, di uno sguardo dall'alto che, offrendo una parte­ cipazione vicaria all'alterità, precipita nell'oblio l'esercizio dell'identità. La pervasività dello sguardo smarrisce ogni legittimità, perde la propria misura, temporale e testimoniale (ho giu­ sto visto, "ho appena"/"ho solo" visto). Il vedere giusto è innanzi tutto apertura di una dimensione del soggetto, prima ancora che un suo programma (guardare, osserva­ re). La sua equità sta nel fatto che esso si compromette fin da subito (a mio/tuo vedere...) nel mentre si radica nell'intersoggettività (il nostro vederci), anche se può incorrere nella presunzione, prospetticamente (il vederci gusto), re­ trospettivamente (averci visto gusto). Vedere giusto è frutto di un posizionamento bilaterale, che smobilita i luoghi comuni attraverso i quali "stiamo in guardia" (radice etimologica di "guardare"), o meglio dà a questa disposizione un prospetto intransitivo, un essere rivolti a, un prendersi cura di che non sottrae allo sguardo la possibilità di "essere a tempo", anche se rimane in nuce una costitutiva imperfettività. Il vedere giusto non è mai semplice messa a fuoco che discrimina qualcosa nella profondità di campo del soggetto, dato che si pone all'in­ segna di una "giustizia distributiva", che non smette di ripartire proporzionalmente attenzione e valorizzazione. In ciò il Festival dei Popoli dismette cinematograficamen ­ te massimalismi e fanatismi; opta per l'alterità e l'estetica, dove la seconda non è che quadro di manifestazione sen­ sibile della prima: entrambe richiedono una apertura, sen­ za cambiali, alla differenza.

22

INTRODUZIONE

Note:

1 Cfr. Guidieri [1984]. 2 Tullio Seppilli ricorda che «pochissime, fra le ormai innumerevoli re­ lazioni presentate ai "colloqui" sono state peraltro pubblicate, mai co­ munque entro il quadro di veri e propri "atti"» [1982, p. x]. 3 Una solida base per ripercorrere la storia del Festival dei Popoli è rappresentata dal volume monografico di Maria Pia Tasselli [1982]. 4 Di ciò è testimonianza il sottotitolo stesso del Festival: «Rassegna In­ temazionale del film etnografico e sociologico», poi divenuta nel 1968 «Rassegna Intemazionale del Film di Documentazione Sociale». 5 Un esempio di questa valutazione critica del cinema-verità è rappre­ sentato da Sergio Prosali, "La verità del cinema verità", La nazione, 25 gennaio, 1964. Del resto, anche sul fronte degli autori vi era una certa consapevolezza del "mito" della verità documentata; ne è esemplare testimonianza la posizione di Joris Ivens, espressa lungo le giornate fe­ stivaliere a metà degli anni Sessanta: «A me piace che i giovani abbia­ no preso questa bandiera della verità. Ma c'è da porsi una domanda: quale verità? Quella che è davanti alla macchina da presa o quella che è dentro di noi? [...] La verità può essere tradita in ogni momento, du­ rante la preparazione del film, durante le riprese, al montaggio» (in­ tervista raccolta da Morando Morandini e poi pubblicata in Bianco e Nero, xxv, febbraio 1965, p. 6). 6 Rimarchevoli sono i casi rappresentati da: Il cielo e la terra di Joris Ivens, film che nel 1965 venne censurato sia dalle istituzioni francesi che italiane, tantoché, portando l'opera al festival, l'autore fu, solo per questa ragione, condotto in questura e privato del passaporto [Tasselli 1982, 47]; Titicut Follies di Frederick Wiseman, opera vista e pre­ miata dalla sola giuria, ma proiettata solo sull'onda delle accese pro­ teste del pubblico e malgrado si fosse abbattuta sul film la scure della censura. 7 La partecipazione di quest'ultimo (1962) si limitò alla presentazione del cinema-diretto di Mario Ruspoli, presente al Festival con il suo Re­ gard sur lafolie. 8 Nel dicembre 1962 ci fu persino un intero convegno, affiancato alla rassegna, che aveva il compito di stabilire i criteri di scelta dei film per le future edizioni [Tasselli 1982, 32]. Nel 1964, durante la quinta edi­ zione, fu elaborata la distinzione tra a) documentari scientifici, b) do­ cumentari di argomento sociologico, c) «film che, pur ricorrendo ad una struttura parzialmente narrativa, usavano un minimo di affabula23

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zione solo come strumento per la raffigurazione di una realtà sociale autentica, evitando ogni sovrapposta drammatizzazione e impegnando attori non professionisti scelti in seno allo stesso contesto sociale rap­ presentato» [Festival dei Popoli, Catalogo 1964, p. 5]. 9 Ne è piena testimonianza il XVII Colloquio Internazionale «I temi dell'informazione sociale nella televisione di alcuni paesi europei oc­ cidentali», dove tra i partecipanti figuravano semiologi quali René Lindekens assieme a sociologi e filosofi. 10 Jane Fonda era già stata "icona" del Festival dei Popoli nel 1964 grazie al documentario di Donn Pennybaker intitolato Jane. 11 Se si osservano i cataloghi della metà degli anni Settanta, si può no­ tare come essi rimangano una sequenza di schede meramente presentative. 12 È più che significativo il fatto che la prima edizione del festival Cinéma du Réel partisse con un omaggio alla istituzione fiorentina, per la sua oramai ventennale attività nel campo del cinema documentario. 13 Si rinvia a Bulletin Giono, n. 12,1979. 14 Nelson Goodman ha sempre preferito parlare di giustezza (right­ ness), piuttosto che di verità: ciò perché si tratta di una nozione mul­ tidimensional e (ciò che è sbagliato per un verso, può risultare giusto in un'altra prospettiva o contesto) e mediata dal nostro adattamento (fit­ ting) a un contesto di pratiche e di discorsi [Goodman & Elgin 1988, 158-59]. La giustezza ha sempre ha a che fare con un'adozione, local­ mente attivata, di proposizioni, pratiche, frame [ivi, 161]. 15 Cfr. Baudrillard [1979].

Riferimenti bibliografici: Baudrillard, Jean 1979 De la seduction, Paris, Galilée; trad. it. Della seduzione, Milano, Se, 1997. Comolli, Jean-Louis 1971-78 Technique et idéologie, in Cahiers du cinéma, nn. 229, 230, 231, 233, 234, 241; trad. it. Tecnica e ideologia, Parma, Pratiche, 1982. Goodman Nelson & Elgin Catherine 1988 Reconceptions in Philosophy and Other Aris and Sciences, Lon­ don, Routledge.

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INTRODUZIONE

Guidieri, Remo 1984 L'abondance des pauvres. Six aperpis critiques sur l'anthropologie, Paris, Seuil; trad. it. Voci da Babele. Saggi di critica dell'antropologia, Napoli, Guida, 1990. Seppilli, Tullio 1982 "Prefazione/appendice", in Tasselli [1982]. Tasselli, Maria Pia 1982 II cinema dell'uomo. Festival dei Popoli 1959-1981, Roma, Bulzoni, 1982.

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PRESENTAZIONE (P. Basso)

Documentario e finzione sono posti solitamente in gioco come dei macrogeneri (o dei registri cinematografici). Que­ sti sono in grado di connettere un’opera fìlmica a una pra­ tica comunicativa (produttiva/ricettiva) specifica, il che lascia pensare che documentario/flnzione possano even­ tualmente trascendere i tratti testuali che di volta in volta manifestano, rinviando a uno statuto istituzionalmente preposto a demarcarli. Vale a dire, che piuttosto che dif­ ferenze a livello degli arrangiamenti discorsivi, è la cornice di genere che invita il fruitore a semantizzare strategica­ mente un testo fìlmico, ad attivare una lettura documentarizzante o piuttosto finzionalizzante [Odin 2000]. Il genere testuale, tuttavia, non è affatto cornice interpre­ tativa tassativa per il lettore. In questo senso, uno storico può ritrovarsi spesso a dotare di senso un film fìnzionale in maniera del tutto diversa rispetto alla vocazione estetica originaria; può infatti legittimamente assumerlo come do­ cumento storico. Pierre Sorlin è stato uno dei massimi studiosi, insieme a Marc Ferro [1977], del valore documentale del testo fil­ mico. Di fronte all’ovvia possibilità di accusare molti do­ cumentari di falsità, di mancato rigore storico, di ideologia (si tratta, del resto, di riconoscere l’impossibilità di una re­ stituzione neutra della realtà), resta il fatto che essi si pon­ 29

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gono come testimonianze straordinariamente rivelatone di come una nazione, un gruppo politico o un autore met­ tono in scena sé e la “propria realtà”. Il testo filmico pone in campo, nelle sue forme enunciazionali e nelle scelte te­ matiche, un’autorappresentazione simulacrale dell’appa­ rato autoriale e del suo pubblico, affacciando con ciò in superficie i confini del visibile, vale a dire «quel che appa­ re fotografabile e presentabile sugli schermi in un’epoca data» [Sorlin 1977, 68]. La mistione tra fìnzionalità e documentalità è irresolubile e le strategie estetico-documen­ tarie più recenti non fanno che assecondare e portare a compimento questa fatale commistione. Il cinema «mostra non già il “reale”, ma i frammenti del reale che il pubblico accetta e riconosce» [ivi, 69]; ogni film può essere allora assunto come piano di emergenza di una sintomatologia del sociale, offrendosi deliberatamente, o proprio malgra­ do, come una controanalisi della società [Ferro 1974]. I “fantasmi del reale”, per usare un’espressione cara a Ma­ rio Simondi, non sono affatto mere “devianze della realtà”, ma strategie di senso, che fanno parte di un’ermeneutica dell’epoca e del suo futuro, di cui la storiografia, come pratica, è parte integrante. La prestazione del fìttivo, come rifigurazione narrativa del passato e dell’esperito, è stata evidenziata da autori cardi­ nali come Jauss, Ricoeur, Koselleck. Michel de Certeau, in una conversazione sul cinema, ha sostenuto che «ogni interpretazione storica aggiunge altre possibilità a ciò che è avvenuto. Dati gli elementi, altre cose sareb­ bero state possibili rispetto a quelle che si sono realiz­ zate. La “finzione", nel senso scientifico del termine, consiste nel costruire un insieme di possibilità che si sarebbero potute realizzare e nel pensare la realtà stori­ ca come una selezione dei possibili esiti dell’avveni­ mento - così si costruisce anche uno spazio presente, di possibile presente1».

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Se autori come Sorlin hanno fatto luce sul cinema come agente di storia e come ambito documentale di grande in­ teresse storico, si pone il problema, prima ancora dell’e­ voluzione delle forme estetiche, dei modi di esistenza del­ le opere filmiche e della storia della loro identità, sia ma­ teriale che culturale. Se la nozione di “testo fìlmico” si fonda anche sulla sua attestazione storica, bisogna subito notare che la sua identità è sfrangiata, in ragione sia della presenza massiva di paratesti, sia dell’esistenza di una “par­ titura” quale la sceneggiatura (il cinema può essere colto come un’arte allografìca2), sia del darsi frequente di modi di esistenza dell’opera che trascendono la sua immanenza testuale [Genette 1994], quali la pluralità delle versioni ac­ creditate o lo stato frammentario delle copie rimaste. In questo senso Howard Becker [2001] parla di una costitu­ tiva indeterminazione dell’oggetto artistico e di una ne­ cessaria focalizzazione sulle scelte che stanno alla base del­ le forme che il film localmente assume (si pensi ai tagli in fase di montaggio per questioni produttive o di censura), nonché su quelle che decidono dei contesti di fruizione. L’immagine - nel caso specifico di un testo di ricerca so­ ciale - fa parte delle scelte testuali, ma più che un consu­ stanziale apporto testimoniale (l’esser vero di quanto si afferma), essa viene coimplicata nel discorso argomentati­ vo e interpretativo, inscrivendovi una dialettica sui generis tra la specificità del soggetto ritrattato e la possibilità di ge­ neralizzazione, dato che appare costitutivamente sbilan­ ciata a favore del primo versante3. Ciò sembra valere anche per il linguaggio audiovisivo; si pensi alle difficoltà speci­ ficatamente filmiche di rendere la generalizzazione di azio­ ni in ordine allo spazio (“ovunque”), al tempo (“da sem­ pre”, ma anche il frequentativo “solitamente”), o all’attore (“chiunque”). Da un lato, il cinema elabora mezzi propri per supplire a 31

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queste carenze - o più banalmente si appoggia alla lingua naturale, del resto consustanziale alla sua natura di lin­ guaggio sincretico; dall’altro, rende fatale la sua vocazione consacrandosi alla testimonianza “riproducibile” della sin­ golarità “irrepetibile” dell’evento. In questo senso l’oc­ chio “clinico” del cinema è parso quasi farsi “scientifico”, ma - ricorda Sergio Prosali - l’immagine filmica esibisce infine una debolezza costitutiva nell’isolare il suo oggetto, dato che ogni dettaglio finisce - come in Cosmo di Gombrowicz - per caricarsi di significanza propria, in una ca­ tena sintomatologica potenzialmente senza fine. Ogni sguardo rinvia a un “romanzo perduto” sulla «formazione della realtà»; ogni sua tensione constativa si infrange nel «dilagare» della realtà per la presenza costante di almeno un fatto in «sovrannumero4». Il documentario senza una “coscienza estetica” (tesa a ri­ conoscere il lavorio linguistico come funzionale alla atti­ vazione e mediazione del valere dei valori rappresentati) si riduce tutt’al più - come voleva John Grierson [1932, trad. it. 174] - a mera «conferenza cinematografica». Il documentario votato all’ «efficacia» dell’audiovisione ri­ pensa ben diversamente il proprio rapporto con la realtà documentata. Nel cinema la resa della realtà è nel contempo a) restitu­ zione mediata, b) capitolazione rivelatoria, c) rendimento semantico, d) giacenza illimitata; ossia, a) la realtà filmata contiene in sé la traccia del filtro mediale e il timbro sog­ gettivo della messa in immagine; b) la realtà capitola dietro al suo essere costantemente messa in posa, ma questo suo conformarsi falsificante rivela l’assiologia che sta alle spal­ le di ciò a cui si arrende; c) la realtà filmata non viene mai assunta come mero sfondo di una storia, ma viene scelta in base ai valori che essa può irradiare nel testo; d) la realtà resta residualmente inscritta nel più immaginifico dei mon­ 32

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di possibili, dato che questo non può che darsi come ri­ configurazione del “normale” abbigliamento del mondo, come ricombinazione dei suoi tratti (la realtà resta il de­ posito della fantasia).

Note:

1 La frase riportata è tratta da “Le film historique et ses problèmes. Entretien avec Michel de Certeau et Jean Chesneaux”, fa cinéma, n. 1213, 1977, pp. 3-15; trad, in G. Gori, Passato ridotto, Firenze, La casa Usher, 1982. 2 Goodman [1968] ha evidenziato come alcune arti abbiano un regime di autenticità connesso semplicemente aU'identità di compitazione del testo notazionale che ne è alla base. Saranno perciò “autentiche” sia le riproduzioni «accurate», sia le esecuzioni «congruenti», ad esempio, di uno spartito musicale. Queste arti, denominate aiiografìche, si distin­ guono da quelle di cui si dà solo un unico esemplare originale dell’o­ pera (arti autografiche). La sceneggiatura, per quanto possa arrivare a fini prescrizioni di découpage, si pone, ben diversamente da una par­ titura tradizionale, come un testo generativo consapevole che il film de­ rivatone si autonomizzerà da essa. Del resto, il cambiamento di so­ stanza dell’espressione tra denotazione e esecuzione richiede quasi sempre una reinvenzione, una creatività nel passaggio dal testo gene­ rativo a quello generato: il cinema è allora un’arte a due fasi, di cui la seconda tende ad autonomizzarsi fortemente come arte autografica ad oggetto muìtipio [Basso 2002]. 3 Si veda l’intervento di Becker in questo volume. 4 Witold Gomborwicz, Cosmo (1964), Milano, Feltrinelli, 1990, dal­ l’appendice che raccoglie pagine dei Diari, p. 205.

Riferimenti bibliografici:

Becker, Howard 2001 “LOeuvre elle-méme”, in J. Majastre e A. Pessin, a cura di, Vers une sociologie des Oeuvres, Paris, L’Harmattan, pp. 449-63. 33

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Ferro, Marc

1974 “Le film: une contre-analyse de la société”, in Jacques Le Goff e Pierre Nora (eds.), Faire del’histoire, Paris, Gallimard, 1974. Ferro Marc 1977 Cinéma et histoire, Paris, Denoèl; trad. it. Cinema e storia. Linee per una ricerca, Milano, Feltrinelli, 1980. Genette, Gérard 1994 L'CEuvre de i’art. Immanence et transcendance, Paris, Seuil; trad, it. L’opera d’arte. Immanenza e trascendenza, Bologna, Clueb.

Grierson, John 1932 “Documentary”, Cinema Quateriy, n. 2; trad. it. in Andrea Mar­ tini (ed.), Utopia e cinema, Venezia, Marsilio, 1994.

Odin Roger 2000 Fiction et cinéma, Paris, Nathan. Sorlin Pierre

1977 Sociologie du cinéma, Paris, Aubier; trad. it. Sociologia del cinema, Milano, Garzanti, 1979.

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1. IL DOCUMENTARIO IN QUESTIONE

1.1. Cinema e storia (di Pierre Sorlin)

Le definizioni teoriche della storia sono raramente soddi­ sfacenti nella misura in cui mirano alla “scientificità” in­ vece di partire da un dato molto semplice: è storico ciò che è trascorso. La lontananza nel passato non ha importanza in se stessa: la storicità non si misura nell’arretramento nel tempo, ma al compimento. E necessaria però, perché intervenga il riconoscimento di un carattere di storicità, una frattura completa rispetto al momento presente. In questo senso qualsiasi relazione retrospettiva basta a clas­ sificare, almeno superficialmente, un film come storico. La coscienza storica, come si è sviluppata nella cultura occidentale, è una coscienza del passato come definitiva­ mente abolito. Perché allora attribuire tanta importanza a quello che non ritornerà più? Qui interviene un aspetto costitutivo, fondamentale della vita sociale: in tutti i gruppi, che siano famiglie, sindacati, comuni, squadre sportive o nazioni, troviamo un nucleo di ricordi, veri o falsi, imbelliti o semplificati, che permettono ai parteci­ panti di ritrovarsi e di attaccare discorsi, molto spesso vuoti, però necessari, perché rappresentano lo sfondo sonoro, la tessitura sui quali si abbozzano le forme del­ 35

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l’azione collettiva. Questa memoria è fugace, non esiste fuori del pensiero dei membri del gruppo. Gli storici lo sanno perfettamente, si sono attaccati a rac­ cogliere le testimonianze di quelli che vissero le due guer­ re. Aldilà delle esperienze individuali, i racconti di vita mettono in rilievo alcuni ricordi comuni a tutti e costitui­ scono un testo mai scritto, sfuggente, ma necessario per concretare il gruppo. Come sistemare elementi dispersi per trarne un’espressione coerente del contenuto della memoria? A questo punto interviene la storia, racconto si­ stematico che supera gli elementi di cui viene costituito. Il ricorso alla storia non costituisce, in una società, una scel­ ta secondaria: suggella, tra i membri, un accordo tacito, esercita una funzione sociale. Gli storici traggono la parte essenziale del loro materiale da testi. Etimologicamente, testo rimanda a tessile e a tes­ suto; un testo, come un tessuto, è una combinazione di ele­ menti assemblati in modo da costituire un prodotto auto­ nomo; con questa definizione molto ampia, l’origine degli elementi, la natura del testo non hanno importanza: conta soltanto il fatto che si tratta di un assemblaggio e il fatto che il testo è individualizzabile. Un libro, un giornale, una pittura, ma anche un oggetto della vita quotidiana o un film sono testi. Ma la storia è anch’essa un testo - o meglio una serie di testi. Conosciamo il passato soltanto attraverso dei testi: ciò che chiamiamo documenti, disegni, rovine, monete, atti scritti, sono già dei testi di cui lo scrittore si serve a sua volta per costruire un altro testo. Il film è, anche lui, un testo. Lo storico che affronta per la prima volta lo studio delle qualità cinema­ tografiche viene messo fuori strada dalla monotonia di ciò che vede, immagina che la censura sia passata di là e che abbia sottratto i negativi interessanti, sogna scoperte sen­ sazionali nelle bobine non utilizzate o nei fotogrammi ta­ 36

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gliati durante il montaggio. Infatti i modelli consentiti in­ fluenzano l’insieme della lavorazione, sia si tratti della scel­ ta dei soggetti, delle riprese, del montaggio e della pre­ sentazione delle rubriche; indicazioni precise definiscono ciò che merita di essere girato, e norme tacite, che non è necessario formulare, regolano le riprese. Come fare a lavorare con documenti incompleti, parziali, spesso predeterminati? Dopo i primi tempi del cinema, i registi che vogliono realizzare un film storico hanno sempre intrapreso un rapporto molto particolare con il loro mate­ riale e con il loro pubblico, hanno esitato tra l’uso esclusivo di documenti autentici e la creazione di riprese capaci di evocare una certa atmosfera. Durante i decenni iniziali del cinema la nozione di autenticità, che era già importante, non aveva il significato che le diamo oggi: voleva dire fe­ deltà allo spirito, alla maniera di pensare e di vivere di un periodo remoto; il compito di un regista era di capire l’at­ mosfera di un’epoca e di restituirla. I registi non ignorava­ no le fonti storiche ma le utilizzavano soltanto come punto di partenza, come origine sulla quale poter edificare la loro interpretazione della storia; parlando di Intolerance, Grif­ fith affermava che voleva “illustrare” dati che aveva sco­ perto negli archivi e, molto spesso, presentava un testo o un disegno prima di svilupparne la sua interpretazione. In­ somnia il cinema storico si concepiva come una variazione basata su uno studio della documentazione. Il principio era valido per tutti i periodi, anche per la storia contempo­ ranea; Gaido e Rosa usavano per Martiri d’Italia (1927) materiale di repertorio e finzione mentre, reciprocamente, in un’opera che può essere considerata una vera pellicola storica, L'assedio dell’Alcazar di Genina (1939) venivano usate riprese fatte nel 1936-1937 e riprese di tipo docu­ mentario girate dopo la guerra; la differenza tra i due tipi di materiale è, in alcuni momenti, quasi impercettibile e, mol37

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to spesso, non siamo in grado di decidere quali pezzi sono “autentici” e quali sono “contraffatti”. Un nuovo tipo di film storico si sviluppò, nel secondo do­ poguerra, sotto l’influenza decisiva della serie di Frank Capra, Why we fight. Presentata nei paesi più piccoli su­ bito dopo la liberazione, quando la guerra era ancora lon­ tana dalla sua fine, la serie fu considerata una grande le­ zione di storia; oggi ne vediamo i difetti: il messaggio è troppo semplice, il commento è enfatico, il parallelo tra vi­ ta pubblica e vita privata, il contrasto tra libertà e totalita­ rismo sono puerili; eppure dobbiamo capire che, per la prima volta, il pubblico era di fronte a documenti prove­ nienti da tutto il mondo, l’immagine faceva risentire l’am­ piezza del conflitto ed un testo un po’ enfatico, supporta­ to da mappe animate e materiale di repertorio, ricostruiva le grandi battaglie. L’espressione che venne allora usata fu quella di “film di montaggio”. Ovviamente è errata. Dal momento che non è un unico piano fotografato dall’inizio alla fine senza interruzione della cinepresa, un film è un montaggio: la combinazione di diversi piani costituisce uno degli aspetti originali del­ l’espressione cinematografica e non c’è nessuna ragione di attribuirla a una sola categoria di film. “Montaggio” si impose però perchè faceva riferimento all’importanza del­ la selezione del materiale e della sua organizzazione in se­ quenze: le scelte negli archivi non venivano fatte a causa dell’interesse documentario o della bellezza delle immagi­ ni, ma seguivano la logica precedentemente stabilita del montaggio; i documenti avevano la precedenza su tutto il resto. Il successo del film di montaggio fu rapido, il pub­ blico si appassionò subito per un tipo di film che dava la preminenza alla visione, che mostrava invece di racconta­ 38

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re, che guardava i personaggi, scrutava i visi con grande simpatia e attenzione, ma totalmente dall’esterno. Propongo di dividere i film di montaggio in tre categorie: 1. Le celebrazioni. Dopo la metà degli anni Sessanta, il fa­ scismo, le due guerre, la crisi del 1929, i grandi fatti sportivi, le invenzioni famose appaiono quasi ogni set­ timana sugli schermi. I programmi celebrativi sono di ottima qualità, la sceneggiatura è stata scritta da storici professionisti che hanno lavorato nelle cineteche, l’informazione è precisa, il punto di vista è equilibrato; si tratta insomma di lezioni tradizionali di storia che tentano di mostrare gli interessi rispettivi di tutti, un centro narrativo e una conclusione puntata verso il fu­ turo; immagini, suoni, testimonianze servono per illu­ strare un discorso che prende la cronologia come prin­ cipio direttivo. Visto che il regista non vuole che nessun reduce venga dimenticato queste pellicole sono spesso noiosissime. 2. La nostalgia. All’inizio degli anni Settanta i film della Cavani e di Louis Medie scatenarono un dibattito sul così detto “retro”, interpretazione spoliticizzata, pura­ mente sentimentale della guerra; Michel Foucault af­ fermò che la cosa nuova, tipica dell'evoluzione del ca­ pitalismo contemporaneo, era “il fenomeno di serie, la rete costituita da tutti quei film” che “occupavano” lo spazio e permettevano di dimenticare il carattere con­ flittuale della storia. Foucault non sapeva che, quando parlava, la “serie” era già vecchia di quindici anni e che era una derivazione della corrente del montaggio: basta citare il titolo di una trasmissione RAI del 1955: Dieci anni di vita italiana: cronaca della vita politica, della ricostruzione, del costume italiano dalla Liberazione ad oggi. Molti film appartengono a questo gruppo di 39

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pellicole fatte esclusivamente con materiale di reper­ torio sistemato intelligentemente, divise in episodi bre­ vi, condite con estratti di film di finzione o di varietà, piene di canzoni e di battute, capaci dunque di tenere sveglia l’attenzione. 3. La lotta politica. Le opere di montaggio più interessan­ ti furono sfide, parlarono per una causa, legarono il passato all’attualità e tentarono di trarre lezioni dallo studio della storia. Da lì il loro successo e le critiche spesso aspre che furono loro rivolte. Costituiscono un insieme originale, caratteristico degli anni Sessanta, so­ no state abbastanza numerosi durante il periodo e la quantità ha influito sul pubblico che si è abituato allora a questa forma di racconto. L’esempio più famoso e forse più interessante è All’armi slam fascisti (1962), un’opera eccezionale visto che poche pellicole hanno tentato di andare oltre una concatenazione meccanica di riprese e di dare, come il lavoro di Del Fra, Mangini e Miccichè, una interpretazione del presente attraverso il passato. All’opposto dei film di commemorazione che insistono soltanto su un determinato fatto, i mi­ gliori montaggi selezionano momenti che, all’epoca, hanno avuto una grande risonanza; non descrivono, si accontentano di un commento molto breve che lo spet­ tatore sente appena, se sta attento a quello che vede. Tra questi punti di riferimento inseriscono sequenze che devono documentare la quotidianità di una situa­ zione, insistono sul tempo, sull’attesa, sullo sforzo ri­ petitivo. Generalmente il montaggio si fa suggestivo, cerca il significato simbolico di un evento, di un in­ contro; il montaggio visuale e sonoro bastano per tra­ smettere il messaggio del cineasta. Si tratta di creare impressioni usando a fondo il mezzo cinematografico affinché l’immagine sia suggestiva e attraente e che, 40

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quando propone un’interpretazione, “dica” più del te­ sto. Eppure, a volte, indicazioni precise sono necessarie; come introdurre senza parole un dato preciso? Mentre il discorso si fa allora più preciso, la rappresentazione tende verso il simbolico senza perdersi nell’astrazione, la macchina da presa non informa, crea soltanto uno sfondo visivo molto evocativo che non può accattivarsi il pubblico e gli permette di sentire la voce del narrato­ re. Il film, insomma, è attentissimo al ritmo, le riprese sono lunghe, con panoramiche lente quando il pubbli­ co deve convincersi dell’utilità di quello che viene pre­ sentato sullo schermo o dalla colonna sonora. Ma in altri momenti bisogna soprattutto far percepire l’acce­ lerazione della storia; i Russi avevano già proposto una serie di modelli possibili negli anni Venti e, sulla loro scia, i registi tentano di illustrare simultaneamente le differenze e le somiglianze, l’opposizione ideologica ra­ dicale e la comunità di reazione. Vorrei far sentire che il fascino di questi film risiede nella volontà di dare una lettura della storia attraverso i mezzi cinematografici. L’interpretazione degli eventi è parziale, discutibile, ma l’obiettività non esiste in questo caso, è la vita stessa, con le sue ambiguità, che costringe gli storici a dare la loro opinione, che scrivano libri o facciano lavori au­ diovisivi. L’interesse enorme della corrente del mon­ taggio è che ha voluto far parlare l’immagine invece di metterla al servizio del discorso scritto; se la storia uffi­ ciale, accademica, accetta un primo confronto col cine­ ma alla fine degli anni Sessanta, possiamo ritenere che si rassegnò a questo passo avanti solo perché era im­ possibile ignorare i film di questa corrente. I tentativi per creare un nuovo cinema storico basato esclusivamente su documenti di repertorio e riprese com­ plementari di carattere puramente informativo non con­ 41

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fluirono nella creazione di una scuola. Al contrario, il prin­ cipio stesso venne criticato aspramente e se la televisione ha sempre consacrato molto spazio all’evocazione storica, se ha trasmesso cinegiornali e opere filmiche tratte dagli archivi, se ha usato il montaggio in modo celebrativo, ha anche dato spazio ad esperienze abbastanza diverse. Dalla fine degli anni Sessanta a oggi la questione dei documenti audiovisivi e della loro utilizzazione sullo schermo è stato il pretesto di un dibattito permanente che ha avuto un im­ patto così rilevante sulla comprensione e la presentazione del passato che non possiamo ignorare. Le polemiche e le critiche attinenti alla questione del montaggio hanno co­ nosciuto due tappe successive che vorrei esaminare adesso. Devo notare che le scelte politiche dei cineasti non hanno influito sulle discussioni; nelle due fasi successive i giovani registi opposti al metodo stabilito negli anni Sessanta vo­ levano, come gli anziani, rompere il silenzio mantenuto dal governo e, in particolare, costringere la televisione a parlare degli aspetti più vergognosi della storia francese durante l’occupazione tedesca. Gli alterchi, per duri che siano stati, si sono limitati alla questione del documento “originale” e del suo valore storico. E stato notato molte volte: documentari e cinegiornali, prodotti dai governi o deli ceti dirigenti che detengono i mezzi di produzione e di diffusione, fanno vedere gli even­ ti o i fatti sociali che corrispondono agli interessi di circo­ li ristretti. Questo può essere corretto grazie a un lavoro molto attento sui dettagli, sui punti minuti che sono sfug­ giti alla censura e che lasciano intravedere una realtà di­ versa da quella ufficiale. Rimane però il fatto che, durante una giornata, poche cose vengono filmate: il materiale è la­ cunoso, a volte inesistente, non permette di costruire un racconto storico in maniera lineare, consequenziale. Quel­ lo che è stato girato costituisce, per il cineasta che ha bi­ 42

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sogno di documenti, l’unico evento accessibile, dunque l’unico evento reale; All’armi slam fascisti insiste molto sulla seconda guerra mondiale perché è importantissima ma anche perché il materiale è molto ricco: in altre parole i registi sono stati obbligati ad inserire nel loro film quello che il cinema aveva scelto e privilegiato durante il periodo. Ammettiamolo, i film non sono documenti neutrali, fanno parte dell’evento stesso, ne sono l’aspetto visibile, pub­ blico. Il compito dello storico non sarebbe dunque di fare un discorso coerente a partire dalle fonti ma di mettere lo spettatore a confronto con queste fonti che ha già visto, al­ meno parzialmente, ma che non ha analizzato. Torino: la coscienza operaia di Ivan Palermo (1972) deve il suo successo al fatto che andava contro corrente e rifiutava l’ortodossia dominante di un antifascismo unanimistico, ma soprattutto al suo tentativo di mettere in tensione due visioni, quella dei documenti girati durante la guerra e quella dei testimoni intervistati durante la realizzazione del film. Altri registi avevano chiesto ai sopravvissuti di com­ pletare la fotografia, di darle una maggiore intensità, ma, nel film di Palermo, la parola non sostiene l’immagine, l’assemblaggio tra cinegiornali e ricordi tende a staccare i due livelli costringendo così il pubblico a decidere da solo quando c’è coincidenza, assenza di relazione o contraddi­ zione tra di loro. Il paragone funziona in modi molto di­ versi. Il più semplice è quello della verifica: i conflitti tra componenti della resistenza, tra base e vertice del movi­ mento, di cui gli storici parlano molto spesso, vengono rappresentati davanti agli occhi degli spettatori, con una violenza che il tempo non ha ridotto. Qui non è la memoria individuale che viene messa in discussione, si tratta di una domanda più ampia: quali sono le tracce lasciate dal pas­ sato quando la situazione è totalmente cambiata? Insisto sull’effetto prodotto attraverso il montaggio di testimo­ 43

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nianze così diverse e attraverso il paragone tra ieri e oggi: i documenti del 1943 tentano di creare un’impressione ge­ nerale, sono pezzi di propaganda al servizio del governo, parlano di guerra, ma di una guerra astratta, lontana. Al­ l’opposto, nel presente, l’operatore vuole soltanto cogliere la faccia dei testimoni, li segue con grande fatica per non disturbarli e lasciarli completamente liberi nelle parole e nei gesti, li guarda per così dire negli occhi in modo che se il vi­ so subisse un’alterazione il pubblico lo percepirebbe: qui il montaggio viene cancellato per lasciare intatta la ripresa. Il film di Palermo non è stato l’unico (potrei citare parec­ chi esempi ma non faccio una storia del film di montaggio, cerco soltanto di far capire come le vicende politiche han­ no influito sulla rappresentazione del passato): Allarmi siam fascisti venne fatto in un momento in cui il neo-fasci­ smo era una vera minaccia, tentò di far vedere ad una ge­ nerazione cresciuta dopo la guerra come l’ascensione di Mussolini si era chiusa in un disastro nazionale mentre Torino: la coscienza operaia fu un prodotto del dopo 1968, inserito nei dibattiti sulla rivoluzione e la fine del capitali­ smo, mirò a sottolineare l’assenza di rapporto necessario tra lotta armata e lotta nelle fabbriche.

Questa corrente filmica degli anni Settanta ha cambiato l’uso del documento originale nel cinema storico, ha mo­ dificato il senso della parola “montaggio” e ha inaugurato un processo di diffidenza sempre crescente nei confronti dei documenti visivi. Quindici anni dopo, Shoah è stato il caso più clamoroso di rifiuto delle testimonianze grafiche, ma non voglio fermarmi su questo film perché è un’opera troppo diffìcile, troppo commovente per essere trattata co­ me un film banale; per «litro non fu il primo lavoro audio­ visivo a rifiutare i film d’epoca e preferisco parlare di una pellicola molto suggestiva ma meno drammatica, Piazzale 44

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Loreto di Damiano Damiani (1980). Il film tenta di far ca­ pire che cosa è la memoria storica. Esistono alcuni docu­ menti audiovisivi sulla strage, ma che cosa potrebbero mo­ strarci vittime che, purtroppo, somigliano a tante altre vit­ time? Sono dati evidenti. L’ambiente del periodo? Nei fat­ ti, cinegiornali o documentari mostrano poche cose e, visto l’uso che ne fanno la televisione o i produttori di cinema, sono diventati pezzi da museo, rimangono nascosti negli ar­ chivi, vengono tirati fuori di quando in quando ma non so­ no mai per noi oggetti quotidiani, non sono in grado di ri­ suscitare il senso della tragedia; parlano, nei migliori casi, dei “grandi del mondo” che avevano edificato la loro im­ magine prima di morire. Alla fotografia, registrata, fissata per sempre, riproducibile all’infinito, ottima soltanto per le celebrazioni, Piazzale Loreto oppone la memoria attuale, vi­ vace, capace di muoversi avanti. Palermo aveva cercato dei testimoni ma li aveva chiusi nel confronto col passato; Da­ miani confronta i sopravvissuti o la famiglia dei partigiani trucidati con gente del momento in cui gira il film. C’è sempre una costruzione ma non si ferma sul dettaglio degli eventi, restituisce una visione o un’assenza di conoscenza, una censura inconscia della guerra, passa a volte dal pre­ sente al passato quando un ricordo si connette con un do­ cumento ma non tenta di scoprire nei documenti dettagli che l’intervistato non ha segnalato. Per questo deve rinun­ ciare a dirigere le interviste e sottomettersi a quello che la gente può o vuole dire; il suo intervento si limita al ritmo molto rapido delle testimonianze: non è l’informazione l’e­ lemento decisivo, è la personalità dell’interlocutore, la sua memoria fatta presenza. Mi sono fermato su questo film perché, al di là del suo in­ teresse, mi sembra tipico di una nuova concezione della storia filmata. Se avessi potuto parlare di Shoah avrei insi­ stito, nella stessa maniera, sull’ignoranza consapevole, in 45

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questo film, del materiale girato dai Tedeschi o dagli Al­ leati, sull’uso esclusivo di oggetti, binari, treni, muri che non sono mummificati e fanno parte del mondo in cui vi­ vono i testimoni. Avrei anche mostrato come i ricordi non sorgono dall’evocazione della storia ma dall’incontro con impressioni tornate dal passato, con l’ascolto di una can­ zone sentita al tempo del lager, col ritorno nella foresta do­ ve lavoravano i deportati: il cineasta non cerca una docu­ mentazione preesistente, costringe i testimoni a parlare e crea una nuova fonte, una fonte aperta, diretta al pubblico, capace di farlo reagire e forse di testimoniare a sua volta. Siamo entrati in un nuovo periodo del film storico. Il pri­ mo aspetto rilevante ne è la liquidazione della convenzione più solidamente radicata del discorso storico, la nozione di epoca nettamente circoscritta, all’inizio e alla fine, da date molto precise. La cronologia è indispensabile come punto di riferimento, impedisce accostamenti assurdi, ne sugge­ risce altri che si rischierebbe di ignorare; tuttavia il suo va­ lore resta puramente indicativo: un cinema aperto, poco preoccupato delle connessioni perfettamente controllate, dimostra che nessun periodo è isolabile e che l’evoluzione della società è un fenomeno di lunga durata. La storia parte dall’immediato, è uno studio fatto oggi su ciò che è successo ieri. Qualsiasi precauzione prenda, lo storico non risuscita il passato, la sua rievocazione ri­ mane sempre una ricostruzione che si muove dalla trama degli eventi alla testimonianza costituita. Il cinema dà modo di sconvolgere questa relazione facendo intervenire i testimoni nell’evocazione. Non si tratta però della costi­ tuzione di archivi del futuro promessi agli storici di do­ mani, si tratta di un vero lavoro che tende a risistemare ciò che viene detto in rapporto al passato e al presente. Il passato non è affidato alla sola fantasia del testimone: esi­ stono tracce (fotografie, oggetti, giornali, lettere) che il re­ 46

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gista deve ritrovare per sottoporle, come punto di attacco e di confronto, a colui che interroga. La ricerca storica è entrata, nella seconda metà del ventesimo secolo, in un periodo di profondo mutamento, ha abbandonato certe vecchie strade come la descrizione cronologica, la deter­ minazione univoca delle cause, la descrizione lineare, ha cominciato ad interrogarsi sulle implicazioni della sua na­ tura esclusivamente testuale. L’ha fatto perché i tempi cambiano ma anche perché ci sono il cinema e la televi­ sione che costituiscono i primi mezzi di apprendimento, che introducono la gente ad un’altra visione del passato. L’evoluzione della storiografia e quella degli audiovisivi non sono rigorosamente simmetriche ma vanno nella stes­ sa direzione, non vogliono soltanto raccontare quello che è accaduto: tentano di capire perché i fatti di ieri influi­ scono sull’evoluzione di oggi, in altre parole perché gli uomini hanno una memoria storica.

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1.2. L’uso dell’immagine nella ricerca sociale (di Howard Becker)

Cosa s’intende quando si parla di “verità” della fotografìa? Da una parte, tutti e non solo i critici esperti, sappiamo che le fotografìe possono trarci in inganno. Dall’altra, sap­ piamo pure ciò che i critici esperti sono restii ad ammet­ tere ma che alla fine la loro stessa professione rivela: e cioè che tutti ci fidiamo, fino ad un certo limite, delle pro­ ve offerte da un’immagine fotografica. Sappiamo che le immagini sono costruite in modo tale da poter dire qual­ siasi cosa vogliamo farle dire, e sappiamo anche che nella vita quotidiana ci capita di guardare delle immagini e pen­ sare (a buon ragione) di aver imparato qualcosa al di là delle idee e delle convenzioni del fotografo. Per parlare di fotografìa come “prova" è opportuno met­ tere da parte la confusione filosofica riguardante la sua “verità” o meno e trattare più realisticamente del contri­ buto che in effetti la fotografìa può portare alle discussio­ ni delle scienze sociali. A Seventh Man, l’opera assai nota di John Berger and Jean Mohr sul lavoro degli emigrati in Europa, può essere visto, non a torto, come un lavoro di scienze sociali. In­ fatti descrive un discorso analitico sull’organizzazione ed il significato funzionale del lavoro emigrante per i paesi ospitanti, i paesi che esportano manodopera e per gli im­ migrati stessi. Inoltre fornisce solide prove sia testuali che fotografiche ad esplicazione della sua tesi. Infatti, le foto sembrano al di là di ogni questione contribuire alla credibilità degli argomenti. Dunque il libro sembra aver risolto i problemi della credibilità fotografica, ma come? In che modo le fotografie contenute in A Seventh Man possono fornire prove così chiare? 48

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Le sequenze fotografiche di A Seventh Man incorporano ciò che può essere chiamata una generalizzazione specifi­ cata. Come suggerisce Berger, le foto sono irrimediabil­ mente specifiche. L’immagine rappresenta sempre qual­ cuno o qualcosa in particolare, non un’entità astratta o una creazione concettuale. Non si possono fotografare il capitalismo o l’etica protestante, bensì solo le persone o le cose che esemplificano, personificano o simboleggiano si­ mili idee. I lavoratori emigranti che in queste foto vengono visti in coda per la visita medica, aggregarsi alle stazioni ferroviarie di città tedesche alla domenica mattina per vi­ sitare i compatrioti, lasciare i loro villaggi turchi (o italiani o iugoslavi) per quelle città tedesche (o svedesi o francesi o belghe) - sono persone reali. Provengono da un reale e specifico villaggio e si sono recati in una reale e specifica città industriale dell’Europa Settentrionale per lavorare e vivere in specifiche e reali baracche. Ma non sappiamo i loro nomi o da dove vengano esatta­ mente. Si può dare un’occhiata al retro del libro sotto la voce “Lista delle Illustrazioni” per venire a sapere dove sia stata scattata questa o quella foto (in un villaggio siciliano o in una fabbrica di Lione), ma è solo una distrazione. Conoscere quei dati non aiuta alla comprensione dell’ar­ gomento generale del libro. I sottotitoli attestano in effet­ ti la realtà delle immagini, il fatto che sono state scattate in luoghi reali in tutta Europa ed nel vicino Oriente (altri­ menti, pensiamo, nessuno si prenderebbe la briga di falsi­ ficare così tanti paesaggi). Ma Berger e Mohr volgono le immagini ad un fine specifico, che non è quello conven­ zionale del documentario che incarna un’idea generale co­ me la “dignità umana”. Le immagini insomma non devono servire a specificare o incorporare solo un’idea, ma anche a spiegare un argomento ad esse connesso e coerente. In altre parole le immagini da loro presentate sono l’evi­ 49

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denza, le istanze specifiche del tema generale. Esse non comprovano l’argomento come ci si potrebbe attendere da una prova scientifica, ci assicurano bensì che le entità del­ l’argomento astratto, la storia generalizzata, esistono ef­ fettivamente, ci sono persone reali che si spostano per an­ dare a vivere in luoghi reali. Ciò non è evidenza come prova necessaria, piuttosto come ciò che viene talvolta chiamata prova d esistenza, e cioè un mostrare che la cosa di cui si parla è in realtà possibile. Berger e Mohr non dichiarano esplicitamente cosa mo­ strano le immagini, quello che vorrebbero che noi ci leg­ gessimo. Non rendono esplicite le connessioni tra le idee nel testo e le immagini, né i due concetti si connettono au­ tomaticamente. No. Con A Seventh Man gli autori pre­ sentano molto materiale lasciando a noi la facoltà di con­ nettere il tutto. Il che non è così diffìcile come sembra, ma allo stesso tempo non così automatico. E forse ci capiterà di non fare quelle connessioni che gli autori si aspettano o sperano che noi indoviniamo. Forse non vedremo gli uo­ mini scendere una rampa di scale in quella che ci viene detta essere la stazione di Ginevra, anche se potremmo, ma è anche possibile non vederli nell’ottica presentataci da Berger e Mohr di lavoratori emigranti: «Sembra che non usino i loro occhi eppure camminano velocemente» (p.66). Forse. «Arrivano in gruppo come una banda. Si dicono a parole e gesti che sono più forti ed hanno più stamina de­ gli abitanti della città straniera» (p. 67). Forse. Ma forse no. La chiave di queste letture non è così ovvia. Si possono immaginare altrettante possibilità ragionevoli. L’osservatore deve darsi da fare per vederli, “non usare i propri occhi”, e ciò fa notare cosa sia distintivo di simile uso di prova visuale. Gli autori pongono dei punti precisi ma le immagini non vi sono connesse esplicitamente come prova. Restano semplicemente là, come la storia di He, 50

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sono pezzi di un puzzle riformabile in tante combinazioni diverse da parte dell’osservatore che potrà evidenziare un argomento e approfondirne la comprensione. Dunque, le immagini sono generalizzazioni specifiche, ci invitano cioè a generalizzare nella direzione in cui si svi­ luppa l’argomento del testo. Ci mostrano le istanze reali di cui parla il testo con abbastanza dettagli a proposito della specificità delle persone e dei luoghi da farci fare sempre più interpretazioni. In tal modo le istanze divengono sia specifiche che generali, sia astratte che concrete. Il che ri­ sponde alla domanda spesso fatta da coloro che solita­ mente usano materiale visuale per i loro lavori di scienze sociali: quale uso si può fare delle immagini che non si possa fare anche con parole o numeri? La risposta è che con la fotografìa posso portarti a credere che la storia astratta che ti ho raccontato ha vita vera, fatta di sangue e carne, e pertanto è credibile in un modo che è diffìcile da accettare se invece delle immagini avessi un tema e delle note a riguardo e potessi solo chiederti se in effetti esiste qualcuno là fuori che corrisponde a ciò che ti immaginavi.

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1.3. Problemi del cinema come documento: lo statuto con­ troverso dell’immagine e l’attendibilità del documenta­ rio (di Sergio Prosali)

Fino a qualche anno fa si tendeva a reclamare dal docu­ mentario un approccio “scientifico”. Si riteneva da molte parti che il documentario, per raggiungere quel grado mi­ nimo di oggettività che lo rendesse attendibile, dovesse spo­ gliarsi della soggettività. E, quanto più ci si trovava in am­ bito scientifico, tanto più si teneva in sospetto la compo­ nente estetica che accompagna, in proporzione maggiore o minore, il documentario, che lo accompagna se non altro perché, se vogliamo semplificare, ogni elaborazione visuale possiede una forma grafica, ed una forma grafica già assume una dimensione estetica. Ora, appunto la dimensione este­ tica del documentario pareva porsi in contrasto con l’at­ tendibilità. Al limite il documentario avrebbe dovuto spo­ gliarsi di ogni “seduzione formale”, come si diceva allora, per assumere invece un carattere neutro e impersonale, uni­ co garante della cosiddetta oggettività. L’autore ideale avreb­ be dovuto essere un tecnico tanto perfetto da sparire come persona e diventare una presenza-assenza, un’identità astrat­ ta e puramente strumentale all’oggetto ritratto. Peccato che un autore così comodamente neutrale non esistesse. In pra­ tica stava accadendo questo: così come Kierkegaard aveva teorizzato il famoso aut aut fra estetica ed etica, così nel campo degli studiosi si presupponeva un aut aut fra qualità estetica e qualità scientifica. L una non poteva che escludere l’altra. Conseguenza: i documentari giudicati scientifici ten­ devano al grigiore assoluto, mentre quelli coinvolgenti e at­ traenti venivano giudicati non scientifici. Questo aut aut ha attraversato parte notevole della cultura italiana. Al Festival dei Popoli lo si è avvertito nettamente. 52

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Ora, esiste un aspetto del cinema che può far capire certe perplessità. Lo sintetizzerei nel carattere linguistico gene­ rale del cinema, carattere che ho trovato formulato al me­ glio in alcune osservazioni di Pier Paolo Pasolini. Dice Pa­ solini che quello del cinema è un linguaggio molto partico­ lare perché già all’origine, nelle strutture più elementari, presenta grande complessità, polivalenza e ambiguità. Io non posso dire locomotiva, non posso dire pane, attraverso il cinema, senza già mostrare una certa locomotiva, un cer­ to pane, in precise situazioni di ambiente, in condizioni di ora e di luce che sono quelle e non altre, entro un determi­ nato contesto ambientale che ospita quella particolare lo­ comotiva e quel particolare pane. Insomma non esiste nel cinema una struttura linguistica concettuale, non esiste qualcosa di simile a quello che nel discorso è la parola: già troviamo, nella più semplice inquadratura, una serie di da­ ti che corrispondono a vari sostantivi, a innumerevoli ag­ gettivi qualitativi e quantitativi, a tutta una descrizione. La teoria di Pasolini non è così semplice come qui l’ho rias­ sunta; ne estraggo l’essenziale solo per arrivare a una delle sue formulazioni, che il cinema, diversamente dal linguag­ gio scritto e parlato che può servire sia al discorso estetico che a quello scientifico, è un luogo privilegiato del lin­ guaggio poetico, anzi è il linguaggio poetico stesso. Non so se possiamo accettare in tato questa conclusione di Pasolini. Ritengo però che, se barattiamo il termine poesia con il termine esteticità, la formulazione risulta attenuata e possiamo enunziarla così: quello del cinema è un linguag­ gio che non possiede le elementari strutture grammaticali ma svolta subito verso forme più complesse di esposizione, già permeate di caratteri estetici. Forme, nel momento stesso che appaiono, e quand’anche ciò avvenga a un li­ vello assai elementare, già estetizzate. Da questa manipo­ 53

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lazione non esiste difesa. Il documentario potrà anche es­ sere un documento ma in ogni caso resta un opus. Ma c’è qualcosa di più importante, come conseguenza di tutto questo. Il documentario non dice mai solo quello che vuole dire, non ritrae solo quello che si propone di ri­ trarre, non espone solo ciò che vuole esporre, ma finisce con l’inglobare neH’immagine una quantità di dettagli o sfondi che allargano il discorso e moltiplicano i significati possibili. Il suo discorso è sovradeterminato. E tale com­ mistione può apparire irritante a chi cerchi una verità o realtà isolata, manovrabile in provetta, perchè ve ne ritro­ va tante altre. Trova nel documentario, accanto al testo centrale, un’ampia contestualità che può apparire spuria a chi tende alla concettualizzazione. E questo l’aspetto im­ barazzante, mai del tutto controllabile, del documentario. Aspetto linguistico che il documentario ha in comune con il cinema di fiction. Per questo sono tante le letture possibili del film. Personal­ mente per anni mi sono difeso dalle opere insignificanti con una strategia marginale, cercando di individuare i luo­ ghi ritratti nelle opere di fiction. Fiano Romano o quel pun­ to di Fregene, la svolta del Tevere a Primaporta o quel trat­ to di mura a Cerveteri. Altri cercano i modelli di auto, chi la sessualità, chi gli abiti. Tutte letture parziali, possibili nella vasta contestualità del cinema, e anche in quella del docu­ mentario. La scientificità si trova in imbarazzo davanti al so­ vraccarico di dati che svia e ottunde l’analisi. E tuttavia, se affermiamo che il cinema è per sua natura il luogo della sovradeterminazione, della congestione, della complessità semantica, il crocevia di una verità troppo articolata in varie direzioni per essere afferrabile, questo vuol dire che il cine­ ma è il luogo quasi ideale dove si va a cacciare quella plura­ lità che i discorsi scientifici, in quanto discorsi estremamen­ te specifici, non riescono a trattenere ed esprimere. 54

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Con una battuta direi: il cinema è l’agorà del reale. Ci baz­ zicano tutto e tutti. Mettendo l’occhio e l’orecchio in questa agorà, capisci i misteri della città, cosa che non potevi fare stando a casa, neppure nella casa dell’arconte. Temo che non abbia ragione Sergio Leone, anche se mi piacerebbe che l’avesse, quando afferma che basterebbe mettere una macchina da presa a un angolo della Fifth Avenue e farla funzionare con inquadratura fissa dall’alba a mezzanotte per avere un magnifico film. Però quell’affermazione na­ sconde una verità metaforica: l’immagine in movimento è di per sé sempre gravida: anche nella sua indeterminatezza casuale coglie realtà sociali multiple e incrociate, abita i crocevia stessi della realtà. E se per caso risiedesse pro­ prio qui l’attendibilità del cinema documentario? La sua vera forza stesse nella debolezza teorica? E intanto che tipo di forza? La forza delle zone di confine. La forza di quei tumulti dove, essendoci più confusione e dunque più li­ bertà, si coglie nella folla un maggior grado di realtà e verità rispetto a quando tutto viene formalizzato, per esempio in una parata militare. La “scientificità” ama l’ordine ricono­ scibile della parata, il cinema purtroppo, o fortunatamente, fornisce soltanto il magma del traffico stradale, che però è la vita stessa, colta nella sua vasta imperscrutabilità, mo­ mentaneamente folgorata dall’obbiettivo. Ce lo confermerebbe il fatto che una delle più grandi emozioni di spettatori, che noi avvertiamo come felicità appartenente a un doppio ordine, quello estetico e con­ temporaneamente quello conoscitivo, il cinema, sia docu­ mentario sia di fiction, ce la dà quando riesce a situare il soggetto nell’ambiente. Il grande cinema è sempre in qual­ che modo un paesaggio con figure, o una figura contro un paesaggio. Anche il piccolo e magari l’infimo cinema. Ci­ nema alto o basso, ha bisogno di mostrare un uomo o una donna, oppure tutti e due, e nel documentario magari un 55

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processo tecnico come la costruzione di un igloo sulla ban­ chisa (Flaherty c/ocet), dentro un contesto figurativo che poi finisce per essere anche un contesto sociale. Il cinema realizza spontaneamente e direi ingenuamente, per quella sua tendenziale specificità linguistica che abbiamo visto, la massima aspirazione che molti grandi romanzieri hanno nutrito: mostrare un rapporto umano, una situazione drammatica o semplicemente una situazione di fatto, entro il suo proprio contesto, quella strada, quella zona della città, quella classe sociale, quel décor, quella contestua­ lità, quel sovraccarico di indicazioni che avrebbero fatto felice, se li avesse potuti raggiungere, un romanziere di metà ottocento. Naturalmente un film stupido lo fa in modo stupido, ma Pasolini ha ben sottolineato come, di là dal valore dell’o­ pera, esista il fascino primario di quella contestualità, il fa­ scino di quel sovraccarico di reale che l’immagine per sua natura, volente o nolente, si trascina dietro. Per questo il cinema ha convogliato su di sé tante ricerche tentate dal romanzo realistico e sociale, lasciando ormai alla lettera­ tura moderna l’approfondimento di quello che chiamerei l’infrareale, le zone della soggettività e dell’inconscio, ciò che Nathalie Sarraute chiama la sottoconversazione. Il cinema monopolizza l’interazione soggetto-ambiente, protagonista-sfondo, la assume su di sé, sottrae spazio ad altri media, si attesta sul crocevia fra tutte le direzioni: uo­ mo, eros, fondale in senso paesistico, urbano e sociale, natura umana profonda, natura artificiata, azioni su azioni e azioni sugli altri uomini, sulla natura e sulla ex-natura. E nessuno di questi aspetti, conformemente alla specificità linguistica del mezzo, può isolarsi, circoscriversi, ma deve venir rimesso in giro e in causa di continuo, rimescolato, riconfrontato, rimixato, ripresentato e rirappresentato sul displuvio fra i vari reali incrociati, nel puzzle e nel cruci­ 56

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verba di un inevitabile e ridondante miscuglio. Appunto questo miscuglio, questo magma, questa sovradeterminazione pluristratifìcata, che cosa sono se non l’essenza e la natura stessa del cinema, ossia il suo genio? La sua voca­ zione linguistica polimorfa? A questo punto potremmo saccheggiare la storia del cine­ ma per portare esempi di tede vocazione del mezzo, e del resto ciascuno potrà divertirsi a farlo da solo. Anche per­ ché il nostro piccolo discorso ci affretta verso un altro no­ do. Infatti finora abbiamo parlato del cinema in senso in­ discriminato, fiction e documentario insieme: ma non è del documentario che dobbiamo occuparci, e non ha esso le sue ben distinte specificità? Ecco, il nodo non è così gra­ ve come sembra. Il documentario non è così separato dal­ l’altro cinema quanto si crede: per decenni non lo è stato fino a Flaherty che all’inizio non sapeva nemmeno lui quanto fosse un documentarista o un cineasta di fiction, lui, che resta forse il dio di tutto quanto, passa sotto il nome ambivalente di documentarismo. Se si guarda bene, e molti teorici lo hanno sottolineato, il cinema rimane se stesso sia nel documentario che nella fiction. Stesso il linguaggio per piani e sequenze, stesso il lavoro generale di composizione e costruzione, medesima obbligatoria attenzione ai primi piani e agli sfondi. Mede­ sima prosa, direi, oppure medesima poesia, se si vuole. Se la lingua scritta di Galilei, che lo scienziato usava molto bene, è lo stesso italiano dell’Ariosto che Galilei amava, so­ lo volto in altra direzione, la lingua cinematografica è di gran lunga più omogenea e meno differenziata nel pas­ saggio dall’uso documentale a quello immaginativo. Pro­ prio per le ragioni che Pasolini illustrava: quella del cinema è una lingua già altamente e irrimediabilmente estetizzata, fatalmente ammucchiata in direzione emotiva e “fictiona­ le”, schierata verso l’estremismo mitopoietico. 57

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E poi, cosa che soprattutto conta, sia il cinema di fiction che il documentario non mostrano quasi mai soltanto quel­ lo che in quel momento vogliono far vedere o dimostrare ma anche, per inevitabile osmosi della struttura linguistica, un vasto contorno momentaneo e preesistente, nel quale si affacciano e si riflettono realtà più vaste. Nel cinema di fic­ tion, per esempio, l’attore preesiste al film, così come spes­ so il décor. E l’attore non è mai solo se stesso, ma anche una civiltà, un luogo e un’epoca. Entrambi, attore e décor, parlano anche per conto proprio in quanto preesistono al film, così come, in misura ancora maggiore, preesiste al documentario la realtà geografica e storica e sociale che vi viene ritratta. Questa parentela fra documentario e fic­ tion mi pare decisiva per affermare che la fiction possiede anche un valore documentale. E per sostenere, in senso in­ verso e parallelo, che il cosiddetto documentario elabora la realtà in modo non più tanto diverso da come procede il cinema di fiction con i suoi attori e i suoi décor. Ora, se negli ultimi tempi si e andati sempre più facendo attenzione, e questo convegno per esempio ne fornisce una riprova, al valore documentale della fiction in senso storico e sociologico, particolarmente nel cinema, cosa av­ viene sull’altro versante del cinema, quello del documen­ tario? Per rispettare le geometrie del paradosso saremo forse costretti a sostenere che la forza documentale del documentario stia nella sua residuale qualità di invenzione e di fiction? Beh, forse sarebbe troppo, anche se non but­ terei affatto via quella forza che il documentario possiede proprio quando il suo materiale tematico e visuale sia ela­ borato da una mente creatrice che formuli ipotesi e verifi­ chi tesi, senza di che anche la realtà più documentale ri­ schia di disarticolarsi. Anche se alcuni fra i più bei docu­ mentari nella storia del cinema sono grandi proprio perchè governati o da una forza epica oppure da meravigliose ap­ 58

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plicazioni poetiche di una sorta di tardo rousseauismo (mi pare il caso di Flaherty con i suoi film), certo non si può pretendere che dietro la macchina da presa stiano sempre Omero e Pindaro, magari stipendiati con contratto gior­ nalistico dalla terza rete. Quello che vorremmo sarebbe un riconoscimento più quotidiano, una carta per navigare nelle acque basse delle nostre coste documentarie. Ma intanto a che serve il documentario se, verità sacro­ santa, quando porge argomenti perfettamente controllati e controllabili, come per esempio l’inconfutabile produzio­ ne di un vaso con l’antichissima ruota a piede, appare tre­ mendamente noioso? E se invece quando ci attrae non sappiamo ben circoscrivere il suo oggetto, trovarlo defini­ to come vorremmo, sperimentalmente riproducibile, e ve­ niamo invece ricondotti nella perfidamente ambigua, co­ noscitivamente parlando, dimensione dello spettacolo? Come si esce da questa opposizione tra fedeltà-indiffe­ renza da una parte e libertà-fascino dall’altra? Non si trat­ ta di un’opposizione da niente: essa ha permeato, per esempio, l’intera storia del Festival dei Popoli lungo mol­ tissime sue edizioni, e probabilmente è stata il filo segreto delle sue evoluzioni politico-ideologiche. Temo che si tratti di un dilemma insuperabile, insito nel­ la natura strutturalmente e linguisticamente ambigua del mezzo cinematografico, un dilemma cui forse si possono dare solo risposte soggettive. Tuttavia qualche piccola osservazione possiamo tentare di farla, per arrivare se non altro a delle istruzioni d’uso: uso, appunto, del do­ cumentario come strumento ambiguo che si pone sul di­ spluvio fra realtà e manipolazione, fra fatto e idea, tra og­ gettività e soggettività: il problema, appunto, dell’atten­ dibilità del documentario, con particolare attenzione al documentario antropologico e sociale. E intanto toglierei ogni negatività a quei termini “ambi­ 59

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guo” e “ambiguità ”, anzi li rovescerei per considerarli si­ nonimi di altri come pregnante, polivalente, stratificato, ri­ dondante. Se il mezzo linguistico cinematografico, e quin­ di anche quello del documentario, possiede tale vasta am­ bivalenza nel proprio stesso nocciolo, inutile chiedergli di impoverirsi, meglio invece vedere quale partito trarre dal­ le sue potenzialità, sfruttarle al massimo invece che im­ porgli il digiuno tematico e la penitenza stilistica. Se al culmine dell’infondatezza abbiamo Ben Hur, al ver­ tice della fondatezza abbiamo solo il famigerato docu­ mentario puristico sul vaso, quel documentario che, per scrupolo di presunta oggettività, cerca di non far vedere neppure la faccia del vasaio. E se invece, mentre il vaso cresce, arrivano a chiaccherare con il vasaio i bighelloni del villaggio? Ebbene, è da lì che comincia il cinema, è li che vengono messe in atto le sue potenzialità tecniche e lin­ guistiche. Infatti il cinema è per vocazione il testo ideale del contesto. Dove non c’è contesto, nel cinema, è diffìci­ le che ci sia un vero testo. Eppoi non si può neanche dire che esista più realtà nella fabbricazione di un vaso che nella conversazione del va­ saio. Avessimo, dell’antichità, meno vasi e più, per ipotesi assurda, conversazioni audiovisuali di vasai, ne saprem­ mo di cose sulle civiltà classiche. Ebbene, se la tecnica audiovisiva è la meglio piazzata per origliare il reale nel suo farsi all’angolo della Fifth Avenue o nel villaggio dello stregone, meglio scatenare il demone ricognitivo del ci­ nema, con tutti i rischi di eccesso anche soggettivo che ciò comporta, che rinfoderare le sue potenzialità, con la prospettiva di insignificanza che ne deriva. Anche perché, se è soprattutto l’umano a interessarci, il documentario d’assalto ce lo procura; se il sociale, può assicurarcelo. Mai, sia chiaro, in modo interamente neutro, perché per aggredire il reale il documentarista non può che partire da 60

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ipotesi. Ma è probabile che in un documentario si ve­ dranno più cose attendibili se l’autore sarà mosso da sti­ molazioni soggettive, mentre si può scommettere che la co­ siddetta realtà tacerà se interpellata da un cineasta privo di ipotesi su di essa. La macchina da presa, erroneamente feticizzata come mez­ zo di riproduzione neutrale (qui sta l’equivoco scientificistico), piuttosto un mezzo di produzione. Essa ri-produce squarci di reale solo se viene problematizzata e le si chiede di rispondere a delle questioni. Allora si fa in quattro e ci mette anche del suo. Infatti giustamente esiste fra gli uo­ mini di cinema, sia registi di drammi che documentaristi, notevole rispetto per l’imprevisto e l’improgrammato che la realtà del set e quella della strada possono offrire. Il ci­ nema è sempre in qualche misura un happening, serba qualche rivelazione nella manica dell’imprevisto, e guai se così non fosse: di là da ogni giusta preparazione, questa re­ sta una sua carta segreta, proprio perché la realtà a cui il film si rifà può e deve venir interpellata déd pensiero ma non si lascia controllare da esso, rivendica fino in fondo una parte di autonomia: autonomia su cui si gioca una notevole fetta del cinema come verità. Insomma: attendibilità del cinema come serie di risposte date a domande ben poste, come soluzione di programmi cognitivi ben impostati, ma, nel senso contrario, anche come sberleffo che la casualità oppone alla programma­ zione, come verità del colpo di dadi inferta alla verità in­ tellettuale. Ma non si tratta di una contraddizione? Certo, però come è contraddittorio il cinema tutto intero. Anzi proprio tale contraddizione fa convivere obbligatoria­ mente nel cinema una poetica dell’organizzazione e una poetica non meno feconda della disorganizzazione. Incalzano, a questo punto, alcune domande: e se la que­ stione dell’attendibilità del documentario fosse mal po­ 61

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sta? Perché dal cinema dovremmo esigere una risposta al­ la questione del vero e del falso, questione che in altri campi giace ancora, se non insoluta, certo tormentosa­ mente sospesa? E se nell’apparente verità dell’immagine il vero e il falso si dessero battaglia senza mai raggiungere il risultato chiarificatore dello scacco matto? Se si trattasse solo, volta per volta, di una questione di maggiore o mi­ nore onestà intellettuale nel realizzatore, proprio come in ogni mestiere? Non vorrei però che dalla rinunzia ad attese massimaliste si passasse a una delusione minimalista. Un punto do­ vrebbe restare fermo, ed è la nozione di cinema come luo­ go di confine, come area del sobbollimento multimediale, come porto franco di molti saperi. Ma soprattutto come realtà linguistica che, mentre ritrae qualcosa, non può fare a meno di accogliere quanto vi si infila di diverso. Esiste un film dove, sulla traccia di un racconto di Cortazar, si è inserita una meravigliosa metafora di quanto stiamo di­ cendo. E Blow-up di Antonioni. Un fotografo scatta un’im­ magine qualunque in un parco, ma senza saperlo registra un delitto, eccetera eccetera. Questo fotografo è il cinema che, per sua natura, non può delimitare mai del tutto l’ar­ co della propria indagine, che credendo di ritrarre una certa parte del reale ve ne tira dentro un’altra legata alla prima, e dunque rivela sempre qualcosa di celato. Vorrei dire: non esiste film, a starci attenti, che non sia un po’ come l’immagine scattata dal fotografo di Blow-up, non esiste film che non riveli, intrappolato dentro l’imma­ gine in movimento, qualcosa di storico, di psicologico, qualcosa che appartiene al linguaggio polisemico della vi­ ta. Proprio questa politestualità, dal nostro punto di vista che è quello del documentario, resta il dato più interes­ sante. Un dato in parte manovrato dall’autore, in parte che sfugge di mano all’autore. Un modo in cui la realtà, o 62

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come vogliamo chiamarla, si serve del cinema, o del ci­ neasta, per parlare. Ci troviamo di fronte a una contrad­ dizione per così dire fertile: la realtà ha bisogno di un au­ tore per parlare perché in se stessa resta visualmente amor­ fa, inespressa e inesprimibile. E su questo non pare ci sia dubbio. Però la verità documentale non appartiene che in parte all’autore, il quale, facendosi avanti per stimolarla, si tira contemporaneamente indietro per lasciarla parlare. Però non possiamo chiudere questo piccolo percorso sen­ za seminare, al termine, un dubbio. E se quella che noi chiamiamo realtà, la realtà insomma preesistente e prefìl­ mica, quel tipo di realtà parascientifica che si cerca nel cinema e in particolare nel documentario, non esistesse affatto in se stessa? Se fosse utopistico e metodologica­ mente discutibile cercarla come tale nel film e nel docu­ mentario proprio perché cinema e documentario offrono solo quel particolare tipo di realtà che essi possono co­ gliere dal loro particolare angolo visuale, un’angolazione non riducibile ad altre ed intraducibile in altri linguaggi e, per dire, l’inquadratura e la visualità cinematografica fos­ sero non solo un modo di rappresentazione ma anche un modo di percezione? Se il cinema cogliesse un tipo di realtà che non esisteva prima del cinema, almeno nel senso in cui Proust dice che non esistevano nella realtà certi prati prima che l’impressionismo li dipingesse come tali, intendendo certo non che non esistessero letteralmente ma solo che non esistevano nel senso che nessuno li guar­ dava così? Se affrontiamo questa prospettiva più radicale, non so quanto accettabile, per cui la macchina da presa in certo senso “inventa” (lo metto fra virgolette) quanto ri­ trae, corriamo da una parte il rischio di condannare il lin­ guaggio cinematografico a una sorta di assolutismo soli­ psistico e intraducibile, ma d’altra parte evitiamo il rischio contrario, di esigere dal cinema un tipo di realtà e di verità 63

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“scientista” e riduttiva che esso resta impotente a fornire. Può darsi che siano sbagliate entrambe le prospettive: quella scientista per cui il cinema va ridotto a un discorso scientifico in termini di altri linguaggi e scienze: quella che chiamerei cinefiliaca per cui il cinema è un assoluto linguistico riducibile solo a se stesso. Banalmente, ma pru­ dentemente, supporrei che il discorso sull’attendibilità del cinema e in particolare del documentario debba barca­ menarsi fra questi due opposti: forse, come il cinema è, in definitiva, un composto di linguaggi, così il discorso sul ci­ nema non può essere che un composto di discorsi.

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1.4. Il trattamento della realtà. Frontiere teoriche ed estetiche del cinema documentario (di Pierluigi Basso) 1.4.1. A livello di senso comune, un film documentario o un re­ portage hanno come obiettivo primario quello di restituire una certa porzione di realtà, definita spazialmente e tem­ poralmente. La prima vocazione sarebbe quindi constatava e accertativa, a cui se ne aggiunge quasi sempre una se­ conda, di natura chiaramente interpretativa: non si vuole solo "documentare", ma offrire dei percorsi interpretativi rispetto a quanto riportato attraverso tracce documentali. Il cinema, nella sua costitutiva sincreticità, parrebbe so­ stenere favorevolmente sia il piano documentale, sia il pia­ no interpretativo, grazie da una parte all'"ontologia del­ l'immagine fotografica", dall'altra alla discorsività propria al montaggio e alla lingua verbale. Questa duplicità sa­ rebbe quindi in grado di rendere qualsiasi film tanto espressione di un punto di vista ideologico su quanto mo­ strato, tanto fedele restituzione di una realtà, lasciando questi due fronti della significazione filmica perfettamente disgiunti davanti agli occhi dello spettatore, il quale potrà quindi mettere in atto una rilettura critica autonoma di quanto ha visto rispetto a quanto ne si è detto a riguardo. E questo un quadro altamente semplicistico - pare evi­ dente -, ma da una parte persiste come orizzonte di com­ prensione nel discorso sociale, dall'altra continua a solle­ citare problematizzazioni teoriche difformi, dato che la smobilitazione dei luoghi comuni che lo supportano pre­ vede una chiara presa di posizione rispetto a nodi teorici alquanto complessi, finendo per tirare in ballo questioni cruciali che stanno alla base di punti di vista disciplinari quali l'antropologia, la storia, la semiotica, la filmologia, la 65

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massmediologia, ecc. Dire che il cinema documentario è un caso teoricamente irrisolto significa non solo denun­ ciare uno stato di arretratezza delle discipline coinvolte pertinenzialmente nel dibattito, ma più propriamente che la stessa società fatica a deciderne lo statuto, ad ammini­ strarne le funzioni comunicative, a gestirne criticamente gli effetti di senso e i regimi di credenza. Una società si autointerpreta e chiede agli attori che la compongono di compartecipare a questa azione ermeneu­ tica. In questo senso la domanda teorica verso il cinema documentario come oggetto, si tramuta spesso nelle do­ mande che quest'ultimo pone alla società stessa: quale idea di verità essa abbia, quali aspetti decide di magnifica­ re e quali narcotizzare (magnificenze e squallori), quale grado di trasparenza vuole mantenere, quale grado di po­ lifonia di voci argomentative vuole lasciar risuonare o far tacere. Il cinema documentario in questo senso interroga la società e si confronta con il regime discorsivo di imma­ gini e parole che è in atto all'interno di questa. Questa criticità reciproca (dalla società verso il cinema documen­ tario e viceversa) descrive come non si possa pervenire a una definitiva risoluzione teoretica astratta; molto sempli­ cemente ci si confronta con una pratica che vive all'interno della dinamica di una semiotica sociale. Con M.A.K. Hal­ liday potremmo dire che i linguaggi simbolizzano attiva­ mente il sistema sociale, creandolo nel momento stesso in cui vengono da esso istituiti e messi in esercizio [Halliday 1978, trad. it. 206]. In questo senso il documentario non può essere pensato come testo indipendentemente dalla pratica che lo ha istanziato e dalle funzioni che è pensato svolgere. Tuttavia, ciò non toglie che la dimensione pragmatica sociolettale non possa essere vagliata criticamente a partire dallo sta­ tuto semiotico proprio ai testi stessi e sulla base di una epi­ 66

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stemologia dei discorsi. Allo statuto sociolettale del docu­ mentario, che si esprime innanzi tutto nel suo essere un ge­ nere testuale, si deve insomma affiancare una riflessione sul suo statuto e assetto semiotico, tenendo i due punti di vista come reciprocamente articolabili. La riflessione teorica sull'orizzonte semiotico-culturale del documentario però deve necessariamente completarsi con la messa in valore di chi riconfigura continuamente il qua­ dro della pratica, ossia i cineasti, i quali indubbiamente ci offrono oggi un paesaggio della produzione documentaria capace di mettere in questione tutti i tratti che un tempo venivano pensati come costitutivi del genere. Di fatto, teo­ ria e pratica artistica sembrano oggi comunemente riunir­ si sotto l'auspicio che, al vessillo della "restituzione del reale", il cinema documentario possa piuttosto sostituire la bandiera del trattamento della realtà, dove tanto più le marche della messa in scena e del percorso interpretativo vengono ostentate tanto più il contratto di comunicazione con gli spettatori risulterà esplicito e garantito. Inoltre, se si pensa a come gli storiografi hanno denunciato il ruolo del fittivo nella loro disciplina (su questo punto si vedano anche i fondamentali contributi di Jauss, De Certeau, Ri­ coeur, ecc.), la presenza sempre più forte di una commi­ stione tra documentazione e finzione oggi riscontrabile apparirà come pienamente giustificata e nient'affatto irre­ sponsabile. Lo stesso vale per la sofisticata ricerca lingui­ stica esibita attualmente dai documentari; non appena si ponga mente al fatto che la realtà filmabile si presenta co­ stitutivamente come una messa in scena del sociale, il la­ vorio linguistico sulla sua restituzione acquista il senso di sperimentarne una disimplicazione. Infine, la vocazione estetica del documentario non fa che mettere in luce come posta cinematografica precipua sia anche la presentazione sensibilizzata ed efficace dei valori disimplicati. 67

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1.4.2. Il cinema avrebbe un rapporto privilegiato con la realtà dato il suo radicamento nell'immagine fotografica. Quest'ultima è stata vista, da teorici quali Bazin, come statutivamente documentaria; nella fotografia brilla l'assenza del­ l'uomo, dato che si costituisce un rapporto inter-oggettivo tra dispositivo e realtà. Nulla sarebbe quindi più oggettivo del dispositivo fotografico, e non in quanto produttore di una perfetta mimesi, ma in virtù del procedimento tecnico che ne è alla base. Il reale lascia le sue tracce nella pellico­ la sensibile, e perciò il legame tra immagine fotografica e realtà non è rappresentazionale ma fattuale. Al rappre­ sentato la fotografia aggiunge una predicazione di esisten­ za: ecco perché ciò che vediamo al cinema afferisce a una realtà profilmica in modo del tutto cogente, persino quan­ do vi viene sovrapposto un racconto finzionale (ogni film può attivare una lettura "documentarizzante" [Odin 2000; 2001]). Il portato realista del cinema documentario non può che essere sancito e valorizzato da un quadro teorico di questo genere. Ora, la polemica negli anni si è svolta soprattutto tra chi cercava di mostrare il grado di convenzionalità della rap­ presentazione fotografica, e chi dall'altra parte certificava il fotogramma come traccia del reale in ragione della fe­ deltà genetica del processo produttivo. Da un lato, si deve sottolineare come la polemica fosse mal centrata, dato che si mettevano in gioco degli aspetti diversi della fotografia, dall'altro ci si deve oggi misurare sul grado di pertinenza e profondità delle argomentazioni che venivano portate dai due fronti. Quando si è cercato di dare sostanza teorica all'idea che la foto è traccia del reale, ci si è riferiti all'opera di uno dei padri della semiotica, Charles Sanders Peirce [cfr. Dubois 1983; Schaeffer 1987], e in particolare alla sua nozione di 68

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indice. Il fatto è che non si trattava di inaugurare una rela­ zione euristica tra una nozione (l'indice) e un oggetto (la foto), visto che su quest'ultima lo studioso americano si era soffermato più volte lungo la sua sterminata opera; in se­ condo luogo ci si è riferiti a Peirce con un alto grado di semplificazione. Secondo il filosofo americano una foto è un'ipoicona, ossia un segno complesso e stratificato, che vede in gioco la rile­ vazione di una apparenza sensibile (iconicità), di una forza dell'immagine nel suo farsi presente al soggetto rispetto al suo spazio esperienziale (indicalità), nonché di un grado di convenzionalità (simbolicità). L'indicalità della foto non è che un modo per farla significare agli occhi di un osserva­ tore, dotato di una certa competenza esperienziale (conosce o meno i luoghi fotografati) e socioculturale (ha un certo sapere tecnico sulla fotografia e sui contratti comunicativi). L'ontologia dell'immagine fotografica stenta a trovare mo­ tivazione nella teoria dell'indice; Peirce, casomai sarebbe stato disposto a concedere un'indicalità piuttosto "pura" solo nel caso di un'istantanea osservata davanti alla regione di mondo che essa rappresenta: la foto è stata determinata dalla morfologia di quel territorio e da quelle condizioni di luce che è possibile consultare direttamente. Nel caso del cinema documentario l'indicalità è solo una promessa di verità alla luce di un interpretante culturale. In altre parole l'indicalità fotografica ha solo come porta­ to l'assicurazione che il dispositivo fotografico era coim­ plicato nella realtà degli oggetti che ha ripreso (al suo tempo il filosofo americano non poteva essere sensibiliz­ zato rispetto ai problemi del fotomontaggio, il che non gli impedisce di aggiungere): «ma da tale assicurazione non traiamo alcuna luce sulla natura di questi oggetti» [C.P. 4.531, "Prolegomena to an Apology for Pragmatism", 1905; trad. it. in Semiotica, pp. 220-21]. 69

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La parentesi peirciana risulta essenziale per una chiarifi­ cazione di alcuni nodi teorici nei quali il cinema docu­ mentario è invischiato. La natura indicale dell'immagine filmica è fortemente questionabile, dato che la sua fedeltà fotografica (come abbiamo visto già ben lontana comun­ que da portare dei valori documentali incontrovertibili) è sub judice a partire dal contesto in cui circola, dalla pratica in cui è immessa, dalle tecniche che sono in gioco nello spazio sociale in cui viene prodotta e fruita. Ciò non toglie la forza illocutiva della sua indicalità una volta che essa sia stata attivata epistemicamente nell'interpretazione dell'os­ servatore. Per essere chiari: non tutti i valori che sono in gioco nel testo fotografico sono costruzioni discorsive (del­ la foto), dato che vi è determinazione fattuale tra pellicola fotosensibile e profilmico; il fatto è che nella traccia resta indiscernibile quanto, nel rapporto inter-oggettale di cui è testimonianza, appartenga al segno e quanto all'oggetto (dinamico, nel gergo peirciano). La foto in questo senso è un testo testimoniale, perché originariamente coimplicata e compresente all'oggetto che ha rappresentato. Da un lato ciò le consente l'irradiazione di un valore esistenziale dei valori in gioco, dall'altro ne evidenzia la sua prospetticità, selettività, la sua discorsivizzazione dei valori ritratti. L'immagine fotografica compie una predicazione d'esi­ stenza di valori che può essere falsificata sia in quanto as­ serzione (vi sono evidenti contraddizioni - certe ombre sono incompossibili - per cui si tratta di fotomontaggio, una foto ritoccata, ecc.), sia in quanto assunzione (non può essere stata fatta in quel momento, in quel luogo, da quella persona), sia in quanto declinazione figurativa (è troppo flou, i dettagli sono troppo piccoli, c'è una eccessi­ va sovraesposizione, per cui resta indecidibile qualsiasi ri­ conoscimento) [cfr. Fontanille 1999]. A ciò si aggiunge il fatto che anche il profilmico non è af­ 70

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fatto neutro, ossia che nella determinazione dei valori semantici della foto entra in causa anche l'eventuale mes­ sa in scena del "reale", e tale allestimento di una "realtà" può essere anche eteronomo rispetto al soggetto che pro­ duce la fotografia. Di certo, il valore documentale della foto può porsi come traccia di un camuffamento della realtà (i falsi documentari in un periodo di guerra sono documenti rivelatori di come una nazione voleva mettere in scena i propri valori e la propria identità). Resta il fat­ to che è solo attraverso un percorso interpretativo, di per sé fallibile, che lo spettatore può cogliere una foto o un film come "documentazione" di un fatto reale o di un reale camuffamento. L'iconicità, lontano dall'essere colta come perfetta mi­ mesi dell'esistente, si rivela aspetto sensibile autonomo della traccia fotografica, messa in valore della sua feno­ menologia visibile. L'indicalità giunge a sottendere una connessione diretta tra tale fenomenologia e l'oggetto di cui è traccia sensibile, ma nulla si dà di esplicativo ri­ spetto alla natura di questo se non quell'apparire stesso, eminentemente locale e determinato anche da condizioni (tipo e regolazione) del dispositivo. Se diciamo che quell'apparire simbolizza attivamente un oggetto effettiva­ mente esistente ("questa dovrebbe essere la sua iden­ tità"), è perché è esattamente quanto accade a un discor­ so che simbolizza chi lo tiene. 1.4.3. In ambito filmologico [cfr. Nichols 1991, Gauthier 19952000, Niney 2000] possiamo discriminare perlomeno tre tipi di prospettive teoriche: a) teorie del genere docu­ mentaristico; b) teorie della rappresentazione/documentazione del reale; c) teoria della lettura dei film in quanto documenti. L'intersezione della filmologia, in ciascuno di 71

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queste prospettive, con diverse altre discipline è un dato di fatto, che comporta una difficoltà di comparazione, date le diverse concezioni della teoria che sono in gioco e i differenti obiettivi euristici. In genere, si deve però rilevare che la natura fotografica è stata uno degli assi principali della discussione. Da una parte si sono schierati quelli che legavamo la vocazione documentaristica del cinema alla neutralità della tecnica fotografica, alla sua fedeltà riproduttiva, al rapporto inter-oggettivo tra obiettivo e mondo. Dall'altra quelli che invece hanno rifiutato innanzi tutto di pensare la tecnica come «al riparo dalle ideologie, fuori dalla storia» [Co­ molli 1971-78, trad. it. 15], e in secondo luogo hanno de­ nunciato la natura discorsiva del film, la presenza di co­ dici della rappresentazione, la narratività insita anche nel cinema non-finzionale. In questo dibattito, da una parte c'era chi professava che il lavoro registico ero quello di "lasciar parlare le cose stes­ se", dall'altra chi denunciava che non si davano che inter­ pretazioni del reale, e che quindi l'ideologia dello sguardo era insopprimibile. L'effabilità delle cose poteva essere controbattuta con la loro opacità; o per contro la conno­ tazione sociale di ogni oggetto, luogo, segno o ruolo so­ ciale si apriva comunque alla possibilità di pervenire a una scrittura bianca. Attraverso un quadro teorico molto simile a quello pro­ prio della sociosemiotica di Halliday, Jean-Louis Comol­ li afferma che «una società non è che il cammino verso la sua rappresentazione», e che in quanto macchina produt­ tiva, mentre «fabbrica rappresentazioni, si fabbrica anche essa stessa, a partire da rappresentazioni, attuandosi que­ ste come mezzo, materia e condizione della socialità» [ivi, 11]. In tal senso, il cinema è fin dall'origine una se­ zione dislocata di questa «macchina sociale» [ivi, 12]. 72

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La denuncia dell'ideologia propria a ogni sguardo filmico, una volta portata a coscienza, lascia intatta la necessità dell'interrogazione della realtà, dato che questa non appa­ re più come verità trasparente, ma a sua volta come rap­ presentazione, messa in scena di valori. Come dice perfet­ tamente Comolli [1997, 21], anche «nel cuore delle mises en scène realiste, vi è l'utopia di una realtà che non si lascia mettere in scena». Quando oggi Comolli sostiene che il realismo è la strategia filmica in grado di ricondurre lo spettacolo alla vita, di su­ turare l'esperienza dell'immagine filmica con l'esperienza di vita dello spettatore [1997, trad. it. 16], e che si ottiene soprattutto attraverso la mediazione dei corpi filmati [ivi, 18], non lo rende affatto pertinente a una discriminazione tra cinema finzionale e documentario. «L'opposizione tra documentario e fiction tuttavia è da tempo considerata il­ lusoria. Ogni film ha una sua storia da raccontare, com­ presi i film documentari, e ognifiction ci dice qualcosa del mondo, che aspiri al realismo o meno» [Collas 1997, 28]. Qui Collas non solo dichiara definitivamente incrinata l'opposizione tra documentario e finzione, ma sostiene spingendosi più in là di Comolli - che lo stile realista è in­ differente al portato referenziale del film, dato che ogni narrazione (e lo è anche il documentario) è a suo modo una chiave interpretativa del reale. Ci si può chiedere tut­ tavia se questo quadro demitizzato non richieda una ride­ finizione del cinema documentario, pena una totale per­ dita di specificità. Comolli ha sempre teso a polemizzare anche con chi pone sul piedistallo della realtà il cinema-verité, il cinema diretto; inquadratura e montaggio compromettono qualsiasi neu­ tralità e come abbiamo detto la messa in scena è sotterra­ neamente presente ovunque, in qualunque "set" sociale: «non si possono filmare che dispositivi di rappresentazio­ 73

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ne» [Comolli 1971-78, 108]. L'immagine della realtà è quindi sempre doppiamente trattata: per il suo essere una rappresentazione sociale, per essere messa in quadro e ri­ costruita sintatticamente dal cinema. Per il cinema docu­ mentario non sembra, dunque, esservi scampo, né possi­ bilità di differenziarsi dallo statuto generale del cinema. 1.4.4. Resta il fatto, da noi più volte sottolineato, che il docu­ mentario si pone come un genere filmico. I generi infor­ mano direttamente la struttura testuale, connettono il testo a un intertesto, predispongono un certo contratto comu­ nicativo, fungono da punti di riferimento che l'interprete convoca come orizzonte di comprensione, attivano una certa forza illocutiva del testo. Se si vuole reperire una forma discorsiva comune a tutti i documentari prodotti, è probabile che la loro difformità faccia pendere per una im­ possibilità di definire con precisione una serie di tratti de­ finitori. Se dall'ottica di una tipologia dei discorsi, ci ri­ conduciamo a una tassonomia dei generi sociolettali, con­ stateremo sì la loro natura spuria, ma anche il loro fungere da quadro di riferimento realmente attivo. Certo, i generi sono spesso multiprospettici, ossia informa­ no le possibilità comunicative secondo profili pragmatici anche molto diversi: ecco allora che si danno generi legati al medium e a una tecnica produttiva-distributiva, generi in­ termediatici legati a una ri-motivazione o congruenza tra temi e modalità enunciative, generi legati a uno specifico contratto comunicativo per la circolazione di certi valori, ecc. Qualunque tipo di genere ci si trovi di fronte, resta in ogni caso il fatto che la componente testuale generica si po­ ne come «potenziale semantico che è fin dall'inizio coim­ plicato nelle scelte enunciative e tematiche del soggetto, In­ cutere o interprete che sia» [Halliday 1978, trad. it. 154]. 74

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Il genere è ciò che informa e guida l'attivazione di schemi cognitivi e la valorizzazione delle informazioni testuali. Il fruitore di un testo assume il sapere testuale secondo di­ verse prospettive, spesso simultaneamente in gioco, an­ che se gerarchizzate: acquisire nuove conoscenze, valutare il testo in rapporto ad altri, controllare la congruenza o meno del testo rispetto alle proprie aspettative, ottenere un'esperienza estetica, o altro ancora. Si finisce con il sot­ tolineare in tal modo come l'attivazione e lo sfruttamento della competenza di genere di un fruitore è sempre profondamente tattica. Il dibattito sull'ontologia o la convenzionalità dell'immagi­ ne filmica rischia di farci dimenticare il ruolo del docu­ mentario come genere, e nel contempo una pura presa d'atto storica della classe genealogica di testi che lo hanno costituito perderebbe di vista completamente il legame del funzionamento di genere con le questioni teoriche che han­ no animato il dibattito e che prima abbiamo scandagliato. Un autore che ha senza dubbio messo in primo piano il contratto di lettura proprio al film documentario e il regi­ me di credenza ad esso connesso è William Guynn. Per questo studioso, il genere documentario entra in diretta competizione con i generi finzionali, e finisce per signifi­ care per contrasto sullo sfondo di quelli, malgrado non possa rivendicare alcuna "verità" genuina rispetto al reale. Guynn coglie la natura documentaristica nella mistura eterogenea di narrazione (ricostruzione storica) e discor­ sività (commento), nel forte utilizzo di figure retoriche, nella non-trasparenza dello "sguardo"; anzi, è proprio l'ostensione deliberata dei filtri costituiti dai mezzi di pro­ duzione (come auspica Comolli) a favorire una «lettura documentarizzante» [Odin 2000; 2001], in grado di smo­ bilitare qualsiasi tentazione di identificazione e di attivare invece una cornice ricettiva critica. Il fatto è che le carat­ 75

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teristiche individuate da Guynn sono tipiche anche del cinema di finzione post-moderno, definibile proprio a par­ tire dalla messa in primo piano delle poste cognitive e passionali a livello dell'enunciazione (del discorso), ri­ spetto a quelle situate a livello dell'enunciato (della storia). Guynn assume come punto di riferimento, ossia come sfondo su cui si staglia la significazione del documentario, il cinema della "trasparenza della scrittura" (lato dell'au­ tore) e della totale immersione nella diegesi (lato dello spettatore); riempie il regime di fruizione che sarebbe ti­ pico della finzione di speculazioni psicoanalitiche, per poi sostenere che il documentario si offre come rottura del dispositivo cinematografico standard, dato che il venire in primo piano dell'enunciatore (con la voce di commento) diviene «ostruzione al desiderio dello spettatore», limita­ zione del suo potere immaginativo, ri-obiettivazione del suo essere seduto in una poltrona a guardare delle imma­ gini [Guynn 1990, trad. fr. 201]. In realtà, la trasparenza della scrittura è l'effetto limite di una poetica che vuole cancellare le sue tracce, ma non si dà in pratica film di fin­ zione dove oltre all'asse diegetico non si costituisca un racconto dell'enunciazione. Pensare di definire il cinema documentario a partire dalla finzione (cinema of non fic­ tion), aumenta i problemi, invece di risolverli, visto che si deve fornire una buona definizione preventiva di finzionalità, che può riguardare sia lo statuto del mondo testua­ le, sia il regime dell'esperienza soggettiva. Nel genere documentario parrebbe che ciò che è mostrato e detto non debba essere utilizzato come supporto per un imagining [Walton 1990], ma per un vaglio epistemico del­ le informazioni in modo da poterle incorporare come infor­ mazioni enciclopediche credibili sul mondo. Se siamo scioccati da qualcosa che è stato presentato in un docu­ mentario, significa che abbiamo creduto l'informazione ve­ 76

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ra e che la reazione passionale non è affatto immaginativa. Per uno spettatore critico, la sanzione epistemica, tutta­ via, non è all'insegna del dover essere, ma del poter essere: ecco che lo spettatore farà un vaglio ipotetico del portato informazionale del testo, scandagliando immaginativamente le proprie reazioni cognitive e affettive nel caso dovesse rivelarsi, in un secondo tempo, dato accertato. Il documentario non ha un fattore di autentificazione in­ trinseco della propria "versione del mondo"; mette solo in gioco sofisticate strategie di veridizione (il cercare di "mo­ strarsi vero" del discorso, di autocomprovarsi), e fa leva sul contratto comunicativo connesso a un genere discorsi­ vo valido all'intemo di un certo contesto. Per il resto, chi lo autentifica è eventualmente lo stesso spettatore, nel suo rendere attiva l'indicalità, o come inter-referenzialità tra proprie esperienze, o come credenza di riferimento verace. Restano, insomma, il contratto con lo spettatore e le mar­ che di genere inscritte nel testo (o nel paratesto) come uni­ ci validi elementi in grado di discriminare un film docu­ mentario. Tale considerazione non inficia del tutto - si ba­ di bene - l'osservazione di Guynn sul fatto che l'intraspa­ renza del discorso filmico attivi effettivamente una lettura critica; ma si deve osservare che il commento stesso non è trasparente (e quindi avremo un livello metacritico, come quello che attiva un falso documentario alla Greenaway). Quando una lettura critica, in grado di esplicitare la pro­ spettiva sull'enunciato, entra in sinergia con l'attivazione epistemica di un'indicalità, ecco che si traduce in una let­ tura documentarizzante, per usare la terminologia di Roger Odin [1984]. Ma questa lettura documentarizzante può entrare in gioco rispetto a qualsiasi genere di film, anche finzionale [2001]. Resta il fatto che se i tipi di lettura sono soltanto idiosincraticamente messi in atto dallo spettatore ci troveremo di fronte a una serie di usi nel testo rispetto a un 77

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certo tipo di programma soggettivo; se invece tali letture vengono ricondotte a strategie testuali e a comici di genere che mediano la fruizione fìlmica, ecco che la lettura docu­ mentarizzante sarà parte integrante del percorso di signifi­ cazione del testo così come si dà entro la pratica che lo ha istanziato. Da questo quadro teorico risulterebbe che il ci­ nema documentario è istituito da una pratica culturale e circola come genere specifico all'intemo di un certo conte­ sto comunicativo tale per cui la lettura documentarizzante è prioritaria, prospettiva di senso specifica. Permangono però molti problemi: per prima cosa ci si potrebbe scontrare con il fatto che il documentario può avere benissimo una vocazione estetica (si pensi ai docu­ mentari di Herzog, tanto per fare un esempio eclatante): come si concilia con ciò la lettura documentarizzante? In secondo luogo la lettura documentarizzante pertiene forse all'assunzione del film come documento (del gusto del­ l'epoca, dello stile linguistico, ecc.), oppure come conte­ nitore di documenti (immagini fotografiche o altra mise en abìme di documenti), come documento della sua produ­ zione genetica, come discorso interpretativo-valutativo sul reale? In terzo luogo, il fatto di mettere in gioco diverse prospettive pragmatiche di lettura del testo non tende a sviare la disimplicazione della sua significazione che deriva dalla coimplicazione e non dalla separazione dei suoi aspetti interni, generici e intertestuali? Non si perderà per esempio la tensione che si produce localmente tra valori sul piano dell'enunciato (storia) e valori sul piano dell'e­ nunciazione (discorso)? Emergono anche alcuni cortocircuiti: e non solo il fatto che pare prospettarsi una lettura documentarizzante di un film documentario che lo riduce a documento di un modo di fare documentari (è ciò che fa una teoria del ci­ nema documentario). Odin contrappone la lettura docu78

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mentarizzante a quelle finzionalizzanti, spettacolarizzanti, artistiche; tali opposizioni, pur nascendo dalla giusta esi­ genza di non dare affatto per scontato come un soggetto fa significare un testo, hanno confini confusi, si sovrappon­ gono, si distinguono a partire da presupposizioni teori­ che dubbie. Propria alla lettura documentarizzante sareb­ be la possibilità di interrogare l'enunciatore reale sul di­ scorso che tiene in relazione al mondo dell'esperienza; ma anche una versione finzionale del mondo può essere in­ terrogata, criticata ideologicamente, condannata per gli effetti "reali" che provoca o per ciò che internamente vi si sostiene. La lettura documentarizzante non è l'unica cor­ nice sotto cui i movimenti di macchina vengono letti come operatori discorsivi che focalizzano l'attenzione dello spet­ tatore, né l'effetto di presenza ottenuto con una macchina in spalla è precipuo di una prospettiva di documentazione (crea solo una coimplicazione dello spazio dell'enuncia­ zione nello spazio dell'enunciato e nei valori che vi circo­ lano). La lettura documentarizzante non può essere nel contempo opposta a quella finzionalizzante e identificata come quella propria al cinema documentario, visto che quest'ultimo richiede una lettura narrativa in grado di ri­ costruire la sintassi passionale e cognitiva dei soggetti fil­ mati (non si vede tra l'altro perché il cinema documentario non possa assumere punti di vista soggettivi). Pensare la lettura spettacolarizzante come propria del cinema finzio­ nale è quanto di più sbagliato se si intende il venire in primo piano dello spazio della rappresentazione e la valo­ rizzazione delle performanze documentate. Se poi si so­ stiene che il fattore "spettacolare" è funzione del disco­ starsi di ciò che viene presentato dalle conoscenze dello spettatore, qualsiasi documentario in grado di offrire del­ le informazioni nuove e apprezzabili attiverebbe una let­ tura spettacolarizzante. Infine, anche il documentario ha 79

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uno stile, ossia presenta delle figure artistiche, ma esse non sono colte solo come indici della personalità dell'au­ tore, ma come parte integrante della significazione filmica. Così definita, la lettura documentarizzante resta incapace di contornare la peculiarità del cinema documentario e fatica a chiarirsi persino come nozione operativa. È vero che posso assumere un film come documento della bra­ vura di certi attori, ma posso fare lo stesso per docu­ mentare la scioltezza espressiva e la sagacia argomentati­ va di un attore sociale. Posso vedere un documentario sulla vita di un musicista, e pensare infine che era davve­ ro un grande personaggio, o un "animale da palcosceni­ co". Nel primo caso (quella della fiction) ho solo degli in­ dizi (lettura artistica), che tuttavia possono difficilmente emergere prima di un confronto con la significazione dell'opera (devo aver capito il ruolo finzionale, per dire se un attore lo ha interpretato bene); nel caso del docu­ mentario invece si offrono dei materiali testimoniali, la cui significazione viene modulata o anche del tutto de­ costruita dal discorso che vi si tiene sopra (grazie alla sintassi, ai commenti, alla fecalizzazione su particolari dei documenti, alle operazioni di decontestualizzazio ­ ne). Nessun grado di verità maggiore è garantito dalla presenza di testi testimoniali, ma non meno questi atti­ vano una forza illocutiva specifica dei valori in immagine: dovrebbero valere, dovrebbero apportare davvero una conoscenza veritiera; in ogni caso mi intimano la loro falsificazione come tali, se voglio rigettarli. Essi hanno un "ingombro" specifico. Ma allora che succede a un documentario senza docu­ menti, senza testi testimoniali? E per contro cosa succede a un testo finzionale che invece ne ingloba alcuni, o sol­ tanto termina con una serie di asserzioni che documen­ tano che la storia che si è visto è "vera"? 80

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Il film dedicato da Claude Lanzmann all'olocausto ebraico non presenta immagini documentarie dell'epoca, ma rac­ coglie delle toccanti e implacabili interviste; Hiroshima, mon amour di Resnais contiene degli spezzoni documenta­ ri sulle condizione degli abitanti di Hiroshima appena dopo la bomba. Il primo rifiuta la memoria oggettivata della tec­ nologia, e vuole far emergere piuttosto la memoria umana, interrogare i protagonisti, vedere le tracce della storia nelle loro facce e nelle loro parole. Il secondo mette in scena la relazione tra un osservatore e un testo filmico che docu­ menta l'orrore provocato dalla bomba nucleare; soprattut­ to l'ambiguità tra l'idea di sapere tutto grazie a quei docu­ menti, e l'accusa di non sapere ancora nulla su quanto ac­ cadde, su quanto soffrirono davvero le vittime. Entrambi i film, anche se con strategie differenti, problematizzano lo scacco dell'indicalità della traccia documentale quando non rientra nel circolo di una sintassi esperienziale. I film di Hiroshima portano solo la traccia del fatto che tutto ciò è successo (si pongono come testo testimoniale), ma restano immagine, icona sensibile racchiusa dalla traccia fotografi­ ca che ancora non ci dice nulla della natura della realtà rappresentata e irripristinabile. I protagonisti di Shoah te­ stimoniano in prima persona, si offrono come documenti incarnati; è come se dicessero: «nelle tracce della mia voce angosciata, nelle mie ferite, nei miei occhi sbarrati vi è l'in­ dice di una realtà che ho vissuto». È ovvio che i documentari su Hiroshima potrebbero essere un falso (anzi di alcuni di essi, in Hiroshima, mon amour, si afferma apertamente la falsità), che gli intervistati da Lanz­ mann potrebbero essere menzogneri, smemorati o quanto­ meno reticenti; eppure si pongono come testo testimoniale proprio perché si dà l'urgenza della loro falsificazione, che potrebbe bruciare (incrinando irreparabilmente la creden­ za) oppure alleviare («sapevo di quelle immagini, ma non 81

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potevo credervi, perché insostenibili, inaccettabili»). In questo reclamare una falsificazione nel contratto comuni­ cativo, sostenuto da aspettative di genere, il cinema docu­ mentario sembra reperire una sua specificità.

Riferimenti bibliografici:

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PRINCIPI DI REALTÀ E CRITICA DELLA RAPPRESENTAZIONE

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PRESENTAZIONE (P. Basso)

Il rapporto tra cinema e realtà si è sempre declinato se­ condo i temi che di volta in volta esso si è trovato ad af­ frontare. In questo senso, l'impressione di una restituzione "fedele" del reale viene differentemente percepita a se­ conda che si stia trattando della documentazione, per esempio, di fatti naturali o di fatti sociali, di un paesaggio umano "esotico" oppure prossimo allo spettatore, di espe­ rienze quotidiane o invece del tutto singolari. La "resi­ stenza" o la "disponibilità" di un certo tema al medium ci­ nematografico è in un certo qual modo "graduata" e sto­ ricamente contrassegnata. I temi, in quanto costellazioni di contenuti, hanno la ten­ denza ad essere riconosciute quasi "gestalticamente"; ep­ pure, se sembrano derivare da una opera di generalizzazio­ ne (di "tipizzazione" di contenuti narrativi: topoi), non man­ cano di darsi casi di tematizzazione che rilevano di una dif­ ferenza1. Alla ripresentazione, magari sui generis, di un cer­ to topos, si affianca la possibilità di costellazioni di contenuti che allargano la "dieta" del consumo cinematografico. Il documentario si confronta ambiguamente con ciò, so­ speso tra la messa in variazione di un topos e la tematiz­ zazione locale. La tendenza a privilegiare uno sguardo ca­ pace di abbracciare uno sfondo culturale aU'intemo di una restituzione di figure locali sembra mettere in ten­ 87

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sione - come abbiamo già visto nella prima parte del li­ bro - singolarità e generalizzazione. Ben al di là degli aperti (o chiusi) confini tra generi finzionali e documentali, il tema è ciò che connette trasversal­ mente le opere cinematografiche, così come la gamma dei toni che lo assumono discorsivamente può essere egual­ mente condivisa e sfruttata. Detto ciò, la ricorrenza in un'opera di un certo contenuto figurativo ci dice ancora poco; esso può mediare la fecaliz­ zazione su un tema, può rientrare in un gioco di analogie/contrasti che lo pongono come elemento interno a un"'argomentazione" figurale, può servire all'attivazione di un topos che lo trascende ampiamente. Inoltre, il tema deve essere sempre connesso al processo di tematizzazione che si snoda lungo il discorso, il che implica - metodologi­ camente - il rilevare l'assunzione di un certo tono, il rit­ mo /l'agogica nella presentazione del tema, la stabilizzazio­ ne o refigurazione/defigurazione nella sua testualizzazione. E questo un breve quadro teorico che si offre semplicemente come mappa preliminare degli interventi ospitati in questa sezione del libro, organizzati attorno ad alcuni temi che ritornano ossessivamente lungo la storia del cinema: l'estasi, la metropoli, la morte, l'identità. L'"assillo" di questi temi ha però un'origine alquanto diversa. Se per esempio la città contemporanea ha vissuto quasi un rap­ porto simbiotico con il cinema, essendo il secondo capace di magnificare la spettacolarità e simbolicità della prima (il suo essere specchio dei rapporti sociali, delle ricchezze e dei valori comunitari2), la morte si è posta finanche come irrappresentabile, in quanto evento non solo "irripetibile", ma anche incontrovertibile, il che renderebbe la sua "ri­ producibilità" cinematografica di per se stessa "scandalo­ sa", «oscena» [Bazin 1962, trad. it. 32]. Quanto all'estasi e all'identità, essi risultano temi estensi­ 88

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vamente frequentati sia dal cinema finzionale che da quel­ lo documentario. Se il primo si è posto il problema relati­ vo alla messa in immagine della dimensione propriocettiva dell'estasi, nel tentativo di creare una collusione tra lo sta­ to estatico (rappresentato) dell'attore e quello (solo "re­ motamente" attivabile) dello spettatore [Eugeni 2002], il secondo ha cercato di documentare fenomenologicamente le forme dell'estasi per come vengono declinate dalla di­ verse culture3. Morin [1956, trad. it. 154-55] affiancava all'idea di una re­ stituzione del reale da parte del dispositivo cinema, il re­ gime immaginativo della ricezione del film, al punto da so­ stenere che «la seduta cinematografica rivela caratteri pa­ ra-ipnotici». Nell'indagine del perché l'ipnosi abbia co­ stituito un modello culturale (ancorché fallace) della vi­ sione cinematografica, Eugeni [2002, 36] ritrova implici­ tamente il mito di una dis-identificazione dello spettatore (la sua presunta passività verrebbe riletta come cancella­ zione del ruolo sociale e neutralizzazione delle assiologie eteronome) in grado di lasciare spazio a un'identificazione con l'alterità messa in gioco dal film. L'identità al cinema è quindi altro tema scottante, che si ra­ dica ben all'interno del regime fruitivo e della storia del ci­ nema. Il rapporto tra cinematografie nazionali e identità di un popolo, spesso mediato dal pervicace ricorso al film storico [Sorlin 1979], così come il colonialismo intrinseco a una lingua-cinema esportata in tutto il mondo (poche e precarie sono le vie al cinema radicalmente "altre" rispetto alla strada maestra iniziata da Griffith), non possono che divenire fuochi critici di una ricerca [cfr. Jameson 1992]. Nel capitolo Identità, colonialismo e traduzioni postcolo­ niali verranno inseriti i frutti teorici storico-critici princi­ pali della rassegna 2002 del Festival. Rispetto alla difesa delle identità nazionali (tradizione) e alla loro violazione 89

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(colonialismo) [Stam e Spence 1983], agli spazi vasti dei "monumenti" e delle "guerre", oggi viene individuata dal cinema una dinamizzazione, anche capricciosa, delle au­ todefinizioni dei soggetti individuali e collettivi, che ha come quadro topologico Yinterstizio e come mira una ine­ sausta articolazione di differenze locali [cfr. Bhabha 1994, trad. it. 12]. Parlare di post-colonialismo ha il significato oggi di dismettere la ricostruzione - spesso in vitro e quin­ di sospetta (reinvenzione) - di identità forti, per assumere pienamente un vivere in costante traduzione. Quest'ultima focalizza inevitabilmente l'attenzione sull'alterità e sul farsi/disfarsi dell'identità. Seguendo Bhabha [ivi, 348], ciò spiegherebbe anche lo spostamento delle poste valoriali dal piano dell'enunciato filmico a quello dell'enunciazione, indubbiamente cifra del cinema del nostro tempo.

Note: p. 180 e segg.

Riferimenti bibliografici:

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2. ESTATICA DEL CINEMA

2.1. Estasi, uscita di scena. A proposito di "Partie de Campa­ gne” (di Jean-Louis Comolli)

«Nella rappresentazione dell’incompiutezza ho trovato la coincidenza della pienezza intellettuale e di un’estasi, cosa che non ero riuscito a raggiungere prima» Georges Bataille

UNO. L’estasi, dicono. Potrebbe manifestarsi su una scena qualsiasi: attraverso l’amore per esempio, o attraverso la religione. Basterebbe filmarla come tale, come si presenta, prodotto di paradisi più o meno artificiali. Filmare l’estasi, come si dice “filmare l’exploit”. Una performance, un ac­ ting. Si avrebbe così libero acceso al (buon) cinema: come se bastasse, quindi, filmare ciò che accade per filmare ciò che è aldilà dell’evento stesso... Ecco, vedo ergersi il cattivo diavoletto che abita in ogni spettatore: «E un’estasi de­ bolmente rappresentata - direbbe - uno sguardo banale su un miracolo». Nessun miracolo, infatti: l’estasi filmata non è niente se nulla trasmette allo spettatore, se nulla nella forma della rappresentazione è in grado di riprodurla in lui. Non rimarrebbe l’estasi filmata forzatamente non esta­ 93

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tica, fintantoché non fosse in grado di tradursi in atto di ci­ nema - un’estasi estetica? E come ci suggeriscono, per quanto diverse possano essere, le nostre esperienze di cinespettatori, i meccanismi in gioco nello spettacolo cine­ matografico non sono nell’ordine dell’imitazione. Posso vedere l’attrice ridere o piangere senza mettermi a ridere o piangere io stesso, posso vedere il corpo in crisi dell’altro senza cadere in convulsioni. Né imitazione, né automati­ smo. L’entusiasmo filmato non mi entusiasma automaticamente. E se si fossero potute filmare le visioni di Sant’An­ gela di Foligno o le trance dell’houngan Jo Pierre Gilles4, per quanto il loro spettacolo ci sarebbe apparso straordi­ nario, non avrebbe assolutamente implicato una nostra partecipazione, un nostro coinvolgimento. Questione di emozione al cinema: quella dello spettatore, non solo quel­ la dei personaggi o degli attori. L’anima ed il corpo filma­ ti si concedono forse, ma non trascinano, solo per questo, nessuno dietro di sé. C’è bisogno di altro: chiamiamola scrittura, una messa in scena, un sistema di forme capace di impadronirsi dello spettatore in quanto cinespettatore, ossia attraverso delle combinazioni di intensità visive e so­ nore. Diciamo che l’estasi è nulla al cinema se il cinema non diventa, un poco, molto, appassionatamente, lui stes­ so estatico.

DUE. Penso per esempio agli innumerevoli orgasmi fem­ minili e maschili filmati e registrati nelle innumerevoli cas­ sette porno che circolano per il mondo. Tutte queste esta­ si, queste trance, queste grida, questi brividi e questi tra­ sporti non ci lasciano certo indifferenti, sia per repulsione o fascino. Quanto a trasportarci, è un’altra storia. Ci vo­ gliono altri mezzi. Bisogna farlo con garbo, come si dice nel linguaggio della seduzione. Non accade così, non così semplicemente. Lo spettatore che siete voi, che siamo noi, 94

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non si lascia trascinare al primo gesto, al minimo grido. Eventualmente desiderata attraverso il film, l’estasi di que­ sto spettatore non si attiva da sola. Alcune modalità nar­ rative - Ejzenstejn, Ozu, Renoir con Partie de campagne testimoniano nella storia del cinema come lo spettatore estatico sia una costruzione formale. Una certa program­ mazione del racconto, delle inquadrature, del montaggio è in grado di inscrivere nella relazione tra film e spettatore la possibilità di un’estasi che non sia più semplicemente fi­ gurata ma trasmessa. Non la rappresentazione di una tra­ sfigurazione ma la sua trasmissione. TRE. Tutto dipende certamente da ciò che da questo spet­ tatore ci si aspetta, da ciò che gli si chiede di essere. Che sia un perdigiorno al quale si mostra sul podio una giostra spettacolare, un mangiatore di fuoco o un derviscio dan­ zante? Che sia piuttosto - e il primo di questi ruoli non esclude i seguenti - un amatore curioso che colleziona delle rarità antropologiche? Che sia in grado di gioire del­ lo smarrimento dell’altro rappresentato? Che sia in quest’altra posizione di dominio che consiste nel compatire la sregolatezza del soggetto osservato? In tutti questi casi quelli normalmente proposti (sette, mistici, sacrifìci...) dai film antropologici più dotti o dai reportages televisivi più banali - si suppone che lo spettatore sia sempre dal lato giusto dello spettacolo, daH'aJtro lato, lì dove il proprio de­ siderio non rischia altro che la realizzazione più o meno perfetta di un piacere derivato dal dominio immaginario del corpo dell’altro. L’interrogativo del cinema è all’oppo­ sto: cosa fa in modo che il godimento dell’altro possa - nel tempo di una proiezione - rendersi padrone del corpo dello spettatore? (Ricorrente e ripetitivo l’interrogativo del cinema: cosa mi succede durante il tempo in cui sono spettatore di questo film, cosa mettiamo in gioco, cosa si ri­ 95

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schia, si perde, si vince, cosa cambia per me, per il sogget­ to-spettatore che sono diventato nel corso della proiezione del film?) L’esperienza dell’estasi che sarà rappresentata nel film potrà (anche solo per un istante) passare dalla par­ te dello spettatore del film medesimo? E se la cosa è possi­ bile, come? QUATTRO. Cosa ci insegna Partie de campagne sulla di­ mensione cinematografica dell’estasi? Innanzitutto, che al cinema l’estasi non è (solamente) un sentimento del soggetto (del personaggio) ma piuttosto una vibrazione del mondo, una messa in moto musicale del mondo, un concerto del mondo in risonanza con il soggetto estatico, una concertazione, una congiunzione a poco a poco in­ staurata fra elementi naturali (in questo caso le nuvole, la pioggia, il vento), forme del paesaggio (il fiume, l’isola, gli argini), luci (dal sole all’ombra, dalla chiarezza al grigiore) e i sentimenti dei personaggi, siano essi la resistenza squi­ sita o l’abbandono sconvolgente di Henriette, per come si materializzano nella carne tremante e nel corpo ansiman­ te della sublime Sylvia Bataille... La lievitazione del movi­ mento estatico, nella scena della passeggiata in barca e dell’incontro sull’isola, si potrebbe descrivere come un ’an­ data-ritorno fra il registro dei corpi e quello degli elemen­ ti del décor. CINQUE. Fin da La Corazzata Potemkin, con la celebre scena del telone gettato sui ribelli, dove il biancore della tela - rimane essa pur sempre un lenzuolo - contamina ir­ resistibilmente tutta la sequenza delle immagini5, il cinema ha cominciato a trattare l’estasi come ciò che oltrepassa i li­ miti di una inquadratura, di un piano, di un corpo, di una luce, di un momento, di uno stesso sentimento: ciò che collega, ciò che mette in relazione la non-compiutezza di 96

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ogni essere e di ogni cosa. Per definizione Yestasf eccede lo stato dei corpi e dei luoghi, li fa traboccare gli uni negli al­ tri. Bordeggiare, debordare. Ciò che esce da se stesso, esce dai propri confini, trapassa i limiti del corpo filmato così come dell’inquadratura del film, e da lì trapassa anche i confini dello schermo per raggiungere, trapassandolo, il corpo del soggetto-spettatore. Schema motore dell’estasi: una sequenza di movimenti fuori.

SEI. Si faccia attenzione al modo in cui è inquadrata la scena dell’abbraccio in Partie de campagne, al modo in cui sono inquadrati i corpi dei due amanti, e soprattutto a quello in cui è inquadrato il primo piano del volto di Sylvia Bataille, al limite fra paura ed estasi. Scrivo “inquadrato”, sì, ma per essere precisi si dovrebbe scrivere disinquadra­ to7. E attraverso una sequenza di disinquadrature che si opera la rappresentazione di questo corpo e di questo vol­ to che davanti a noi stanno per accedere alla dimensione estatica: - inizialmente, in piano medio, i corpi sono presenti inte­ ramente nell’inquadratura, Henriette vacilla nel verde per sfuggire a Henri (Georges Darnoux) e questo gesto di ritrarsi al contrario la consegna a lui, proprio mentre questo ondeggiamento ci dissimula in parte il corpo ed il volto della giovane, celato nel verde. Primo spostamento, primo décadrage nell’inquadratura che priva noi, spetta­ tori, di una parte del quadro, e ci sottrae il corpo ed il volto in gioco nel momento culminante della scena; - nel piano successivo, più stretto, la testa di Henriette ri­ versata e buttata fuori dall’inquadratura dal gesto di Henri che la prende con forza. Di colpo, violenza del­ l’inquadratura che raddoppia la violenza del gesto, il vol97

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to della giovane è disinquadrato, la fronte tagliata, gli occhi chiusi vibranti al bordo dell’inquadratura, alter­ nativamente dentro e fuori. Erotizzazione del bordo dell’inquadratura. Il fuori-campo come luogo dell’im­ pudicizia, dell’impulso, della compulsione. Questo mo­ vimento negativo della testa - Henriette resiste, si di­ batte - rafforza violentemente il turbamento prodotto nello spettatore a causa di questa iscrizione al limite de­ gli occhi chiusi, che li fa passare da fasi opposte a quel­ le del nostro sguardo: questo sguardo che fugge e si sottrae non è precisamente il nostro, di noi spettatori, ma quello di cui il nostro sguardo può impunemente gioire, quello che noi ancora possiamo dominare. Hen­ riette si dibatte sotto lo sguardo di Henri, ma è anche e innanzitutto sotto i miei occhi e davanti al mio sguardo, per il mio sguardo e per il piacere che ne traggo9. E que­ sto è dovuto precisamente al fatto che i suoi movimen­ ti la fanno uscire dall’inquadratura, dall’inquadratura del film che è anche, per il tempo della proiezione, l’in­ quadratura del mio sguardo, del mio desiderio. E così che lei cede, vinta da due sguardi che esprimono lo stesso desiderio di possessione. E quando lei cessa di ri­ fiutarsi e quando la sua testa rinuncia ad agitarsi per di­ re «no», allora i suoi occhi si aprono e, fugacemente che sia, vediamo lo sguardo di Henriette fissarsi. Un modo di cedere al nostro, insomma. Per una frazione di secondo che dura l’eternità, il corpo dell’attrice si abbandona in una immobilità già estatica; ancora più da vicino, più stretto, il terzo e ultimo piano della scena, quello del bacio a cui segue lo sguardo in macchina, filmato questa volta in primissimo piano, os­ sia facendo del disinquadramento il principio stesso del quadro, dato che questa volta non sono che dei fram­ 98

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menti del volto, della bocca, degli occhi, che sono in­ quadrati. Nel momento in cui le sue labbra si staccano da quelle di Georges Darnoux, l’occhio destro di Sylvia Bataille, l’unico visibile, e chiuso, resta molto al bordo dell’inquadratura, quasi fuori-campo. Il bacio ha fine ed il volto dell’uomo (anch’esso disinquadrato) esce com­ pletamente dal campo. In un movimento che esprime­ rebbe ancora il rifiuto - e sarebbe questa volta indub­ biamente il rifiuto del nostro sguardo - la testa di Sylvia Bataille si volta dall’altra patte e, in un colpo di genio, ritorna verso di noi con un movimento brusco, ad occhi aperti, e questa volta al centro dell’inquadratura, per lanciare questo sguardo di Medusa che si chiama sguar­ do in macchina. Ora, cos’è uno sguardo in macchina? Uno sguardo al centro dell’obiettivo, uno sguardo che mi guarda, che incrocia il mio sguardo di spettatore. Ma soprattutto uno sguardo che trapassa l’inquadratura, che la oltrepassa nel suo stesso centro, che ne punta il fuori-campo più assoluto, quello dell’équipe che sta gi­ rando il film (lo sguardo, il corpo ed il desiderio stesso di Jean Renoir, dirà Alain Bergala9). Uscita da sé = uscita dalla cornice. Eizenstein dice più o meno: «Uscita da sé come passaggio ad una qualità nuo­ va...». Al momento del suo godimento, nel movimento stesso dell’estasi, mentre ha appena mimato un ultimo ri­ fiuto, Henriette ci guarda dritto negli occhi e ad un tratto le convenzioni della rappresentazione cinematografica so­ no travolte, l’interdizione dello sguardo in macchina tra­ sgredita. Il personaggio sparisce dietro all’attrice. Il recin­ to, la barriera della scena vacilla: il piacere del personaggio diviene improvvisamente quello dell’attrice, perché solo lei, l’attrice, sa che c’è una cinepresa che è anche uno sguardo e che lei la può guardate come si getta uno sguar­ 99

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do di sfida all’uomo che osserva il vostro piacere. Eccesso. La scena è eccessiva. Estasi come ciò che spinge il perso­ naggio fuori di sé (dalla “sua cornice”), l’attore fuori dalla scena e lo spettatore fuori da se stesso. Lo spettatore è preso da una visione dell’estasi femminile che lo trafigge. Qualcosa accade fra l’attrice e lo spettatore, ieri ed oggi, qui e laggiù, due tempi sospesi, due colpi irreali l’uno ri­ spetto all’altro ma realmente congiunti attraverso l’opera­ zione cinematografica.

Note: p. 180 e segg.

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2.2. Variabilità estatiche tra beat, post-beat e new edge (di Franco Minganti)

1. Un po’ tutti gli anni Cinquanta negli Stati Uniti - sia quel­ li vissuti da square, sia quelli transitati ai margini, da hip, da “sotterranei” - paiono rincorrere una gran voglia di arginare lo stress e sciogliere i nodi messi in luce da una psicologia e una psicanalisi virate decisamente in chiave pop. Chiunque appare in grado di determinare il proprio programma di self-help, di auto-terapia, le proprie perso­ nali alchimie alla ricerca dell’esperienza di uno stato esta­ tico, se non proprio di uno stato di grazia. Il consegui­ mento della felicità, the pursuit of happiness, è pur sempre inscritto a chiare lettere nella carta costituzionale ameri­ cana e «tenersi al passo con l’euforia», un verso della poe­ sia High (1962) di John Wieners, mi pare una buona ver­ sione, tra le tante, di quella istanza - in particolare, qui è l’oppio che fa processare immagini di luce e notte a caval­ lo tra “visione” e “versione della vita”. Ci si potrà eventualmente dividere sulla distinzione tra droghe e vizi “borghesi” (l’alcool - Martini e cocktail - e quella farmacopea che ha consegnato alla storia del perio­ do una delle sue definizioni più pertinenti, quella di tranquilized fifties sedati e forse instupiditi da dosi massicce di tranquillanti) e droghe e vizi “alternativi” (marijuana, ha­ shish, cocaina, eroina, anfetamine, LSD, peyote), ma la sostanza muta di poco. In quegli anni, ideologie, filosofie e ritmi di vita non consentono facili sintonie, consonanze e adattamenti: per assecondare gli sbalzi d’umore dovuti al­ le frizioni tra la calma apparente del decennio e le sue in­ consulte accelerazioni - nella musica, rock e bebop', nel­ l’arte, Espressionismo Astratto e Pop; nell’hype, il mar­ 101

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tellamento pubblicitario e le nuove distribuzioni delle mer­ ci; nelle politiche sociali, la lotta per i diritti civili; nella te­ levisione, il boom dei commercials e le grandi battaglie dei network nella programmazione e sperimentazione di for­ mule e programmi - diviene buona norma del savoir vivre attrezzarsi quanto a strategie di compensazione tra euforia e disforia; e questo in qualunque nicchia, ai margini come al centro della società. Se è la velocità - una deliberate speed, come la definisce W. T. Lhamon - a dettare legge quale stile culturale più signi­ ficativo degli anni Cinquanta, pure i segni esteriori del mutamento dell’estetica culturale dominante del periodo puntano forte sull’opposizione fast/slow. Quello che resta vero, nell’esasperazione come nell’alterazione della per­ cezione, è il fatto che in ogni caso servono strumenti per ottenere una parvenza almeno di equilibrio o, meglio, di coolness - altra cifra stilistica che indubbiamente condi­ ziona parecchi risvolti etici ed estetici del periodo. «What goes up must go down», celebre apertura di Spinning Wheel, un hit di quegli anni, non risponde solo alla (ba­ nale) legge di gravità, ma soprattutto alle mitologie do­ minanti dello sballo - dalle curiose coordinate verticaliz­ zanti: basti pensare agli “highs”, le vette dell’estasi - e dei suoi correttivi: uppers (qualsiasi cosa in grado di tirarti su) e downers (ovvio, tutto ciò che ti dia una calmata) domi­ nano il linguaggio della progettualità dello “stare bene”. Casalinghe suburbane e mariti in grigio (come reciterebbe la formula, «in the gray flannel suit»), Beats e Beatniks (ovvero, quelli “veri” e i loro cloni ormai massificati e cir­ cuitati dai media), uomini corporativi (i corporate men, gli uomini delle corporations) e uomini incorporanti (famelici di vita, letteralmente divoranti), marciano tutti verso l’a­ buso di sostanze stupefacenti, percepito ormai come uso pressoché necessario, normale e persino naturale. 102

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In definitiva, in una società sempre più concentrata sul risultato, su una performance di ordine e metafora sportivi, quasi tutti paiono dedicarsi anima e corpo alla produttività sociale e al miglioramento delle prestazioni: pillole e addi­ tivi della cornucopia farmacologica consentono di alleg­ gerire la tensione, combattere l’insonnia, calmare il dolore, perdere peso, aumentare ogni genere di efficienza, tenersi ben svegli, controllare gli stati depressivi, intensificare le relazioni e il piacere, amplificare i propri rituali sociali, traghettarsi senza traumi da un settore all’altro del quoti­ diano. Non deve essere poi così diffìcile negli Stati Uniti, dove la lingua inglese offre il termine “drug” che significa sia “droga” sia “medicina”, un’ambivalenza già contenuta, secondo Derrida, nel greco phàrmakon. David Meltzer ri­ porta come Jack Kerouac descrivesse all’editore Donald Alien il proprio regime di scrittura, «come un atleta che descrive il riscaldamento prima della gara: Benzedrina e Tuenol in dosi intervallate, interludi di erba e qualche sor­ so di vino tra l’una e l’altro», il tutto per sostenere la pro­ pria creatività per lunghe, estenuanti e proverbiali tirate al­ la macchina da scrivere: il mito di On the Road non va sen­ za il rotolo ininterrotto di carta da telescrivente su cui il ro­ manzo viene rapsodicamente battuto. Quanto al risultato, percezioni alterate, illuminazioni reli­ giose e visioni estatiche finiscono al centro del racconto deH’esperienza - per la verità, con o senza l’ausilio di addi­ tivi chimico-naturali. Nel frattempo sono infatti entrate di diritto nel patrimonio collettivo le filosofìe orientali e le conoscenze legate a qualsivoglia cultura sciamanico-mistico-religiosa, dai Native Americans agli antichi Inca e Maya, dalla setta dei Gnaoua del Marocco ai Sufi medio-orienta­ li. Ad esempio, i Beat cercano e trovano nel Buddismo un antidoto alla paranoia e al conformismo, in particolare nel­ la “Big Mind”, in una “consapevolezza panoramica”, uno 103

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stato privo di centro, come in assenza di gravità. Dopo la pubblicazione del saggio di Aldous Huxley The Doors of Perception (1954), che metteva in luce gli effetti della mescalina - «introduce ad un mondo altro di luce, colore e co­ scienza espansa. Talvolta possono verificarsi percezioni ex­ trasensoriali. Alcuni scoprono mondi di visionaria bellezza. Ad altri si rivelano la gloria, I’infinito valore e la pienezza di significato della nuda esistenza», tra la fine degli anni Cin­ quanta e i primi anni Sessanta parecchio si discute intorno alle sostanze stupefacenti, a vari livelli, e molto si speri­ menta, legalmente come illegalmente, scientificamente co­ me artigianalmente, alla luce del sole come under cover, magari coperti dal segreto militare. La controcultura (non solo i Beat) e svariati intellettuali non schierati scendono in campo con i loro appelli all’intelligenza e alla compren­ sione, contro certi effetti proibizionisti delle narco-leggi, il sensazionalismo della stampa in materia di droghe e l’ac­ quiescenza della Little America. Se già nel 1956 il British Journal of Addiction discute a tutto campo sull’argomento, su Narcotica (Auerhahn Press, 1959) Philip Lamantia si scaglia contro la stupidità americana, invocando «l’aboli­ zione delle leggi che proibiscono i narcotici», in coppia con un Antonin Artaud che invia «una lettera al legislatore della legge sui narcotici»: «e ora ingoiala - la tua legge!» (Il fascicolo si chiude con la traduzione inglese dell'infinito di Leopardi ad opera di Lamantia: «So that in this immensity I My thoughts drown / And shipwreck is sweet to me in this sea»). La prestigiosa Harvard Review dedica l’intero fa­ scicolo dell’estate 1963 a “Drugs and the Mind’’, conceden­ do ampio spazio a Timothy Leary e Richard Alpert (due studiosi costretti a lasciare il campus e le loro ricerche sul­ la psilocibina), ad articoli sulle piante allucinogene del Nuovo Mondo, sui rituali del peyote in Messico, sulla storia dei narcotici negli USA, sui rapporti tra droga e misticismo, 104

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tra droga e creatività artistica. Beatitude indaga quasi pro­ grammaticamente la dipendenza, sia essa da incerta so­ stanza (“what / harvest consumed in the substance / (...) ri­ pens in my imagination” Allen Ginsberg), da una convivialità complicata su cui non si può non ironizzare (“Wè continue / talking, growing nervous, drinking I too much coffee ’’David Meltzer), da peyote che non sempre offre i ri­ sultati sperati (Lines from a peyote depression, Michael Mc­ Clure), mentre il primo numero di “Gnaoua” (primavera 1964), concepito in Marocco ma stampato in Belgio, porta il logo dello scarafaggio della cantaride in copertina e un’a­ pertura intitolata alla possessione e alla trance esoreistica dei danzatori gnaoua. In quelle pagine ci sono dentro un po’ tutti - Burroughs, Gysin, Ginsberg, McClure, Harold Norse e persino Jarry - in un tourbillon di poesia, lettera­ tura, musica (a voler essere pedanti, si sente la mancanza del Paul Bowles etnomusicologo, raccoglitore sul campo di musica marocchina per lo Smithsonian) e fotografìa (c’è persino un portfolio, Superstars of Cinemaroc, del Jack Smith “of Flaming Creatures fame ”). E l’interesse nei con­ fronti della mistica della droga interpretata dai Beat ameri­ cani rimbalza in Europa, dove appaiono riviste e pamphlets, come ad esempio Hooked (1963) in Inghilterra, che offre controinformazione e persino un dizionarietto di slang - il titolo arriva da una citazione del Sam di The Connection di Jack Gelber, poi film celebre di Shirley Clarke: «Pensavo che la gente che cammina per la strada, la gente che lavora tutti i santi giorni, la gente che si arrabatta tanto per il prossimo dollaro, il prossimo cappotto nuovo, i drogati di clorofilla, di aspirina, di vitamine, che questa gente sia peg­ gio di me. Drogata senza speranza». In qualche modo, gli anni Sessanta si ri-tribalizzano intor­ no alla parola incastonata nel rumore, alla musica e al pul­ sare della danza: si consumano nel ballo estatico e nella 105

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trance-possessione, fino ad attivare una fede momentanea nella possibilità di trascendere una politica reazionaria e una cultura consumistica sempre più avvolgenti, come in una specie di esorcismo. Vengono alla mente il gusto tea­ trale e la vocazione alla performance ben vivi nella contro­ cultura: gli happenings rituali dei Fugs, come quello sulla tomba del senatore McCarthy, l’esorcismo di massa gui­ dato da Abbie Hoffman e Jerry Rubin per far levitare il Pentagono o l’evocazione dello spirito di Che Guevara descritta da Ed Sanders nel suo Shards of God ( 1970), fino al no rain! di Woodstock. Visione e intensità si offrono spesso candidamente ed esta­ ticamente nella modalità tutta sinestetica della percezione perseguita dalla cultura beat. Vogliamo cogliere la grana del sonoro e il ritmo dell’immagine insieme: gli oltre ses­ santa tra film, video e documentari della recente retro­ spettiva veneziana The Beat Goes On - 50 anni di contro­ cultura (agosto-settembre 1996), visti cumulativamente in sequenza, sullo schermo di lavori dalle premesse teoriche programmaticamente distanti (animazione astratta vs documentarismo, ad esempio) mostrano la notevole conver­ genza dei medesimi risultati gestaltici, di analoghe disso­ luzioni della percezione, di similari ricerche, tra il visivo e il sonoro, di stati di grazia e nuove aperture per una “men­ te ottica ”. Scriveva Stan Brakhage in Metaphors on Vision (1962): «Immaginiamo un occhio che non sia sottoposto alle leggi della prospettiva create dall’uomo, un occhio non condizionato dalla logica composizionale, un occhio che non risponda al nome di ogni cosa ma che debba co­ noscere ciascun oggetto incontrato nella vita attraverso un’avventura percettiva [...]. Immaginiamo un mondo che pulluli di oggetti incomprensibili e che risplenda di un’in­ finita varietà di movimento e innumerevoli gradazioni di colore. Immaginiamo un mondo che preceda il In principio 106

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era il verbo». La conoscenza ipotizzata da Brakhage, nel­ l’impossibilità di ritornare indietro, prima della perdita dell’innocenza, si espande dunque oltre il linguaggio, ver­ so una percezione intesa nel senso più originario e profon­ do del termine, che ci avvicina ad una riflessione in qual­ che modo etnografica, antropologica, da riaggiornare di continuo al presente: «Supponiamo che la visione del san­ to e dell’artista sia un’aumentata capacità di vedere - vi­ sione. Ammettiamo che la cosiddetta allucinazione entri nel regno della percezione...». Ecco allora l’inedita sintonia tra i colori e le forme astratte delle Early Abstractions (1939-56) di Harry Smith e la ver­ tigine di taluni spezzoni di Anticipation of the Night (1958) di Brakhage; tra il paesaggio dell’America che scorre ac­ canto alle automobili al ritmo di un assolo di batteria jazz in Motion Picture (1956) di Frank Paine e le immagini di liquefazione letterale e indotta che accompagnano la straordinaria musica modale in apertura di Jazz on a Sum­ mers Day (1959) di Bert Stem, ad opera di Jimmy Giuffre, Bob Brookmeyer e Jim Hall. Lo schermo non riesce più a contenere un’immagine che deborda di continuo, che flir­ ta con il fuori-campo e l’ilinxdel nostro sguardo, e persino con gli sviluppi narrativi del plot. Penso rispettivamente agli exploit della m.d.p. di Brakhage in Desistfilm (1954) alle prese con i corpi dei giovani in­ torno ai quali si avviluppa, letteralmente creandoli nella lo­ ro incertezza esistenziale, e a qualsiasi pellicola al cui cen­ tro stia il corpo dislocato di un attore come Taylor Mead (basterebbero un paio dei titoli di Ron Rice, The Flower Thief 1960, The Queen of Sheha Meets the Atom Man, 1963-B2), ovvero ai gloriosi funambolismi di Hallelujah the Hills (1963) di Adolfas Mekas. E non si può non fare riferimento alle tecniche della sovrapposizione dell’imma­ gine impiegate da Robert Frank già nel proprio cinema 107

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(Pull My Daisy, 1959, Me and My Brother, 1968) e, in rela­ zione etile percezioni alterate dalla droga, abilmente utiliz­ zate da Conrad Rooks in Chappaqua (1966), di cui Frank è appunto il direttore della fotografìa. 2. Il momento estatico nel cinema presuppone in effetti un occhio che provi godimento nel vedere il formarsi di im­ magini e di corpi, indipendentemente da tutto, vera deve essere la situazione del vedere, del godere: la fascinazione deve risultare reale, magari quale piacere per la sospen­ sione, la tregua dell’identità. Per altro, in molta della fic­ tion che si preoccupa di mettere in scena certi stati di al­ terazione si finisce proprio con il porre come nodo cru­ ciale la questione di identità o personalità messe a repen­ taglio. In Performance (1970), di Donald Cammell e Nico­ las Roeg, intessuta nella finzione dei ruoli - sempre perfor­ mance d’artista: non a caso vengono evocati la magia, la prestidigitazione, il mascheramento, il travestitismo... an­ che nei ruoli sessuali - c’è pur sempre una trance dell’i­ dentità, anche se viene innescata da qualche fungo alluci­ nogeno. Per necessità o per scommessa interiore l’identità viene forzata («devo ambientarmi a tutti i costi» dice il protagonista in fuga nella strana dimora di Mr.Turner) e comunque messa in gioco. Il pericolo sempre evocato è la follia, un rischio calcolato per un artista: «una manifesta­ zione artistica qualsiasi che si avvicini alla perfezione por­ ta inconsciamente alla pazzia» sostiene Mr. Turner nel corso delle sue elucubrazioni - tra evocazione di musiche a loro modo ipnotiche (il blues ‘‘aperto’’ di Ry Cooder e, curiosamente, il rap pre-rap dei Last Poets), sperimentali­ smo microfonico (moltiplicazione, eco, riverbero della vo­ ce), citazione di culture extra-occidentali (gli Hashishin persiani, la setta di sicari assassini il cui premio è il para­ 108

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diso, o certe proprietà magiche delle pietre del Marocco) e riferimenti contemporanei (qualcosa di burroughsiano e il vapido maledettismo degli Stones di Mick Jagger-Mr. Tur­ ner). In modo analogo vanno le cose in quel particolare diario che è, in definitiva, il Chappaqua (1966) di Conrad Rooks, ovvero quel cerchio esperienziale del protagonista Russel Harwick, dall’alcol all’alcol passando per marijua­ na, eroina, hashish, cocaina, peyote, psilocibina e LSD 25. L’aggressività delle droghe viene sviluppata nell’aggres­ sione sinestetica allo spettatore; visivo e sonoro moltipli­ cano a vicenda gli stimoli, la sovrimpressione sconvolge la percezione, l’intensità del sonoro va e viene, così come la messa a fuoco e, in qualche modo, il focus della narrazione. E un diario perennemente alterato che comunica per vi­ sioni, metafore, impressioni, associazioni, eppure è curio­ so che una trance come questa si nutra di usuali mitologie culturali bianche. Ai Native Americans e all’Altro per ec­ cellenza della cultura americana, il nero afroamericano, si riconosce una spiritualità superiore: la trance del servizio religioso della Black Church viene apparentata con riti del peyote che paiono dover riparare simbolicamente al sa­ crilegio della violazione di Chappaqua, “the Secret Place of the Running Waters” a 50 miglia da New York, luogo di sepoltura indiano dove Russel ha trascorso l’infanzia. Co­ me se non bastasse, ecco le “visioni Inca” da cocaina che Russel contrappone all’ironico Barrault-medico che pre­ ferirebbe prescrivere “le migliori visioni” dell’aspirina. Per la verità, queste non sono altro che l’aspirazione ro­ mantica per eccellenza, qui in viraggio hippie con musica flautata: il sogno edenico a due, uomo e donna, con im­ mersione in una natura sconfinata, bella e deserta. L’illu­ minazione, il cerchio d’oro del sole con tanto di sitar di Ravi Shankar, consente di «entrare nella visione, come in un tunnel», ma la pellicola ci offre solo altre mutazioni: 109

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Parigi che si fonde con ricordi dell’india, un jazz club che ridiventa la clinica, rituali pseudo-cristiani, Moondog (sempre che sia lui) che imita un druido a Stonehenge, i neon della pubblicità che nel buio della notte diventano vere e proprie epifanie di divinità. La visione è poi ricon­ dotta, correttamente mi pare, alla logica del nostro im­ maginario: «La mia logica era quella del cinema america­ no, motociclette, velocità, 42nd Street» confessa Russel al medico-Barrault, ed è al cinema, dentro il cinema, che si consuma tutto. Mentre sullo schermo scorre una cerimo­ nia tribale indiana, è un Burroughs-stregone ad officiare il rito della messa in gioco dell’identità di un Russel-biker con le sue speciali formule del cut-up: “Are you who /1 am who / Who you are /1 who am" (e il gioco evocato non può non dipanare varie parodie dei generi hollywoodiani, il gangsterismo da massacro di San Valentino come il vam­ pirismo gotico in versione camp).

3. Le paure del protagonista di Chappaqua sono rivolte al rischio di vedersi trasformati in automi, più o meno in­ consciamente, o forse persino ironicamente, scorrono nel film i gesti nervosamente ripetuti, i tic, i comportamenti condizionati: viene in mente 1’Allen Ginsberg di On Vi­ sions (1953) che invocava (Stop machinery / fabricating likeness / of habitual appearance). Lo spauracchio dell’omologazione dell’organizational man dei tranquilized fifties pare essere stato esorcizzato a suffi­ cienza dalle frange dello yuppismo e della cultura New Age - tecnologica mistica consumista - che, anzi, paiono aver trovato nuovi spazi percettivi ed estatici tra identità, immagine, consumo e additivi vari. La New Edge Culture per altro, un aggregato difficilmente riconducibile a mo­ delli e comportamenti monolitici - ha rapporti profondi e 110

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sottili con la psicochimica: finita l’epoca in cui le dimen­ sioni spirituale e psicologica dell’esperienza della droga psichedelica stavano al centro della cultura dell’esperienza stessa, oggi la psichedelia chimica viene prevalentemente considerata, con non poca coolness di ritorno, come un aiuto temporaneo al cervello per processare quantità mag­ giori di informazione. Una delle voci del decalogo cyber­ punk di Mondo 2000 riguarda infatti la possibilità di «vi­ vere meglio attraverso la chimica» aumentando le proprie potenzialità. Da un lato, le droghe appaiono - soprattutto nella fiction - come codici di accesso per aprire certe di­ mensioni del cervello e creare nuove realtà, mentre dal­ l’altro diventano una sorta di interfaccia tra mente e infosfera, oltre che un ingrediente utile per farsi meglio culla­ re nella quiete dei tappeti sonori della trance-music o nel ronzio continuo dei drolles di musiche che spaziano dai rumori naturali ai tessuti percussivi della world music in­ tesa nel senso più letterale ed estensivo del termine, fino al white noise post-industriale. Sparita l’aura cultural-mitologica di cui abbiamo detto a proposito degli anni Cinquanta, ora sono le smart drugs a volte definite designer’s drugs, inevitabile segno dei tempi - a tornare utili: inducono la produzione di vasopressina (accelererebbe e acuirebbe i processi cerebrali) e impediscono quella di serotonina (un “limitante” della circolazione di informazione nelle cellule cerebrali). Per quanto, nel parlare degli effetti delle droghe c’è ancora chi privilegia la pesantezza del corpo, l’assuefazione, l’al­ gebra of need burroughsiana, rispetto a chi preferisce la leggerezza delle capacità mentali, psichedeliche e visio­ narie alla Leary. Per la verità, oggi il sapere pare con­ centrarsi non tanto su un aldilà dialettico rispetto alla dicotomia classica che oppone corpo e mente, quanto 111

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piuttosto su un altrove che prescinda da questo binarismo, situato magari nella differenza e nella disidentità. Per un Ginsberg che amava dichiarare di volersi situare «fuori dalla società» - sottolineando l’ennesima forma ver­ bale dell’estasi quale ek-stasis, uscita fuori di sé, esperienza extra-corporea - oggi taluni stati di dissociazione sono en­ trati a far parte di una prassi, provocata e più o meno vo­ luta, che può anche apparire come risorsa, vitale e a suo modo necessaria, dell’inquietudine nomadica delle subcul­ ture giovanili. Si parla sempre più spesso di «surf-filosofìe», «tecnologie della soggettività» e di «tecnici dell’estasi» quest’ultima una definizione di Georges Lapassade, stu­ dioso della trance e dei suoi slittamenti dal tarantismo alle discoteche e ai raves, che abbraccia sia gli sciamani etno­ graficamente riconosciuti (magari anche i sacerdoti delle cerimonie gospel della Black Church), sia gli officianti dei nuovi riti collettivi (deejays e nuovi guru elettronici). Quanto agli additivi, come sottolinea Maurizio Viano, la nostra percezione è slittata dall’idea di “food for thought" a quella di “food for gods”. Dai guru psichedelici come Tim Leary, aggiornatosi poi elettronicamente, si è passati a quelli come Terence McKenna che notomizzano un pano­ rama in continua evoluzione e associano le droghe psi­ chedeliche a quel cibo che non viene facilmente metabo­ lizzato. Esse impongono di fatto un loro regime, che a volte può essere la voce della Verità: la loro assunzione può dunque essere associata all’idea di incorporazione di qualcosa che diventa altro, esteriorità assoluta. Non che un tale immaginario vada esente da obiezioni: se David Gale associa questa cultura diffusa di fuga dal corpo a un aspet­ to di malinconia tutta maschile, Mario Perniola ci mette in guardia dalle facili generalizzazioni. A proposito dell’ecci­ tazione estetica come tipo di sentire, del superspeed, del­ l’esperienza limite sull’orizzonte dell’estremo - così fami112

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tiare ad arte e religione, meno all’estetica -, ci dice che non di piacere si tratta e che nemmeno ha a che vedere con l’e­ stasi, «nozione troppo connessa con lo spirito, e [che] quindi non si presta affatto a descrivere esperienze che nascono dall’incontro tra mente e materia, tra organico e inorganico». Si rischia di tornare ad antiche querelles. Se la fiction più interessante insiste nel proporre metafore illuminanti per­ ché estremamente reali (la lingua come virus, la virtualità con tutte le sue varianti applicative), certa ricerca insiste che certi allucinogeni (quelli che contengono DMT, la dimetiltriptamina dal passato “culturale” nello yage di me­ moria allen-burroughsiana) conducono in una dimensione alternativa, una sorta di universo parallelo che possiede una realtà propria, esterna alla psiche umana, avvertibile come animata da una presenza intelligente con cui entrare in rapporto. Eppure, non è detto che l’estasi deH’immateriale non possa convivere con la vitalità di un’estasi che ha luogo unicamente in un corpo energizzato e non necessa­ riamente sublimato, illuminato ma non necessariamente al­ terato... in un corpo in stato di grazia.

Riferimenti bibliografici:

Il saggio di W. T. Lhamon, Jr. cui faccio riferimento si intitola Delibe­ rate Speed. The Origins of a Cultural Style in the American 1950s (Smithsonian Institution Press, Washington and London 1990), men­ tre le considerazioni di David Meltzer sono tratte dal saggio Fram­ menti di film beat, contenuto in The Beat Goes On - 50 anni di con­ trocultura (a cura di Franco Minganti, La Biennale/Editoriale Giorgio Mondadori, Venezia Milano 1996). L’annotazione sui rapporti tra cul­ tura Beat e Buddismo si trova in Big Sky Mind: Buddhism and the Beat Generation (a cura di Carole Tonkinson, Riverhead Books, New York 1995), mentre gli scritti citati di John Wieners (High) e Stan Brakhage (Metaphors on Vision) sono ospitati in Blue Grass (n. 1,1962), una tra

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le tante rivistine dell’era beat (editor Hank Chapin, del Kentucky; editore Coronado Press di Sandoval, New Mexico), quanto ai vari Ginsberg, Meltzer, McClure saccheggiati da Beatitude, si possono ri­ trovare nella Beatitude Antholology (City Lights Books, San Francisco 1960). In ambito “New Edge ”, ho tratto alcune suggestioni da Mondo 2000. A Users Guide to the New Edge (a cura di Rudy Rucker, R.U. Sirius & Queen Mu, Harper Collins, New York 1992), mentre i citati Maurizio Viano {Droghepsichismi cyber epunk), David Gale {Cowboys in Paradiso) e Mario Perniola {L’eccitazione estetica cyberspaziaie) si trovano in Cibernanti. Tecnoiogia, comunicazione, democrazia. Ele­ menti di psiconautica (a cura di Franco Berardi Bifo, Castelvecchi, Roma 1994).

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2.3. Sciamani, Medici, Guaritori. Sistemi terapeutici e contesti sociali (di Tullio Seppilli)

1. Ciò che vorremmo proporre sotto tale titolazione è una agile e pubblica discussione, il più possibile scevra di pre­ giudizi eurocentrici, sulla pluralità e la diversità delle me­ dicine che si sono via via sviluppate e che tuttora coesi­ stono nel nostro pianeta e sulla opportunità di un attento confronto dei loro meccanismi d'azione e dei loro esiti te­ rapeutici, delle loro diverse concezioni eziologiche e degli eterogenei significati che la "malattia", la terapia e la stes­ sa "guarigione" assumono nei vari contesti di civiltà, delle differenti figure di "operatori di salute" che ne risultano e della misura in cui, seppur sotto forme volta a volta diver­ se, le varie medicine rivestono una qualche dimensione sacrale o colorano comunque le proprie procedure e le figure stesse degli operatori di precise valenze simbolico-rituali. E abbastanza evidente, tutto sommato, che laddove la malattia è intesa come l'effetto di uno squilibrio inter­ corso fra l'individuo e il cosmo o di una reazione celeste a "peccati" compiuti dall'individuo o dalla sua comunità di appartenenza, il terapeuta dovrà assumere almeno anche una caratterizzazione sacerdotale, unico ruolo "compe­ tente" per la trattativa con una controparte dotata di po­ teri soprannaturali; laddove la malattia è invece intesa co­ me il risultato di una perdita dell'anima, rubata da uno stregone, il terapeuta non potrà non caratterizzarsi come sciamano, "specialista" del viaggio e della caccia nel mon­ do "altro" in cui il ladro è fuggito, e esperto della nego­ ziazione o della lotta attraverso le quali l'anima potrà es­ sere recuperata e restituita al suo proprietario; e solo a una concezione della malattia come esclusivo prodotto di 115

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disturbi organici potrà integralmente corrispondere il ruo­ lo del medico occidentale come è oggi prevalentemente in­ teso: il che non significa in alcun modo, peraltro, che nel rapporto fra il medico e il paziente possa essere sottovalu­ tata la dimensione simbolico-emozionale né, tanto meno, che un'assoluta fiducia nella guarigione, suscitata ad esem­ pio da un pellegrinaggio o da un rituale terapeutico inten­ samente vissuti, non possa attivare processi terapeutici so­ stanzialmente ignoti, finora, alla medicina occidentale, dei quali solo in questi ultimi anni la ricerca scientifica è giun­ ta ad individuare, almeno in certa misura, i meccanismi di fondo.

2. Lo stimolo a una iniziativa come quella che è qui proposta nasce, come sempre avviene in questi casi, da un certo nu­ mero di circostanze che si impongono alla nostra attenzio­ ne e configurano, qui ed oggi, una questione che richiede il superamento di vecchi schemi conoscitivi e operativi e la messa a punto di adeguate e innovative risposte. Come abbiamo già avuto occasione di sottolineare, malgra­ do la sua trionfante espansione planetaria, i suoi continui sviluppi conoscitivi e i suoi grandi successi in numerosi campi della prevenzione e della terapia, la "nostra" medici­ na - quella "occidentale" cioè, o, se vogliamo, la "biomedi­ cina" - sembra manifestare sempre più chiaramente taluni suoi interni limiti e alcuni preoccupanti segnali di crisi. La vittoriosa stagione di lotta della biomedicina otto-nove­ centesca contro un gran numero di malattie di origine bat­ terica - basata sulla individuazione di un agente aggressore e sulla conseguente abbastanza rapida messa a punto di una adeguata risposta preventiva o terapeutica - aveva ada­ giato l'opinione pubblica (e in certa misura anche gli scien­ ziati) nella fiduciosa certezza che la sconfitta di tutte le 116

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malattìe fosse ormai a portata di mano. Ma proprio queste vittorie, insieme al progressivo mutamento delle condizioni e degli stili di vita, hanno prodotto nell'intero Occidente un radicale cambiamento della patologia prevalente giacché, con la quasi totale scomparsa di numerose infermità o co­ munque la sdrammatizzazione del loro esito, sono larga­ mente emerse nuove forme infettive e soprattutto una vasta patologia degenerativa, spesso di lungp periodo, contro le quali i precedenti modelli di lavoro scientifico e di assi­ stenza medica risultano assai poco adeguati. Parallelamente, e per effetto di fattori di vario ordine, una sempre più spinta frantumazione specialistica della forma­ zione e della pratica medica, una impropria dilatazione della diagnostica strumentale e di laboratorio a detrimento della visita clinica, una crescente burocratizzazione degli apparati e dei servizi medici, hanno dato diffusamente luo­ go alla progressiva spersonalizzazione dei rapporti medico­ paziente e alla sostanziale oggettivazione di quest'ultimo co­ me mero "portatore" di infermità, in una situazione in cui, di contro, (a) proprio per la mutata patologia prevalente, il baricentro di una difesa realistica della salute deve spo­ starsi verso il momento della prevenzione e dunque verso la necessità di un consapevole, attivo e stabile coinvolgimen­ to partecipativo della intera popolazione, e d'altronde (b) sul terreno stesso della ricerca medica più avanzata viene sempre più largamente riconosciuta, anche in termini di stretta efficacia terapeutica, la assoluta necessità che i rap­ porti dei medici con i loro assistiti si svolgano secondo un modello di approccio unitario ("olistìco"), personalizzato, emozionalmente significativo, attento alle condizioni e al­ l'intero contesto di vita del paziente. Così, a fronte di una crescente domanda di salute, soste­ nuta anch'essa da un insieme complesso di fattori, si vanno sviluppando estese aree sociali di insoddisfazione e delu­ 117

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sione per la qualità dei rapporti con il personale e i servizi sanitari e, soprattutto, per il mancato verificarsi di radica­ li successi nella lotta contro alcune più gravi patologie emergenti: un atteggiamento, questo, che coinvolge spesso la stessa fiducia nel pensiero scientifico e si salda qua e là con una corrente di valori assai fluida e composita - lar­ gamente presente nei paesi industriali avanzati - entro la quale convergono pericolose nostalgie irrazionalistiche e critici ripensamenti su taluni costi connaturati al "pro­ gresso" e ad altre "scelte" compiute dal nostro filone di ci­ viltà, generici e ambigui "ritorni alla natura" e nuove po­ sitive attenzioni al rapporto uomo-ambiente, alla corpo­ reità, alle dinamiche emozionali, alla varietà degli stati di coscienza, eurocentriche fughe negli esotismi e nuove fon­ date aperture verso le culture "altre". E in effetti, in tutto l'Occidente - come avverte la stessa Organizzazione mondiale della sanità -, fasce crescenti di popolazione cercano risposte ai propri malesseri e a un ampio arco di patologie rivolgendosi a una sempre più vasta offerta di forme di medicina cosiddette "alternative". Si tratta, certo, di un fenomeno complesso e di una offerta assai eterogenea: revivalismi "aggiornati" delle vecchie medicine folcloriche, rurali e urbane, o della tradizionale erboristica familiare, degradati spezzoni dei rituali pro­ tettivi africani o afro-americani, procedure espunte dai grandi sistemi medici orientali, pratiche che in attesa di una più precisa definizione usiamo denominare "paranor­ mali", totalizzanti partecipazioni a gruppi cultuali neoreli­ giosi di varia matrice, linee di sviluppo eterodosse della stessa medicina occidentale, tanto per indicarne alcune principali componenti. Ma non pare azzardato sottolinea­ re come in maggiore o minor misura le differenti forme comprese oggi sotto la ambigua etichetta di medicine al­ ternative sembrino tutte garantire, nei rapporti fra opera118

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tore e paziente, una notevole capacità di ascolto, di corre­ lazione emozionale e di coinvolgimento personalizzato, una evidente ritualizzazione delle pratiche e un forte cari­ sma del terapeuta: caratteristiche, queste, che indubbia­ mente incidono sul paziente favorendo il prodursi di una intensa attesa/certezza di guarigione di cui non vanno sot­ tovalutati i vari possibili positivi effetti. Così, al di là della notevole eterogeneità fra le singole medicine alternative e, ancor più, fra le loro specifiche matrici di origine, pro­ prio queste convergenti caratteristiche sembrano in qual­ che modo costituire un effettivo terreno comune di alterità dell'insieme di tali medicine nei confronti della medicina occidentale o, se vogliamo, delle concrete modalità con cui si presenta oggi a larghe fasce di utenza la medicina "ufficiale". D'altronde, nel suo processo di planetarizzazione la medi­ cina occidentale è venuta sempre più largamente in con­ tatto, nelle più diverse società extra-occidentali, con po­ polazioni di culture "altre": è entrata perciò sempre più largamente in rapporto - specie attraverso i grandi progetti di "cooperazione intemazionale" - con differenti conce­ zioni del significato e delle cause di ciò che noi definiamo "patologia", con differenti figure professionalmente de­ putate a fronteggiarla e con le loro diverse procedure di in­ tervento, con differenti modelli di definizione degli itine­ rari terapeutici e delle relative "attese" da parte dei pa­ zienti e dei loro gruppi di riferimento. E anche con diffe­ renti significati e implicazioni del concetto stesso di guari­ gione, che presso molte culture si dilata fino a compren­ dere, ad esempio, il ripristino di equilibri che investono, oltre l'individuo, i suoi rapporti con il contesto sociale e naturale. Ne sono derivati, sul terreno aperto dal tramon­ to del colonialismo classico e dalle conseguenti politiche della stessa Organizzazione mondiale della sanità, alcuni 119

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grossi problemi "nuovi": problemi di "attività parallela" o di integrazione operativa fra medici occidentali e operato­ ri di salute locali, e dunque, in qualche misura, di correla­ ta divisione del lavoro o, al limite, di "sincretismo guida­ to", problemi di superamento delle reciproche chiusure e, anche, di attenzione scientifica, da parte occidentale, ai procedimenti e agli esiti delle pratiche tradizionali locali. Così, alcuni più esposti segmenti della "nostra" medicina sembrano cominciare a fare seriamente i conti con la esi­ stenza di altri sistemi medici non più nei soli termini eu­ rocentrici della "lotta contro la superstizione" e dell'"incivilimento dei barbari". Parallelamente, a causa del crescente squilibrio fra il Nord e il Sud del pianeta, sempre più numerosi contingenti im­ migratori provenienti dai più diversi paesi di quello che un tempo veniva chiamato Terzo mondo vanno raggiungendo l'Occidente euroamericano, dando luogo a estese aree multietniche nelle quali, di conseguenza, malgrado le di­ namiche di acculturazione e assimilazione, si instaurano complesse situazioni di multiculturalismo. In tal modo, all'interno stesso dei paesi cosiddetti metropolitani la me­ dicina occidentale si trova di fronte a un nuovo tipo di utenza: una utenza composita ed eterogenea a causa della eterogeneità dei luoghi di provenienza, complessivamente deprivata dei propri tradizionali contesti di riferimento e delle proprie tradizionali figure terapeutiche ma in larga misura, ancora, portatrice di concezioni, abitudini, "atte­ se" e codici di comportamento e di comunicazione - an­ che per quanto riguarda la patologia - radicalmente diversi da quelli della utenza del paese ospitante. In effetti - come testimonia da gran tempo l'esistenza stessa delle politiche di educazione sanitaria (o, come oggi si usa dire, di edu­ cazione alla salute) -, la moderna medicina occidentale non è nuova al problema di una qualche difficoltà di cor­ 120

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relazione culturale con larghe fasce di propri assistiti: in conseguenza di numerosi fattori, infatti, le popolazioni dei territori cosiddetti metropolitani appaiono esse stesse internamente attraversate da non lievi "dislivelli di cultu­ ra" (o, più precisamente, da non lievi diversità subcultu­ rali). Ma di fronte a questo nuovo ed eterogeneo tipo di utenza, proveniente dai più diversi luoghi del pianeta, le difficoltà di correlazione culturale assumono proporzioni inusitate e mettono in questione, insieme alle condizioni di base della semplice comunicazione fra medico e paziente, l'intera logica del loro rapporto, il reciproco sistema con­ venzionale di "attese" e i suoi stessi presupposti. Così, specie nei paesi occidentali che vivono da più tempo gli ef­ fetti di questo complesso fenomeno immigratorio, la me­ dicina ufficiale ha dovuto cominciare a porsi - sul suo stesso territorio e oltre i semplici termini della educazione sanitaria - l'esigenza di una forte e non facile attenzione conoscitiva e operativa alla coesistenza di differenti cultu­ re della salute e della malattia e, conseguentemente, quel­ la di un serio ripensamento delle proprie strategie di for­ mazione professionale e di organizzazione dei servizi. Non si può non sottolineare, in merito, che in un siffatto quadro, segnato dai multiculturalismi e dai connessi feno­ meni di sincretismo oltreché da una crescente ed estesa of­ fensiva neo-liberista contro gli assetti di well-fare state, l'obiettivo di una personalizzazione dei rapporti fra il me­ dico e il suo paziente si fa più complesso. Una effettiva ca­ librazione del discorso e della pratica medica alla perso­ nalità e ai personali vissuti di ognuno dei pazienti non può infatti prescindere da una sufficiente conoscenza dei significati, dei valori e degli orizzonti di riferimento cultu­ rali e materiali che danno senso ai loro stili di vita, ai loro atteggiamenti verso salute e malattia, alle "attese" che mo­ tivano il loro stesso colloquio con il medico. Occorre cioè 121

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che la personalizzazione dei rapporti fra il medico e il suo paziente vada al di là della dimensione meramente psico­ logica per allargarsi all'intero orizzonte di riferimento del gruppo sociale in cui il paziente è materialmente e cultu­ ralmente integrato, e assuma dunque il carattere di vera e propria calibrazione culturale dei servizi e delle attività sanitarie: giacché ogni rapporto fra medico e paziente è, al­ meno in certa misura, un incontro di culture (e, per que­ sto, anche luogo di un loro reciproco confronto).

3. In effetti, il nocciolo fondamentale della frontale condanna formulata dalla biomedicina nei confronti di gran parte delle altre medicine, la dimostrazione senza appello del lo­ ro carattere "superstizioso" e, perciò stesso, della loro inef­ ficacia, stava/sta nella centralità e nel peso che - seppure in combinazione talora con il ricorso a sostanze farmacologi­ camente attive - assumono in molte di esse le procedure ri­ tuali e il loro riferimento a un orizzonte mitico-sacrale. Ma appunto a questo proposito sono oggi possibili nuo­ vi e meno liquidatori percorsi interpretativi. Proprio la esplicita componente rituale e il suo radicarsi in un forte orizzonte magico-religioso, in riferimento al quale la ga­ ranzia che si avveri un evento risolutore appare appunto commisurata allo svolgimento del rito, sembrano poter attivare investimenti emozionali e stati psichici di "attesa di guarigione" sufficientemente intensi da produrre - al­ meno in taluni casi e dentro specifici assetti culturali reali positivi risultati non solo sulla soggettiva percezione dei sintomi ma anche sugli stessi "oggettivi" meccani­ smi di difesa immunitaria e sul complessivo equilibrio organico. In sostanza, e tanto per intenderci, un grosso effetto placebo in cui l'attesa psichica di guarigione su­ pera i limiti di una personale speranza e diviene "certez­ 122

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za" che si salda e si sostiene culturalmente nella ideologia e nel costume della comunità di appartenenza. Una notevole quantità di evidenze attestate nei più diversi contesti, l'esame stesso di questi "miracolosi" processi di guarigione - fondati tutti su un eccezionale incremento di normali meccanismi anatomofisiologici di difesa organica e, d'altronde, i sempre più estesi risultati della ricerca scientifica sulle correlazioni fra emozioni e patologia e sul­ le dinamiche di modulazione psiconeuroimmunologica, suggeriscono di lavorare senza pregiudizi intorno a questa ipotesi di ricerca: certo, con tutte le cautele metodologiche in ordine a ogni tipo di accertamenti e tenendo natural­ mente in conto la eterogeneità degli individui e delle pa­ tologie sottoposte volta a volta a trattamento. La portata teorico-pratica di una tale prospettiva di lavoro non va infatti sottovalutata: giacché - superate resistenze e pre­ giudizi eurocentrici - essa contribuisce finalmente a farci muovere in una prospettiva unificante in base alla quale sembra possibile assumere e confrontare, su un terreno in­ terpretativo pienamente scientifico, la varietà delle tipolo­ gie di intervento e delle vie di efficacia che i differenti si­ stemi medici hanno volta a volta empiricamente elaborato e privilegiato, nell'orizzonte dei più diversi paradigmi ideo­ logici, al fine di comprendere e fronteggiare ciò che noi in­ dichiamo generalmente come "patologia" o, se vogliamo, il "negativo" che colpisce l'equilibrio dell'uomo. Il che, tut­ to sommato, potrebbe costituire un non indifferente con­ tributo alla costruzione - e in certo senso alla ricomposi­ zione - di una futura medicina capace di padroneggiare un più ampio ventaglio di possibili percorsi preventivi/terapeutici in un quadro interpretativo coerente e in una pro­ spettiva unitaria e compiutamente scientifica.

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3. SCHERMI DELLA CITTÀ

3.1. La città e il cinema10 (di Marc Augé)

Fin dalla nascita del cinema, il destino di quest’arte (che è anche un’industria) e quello della città (che è al tempo stesso un luogo di produzione, un luogo di consumo, ma anche uno scenario, un luogo di vita e una fonte di imma­ ginario in costante espansione) sono stati irrimediabil­ mente legati. Forse si potrebbe persino scrivere una storia del cinema che non fosse altro che uno dei risvolti della storia dell’urbanizzazione, e viceversa. L’avventura vi avrebbe la sua parte perchè la corsa all’oro, la conquista del West sono innanzitutto la storia di un movimento di urbanizzazione e sedentarizzazione. La stes­ sa evocazione degli orizzonti più esotici e dei paradisi più rurali acquista significato solo in relazione a un’attesa, una speranza o una minaccia che si identificano con la città: bi­ sognerà pure che Robinson lasci la sua isola, che gli eroi della guerra tornino a casa, in qualche cittadina del Midd­ le West o nel Bronx di New York, e l’Aurore di Murnau, fin dall’origine, non rivela il suo splendore se non con­ frontata alle ombre e alle luci della città. I grandi cineasti hanno capito subito che la città era un mondo e che fra la città e la natura la metafora era a senso 125

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unico. La Natura «è un tempio», scriveva Baudelaire, e i Romantici, nel loro costante riferirsi all’architettura (avatar del Dio architetto concepito dal XVIII secolo), hanno a volte suggerito che la natura poteva essere percepita come una città. Ma è indubbiamente nell’altro senso che la po­ tenza della metafora ha potuto pienamente dispiegarsi: per gli umani, è la città che è una seconda natura e può riappropriarsi dei termini tramite cui si designano i vari si­ stemi eco-naturali, dalla giungla d’asfalto alle confluenze autostradali. Dietro queste metafore si profila la società e si profilano i rapporti conflittuali e talvolta violenti fra le classi e i gruppi: la metafora della città come natura ri­ manda a quella dell’umanità come animalità, ai confini del selvaggio. In un registro più geografico, tuttavia, e an­ che più poetico, la città si è sostituita alla natura sposan­ done i contorni, colonizzandone gli elementi più spetta­ colari, i fiumi e i rilievi. Che sarebbero mai la Senna senza Parigi, il Tamigi senza Londra, i sette colli senza Roma, l’Arno senza Firenze? Questa colonizzazione si estende alla meteorologia: si parla del clima di una città tanto in senso naturale che in senso morale. Il cielo di Parigi è sta­ to messo in musica. Sono state composte canzoni e poesie che personificano la città e questa personificazione è in un certo senso un risultato del movimento storico che ha fat­ to sì che oggi la città sia divenuta per milioni di persone l’ambiente naturale della nascita, della vita e della morte. Questa città naturale (o, se si vuole, storica), la ritroviamo costantemente nella tradizione cinematografica, ricca di tutte le ambiguità della metafora, al punto da farci dubi­ tare a volte della esatta natura del suo ruolo e della sua identità: è lo scenario o il motore dell’intrigo, un contesto o un attore? Si tratta di una domanda ovviamente senza ri­ sposta: la poesia dell’immagine, al cinema, rende qualun­ que risposta vera e insufficiente, rinviandoci incessante­ 126

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mente dall’evocazione di un luogo (che sia anche integral­ mente ricostruito in studio) a quella di un viso, di un rac­ conto, di una musica e, ancor di più, all’evocazione di me­ morie più o meno fedeli che ne conserviamo. Ci sono così nei nostri ricordi delle città immaginarie che sono città del cinema, città che hanno certo in ultima analisi un refe­ rente reale, ma la cui insistente presenza in noi è frutto del gioco combinato delle immagini del cinema e dell’imma­ ginazione della memoria: cosicché, in modo un po’ diffe­ rente per ciascuno di noi, questa città figlia del tempo, della memoria e dell’oblio ci espone a una delusione sotti­ le quando la confrontiamo alle realtà della città di oggi («La forma di una città» scriveva ancora Baudelaire, «cam­ bia più rapidamente, ahimè!, del cuore di un mortale»), ma anche quando rivediamo il film perché sulla sua pelli­ cola, ben conservata o tecnicamente usurata che sia, esso non ha subito il lavoro di erosione e di ricomposizione a cui si abbandonano, ognuna a sua modo, le nostre rispet­ tive memorie. Il rapporto fra la città e il cinema non può però essere ri­ dotto oggi ai giochi di immagini generati in un cinefilo occasionale dai nomi di Roma, Napoli, Parigi, San Franci­ sco, Londra o... Casablanca. L’espansione urbana è tale che essa oggi appare indubbiamente, con i movimenti di popolazione che vi si accompagnano, per quel che è: l’e­ spressione di una nuova era dell’umanità che toglie pro­ gressivamente ogni senso alle opposizioni come città/cam­ pagna o centro/periferia che fino a poco tempo fa ci aiu­ tavano ancora a cercar di comprendere il mondo ordinan­ do lo spazio. Il tessuto urbano, in effetti, si estende a velocità accelerata lungo le coste, i fiumi e le vie di comunicazione. Questa accelerazione è ancora più sensibile in continenti come l’Africa e l’Asia. Nelle città dell’Europa e dell’America 127

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del Nord si concentrano popolazioni di migranti prove­ nienti dal mondo intero, ma in tutto il pianeta popolazioni di origine rurale si concentrano nei barrios, nelle favelas o nelle bidonvilles delle megalopoli che subiscono la pro­ pria crescita senza riuscire a controllarla. Questa espan­ sione e queste mescolanze, frutto dell’esplosione demo­ grafica, non hanno precedenti storici. Coesistono con altri sviluppi a cui sono in parte legate: l’accelerazione dei mez­ zi di trasporto e l’evoluzione dei mezzi di comunicazione. Gli uomini circolano (nonostante gli ostacoli frapposti a questa circolazione) perché le immagini e i messaggi cir­ colano senza intralci. D’altra parte, c’è un contrasto sempre più impressionante fra la povertà del mondo (quale si può osservare nelle “sacche” urbane dove si ritrovano i migranti, i “rifugiati”, i profughi di ogni genere) e il supersviluppo su tutta la su­ perfìcie del pianeta (compresi, anche se in modo più stret­ tamente localizzato, alcuni paesi poveri) della rete mon­ diale delle comunicazioni legata all’espansione dell’eco­ nomia di mercato. Una delle conseguenze di questa dram­ matica tensione (e forse una delle sue temporanee vie di soluzione) è la derealizzazione dell’esistenza e del mondo: gli uni sono affascinati dalle immagini di una prosperità che secondo tutte le previsioni non avranno mai; gli altri percorrono in veste di turisti un mondo in cui le curiosità esotiche sono contate, classificate, protette e il più possi­ bile decontestualizzate. La fuga degli uni, ferrare degli altri, la girandola vertigi­ nosa delle immagini intorno al globo appartengono al no­ stro universo di oggi, un universo che chiamiamo urbano, in mancanza di un termine migliore, ma che non si con­ trappone a nessun altro perchè è quello di tutta la terra fin dove essa è abitata: è la città o il deserto, ma allora non si tratta più propriamente della città, ma piuttosto di uno 128

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spazio da riqualificare, da riscoprire, in cui si svolgerà la storia di domani. I terreni incolti, le aree in costruzione, gli spazi di sopravvivenza urbana nelle metropoli del Terzo Mondo sono, allo stesso titolo delle autostrade, le torri farcite di uffici, gli aeroporti e le sale d’attesa, il luogo in­ determinato di una storia a venire di cui ignoriamo tutto ma di cui qualcuno (penso a Nanni Moretti, a Wim Wen­ ders, e anche a Godard) ha saputo farci percepire il ru­ more, come di una marea montante. Nell’attesa bisogna registrare, documentarsi, ascoltare, vegliare, montare la guardia alle frontiere del nuovo secolo.

Note: p. 180 e segg.

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3.2. La città sospesa nel tempo (di Jean-Louis Comolli)

Quando per realizzare il film, Naissance d’un hópital, mi so­ no ispirato al suo diario dei lavori, l’architetto che ha idea­ to l’ospedale Robert Debré a Parigi, Pierre Riboulet, stava ormai lavorando ad altri progetti. Quanto all’ospedale, era già stato ultimato da due anni. Se il cinema, e a maggior ra­ gione il cinema documentario, filma sempre al presente, in quel caso mi sono trovato a filmare qualcosa che non c era più: il lavoro dell’architetto, il processo creativo in fieri con i suoi dubbi, le sue difficoltà e le incertezze di un con­ corso. Filmare il passato, al presente. Così ho proposto a Pierre Riboulet di rimettersi al tecnigrafo per rifare, inte­ gralmente o quasi, schizzi e tavole, rivivendo per il film le ansie e le emozioni che aveva provato nei mesi in cui, da so­ lo, aveva lavorato sul progetto di un ospedale pediatrico in una periferia urbana nei pressi della tangenziale di Parigi. Questione di tempi: l’ospedale c’era, ma non sarebbe più dovuto esserci. Credo che non sia mai facile riprendere un edificio che c’è: spesso l’architettura edificata impone al cinema una prospettiva da cartolina. Forse per avvicinarsi agli edifici, alle piazze o alle strade con una macchina da presa, è opportuno ricorrere a qualche espediente: magari la finzione delle scene preparate in studio o, come nel mio caso, un viaggio a ritroso nel tempo per riportare al pre­ sente il foglio bianco e i primi tratti di matita, le linee scrit­ te sul diario e il plastico, le notti di veglia e i giorni di sogni, con tutte quelle riduzioni e anticipazioni che, a mio avviso, si adattano meglio al gioco del cinema, o al suo giocare con il tempo e lo spazio... Per un attimo immaginiamo un film che segua nel corso dei secoli, ma sempre al presente, i meandri della città 130

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che cresce, un film in grado di seguire il sovrapporsi degli strati urbani, di perdersi fra le mutevoli pieghe dei palin­ sesti delle città... Sfortunatamente il cinema è nato solo ie­ ri e le città non sono state lì ad aspettarlo per mettersi in mostra o per nascondersi. Ed è nato come arte urbana, mi­ sto di scienza, tecnica e desideri, come ibrido di esposi­ zioni industriali e spettacoli da boulevard. Le prime cine­ prese girano nei teatri o nelle sale, i primi studi nascono in città come Montreuil, Lione, New York... e, in cambio, le città fanno da sfondo ai primi film con i loro monumenti e le loro strade. Aver perso l’origine e il farsi delle città, in sintesi essere arrivato troppo tardi per avere la pretesa di assistere alla loro nascita, potrebbe essere un motivo suf­ ficiente perché il cinema si impegni a reinventare le città, a rappresentarle come mai nemmeno i loro stessi abitanti le hanno potute vedere. La città del cinema si discosta ne­ cessariamente dalla città reale. L’artificio del cinema sot­ tolinea l’esistenza artificiosa della città referenziale, pro­ lungandola e riproponendola come artifìcio amplificato.

Filmare le città? Ma cos’altro filmare se non il tempo? Il tempo urbano, quello più vicino al tempo cinematografico, poiché nelle città come nei film si mescolano tempo dei corpi e tempo delle macchine. Filmare una città significa filmare gesti o flussi che forse passano o forse no, che diventano o meno delle tracce. Come i passanti nelle foto di Atget, quei passanti di cui ri­ mane solo la traccia del passaggio. Passanti? Corpi o mac­ chine, uomini o animali? Proprio come accade nella ri­ presa cinematografica, su ogni fotogramma il passante, il corpo mobile, non è altro che una traccia, una luce vaga che si sfilaccia.

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La fìsica del cinema (corpi in movimento su cui si fermano spezzoni di sguardo, frammenti mobili animati nel tempo e nello spazio) è relativistica: spazio in divenire-tempo, tempo in divenire-esperienza, vale a dire anche sguardo. Più di qualsiasi altro labirinto, la città rimane schiva, non si con­ cede allo sguardo e rivela i suoi spazi solo inaspettatamente. Perché la città non è altro che tempo accumulato, un pro­ digioso accumulo di tempo. Tempo qui vuol dire esperienze, e ritorno su questa parola, esperienze di sguardi e sguardi sull’esperienza... Tutto questo tempo accumulato, stratifi­ cato, ricoperto da se stesso, non è sempre e comunque visi­ bile. La città del regista pertanto non può essere solo ciò che è visibile della città. Può addirittura darsi che questo scarto rispetto al visibile sia la giusta dimensione del cinema.

I fratelli Lumière hanno cominciato col riprendere quel che avevano a portata di mano: Lione, Parigi, La Ciotat. Città, frammenti di città. Ma torniamo a quel che vediamo nei primi film: degli operai all’uscita della fabbrica che si dirigono verso la macchina da presa che li sta riprendendo: bambini, operai, poliziotti o borghesi che attraversano l’Avenue de l’Opéra e il campo visivo, entrando e uscendo dall’inquadratura; dei viaggiatori che aspettano il treno alla stazione. Dei corpi filmati sullo sfondo urbano. La grande novità del cinema esordiente sta proprio nei corpi, di cui il cinema non smetterà più di occuparsi. I paesaggi e addirittura gli ambienti urbani (una strada, il binario di una stazione, una piazza) si presentano sempre con una vi­ sibilità che supera inevitabilmente l’inquadratura cinema­ tografica, mentre il corpo umano può essere ripreso per in­ tero o in parte, avvicinarsi o allontanarsi dai limiti dell’in­ quadratura, entrare nel campo o uscirne, fare esistere così gli istanti del suo apparire e scomparire, passare dal visi­ bile all’invisibile e lasciar credere allo spettatore, in virtù di 132

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questo, che al di fuori dell’inquadratura perdurino i mo­ vimenti o le azioni che prima ne facevano parte. In queste opere fondamentali della cinematografia la mobilità dei corpi (e a maggior ragione quella dei veicoli come auto, treni, omnibus, carri...) si contrappone alla fissità dell’in­ quadratura e gioca - amorevolmente - sia con i suoi limiti laterali che con la stupefacente profondità di campo rag­ giunta dall’obiettivo di quei primissimi tempi. In realtà si affrontano o si mescolano momenti e durate: i luoghi rac­ chiudono ovviamente dei tempi, una storia, un’epoca, un ritmo (le operaie escono in fretta dalla fabbrica), ma i cor­ pi contrappongono all’ordine storico, temporale e ritmico dei luoghi urbani un’altra temporalità, quella dei desideri e dei bisogni, delle pulsioni e delle passioni, una motricità che fa variare velocità e durata come delle intensità legate alla diversità dei corpi e al disordine delle loro traiettorie. Filmati dalla macchina da presa, i corpi che passano nella città diventano corpi che passano nell’inquadratura, ovve­ rosia delle durate, dei tempi di esposizione. La misura della città del cinema è quella del tempo necessario a chi la percorre (uomini o animali, corpi o macchine) per riem­ pire o svuotare l’inquadratura, per animarla e giocare con essa. Una scrittura temporale dello spazio. Diffido di ciò che si offre alla vista, credo che filmare vo­ glia dire stabilire una relazione fra ciò che si vede e ciò che non si vede. Lo sguardo presupposto e indotto dal cinema è uno sguardo che è sempre racchiuso nell’inquadratura, vale a dire privato di una parte del visibile e obbligato a non vedere tutto. La storia dell’occhio-cinepresa è una storia di frustrazione. L’onnipotenza dell’organo della vi­ sione, la preponderanza della pulsione scopica sono con­ tinuamente smentite e combattute ed cinema dal gioco fra inquadratura e pressione del fuori campo. Da questa ri­ 133

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serva che consiste nel sottrarre spazio per aggiungere tem­ po, credo nasca l’affinità del cinema con la città. Le città amate dal cinema sono filmate come enigmi. Ci sono senza esserci, si nascondono mettendosi in mostra, sfuggono condensandosi nei corpi che le incarnano, scomparendo in essi. Se il cinema ci appassiona è perché ci spinge a dubi­ tare di quel che vediamo, perché ammanta le evidenze sensibili e le certezze ideologiche di un dubbio che è più reale di quanto esse siano. Una volta filmato, il visibile accoglie tutte le incertezze dell’invisibile. E proprio questa la parte oscura della città colta dal cinema, la parte inaf­ ferrabile, sfuggente, opaca pur nelle sue sembianze più luminose, quell’errare che riunisce e allontana e che espri­ mono così bene le inquadrature fisse dei primi film. Il mio film è su un architetto, non su un edifìcio: allo stes­ so modo ho filmato i marsigliesi e le marsigliesi, non Mar­ siglia. La città che non c’è e che non ci appartiene. Quel che si può fare, che si fa girando un film, è produrne fram­ menti, apparizioni, fenomeni che sono innanzitutto rela­ zioni con quel particolare tipo di spettatore che è lo spet­ tatore del cinema, uno che non vuole solamente o in primo luogo uno spettacolo, che non si accontenta del visibile, che vuole sentire e commuoversi, sperimentare e non sem­ plicemente “visitare”. Fatalmente la più figurativa fra le arti (a questo serve la no­ ta impressione di realtà), il cinema privilegia ancora la fi­ gura, il corpo umano, di cui offre ai giorni d’oggi la rap­ presentazione più compiuta. La città disperde quei corpi che il cinema celebra.

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3.3. “Eyes wide open”: lo sguardo del cinema sulla città (di Giancarlo Paba) 1.

In alcune conferenze, oggi raccolte in un piccolo volume, Mallet-Stevens riflette ossessivamente sul rapporto tra ci­ nema e modernità. Oggi è forse giusto chiedersi: è ancora moderno il cinema? E forse bisognerà rispondere che il ci­ nema non è più moderno. E magari godere proprio della sua inattualità, e provare piacere nel vederlo dissolversi in un universo plurale di cinema-non-cinema, nella circola­ zione infinita di immagini in movimento su ogni genere di schermo. Per Mallet-Stevens la domanda aveva invece una risposta certa. Il cinema è l’emblema stesso della moder­ nità. Nel cinema tutto è moderno, e un posto importante vi recita l’architettura moderna. Mallet-Stevens dice pro­ prio che l’architettura moderna recita nel cinema: «L’architecture moderne ne sert pas settlement le décor cinématographique, mais marque son empreinte, elle déborde de son cadre; 1’architecture Joue»". 2.

Anche la scatola nella quale si svolge lo spettacolo cinema­ tografico - il cinema come edificio - deve essere una sca­ tola moderna. Ed è curioso il rapporto tra città e cinema­ tografo raccontato da Mallet-Stevens. Il teatro - inteso anch'esso come costruzione - sta nella città ed è un pezzo di città in senso pieno: monumento, luogo pubblico, grande macchina urbana. Il cinema, il locale cinematografico tra­ dizionale, è viceversa alla fine soltanto una scatola: «Au cinema pas de coulisses, des loges d’artistes, de machine­ ries, de dessus, de dessous, des magasins d’accessoires et de costumes...». Niente di tutto questo: il cinema è solo «un 135

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mur avec un rectangle peint en blanc et une petite boìte en fer dans la laquelle luit un are électrique». Non ricordo una definizione di cinema più bella ed essenziale di questa: un muro con un rettangolo dipinto di bianco. Ma questa piccola scatola che è il cinema, contiene una scatola più piccola, la cabina di proiezione, che contiene a sua volta la città e il mondo intero: «acteurs, decors, accessolres, costumes, foules, animaux, monuments, villes entières, et la campagne sous le soleil ou la pluie, et la mer vivan te, et les montagnes aux plus hauts sommets, et toutes les étoiles du elei. Un cinéma est un hangar noir Judicieusement disposò dans lequel est donné un spectacle nouveau».

3. Ha ancora un senso la parete bianca dentro ì’hangar nero della scatola-cinema collocata in un punto qualsiasi della città ? La scatola-cinema tradizionale si trasforma oggi rapi­ damente, riempiendosi di microscatole, e di micropubblici dentro le microscatole: le multisale sono appunto così. Ma il punto finale di questa trasformazione è molto più radicale. Nei paesi del nord Europa ed oggi anche in Italia si diffon­ dono quelli che in Francia si chiamano multiplexes. Si tratta ancora di cinematografi, si tratta ancora della forma moder­ na della scatola-cinema descritta da Mallet-Stevens ? I mul­ tiplexes francesi per esempio sono giganteschi accumuli di sa­ le, ma anche di tutte le altre cose legate al tempo libero, alla vita dei giovani e alle avventure della notte (dalle discoteche ai bowlings, dalle palestre ai negozi): 14 sale per più di quat­ tromila posti a sedere nella periferia di Metz, 15-16 sale a Labège (Toulouse), Pennes-Mirabeau (Marseille), Bordeaux, Montpellier, Parigi, per arrivare infine alle 23 sale da proie­ zione di Lomme nei dintorni di Lille per un totale incredibile - credo si tratti di un primato, almeno in Europa - di 7403 posti a sedere12. I cinema fuggono dalla città, e anche dalla 136

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periferia tradizionale, per cercare un terreno qualsiasi vicino a uno svincolo stradale sul quale costruire drive-in metropo­ litani che attirano, almeno in Francia, fino a due milioni l’anno di spettatori, o meglio di spettatori-consumatori. I multiplexes sono quindi tra i protagonisti della dissoluzione della metropoli nella città-diffusa, quella stessa città diffusa che molti film e molti video raccontano nelle loro storie o in­ chieste. I cinematografi contemporanei, anche loro, distrug­ gono e ricombinano le città che il cinema stesso racconta.

4. Dallo script di Metropolis ricavo questa immagine della città, riassunta in una sorta di poesia: «Gigantic pyramidal pistons moving slowly up and down. Wheels turning. Electrical insulators. Rods and gleamings shafts. Cams and winding gear. The slow-moving cogs of a great machine. The valve gear of a vast steam chest, moving slowly ton and fro. More cogs moving slowly. Cogs and wheels superimposed. Dissolve»13.

Come è oggi antica questa descrizione: la metropoli come grande organismo unitario e centrate, come congegno gi­ gantesco e tuttavia organico e compatto. Forse era già vec­ chia allora questa descrizione. Guardo per esempio le inci­ sioni in bianco e nero di Groteskfilm o Die Stadt disegnate da Frans Masereel all’incirca in quegli anni come una sorta di film-fumetto e mi sembrano una forma già più matura di rappresentazione della struttura e della complessità della metropoli moderna. Oppure rivedo i cinque minuti inizia­ li di Naked City, lo splendido film di Jules Dassin del 1948: l’organizzazione di una grande città riassunta, quasi didat­ ticamente, come fosse il capitolo sullo zoning funzionale e sociale tratto da un manuale di urbanistica. Oggi tuttavia anche queste rappresentazioni risultano superate di fronte alle forme più estreme di disseminazione urbana. E tuttavia 137

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interessante vedere come la dissoluzione della metropoli venga incoraggiata, tra gli altri potenti fattori di trasfor­ mazione, anche dalle modificazioni stesse dell’industria ci­ nematografica. In un libro recente14 Peter Hall analizza il rapporto tra industria cinematografica e città in due di­ versi capitoli. La prima volta è la creazione di Hollywood come Dream Factoiy che viene ricostruita: una storia trop­ po conosciuta per essere qui ricordata. La seconda volta Hall descrive gli effetti che la digitalizza­ zione dell’industria cinematografica ha sull’organizzazione produttiva e territoriale: «An entire new industry has suddenly developed in Ca­ lifornia: digital film production. At a conference in Los Angeles in November 1994, speakers reckoned that it was growing by 25-50 per cent per year. One good or bad reason was that it could replace people, breaking the union strangehold over staffing on the set, and sup­ planting the movie star by “virtual actors” with perso­ nalities and attitudes of their own. Significantly, the new industry seems to be clustering in Los Angeles, in an arc between the old Hollywood studios and the ocean, and also in the San Francisco Bay Area: both in Silicon Val­ ley - hence Siliwood - and in San Francisco».

Il cinema riproduce la città che produce nuovo cinema. La realtà della visione cinematografica non può essere tuttavia rinchiusa in questo percorso da Hollywood a Siliwood. Co­ me sempre il cinema è anche altrove, perché come sempre è dappertutto, come mostrano ancora una volta i film piccoli e grandi del Festival dei Popoli. Anche lo sguardo cinema­ tografico è plurale e disseminato; sguardo attivo e influente - “eyes wide open” - sulla vita della città e dei suoi abitanti.

Note: p. 180 e segg.

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4. LA MORTE AL CINEMA

4.1. L’ultimo spettacolo? (di Guido Fink) «Death is Just a big show in itself» (Samuel Lionel Rothapfel15)

Forse non è proprio vero che la morte sia il più grande spettacolo del mondo, ma è indubbio che sia un ingre­ diente pressoché indispensabile dello spettacolo cinemato­ grafico, e fin dalle sue origini. Si parla, è chiaro, della mor­ te al cinema, e non nei cinema, com e drammaticamente ac­ caduto al parigino Bazar de la Charité nel 1897, causando un centinaio di vittime e un temporaneo arresto della pro­ duzione in vari paesi d’Europa. L’essenziale, in effetti, è che allo spettatore sia concessa una visione ravvicinata del fenomeno, e al tempo stesso una sorta di distanza di sicu­ rezza: e soprattutto che quel passaggio venga sperimentato da attori professionalmente tenuti a sostituirci sullo scher­ mo. Chi muore, chi è morto, è fatalmente altro per noi, anche se si tratta di una persona a noi vicina: a meno, na­ turalmente, che noi stessi non ci stiamo muovendo in una storia di fantasmi alla Poe o alla Lovecraft, o che non ve­ niamo disturbati, evocati, e costretti a rispondere a do­ mande magari irrilevanti durante una seduta spiritica. 139

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La distanza di sicurezza è spesso, inserita e preventivata nel film, una cornice. Pensiamo a Lil Dagover, che cerca eroi­ camente di strappare l’amato alla Morte (per sua fortuna già stanca del millenario lavoro, ed eravamo appena nel secondo o terzo decennio della storia del cinema) nel clas­ sico di Fritz Lang Der Made Tod (Destino, 1921). Non ci riuscirà in nessuna delle tre occasioni fornitele dalle “tre lu­ ci” nelle quali si suddivide e si articola il film: non in Ara­ bia, non nella Venezia del Rinascimento, non nella Cina im­ periale. Ci riuscirà invece, in extremis, nel tempo e nel luo­ go a cui effettivamente appartiene: una «piccola città persa nel passato» secondo la didascalia, ma certamente meno re­ mota, meno diversa, rispetto allo hic et nunc dello spettato­ re debitamente, alla fin fine, rassicurato. Sarà già più diffì­ cile per il narratore - meglio, il narratario - di un film di un paio di decenni più tardo: l’architetto invitato in una casa di campagna da rimodernare, che si sente oppresso e tur­ bato da un senso di déja vu, e che per giunta si sente rac­ contare da altri cinque invitati altrettante esperienze mi­ steriose, inspiegabili e alquanto terrificanti (la quarta storia provvede una specie di comic relief, ma riguarda pur sem­ pre un’andata e un - diffìcile - ritorno dall’altro mondo). Il film, come si sarà capito, è Dead of Night (Cavalcanti et al., 1945): nella cornice, a ben vedere, non accade nulla di ve­ ramente fatale o drammatico (il “George” destinato a mo­ rire nel sogno ricorrente dell’architetto è solo un vecchio macchinario, generatore di energia elettrica), ma il fatto che il povero architetto non riesca a uscire dal suo incubo o meglio, ne esca ma la mattina dopo ricominci da capo, come nelle proiezioni di un cinematografo a ingresso con­ tinuato - esclude di fatto un lieto fine come quello conces­ so a Lil Dagover, o anche solo la possibilità di tenere sepa­ rate le vicende di morte e di orrore dalla cornice di (appa­ rente?) sicurezza. 140

Se ora accostiamo al rispettabilissimo film di Lang e al meraviglioso Dead of Night un film recente e mediocre come The Flatliners (Linea mortale, dell’altrove apprezza­ bile Joel Schumacher, 1990) non è certo per sostenere che il cinema è in decadenza e che non ci sappiamo più fare come una volta. Può darsi che sia vero, ma non è quel che ci preme di sottolineare. Il film di Schumacher, re­ centemente riproposto da Telemontecarlo, mette in scena un gruppo di studenti di medicina intenzionati a varcare la soglia che divide la vita dalla morte, e di percorrere il buio tunnel - rischiarato peraltro da una confortante luce sul fondo - di cui parlano tutti coloro che hanno superato un periodo più o meno lungo di morte apparente: gli espe­ rimenti avranno luogo, con intervalli sempre più pericolo­ samente lunghi di soggiorno nell’al di là, e le conseguenze saranno angosciose o meglio lo sarebbero se lo spettatore riuscisse a provare il benché minimo interesse per i prota­ gonisti del film. La differenza che comunque ci preme sottolineare, rispetto ai due film precedentemente citati, è la progressiva erosione della cornice e la maggiore facilità (relativa, s’intende) di traversare la soglia che ci separa dall’ultimo spettacolo. Negli anni Venti - e ancora negli anni Quaranta - lo spettatore o spettatrice che fosse do­ veva entrare nella sala buia e sedersi fra compagni scono­ sciuti e invisibili, dopo aver versato un simbolico obolo e sollevato pesanti tendaggi per farsi traghettare fra le om­ bre: oggi, com’è ben noto, possiamo gratificare il nostro eventuale sadismo e/o masochismo sperimentando vicariamente l’esperienza di morire, o quella di uccidere, con la semplice avvertenza di infilare una videocassetta nel te­ levisore di casa e di guardarci un qualsiasi film horror o uno snuff movie (se dobbiamo tenere presenti anche il buon gusto e la cinefilia potremo sempre utilizzare Nick’s Movie, o Sussurri e grida, o l’immortale Peeping Tom). 141

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Quale cornice, quale distanza di sicurezza, se il Jonathan Crary di Techniques of the Observer (1990), e altri, ci ri­ cordano che grazie alla grafica computerizzata, ai simula­ tori di volo, agli ologrammi, alle immagini virtuali, e so­ prattutto all’interattività, l’atteggiamento del lettore/spettatore è destinato a cambiare radicalmente? e che anzi, forse senza che ce ne siamo accorti, è già cambiato? Che il cinema, mentre ci permetteva di duplicare e di pro­ lungare la vita, ci stesse in verità avvicinando al tempo stesso all’esperienza della morte, è d’altra parte un feno­ meno che è stato immediatamente colto fin dalle origini: fin da quando, aggiungendo una dimensione in più, e for­ se più d’una, alla nostra esistenza quotidiana, la nuova in­ venzione ci offriva una serie di doppi e di simulacri. Pro­ babilmente - lo hanno detto in molti - i primi spettatori che al Salon Indien gridavano di paura di fronte alla loco­ motiva in arrivo alla stazione di La Ciotat non temevano veramente di essere travolti da un treno vero: avevano confusamente capito che quello non era un treno, ma per così dire il suo spettro; e che il treno non c era ma c era stato, in un altro tempo e in un altro luogo. E lo scrittore russo Maksim Gorkji, assistendo a delle riprese dei Lu­ mière l’anno dopo a Novgorod rimaneva turbato dallo «strano silenzio» e dal «grigiore lattiginoso» di una scena in cui Auguste giocava a carte con un amico: «si direbbe che questi giocatori sono morti, e che le loro ombre sono state condannate a giocare per l’eternità...». Pensando anche agli escamotages di un Méliès o al revolver puntato contro lo spettatore da Porter, è facile immagina­ re come Pirandello arrivasse a pensare (e non era il primo, come in queste stesse pagine dimostra Luca Mazzei) a un cinema non solo mortuario ma addirittura assassino; o co­ me Gozzano, pur interessandosi al cinema, intravedesse la 142

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famiglia di un moderno Laocoonte stritolata nelle spire del “nastro fotogrammatico”. Teorizzato, e al tempo stesso riscattato da Bazin (per cui l’oscenità ontologica della «morte ogni pomeriggio» e la «suprema perversione cine­ matografica di una esecuzione a rovescio» non escludeva­ no la magica capacità di conservare volti e corpi del pas­ sato, come le mummie egizie: «mi si capirà se dico che la ripresa di una rappresentazione del Malato immaginario non ha alcun valore... ma che se la macchina da presa avesse assistito all’ultima recita di Molière avremmo un film prodigioso...»), lo stretto rapporto, o la parentela, fra il cinema e la morte ritorna di tanto in tanto a preoc­ cuparci. Di “morte del cinema” si è parlato molte volte: al­ l’avvento del sonoro, all’avvento della televisione, e all’av­ vento del Sessantotto, quando Gérard Lenne, in un li­ bretto oggi illeggibile intitolato appunto La mort du cinéma, inveiva contro la mystification de l’art ed esaltava i fu­ rori iconoclastici di Jean-Luc Godard, che del resto non intendeva affatto distruggere il cinema in toto, e comunque non il suo: caso mai solo quello degli altri. Ma che il cine­ ma avesse anche la possibilità di dare la vita a chi non c e­ ra, o non c’era più, o non c’era mai stato, doveva essere sentito, magari in modo implicito, anche mentre si cercava di esorcizzarne, o di stigmatizzarne, la pericolosa somi­ glianza con l’altra parte, quella al di là della soglia o del confine da cui, a dirla con Amleto (che pure aveva qualche prova in contrario) nessun viaggiatore solitamente ritorna. Una significativa conferma - a un tempo letteraria e cine­ matografica - la si trova già all’epoca del citato Der Miìde Tod. E un racconto di Blasco Ibanez16, l’autore de I quattro cavalieri dell’Apocalisse e di Sangue e arena, che si intitola La vecchia del cinema (1924), e che giustamente Renzo Renzi ha incluso in un libro da lui curato e dedicato alla ri­ 143

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levanza del cinematografo, “arma nuova”, durante la prima guerra mondiale. E la storia di una povera ortolana di Pa­ rigi che rivede fra le comparse di un film l’adorato nipote Albert, caduto in battaglia, e sfidando l’incredulità di pa­ renti e conoscenti («è vero che l’hanno ucciso, ma ora la­ vora nel cinema...») ritorna a vederlo, e a parlargli dalla platea, fino a che in quel locale si cambia spettacolo. «Me 1’hanno ucciso una seconda volta», si lamenterà la donna: ma per qualche settimana ci saranno ancora, lontane e dif­ ficili da raggiungere, le seconde e terze visioni in periferia. Il cinema uccide, il cinema ridà la vita, la proroga, riesce a differirne la conclusione o a ritornare al passato grazie al flashback: questa doppia valenza, apparentemente con­ traddittoria, rimane operante ancora oggi. Se sfogliamo una delle antologie di racconti dell’orrore pubblicati da un editore un tempo austero come Einaudi nella sua nuova serie giovanilistica votata ai cannibali e al pulp (Lo schermo dell’incubo, 1998), incontriamo, a conferma di quanto ac­ cennato, un racconto sorprendentemente soft di Robert Bloch, l’autore di Psycho, in cui una Provvidenza miseri­ cordiosa e cinefila consente a generici e comparse di Hol­ lywood, vissuti e poi morti nel più assoluto anonimato e in decorosa povertà, di infilarsi, anziché in mistici cieli para­ disiaci invisibili agli umani, in qualche copia appositamen­ te restaurata di The Covered Wagon o di Intolerance, e di poter salutare eventuali fans dall’angolo dello schermo in cui brevemente riappaiono, appagati e sorridenti. La maggior parte dei racconti raccolti da David J. Schow in Lo schermo dell’incubo va, com’è logico, nella direzione opposta, e gronda sangue e orrori a buon mercato: Clive Barker, a esempio, propone una specie di cancro animato che uscendo dal ventre di un gangster ferito e rifugiatosi per morire nel gabinetto di un cinematografo assume via via le forme di John Wayne, di Marilyn, e persino del di144

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sneyano Dumbo per attirare, fare a pezzi e/o divorare i malcapitati spettatori capitati in quella toilette. Cinema cancerogeno: una nuova categoria estetica, che fa a pari con il “film assassino” inventato in un altro racconto della serie, ma non senza una divertente vena parodica, da Ste­ ven Boyett (vi si parla dell’opera “maledetta” di tale Luis Bienvido, proibita in tutti i paesi, e divenuta di “culto” fra cinefili e studenti di cinema di tutto il mondo: i film di Bienvido sono pochissimi, ma è tradizione non solo che durante le riprese muoia qualcuno nel cast, ma anche che dopo ogni proiezione si trovi almeno una vittima in pla­ tea). Al di là di questi e altri giochetti del genere, è indub­ bio che la doppia valenza alla quale si accennava -verso la morte e verso la sopravvivenza, sia pure fantomatica - ab­ bia proceduto di pari passo dai tempi di Blasco Ibanez a quelli dei nipotini di Midi-Minuit Fantastique e dei cultori del new new horror. Non è quello che ci insegnano anche i classici? Pensiamo a Hitchcock, maestro nel far “vivere” sullo schermo, anche senza farceli mai vedere, personaggi già morti (come Rebecca nel film omonimo) o mai vissuti (come George Kaplan in Intrigo Intemazionale) : che cos’è La donna che visse due volte se non la storia di una doppia mise à mort, prima di Madeleine e poi di Judy, e al tempo stesso il disperato tentativo di far rivivere chi al tempo stesso stiamo uccidendo? Che altro è Psycho, se non la combinazione impossibile e contraddittoria fra la necessità di uccidere e quella di far continuare a vivere il cadavere della Madre? Ma potremmo pensare anche al cinema di Billy Wilder, che attira il disgraziato Joe Gillis di William Holden in una casa-mausoleo abitata dai fantasmi di un ci­ nema morto e putrefatto (Norma Desmond/Swanson e Max von Mayerling/Stroheim) e ci fa sapere fin dall’inizio che ormai è diventato un fantasma anche lui, una voce di­ sincarnata che parla dal fondo di una piscina: non a caso 145

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sarà sempre lui, Wilder, a non saper resistere all’idea della morte dell’ultima diva, a tentarne una resurrezione grazie alla chirurgia e al Doppio, nel tentativo antistorico e im­ possibile di Fedora (1978). A ben vedere, lo stesso Gree­ naway non si comporta, da questo punto di vista, molto di­ versamente: se l’elaborata scansione di una “messa a mor­ te” nei Misteri del giardino di Compton House (1982) di­ venta maniacale attenzione al lento disfarsi e putrefarsi della carne nello Zoo di Venere, i corpi vivi o morti che sia­ no possono ancora servire, a fine di catalogazione (Les morts de la Seine, 1989), di postumo culto (The Baby of Macon, 1993) o almeno di spazio disponibile per esercizi di scrittura (/ racconti del cuscino, 1995).

Forse, al di là di quel pericoloso assottigliarsi della soglia che un tempo separava il nostro ruolo di guardanti da quello dello spettacolo, i risultati più suggestivi e inquie­ tanti sono stati raggiunti da quegli autori che, come ap­ punto Hitchcock o Wilder, hanno lavorato molto sul lento scivolare verso la soglia stessa, da parte dei protagonisti (non importa se destinati a varcarla o a venire salvati in tempo) e necessariamente, seppure indirettamente, anche da parte di chi come noi si limitava a guardare. Ma non sa­ prei dire se la nostra partecipazione, benevolmente ansio­ sa e preoccupata o assetata di sangue come quella degli spettatori del Colosseo di fronte ai gladiatori e ai cristiani, sia interamente controllata e guidata dall’autore del film, né più né meno di quella degli interpreti, o dipenda entro una certa misura dalla nostra formazione o disposizione del momento. Il test più probante potrebbe essere, a mio avviso, il cinema di Val Lewton: dove com’è noto l’orrore non è mai o quasi mai visibile, eppure si respira in ogni momento della vicenda (che è sempre ellittica, economica, allusiva). Penso in particolare a La settima vittima (1943), 146

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dove apparentemente dovremmo essere vicini alla prota­ gonista, una ragazza ingenua e indifesa che cerca (invano) di salvare la sorella caduta vittima di una setta di adorato­ ri di Satana e da loro condannata al suicidio. Ma se fin dal­ l’inizio scopriamo nella stanza chiusa di una pensioncina newyorkese un cappio e una sedia pronti per essere usati da un candidato all’impiccagione, e fino al termine del film nessuno se ne serve, quale può essere la nostra reazio­ ne? Non ci renderemo colpevoli di un’impazienza vicina alla complicità con il Male? Nell’unica scena in cui assi­ stiamo a una vera e propria riunione segreta dei satanisti, la condannata ha davanti a sé un bicchiere di veleno, che rifiuta di bere: a un certo punto, esasperata, è la sua sola vera amica, la più affezionata fra i presenti, che la implora di farla finita e di avvelenarsi (salvo poi buttare a terra il bicchiere). E quando finalmente, dietro la porta chiusa, un rumore fuori scena ci avverte che cappio e sedia sono sta­ ti usati, quel che vediamo è un personaggio apparente­ mente marginale, una ragazza tisica che vive nella stessa pensione, e che stanca di aspettare la morte ha deciso di correrle incontro, fuggendo via nella notte presumibilmen­ te tempestosa o almeno buia e nebbiosa com’è sempre il paesaggio di Lewton (e di Nicholas Musuraca), mentre fuori campo risentiamo dei versi allusivi di John Donne, che abbiamo visto nei credits, e che parlano di una corsa verso la Morte, di un incontro imminente, di gioie e pia­ ceri destinati a svanire come tutti i nostri ieri. E la legge dello Spettacolo, che deve sempre illuderci di essere l’Ultimo - salvo poi, in ultima istanza, regalarci un provvisorio differimento.

Note: p. 180 e segg. 147

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Riferimenti bibliografici:

Bazin André 1958-62 Qu’est-ce que le cinéma?, Paris, Ed. du Cerf; trad. it. Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 1973, nuov. ed. 1986. Crary Jonathan 1990 Techniques of the Observer: On Vision and Modernity in the Ni­ neteenth Century, Cambridge (Mass.) - Londra, MIT Press. Lenne Gérard 1971 La mort du cinéma: fìlm/révolution, Paris, Ed. du Cerf. Renzi Renzo (ed.) 1993 II cinema al campo: Tarma nuova nel primo conflitto mondiale, Ancona, Transeuropa. Schow David J. 1998 Lo schermo delTincubo, Torino, Einaudi, 1998. Virilio, Paul 1991 Guerre et cinéma. Logistique de la perception, Paris, Ed. Cahiers du cinéma; trad. it. Guerra e cinema. Logistica della percezione, To­ rino, Lindau, 1996.

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4.2. L’assente da ogni specchio17 (di Jean-Louis Comolli)

Il cinema contro la morte? Non è forse all’origine dell’in­ venzione del cinema, il confutare la decomposizione dei corpi e la loro scomparsa? Perché nel momento in cui la fi­ losofia annuncia “la morte di Dio” e constata così la sosti­ tuzione di una storicità (tutte le rinascite di ciò che è vivo) ad una eternità (la resurrezione dei morti), nasce la possi­ bilità meccanica di perpetuare il corpo in vita: colta una volta per tutte dalla macchina da presa, l’immagine di questo corpo diventa riproducibile un infinito numero di volte nello spazio e nel tempo. O meglio: a questa “morte di Dio” corrisponde l’avvento e subito dopo il trionfo del­ la Macchina. L’operaio dell’inizio del ventesimo secolo sa certamente che le macchine possono conoscere, come lui, l’usura, l’invecchiamento, l’obsolescenza, ma anche che sono capaci di varcare - promessa o minaccia - i limiti del­ la propria vita, postulando se non un’eternità almeno una longevità che non è quella della vita umana (Metropolis). La messa a punto della macchina da presa/proiettore (quella dei fratelli Lumière) esaspera ancora più il sorpas­ so del prodotto fabbricato rispetto al mezzo di produzio­ ne: non solo la macchina dura e non subisce alterazioni ma il negativo impressionato fornisce decine di copie e so­ prattutto ognuna di esse conserva (quasi) intatto il potere di dare alla luce la vita che la luce ha inscritto in essa. Meglio delle bende delle mummie egiziane [Bazin 195862, trad. it. 3-116], più dei ritratti dipinti di quelle del Fayoum [Bailly 1997], meglio delle statue immortali e me­ glio ancora dei manichini e degli automi che gli sono suc­ ceduti, il nastro di celluloide chiamato “film” raccoglierà l’immemore sfida di opporsi alla morte nella misura in 149

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cui, per la prima volta, al sogno di perpetuare il corpo vi­ vente nella sua unicità, darà forma alla riproduzione: non si tratta di assicurare al defunto un’altra “vita dopo la morte” né di fissare i suoi tratti o il suo corpo con balsami, pigmenti o pietre scelte per durare, né di infondere il mo­ vimento ad uno scheletro di legno o di metallo, è al con­ trario la riproduzione aH’infìnito della straordinaria unicità del corpo vivente. Resistendo al tempo l’immagine fab­ bricata meccanicamente e riprodotta si interpone tra corpo vivente e corpo morto, fa da schermo tra la vita e la morte, aggiunge alla vita, se così si può dire, un nuovo strato sot­ tile di vita, e sostituisce continuamente alla morte vera la vita rappresentata. L’immagine tiene la morte in sospeso. Quel vecchio desiderio di mettere fine alla fine di ogni vita, il cinema lo realizza non più neH’immaginario ma realmente, rendendo immortali i corpi filmati fin dal mo­ mento in cui la loro traccia luminosa è impressa su questo nastro che è là non solo per imbalsamarli o salvarli, ma per impedire letteralmente di portare a compimento l’opera della morte. L’invenzione del cinema appare, fin dalle origini, come un canovaccio fantasmatico oltre che tecnologico, ordito nei secoli, che rifiuta in ultima analisi l’ipotesi della morte nell’atto stesso di rappresentarla: Destino, Il Golem, Frankestein, Faust (per esempio) hanno in comune l’utopia della vittoria sulla morte. Macchina da presa e film fun­ zionano come feticci realizzando l’antico e umano rifiuto della morte. Rivalità delle due potenze, quella della morte, quella del cinema, ma in primo luogo loro vicinanza. Tut­ to ciò che accompagna il passaggio della morte è sacraliz­ zato: riti, cure, oggetti, gesti, vestiti, parole, musica, im­ magini... E più precisamente la ripresa di una scena di un film ricorda alcuni aspetti di un funerale (almeno come è conosciuto nel mondo occidentale): il silenzio, la posizione 150

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dei tecnici, la gravità e un certa solennità. Fin nei registri più comuni, al momento della ripresa resta appiccicato, mi sembra, qualcosa di sacro, operazione sempre un po’ ma­ gica, intensa, epifanica, che fa ancora riferimento a un atto cerimoniale, a un gesto religioso come l’eucarestia... Subi­ to sacralizzata la macchina cinematografica fabbrica il sa­ cro: condensando in alcuni fotogrammi il passaggio dalla vita alla morte - e viceversa - riporta quest’idea o piuttosto questo sentimento del sacro in ogni scena filmata anche con il più banale dei soggetti. Il fatto di essere così vicino alla morte porterebbe il cine­ ma a affrontare la rappresentazione della morte solo indi­ rettamente, con l’aiuto dell’artifìcio e del trucco, tramite la finzione. Durante tutta la storia del cinema sono state fil­ mate migliaia di morti, dolci o violente, inflitte o subite, ma tutte, tranne alcune eccezioni, morti fittizie. Mi affret­ to a sottolineare che solo al cinema (un po’ al teatro) la morte passa dalla parte della finzione. Nelle grandi auto­ rappresentazioni che le società occidentali fanno circolare con le loro televisioni - essenzialmente scene di guerra - le morti sono sempre reali anche quando sono filmate. Sono reali ma ci si può chiedere se lo siano “abbastanza” o se non lo siano “troppo”: in breve, se, filmate nel grande spettacolo delle guerre tecnologiche o delle superprodu­ zioni umanitarie, queste morti “reali” suppongano o sol­ lecitino, per quanto poco sia, il nostro crederci, se diven­ tino per noi dei racconti, se ci coinvolgano con i nostri sentimenti portandoci oltre, verso qualcosa che per noi abbia un senso? Tornerò su questo punto. Diciamo per il momento che la forma più diffusa di morte filmata è quel­ la della pura fiction. E non è un caso ma una specie di ne­ cessità logica: ogni fiction si riconduce in ultima istanza al­ la simulazione della morte. La prima e l’ultima finzione si riassumono in quattro parole: il morto si rialza. E dal mo­ 151

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mento che i morti non si rialzano da soli, si impongono l’artificio e la simulazione. Il personaggio muore, l’attore si rialza e vive. La prima ripresa non è l’ultima. La morte filmata non può e non deve essere una morte vera e propria. Al cinema, la morte è solo un momento di chi resta vivo. Non sarebbe solo l’effetto di un imperativo morale categorico. Sarebbe prima di tutto una legge dello spettacolo umano. Ogni spettatore, ed è particolarmente vero per lo spettatore cinematografico, tiene alla propria di­ gnità d’uomo. Solo la logica neonazista messa in opera ne­ gli snuff movies1* - disprezzo totale della vita e paura di tut­ to ciò che è vivente, cioè nobile, odio dell’altro - può deci­ dere, per filmarli, di provocare la morte di coloro che si ri­ prende. Qui c’è non solo qualcosa di atroce e di rivoltante, ma qualcosa di impossibile. Semplicemente perché io, in quanto spettatore, non voglio essere lo spettatore - cioè an­ che il complice e il mandante - di un crimine con una morte vera. La morte reale mette dunque fine alla dimen­ sione ludica che costituisce ogni forma di spettacolo (ri­ cordiamoci del disagio provocato da Caccia fatale'9, quando lo spettatore capisce che sono gli invitati, gli spettatori, a di­ ventare le vittime). Come spettatore non posso desiderare né volere, né accettare20 che la morte reale sostituisca la morte simulata, perché questo significherebbe decretare la fine di ogni possibilità di spettacolo. La consapevolezza («so bene... ma tuttavia») dello spettatore cinematografico arriva qui al suo parossismo: voglio credere e voglio com­ muovermi nel credere che il personaggio muore, hic et nunc, nel tempo della proiezione e sullo schermo che io condivido con lui, ma so nello stesso tempo che l’attore che interpreta il morto non è morto, e che ritornerà. Il gioco è in quest’istanza di reversibilità della morte. E a questo prezzo - di gioco con la vita e la morte - che posso essere emozionato dalla rappresentazione della morte. Ed è pro­ 152

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prio per questa stessa ragione - so che l’attore è vivo che credo al resto del mondo, cioè al persistere del gioco: so che il personaggio morto oggi ritornerà domani alla stes­ sa ora a vivere sullo schermo e poi di nuovo a morire. Le tecniche di riproduzione meccanica sfruttate (e esaltate) dal cinema incontrano stranamente le logiche del mondo del gioco, come per esempio la ripetizione e la reversibilità (d’altronde non c’è l’una senza l’altra). La morte viene filmata ma non c’è, ci sono solo gli effetti vi­ sibili o invisibili della morte, la sua entrata in scena, la sua scenografia (come nell’Opera: la scena della morte). E per questa ragione fondamentale - che per lo spettatore si trat­ ta non della fine della vita ma della fine reversibile della re­ cita -, che la morte reale, quando capita che sia filmata (reportages di guerra, immagini di esecuzioni capitali, inci­ denti ecc.) resta poco accettabile e poco verosimile. Fil­ mata, la morte reale sconfina nell’irrealtà senza soddisfare il desiderio dello spettatore, come se, per una specie di al­ lontanamento, si trattasse per lui di cancellare la morte nel momento in cui viene registrata. Si ha un «questo non è possibile!» che significa: «questo non è possibile come spettacolo». Con questo rifiuto, la finzione torna a inqui­ nare le morti reali filmate, contrariandole e modificandole. Davanti alla manifestazione della morte sul teleschermo lo spettatore della televisione deve fare uno sforzo per con­ vincersi che queste morti presentate come spettacolo lo ri­ guardino o lo tocchino (cosa che non è affatto assodata) ; e solo in seguito che diventano “reali”, “vere”, dal momento che esse ci sono arrivate tramite quello schermo che è luo­ go della finzione, dell’illusione, della menzogna. Ci viene in mente il macabro trucco di Timisoara: i corpi morti non hanno più, per me spettatore, nessuna identità e non posso più sapere se sono “veri”, semplicemente perché con loro posso instaurare attraverso lo schermo solo un rapporto di 153

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sgomento e di repulsione: segni di una fascinazione che trova nel quadro visivo il luogo stesso dell’accecamento. Come la Medusa, la morte priva della vista colui che la guarda. Filmati e poi esposti al mio sguardo accecato, i ca­ daveri si equivalgono e soprattutto non si distinguono più gli uni dagli altri, come accadeva ai corpi viventi che gode­ vano della loro singolarità. I cadaveri reali - quelli che non si rialzano - per il cinema sono solo un impiccio: tra il cor­ po morto e il mezzo capace di materializzare il desiderio dello spettatore, gli affetti possono andare solo a senso unico. Si blocca la circolazione. Allo spettatore cinemato­ grafico21 (a meno che non sia “thanatofilo ”) si pone la do­ manda: che fare di questo corpo morto? La morte reale fil­ mata mi sorge davanti come un pezzo di reale e s’impone con la violenza e l’opacità del reale. Detto diversamente, più che la realtà della morte, è la morte che mi appare nel­ la sua realtà. Ora, accade che al cinema il reale è senza Storia, che c’è questa alea che spezza la scena e, imprevista, costringe la narrazione a adattarlesi. Così, per me spettato­ re, ogni morte reale filmata potrebbe (dovrebbe) essere il punto di arrivo o il punto di partenza di una storia: cosa impossibile nella maggior parte dei casi, salvo immaginan­ do che si “organizzi” una morte per filmarla (la barbarie dello snuff movie) ovvero che il cinema intervenga e sia presente molto prima di questa morte annunciata, filman­ done in qualche modo il processo di avvicinamento in una specie di complicità appassionata e compassionevole che è invece un’esaltazione del resoconto cinematografico (Nick s Movie per esempio). Ma la morte come viene filmata di so­ lito dai cameramen-giornalisti della televisione resta esente dal “prima” (e dal “dopo”). Dicevo che la morte al cinema è solo un momento di chi resta vivo. La fiction prende in considerazione il prima e il dopo. La morte di un perso­ naggio (anche secondario) non accade come un evento 154

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estraneo al racconto, ma lo forma e ci si appoggia. È l’inte­ ro percorso narrativo, che proviene dalla morte o vi ci con­ duce, che costituisce la materia cinematografica, e non la morte come evento staccato. Fiction oblige. Tant e vero che il cinema ha sempre preferito i colpi di scena al lento divenire, generalmente poco visibile. La morte visibile è la morte brutale - la violenza che si trasforma in spettacolo. Mentre la morte lenta, quella che generalmente ci coglie e ci annienta, resta poco filmabile, come se il cinema potesse interessarsi della morte solo parossisticamente. Accelerare la morte come processo. E rallentare la morte violenta per farne durare il godimento (è il registro coreografico dei film d’azione). Il rifiuto del cinema a prendere in conside­ razione il lavoro, qualsiasi lavoro, qualsiasi processo di ela­ borazione lungo e complesso è ciò che rende necessario il ricorso al racconto. Per non poter filmare la morte all’ope­ ra, si filma l’operazione che porta a reinserire la morte in un racconto. La vita che il cinema presta ai corpi filmati è già evidente­ mente un’altra vita: una vita cinematografica che dipende, per esistere, per ritornare viva, da un terzo - lo spettatore. Questa missione affidata allo spettatore - di fare rinascere, per mezzo dei suoi sensi, del suo sguardo, del suo deside­ rio, quello che la macchina meccanicamente infonde di un’ombra di vita - ci permette di capire che cosa si ferma quando viene filmata la morte vera. Noi come spettatori non esistiamo, non ci siamo. Questa morte filmata cancella il nostro desiderio vivo, il nostro desiderio di vivi. Che me ne faccio della morte filmata, io che voglio credere che il film annulli o, in ogni caso, che resista alla morte e le op­ ponga un’utopia epifanica in cui alla morte si può resistere? Il posto dello spettatore resta quello di uno sguardo vivo, di un ascolto vivo e di un coinvolgimento dei sensi che è una delle più potenti manifestazioni del vivente. 155

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Note: p. 180 e segg.

Riferimenti bibliografici: Bailly, Jean Christophe 1997 L’apostrophe muet, Hazan. Bazin André 1958-62 Qu’est-ce que le cinema?, Paris, Ed. du Cerf; trad. it. Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 1973, nuova ed. 1986.

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4.3. «Non fermate quella manovella!» (di Luca Mazzei) "Senza modelli": così lo storico del cinema e italianista Sergio Raffaelli [1993,13-30] definiva il Si gira... di Piran­ dello22. L'affermazione, seppur con le dovute correzioni, è indubitabile. Davvero per primo Pirandello impugnava la penna per scrivere con estensione e con gusto un racconto che dell'ambiente cinematografico avrebbe fatto il suo paesaggio e la sua sostanza23 e davvero, nonostante il ge­ nere fosse stato, di fatto, già fondato, con tale atto lo scrit­ tore girgentino gli dava lustro e, si può dire, quasi una moderna classicità. Sul senza modelli del linguista italiano però rischia di gravare anche un'altra, affatto più sugge­ stiva, ma certamente fuorviante, interpretazione: quella, spesso taciuta, a volte sottintesa, che vorrebbe che, senza alcun suggerimento e ben prima della sua drammatica ap­ parizione nel mondo reale, nel romanzo Pirandello avesse ideato, messo in scena e quindi condannato, oltre al mon­ do stesso del cinematografo, anche "la film" diabolica del­ la morte filmata24. È convinzione comune infatti - e l'insi­ stenza con cui molti critici datano il fenomeno all'insorgere della diretta televisiva o tutt'al più ai primissimi anni '70 lo attesta25 -, che l'idea di fissare su pellicola gli ultimi istanti del morente, massima estensibilità del visibile, sia da ritenersi (rimorso dell'uomo tecnologico?) un'invenzione e soprattutto un'ossessione appartenente in tota ai miasmi dell'età presente. La fantasia di Pirandello avrebbe in­ somma «non seguito ma "preceduto" la realtà» [Brunetta 1972] perchè violenza, sadismo, sessualità e pedofilia, non abiterebbero mai, se non per errore storico, nel cinema delle origini26. A dispetto di questo mito dell'età dell'oro, in cui "buoni selvaggi", liberi dalle pastoie di Rousseau e della filosofia della storia, scoccano le loro innocue frecce 157

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anche nel passato più che prossimo del visibile cinemato­ grafico, si può affermare invece che, non solo i succitati sconsiderati atti erano già da tempo frasario27 dei più im­ portanti soggetti del primo cinema, ma anche che, con si­ curezza e senza rimorsi, questo stesso cinema padroneg­ giava ormai da altrettanto tempo pure ogni sfumatura del mondo della morte, anche di quella filmata. Lo ricordano più di ogni altra fonte le riviste corporative, le uniche nel caso un po' singolare del cinema disperso delle origini, a testimoniare fatti e realtà di un mondo or­ mai svanito, spesso visivamente irrintracciabile. La prima attestazione è del 15 novembre 1908. La riporta la mila­ nese "Cinematografia Italiana28", a sua volta debitrice del­ la notizia alla francese Argus Phono-Cinéma. «Un'origina­ le di Trelon», si afferma a p. 178, si sarebbe ucciso di fronte alla macchina da presa «ed è cosa veramente atroce sotto ogni rapporto. Così la polizia ha sequestrata la pelli­ cola». Durissimo, il commento: «Dio boriino! che grazia sarebbe se certi Direttori artistici fossero così soppressi, non nella vita, ah no! (Dio non vuole la morte del pecca­ tore, ma che viva e si penta); ma nelle loro abominevoli produzioni29». Purtroppo, in buona grazia delle smanie giustizialiste dell'articolista milanese, questo suicidio non sarà che il primo di una lunga serie. Nel 30 luglio 1912, ad esempio la "Vita Cinematografica" pubblica la notizia che un giovane americano «ha scritto la lettera seguente a un Editore di films assai noto degli Stati Uniti:/Signori,/Ho deciso di suicidarmi. Mio padre e mia madre versando nella più completa miseria, sarei felice di poter soccorrer­ li e perciò vi propongo una film riproducente tutti i parti­ colari della mia morte./Una parte degli utili andrà a favo­ re degli autori dei miei giorni./Vi saluto in attesa di rispo­ sta30». Se il film, la cui casistica non è poi tanto dissimile 158

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dal recentissimo plot di The Brave di Johnny Depp31, non andrà in porto proprio per la sottintesa, ma ovvia, reni­ tenza dello stesso produttore, tanto attento alla legge e al­ la propria morale da fare della profferta un caso intema­ zionale, non va così per il ragazzo che il 22 settembre 1912 si getta, ombrello aperto nella mano, dalla Torre del­ la Vittoria di Berlino32. Una storia tanto assurda quanto tragica che la torinese "Cine-Fono e la Rivista Cinemato­ grafica" del 5 ottobre, riassume e commenta così: «scrivo­ no da Berlino che il 22 settembre u. s. è finito tragica­ mente un esperimento di discesa con un nuovo paracadu­ te costruito dal tappezziere Erik Bittner, esperimento fatto dalla più alta piattaforma della colonna della Vittoria./Non si sa con precisione se si sia trattato di un vero esperi­ mento o di un suicidio cinematografico./Il giovane tap­ pezziere si era messo d'accordo con una società di film per la rappresentazione di una caduta coll'ombrello, che avrebbe dovuto costituire la scena finale di un dramma ci­ nematografico; l'eroe di questo dramma finisce con un suicidio col paracadute. Ora il Bittner tentò già un paio di volte di suicidarsi; si suppone quindi che abbia scelto que­ sto modo spaventoso per uccidersi veramente./Il Bittner penetrò nella Torre della Vittoria, tenendosi l'ombrello bene aderente alla persona sotto il mantello, giacché il guardiano della Torre non avrebbe permesso l'uso di un monumento patriottico per un dubbio esperimento. Vice­ versa la polizia aveva lasciato fare; ciò che le procura at­ tacchi dai giornali. Col Bittner era salito un fabbro che ta­ gliò la rete metallica che avvolge la cima della colonna, per impedire i suicidi/Subito dopo, due fischi avvertirono la macchina cinematografica di tenersi pronta ed il Bittner si slanciava nel vuoto. L'ombrello non si aperse ed il gio­ vane precipitò sul sottobasamento su cui si eleva la co­ lonna sfracellandosi; si agitò per qualche istante, poi ri­ 159

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mase morto con la testa penzoloni, fuori del parapetto./Il cinematografo continuò a funzionare ritraendo il disgra­ ziato tentativo, mentre la folla si indignava. La polizia ha sequestrato la pellicola33». Nel 27 ottobre su il "Cinema Teatro", ecco poi un'altra notizia che, se rende i vari singoli casi più razionali, e quindi meno inquietanti, ne allarga il numero ad una cifra indefinita, affatto incontenibile: in America sarebbe in vo­ ga suicidarsi a pagamento per le case cinematografiche. Questo perchè le assicurazioni non accettano più il caso del suicidio. E, si commenta, «sembra incredibile, eppure l'offerta è stata da qualcuno accettata e con profitto34». Sarà stato un suicidio programmato anche l'assurda di­ sgrazia in cui muore, sempre ripreso da un apparecchio ci­ nematografico, il singolare sportman Kolawik, tuffatore ungherese dalle troppe ambizioni e dall'eccessivo entu­ siasmo? Il resoconto della sua tragica fine, riportato in Italia dalla famosa e già citata "Vita Cinematografica" in­ sospettisce: «Da Vienna informano che, giorni or sono, a Budapest un certo Kolawik, diciottenne, dopo essersi spo­ gliato, si arrampicò in mutandine da bagno su uno degli al­ tissimi pilastri, ai quali sta sospeso il ponte Francesco Giu­ seppe, sul Danubio. I passanti, attratti da quello strano spettacolo, si radunarono subito in folla sul posto, suppo­ nendo trattarsi di un pazzo che avesse in animo di gettarsi da quell'altezza nel Danubio, e mandarono a chiamare la polizia, i pompieri e la Società di salvataggio. In seguito si vide che lo spettacolo era stato inscenato da un tale che, munito di un apparecchio cinematografico, se ne stava pronto in disparte, in modo da poter ritrarre la scena. Il Kolawik dall'alto del pilastro continuava a gridare al pub­ blico di voler superare colla sua prodezza il valore degli ungheresi vincitori nelle gare olimpioniche di Stoccolma. Quindi, dopo essersi tinto di olio il corpo, trangugiò d'un 160

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fiato una bottiglia di cognac. Intanto i pompieri, i poliziotti e la società di salvataggio arrivarono sul posto con scale, con attrezzi e canotti di vario genere, per trascinare giù dal pilastro il Kolawik. Egli, però, assisteva ridendo dall'alto a quella scena. Quando vide che i pompieri stavano per rag­ giungerlo, gridò al possessore dell'apparecchio - pronti e spiccò un salto nel vuoto. Il disgraziato batté violente­ mente colla schiena nell'acqua e scomparve. Poco dopo fu pescato il suo cadavere da un canotto della Società di sal­ vataggio. La riproduzione cinematografica avrebbe dovu­ to avere per titolo: Lo sport a Budapest35». Certo molte delle scene di questa tragedia in un singolo at­ to e, forse per un solo freddissimo spettatore, ricordano da vicino il singolare caso del tappezziere berlinese. Inoltre il periodo è quello: la fine dell'estate del 1912... Invenzione giornalistica? Forse. Ma l'interesse dell'industria cinema­ tografica, e quindi del pubblico a cui questa si rivolgeva, alla morte, anzi all'atto del morire, ormai è certa. Anche perchè, fuori del caso - assai romantico - del suicidio, le attestazioni non si fermano qui. Già nel febbraio del 1911 ad esempio, la "Vita Cinemato­ grafica" segnalava come nei dintorni di Bonvoyage, nel va­ sto terreno usato dalla Pathé per "organizzare" scene ani­ mate da riprodursi nei cinematografi parigini, durante l'e­ secuzione di un film che prevedeva l'intervento di bestie fe­ roci, un domatore, tale Haumann, seppur «dotato di stiva­ loni in cuoio di solidità a tutta prova», fosse stato addenta­ to in ben tre punti dalle possenti zanne della tigre che egli stesso doveva controllare. Uno scherzo "cinematografico" che gli costerà l'amputazione della gamba36. Nel luglio del­ lo stesso anno poi, a New York, ecco un nuovo casus morti, per un azzardo, ahimè, stavolta davvero banale: l'attore, A. Brighton, che doveva rappresentare la parte di un pas­ sante «che si getta in acqua per salvare la vita di una leg­ 161

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giadra signorina», nel suo assicurarsi una sicura riuscita scegliendo, per il tuffo, un fondale abbastanza alto da sem­ brar veritiero ma sufficientemente basso da non risultar poi davvero troppo pericoloso, commette l'errore di non badare alla fangosità del lago in cui la scena deve svolgersi. Ficcatosi con la testa in un banco situato sotto il pelo del­ l'acqua, non riesce più a liberarsene. Intanto, nella dispe­ razione generale, fino alla morte, avvenuta, in minuti, poco dopo, ma in sforzi e in disperazione - immaginiamo - in un'eternità, «la macchina da presa girava infaticabilmente registrando tutti i tentativi di salvataggio37». Siamo solo nel 1911, ma, in questo anno, che, insieme alle prime avvisaglie di un conflitto che di lì a poco infiammerà il mondo, vede anche la timida comparsa del lungome­ traggio, la morte filmata è già una realtà a tutto campo. Tanto che fin da ora se ne possono intravedere, anche solo nei casi appena citati, i sottogeneri, due comi fenomeno­ logicamente distinti (e moralmente oberati da diversi capi d'accusa), cui il tempo poi, forse un po' artificiosamente, separerà la fortuna. Per vedere il primo torniamo, rimanendo nell'anno, al ca­ so del domatore attaccato del leone. Qua un ammaestra­ tore, anzi un impiegato del serraglio, come con più esat­ tezza precisa l'articolo, sorpassando il limite tra fortuna e disgrazia, cade in un incidente che in un mestiere come il suo sempre soggiace alle singole prestazioni professionali. «I testimoni di questa scena», fra cui supponiamo quindi anche l'operatore, gettano un grido di allarme, e gli inser­ vienti, che fanno parte del personale del cinematografo, «accorrono immediatamente armati con sbarre di ferro». Occorrono seri sforzi, ma subito, o comunque nel minor tempo possibile, il domatore è libero e, «collocato su di un'automobile della ditta», viene velocemente portato in ospedale «dove riceve le cure più premurose». A parte 162

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nomi, luoghi e altri particolari zoologici di scarsa impor­ tanza è lo stesso copione che, sappiamo, si ripeterà identi­ co nel settembre 1912 in Inghilterra38, nell'ottobre dello stesso anno a Berlino39, e a Los Angeles nell'aprile del 191440; lo stesso in fondo che segnerà ad anni di distanza la morte di Vic Morrow in Twilight Zone, o quella, per citare un esempio ancor più vicino, dello sfortunato "Corvo" Brandon Lee. Una morte bianca insomma, solo su di un posto di lavoro un po' insolito fatto apposta per stare sot­ to gli occhi di tutti. Tutto qui. Almeno in apparenza. Le morti infatti sono troppe e troppo ricorrenti per non dare adito ad ulteriori considerazioni. In particolare sorge il sospetto che, come in tutti i casi di morte sul lavoro, anche qua alla radice ci debba essere un difetto della macchina, un mancato si­ stema di sicurezza che, una volta smascherato, mostri in qualche modo l'interesse della ditta, dell'industria o del si­ stema produttivo stesso, a lasciare insoluto, quasi necessa­ rio corollario al funzionamento del mercato, tale margine di rischio. Identificarlo in fondo non è difficile: consisten­ te nella necessità di spingere il più possibile la vita dei personaggi della troupe al suo limite di resistenza, alla sua invertibilità finale, il margine "mantenuto" si svela ben presto come ciò che dà possibilità allo spettatore di vedere soggetto a tutti i casi del mondo reale il suo corpo imma­ ginario (ma mai soddisfatto) di personaggio in ombra; un corpo non necessariamente sovrapponibile con quello dei protagonisti del dramma; inconsciamente solo irraggiun­ gibile, in realtà solamente intangibile. D'altronde tale spa­ zio, ogni direttore artistico, regista o produttore lo sa, non può essere negato. Tante ricerche per nulla, quindi. La chiave del problema in fondo era già in The Big Swallow di James Williamson. Ricordate il film? Un incauto cameraman, reo solo di 163

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aver disturbato la privacy di un burbero passante veniva da questi affrontato fino, in un incredibile travelling*', a finirne ingoiato nell'enorme cannibalesca bocca spalan­ cata ad accoglierlo. Ma - e qui intervengono le nuove fonti -, se lo spettatore/cameramen di Big Swallow ha di­ ritto ad essere fagocitato da un pertinace (ma occasiona­ le) nemico della sua passione voyeuristica, ecco che ades­ so anche lo spettatore di un film di cacce, così come quello di un film d'avventura, ha diritto a pretendere che i suoi corpi/cameramen, siano colpiti, sorpresi, feriti o addirittura fagocitati nell'esercizio della loro funzio­ ne. La macchina da presa in fondo è lui, e, come il clien­ te, ha sempre ragione. Lo sorprendano pure dunque, lo feriscano, lo mangino: perchè questo (concentrandoci sulla sorte di attori e domatori ci eravamo dimenticati di dirlo) ai poveri operatori succede davvero. Ad essere fe­ rito non nella psiche, ma nella carne, ad esempio, nel 1920 durante la Prima Coppa delle Alpi, è lo stesso Luca Comerio, padre del documentario italiano, caduto dalla machina di Ascari42 mentre eseguiva difficili e azzardate riprese; a finire nelle fauci di un leone è, intorno al 5 febbraio 1914, il celebre operatore inglese Paolo Raney43. E quanti di loro, ricordano i giornali, chi per un rinoce­ ronte44 chi per la lava eruttata da un vulcano45, chi per le esuberanze di una fiera46, non sono andati a un passo da fare la stessa fine di questi eroi? Moltissimi, e tutti con una successiva ampia pubblicizzazione del pericolo scam­ pato. Il rischio infatti, necessario quanto calcolato, non solo è irrinunciabile, ma va anche sempre divulgato, par­ ticolarmente in quelle disgrazie cinematograficamente risolte in modo felice47, perché la presenza del pericolo,

ancorché spesso negativa nel caso singolo del film (che a causa proprio di questo rischio può anche arrivare ad 164

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"annullarsi" rimanendo allo stadio di progetto) è sempre positiva nel referente più ampio del Cinema in generale. Ma c'è di più, o forse di peggio; e lo dimostra in pieno, aprendo la via all'altro dei "sottogeneri', il secondo dei "casi" del 1911. C'è anche la possibilità che il cinema par­ tecipi della morte che si svolge davanti al suo obbiettivo trasformando la sfortuna (che è poi sempre, come abbia­ mo visto una sfortuna in qualche modo "preparata") in omicidio. In fondo basta poco: esimersi dallo scoraggiare il malcapitato, non preoccuparsi del pericolo imminente, omettere il soccorso continuando, professionalmente (troppo professionalmente! ) a girare la manovella; e pro­ prio in questo, in quel colpo di manovella in più, in quel­ l'impassibilità glaciale che trasforma il dilettante della mac­ china da presa in professionista, fiorisce già la pianta dello smiff. Sorprendere l'attore con il paventargli che la propria performance coinvolga la propria incolumità; far coinci­ dere il personaggio con il corpo reale dell'attore, e dare in pasto questo gioco di scambio ad uno spettatore, che - si­ curamente - nell'impossibilità di trasformare il proprio desiderio di esserci in fisicità, certo godrà per contrap­ passo nel vedere trasformato l'altrui desiderio di non es­ serci in orrore di fisicità che si concretizza: sadismo pro­ porzionalmente parallelo al grado di masochismo che si è in grado di sopportare, questa uguaglianza forzata a colpi di manovella, era già, in essenza, in altro, ad esempio in quel brevissimo e crudelissimo A Subject for the Rogues Gallery del 1904 in cui, impreziosito dalle smorfie di do­ lore di una protagonista/prostituta risoluta a non cedere la propria immagine, lo spettacolo è costituito proprio dal suo essere esposta con la violenza, mercé la forza di tre ri­ soluti figuranti, al pubblico e maschile lubidrio [Burch 1990]. E siamo solo alle origini del cinema48. Nessuna meraviglia quindi che nel 1911 tutto abbia rag­ 165

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giunto ormai una più sicura e quindi scenicamente com­ plessa maturità. Tanto più che il primo vero snuff, così co­ me lo conosciamo noi, con attori e attrici obbligati a mori­ re, in carne ed ossa, davanti alla macchina da presa e con il pubblico che subodora un surplus di realtà senza però ave­ re mai le prove della corrispondenza fra le scene rappre­ sentate ed un reale atto criminoso49, in qualche modo è già retrodatabile, al ben più lontano 1907. Ad introdurlo nel mondo delle visioni possibili, con un bellissimo, sadiano, fugace, ma per niente fantascientifico brano di prosa, è Guillame Apollinaire. Il racconto uscì su "Messidor", il 23 dicembre 19O750. Eccone il riassunto: il Barone d'Ormesan deciso a fare film cinematografiche mette insieme con altri suoi amici una casa di produzione, la Compagnia Cinematografica Intemazionale (CCI), società che realiz­ zerà realistiche pris de vue quali la nascita del Principe d'Albania, il risveglio del Presidente della Repubblica e, so­ prattutto, i preparativi e l'atto finale del suicidio del Gran Vizir Melack-Pacha, film che regalerà loro un grandissi­ mo successo. Poi, quasi insoddisfatti dall'insufficiente rea­ lismo di ciò che, da puri spettatori, hanno visto sino ad adesso nelle sale di proiezione, ecco il colpo di genio: rapi­ re una coppia di fidanzati e obbligare un passante, sotto minaccia di morte, ad ucciderli a colpi di pugnale davanti alla macchina da presa. Il film, realizzato in un battibaleno, naturalmente andrà benissimo; probabilmente, suggerisce Apollinaire, proprio per quel senso di realtà da tutti subliminalmente percepito, e dai cinematografisti addirittura sfrontatamente pubblicizzato, ma mai da nessuno (e so­ prattutto dalla polizia) efficacemente accertato51. Un racconto perfetto come il delitto che rappresenta, de­ gno delle migliori prove letterarie del suo autore. Ma dav­ vero la storia di Un Beau Film è solamente frutto della fan­ tasia di Apollinaire? Non sarà che questo De Sade in salsa 166

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d'appendice, più che l'estrapolazione fortunata di un cine­ filo appassionato in grado di capire, grazie alla sua genialità e alla sua ampia vita letteraria, i futuri sviluppi di un diver­ timento allora poco più che da Luna Park, rappresenta in realtà un ottimo esempio di previsione "guidata", in cui la scrittura - supportata da elementi attualmente ignoti, ma in quel tempo facilmente rintracciabili52-, raggiunge risultati eccelsi proprio perchè sufficientemente "provati" e reali­ stici? A rispondere stavolta - a meno che (e sarebbe un guaio!) ad avere avuto un loro nascosto esito non siano stati la conoscenza diretta o la voce leggera del sentito dire53 - , non possono essere altro che nuovi, necessari, ma so­ prattutto sistematici, spogli della stampa periodica france­ se (e non solo) precedente a quell'anno. Intanto, in attesa di nuovi dati, non si può che registrare e inserire in questa lista dei memoranda su cui in occorrenza di nuove attestazioni lavorare, anche l'opera di un altro let­ terato - stavolta italiano e stavolta anche di assai minori ambizioni -, ma, in compenso, sicuramente più addentro del francese quanto a fatti specifici di cinematografia. Lo scrittore è il poliedrico Luigi Marone che di film fu anche produttore e direttore artistico; il racconto è Sulla Roccia, un «episodio cinematografico» (così cita il sottotitolo) del 1910 che parla (e con quale competenza! ) di una voluta e rigorosamente filmata morte davanti alla macchina da pre­ sa54. Eccone anche stavolta un breve sunto: innamorato di una giovane e bellissima prostituta d'alto bordo (la bionda Jole, che nel suo animo non ha ancora abbando­ nato la freschezza di un recente passato da pastorella), un famoso direttore di scena ne fa l'attrice di punta della sua fabbrica di pellicole cinematografiche. Un giorno però mai ne avesse avuto la ventura! - vede l'amante baciarsi con un attor giovane della compagnia. Gelosissimo (aveva promesso di ucciderla se mai lo avesse tradito), il direttore 167

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resta muto e impenetrabile, ma il giorno dopo, in una pe­ ricolosa scena da rappresentarsi sull'orlo di un precipi­ zio, gelido come marmo, l'amante tradito si sostituisce al manichino che, in un finto abbraccio con Jole, deve cade­ re in basso nell'orrido. Accortasi un attimo prima dagli oc­ chi dell'amante del terribile proposito omicida, ma stretta a lui da un abbraccio mortale, nel baratro cade anche Jole, la cui morte, come quella del suo assassino rimarrà im­ pressa per sempre nella pellicola che l'operatore, imper­ turbabile (stavolta non per calcolo), continua a girare. An­ che qua, poco dopo il ciak, si muore. Cambiano è vero i referenti letterari, più dannunziani e verghiani55 che sadiani e "carteriani54"; cambiano i personaggi, arricchiti da una psicologia fittizia utile al districarsi dei casi d'amore; cambia infine la situazione, oggettivamente più cinemato­ grafica e più simile per tecnica ed orchestratura alla realtà produttiva italiana d'inizio secolo; ma nella sostanza tutto rimane immutato. Sia ingannato o si disinteressi della cosa, alla fine, «l'operatore, inconscio della tragedia, gira sempre la manovella». E non potrebbe fare altrimenti, visto che tutto, complice il suo direttore artistico e soggetto/prota­ gonista, è, fin dalla metà del racconto apparecchiato per la morte: scena, tensione, feticcio, e vittima sacrificale. Per­ fino il tempo, come in ogni smiff che si rispetti, calibra i suoi minuti, anzi i suoi diciottesimi di secondo, sulle rea­ zioni nervose necessarie alla malcapitata moritura per ren­ dersi conto dell'ambiguità fatta di orrore in cui il passaggio dal teatro (e quindi dal cinema) alla vita, complice l'inar­ restabile azione, la sta gettando. Sempre precedente ad ogni attestazione giornalistica fi­ nora rintracciata, ma ad un passo dalle disavventure newyorchesi del giovane Brigthon, ecco poi nel 1911, Una film eccezionale di Enzo Ruggero, secondo dei racconti pubblicati nelle riviste corporative da scrittori e soggettisti 168

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d'inizio secolo ad affilare le lame della propria attrattiva sul cuoio insaponato col sangue della morte sul set57. An­ che qua tutto si basa su di una sorpresa, un disegno crimi­ nale noto solo ad un protagonista occulto, in cui tutti, tranne l'operatore, prestano - in un gioco di mise en ab ini e che ricorda le tecniche di messa in scena "a sorpresa" del primissimo cinema58 - i propri flessibili corpi. La storia è quella di Fausto (dal secondo "quadro" Faust), attore pro­ vetto, ma marito geloso, e del suo shakespeariano folle, in­ sanabile, dolor d'amore. Convinto di essere tradito per avere male interpretato l'ambigua pantomima del collo­ quio fra la moglie e un produttore (il protagonista li vede solo parlottare al di là della vetrina di un caffè), Fausto, impazzito, lascia che il suo inconscio lo domini fino a per­ mettergli, in un incontrollabile accesso d'ira, di fargli uc­ cidere davvero sul set, strangolandola, la presunta fedi­ fraga. Scene mute, desideri e paure inconfessate, scambi di passioni fra vita e rappresentazione, ambiguità: con Rug­ gero, e non solo per l'ambientazione, siamo ormai nel mondo del meta-cinema. Anche il nome del protagonista, modellato su colui che per antonomasia arresta la morte chiamandola a vivere in sé, assimilando il personaggio goethiano con l'attore cinematografico - capace di vivere all'infinito la propria morte perchè relegato a muoversi in un mondo infernale e senza vita59 -, partecipa del gioco. Nessuna meraviglia quindi che (operatori di Budapest e Berlino a parte, sulla cui abilità e frequenza di colpi di manovella, nell'assenza di precise indicazioni, possiamo solo ipotizzare e sognare) in un così generale clima di con­ sapevolezza e di autoriflessione del cinema sui propri limiti e sulle proprie vocazioni, all'ignoto cameraman newyor­ chese basti solo un anno e mezzo per trovare, sul lungosenna parigino, un suo degno collega. È il 21 maggio 1913 infatti quando, vicino Place de la Concorde, un operatore 169

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troppo assorto dal suo lavoro (o forse abbastanza accorto da non farsi sfuggire niente), riesce a cogliere con esattez­ za il momento in cui una «scena comica da commedia si mutò improvvisamente in tragedia». Ecco la descrizione esatta dei fatti così come la riporta la napoletana Cine-Fono: «Una compagnia di attori era scesa sulle rive della Senna in piazza della Concordia e con essa erano pure due automobili che dovevano partecipare alla scena per rincorrersi. Una di queste automobili» però, «ad un tratto cadde nella Senna». Nelle fasi alterne in cui la tragedia fra immersioni e tentativi di salvataggio si consuma (si salva l'attore, ma muore l'autista) l'operatore «continua a girare tranquillamente la manovella60». Stessa impassibilità e stessa professionalità mostreranno anche a Torino nell'autunno del 191661 e a Roma, in pieno inverno 1917“, diversi ma ugualmente ignoti operatori. Ad entrambi capiterà di ritrarre la stessa situazione: un fiu­ me, degli attori, un scena che sta per tramutarsi in tragica. Certo, in queste occasioni tutti si salvano, ma poco cambia: per il cinema (e per l'operatore) tutto rimane uguale. I casi, tra l'altro, ormai, non faranno nemmeno scalpore. Diverse invece le reazioni per il ferimento in scena dell'at­ trice Adriana Costamagna, attaccata da un leopardo du­ rante le riprese del film II mistero di Jack Hilton. A dare ampio spazio alla notizia stavolta, con un articolo ripreso e solo in parte riveduto - dalla quasi totalità dei più im­ portanti periodici corporativi, è addirittura il quotidiano torinese La Stampa, uno dei più importanti della nazione. Nelle colonne del giornale, infatti, si trova un po' di tutto: nome, età e indirizzo dell'attrice; patronimici, funzioni la­ vorative e perfino descrizione fisiche di tutti i partecipan­ ti alla scena, per il vero (fiere a parte63) assai numerosi. L'interesse però, più che nella ricostruzione esatta dei fat­ ti (comunque assai accurata) sta nei commenti: brevi, ma 170

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indicativi. Imperdibile quello, mescolato alle informazioni, racchiuso con grazia nelle formule di convenienza del pri­ missimo esordio dell'articolo: «La scena drammatica, assai più drammatica di quella che gli attori stavano fingendo, è successa nell'interno di un serraglio, che era stato messo a disposizione dello Stabilimento cinematografico SavoiaFilm, situato in via Asti, n. 20, e per un semplice caso sen­ za conseguenze64». Esiste dunque una scena sotto la scena, un "iper-film" colle­ gato all'estemo solo dai corpi degli attori, un "dramma" cui solo un caso senza conseguenze ha rivelato ormai resi­ stenza. Questo film nascosto, solo parallelo a quello che il 18 ottobre stava per concludere le proprie riprese, rispetto al­ l'originario ha altre scene, altri punti di tensione e altri pro­ tagonisti: alcuni fuori scena, altri no. Ha anche, è vero, ben più dell'altro, imperdonabili lacune, ma la stampa, come abbiamo già visto fare in precedenza, non ha certo problemi nel suturare con efficacia ogni spazio vuoto che necessiti di raccordo. Ecco quindi dalle colonne del quotidiano torinese saltare fuori i rumori d'oltre campo («Gettate acqua sul leo­ pardo! - gridava Nouma Hawa, pratica di simili incidenti»), gli affanti segreti (i due domatori Marcello e Piper, il diret­ tore Gariazzo), le ferite celate («una mammella era tagliata da una sanguinosa ferita»), che ognuno deve conoscere per meglio godere questo sotto-dramma; ecco soprattutto, esal­ tato da un primo piano e da una chiusura ad iride, il gigan­ tesco leopardo Brahma bellissimo esemplare di 18 anni, as­ surto adesso, anche in chiave erotica65, al ruolo di co-protagonista. Il resto, supportato dalla valida professionalità del­ l'operatore G. Testa, che «sebbene in preda allo stupore più grande, continuò impassibile a girare la manovella», e dalle sapienti forbici di un ignoto montatore, lo farà il cine­ ma, capace ora di mostrare, nella versione definitiva del film, anche le stupefacenti scene dell'aggressione. Il Mistero 171

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di Jack Hilton infatti, e questa è la novità, circolerà ed avrà successo proprio grazie alla sfortuna (anzi alla "fortuna") del tragico incidente, riprodotto in funzione pubblicitaria, fo­ togramma per fotogramma, non solo nel film, ma anche nelle pagine a pagamento dedicate dalla Savoia alla promo­ zione e alla vendita della pellicola. Nessuno insomma, né giornalista, né spettatore, si scandalizzerà mai per l'esibi­ zione del dolore psichico e fisico provato dalla povera, gio­ vanissima, Costamagna (sfigurata a vita), sensazione che ognuno potrà (o forse sarà costretto) a rivivere insieme a lei ad ogni nuova proiezione. D'altronde che leoni, tigri e leo­ pardi continuino con abbondanza di mezzi e con poca pro­ tezione per gli attori a venire usati con tranquillità finanche nei giorni appena successivi il dramma, è cosa certa e lo di­ mostra, oltre all'effettiva presenza nelle sale di molti film con bestie feroci, il curioso provvedimento, con cui, senza causare troppi danni ad una delle più solide imprese com­ merciali cittadine, la questura di Torino, proprio nel dicem­ bre 1913, ovvero due mesi dopo la tragedia, è costretta a re­ golamentare, in seguito alla fuga di due leonesse da un noto stabilimento cinematografico66, l'uso in scena delle stesse bestie feroci. Dopo i fatti della "Savoia" insomma, niente, neanche da parte della polizia, si era messo in moto. E nien­ te succederà neanche dal dicembre in poi, perchè anche se «nessuna persona all'infuori del domatore, potrà entrare nella gabbia in cui si fanno esercitazioni o si svolge una sce­ na cinematografica», sempre il regolamento, lascia intende­ re che, «con speciale assicurazione dell'autorità di P.S.», tutto si può67. Celata solo da un regolamento che è un para­ vento di carta, la morte, fiere, lama, o addirittura fuoco che la causino, continuerà sempre ad entrare sul set68. Nonostante i numerosi precedenti e le altrettanto varie prosecuzioni qui citate, il 1913, in Italia, comunque pare ri172

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manere l'anno del maggiore successo giornalistico, e non solo, del film masochistico-zoo logico. Socialmente e politi­ camente dovuti alle prime espansioni coloniali, occasio­ nalmente sostenuti dal consistente successo circense di fa­ mosi serragli come appunto quello di Nouma Hawa, pub­ blicitariamente alimentati da un caso "realistico" come quello avvenuto aU'attrice Adriana Costamagna, in questo anno i film con animali feroci e i loro gustosi, imprevedibi­ li inconvenienti sono più che mai sotto gli occhi di tutti. Non stupisce quindi che sia proprio nel 1913, che Piran­ dello, che già dal 1904 è al lavoro sul Si gira... con un ab­ bozzo di romanzo intitolato Filàuri, proponga, ad Alberti­ ni prima e a Simoni poi, la pubblicazione per la "Lettura" di quegli "appunti", rimessi in nuovo ordine (e forse anche con sostanziali cambiamenti di ambientazione) sotto il nuo­ vo più esotico e più cinematografico titolo La tigre69. Certo né nel gennaio né nell'agosto del 1913 era ancora occorso il fatto della Savoia, ma, nel generale clima di interesse per il film con bestie feroci, dalla semplice volontà di riprendere l'avventura del Filaùri di cui si parla nella lettera all'Al­ bertini (ancora in gennaio si conservava il vecchio titolo e ancora si taceva sulla trama), Pirandello passa in quella al Simoni, dove il romanzo, tratteggiato nelle linee essenziali, è già "La Tigre", a dare già in parte, alla fiera, quel ruolo che le spetterà nelle versioni del 1915-16 prima e del 1925 poi, quando, protagonista a tutto tondo, essa avrà anche il diritto di concludere con sé, come una vera star, l'intera storia. La precisa volontà meta-cinematografica e anche meta-letteraria di Pirandello insomma, fatta di scarti suc­ cessivi, ma anche, con evidenza, di letture giornalistiche mirate e quasi citate e di informazioni letterarie assai ampie, non può passare inosservata. Dirlo "primo", non solo nella "trama" ma anche nelle locuzioni verbali o nei singoli sin­ tagmi narrativi, più che non servire, ne sminuisce il valore. 173

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Pirandello analizzando un caso apparentemente nuovo, ma in realtà fin troppo comune, come quello degli imma­ ginari Aldo Nuti e Varia Nestoroff, uccisi in scena dalla folle gelosia del primo, non intende certo stupire, ma cir­ coscrivere ed osservare. La sua operazione - simile in un certo senso a quella che attua Vitaliano Moscarda strin­ gendo il suo campo visivo e percettivo al solo, singolo caso dell'immagine speculare del proprio naso, o che l'uomo dal fiore in bocca pratica osservando particolari forse in­ significanti come un commesso che prepara pacchetti, una seggiola che arreda l'anticamera di una sala d'aspetto va ben più in là, del singolo fatto. Lo scrittore girgentino che, come ogni uomo del suo tempo ha ben impresso che la prima percezione che si ha del cinema è quella di un mondo che rappresenti, coincidendovi, l'ultra-mondo in­ toccabile della morte e dell'aldilà70, riflette anche, sotto una struttura narrativa classica (o forse addirittura, come qualcuno ha notato71, più che moderna), su qualcosa che colpisce, non solo e non tanto la morale più ferrea del co­ mune lettore, ma soprattutto il suo senso della realtà. Ri­ flette Pirandello se sia possibile che la morte, tramite la sua immagine secolare nel mondo, possa in qualche modo specularmente produrre e rappresentare se stessa; riflette se possa credersi che le categorie fenomenologiche e filo­ sofiche che soprassedevano al mondo così come lui lo ha conosciuto vivano ancora, o se il nuovo mondo, più simile all'estetica del fatto e del romanzo d'appendice, con le sue azioni veloci e fini a se stesse, non stia invece inevita­ bilmente sostituendolo; perchè Pirandello è, probabil­ mente senza saperlo, al cardine di quel sommovimento epocale, sopravvenuto appunto proprio con la prima guer­ ra mondiale, in cui anche il cinema cambia la sua fenome­ nologia, esce dal periodo in cui ogni immagine fotografica dotata di movimento diventava in sé per sé reale e rifiuta 174

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con l'attrazione per il fatto vero, ormai distinto da quello recitato -, la primitivissima attualità ricostruita72. Piran­ dello, e qui sta la grandezza del suo romanzo, non lo sa, ma in qualche modo intuisce, e dà a tutti la possibilità di comprenderlo. In un modo solo: non fermando neanche lui quella maledetta manovella.

Note: p. 180 e segg.

Riferimenti bibliografici: Brunetta Gian Piero 1972 Intellettuali cinema e propaganda tra le due guerre, Bologna, Pa­ tron. Burch, Noel 1991 La lucarne de l'infini. Naissance du langage cinématographique, Paris, Nathan; trad. it. Il lucernario dell'infinito. Nascita del lin­ guaggio cinematografico, Parma, Pratiche, 1994; nuova ed. Milano, Editrice II Castoro, 2001. Morin, Edgar 1956 Le cinérna ou I'homme imaginaire, Paris, Minuit; trad. it. Il cine­ ma e l'uomo immaginario, Milano, Feltrinelli. Pugliese, Roberto 1990 "L'ultimo spettacolo", Segno cinema, X, 46. Raffaeli!, Sergio 1993 II cinema nella lingua di Pirandello, Roma, Bulzoni.

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5. IDENTITÀ, COLONIALISMO E TRADUZIONI POSTCOLONIALI

5.1. Esserci o esserci stati. Per un discorso su cinema e iden­ tità ebraica (di Guido Fink) «Nel corso degli ultimi due millenni», ha scritto Luca Ze­ ri, in un saggio sul carattere «non stanziale e policentrico» dell'ebraismo, «gli ebrei non hanno lasciato duraturi segni fisici della propria presenza in questo mondo», perché «ciò che essi hanno prodotto è organicamente mobile, soft, a partire dal Libro, unico monumento che si sono concessi». Vogliamo accostare in questo senso al libro (e ai libri, secondo la correzione di Harold Bloom, per cui gli ebrei hanno sempre bisogno di un Testo sacro, ma sono sempre pronti a sostituire quello originario con letture più attuali, purché di Libro si tratti) anche gli altri testi, an­ cora più effimeri e ancora più soft, che il cinema ci ha dato e nei quali abbiamo imparato a riconoscerci? Al momento in cui scriviamo, fra le tragiche notizie che giungono da Israele e gli allarmanti rigurgiti di razzismo che si avverto­ no nel nostro paese a causa dei problemi legati all'immi­ grazione, il discorso sulla diversità di cui a lungo l'ebreo è stato involontario emblema riacquista una sua paradig­ matica e drammatica attualità. In America, per la prima volta, un ebreo è candidato a una delle massime cariche 177

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dello stato, e il cinema hollywoodiano celebra la fine delle discriminazioni con Liberty Heights di Barry Levinson o con l'allegra amicizia fra preti e rabbini (anche se rivali in amore) in Keeping the Faith di Edward Norton, ma la mi­ noranza ebraica (che è minoranza davvero: appena il 2% della popolazione, destinata anche a calare per l'abbon­ danza di matrimoni misti e la natalità mediamente inferio­ re a quella di cattolici e musulmani) appare frammentata: orientata per lo più su posizioni democratiche e di sinistra, e aperta al dialogo con altre minoranze, è d'altra parte di­ visa al suo interno, e un libro sia pure eccessivamente al­ larmistico come Jews versus Jews di Samuel G. Freedman parla di guerre di religione e di frange integraliste, mentre una giovane scrittrice, Lisa Schiffman, parla a nome di una "generazione J" o "post-Olocausto" che ha nomi co­ me Jill, Ken o Doug, ha evitato di sposare correligionari, non va in sinagoga e mangia di preferenza al ristorante cinese, ma ai propri figli dà nomi come Ezechiel o Elijah, e riscopre la musica klezmer. Nei vari festival di "Jewish Ci­ nema" che ormai si tengpno un po' dappertutto in Ameri­ ca, si vedono film e documentari che parlano di comunità ebraiche, magari scomparse, in Bulgaria, nel Kazakhistan, nello Iowa, in Algeria, a Shanghai e via dicendo; ci si met­ te da ultimo anche il cinema europeo, con lo Szabo di Sunshine (tre generazioni di ebrei ungheresi che prima cambiano nome e fede poi ritornano a quelli originari) e il Krabbe di Left-Luggage (incontro fra moderni ebrei olan­ desi, reduci dai campi e hasidim). Difficile, in questo senso, afferrare il senso di una identità che non può che essere plurima e stratificata, molto più complessa variegata di quanto non facciano sospettare le grandi distinzioni tradizionali e storiche, come quella fra askenaziti (gli ebrei centro ed est europei) e sefarditi (spa­ gnoli o nordafricani). Nel suo Mosaico, Stefano Levi Del­ 178

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la Torre ha osservazioni molto acute sull'ebreo come stra­ niero interno, che non vive certo isolato rispetto alla co­ munità in cui vive, ma al tempo stesso non arriva mai a in­ tegrarsi del tutto; in questo senso assumono una rilevanza anche certi luoghi comuni non privi di connotazioni raz­ ziste, come quello dell'ebreo antisemita Otto Weininger che vede l'ebreo come «l'informe, colui che cancella i con­ fini», o come la famosa osservazione di Nietzsche per cui l'ebreo non ha mai una sola identità, ma sempre e comun­ que una maschera, o addirittura più d'una. Ma forse il ci­ nema, basato come almeno un tempo si credeva sul feno­ meno della persistenza dell'immagine sulla retina, può aiu­ tarci a cogliere le tracce dei passaggi più sopra accennati (basta pensare alla forza con cui Claude Lanzmann, in ta­ lune parti di Shoah, ci fa avvertire l'assenza degli ebrei che prima erano in certe case o in certi paesaggi apparen­ temente sereni, che nelle sue immagini divengono una sor­ ta di buco nero). Ancora, il cinema tradizionalmente è abituato a giocare con le apparenze le maschere e i trucchi: e buona parte della grande tradizione del cinema comico americano, dal forse non ebreo Chaplin ai Marx a Lewis ad Allen e Brooks, si basa proprio sul rapporto fra ma­ schera e volto: senza voler ricordare il nerofumo con cui si tingevano Al Jolson, George Jessel, Eddie Cantor, Sophie Tucker e i vari intrattenitori che si esibivano, falsi black minstrels, nei palcoscenici del vaudeville o del varietà mi­ nore, o nella catena alberghiera della così detta Borsch Belt: fenomeno che è stato visto in senso umanitario, tran­ setnico, e quasi hassidico (es. Irving Howe, per cui il nero poteva essere «una maschera dell'espressività ebraica», un «dolore che parla attraverso la voce di un altro dolore») e recentemente in chiave opposta da Michael Rogin, che stigmatizza come crudele e offensiva la pratica del black­ face, facile divertimento a spese di un gruppo etnico an­ 179

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cora sottomesso e sofferente. E dovrebbe comunque ri­ sultare chiaro, fin da questa fase assolutamente prelimina­ re, che alle nostre domande di partenza sull'identità ebrai­ ca si potrà rispondere solo talmudicamente, cioè con altre domande: ogni risposta, ogni etichetta ne varietur, non potrebbe essere che sospetta.

*** Note

1 Per una ridiscussione della tematica si rinvia a Rastìer [2001]. 2 Si veda, ad esempio, Bertozzi [ed. 2001]; ci permettiamo di rinviare anche a Basso [2001]. 3 A questo proposito abbiamo lasciato in questa sezione una testimo­ nianza pienamente esemplificativa dell'intersezione con i saperi an­ tropologici che caratterizzano la produzione culturale del Festival dei Popoli, vale a dire l'intervento di Tullio Seppilli. 4 La prima citata da George Bataille (Le coupable) ed il secondo da Michel Leiris (Sacrifice d'un taureau chez le houngan Jo Pierre-Gilles). 5 Per esempio: «La tonalità grigia fu la gamma fondamentale del Po­ temkin. Si componeva di tre elementi: il grigio duro e luccicante dei fianchi della corazzata, la dolce tonalità dei grigi sfumati della nebbia che ricordano Whistler, ed un terzo modo che riuniva i primi due pren­ dendo, all'uno la sua lucentezza, ed all' altro la sua dolcezza: le variazio­ ni della superficie del mare fotografata sempre nella stessa scala di gri­ gio. Il tono di grigio, nel film, passava attraverso gli estremi (il corsivo è mio). Passava nel colore nero, le giubbe nere del personale di comando, i piani neri dell'angoscia notturna. E nel colore bianco. Il telo bianco dell'esecuzione. Le vele bianche delle iole. Il volo dei bianchi berretti dei ribelli alla fine, volo che era come l'esplosione del soffocante lenzuolo di tela, fatto a pezzi (corsivo mio) dalla spinta rivoluzionaria del 1905». 6 Ricordiamoci che Eisenstein teorico dell'estasi cinematografica, scri­ veva "ek-stase", sottolineando l'origine greca del termine: "ek- stase", che traduceva semplicemente come "uscita da sé". Rimando su questi punti ai lavori di Barthelemy Amengual ed agli scritti di Ejzenstejn, so­ prattutto La natura non indifferente. 7 Nel décradage la figura è totalmente decentrata, si crea un vuoto al

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centro dell'immagine e viene accentuata la funzione della cornice co­ me bordo (N.d.T.). 8 Sottolineo l'insistenza in Partie de campagne del motivo del voyeuri­ smo. Fin dall'inizio Henri ed il suo amico Rodolphe si mostrano come voyeurs, ed è così che entriamo, noi spettatori, in confidenza e com­ plicità con loro al momento in cui "si rifanno gli occhi" - come noi vedendo la giovane Henriette con la gonna svolazzante sull'altalena. «Vedi tutto, non vedi niente», dice Henri, sempre reticente, a Ro­ dolphe, sempre entusiasta. Ancora una definizione ironica del nostro posto di spettatori: tutto e niente. Questo motivo di voyeurismo sarà raddoppiato, del resto, dallo sguardo dei bambini nascosti dietro un muro e da quello dei seminaristi il cui sguardo si attarda sull'immagi­ ne che non si dovrebbe vedere... Impossibilità della solitudine cine­ matografica. C'è sempre un voyeur nel quadro ed il piacere dello spettatore è primario. Per prima cosa, ci dice il manifesto voyeurista di Partie de campagne, per prima cosa lo spettatore è là come voyeur. Ma c'è la speranza che venga trasfigurato dalla trasfigurazione estatica del personaggio. Renoir mette in scena il processo di trasformazione della condizione dello spettatore, all'inizio voyeur, che viene successi­ vamente modificata da ciò che egli vede e che lo travolge. 9 Si leggerà in Traffic, n. 11, lo studio di Alain Bergala, Une erotique du filmage. 10 Traduzione di Augusto Cacopardo. 11 Da uno scritto del 1925 riportato in R. Mallet-Stevens, Le décor au cinéma, Sèguier, Paris, 1996. 12 Ricavo questi dati da E. Blin, "Les multiplexes cinématographiques: un nouvel enjeu territorial", Annales de Géographie, n. 606, 1999, pp. 151-169. 13 Vedi F. Lang, Metropolis, Classic Film Scripts, Lorrimer Publishing/The Garden City Press, Letchworth, 1973, p. 19. 14 P. Hall, Cities in Civilization: Culture, Innovation, and Urban Order, Weidenfeld & Nicholson, London, 1998. 15 Samuel Lionel Rothapfel emigrato tedesco e proprietario del Roxy e di altri cinematografi americani, in America nel 1927. La frase ripor­ tata è citata da Paul Virilio [1996, trad. it. 50]. 16 II racconto si trova in traduzione italiana in Renzi [ed. 1993]. 17 Traduzione di Sandro Cappelli. 18 Esiste un mercato clandestino di questi film in cui gli "attori" su­ biscono torture che, si dice, vanno fino all'omicidio non simulato.

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Non ne ho mai visti: il cinefilo rifiuta questi oggetti non solo perché ignobili, ma anche in quanto anti-cinematografici. 19 N.d.C. Si tratta di The Most Dangerous Game (USA, 1932) di Erne­ st Schoedsack e Irving Piche!, un film noto in Italia anche con il titolo: La pericolosa partita. 20 La posizione centrale dello spettatore nel dispositivo cinematogra­ fico contiene una dimensione umanistica del cinema. 21 È il genio di Hitchcock ad aver trasposto nella fiction l'imbarazzo che il cadavere "troppo reale" impone allo spettatore: si veda La con­ giura degli innocenti (The trouble with Harry, USA, 1956). 22 Cfr. S. Raffaelli, Il cinema nella lingua di Pirandello, Roma, Bulzoni, 1993, pp.13-30. 23 Si gira..., poi Quaderni di Serafino Gubbio operatore, esce per la pri­ ma volta sulla "Nuova Antologia" fra il giugno e l'agosto del 1915. 24 Alle origini del cinema infatti il sostantivo di origine inglese film, conservava ancora, grazie alla sua traducibilità con il vocabolo italiano pellicola, il genere femminile. 25 Roberto Pugliese, ad esempio, autore di un illuminante articolo sul­ l'argomento, "L'ultimo spettacolo" [1990], indica come primo snuff conosciuto The slaughter di Michael e Roberta Findlay del 1974, usci­ to anche in Italia. Gian Piero Brunetta invece, in Intellettuali cinema e propaganda tra le due guerre, parlando di morte filmata e di attori sbranati in scena, fa risalire il primo caso al 1922, quando, sul set del Quo Vadis di Vitretti, in pieno caos, un operatore continuò a girare impassibile la manovella mentre la leonessa Europa sbranava l'attore generico Palumbo [Cfr. Brunetta 1972, 25]. 26 Mai comunque prima del 1919, anno di ingresso nel mondo del ci­ nematografo del "sadico" Eric von Stroheim, alla cui "perversa" in­ telligenza per anni si è voluto accreditare ogni origine di ambiguità e di sessualità perversa nel cinema. Curioso tra l'altro che oltre che l'e­ pisodio della violenza gratuita alla ragazza handicappata con cui si chiude Foolish wives, la gran parte degli aneddoti legati alla camera di Stroheim riguardi la crudeltà "reale" con cui sottoponeva se stesso e la sua amante a episodi umilianti sul set, di fronte alla macchina da pre­ sa, facendo coincidere la vita "vera" con il filmabile: far mostrare le proprie mutande (Queen Kelly), o ricevere sulla mano la stilla di bava di un vecchio (Queen Kelly) a Gloria Swanson, interpretare personal­ mente la parte del servo per l'ex-moglie sottoposta un tempo a tanta crudeltà in un film che li mostra insieme vecchi e decadenti, pallido ri­ cordo della bellezze gloriose di un tempo che fu (Sunset Boulevard).

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27 Un fatto documentabile, oltre che attraverso la lettura dei soggetti stessi, anche attraverso le proteste che giungevano dal più sensibile pubblico anglosassone, maggiormente incline all'happy-end (come no­ ta anche Pirandello, onde evitare il problema, per questo pubblico si prepararono, poi, finali differenti). Riguardo alla pedofilia invece sa­ rebbe opportuno instaurare una ricerca critica che tenga finalmente conto, dandone il giusto rilievo, delle tante (troppe! ) fidanzate e mogli/bambine che dettero volto, con il loro ingenuo ma eccitante can­ dore, a molti dei più importanti ruoli erotici del primo cinema. 28 La rivista si trasferì a Torino dal 1909. 29 "Suicidio al cinema", La cinematografica italiana, I, n. 23-24, 15 novembre 1908, p. 178. 30 "Un film di nuovo genere", in La vita cinematografica, III, n. 14, 30 luglio 1912, p. 8. 31 Nel film, interpretato dallo stesso Depp insieme a Marion Brando, si narra la storia di un giovane ragazzo indiano delle riserve che cerca di salvare la propria famiglia dalla spirale di miseria disperazione in cui è da tempo precipitata accettando il ruolo di vittima sacrificale per uno snuff movie. 32 La stessa, dalla cui sommità, Wenders fa iniziare, con un tuffo nel vuoto, il lungo piano sequenza iniziale de II cielo sopra Berlino. 33 "Il suicidio col paracadute, finale di un dramma cinematografi­ co", in La Cine-Tono e la Rivista Cinematografica, VI, n. 212, 5 otto­ bre 1912, p. 11. 34 "Suicidi a pagamento", in 11 Cinema Teatro, II, n. 46, 27 ottobre 1912, p. 1. 35 "Finzione cinematografica finita tragicamente a Budapest. Mortale salto da un ponte", in La Vita Cinematografica, III, n. 17,15 settembre 1912, pp. 14-15. 36 "Domatore ferito da una tigre durante una film cinematografica", in La Vita Cinematografica, II, n. 3,15 febbraio 1911, p. 4. 37 "Una film drammatica", in La Vita Cinematografica, II, n. 11,15 lu­ glio 1911, p. 7. 38 «Uno dei migliori artisti (M. Alessandro Hillby) che nella riprodu­ zione delle scene del Far-West sosteneva il ruolo di cow-boy è morto in seguito ad una disgraziata caduta da cavallo, mentre eseguiva un scena cinematografica» (Nella rubrica «Notizie Estere» al paragrafo "Inghil­ terra", in La Vita Cinematografica, III, n. 18,30 settembre 1912, p. 24). 39 «Presso una Casa editrice di film, a Berlino, in Mackgrafenstrasse, un attore doveva prodursi in qualità di domatore di belve e precisa­

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mente di un orso, entro un recinto da circo equestre, costruito per la bisogna. Poi, l'orso, scattò improvvisamente cagionando la rottura della macchina prima, e quindi afferrando l'attore per il ginocchio gli cagionò la frattura completa della gamba. A^anco a dirlo l'orso venne immediatamente posto nell'impossibilità di più oltre nuocere, dal ve­ ro suo domatore che assisteva alla scena e l'attore, medicato provvi­ soriamente sul posto, venne poscia trasportato all'ospedale da dove uscirà guarito, salvo complicazioni, nel non breve spazio di tre mesi» (In "Un attore cinematografico fortunato nella disgrazia", in La Vita Cinematografica, III, n.16, 30 agosto 1912, p. 5). 40 «Mandano da Los Angeles: "Mentre si stava eseguendo una film ci­ nematografica di una scena drammatica, una leonessa, divenuta furio­ sa, si è slanciata su di un attore, certo Kirby; lo ha gettato a terra e lo ha lacerato per tutto il corpo in modo terribile prima che si sia potuta re­ spingere la belva con sbarre di ferro. Kirby è morto all'ospedale dove era stato trasportato"». In "L'orribile morte di un cinematografista in America", in La Vita Cinematografica, V, n.19, 22 aprile 1914, p. 94. 41 In realtà, essendo il soggetto a muoversi e non la macchina da presa, il travelling è solo apparente. 42 Luca Comerio fotografo e Cineasta, a cura di C. Manenti, N. Monti, G. Nicodemi, Milano, Electa, 1979, p. 102. 43 "Come un operatore cinematografico venne sbranato da un leo­ ne", in La Vita Cinematografica, V, n. 6,15 febbraio 1914, p. 99. 44 "Le grandi cacce" in La Vita Cinematografica, IV, n. 2, 30 gennaio 1913, p. 15. 45 Cfr. il curioso resoconto della spedizione cinematografica vesuviana realizzata dall'operatore Federico Burlingham (azzardo vulcanologico si­ mile in molti tratti a quello che, per La soufrière, nel 1976 vedrà impe­ gnato il regista tedesco Werner Herzog) "Un'esplorazione cinemato­ grafica nel cratere del Vesuvio", in La Cinematografia italiana ed estera e la Cinema-Docet, Vili, n. 163,15 gennaio 1914, pp. 3817 e 3819. 46 «Indubbiamente, questa film merita una lode. Lode per la esecuzione, lode per il coraggio che attori e operatore han dimostrato lavorando tranquilli e calmi davanti alle gole formidabili di parecchi leoni. E non c'è ombra di trucchi; i leoni sono proprio là naso a naso con gli attori e qualche volta allungano le grinfie con la poco onesta intenzione di por­ tar via qualche brandello della carne umana fresca (oh! quanto fresca! ) che vedono a portata» (dalla recensione a firma II Rondone di "Nelly la domatrice" in La Vita Cinematografica, III, n. 19,15 ottobre 1912, p. 57). 47 Cade così anche un altro mito: quello della multimedialità come fi­

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glia della cultura anni '80 e '90. È chiaro infatti che la pubblicazione a mezzo stampa della mancata realizzazione della singola scena, diventa, al di là dell'attrazione pubblicitaria, un effettivo completamento fe­ nomenologico dell'evento cinematografico in sé. 48 La prima morte filmata, invece, è probabilmente, almeno in un certo senso, The Execution of Czolgpsz di E. Porte del 1900. Si è quasi certi infatti che il film, che è un'attualità ricostruita (ripropone cioè con at­ tori travestiti e ambientazioni reali o verosimili una scena contempo­ ranea appena accaduta) che mostra l'esecuzione dell'anarchico reo di aver attentato alla vita del presidente McKinkley venisse percepito, nel contesto di inizio secolo, con la stessa dose di affezione realistica dei più attuali tardi documentari "dal vero" e film di cinéma-verité. 49 Paradossi dello sniff ben messi in luce in R. Pugliese, op. cit., p. 29. 50 Riproposto integralmente in G. Apollinaire, Oeuvres en prose, voi. I, Paris, Gallimard, 1977, p. 198-202., ne esiste anche una traduzione italiana in M. Verdone, "Guillaume Apollinaire", in Bianco e Nero, XIV, n. 7,1953. 51 Tanto che, accusato per contrastare il malumore dell'opinione pub­ blica un povero levantino, la CCI ha addirittura il privilegio di poter­ ne filmare la morte. 52 Nell'"Europe Nouvelle" del 12 ottobre 1918, Apollinaire infatti parla con evidente piacere di un incidente occorso in Inghilterra, do­ ve, mentre un attrice sta per morire affogata: «L'operateur enthousiasmé par la vèrite de la scène, toumait avec frenesie; les camarades applaudissaient». È da dire comunque che in questo caso l'attrice viene salvata dalla presenza di spirito del «directeur de la troupe», che ac­ cortosi di ciò che stava accadendo si tuffa per salvarla. Cfr. M. Decaudin, "Apollinaire et le cinéma, image par image", in AA.VV. Apol­ linaire, Torino-Paris, Giappichelli-Nizet, 1970, pp. 20-21. 53 Interessante ad esempio che, esattamente come in un western, ma an­ che proprio come nei pomo clandestini d'inizio secolo, il barone d'Ormesan e suoi amici permettano al carnefice di tenere il volto mascherato. 54 Uscì in La Cine-Fono e la Rivista Fono-Cinematografica, IV, n. 131, 5 novembre 1910, pp. 13-14. 55 Lo stile di Marone, in realtà, sembra quasi quello di un Verga riletto da D'Annunzio ed adattato con sagacia al gusto svelto del lettore d'appendice rosa e del divoratore di soggetti cinematografici. 56 Sulla passione di Apollinaire per Nick Carter, Buffalo Bill ed altri feuilleton cfr. G. Apollinaire, "Fantomas", in Mercure de France, 16 luglio 1914.

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57 Pubblicato su La Cine-Fono e la Rivista Fono-Cinematografica, V, n. 158, 20 maggio 1911, p. 7. 58 Per evitare che il soggetto fosse copiato e quindi riprodotto, prima dell'uscita del film stesso, da una casa rivale molte delle rappresenta­ zioni prevedevano che il direttore di scena rivelasse le singole parti del copione solo sul set, a troupe già pronta, un attimo prima di ini­ ziare la ripresa. 59 Numerosissime, nel periodo delle origini, le testimonianze della percezione del mondo del cinema (inteso come ciò che si muove sullo schermo) come mondo dei morti. Fra queste, famosa, quella di Gorìdj spettatore di un programma Lumière a Niznij Novgorod nel 1896 e ri­ portata, in traduzione italiana, in L. Mangarotto, "Le Cinématographe alla corte dei Romanov", in A. Costa (ed.), La meccanica del visibile. Il cinema delle origini in Europa, Firenze, La Casa Usher, 1983, p. 87. Più in generale comunque su questo tema Morin [1956]. 60 Una pellicola comica mutata in tragica, in "La Cine-Fono e la Rivista Fono-Cinematografica", a. VII, n. 242, 22 maggio 1913, p. 9. 61 Ne rende conto la "Cinematografia italiana" che parla di una scena in cui l'attore Giovanni De Caro si getta nel canale Michelotti (nel filmi/ Gange, o il Nilo, o il Bramaputra) a monte del ponte Regina Margheri­ ta. Travolto dalle onde l'attore sta per morire, ma riesce ad aggrappar­ si ad una ringhiera e viene poi salvato dai pompieri. Intanto sulla spon­ da imperturbabile, l'operatore cinematografico seguitava a girare la ma­ novella (in Un bagno fuori stagione, "La Cinematografìa Italiana ed Estera e la Cinema-Docet", a. X, nn 19-20,15-30 ottobre 1916, p. 79). 62 Proprio in questa fredda stagione secondo "La Vita Cinematografi­ ca", durante le riprese de I mohicani a Parigi, un'attrice cade nel Te­ vere da 15 metri d'altezza insieme al cavallo che sta montando. Tutte le operazioni di salvataggio sono riprese ed entreranno nell'opera (in Un grave incidente occorso a Roma ad un'attrice cinematografica, in "La Vita Cinematografica", a. Vili, nn. 3-4, 22-30 gennaio 1917,p.l33). 63 Che in questo caso si limitarono a un solo leopardo. 64 "Attrice cinematografica ferita da un leopardo nell'esecuzione di un film", in La cinematografia italiana ed estera, VII, n. 159, 20 ottobre 1913, p. 3562. 65 «La Costamagna, che era squisitamente inguainata in un abito ne­ ro, col collo e le spalle nude, si era immedesimata della parte al punto che accarezzava la bestia con vera compiacenza, dimentica completamente del pericolo a cui si esponeva. Ad un tratto [...] gli si accovacciò accanto, ponendogli le mani sul capo: "Che bella be­

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stia!" - esclamava - "Che odore selvaggio!"». Tratto dal racconto del dottor Gariazzo, direttore della Savoia-Film, ivi, p. 3563. 66 Successe alla Pasquali-Film. 67 Dopo la fuga delle due leonesse dalla "Pasquali". I provvedimenti del Questore di Torino, in "La Cinematografia italiana", a. Vili, n. 162,1025 dicembre 1913, p. 3782. 68 Ecco ad esempio cosa scrive il Sun dell'll febbraio 1917 a proposito dei fatti accaduti durante le riprese del kolossal Ravengar della Pathé Exchange, in cui, nel marasma generale causato da un incendio - scia­ gura che provoca ben nove morti e cinquanta feriti, oltre ad una situa­ zione pericolosissima in cui rischiano di perire diversi bambini -, gli operatori hanno avuto il tempo di isolarsi dalla scena per riprendere il tutto: « [gli emozionanti e veristi quadri dell'incendio e della spavento­ sa fuga] ci vien detto, faranno parte della pellicola e senza dubbio co­ stituiranno il non plus ultra della realtà palpitante» (in Un incendio sen­ sazionale e una vera scena... dal vero, in "La Cinematografia Italiana ed estera e la Cinema-Docet", a. XI, n. 18-19, 31 ottobre 1917, p. 40). 69 Cfr. F. Callari, Pirandello e il cinema, Venezia, Marsilio, pp. 18-19. 70 Cfr., fra tutti, oltre ai saggi citati alla n. 37, questi tre brani del Si gi­ ra.. passati poi invariati nei Quaderni: «Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un'altra macchina possa ridarle il movi­ mento qui in tanti attimi sospeso» (L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Milano, Mondadori, 19942, p. 55); «Essi non se ne rendono conto chiaramente, ma io con la manovella in mano, sono in realtà per loro una specie d'esecutore (Ivi, pp. 69- 70); perchè la loro azione, l'azione viva del loro corpo vivo, là, sulla tela dei cinemato­ grafi, non c'è più» (Ivi, p. 70). 71 Cfr. C. De Benedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971. 72 Cfr. fra tutti Gio.[vanni] Livo[ni], "Le cosiddette 'films patriottiche' nei giudizi di Nino Martoglio... e Lucio D'Ambra", in La Cinemato­ grafia italiana, IX, n. 19,15 ottobre 1915, p. 41; D. Angeli, "Cinema­ tografo di guerra", Il Marzocco, XXI, 25 giugno 1916, n. 26, pp. 2-3; più in generale II cinematografo in campo, Ancona, Transeuropa, 1993.

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PRESENTAZIONE (P. Basso)

L’idea di Ejzenstejn, a mio avviso geniale, è di aver compreso che solo grazie alla deflagrazione delle forme comuni (e ricordo in questo senso le pratiche dada, surrealista, pop) abbiamo la possibilità di una riorga­ nizzazione delle configurazioni passionali, configura­ zioni ad un livello astratto, in quanto non più figurati­ ve, ma defìgurative. Sono infatti componenti di elemen­ ti figurativi, o cromatici, elementari, che si spargono e, potenzialmente, si riconfìgurano. Se questo è vero po­ tremmo cominciare ad analizzare i modi con cui il cine­ ma e la pittura lavorano la sovversione patemica, la riorganizzazione passionale: attraverso una deflagrazio­ ne della flagrante verità banale del mondo, una ricom­ posizione in cui alle componenti astratte dell’immagi­ ne, e dico astratte perché si ottengono facendo scop­ piare o serrando gli occhi, potete riagganciare una nuo­ va organizzazione passionale. La deflagrazione, quindi, è suscettibile di comportare una riorganizzazione del mondo passionale, cosa senza la quale non si capisce perché andremmo al cinema [Fabbri 1990, 115].

Grazie a Deleuze [1983; 1985] non solo si è riveduto il “pensiero” elaborato autonomamente dal cinema, in virtù del suo «ragionare per figure» [Fabbri 1998], ma si è fini­ to per rileggere gli scritti di poetica dei registi e i film stes­ si (fictional essay) come teorie filmiche spesso pienamente compiute (lo ha fatto recentemente Jacques Aumont [2002]). Nascono sempre più spesso documentari “d’au­ tore” su altri autori, come libri di filosofi su altri filosofi, come se si percepisse la necessità di “vedere doppio” o di una mise-en-abìme: «vedere è ricevere un’immagine, ma far vedere è montare quest’immagine con un’altra immagine» [ivi, 47; Godard 1980, 22], 191

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“Documentare l’autore” è un passaggio per rimettere in gioco il suo pensiero, per far vedere ciò che ha mostrato. «Pittore dell’ordine del disordine1», Godard non ha mai di­ sdegnato di fare dei suoi film un contributo diretto alla storia del cinema (o dell’arte, come nel caso di Passion), per quanto del tutto paradossale: si tratta di dis-identifìcare l’opera dal posto che la storia le assegnerebbe, organizzare la sua destabilizzazione documentale. Ogni tableau vivants è spostamento dell’originale solo momentaneamente rag­ gelato, così come ogni histoire du cinéma “in-edita” l’opera, la immette in catene intertestuali e nel contempo la ri-pone come nuova, giacché ne consuma solo il simulacro. Rallen­ tando i film, sovrapponendoli, prelevandone dei dettagli, sovvertendone i significati, Godard compone una storia “affettiva” del cinema sotto forma di viaggio figurale. Perfetto “poeta della grammatica” - avrebbe detto Jakob­ son -, Godard è oggi consapevole che anche quando vuo­ le trasformarsi in buon retore (per far “passare” un punto di vista ideologico), deve contare sull’efficacia dell’espres­ sione. Il primo passaggio per Godard è affermare che non si dà mai un’«immagine giusta, ma giusto un’immagine»; il secondo è che quest’immagine è in-edita, in quanto as­ sunta all’interno di un montaggio il cui “disordine organi­ co” si pone nel segno della soggettività. In questo senso. Bill Nichols [1991, 157] pone i lavori di Godard - a par­ tire da Numero deux [ivi, 59] - come esplorazione della «soggettività documentaria», o persino - potremmo dire come emblemi della documentazione di una soggettività che palesa, del proprio discorso, il senso stento, il suo es­ sere soffocato da catene di immagini soverchianti. Ecco che “documentare l’autore” è innanzitutto affacciare la soggettività enunciante all’interno del discorso filmico che tiene; per Nichols, la soggettivazione del discorso è persino ciò che «intensifica l’impressione di un’aura nel 192

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film documentario», in quanto la timbra con il filtro (simulacrale) di un vissuto di significazione. Le sagge “idiozie” di Godard, rispetto ai “rifiuti” del senso comune, possono essere reperite in una figura apparente­ mente laterale rispetto al mondo del cinema, come Jean Giono, soprattutto quando essa risulta incarnata dal pro­ tagonista di Cresus, un film che necessita urgentemente di piena rivalutazione. Amore-odio e riflessione, passioni e ragioni del cinema accompagnano per lunghi anni, sotter­ raneamente, il lavoro di Giono. Secondo le ricostruzioni di Jacques Meny, Giono ha lungamente progettato di dedi­ carsi al documentario con una predilezione per la macchi­ na-soggettiva e un’inclinazione ad attingere al registro del fantastico: purtroppo i progetti sono rimasti irrealizzati, se si eccettua Solitude (1937), che è andato perduto. Dato che l’opera cinematografica di Giono resta largamente sco­ nosciuta in Italia3, abbiamo deciso di inserire due suoi bre­ vi scritti sul cinema, inediti in italiano, che rendono ragione del suo rapporto controverso con la settima arte. Note: p. 225 e segg.

Riferimenti bibliografici: Aumont, Jacques 2002 Les théorie des cinéastes, Paris, Nathan. Deleuze Gilles 1983 L’image-mouvement, Paris, Minuit; trad. it. L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri,1984. Deleuze, Gilles 1985 L’image-temps, Paris, Minuit; trad. it. L’immagine-tempo. Milano, Ubulibri, 19932. Fabbri Paolo 1990 “Boom”, Cinema & cinema, voi. “Visioni di superficie”.

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Fabbri, Paolo 1998 La svolta semiotica, Bari, Laterza. Fontanille Jacques 1995 Sémiotique du visible, Paris, PUF. Godard, Jean-Luc 1980 Introduction à une véritable histoire du dnéma, Paris, Albatros; trad. it. Introduzione alla vera storia del cinema, Roma, Editori Riu­ niti, 1992. Nichols, Bill 1991 Representing Reality, Bloomington - Indianapolis, Indiana Uni­ versity Press.

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6. GODARD, IL POETA DELLA GRAMMATICA

6.1. L’altra faccia del cinema: il documentario secondo Go­ dard (di Alberto Farassino) Il fatto che il primissimo film di Godard, Opération Béton del 1954, sia un classico documentario industriale, realiz­ zato su commissione e senza trasgredire alle regole e atte­ se del cliente (voce off, musica classica, esaltazione del la­ voro e dell’impresa), non può essere preso come una de­ terminante ouverture di tutta una carriera, che ne fìssa temi e tonalità, ma non deve nemmeno essere troppo sottova­ lutato. E anche a considerare, volendo essere più godardiani, che i suoi primi film siano in realtà i suoi articoli per i Cahiers du cinéma, le recensioni, o le pagine, o le citazio­ ni che egli riserva ai documentari sono tutt’altro che poche o trascurabili. Si rivelano attraverso esse alcuni amori col­ tivati assiduamente (i film di Jean Rouch) alcune scoperte anche ardite (i film del vulcanologo Harun Tazieff), e an­ che il rispetto per il mestiere (giornalistico e “dunque” cinematografico) da cui escono, ad esempio, il lungo ser­ vizio dal festival del cortometraggio di Tours o la profes­ sionale intervista a Francois Reichenbach. Certo, di questo primo Godard si ricordano anche la cri­ tica e l’ironia sulla presunta oggettività del documentario o 195

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del cinéma-verité (il documentarismo o il giornalismo tele­ visivo è una delle più belle truffe del mondo, come da sketch per l’omonimo film del 1963) e i suoi ripetuti giochi di parole sul termine stesso: “documentaire/documenteur”. Ma nello stesso tempo, fuori dal genere e dalle sue presunzioni, Godard affida alla nozione di documentario il ruolo più alto. Une femme est une femme sarà “un documentario su Anna Karina” e per rispondere alle critiche a Les Carabiniers egli non troverà di meglio che puntualizzare che nel film ogni suono corrisponde esattamente alla sua immagine: «non abbiamo mai messo il rumore di uno Heinkel sull’immagi­ ne di uno Spitfire, o una raffica di Beretta quando si vede un mitragliatore Thompson». D’altra parte è proprio a proposito di questo film che Godard pronuncia una delle sue sentenze più famose: «realismo non è mostrare come le cose sono vere, ma come sono veramente le cose». Detto questo, chi in quei primi anni sessanta avesse atteso che dalla fervida e inarrestabile attività di Godard uscisse anche qualche documentario avrebbe sbagliato di grosso. Anche nei più liberi film a episodi in cui avrebbe potuto praticarlo o awicinarvisi, come a volte facevano i suoi com­ pagni di cordata (in Paris vu par, Amore e rabbia, Loin du Viet-nam) Godard pare ancora avere troppa ricerca da fare sulle possibilità e i limiti del cinema per abbandonarsi, an­ che consapevole, all’automatismo della cinepresa. Che sem­ mai, nel diaristico Camera Eye, diventa oggetto dello sguar­ do antinarrativo, come i ciak e gli altri frammenti di realtà del set che egli lascia all’interno dei suoi film. Ma poi quel capovolgimento e paradossale incrocio di modelli che egli ha teorizzato (è Lumière il vero padre del cinema di fin­ zione mentre Méliès faceva in realtà dei documentari) di­ venta non solo un suggerimento su come debbano essere visti i suoi film e le sue storie, documentari di un set e in­ 196

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sieme ricostruzioni del mondo, ma una più netta accetta­ zione delle pratiche della scrittura documentaria. I Cinétracts del Maggio ’68 inaugurano un periodo in cui la criti­ ca di ogni messa in scena lascia ampi spazi aperti ad un fil­ mare sostanzialmente documentaristico, anche quando vie­ ne rielaborato dalle didascalie e dal montaggio. Registra­ zioni di discussioni, dichiarazioni affidate alla cinepresa, testi e discorsi teorici alla ricerca di una loro forma visiva occupano gran parte, e spesso la totalità, di film come Ven­ to dell’est, Pravda, Lotte in Italia, Vladimir et Rosa, Letter to Jane ecc. Poi, concluso il periodo militante e quando le tecniche elettroniche aprono la seconda fase, il numéro deux, della sua filmografìa, la “naturale” fluidità della tele­ camera e dei “formati” televisivi produrrà più facilmente interviste, dialoghi, monologhi, ritratti di personaggi ec­ centrici. Sono i lunghi capitoli di Sur et sous la communica­ tion: “comunicazione”, certo, non “documentazione”, e con capitoli molto elaborati e riscritti che appartengono più alla saggistica che a qualsiasi cronaca, ma in cui chi è fil­ mato ha appunto quel ruolo di vero soggetto che deve ri­ servargli un rispettoso documentarismo. E Godard continuerà, fino ad oggi, a non fare documen­ tari. Ma tra un film e l’altro, e a volte tra un film e se stes­ so, la sua filmografia si infittisce di conversazioni filmate (con Anne Marie Miéville, con Woody Alien, con Serge Daney), di video-sceneggiature; di confessioni e medita­ zioni di fronte alla cinepresa, di “storie del cinema”, che sono un continuo costeggiare, sfiorare, scavalcare il docu­ mentario, e insomma giocare con esso. E proprio nel la­ voro “in progress” delle Histoires du cinéma, che si posso­ no definire contemporaneamente un film saggio, un filmdiario, un film sperimentale, ma soprattutto un documen­ tario sulla sua personale memoria del cinema, egli non so­ lo utilizza ogni immagine del cinema del passato come re­ 197

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pertorio e dunque come documento d’archivio, ma spesso esce dalle storie del cinema per entrare nella storia del mondo attraverso documentari o riprese televisive. Perché forse il documentario non è il cinema che Godard più ama fare, ma molto probabilmente è quello che più cima vedere.

Note: p. 225 e segg.

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6.2. Note su Godard video-asta (di Adriano Aprà) All’origine delle Histoire(s) du cinema c’è una serie di “le­ zioni” tenute da Godard al Conservatoire d’Art Cinématographique di Montreal, diretto da Serge Losique, a partire dall’autunno 1978. Queste lezioni erano aperte e integrate dalla proiezione di sequenze di film suoi e altrui. La trascri­ zione delle lezioni viene pubblicata in volume nel 1980 col titolo Introduction à une veritable histoire du cinéma4. Nella premessa, Godard afferma di aver proposto a Losique «qualcosa come una coproduzione che fosse una sorta di sceneggiatura di un’eventuale serie di film intitolata: Intro­ duzione a una vera storia del cinema e della televisione, “ve­ ra” nel senso di essere fatta di immagini e di suoni e non di testi, neppure illustrati»; e aggiunge: «tanto più che aveva­ mo avuto questo progetto con Langlois», che aveva visitato Losique nel 1977. In effetti le lezioni vengono coprodotte dal Conservatoire e da Sonimage, la società di produzione di Godard, ma vengono effettuati, per mancanza di fondi da parte canadese, solo sette dei dieci viaggi inizialmente pre­ visti. Il progetto di film viene ripreso, in video, nel 1988, poi continuato nel 1994 e nel 1995, ed è tuttora in progress. Queste Histoire (s) possono essere a buon diritto considera­ te una stimma del rapporto di Godard non solo col cinema, ma anche con la televisione o, se si preferisce, col video. Fin dal 1962 Godard afferma, in un’intervista ai Cahiers du Cinema, che gli piacerebbe lavorare in televisione facendo trasmissioni «di tipo saggistico». In effetti, quando entra in crisi il suo rapporto con l’apparato tradizionale del cinema (non solo il suo linguaggio, ma anche la sua ideologia e le sue strutture di produzione, distribuzione e esercizio), è in televisione che cerca una via d’uscita. Alla fine del 1967 l’ORTF coproduce Legaisavoir, un film che, pur realizza­ lo

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to in 35 mm, può essere considerato una svolta per Godard in direzione di un rapporto didattico “di tipo saggistico” con lo spettatore. La televisione non lo trasmette e il cine­ ma lo proibisce. Godard, in quegli anni di militanza politi­ ca (1969-1970), continua a fare il giro delle televisioni eu­ ropee (Inghilterra, Francia, Italia, Germania) che coproducono, ma ancora una volta non trasmettono, British Sounds, Pravda, Lotte in Italia, Vladimir et Rosa, girati tut­ ti in 16 mm. Nel 1973, dopo aver rotto con Jean-Pierre Go­ rin, con cui aveva collaborato nel gruppo Dziga Vertov, Godard si unisce a Anne-Marie Miéville e insieme fondano Sonimage, con sede dapprima a Parigi e poco dopo a Gre­ noble, dove restano fino al 1978. Da allora vivono a Rolle, un paesino tra Ginevra e Losanna. Il rapporto di Godard col video inizia a Grenoble, con Numéro deux (1975), gira­ to in 35 mm e in video, e prosegue, solo in video stavolta, con le due serie Six fois deux/Sur et sous la communication (1976) e France/tour/detour/deux/enfants (1977-78), che sono anche le prime ad essere trasmesse in televisione. Nel passaggio di Godard dal cinema al video è cruciale l’e­ sperienza del cinema militante, come ipotesi di cinema non spettacolare ma invece didattico e saggistico. C'è molto di Rossellini, in questo. Anche Rossellini abbandona il cinema per la televisione secondo un’ipotesi didattica che mal si presta ad essere accolta dal cinema, stabilizzato come sul­ l’idea di spettacolo. I mezzi impiegati da Rossellini e Go­ dard sono certo molto diversi, ma i fini sono analoghi. Que­ sta uscita graduale di Godard dallo spettacolo (che nei film per il cinema di questo periodo si manifesta come critica dello spettacolo attraverso la critica delle star che impiega) non va intesa come rinuncia, ma come ampliamento di cam­ po. Per Godard la fiction spettacolare è un limite che il ci­ nema ha raramente messo in questione. Dando il nome di Vertov al suo gruppo, egli alludeva tanto al punto di vista 200

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politico del cineasta sovietico quanto, e forse più, al supe­ ramento sia della finzione sia del documentario, contenuta in L’uomo con la macchina da presa nonché in altri film. Volendo tracciare la genealogia di un’ipotetica linea saggi­ stica del cinema, mi viene in mente anche Ejzenstejn, ma più per certe formulazioni teoriche che per i film realizzati, non­ ché Hàxan (La stregoneria attraverso i secoli, 1922) del da­ nese Benjamin Christensen. Come tante ipotesi del cinema muto, anche questa sembra perdersi col sonoro, che stabi­ lizza la produzione sui fronti opposti, ma ben definiti, della finzione e del documentario. Nel dopoguerra, i confini tra finzione e documentario vengono messi in questione in par­ ticolare dal neorealismo, e soprattutto da Rossellini in Paisà e in Germania anno zero. E Jacques Rivette afferma, con mol­ ta preveggenza, nella famosa Lettera su Rossellini (Cahiers du Cinéma, n. 46, Aprile 1955): «C era The River (Renoir, 1950), primo poema didattico: c’è adesso Viaggio in Italia che, con una nettezza perfetta, offre finalmente al cinema, fi­ no ad ora costretto al racconto, la possibilità del saggio». In direzione sperimentale, il manifesto di un cinema che vada al di là sia della finzione sia del documentario, in direzione saggistica, e che può essere considerato un po’ il corrispetti­ vo moderno del film di Vertov , è Traité de bave et d’etemité (1951) di Isidore Isou. Non so se Godard lo abbia visto, ma certo vi si trovano sorprendenti anticipazioni del suo metodo attuale. Solo di recente si può tuttavia cogliere una tendenza coerente del cinema a muoversi in una direzione saggistica, che si incrocia con altre due tendenze: quella del cinema diaristico-autobiografìco e quella del cinema di com­ pilazione. Non pretendo di definire un campo assai fluido, ma semplicemente di indicare autori e film che si muovono in territori di confine dove le classiche definizioni di finzione e di documentario sono di poco aiuto, e che ai miei occhi sembrano avere con l’impresa di Godard molte analogie. 201

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Penso a Jean-Daniel Pollet (Méditerranée), Chris Marker (Sans soleil), Jean Cocteau (Le testament d’Orphée), Mar­ guerite Duras (Le camion), Guy Debord, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (Fortini/Cani, Trop tòt trop taid: Cézanne, Lothringen!), Boris Lehman (Le$on de vie), Eric Pauwels (Les rives du fleuve), Hans-Jiirgen Syberberg (Hitler, ein Film aus Deutschland), Jerome Hill (Film Portrait), Joris Ivens (Une histoire de vent), Dusan Makavejev (Nevinost bez zastitc, Innocence Unprotected), Michael Snow (Wàvelength, La region centrale, So is this), Hollis Frampton (Zorns Lemma) e molti autori dell’avanguardia americana detti non a caso strutturali o concettuali, Stefaan Decostere e Bill Vio­ la (che lavorano in video), Hartmut Bitomsky, Harun Farocki, Edgardo Cozarinsky (La guerre d'un seul homme), Alain Resnais (Mon onde d’Amerique, Smoking/No smoking), Johan Van der Keuken, Agnès Varda (Jacquot de Nantes), Abbas Kiarostami, Woody Allen (Zelig), Marco Ferreri (Faictz ce que vouldras); e ne dimentico. Il video è per Godard un mezzo di riflessione sulle immagi­ ni, e anche di riflessione, di ripiegamento su se stesso: per­ ché non si tratta di dire che cosa sono le immagini per ciò che esse “riflettono” della realtà, come fossero specchi, ma che cosa sono io, che cosa è il mondo, che cosa sono io nel mondo in quanto rifletto sulle immagini che mi riflettono. Nel video di Godard (ma anche nel cinema) e negli autori e nei film citati vedo in atto un tentativo assai produttivo di pensare per immagini (e per suoni), pensare con un altro lin­ guaggio che non sia quello della parola scritto-parlata, il che vuol dire anche pensare diversamente, entrando in un territorio inesplorato; fare insomma filosofìa, fare saggistica, oltre che fare romanzo o teatro, col linguaggio audio-visivo. Il video consente a Godard non solo di potersi pagare a co­ sti inferiori a quelli del cinema il lusso di una tale esplora­ zione, ma anche di avere a disposizione una tecnica elettro­ 202

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nica molto più maneggevole, elastica e “privata” del cinema. Il video taglia “ontologicamente” il cordone ombelicale che lega il cinema alla realtà, permettendo di produrre immagi­ ni che esistono di per sé: pensieri audiovisivi: il video inoltre supera le leggi del montaggio per contiguità (che Godard ha portato nel suo cinema agli estremi come montaggio-colla­ ge) aprendo il campo del montaggio per continuità: non più un’immagine dopo l’altra, ma un’immagine sopra e den­ tro l’altra, sicché dalla successione delle immagini si passa al flusso delle immagini simultanee (che i sovietici e l’under­ ground avevano tentato con il montaggio rapidissimo e la so­ vrimpressione). I video di Godard sono opere polivisive e polifoniche di straordinaria complessità che manifestano un pensiero in atto, l’atto stesso del pensiero audiovisivo, compresa l’instabilità di tale pensiero, che fluisce trasfor­ mandosi incessantemente senza che si possa arrestare; e compresa naturalmente la soggettività dell’atto di pensare, che si oggettiva nel rapporto “didattico” con lo spettatore. Tale rapporto, a sua volta, non è un rapporto assertivo ma un invito al confronto e, per così dire, al dialogo “muto” dei pensieri: poiché io che guardo e ascolto, penso in rapporto al pensiero audiovisivo che mi viene manifestato, a volte capisco e a volte non capisco (ma col video posso tornare in­ dietro e rivedere), comunque reagisco, produco a mia volta un flusso di pensiero, composto di sovrimpressioni e di la­ cune, di adesione partecipe e di interrogativi dubbiosi. E al­ la fine, ripensando, chissà che non mi venga voglia di scri­ vere una lettera audiovisiva a Godard...

Note: p. 225 e segg.

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6.3. L’idiota della manovella (di Jean-Louis Comolli)

C’era una volta... due cinema. Nemici mortali più che con­ correnti, due modi di fare cinema, due forme, due logiche, due nature. Esse si incrociano, si urtano in Les Enfants Jouentàla Russie (1994). Quella “dell’idiota” che gira la ma­ novella di un macinastorie, di un macinamemorie. Quella "dell’intelligente” che vuole arrivare là dove ci sono (ancora) delle storie per far girare l’elica della macchina da dollari. L’idiota è interpretato da Godard. L’intelligente, Jack Va­ lenti, porta il nome del potente rappresentante dell’associa­ zione dei produttori hollywoodiani, l’uomo del GATT au­ diovisivo. Il primo fa del cinema, l’altro si occupa di affari. «Faccia ciò che vuole - dice Godard - io non ci verrò». Do­ ve? In Russia, patria della fiction e di due rivoluzioni. Se queste due figure dostojevskiane - il furbo, l’idiota - at­ traversano e abitano questo film, e prima ancora di questo, altri film di Godard, a cominciare da Le Mépris e Passion, credo che sia perché incarnano due concezioni del cinema tra loro avverse. Quando, nel 1957, Jacques Toumeur gira Curse of the Demon (La notte del diavolo) si pone contro per esempio - il Lucas di Guerre stellari (1977). Quando Rossellini gira Francesco Giullare di Dio (1950) è - con trentasei anni d’anticipo - contro il Jean-Jacques Annaud de II nome della Rosa (1986). E quando Godard filma Les Carabiniers (1963), è contro, ad esempio, la serie molto più tardiva dei Rambo... La storia del cinema è piena di queste lotte a distanza e senza quartiere. Perché queste concezio­ ni del cinema sono “ad un tempo” concezioni del mondo e delle relazioni sociali: perché queste estetiche sono anche delle politiche. Così come la guerra nell’arte, la guerra nella storia del cinema non è soltanto simbolica. E anzi­ tutto economica e dunque politica. Ricordiamoci del de­ 204

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stino di Stroheim e di Welles, a Hollywood, di quello di Vertov o di Ejzenstein a Mosca, delle battaglie che essi hanno condotto, talvolta vinto, spesso perso, contro i si­ gnori degli studios o contro i nababbi della burocrazia. Due scuole di pensiero, due pratiche di cinema. Nemiche fin dal principio. In seguito, dopo altri, dopo Serge Daney, dopo le Histoires stesse di Godard, ci è sembrato sempre più evidente che l’irresistibile invenzione del cinema si in­ trecciava saldamente con i principi fondatori dei grandi miti indoeuropei. Dalla caverna alla proiezione, dal gruppo all’individuo, da un’immortalità perduta a un’eternità ri­ trovata (Le Mépris), il cinema colloca esplicitamente la di­ mensione umana tra l’irrimediabile decadenza degli eroi e l’affermazione sempre più possente delle macchine. A vol­ te “troppo umano” e mai sufficientemente meccanico, il ci­ nema è nato come cosa divisa, doppia, ibrida, mostro a due teste, chimera dilaniata da due energie contrarie. Tirando forte da una parte, il cinema-spettacolo. Dall’altra, opponendo resistenza, il cinema-scrittura. Due modi di concepire lo spettatore - cioè il soggetto del cinema, que­ sto essere fatto di desideri e di paure, di sogni e di insen­ satezze che è (in) ciascuno di noi. L’invenzione del cinema, lo ricordo, non può essere capita che come invenzione dello spettatore di cinema. I fratelli Lumière non hanno inventato nient’altro. Tutto d’altronde era stato pressap­ poco scoperto da mille inventori qua e là, tutto, fuorché lo spettatore - questo essere sociale che si sottrae volonta­ riamente allo spettacolo della vita vissuta per isolarsi, solo tra altri, in una sala oscura. E che paga il suo posto a mi­ sura del suo desiderio di vedere la vita fantomatica dipa­ narsi su di uno schermo.

Il campo da fiera ed il fìiori-campo del cinema. Molto prima che il cinema fosse inventato, lo spettacolo ambulante l’a­ 205

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veva voluto e desiderato. Il cinema era atteso nelle baracche, sulle scene, il suo posto era pronto dietro il sipario. La fiera, matrigna generosa, ha nutrito la nascente attrazione cine­ matografica dei suoi trucchi e delle sue astuzie. Essa postu­ lava uno spettatore un po’ curioso, ma non troppo, un clien­ te bighellone, rimpinzato di fantasmagorie, vagamente eb­ bro di piccole magie, e che non ha alcuna ragione di ri­ nunciare a questo posto comodo che è fatto a misura della sua pigrizia, il posto dove consumare degli effetti. Vaga, si sposta da un’attrazione ad un’altra ma non cambia il suo stato d’animo, inghiotte tutto quello che gli passa davanti, ne chiede ancora, si ingozza di sensazioni sempre più forti, dall’assuefazione, alla sazietà, fino alla nausea. Preso dal­ l’impazienza e dalla confusione delle pulsioni, questo spet­ tatore ritrova l’avidità divoratrice della prima infanzia: si tratta di “riempirsene la vista ”. Alla fiera lo spettacolo pre­ suppone uno spettatore-soggetto minorenne e minorato, la cui inquietudine va favorita, i cui desideri vanno esauditi. Tutto questo conduce ad un’estetica lineare e cumulativa (1 + 2 + 3 ...), secondo la quale gli effetti si aggiungono alla realtà senza trasformarla. Sovraccarico. La positività moz­ zafiato del “sempre di più" regola le grandi imprese dello spettacolo, che sia circo, cabaret, teatro, cinema... La seconda origine si ricollega, invece, alla storia del­ l’arte occidentale. Il cinematografo è il figlio bastardo della pittura - attraverso la fotografia - e della musica attraverso il ritmo ed il tempo. Arte dello spazio e della luce, arte del tempo e della velocità. Attraverso il rigore e la chiarezza delle sensazioni e dei significati che risultano da un lavoro di scrittura, attraverso la padronanza del campo e del fuoricampo, dell’ombra e della luce, dei ral­ lentamenti e delle accelerazioni, lo spettatore della fiera rischia di trasformarsi in spettatore di film. E il film di­ viene un labirinto nel quale ci si può anche perdere. 206

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Ogni scrittura è violenza reale, fatta al mondo, lo spetta­ colo soltanto una carezza. Presi nella trappola dello sce­ nario e del montaggio (della scrittura), la magia del cine­ ma, il potere dell’illusione cinematografica non sono più quei giochi di prestigio o quelle acrobazie che possono divertire lo sguardo sufficiente dello spettatore della fie­ ra. Essi diventano i draghi o le fate di una foresta di me­ tamorfosi, dove lo spettatore, trascinato in modo imma­ ginario, è indotto a trasformarsi (un poco) in altro da sé... In questo modo, il cinema raggiunge il più forte tra i gesti dell’arte: quello di ribaltarci dall’altra parte, dall’al­ tra parte del mondo o di noi stessi... Ciò presuppone uno spettatore maggiorenne, un soggetto dalle relazioni complesse, dalle emozioni contraddittorie, mobile, in­ somma, invitato ad occupare nel film non un posto sol­ tanto ma diversi. Situazione molteplice, precaria, mute­ vole, in cui ci può essere rischio e perdita, dove il desi­ derio si ritrova smarrito. Un’arte della trasformazione, dello spostamento, della svolta e del ritorno. Il mondo è minato da un dubbio, nella sua esistenza si apre una di­ mensione critica, come l’esistenza stessa dello spettatore immersa nel dubbio e dubbiosa nella critica. La formula estetica è stavolta sottrattiva e ricorrente (1 -1 -1...). Negatività e ripetizione. Questo tipo di cinema è, è sempre stato, minoritario, tuttavia resiste e sopravvive alla sua ri­ tuale messa a morte da parte dei saltimbanchi dello spet­ tacolo - loro che non si sono mai vergognati di parlare da dittatori, a nome delle masse. E più o meno attorno a questi motivi, io credo, che si svi­ luppa l’opera recente di Godard. Il cinema è quasi de­ funto sotto i colpi di bluff e di pubblico dello spettacolo ge­ neralizzato (Guy Debord), e tuttavia questo moribondo non cessa di volere e di dover risuscitare - perché è a lui che spetta redimere il mondo, salvarlo da tanta funesta 207

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accelerazione mercantile che è come un ultimo cerchio del nostro Inferno quotidiano dove si mescolano confusamente informazione, pubblicità, pornografìa e spettacolo. Domande. Tutta una serie di domande che non sono poste, cosa strana, che nei film di Godard. Sono domande meta­ fisiche. Niente di sorprendente, direte voi, che esse non si pongano per i film del cinema-spettacolo. Ma in Godard, sì, una voce, quella dell’autore o quella di uno dei suoi per­ sonaggi, folgoranti e transitori ci domanda di tanto in tan­ to: cos’è un’immagine? Delle immagini? Cos’è un suono? Cos’è una parola? Devo dire che sono domande terribili proprio per la loro chiarezza. Domande che presuppon­ gono altrettante risposte. Godard domanda, gira la mano­ vella senza fine delle domande, ma a queste domande, egli dà - possibile dare ciò che non si ha? - delle risposte. Non desidero stare all’inebriante gioco dialettico secondo il quale queste risposte sono a loro volta altrettante do­ mande. No. Queste risposte rispondono. Esse rispondono perché ci domandano, a noi spettatori, cosa siano una o più immagini, uno o più suoni, una o più parole nel film, in questo film di Godard che stiamo ve­ dendo. E al di là e al di qua di questo film, nel film, nello spazio-tempo peculiari del cinema, poiché nel cinema, né le risposte né le domande sono date come “nella vita”.

Suoni. Cos’è un suono nel cinema come lo pensa e l’ottie­ ne Godard? Funzione estatica del suono. E ciò che fa uscire le immagini fuori da se stesse, ciò che, transitando per queste, le attraversa, le trapassa di tutti i possibili loro aspetti esteriori, ai quali esse non si ancorano più, non si ri­ feriscono più. Ecco perché questi suoni, voci, rumori, fan­ no l’effetto più realistico. Qualcosa del mondo che non ne potrebbe essere lo spettacolo attraversa il film. Rumori 208

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della realtà, cose non pensate dal pensiero delle macchine. Prendiamo l’esempio della sequenza finale de Les enfants Jouentàia Russie. Troppo umano, questo idiota (Godard), a girare instancabilmente la manovella d’una macchina scassata che fa un rumore d’infanzia, il rumore di raganel­ la di un macinino che macina i grani del tempo. Sottoposta a questo gesto da tornitore, sospinta fuori da se stessa da questo suono di cartoon o di burlesque, la macchina-cinema è richiamata alla sua condizione iniziale molto umana, rinviata alle sue origini avventurose, alla materialità dei suoi ingranaggi. Essa ci viene restituita nella sua preca­ rietà, miseria, proprio quando le cinecamere sono diven­ tate agili, leggere e silenziose; questo momento è anche quello in cui il corpo metallico della macchina, il corpo chimico della pellicola e perfino il corpo magnetico del na­ stro video cedono, abbandonano il posto dinanzi alla mac­ china assoluta, quella che virtualmente fabbrica il corpo senza corpo, le immagini senza sguardo, un mondo levi­ gato e (quasi) perfetto, sbarazzato com’è dagli intoppi del reale, aperto a tutte le prospettive, elevato infine a potere d’ubiquità della visione divina. Questa è la storia di un suono nel cinema di Godard, voglio dire il passato, il pre­ sente e il futuro di questo suono che si verifica contempo­ raneamente nel tempo della ripresa (l’iscrizione vera, con i suoi effetti di reale, come quella giacca troppo grande del cineasta che s’apre mentre il gomito sfrega contro la ma­ novella...), nel tempo della storia del cinema (i primi ope­ ratori scandivano il giro della mano al ritmo dell’aria “Sambre et Meuse”), nel tempo della guerra (la mitraglia­ trice) e nel dopoguerra (il macinino domestico per l’orzo e poi per il caffè). Un suono. In un film.

Parole. Parliamo di parole. Di tutto il cinema conosciuto dopo il tempo del muto, il cinema di Godard è certamen­ 209

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te quello nel quale le parole tornano più spesso sullo schermo. Parole filmate. Parole di film. Come a quello del pittore (Picabia, Magritte) o del poeta (Mallarmé, Apollinaire), le parole si rivolgono all’occhio del cineasta, hanno una forma, un profilo, una vibrazione, un’intensità proprie. Le parole sono nell’immagine, intrecciate d’im­ magini, l’immagine è nelle parole, fra le parole. Le parole filmate in trasparenza, scritte, scolpite, su un fondo, su uno schermo, vengono sempre a interrompere lo scorrere del film, a sospenderlo, a fermarlo... per, riprendendo slan­ cio da questo arresto, rilanciarlo. Nello stesso modo queste parole filmate hanno imparato a giocare con il movimento nel cinema di Vertov e di Eizenstein. Il tempo sensibile della lettura di una parola, d una frase filmata, intercalan­ dosi nel movimento del film, mobilita in altro modo lo spettatore, lo costringe, e talvolta con violenza, a staccarsi dal filo della proiezione. Il passaggio attraverso la lettura scompagina il fluire delle fusioni emotive. Si segna una distanza, alla maniera degli annunci brechtiani: allonta­ namento, rapporto, ripresa. Ciò che scorre, fermarlo. Ciò che si arresta, rimetterlo in movimento. Nell’insistenza di queste parole - fisse, sebbene debolmente animate: un ca­ rattere che cambia, una lettera che scompare o che lam­ peggia, un’enfasi, uno scarto - io vedo il segno più signifi­ cativo dell’operazione godardiana. Che si ritrova ad essere anche, è forse un caso? l’operazione stessa della cinemagia... Passare dall’animato all’inanimato e dalla morte alla vita, attraverso la suspence di ciò che è fisso. Il cinema è stato accreditato dai suoi primi spettatori (i suoi fondatori) della più radicale tra le operazioni dei sensi: quella che consiste nel (ri)dare vita a ciò che sembra morto. Le im­ magini reagiranno a partire da quel punto come le parole filmate: fermate, riprese, bloccate, rilanciate, rivivificate proprio perché sono restate per un attimo fisse. Movi210

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mento/arresto, ciò serve perché una cosa esista nel cinema, un’impressione, un sentimento, un segno, un’emozione, che esca dal suo contrario o che vi ritorni. Godard riesce ad ottenere ciò - come in L’uomo con la macchina da presa, modello del cinema godardiano, - con l’animazione e la rianimazione di ciò che è stato sospeso e tenuto in una fissità che sbarra ostinatamente il movimen­ to continuo della pellicola, del suo incedere inesorabile, fo­ togramma dopo fotogramma. Con la scrittura delle parole così come con l’ammiccare delle immagini - fotografie fil­ mate, fotogrammi filmati di nuovo, frammenti di piani fis­ si, citazioni di scene al rallentatore, a sobbalzi e a scossoni - si tratta per Godard come per Vertov di riportare la morte del fotogramma dentro il corpo in movimento del film per ottenere il suo contrario, per riprodurre piano dopo piano l’ordinario miracolo della proiezione - ridare vita a quella cosa inerte che è il nastro di pellicola. L’arre­ sto sulla parola o sull immagine è dunque il modo di rea­ lizzare l’ambizione demiurgica del cinema: non imitare la vita o riprodurla, bensì ricrearla.

Immagini. Cos’è dunque un’immagine? O meglio ancora, come dice e ridice Godard, cosa sono delle immagini? Immagini, sempre al plurale. Si tratta evidentemente della prima diversità tra cinema e fotografia. Anche una sola foto potrebbe bastare a fondare e concludere la fotografìa. Occorrono invece almeno ventiquattro fotogrammi per fare un secondo di cinema. Isolato dagli altri, un foto­ gramma non è che un’immagine. Si fa del cinema solo quando questi fotogrammi, suites di immagini inerti e in­ significanti, si mettono a passare attraverso la finestra del­ la cinecamera o quella del proiettore, vale a dire, in ultima istanza, sullo schermo della mente dello spettatore. Passa­ re, essere proiettate? Sì, ma le une con e dentro le altre. 211

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Ogni sequenza di immagini è già montaggio, gioco seriale, cascata di concatenazioni, giustapposizione, opposizione, collage. Un’immagine in un film è sempre allo stesso tem­ po la traccia di quelle che la precedono e di quelle che le succedono. Non esiste un’immagine nubile nel cinema. E (nella sostanza) ciò che si affanna a dirci l’idiota alla ma­ novella. «Bisognerebbe intendersi sulla parola immagine5, immagine è un rapporto... se lo spettatore guarda sola­ mente il mio viso, non è un’immagine, è una Polaroid... Un’immagine è fatta di due cose distanti che ravviciniamo o di due cose vicine che allontaniamo...». Avvicinare, allontanare = mettere in relazione, costruire un rapporto. Al cinema le immagini entrano in rapporto le une con le altre, si incontrano, si rilanciano, si dimentica­ no, si ricordano le une delle altre. Esse formano sequenze, insiemi, trame, motivi da tappezzeria, figure da puzzle, arabeschi da labirinto. Perché? Nessuno (neppure chi cu­ ra il montaggio) ha mai veduto un film intero immagine per immagine. Possiamo fare degli arresti sull’immagine, dei prelievi di immagine, delle citazioni, dei tagli. Ma far sfilare tutto un film immagine per immagine, vederlo fo­ togramma dopo fotogramma sarebbe porre fine, precisamente, all’operazione cinemagica in quanto tale - quella della proiezione che, di volta in volta animandole e cancel­ landole, pone il destino delle immagini sotto il segno della sostituzione. Se le immagini di un film si riconoscono e si combinano, è proprio perché esse si scambiano l’una con l’altra. Ciascun fotogramma ad un tempo prolunga ed an­ nulla il precedente, annuncia il successivo e scompare in esso. E non è il rettangolo di tela bianca teso sopra un muro cieco a portare traccia e memoria di questo conca­ tenazione fatale. Soltanto lo schermo della mente dello spettatore raccoglie tra le sue pieghe le tracce di vita e di morte delle immagini di un film. C’è nel cinema di Godard 212

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una viva consapevolezza che le immagini cinematografiche siano da sempre in uno stato di sospensione condizionale. Mostrare delle immagini è questione di vita o di morte. E appunto al cinema che le immagini vivono, cioè nascono, muoiono e resuscitano. Altrove, nei mass-media, le im­ magini si accumulano senza fine, senza storia, eternamen­ te nubili, innumerevoli, sole e abbandonate. Il lavoro pa­ ziente del cineasta idiota che gira la manovella è quello di riannodare queste immagini perdute con il filo cinemato­ grafico che può, solo lui, consentire di ridar loro vita, cioè emozione, bellezza, senso. E qui che il cineasta si sostitui­ sce allo spettatore, si mette al suo posto. Fa, al posto dello spettatore, vibrare lo schermo della mente. Le associazioni, le sovrapposizioni, le fissazioni, i rallentamenti e le accele­ razioni di immagini che sono al lavoro (per esempio) in Les enfants jouent à la Russie sono la rappresentazione di quello che avviene - o dovrebbe avvenire - nella testa di ciascuno spettatore. Ma il mondo non è più ormai che una raccolta di tracce. Una polvere fatta di cose e di vita che nessuno riesce piò a raccogliere o a scacciare, che ti si appiccica alla pelle, alla testa. Di questo mondo, che lo spettacolo stesso ha fatto esplodere in innumerevoli scheg­ ge abbaglianti, Godard vuole rimettere insieme i fram­ menti. Montare = rimettere insieme ciò che è stato di­ sperso e scollato dalla vita, dall’usura, dal tempo, dal de­ naro, dall’oblio, dalla violenza... Conflitto costantemente rappresentato nei film di Godard tra una concezione del montaggio in quanto operazione assolutamente immagi­ naria - immaginifica, immaginata, immaginaria - ed il montaggio effettivamente realizzato che fissa questo mon­ taggio immaginario. L’ultimo gesto utile del cineasta po­ trebbe essere quello di riaprire il gioco, di restituire le fluttuazioni dell’incompiuto a ciò che egli realizza al posto dello spettatore, di ciascuno di noi. E appunto il ruolo 213

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dell’idiota alla manovella. Fare un’opera disfatta, spezzata, sperduta perchè uno spettatore la riprenda e la rimetta in gioco - in un mondo nel quale non c’è altro che spezzoni di immagini e briciole di parole; del quale non ci resta al­ tro che estratti, citazioni, campionature, dei clips, un mon­ do nel quale la polvere atomizzata dello spettacolo ha ri­ coperto tutto ed ha tutto appannato. La manovella gira. Tracce diseredate di ogni memoria, ricordi di una memoria dimenticata, memoria perduta e ritrovata di tutti gli altri, che diventa, ultima magia del cinematografo, la mia.

Note: p. 225 e segg.

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7. JEAN GIONO CINEASTA

7.1. Giono scrittore-cineasta (di Jacques Meny) Jean Giono nasce nel 1895, lo stesso anno del cinemato­ grafo, e il cinema lo interesserà tutta la vita, prima come spettatore, poi come creatore. Fin dalla pubblicazione e dal successo di Colline, nel 1929, riceve proposte da parte di produttori e cineasti che chiedono i diritti per adattare i suoi romanzi o i suoi soggetti originali. Egli accoglie queste richieste favorevolmente perché sente che può fare qual­ cosa con il cinema anche se non gli accorderà mai la prio­ rità sul suo lavoro di scrittore. E così che, per quaranta anni, Giono sarà di volta in volta sceneggiatore, dialoghista, adattatore dei suoi romanzi, ma anche di Jules Verne o Jiménez, autore di cortometraggi, produttore, e infine regista con Crésus, sua unica realizza­ zione cinematografica, nel 1960. Egli ha lasciato un nume­ ro cospicuo di soggetti che non sono mai stati girati e che costituiscono un insieme straordinario di variazioni su epi­ sodi, personaggi, temi, ripresi dalla sua opera romanzesca. Giono si preoccupa allora di trovare una forma cinemato­ grafica che gli permetta di raggiungere lo spettatore nella parte più profonda del suo essere, di fargli condividere la sua propria visione soggettiva della realtà. Se il cinema 215

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l’attira e lo affascina, sa anche che non lo padroneggia co­ me la scrittura. Da qui segue una serie di slanci e di dubbi, d’entusiasmi e di scoraggiamenti. Le sue idee sul cinema lo collocano più dalla parte delle ricerche sperimentali del­ l’avanguardia che della produzione comune e quando po­ trà, infine, a 65 anni debuttare nella regia, sarà sulla scia della Nouvelle Vague. Giono scrive Le signe du soleil, la sua prima sceneggiatura originale, nel 1932, con Alberto Cavalcanti e il musicista Maurice Jaubert. Due anni dopo, Marcel Pagnol gira Jofroi e Angèle, tratto dal romanzo di Giono Un de Baumugnes. Il romanziere non ama questi film, e non apprezzerà nem­ meno Regain e La femme du boulanger. E probabilmente per mostrare a Pagnol ciò che avrebbe potuto essere "il ci­ nema di Giono” che lo scrittore sogna di passare dietro la macchina da presa. Nel 1942 scrive un bell’adattamento del suo romanzo Le chant du monde, ne prepara le riprese con passione ma ancora una volta il sogno si infrange di fronte all’incomprensione di un produttore. Bisogna aspettare il 1955 per vederlo infine all’opera co­ me cineasta. Dopo essersi concentrato per dieci anni uni­ camente sulla propria creazione letteraria e aver prodotto una serie di capolavori fra cui Les Ames fortes e Le Hussard sur le toit, Giono si sente ormai più disponibile per il cinema. Scrive la sceneggiatura di L’eau vive realizzato da Francois Villiers che sarà presentato al Festival di Can­ nes nel 1958. Jean Lue Godard e Francois Truffaut salu­ tano le qualità di una sceneggiatura dedicata ai lavori di pianificazione territoriale della Durance e alla costruzione della diga di Serre-Pongon da parte della società elettrica francese (Electricité de France). Il successo del film inco­ raggia Giono a perseguire l’avventura cinematografica con due cortometraggi: Le foulard de Smyme e La Du­ chesse, in cui preconizza una forma di regia a cui pensa da 216

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molto tempo: non mostrare mai il viso dei personaggi e mettere la macchina da presa al posto del loro sguardo. Nel 1959 crea una sua propria casa di produzione con l’attrice Andrée Debar e si lancia, questa volta da solo, nella realizzazione di Crésus con Femandel. Questo strano film è considerato oggi per il suo valore effettivo ma, nel 1960, il suo parziale insuccesso commerciale e la mite ac­ coglienza della critica lascia Giono amareggiato e deluso. Crésus che Giono, circondato da Claude Pinoteau, Ber­ nard Paul e Costa-Gravas, girerà nella primavera del 1960, è un soggetto originale concepito per Femandel il quale supportava con il proprio credito di popolarità la giova­ nissima società di “Films Jean Giono”. Giono ci si dedica con entusiasmo: eccolo alla fine in grado di fare un film che sia suo. Paradossalmente, in parte a causa della schiac­ ciante presenza di Femandel, il film fu accolto male e po­ co capito al momento della sua uscita: in questo episodio in cui alcuni vogliono vedere soltanto un’impresa com­ merciale, altri credono di individuare un tentativo di emu­ lazione dei successi di Pagnol; quanto al pubblico, è scon­ certato da un film molto lontano da quelli interpretati abi­ tualmente dal celebre attore. L’ombra di Pagnol può sem­ brare incombere su un film che tuttavia gli è compietamente estraneo. Certo, oltre Femandel, Giono fa interve­ nire nel suo racconto dei personaggi generalmente assenti dalla sua opera e che appartengono al “piccolo mondo” di Pagnol, come il curato o il maestro, in questo caso una maestra. E una malizia nei confronti di Pagnol a cui Giono vorrebbe mostrare ciò che egli può fare al cinema? Il ma­ linteso della critica è totale ed è una nota dei Cahiers du cinéma che renderà miglior giustizia a un film che da qua­ ranta anni, in occasione dei suoi regolari passaggi alla te­ levisione, non ha smesso di essere rivalutato. Ecco che co­ sa dice la critica dei Cahiers du cinéma: che Crésus possie­ 217

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de “un fascino sconosciuto al cinema francese, Cocteau escluso”, che questo film “misterioso”, enigmatico come le “cronache romanzesche” di Giono stesso, «sembra un’in­ carnazione del Nulla, dell’opera senza scopo, contempo­ raneamente un miscuglio concertato di favola con una do­ minate teatrale e di analisi minuziosa dei comportamenti e dei modi di parlare degli uomini». Crésus in cui l’aridità dei paesaggi si accorda all’astrattezza dei temi è un “ac­ cattivante trompe-l’oeH". In effetti dietro l’aspetto “meridionale” del film, in appa­ renza lontano dall’universo romanzesco di Giono del do­ poguerra, la sceneggiatura tratta - in tono minore - dei te­ mi che ossessionano l’autore, dei temi metafisici, come quella interrogazione sullo “zero” che comincia a svilup­ parsi qui e sarà al centro, dieci anni più tardi, del suo ulti­ mo libro L’iris de Suse. Sotto la farsa si nasconde una pa­ rabola francescana sulla rinuncia ai beni materiali per ac­ cedere alla felicità e il tragico non è mai lontano da questa ricerca della generosità resa impossibile in un mondo do­ minato dall’egoismo. Come la guerra e il colera, il denaro è qui un aspetto del Male e Giono se ne serve, come si era servito del colera in Le Hussard sur le toit, per ingrandire i difetti di una umanità osservata senza indulgenza. Giono rivolta come un guanto la gentilezza del mondo di Pagnol e la sua propria utopia umanista, invertendo il significato del banchetto di Que ma joie demeure, passando dalla fra­ ternità alla discordia tra gli uomini messi a confronto con l’assurdità del mondo rivelata dalla profusione del denaro. E il significato della sequenza del pranzo sulla montagna, dell’odio annidate nel fondo di ogni essere umano. Giono che non è mai stato a suo agio né esperto nella scrit­ tura teatrale, si rivela in Crésus un dialoghista prodigioso, conferendo una verità e una comicità straordinarie nel più astratto scambio di battute verso la fine come nella scena in 218

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cui Jules-Crésus fa visita alla sua vecchia maestra per sape­ re a che cosa «servono gli zeri». Anche in quel caso siamo agli antipodi del naturalismo di Pagnol e in effetti vicini a Ionesco. Per questo motivo Crésus è, per Giono, un film sperimentale: egli vuol vedere se “funziona”. Il suo giubilo a girare questo film fu uguale soltanto alla delusione per lo scacco subito dalla critica e l’insuccesso commerciale che spiegano, in parte, gli esacerbati propositi, come furono i suoi in seguito, nei confronti del cinema in generale e di questa esperienza in particolare. Giono se la prese in particolar modo con i giovani critici della Nouvelle Vague che tuttavia lo riconobbero come uno di loro, poiché operava come un autore completo (produttore, autore, regista) in margine al sistema, sebbene distribuito dalla Gaumont. Giono non realizzerà altri film ma dimostrerà di essere ancor più regista nel suo film successivo Un roi sans di­ vertissement la cui sceneggiatura è una partitura cinema­ tografica di cui Leterrier alla regia e Badai alla macchina da presa saranno interpreti come può esserlo il direttore d’orchestra di un pezzo musicale. Adattando il suo capolavoro scritto nel 1946, Giono unico autore di soggetto e dialoghi, scriverà così “tutta la regia” come per il suo Découpage technique du Chant du monde del 1942. In questo film ambizioso, il più importante della filmo­ grafìa di Giono, egli richiede l’uso del colore come mezzo d’espressione drammatica. La qualità estetica del film - di­ ventato poi un “film culto” - per Giono non compensa il fallimento da un punto di vista commerciale. Vecchio e già malato pensa ancora a qualche progetto ma la passione non c’è più e il cinema diventa per lui il bersaglio di attac­ chi che traducono un amore deluso e contrastato per l’u­ nica arte che l’abbia davvero interessato al di fuori della letteratura, come creatore. 219

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Dalla sua scomparsa nel 1970, i suoi romanzi e le sue no­ velle sono diventati l’oggetto di numerosi adattamenti per la televisione e il cinema, fra cui il famoso film d’anima­ zione di Frédéric Back, L’homme qui piantati des arbres (1987). Prima di quello de Les Ames fortes, realizzato da Raoul Ruiz su una sceneggiatura diretta da Alexandre Astruc, c’è l’adattamento di Le Hussard sur le toit di Jean Paul Rappenau nel 1995 che rimetterà Giono al centro dell’attualità cinematografica. Ancora oggi non si può che sottoscrivere il giudizio che Francois Truffaut esprimeva a proposito di L’Eau vive'. «questa sceneggiatura fine, con un tono preciso, dà un’i­ dea piuttosto esaltante di ciò che Giono avrebbe potuto portare nel cinema francese». Ma per quanto ricco sia sta­ to, l’appuntamento di Giono con il cinema non conobbe mai un vero e proprio compimento. A lungo negletta, considerata minore e marginale rispetto alla sua creazione letteraria, l’opera cinematografica di Gio­ no, sempre più conosciuta e apprezzata, merita tuttavia l’attenzione che le è stata infine accordata. Inseparabile dall’insieme del suo percorso artistico, è veramente indi­ spensabile per una conoscenza completa del suo immagi­ nario.

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7.2. Scrittura e cinema6 (di J. Giono)

Tutti gli strumenti che servono a raccontare una storia mi interessano. E in primo luogo, naturalmente, la scrittura (o la parola: non c’è che una leggera differenza tra le due). Ogni parola fa avanzare il racconto fornendogli un colore, una luce, un odore, una forma, un senso, una qualità, ecc. Ma la parola non è che un segno. Scrivere è creare un fenomeno a partire da elementi alge­ brici. E stato necessario, ben inteso, stabilire preventiva­ mente il valore dei segni. Ma questo valore non è mai sol­ tanto una convenzione. Quando scrivo la parola «bianco», per esempio, l’assemblaggio delle lettere che la formano non ha alcun rapporto diretto con il senso che il termine esprime, e altrettanto accade quando scrivo la parola «ros­ so». Abbiamo semplicemente deciso e convenuto, una buo­ na volta per tutte, che queste lettere assemblate in que­ st’ordine designeranno il colore dato dalla mistura di sette colori del prisma e che le lettere assemblate nell’ordine per cui possiamo leggere «rosso» designeranno il settimo colore del prisma. E così via. Ma si scorge immediatamen­ te che questo «e così via» non ci porta molto lontano. Se pongo, per esempio, la parola «bianco» o la parola «rosso» dopo la parola «bandiera», ecco che la mia nozio­ ne del colore (su cui avevamo concordato) si carica di un senso nuovo (rispetto al quale non abbiamo affatto con­ venuto, ma che pure ora ben conviene all’occasione): al co­ lore, ecco che si aggiungono i sensi di disfatta, di resa, forse di codardia, o di viltà, o di tradimento, di «ultime cartucce» [...] e così all’infinito; mentre per ciò che con­ cerne il rosso assumerà il senso di socialismo, di Mosca, di Siberia, di «un avvenire felice» o forse persino di Cina, di 221

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Albania, «pericolo giallo», «bomba atomica», e chissà co­ s’altro ancora, parimenti all’infinito. Ecco una complica­ zione succulenta! Si comprende come lo strumento sia sottile e capace, quando lo si conosce bene, di andare fino al fondo di tut­ ti i segreti. Da ciò è facile immaginare il piacere di scrivere. L’immagine che impiega il cinema procede in un altro mo­ do. Prendiamone una isolatamente: essa è già in se stessa un pacchetto di parole, e basta che un solo oggetto si muova o che un essere animato si sposti in essa perché i verbi si mettano subito a coniugarsi in tutti i tempi e se­ condo tutte le persone verbali. L’immagine possiede così delle accelerazioni folgoranti (che conducono talvolta il neofita verso un esito tragico, oppure, per quanto contro la sua volontà, all’ispirazione). Ora, non è più attraverso le parole, ma attraverso le immagini che il racconto avanza. I vantaggi dell’algebra sono abbandonati: non più segni, ma le cose stesse. Se voglio «l’armata di Cesare», non mi basteranno le tre parole che ho appena scritto, ma sarà per me indispensabile reclutare qualche migliaio d’uomini (o almeno qualche centinaio), vestirli, armarli, disporli in una pianura (o in collina, tra gli alberi) e infine (non sono Ce­ sare) giocare d’astuzia, mettere in gioco dei trucchi, non più con il senso delle cose, ma con la materia stessa. [contìnua]

Note: p. 225 e segg.

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7.3. Qualche riflessione sul cinema7 (di Jean Giono) Se pubblico ciò che in gergo si chiama uno script è per far ben comprendere la differenza che esiste tra un testo sem­ plicemente "scritto" e un testo "scritto per il cinema". Continuamente leggiamo nei giornali, specializzati o meno, le dichiarazioni di certi giovani Turchi [jeunes Tnrcs] che annunciano alla popolazione sbalordita che hanno preferi­ to (per esprimersi) «la caméra an stylo». Non c'è alcun rap­ porto tra una macchina da presa e una penna; è come se di­ cessero, dunque, che preferisco il babà al rum rispetto alla locomotiva. Scrivere è un'arte: filmare è un'industria. Il la­ voro a penna è ben più complesso del lavoro con la mac­ china da presa: scegliere quest'ultima non è un fatto d'armi, è semplicemente scegliere la via più semplice. Del resto, non si scrive affatto con una penna, si scrive con una can­ nuccia, cosa che i giovani Turchi ignorano, dato che tutto ciò che conoscono in quest'arte è la fotografia di He­ mingway che batte alla macchina da scrivere. S'immagina­ no che il compimento massimo dell'arte; e credono di an­ dare persino più lontano scegliendo la macchina da presa. Per coloro che sanno scrivere (e sanno cosa significa scri­ vere) la macchina da presa è lo strumento più maldestro e stupido che ci sia; esprimere una sottigliezza con questo strumento è sempre un lavoro da ginnasta professionista e da contorsionista; e vi costa sempre molto denaro. Senza soldi niente macchina da presa. La macchina da presa non si abbuffa affatto di pellicola", ma di argento, di denaro. La pellicola è argento8. Il cinematografo è il mezzo per fare immagini con il denaro. L'arte di scrivere (con una cannuccia) è l'arte di fare delle immagini per proprio con­ to; è molto più complicato, più "sportivo", più sano e più onesto: non si ingaggia che se stessi, in questo senso non si 223

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fanno mai dei fallimenti (finanziari), non ci si infastidisce con le cambiali, non si hanno stati-maggiori e non si arriva alla prima pagina dei giornali che a forza di emorragie so­ litarie. Bisogna avere coraggio. I "giovani Turchi" di cui parlo, non hanno coraggio ma possiedono tutti per contro il complesso di Napoleone; prima d'aver fatto qualsiasi cosa, è necessario consentirsi di galoppare nei quadri di Meissonnier. Non appena han­ no fatto qualcosa (qualunque sia) ecco allora entra in gio­ co il complesso di Alessandro: non ci sono abbastanza al­ lori in Grecia per le corone che essi intrecciano, che si in­ trecciano per loro, che si fanno intrecciare. Si è talmente avvezzi alla loro nullità che non appena hanno una picco­ la idea si grida al genio. Che cos'è un regista (metteur en scène)? Facciamo appello a La Palice (si è così sicuri di non sba­ gliare). E «colui che mette in scena». Mette in scena che co­ sa? Una cosa "scritta" o una cosa "scritta per il cinema". E raramente l'autore della cosa scritta, non ne è che l'adatta­ tore. Quando ne è anche l'autore, la sua messa in scena non diviene che un cambiamento di sintassi e di vocabolario. [continua]

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Note:

1 Jacques Bontemps, Cahiers du cinéma, il 171, ottobre 1965, p. 4; ri­ preso in G. Spagnolettì e G. De Vincenti (eds.), Il nuovo cinema ieri e oggi, Pesaro Film Festival, 2001. 2 Si veda Jameson [1992,158]; Fontanille [1995]. 3 Ricordiamo che nel 2001 il Festival dei Popoli ha dedicato una sera­ ta al "caso Giono", con la proiezione di Cresus e un documentario di Jacques Meny (Le mistère Giono, 1995). 4 Jean-Luc Godard, Introduction à une véritable histoire du cinéma, Pa­ ris, Albatros; trad. it. Introduzione alla vera storia del cinema, Roma, Editori Riuniti, 1982, nuova ed. 1992. 5 Tratta dalla conversazione che accompagnava la presentazione alla Televisione Svizzera Romanda de Les Enfants jouent à la Russie. 6 Tratto da Jean Giono, CEuvre cinématographiques, 1,1938-1959 (a cu­ ra di Jacques Meny), Paris, Gallimard/Cahiers du cinéma. 7 Tratto da Jean Giono, Crésus. Livre de conduite du metteur en scène, Manosque, 1961, pp. 7-11. 8 Doppio senso di argent come denaro e come metallo, intraducibile in italiano.

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