Filosofia prima. Introduzione a una filosofia del «quasi»
 8871867866, 9788871867861

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Nato a Bourges da genitori ebrei russi im­ migrati in Francia, Vladimir Jankélévitch (1903-1985) insegnò all'Istituto francese di Praga e all'Università di Tolosa e di Lille. Dal 1951 al 1977 fu titolare della cattedra di Filosofia Morale alla Sorbona. Tra le sue opere principali tradotte in Ita­ lia: L'ironia (1996), La musica e l'ineffabi­ le (1998), La morte (2009), Il non-so-che e il quasi-niente (2011), Da qualche parte nell'incompiuto (2012),

ISBN 978-88-7186-786-1

Euro 25,00

Nato a Bourges da genitori ebrei russi im­ migrati in Francia, Vladimir Jankélévitch (1903-1985) insegnò all'Istituto francese di Praga e all'Università di Tolosa e di Lille. Dal 1951 al 1977 fu titolare della cattedra di Filosofia Morale alla Sorbona. Tra le sue opere principali tradotte in Ita­ lia: L'ironia (1996), La musica e l'ineffabi­ le (1998), La morte (2009), Il non-so-che e il quasi-niente (2011), Da qualche parte nell'incompiuto (2012),

ISBN 978-88-7186-786-1

Euro 25,00

JANKÉLÉVITCH , VLADIMIR Filosofia prima Introduzione a una filosofia del "quasi" ; A cura e con un saggio introduttivo di Lucio Saviani Traduzione di Francesco Fògliotti Bergamo: Moretti&Vitali, [2020]. 312 pp.; 21 cm. (Narrazioni della conoscenza. Andar per storie; 64) I. Jankélévitch, Vladimir II. Saviani, Lucio III. Fogliotti, Francesco CDD (ed. 21.): 194, ISBN 978 88 7i86 786 1 Edizione originale francese: Philosophie première. Introduction à une philosophie du «presque», Quadrige/PUF, Paris; Presses Universitaires de France, 1953. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di spe­ cifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail segretari'[email protected] e sito web www.aidro.org.

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Vladimir J ankélévitch

Filosofia prima Introduzione a una filosofia del "quasi" A cura e ·con un saggio introduttivo di Lucio Saviani Traduzione di Francesco Fogliotti

Moretti&Vitali

SOMMARIO

Introduzione Filosofia prima: metafisica concreta e dissonante trascendenza di Lucio Saviani

9

24

Nota di traduzione FILOSOFIA PRIMA

CAPITOLO I Dall'empiria alla metempiria

27

CAPITOLO II Il problema dell'origine radicale

58

CAPITOLOill Della morte

76

CAPITOLO IV La nichilizzazione delle essenze

93

CAPITOLO V Su un totalmente-altro ordine

112

CAPITOLO VI La via negativa

133

7

CAPITOLO VII Il Lui-stesso

160

CAPITOLO VIII Il non-so-che

178

CAPITOLO IX La creazione

212

CAPITOLO X L'uomo

282

INTRODUZIONE Filosofia prima: metafisica concreta e dissonante trascendenza di Lucio Saviani

Philosophie première è l'opera più complessa, di maggiore in­ tensità speculativa, attraversata da una tensione teoretica decisiva all'interno del percorso filosofico di Vladimir Jankélévitch. "La mia metafisica", come lo stesso Jankélévitch ebbe a definirla.1 Pubblica­ to nel 1954, il libro viene qui tradotto per la prima volta in italiano.2 "Cosa ha voluto dire Jankélévitch intitolando il suo libro Philo­ sophie première?", è la domanda con cuiJean Wahl iniziava il suo lungo articolo, che è in verità un molto denso e articolato saggio critico, dedicato al libro di Jankélévitch e pubblicato nel 1955 sulla Revue de Métaphysique et de Morale.3 Poco prima della domanda, Wahl sottolinea: "L'istante, scrive Jankélévitch, somiglia alla filoso­ fia stessa che esiste appena, ossia non esiste che a sorpresa e quando 1 2

3

V. Jankélévitch, Une vie en toutes lettres, L. Levi, Paris, 1995, p. 325 Rimandi, citazioni, parziali traduzioni (singole espressioni, qualche pagina o paragrafo, un capitolo) sono apparsi in italiano negli ultimi decenni del secolo scorso, in particolar modo nelle Introduzioni di Enrica Lisciani-Petrini ai testi diJankélévitch nelle edizioni da lei curate (citate nelle note a seguire) e in "aut­ aut" n. 270 (1995). Nel numero 219 di "aut aut" (1987) c'è una traduzione del cap. VI, "La voie négative", a opera di Gianfranco Gabetta. Da me tradotti e commentati sono apparsi "Soudaneité" in �Anterem" n. 70 (2005) e la prima parte di "De l' empirie à la métempirie" nel mio Ludus Mundi. Idea della filoso­ fia, Moretti&Vitali, Bergamo 2017. J. Wahl, La philosophie première de V Jankélévitch, in "Revue de Métaphysi­ que et de Morale", 60e Année, n. 1/2 (Janvier-Juin 1955), Presses Universitaires de France, 1955, pp. 161-217.

9

si distoglie lo sguardo. È dunque un'impresa doppiamente para­ dossale quella di non distogliersi da chi si distoglie o, al massimo, di battere le ciglia guardando un pensatore. che batte le ciglia" .4 Dal paradosso, dall'ambivalenza, anche dal pe'culiare movimento fatto di cadenze, ritorni, temi e variazioni che sono tipici del pensiero e dello stile di scrittura diJankélévitch, prende dunque avvio il com­ mento diJean Wahl, sul quale tra breve torneremo. Intanto, è un qualcosa di paradossale, anch'esso una sorta di détournement, che il lettore avverte aprendo Filosofia prima. Il libro non obbedisce, come invece si è soliti attendersi davanti a un testo filosofico, alle regole quasi architetturali di costruzione logica, in cui ciascun elemento è sistemato al posto ad esso asse­ gnato. Nello stile di pensiero e di scrittura filosofica diJankélévitch non c'è più un modello spaziale, dai limiti ben definiti tra elementi tra loro esteriori, ma è all'opera un modello temporale, secondo il quale i diversi elementi non sono più esteriori e dunque, propria­ mente, nemmeno più elementi, ma sono fusi insieme, legati, come effetto di un movimento di fascinazione che li attraversa. Un mo­ dello temporale o, piuttosto, come scrive François Coadou, "per riprendere un vocabolario bergsoniano, un modello durativo ... II libro, basato sulla durata, si sviluppa piuttosto come un brano mu­ sicale. Già nelle prime pagine il lettore vi trova enunciato il tema dell'opera, tema che sarà, lungo tutto il libro, ripreso e rielaborato. Filosofia prima è una variazione sù uno stesso tema" .5 Questo libro, come aperto dall'annuncio della tonalità su cui è orchestrato, si sviluppa dunque come un "morceau de musique". È nota la raffinatissima, assidua, dotta e appassionata riflessione che Jankélévitch ha dedicato, per oltre mezzo secolo, alla musica,6 alla potenza di quel genitivo soggettivo su cui è intonata la sua filosofia della musica, che genera il reciproco alimentarsi l'una dell'altra. Un

4 5 6

J. Wahl, op. cit. p. 161.

F. Coadou, Pour une lecture de Philosophie première de Vladimir ]ankélévitch, in "Le Philosophoir", 2001/3 n. 15, 197-202, Vrin, Paris 2001, p. 197. Cfr., al riguardo, V. Jankélévitch, La musique et l'ine/fable, A. Colin; Paris, 1961; ried. Éd. du Seuil, Paris, 1983; tr it. La musica e l'ineffabile, a cura di E. Lisciani-Petrini, Bompiani, Milano 1998.

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rapporto, anch'esso, paradossale: "Non si pensa 'la musica'; per contro si può pensare secondo la musica, o in musica, o musical­ mente- essendo la musica piuttosto un avverbio di modo del pen­ siero. Chi pretende di pensare alla musica, dunque, pensa ad altro, e più spess.9 ancora a niente" scrive Jankélévitch in La musica e l'ineffabile7 e "Non si dovrebbe scrivere 'sulla musica', ma 'con' la musica e musicalmente - restare complici del suo mistero ... " sot­ tolinea durante una delle conversazioni con Béatrice Berlowitz poi raccolte in Da qualche parte nell'incompiuto. 8 Qual è allora il mistero della musica con cui la filosofia ha da restare complice? In una pagina di Filosofia prima Jankélévitch scri­ ve: "'Nessuno ha mai visto Dio', dice Giovanni, come Geova aveva detto: 'Nessun uomo potrà vedere il mio volto e continuare a vive­ re'. Siamo nella situazione dell'iniziato che, al termine di una lunga serie di visioni sempre più esoteriche, scopre un santuario vuoto.".9 Il fondo delle cose, come il volto di Geova, è dunque un abisso inattingibile. In un momento cruciale del suo dialogo con Béatrice Berlowitz, Jankélévitch avverte: "La musica testimonia il fatto che l'essenziale in tutte le cose è non so che d'inafferrabile e d'ineffabile, essa rafforza in noi la convinzione che, ecco, la cosa più importan­ te del mondo è proprio quella che non si può dire". 10 Sono parole che ci conducono nel cuore stesso dell'ontologia jankélévitchiana. Questo pensare con la musica è proprio ciò che risuona 11 nel

7 8

V. Jankélévitch, La musica e l'ineffabile, cit., p. 86. V. Jankélévitch-B. Berlowitz, Quelque part dans l'inachevé, Gallimard, Paris, 1978; tr. it. Da qualche parte nell'incompiuto, a cura di E. Lisciani-Petrini, Ei­ naudi, Torino 2012, p. 201. 9 Filosofia prima, infra, p. 169. 10 V.Jankélévitch-B. Berlowitz, op. cit., p. 201. ContinuaJankélévitch: "Quando abbandono la musica per la filosofia, mi sembra di ritornare da un viaggio nel paese dell'irrazionale, meno che mai convinto della solidità delle parole. Ma quando lascio la scrivania per sedermi di nuovo davanti al mio strumento, mi chiedo se lo avevo lasciato per davvero. Una volta al pianoforte, talora mi interrompo per annotare un'idea che non voglio lasciar perdere e che non ne­ cessariamente riguarda la musica". Ibid. 11 Mi permetto di rimandare, a tale riguardo, al mio La musica del silenzio (su note di Vladimir Jankélévitch), in "Musica/Realtà", XXII/66, Milano 2001.

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peculiare stile di "scrittura filosofica" di Vladimir Jankélévitch: contaminazioni; annunci sospesi e accostamenti spiazzanti, veloci incursioni e ricorrenti riprese, neologismi, associazioni improvvi­ se, sorprendenti arcaismi. È la sua "scabrbsa" scrittura per terni e variazioni (aJankélévitch è particolarmente cara la parola "scabro­ so": "È il quasi che è scabroso"). Sulla "intravisione" espressa dalla musica - e del mistero, su cui torneremo - Jankélévitch chiarisce in La musica e l'ineffabile: "Esprimere l'inesprimibile all'infinito. La musica è fatta per questo- diceva Debussy. Precisiamo però: il mi­ stero che essa ci trasmette non è l'inesprimibile sterile della morte, ma l'inesprimibile fecondo della vita, della libertà e dell'amore. In breve: il mistero musicale non è l'indicibile, ma l'ineffabil(t. L'indi­ cibile, infatti, è la notte nera della morte e desolante non essere, la cui tenebra impenetrabile come un muro invalicabile ci impedisce di accedere al suo mistero: indicibile, quindi, perché su di esso non c'è assolutamente niente da dire e rende l'uomo muto, prostrando la sua ragione e pietrificando come Medusa il suo discorso. L'inef­ fabile invece, tutto all'opposto, è l'inesprimibile perché su di esso c'è infinitamente, interminabilmente da dire: tale è l'insondabile mistero di Dio" .12 La peculiarità della "filosofia prima" di Jankélévitch consiste nel paradossale tentativo - di ori ad ogni passo viene conferma­ ta l'inaggirabile necessità - di confrontarsi con !'"impossibile", di "giocare con l'inafferrabile", rispettando una economia del "qua­ si". Siamo così ritornati a Filosofia prima e in particolare alle prime pagine. Cosa ha voluto intendere Jankélévitch con questo titolo, si chiedeva Jean Wahl. Aggiungiamo noi: a quale filosofia sembra dover introdurre? Ossia, perché quel sottotitolo: "Introduzione a una filosofia del 'quasi'"? Annotiamo il particolare, su cui torne­ remo, che Filosofia prima anticipa di due anni la pubblicazione di Il non-so-che e il quasi-niente che presenta nel titolo i due lemmi fondamentali del pensiero di Jankélévitch.13

12 V. Jankélévitch, La musica e l'ineffabile, eit., pp. 61-62. 13 V. Jankélévitch, Le je-ne-sais quoi et le Presque-rien, P.U.F., Paris 1957; ed. aum. Éd. du Seuil, Paris 1980, tr. it. Il non-so-che e il quasi-niente, con introd. di E. Lisciani-Peu;ini, Einaudi, Torino 2011.

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Fin dalle prime pagine di Filosofia prima, Jankélévitch afferma che "la 'serietà' metafisica consiste nel fare onore al dislivello verti­ ginoso che separa il Quaggiù e l'Ulteriore". Ovvero: una metafisica seria deve rifiutare la differenza di grado tra l'ordine empirico e il tutt'altro ordine, e non può che riconoscerne una radicale differen­ za qualitativa. Ecco un passaggio cruciale: "A partire da Senofane la filosofia greca non ha tuttavia mai smesso di militare contro gli antropomorfismi della religione tradizionale: l'evemerismo, in un certo senso, si prepara nelle critiche con cui i saggi del VI secolo aggrediscono la mitologia nazionale. Il sovrannaturale e il subnatu­ rale, il divino e l'infernale non differiscono dall'esistenza naturale solo per il loro formato: il regno dei morti non è, come negli in­ feri omerici, una semplice rarefazione del mondo reale, e il divi­ no non ne è un semplice ingrandimento. Si può dire che la prima manifestazione della serietà metafisica è stata l'accettazione di un totalmente-altro-ordine e il rifiuto di ridurre a differenze di grado - diminuzioni o aumenti -1'assoluta differenza di natura, l'eteroge­ neità fondamentale di quest'ordine e dell"altro'. (. .. ) Un'inflazione più o meno mascherata della doxa, una trasposizione di evidenze empiriche più o meno grossolanamente camuffate, ecco la via di sicuro più facile per un senso comune poco incline a immaginare !'assolutamente-altro ( ... ) La filosofia ha inizio con la convinzione che l'ultrafisico e l'intrafisico siano succedanei grossolanamente approssimativi d�'ulteriorità metafisica, e che l'ultrasensibile e l'intrasensibile siano apocrifi dell'autenticità sovrasensibile. La mé­ tempiria non comincia al termine di una sublimazione o estenua­ zione progressiva della realtà concreta, palpabile e ponderabile" .14 Dunque, dall'empiria non si transita per gradi alla metaempiria. Si tratta di un salto, di un balzo: "Si passa all'incomparabile superla­ tivo, quello che è il superlativo di tutti i superlativi, attraverso una mutazione radicale". Una mutazione radicale, una conversione. È necessario che i due estremi restino tenuti nella loro radicale differenza qualitativa, la quale tuttavia non determini una lorò incomunicabilità. Posta la differenza qualitativa, tra il piano dell'empirico e il tutt'altro ordine 14

Filosofia prima, infra, pp. 28-29.

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si pone l'assoluta necessità che si dia un contatto. La conversione di cui parla Jankélévitch .è il folgorante movimento istantaneo; è slan­ cio, salto che porta in contatto i due estremi. Il tempo di un lampo, che allo stesso tempo illumina il contatto e 1� differenza. La conver­ sione si dà nell'istante, nell'attimo imprevedibile dell'intuizione in cui la dimensione materiale e quella spirituale si incontrano senza trattenersi e senza alcuna necessaria propedeutica. "La mutazione radicale è, nel suo insieme, un profondo mistero, benché il Prima e il Dopo siano entrambi empirici. Ciò che qui è misterioso è il 'Durante' della mutazione stessa, nella sua flagranza o nel suo stare-per: la naturalità della continuazione non riesce a eludere la sovrannaturalità dell'istante, dove si compie questo pro­ digio di liminarità e di annichilazione. (. .. ) L'idea dell'Assoluta­ mente-altro e l'idea dell'istante repentino non sono che una sola e medesima idea. È perché l'aldi là è assolutamente oltre, radical­ mente dall'altra parte, che la metamorfosi dell'al di qua si compie nel momento estremo, fulmineo bagliore dell'istante; dal contrad­ dittorio al suo contraddittorio non c'è maturazione, crescendo né progressione scalare, come tra i contrari estremi o relativamente opposti, ma mutazione improvvisa e in qualche modo miracolosa. (. .. ) Ora, la ragione non ha i mezzi per esplicare e nemmeno per trascrivere il 'salto qualitativo': ogni discontinuità fa aprire sotto i nostri passi il crepaccio dell'irrazionale, ogni sospensione d' es­ sere implica già un nulla, un nulla aperto al di là del quale il rico­ minciamento è altrettanto miracoloso quanto il primo inizio, tanto incomprensibile quanto una resurrezione al di là della morte; la mutazione repentina è a suo modo una specie di morte e importa poco che essa duri nell'intervallo minimale dell'istante, implicando il quasi-niente, a questo riguardo, lo stesso mistero quanto il nien­ te, e l'inversione istantanea dell'essere lo stesso mistero quanto la cessazione d'essere" .15 Contatto, salto, tangenza, intuizione: il punto di unificazione degli opposti, ma sempre radicalmente distinti; il ponte sospeso sull'abisso e, insieme, la vertigine dell'abisso. Jankélévitch ci ri­ manda al VII libro della Repubblica, in cui la conversione (periago15

Filosofia prima,

infra, p. 88.

14

ghé, metastrophe"), più che mutamento di posizione, appare come folgorante, istantaneo cambiamento di condizione: "Tale è il sen­ so della Conversione platonica e neo-platonica, questa Emapori la cui esplicazione è senza dubbio nella 1tEptcx:yooy11 del settimo libro della Repubblica: come i prigionieri della caverna devono voltarsi verso la luce con tutto il corpo, così il filodosso convertito alla filosofia deve volgersi verso l'idea del bene con tutta l'anima, non con una piccola porzione della sua anima e parte del pensiero, ma con l'anima tutta intera; ciò significa, in primo luogo, che la conversione è una inversione totale, e non un semplice cambio di direzione: non si tratta di deviare di qualche grado o di un certo angolo verso un altro azimut, ma di fare dietrofront e di cammina­ re in senso inverso" .16 Un camminare in senso inverso rispetto ai "falsi metafisici", che parlano del fondo dell'essere come se facesse parte del nostro mondo, facendone cioè una sostanza: consiste in questo cammi­ nare il percorso che attraversa da parte a parte Filosofia prima. Pensare l'incomparabile mantenendolo impensabile, ossia senza renderlo sostanza. Il compito della "metafisica seria" è pensare il mistero, ovvero l'incommensurabile. Senza camuffare. il mistero, il filodosso convertito alla filosofia deve esercitarsi a mantenersi nell'incertezza. Deve sapere di non sapere (nescio quid). 17 Socra­ te, insieme alla sua ironia, in Filosofia prima rimane un riferimen­ to ineludibile: è per ragioni non esteriori che all'esperienza della morte Jankélévitch dedica l'intero Terzo capitolo. Eppure, scrive Jankélévitch, "per la maggior parte degli uomini, l'ora della filoso­ fia prima non suona mai" .18 La conversione dunque è il "proprio" di una metafisica che non ricerchi un significato nascosto nell'empirico. Eppure, per Jankélévitch non si dà autentica metafisica che non sia, allo stesso

16 Filosofia prima, infra, p. 89. 17 "A leggere il libro, Socrate appare come il modello del filosofo capace di man­ tenersi nell'aporia, e nondimeno di fondare su di essa una filosofia morale. Come Socrate,Jankélévitch diffida delle risposte". F. Coadou, Pour une lecture de Philosophie première de Vladimir ]ankélévitch, cit., p. 198. 18 Filosofia prima, infra, p. 1.37.

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tempo, celebrazione della positività, dell'empirico. L'esperienza, nell'istante intuitivo, dell'apertura al tutt'altro ordine necessita del­ la valorizzazione dell'empiria. Della conversione, l'esperienza con­ creta è organo e occasione imprescindibilè. Nel movimento in cui si salta al di là, la vocazione del sensibile è consentire il transito, una resistenza che è al tempo stesso impulso allo slancio intuitivo. "Conversione" è, insieme a "vocazione all'alibi" e "ascesi", un termine centrale, decisivo, nella proposta "metafisica" di Jankélévitch.19 Soffermarsi su questi termini significa poter riper­ correre alcuni tratti del labirintico intreccio di eredità e di influenze presenti nel pensiero di Jankélévitch, facendo convergere queste diverse tracce e fonti ispiratrici intorno a un concetto, quello di limite, che segna ogni pagina di Filosofia prima. 20 Il limite denota, contemporaneamente, la similarità e la diffe­ renza, l'interiorità e l'esteriorità. Un qualcosa che si trova, nello stesso istante, al di qua e al di là di una soglia (dentro e fuori, in Jankélévitch anche tra trascendenza e immanenza, come vedremo): limen, punto di transito, o di "conversione" tra due dimensioni, ontologicamente necessarie, radicalmente differenti eppure in con­ tatto. Un limite che può essere colto soltanto nelle sue intermit­ tenze, nelle sue costitutive "intercettazioni": "E siccome ciò che io cerco esiste appena, siccome l'essenziale è un quasi-niente, un non-so-che, una cosa leggera fra tutte le cose leggere, questa ricerca forsennata tende soprattutto a mostrare l'impalpabile - qualcosa di cui si può intravedere l'apparizione, ma non verificarla, poiché sva­ nisce nell'istante stesso in cui appare, poiché la prima volta è anche l'ultima. La seconda volta è la ripetizione minimale richiesta per una verifica ... Senonché, l'oggetto della nostra ricerca non è che 19 Su questo argomento devo rimandare al mio Conversion, vocation et ascèse dans la métaphysique de Jankélévitch, in: Aa.Vv., In dialogo con/En dialogue avec Vladimir Jankélévitch, a cura di E. Lisciani Pettini, Vrin/Mirnesis, Paris, Mila­ no 2009, pp. 85-93. Il libro nasce dal Convegno per il centenario della nascita di Jankélévitch, svoltosi a Roma dal 1 O al 12 dicembre del 2003, organizzato da Elio Matassi e da Enrica Lisciani-Petrini. 20 Ho sviluppato questo discorso in maniera più diffusa altrove. Cfr. il mio saggio Variazioni sul limite. Jankélévitch, o la vocazione all'alibi in Al limite del mondo, a cura di F. Leoni e M. Maldonato, Dedalo, Bari 2002, pp. 191-212.

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un'apparizione subito disparsa, un evento che non sarà in nessun caso reiterato né, pertanto, confermato: un ingannevole bagliore nella notte!" .21 Il bagliore notturno fa intra-vedere il misterioso sfondo su cui il mondo, in "equilibrio instabile", è sospeso. Proprio come da un lampo, Filosofia prima è attraversata dalla presenza inapparente dello Charme, sul quale torneremo in chiusura. Come abbiamo già accennato, lo stile peculiare di scrittura di Jankélévitch non è pensabile distinto dall'opzione filosofica. Potremmo a questo riguardo ricordare quanto sostiene Manfred Frank ne Lo stile in filosofia: "Lo stile è il modo individuale in cui un autore porta ad espressione linguistica la propria peculiare visione del mondo. Esso non contraddice le regole della sintassi e tuttavia non ne è deducibile" .22 In Filosofia prima il limite prende a più riprese i nomi di "apparizione disparente", "istante", "baglio­ re": qui, appena sfiorato, il concetto di limite non può non toccare, "intaccare", la scrittura stessa. "La filosofia - afferma Jankélévitch - consiste nel pensare tutto ciò che in una questione è pensabile - nel pensarla a fondo, costi quel che costi. Si tratta di dipanare l'inestricabile, senza fermarsi, se non a partire dal momento in cui diventa assolutamente impossibile andare al di là. Mirando a una ricerca così rigorosa, le parole, che servono da supporto al pen­ siero, devono essere impiegate in tutte le posizioni possibili, nelle locuzioni più varie: occorre girarle e rigirarle sotto tutte le facce, nella speranza che ne scaturisca un bagliore, occorre palparle é auscultarne le sonorità per percepire il segreto del loro senso. Le assonanze e le risonanze delle parole non hanno forse una virtù ispiratrice? (. .. ) È a questo tipo di discorso senza cedimenti che io mi sottometto: a una "strerige Wissenschaft" dunque, una scienza rigorosa che non è la scienza degli scienziati, ma piuttosto un' asce­ si. Per un po' mi sento meno inquieto quando, dopo aver girato a lungo tutt'intorno alle parole, averle scavate e triturate, aver esplo­ rato le loro risonanze semantiche e analizzato i loro poteri allusivi,

21 22

V.Jankélévitch-B. Berlowitz, op. cit. p. 12. M. Frank, Lo stile in filosofia, tr. it. M. Nobile, Il Saggiatore, Milano 1994, p.14.

la loro potenza d'evocazione, mi rendo conto che decisamente non posso andare oltre" .23 Non la scienza degli scienziati, quindi, piuttosto un'ascesi. Askein è "esercitarsi" con disciplina, dedicarsi ad una applicazio­ ne costante, "praticare" con uno sforzo incessante un esercizio. La conversione -l'istantanea intuizione, l'intercettazione del tutt'altro ordine -non necessita di alcuna propedeutica. Tuttavia, l'esercizio ascetico è anche preparazione e allenamento a rendersi disponibili ad un evento, atteso e pur sempre sorprendente. Proprio conducendoci su questa soglia, la nostra ripresa della vocazione, dell'ascesi e della conversione, concentrata sul parados­ sale - e jankélévitchiano -concetto di limite, ci lascia scoprire una traccia nascosta, perché molto profonda, tra i percorsi labirinti­ ci delle fonti ispiratrici - platoniche, neoplatoniche, agostiniane, ebraiche, slave -del pensiero di Jankélévitch. Come è noto, la tonalità dominante del principio del "sem­ pre altrove", che caratterizza la coscienza ebraica, si accompa­ gna in J ankélévitch ad altri due elementi sempre presenti nel suo cammino speculativo e che preparano l'incontro con il pensiero di Bergson, che rimarrà per lui fondamentale. Il primo elemen­ to è il pensiero dell'ultimo Schelling, a cui è dovuto l'interesse di Jankélévitch per Plotino, il neoplatonismo, la teologia nega­ tiva, Meister Eckhart, Boehme, Silesius, ossia quell'orizzonte di pensiero che interpreta l'intera realtà come retta da "qualcosa" di indicibile. Il secondo elemento è la cultura slava, in particolar modo il misticismo russo. Ancora più in particolare nelle pagine di Filosofia prima, a più riprese, sono evocati termini e concetti di Berdiajev, Frank, Trubeckoj, Losskij, Solov'ev e, come fa notare J ean Whal nel suo saggio critico, soprattutto di Sestov: "Come non pensare a Sestov e ai suoi predecessori del Medioevo quan­ do Jankélévitch scrive: 'la creazione, operazione dell'onnipotente, può letteralmente tutto, compreso l'impossibile'? C'è per lui una nichilizzazione che, radicalmente differente dall'annichilazione, pretende 'di estirpare il fatto stesso di aver fatto'. Come non ri­ chiamarsi a Berdiajev e anche a Buber e Gabriel Marcel, davanti 23

V. Jankélévitch-B. Berlowitz, op. dt., p. 11.

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alle pagine sull'invocazione, sul tu che non è mai terza persona, sul mistero?".24 Whal interrompe qui i suoi rimandi al pensiero russo per isti­ tuire un confronto tra Jankélévitch e Bradley ("l'alternativa tra essenza ed esistenza in Jankélévitch somiglia alla dissociazione e all'unione del that e del what in Bradley") e poi affiancando nu­ merose pagine di Filosofia prima a quelle di Introduzione alla me­ tafisica di Heidegger. Aggiungeremo noi qui un altro filosofo - di grande importanza per filosofia del Novecento, non solo france­ se, oggi pressoché dimenticato o ignorato -, che non è presente in quelle pagine ma che con il percorso e il "destino filosofico" di Jankélévitch ha molti tratti in comune. Si tratta di Étienne Souriau, il pensatore dei "modi d'esistenza" della realtà. Il tema centrale del suo Les di/férents modes d'existenci25 è che non c'è Essere senza modi di essere: non si accede all'Essere se non tramite le maniere in cui si offre. È vero che queste "maniere" _d'essere potrebbero essere ricondotte al "fondo" di una comune provenienza, l'Esse­ re, e a una "filosofia prima" intesa come ontologia fondamentale. Étienne Souriau invece pratica anch'egli un suo "cammino inver­ so": "Non si tratta più di ricondurre i modi verso un fondamento-, quanto di studiare la maniera in cui i modi si stagliano sul fondo, in cui sorgono dall'Essere 'come la punta della spada sorge dalla.spa­ da"' .26 Come pensare questi modi d'essere del reale all'interno di una visione non sostanzialista della realtà ("intravisione": riappare forse anche qui lo sguardo del filosofo di cui Wahl parla all'inizio del suo saggio)? È questa la domanda che resta fondamentale in Jankélévitch. Potremmo di nuovo qui ricordare le sue parole a pro­ posito del volto di Geova, o anche riprendere la sua immagine del sipario sempre alzato: la realtà è uno spettacolo a cui non si arriva mai in tempo, la rappresentazione è già sempre iniziata. L'indicibile 24 J. Wahl, op. cit,, p. 168. 25 É. Souriau, Les Di/férents modes d'existence, PUF, 1943; I di/ferenti modi d'esi­ stenza, tr. it. F. Domenicali, Mimesis, Milano 2017. 26 D. Lapoujade, Les existences moindres, Les Editions de Minuit, Paris, 2017, tr. it. di F. Fogliotti, Le esistenze minori, Moretti&Vitali, Bergamo 2020, pp. 21-22. Il libro di Lapoujade è un serrato dialogo con il pensiero di Souriau. Rimando alla mia introduzione Le maniere dell'Essere e il gesto della filosofia.

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fondo delle cose, nominabile non nominandolo: "Non è né un og­ getto, né un complemento di termine(. .. ) assomiglia stranamente a un non essere. (. ..) Il non-so-che non è qualcosa, e sotto questo aspetto non è propriamente niente, nel sehso copulativo del verbo "essere"; dato che non è né questo né quello e rifiuta, come il Dio della teologia negativa, ogni predicazione (... ) si può appena dire che (. .. ) fa essere senza essere" .27 Far essere senza essere: a dare il nome più adeguato a tale dinamismo senza sostanza, produttore di maniere, è la presenza inapparente dello Charme che, come di­ cevamo, attraversa dall'inizio alla fine Filosofia prima. La presenza inapparente che è, in Jankélévitch, un radicalmente nuovo - "sca­ broso" - rapporto in cui sono pensate insieme immanenza e tra­ scendenza.28 Allora, proprio a questo riguardo torniamo ali'analisi, interrotta invece da Whal, dell'influenza della cultura russa su Jankélévitch. Proprio perché in quest'ultimo richiamo c'è qualcosa che lascia emergere, nel labirinto jankelevitchiano, quella traccia nascosta cui accennavamo. Si tratta dell'esicasmo, una delle correnti fondamentali della mistica del cristianesimo d'oriente.29 All'esicasmo Jankélévitch 27 V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, cit., p. 57. 28 Anche se non in riferimento a Souriau, quanto a Bergson e al bergsonismo di fondo di Jankélévitch, va in questa direzione anche una riflessione di E. Lisciani-Petrini: " ... ecco come si danno le forme, le maniere, i modi con cui la realtà appare. Non come mere sembianze esterne di una sostanza presupposta, sottostante e nascosta, in sé inamovibile. Ma come immediate espressioni di un cambiamento che non si dà se non nei cambiamenti stessi che produce(. .. ) Sotto questa luce Jankélévitch apre a un pensiero dell'immanenza di grande interesse (. .. ) un'immanenza intesa come movimento di un molteplice che ha in sé, dentro cli sé, la spinta differenziante - la 'trascendenza' in sé da sé- che lo 'lavora' e lo muove di continuo". Introduzione a Il non-so-che e il quast�niente, p. XXIV, osservazione ripresa in Introduzione a Da qualche parte nell'incom­ piuto, p. XXV, che più oltre in parte richiamiamo. 29 L' esicasmo trova nei secoli il suo centro propulsore nei monasteri del Monte Athos a partire dai secoli XIII e XIV, ma la pratica e l'insegnamento della "preghiera del cuore" risalgono al IV secolo, da Evagrio il Monaco a Diado­ co di Fotica, incluso da Nikodemo nella Filocalia, e San Giovanni l'Esicasta e Simeone il Nuovo Teologo; da Giovanni Climaco, che dedica all'esicasmo

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fa Wl esplicito riferimento nella sua conversazione con Béatrice Berlowitz: "Padre Zosima, ne I fratelli Karamazov, è uno 'staretz', non un prelato, né Wl i:tlto dignitario della gerarchia ecclesiastica, neppure l'igumene di un convento, ma Wl semplice monaco, un contemplativo la cui saggezza, persino santità, agiscono sugli uo­ mini come irradiandosi dalla loro semplice presenza anziché dal loro insegnamento. Lo staretz in questo è molto vicino al santo e ali'eroe bergsoniano: il fascino in loro non promana né dagli scritti né dalle parole, neppure dal 'fare', ma dall'essere in persona; il messaggio non è nei libri né nella dottrina: il messaggio è la perso­ na stessa, è l'ipseità della persona. I Racconti di un pellegrino russo, ad esempio, non sono Wl testo didattico, piuttosto trasmettono in termini ingenui una tradizione orale che ha la sua fonte negli 'Esicasti' della Filocalia" .30 Lo Charme qui è anche un respiro, la saggezza che si irradia dalla persona stessa, dall'essere in persona, un alitare dello spirito che "non promana né dagli scritti né dalle parole, neppure dal 'fare"'. Ci sarà utile leggere Wl passo di Henri Bergson in cuiJankélévitch p�rla di un termine russo: "mentre il nostro termine 'realtà' è for­ mato su 'res', che designa la cosa, ossia il fatto, dieistvitelny sugge­ risce l'idea di Wl'attività drastica (dieistvovat, dielo) che esprime la collaborazione vivente dello spirito nell'articolazione dei fatti e la presenza vissuta dei fatti nello spirito" .31 Affianchiamo la pagina di Jankélévitch a quelle che Pavel Florenskij dedica in Le porte rega­ li alla "metafisica concreta" e in La colonna e il fondamento della verità alla verità come ist'ina, a una "verità vivente, che respira" .32

un capitolo della sua Scala, a Massimo il Confessore e Isacco di Ninive. Un insegnamento che trova un'altra sua grande radice nella tradizione apofatica di Gregorio di Nissa e, in particolare, di Dionigi Areopagita intorno alla cui opera Massimo il Confessore scriverà un commentario. (Cfr. L. Saviani, Monte Athos, il cielo in terra; Esperienze della filosofia, Luca Sossella Editore, Milano 2018). 30 V.Jankélévitch-B. Berlowitz, Da qualche parte nell'incompiuto, cit., p. 64. 31 V. Jankélévitch, Henri Bergson, Alcan, Paris, 1931; tr. it. di G. Sansonetti, Mor­ celliana, Brescia 1991, p. 47. 32 "A dirla in breve, la pittura delle icone è una metafisica dell'essere; non una metafisica astratta, ma concreta.( ... ) La pittura d'icone sente ciò che raffigura come manifestazione sensibile dell'essenza metafisica". P. F1orenskij, Le porte

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ist'ina è forma sostantivata del verbo jest' (essere, esserci) e Florenskij richiama questo significato della verità come un "essere vivo", o addirittura come il respiro stesso, avvicinando il termine fst'ina alla parola che in sanscrito significa 'respirare' e portando così alla luce un legame essenziale tra respirare, vivere, essere e verità. Di nuovo, lo Charme in Jankélévitch come ulteriore senso del rapporto tra trascendenza e immanenza, come trascendenza nell'immanenza, che Jankélévitch chiama anche ritornante "disso­ nanza" e che qui potremmo pensare come una sorta di dissenso. Del resto, dis-corso deriva da discurrere: correre di qua e di là. Nel Sofista Platone scrive: "Noi affermiamo che il logos non soltanto denomina ma anche discorre, e perciò lo abbiamo denominato di­ scorso" (262 d). Il pensiero leghei, corre da un elemento all'altro del linguaggio per raccoglierli e ordinarli. Per Platone il pensiero, costitutivamente, porta dentro di sé una estraneità che gli si oppone e con cui deve fare i conti (dia-logos). Il dis-senso è dunque il senso stesso della filosofia, del suo di­ scorso, del suo dire e sempre avere da ridire. Un dissenso inteso come come originaria, costitutiva postura filosofica (di nuovo, il Socrate costante riferimento in Filosofia prima), una sorta di sguar­ do per dis-trazione: reciproci e subitanei attraversamenti del visibi­ le e dell'invisibile. Visione del mondo, ma un vedere che è anche un modo di guardare. In Filosofia prima è quello sguardo che fa senti­ re "la fugace meraviglia di onnipresenza" che "dà un senso nuovo alla venerabile sentenza dell'Etica nicomachea: 'Tutte le cose hanno

regali, Adelphi, Milano 1977, p. 125. Il libro si apre, del resto, proprio con il tema del "contatto": "Questi due mondi - il visibile e l'invisibile - sono in contatto. Tuttavia, la differenza fra loro è così grande che non può non nascere il problema del confine che li mette in contatto, che li distingue ma altresì li unisce. Come si può intenderlo?", p. 3. In La colonna e il fondamento della verità (Rusconi, Milano,1998) Florenskij scrive: "Io non ho la verità in me, ma l'idea della verità brucia in me come fuoco divorante e la segreta speranza di incontrarla faccia a faccia incolla la mia lingua al palato. È essa il torrente infuocato che mi ribolle e gorgoglia nelle vene( ... ) Sì, nella vita tutto si agita. Tutto vacilla in immagini di miraggio. Ma dal profondo dell'anima si innalza la necessità ineluttabile di appoggiarsi alla colonna e fondamento della verità, 1st'ina, integra ed eterna nei secoli e non semplicemente di una delle verità".

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per natura un non so che di divino"'. 33 Questo "fugace" sguardo che si dis-toglie, questo balenìo di colpo d'occhio (Augenblick, dice Nietzsche per "attimo" e kairòs) sembra essere, a nostro parere, proprio quel "battito di ciglia" e sguardo distogliente del filosofo che Jean Whal coglie all'inizio del suo saggio e con il quale noi chiudiamo queste pagine per aprire le pagine di Filosofia prima.

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Filosofia prima,

infra, p. 191.

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Nota di traduzione Nell'affrontare la traduzione di Philosophie première ho tenut,o conto della versione integrale del VI capitolo (La via negativa) a cura di Gian­ franco Gabetta, apparsa su "Aut Aut", 219, maggio-giugno 1987, pp. 2142. La prima parte del I capitolo (Dall'empiria alla metempiria) e il quarto paragrafo del III (Repentinità) sono invece stati tradotti da Lucio Saviani, rispettivamente nel suo Ludus Mundi. Idea della filosofia, (Moretti&Vitali, Bergamo 2017, Pp. 117-126) e in "Anterem", 70, (Verona 2005, pp. 5455). La traduzione dell'intero libro, tuttavia, ha assunto la forma attuale grazie a un costante dialogo e confronto con Lucio Saviani, e dunque è a tutti gli effetti il tisultato di un lavoro comune. I termini ehv [ente in quanto ente].

E. BRÉHIER, Histoire de la Philosophie, I, p. 186.

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dell'Eivm ma dell'òv come predicato universale e dell'ouo'm di tale essere, cioè del più essenzialmente "essente" (ens) di tale essere, una simile metafisica non può che essere "ipotetica". Aristotele, è vero, rimprovera a Democrito di trascurare l'origine del movimen­ to e affermare: finora le cose sono sempre andate così; 3 ma solo per arrivare egli stesso alla conclusione che il movimento non ha origine né fine assolute ed è eterno come il mondo, quantunque possegga, come le proprietà del triangolo, le sue ragioni - le sue eterne ragioni ... A queste condizioni si vede a stento quali carat­ teri decisivi distinguerebbero la "teologia" dalle altre parti della filosofia teoretica; in cosa la "quinta essenza" sarebbe metafisica se le prime quattro sono fisiche; e infine per quale motivo il primo motore,· immobile e onni-movente, godrebbe di una promozione assolutamente privilegiata rispetto ai motori mossi. A partire da Senofane la filosofia greca non ha tuttavia mai smesso di militare contro gli antropomorfismi della religione tra­ dizionale: l' evemerismo, in un certo senso, si prepara nelle critiche che i saggi del VI secolo esercitano sulla mitologia nazionale. Il so­ vrannaturale e il subnaturale, il divino e l'infernale non differiscono dall'esistenza naturale per il loro formato: il regno dei morti non è, come negli inferi omerici, una semplice rarefazione del mondo rea­ le, e il divino non ne è un semplice ingrandimento. Si può dire che la prima manifestazione di serietà metafisica è stata l'accettazione di un totalmente-altro-ordine e il rifiuto di ridurre a differenze di grado - diminuzioni o aumenti - l'assoluta differenza di natura,. l'eterogeneità fondamentale tra quest'ordine e l'" altro". Ugualmen­ te (essendo l'anima, in piena naturalità, la nostra sovrannaturalità domestica), la prima.forma di serietà psicologica è stata la rinuncia agli psicomorfismi grossolani della vecchia pneumatologia. Un'in­ flazione più o meno mascherata della doxa, una trasposizione di evidenze empiriche più o meno grossolanamente camuffate, ecco la via di sicuro più facile per un senso comune poco incline a immagi­ nare !'assolutamente-altro. La "serietà" metafisica, in poche parole, consiste nel prendere sufserio tutto quel che rappresenta l' awer­ bio di luogo indefinito Oltre (è1téKEWa), nel far onore al dislivello

3

Fis.,

0 1, 252 a 32; De Caelo, m, 2, 300 b 8; Met., A 4, 985 b 20.

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vertiginoso che separa il Quaggiù e l'Ulteriore... In realtà, lo sdop­ piamento tra Qui e Laggiù (èv8éxDE-ÈKEt) assume un senso real­ mente escatologico solo nei filosofi alessandrini: per Plotino Laggiù è per davvero Al di là, ossia transmondano e ulteriore rispetto a ogni empiria e a ogni vita terrestre; Laggiù, di conseguenza, non designa più un Ade4 contrapposto al mondo dei viventi, e neppure il mondo intelligibile contrapposto al sensibile, ma l'oltre-mondo assoluto che costituisce l'autentica patria escatologica degli uomini e il luogo in cui si consuma la loro destinazione spirituale. La filosofia ha inizio con la convinzione che l'ultrafisico e l'in­ trafisico siano succedanei grossolanamente approssimativi dell'ul­ teriorità metafisica, e che l'ultrasensibile e l'intrasensibile siano apocrifi dell'autenticità sovrasensibile. La metempiria non inizia al termine di una sublimazione o estenuazione progressiva della realtà concreta, palpabile e ponderabile. Per esempio, colui che passa dal­ la scala macroscopica della fisica classica all'universo microfisico o, inversamente, alla scala gigantesca dell'astronomia, non abbandona l'empiria per la metempiria: come se la metempiria avesse inizio a partire da certe grandezze assegnabili che ne sarebbero la soglia ... E tramite quali lunghezze d'onda, per cortesia, l'eccitante fisico colore o suono ...,. si volgerebbe al metafisico? Le nostre apparec­ chiature e i nostri strumenti catturano all'infinito, per la zona di percettibilità diretta, questi due estremi di impercettibile nei quali non si voleva vedere che l'Infra e l'Ultra. L'empiria non è dunque un'ottava tra due misteri, il mistero dell'infinitamente grande e il� mistero infinitesimale: non vi è che una sola empiria, grossolana al centro, raffinata ai due lati. Centomila anni luce sono empirici quanto cinque minuti sul nostro orologio: ma l'Al di là che sollecita lo spirito oltre ogni grandezza empirica, quest'Al di là dinamico è un mistero. La scoperta della sfericità della terra non ha tolto alla creatura la speranza di toccare, con la "fine del mondo", la soglia di un Al di là chimerico ... È un'illusione credere che ci si avvicini al mistero spingendosi verso i poli; chi pianta la bandiera agli estremi del globo non è più tangente al mistero di chi è nelle zone interme­ die. No, a diecimila metri di altitudine non vi è più mistero che in 4

Per esempio EURIPIDE, Ecuba, 418; Alcesti, 363; Medea, 1073.

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pianura, e nel fondo dei mari più che sulla superficie del suolo in cui il nostro destino è vivere mediamente e superficialmente occu­ pandoci delle nostre faccende. Di certo la morte è qui, e sembra sottoporci quotidianamente, in piena empiria, l'esperienza del mi­ stero metempirico: eppure, considerando senza metafore la morte dell'altro, si dovrà convenire che quest'esperienza della metempiria è pur sempre empirica, vale a dire un'esperienza di continuazione naturale e biologicamente interpretabile; e quanto alla morte-pro­ pria che sarebbe, per il morto, il mistero e la parola di questo miste­ ro, le cose stanno in modo che colui che potrebbe far sapere non sa nulla e colui che potrebbe sapere non può far sapere. Solo la morte del prossimo potrebbe forse ricongiungere la naturalità oggettiva della morte dell'altro e il tragico impensabile della morte-propria: ma ciò significa, ancora una volta, che essa non è né pienamente metempirica (perché il prossimo, innanzitutto, è un altro), né pie­ namente naturale (perché il prossimo è, se non me stesso, qualcosa di me). Bisogna ammettere che il segreto è ben custodito! E non si scherza con lo scherzo impenetrabile della morte! L'esperienza della morte non ci fa quindi avanzare di un millimetro di millimetro verso la conoscenza del mistero: si può scrutare interminabilmente la maschera del moribondo e poi quella del cadavere senza decifra­ re l'enigma sovra-carnale che non vi risulta leggibile, come ci si può immergere in quella che Socrate chiama "meditazione" della morte senza imparare una sola parola sul mistero e neppure l'inizio della prima parola di tale mistero. Fino all'ultimo secondo la nostra espe­ rienza della morte è puramente empirica; fino all'articolo supremo, e al di là, la nostra pseudo-divinazione del mistero è un modo di dire letterario e una figura retorica. Gli ultimi istanti non sono più "metafisici" di quanto sia "metafisica" un'altezza vertiginosa, una velocità supersonica o una potenza colossale. L'ultimità è empirica quanto la penultimità o l' antepenultimità. E come non succede as­ solutamente niente al dodicesimo rintocco di mezzanotte, così l'ulti­ mo respiro del morente non ci consegna che un messaggio vuoto ... La metempiria non è pertanto una certa modalità dell'empiria, per esempio un'estrema tenuità o intensità insopportabile del percepi­ to, ma designa piuttosto ciò che trascende ogni esperienza possibi­ le: se l'ultrasensibile è quel che di fatto eccede la portata attuale dei nostri sensoria, il sovrasensibile è ciò che non può essere percepito.

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I. - Quaggiù e Al di là Mistero essa stessa, l'intuizione avrebbe forse accesso al mistero. Ma una sensazione empirica dotata di poteri ontoscopici non è che una mistificazione e non genera nient'altro che pseudo-metafisiche. La critica percezionista dell'informazione sensibile, fondata sulla fre­ quenza delle illusioni e sulle mille delusioni a cui ci espone il dato empirico, aveva semplicemente negato che l'empiria avesse, di fatto e in ogni caso, accesso al reale; e suggeriva o, come Pascal, di pregare o, come Malebranche, di rivolgersi al Verbo universale delle intelligen­ ze. Ma non negava che si potesse fare buon uso delle "facoltà fallaci" né che, se trattate con precauzione e secondo le regole di un metodo circospetto, in certi casi tali facoltà potessero rivelarsi veridiche: l'er­ rore diviene verità per chi sa leggerlo, cioè se si sa come compensarlo o di quanto rettificarlo, se si conosce il coefficiente personale e l'e­ quazione soggettiva, l'indice di deformazione e il suo correttivo ... Ciò significa che anche qualora queste informazioni fossero "esatte", non per questo l'empiria diverrebbe miracolosamente metafisica: la qualità "primaria" non è, più di quanto lo siano le qualità "seconda­ rie", una rivelazione sull'essere! L'apriorismo kantiano lo aveva com­ preso bene, e spiegando con un'analisi sistematica della conoscenza perché l'empiria non potesse essere ontofania, ciononostante giustifi­ cava il successo della scienza e il dominio delle tecniche sulla natura. Verificata o contraffatta, l'empiria è un adattamento della creatura al mondo dell'azione o della speculazione, all'universo delle forze fisi=' che e al campo sociale delle persone, e se la coscienza che acquisiamo dell'empiria come totalità è naturalmente filosofica, è pur sempre il Quaggiù della nostra esistenza concreta e sensibile a essere in que­ stione. Enumeriamo ora i cinque paralogismi che, riuniti, formano il mostro di un'empiria metempirica. 1. Ogni esperienza è necessariamente percezione o rappresenta­ zione finita di qualche dato finito: non si dà esperienza di un infini­ to attuale se non per modo di dire, oppure negli istanti inesplicabi­ li, incomunicabili e d'altronde inverificabili dell'esperienza mistica, nelle folgorazioni eccezionali che compirebbero, se si deve credere agli Spirituali, la coincidenza paradossale di Assoluto e presenza. Alle temperature medie dell'empiria, e per una coscienza che non alimenta la bruciante "fiamma d'amore", l'esperienza-di-infinito

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sarebbe contraddittoria quanto la coincidenza degli opposti. Ogni sensorium ha necessariamente una portata, e la portata, lungi dall'essere una limitazione puramente privativa, è una negazione che è posizione, un impedimento di vedere 0 di udire che è la con­ dizione stessa della visibilità o dell'udibilità: non tanto percepire al di là di certi limiti quanto percepire solo fino a certi limiti e all'in­ terno di un perimetro sensoriale determinato, - si tratta qui di due formule inverse, l'una estrinseca e l'altra intrinseca, per uno stesso atto cui tutta la positività è di essere finito ... ovvero precisamente imperfetto! La stessa circoscrizione che sottrae ai nostri sensi una zona micrometrica e una zona macrometrica definisce per questo (e non suo malgrado) il campo sensoriale entro cui la perèezione può esercitarsi. L'organo esprime la stessa anfibolia, poiché non ci dà modo di sentire che impedendoci di sentire al di là di un certo registro: come la sua ristrettezza e pesantezza ci sottraggo­ no l'immensità indefinita del sovrasensibile e del sovrapercettibi­ le, così delimitano per ciascun senso un registro determinato; esso dice: hactenus, fin qui e non oltre! l'esperienza non è possibile che entro ciò che la incarna e, incarnandola, la ostacola. Ecco perché l'ontoscopia del realismo dogmatico sarebbe priva di portata, gli avvocati dell'intuizione razionale "assoluta" l'hanno infatti sempre dotata, come ebbe a dire Baader, di una "penetranza" infinita, ossia di un potere radioscopico in grado di rendere trasparente anche lo schermo più opaco. Tuttavia, cosa possiamo sperare di leggere nel reale, con un simile mezzo, se non un certo stato finito, naturale e. assegnabile della materia e delle forze fisiche? Percepire l'inflnito o all'infinito - una grandezza infinita, una profondità senza fondo, una forma informe o, come dice Plotino, un Amorfo -, è dunque non percepire, è credere o pretendere di percepire, affermare di percepire ma senza pensare a niente o non pensando che il vuoto: per questo Plotino afferma che l'Uno non ha né figura né forma.5 2. Ed ecco un secondo modo per esprimere lo stesso carattere, non solo metempirico ma anempirico, del fatto metafisico: se una percezione totale è percezione di niente, ogni autentica percezione è necessariamente partitiva. Il che può anche essere formulato così: 1

5

Enn., V, 5, 6 e 11; VI, 9, 3 (ax;fìµa, µop$i}, ei6oç [figura,forma, idea]).

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non si dà percezione se non di un percepito sconnesso, cioè di un Ecco particolare e assegnabile ritagliato da un insieme e più o meno bizzarramente deformato secondo il "punto di vista" che il perci­ piente esercita su di esso. Anche se un'attenzione esclusiva sembra talvolta convogliare la nostra coscienza su un solo oggetto, come nei comportamenti di agguato, sorveglianza e ossessione ansiosa o pas­ sionale, l'empiria non cessa per questo di essere partitiva: quel che il monoideismo, quel che la possessione della coscienza da parte di un'idea fissa realizzano in noi non è la totalità, ma piuttosto una to­ talizzazione caricaturale a vantaggio di qualche dettaglio insignifi­ cante. Tale si configura in particolare la tripla finitezza dell'empiria visiva: ottica di acaro o ottica di gigante, in entrambi i casi si tratta di visuali oblique che la prospettiva egocentrica deforma e che sol­ tanto la riflessione corregge; e anche se (con Leibniz) si postulava arbitrariamente che la monade dovesse esprimere l'intero universo, essa non potrebbe che esprimerlo, ancora una volta, dal suo punto di vista di creatura: creatura che una posizione finita, escludendo l'onnipresenza, localizza qua o là nello spazio. Poi un campo visi­ vo è sempre, per definizione, un'area locale, limitata dal fondale dell'orizzonte che (non considerando che la realtà ottica) dipana sotto i nostri occhi un'estensione sempre limitante: ed è la ragione che la completa, come prima correggeva; è rispetto alla ragione e all'immaginazione che l'orizzonte, anziché fermare i nostri sguardi come una superficie piatta, rivela la sua profondità rivelandoci la possibilità di concepire all'infinito un altro orizzonte più lontand dietro di esso; ma quest'idea di un orizzonte che arretra senza sosta e sfugge al movimento con cui potremmo raggiungerlo non è una realtà ottica e immediata. L'area visuale è infine limitata lateral­ mente dalla posizione stessa degli occhi; e all'interno di ogni setto­ re, delimitato a sua volta da settori più ristretti, corpi e gruppi di corpi si distaccano come altrettanti centri d'interesse per l'azione, prolungando all'infinito la partizione empirica del percepito: i bi­ sogni utilitari del frazionamento pratico restringono ulteriormente un campo di cui le nostre capacità fisiologiche già ci impongono le frontiere; non vediamo neppure ciò che potremmo vedere se fossi­ mo artisti e disinteressati, e che tuttavia sarebbe pur sempre parzia­ le rispetto alla totalità del visibile. Meglio ancora: questo carattere partitivo è la condizione stessa di ogni empiria, nel senso che un 33

singolo percepito non è percepibile che in virtù del contrasto col plurale delle presenze circunvicine che lo circoscrivono e, circoscri­ vendolo, lo definiscono. La possibilità del movimento, la coscienza e il pensiero ci sono dati contemporaneamente all'obbligo di non percepire le parti di un insieme che alternativamente. O gni metafi­ sica non accarezza forsela chimera di un'intuizione in cui la totalità sarebbe presente immediatamente e globalmenté e in cui la totalità non sarebbe un tutto per me, ma un tutto in sé? L'esigenza monista deriva senza dubbio dal desiderio di reagire al plurale irriducibile dell'empiria. 3. L'opposizione tra totalitario e partitivo assume una terza for­ ma ancora più decisiva. Perché s'intende che questa opposizione non è semplicemente di grado ... Il tutto è maggiore della parte se fa esso stesso parte di un insieme più vasto, altrimenti non sarebbe che un totale chiuso, enciclico e empirico: ma il tutto è di un altro ordine sia rispetto alla parte sia rispetto al totale se è per davvero Tutto, IIciv, ossia totalità aperta e infinita, insieme di cui ogni insie­ me dato torna a essere parte. Ora, è proprio questo il tutto di cui io stesso e personalmente sono parte. "Tutto", nel secondo paralogi­ smo, significava: tutto, anche il possibile, anche l'impercettibile e a /ortioril'impercepito. Mentre adesso "Tutto" significa: tutto, com­ preso me stesso che dico Tutto in questo preciso momento, che · scrivo questa parola e penso questo concetto. Finché mi escludo o mi eccettuo dal tùtto, questo tutto, foss'anche l'universalità delle cose esistenti, è uno spettacolo, 0écx.µcx. o 0ecqmµcx. a cui manca, per essere totalità completa, qualcosa di essenziale, vale a dire la· partecipazione stessa dello spettatore: senza questo inglobamen­ to del soggetto cosciente nella propria esperienza, la totalità non è "tutto", ma semplicemente il tutto, ossia pseudo-totalità. È pur vero.che la percezione del percepito racchiude spesso la coscienza­ di-sé del percipiente, che nell'atto di percepire il soggetto aderisce al suo complemento diretto: una transitività perfettamente inno­ cente, un senziente totalmente estrovertito, come estaticamente, nell'oggetto sentito è piuttosto una rarità. Per cui si può risponde6

À8o-6ox; [complessivamente], dice Plotino (in opposizione a: ica:tèx. µépoç [par­ zialmente]).

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re: 1 ° che nell'empiria quotidiana il sentito e il senso-di-sé non sono dati nello stesso momento dello stesso atto mentale, e la coscienza oscilla dall'uno all'altro tramite vibrazione alternata e rapido va-e­ vieni; 2 ° che il sentito e il senso-di-sé non compongono una totalità, ma un amalgama impuro e una triste semi-coscienza, come accade nelle forme di compiacimento in cui l'amore-di-sé concorre con l'amore dell'amata e ne compromette gravemente la sincerità; se l'empiria è la regione mista e confusa di oggetto-soggetto e non l'identità di soggetto e oggetto, questo dipende dal fatto che il sog­ getto, trascolorando nell'oggetto, compone con esso ogni sorta di miscugli sospetti, al punto che l'estrema oggettività è per la crea­ tura mediana un ideale di coscienza felice, di coscienza completa, riuscita e liberata; ma una percezione "pura", senza mescolanza di soggettività, non per questo avrebbe un potere di penetrazione on­ tologica; 3 ° il soggetto considerato nell'empiria è sia il ristretto ego della filautia sia il concetto astratto dell'introspezione: è dunque centro prospettivo solo se ridotto alle dimensioni della passione e dell'istinto; 4 ° si tratta perciò, in tutto questo, di una piccola por­ zione epidermica o episodica del Sé, a sua volta aderente a una minuscola parcella di empiria; un incidente regionale della vita af­ fettiva, anche qualora oggetto e soggetto si compenetrassero, non avrebbe in ogni caso portata metafisica. La totalità metafisica è quella in cui il tutto dell'io (e non soltanto la periferia) è coinvolto contemporaneamente alla totalità dell'essere inglobante (e non per alternanza con esso); anche quella in cui l'io inglobato non è l'"io"-; astrazione e idea generale, ma io: io che parlo in questo momento e che penso, soffro o spero; non io tra tutti gli altri, né tutti gli uomini me compreso, ma l'Io concreto e privilegiato dell'attimo presente. La totalità metafisica, aprendosi non tanto a un semplice "universo interiore" che annetterebbe, per arrotondarlo, all'universo oggetti­ vo, ma all'io-per-sé, congiunge le due ottiche disgiunte della prima e della terza persona: è dunque una totalità impalpabile, atmosfe­ rica, vertiginosa, e non priva di rapporti con quella Sobornost o mistica conciliare di cui parlava lo slavofilo Chomjak.ov.7 7

Cfr. Simon FRANK, Die russische Weltanschauung e Sergej TRUBECKOJ, La natu­ ra conciliare della coscienza umana (in russo) [in Opere, t.

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II, p. 13, NdTI.

4. Diventa sempre più facile comprendere perché la metempiria metafisica non potrebbe essere indotta da un'empiria circostanzia­ ta secondo il tempo e il luogo; non si ottiene ciò che è al di là di ogni esperienza finita a partire da categorie valid'e unicamente per que­ sta esperienza. Ecco due nuovi modi per affermare che non vi è esperienza della totalità! Una totalità spaziale è infatti la negazione del luogo concreto, x,ropcx,, che assegna agli esseri il loro posto; e un"'esperienza" della totalità temporale ridurrebbe la successione a un'apparenza tesa a nascondere la reale simultaneità degli eventi. Dappertutto e Sempre (o Tutto-insieme) sono due forme del puro e semplice Tutto. Cosicché !'"universalità" è qui considerata al contempo come spazio "intelligibile" e come eternità o durata su­ perata [surmontée]. Una qualsiasi esperienza, se è effettiva, se è particolarità autentica e realtà sinceramente vissuta, deve poter ri­ spondere alle due domande Dove? e Quando?, che sono le due mo­ dalità circostanziali del Quid-quomodo, le due indicazioni circa l'e­ sistenza localizzabile del percepito. Non si dà evento psicologico che non sia vissuto da qualcuno in qualche luogo e a una certa data della durata. È il senso stesso di "evenit"; se accadere ha un senso, senza essere una verità eterna o una figura retorica, questo senso dev'essere: prodursi in questo o quel luogo nello spazio, in questo o quel momento nel tempo; l'insorgenza si chiama talvolta sensa­ zione, talvolta emozione, ma è sempre qualcosa che avviene, un incontro fatto dal vivente nell'atlante spazio-temporale, ossia nel campo vitale dell'empiria. Il soggetto affettivo vive, in ogni istante, nell'innocenza del presente. Per la riflessione in grado di comparare, sorvolare, ricordarsi e prevedere, la durata vissuta si articola in lassi o periodi concatenati dotati di inizio e di fine e suddivisi in fasi e perio­ di. Così la durata è intervallo all'infinito, e l'istante approssimativo della quotidianità concreta non è a sua volta che il lasso più breve dei lassi in cui si incastra. La creatura dell'intermezzo [entre-deux] è im­ mersa in quest'organizzazione immanente, in questa concatenazione storica di periodi, va da provvisorio a provvisorio e si riposa da un'occupazione con un'altra occupazione; perché chi dice temporale dice temporaneo. È questa successione variopinta di periodi, ciascu­ no definito rispettivamente da un non-ancora e da un non-più, cia­ scuno riassumibile sull'orologio o sul calendario (come un regno all'interno di una cronologia) in un compito limitato, un piacere 36

temporaneo, un'attesa, è questo impiego orario o stagionale del no­ stro tempo a comporre la continuazione media dell'empiria. Tran­ siteremmo forse dall'empiria alla metempiria per mezzo di un sem­ plice passaggio al limite, prolungando all'infinito la durata vissuta o omogeneizzando le epoche e i periodi eterogenei che la segmenta­ no? Ma una durata infinita e omogenea non è qualcosa che si "pro­ va" - o meglio, non è affatto una durata, poiché non esiste durata che non sia vissuta, e non si può vivere (se si riesce a concepirlo) un infinito in atto senza variazione di eventi e senza quegli episodi con­ catenati che chiamiamo una malattia, un apprendistato, il tempo di una sonata ... Spinoza, è vero, precisa: "Sentimus experimurque nos aeternos esse".8 Ma dice: l'anima sente che la sua essenza è eter­ na; non dice: l'anima sente in se stessa l'eternità; e nemmeno: l'ani­ ma si sente propriamente parlando eterna, dato che l'eternità, non avendo né colore, né odore, né sapore, non può essere sentita; l'i­ dea stessa di un'esperienza mistica sembra preclusa dal seguito del­ lo stesso scolio, dove Spinoza parla delle dimostrazioni come "oc­ chi" che permettono all'anima di vedere. Non vi è empiria che non sia differenziale: solo la varietà e la differenza sono qualcosa che si prova; anche l'adiaforia è una diafora infinitesimale! Soprattutto, c'è una differenza di natura tra l'eternità dell'essenza e una conti­ nuazione alla giornata, precariamente ricondotta di desinenza in desinenza tramite procrastinazioni indefinite: perché, beninteso, un'eternità garantita una volta per tutte è altro da un prolungamen­ to sempre rimesso in questione o da un differimento progressivo; l'empiria, che ignora la necessità increata nel senso attribuitole da Parmenide, 9 non conosce neppure l'eternità "a parte post", l'unila­ terale sempiternità del definitivo. Se non è possibile, a partire dall'empiria, accedere all'eternità matematica, sarebbe forse possi­ bile accedere all'escatologia partendo dalla storia? Ma porsi la sto­ ria totale, salvo essere teologi o visionari, significa restare nel ro­ manzo di anticipazione e quindi nell'empiria: empiricamente non si dà "consumazione dei secoli"; l'annientamento del genere umano e della coscienza che pensa un simile annientamento non è un evento 8 9

Eth., V, 23 se. Cfr. Léon BRUNSCHVICG, Spinoza et ses contemporains, p. 193. DIELS, 8. R!TTER e PRELLER, p. 117.

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più "metafisico", a questo proposito, di un colpo di grisù o di una collisione tra autobus; per questo Eraclito e gli Stoici tendono a rappresentarsi la fine del mondo come un inçidente periodico che punteggia l'eterno ciclo degli eoni. Ma il "Grande Anno" non è che un anno, è un minuscolo anno alla superficie dell'Essere! la stessa epoca del mondo alla quale metterebbe fine non è che un'empiri­ cizzazione del tutto antropomorfica dell'eterno. E d'altronde la possibilità di una pluralità di mondi abitati basterebbe a empiriciz­ zare la sedicente catastrofe metafisica anche qualora annichilasse la Terra, l'umanità e il sistema solare, e una volta per tutte... La fine del mondo in quanto fenomeno astronomico è pur sempre un feno­ meno locale! Un fattaccio, un incidente mortale, una catastrbfe ge­ ologica e un cataclisma cosmologico differiscono solo per il livello di gravità e l'estensione dei danni, ma lasciano intatte le verità pen­ sate; dopo come prima, il principio d'identità rimane valido! Quale apocalisse oserebbe immaginare un Giudizio ultimo per gli assio­ mi? No, la storia non è mai "consumata" ... a meno che non si im­ magini un Anno Mille non solo della storia, ma del Tempo in gene­ rale, una conflagrazione che nichilizzi non soltanto la vita, ma le essenze e le verità: non ci sono limiti al delirio ucronico o escatolo­ gico ... Tramite l'empiria non si passa perciò né all'eternità né all'u­ niversalità metempiriche. Il finito non diviene totalità infinita ap­ profondendosi poco a poco, né conformandosi pezzo dopo pezzo, né prolungandosi secolo dopo secolo, né elevandosi causa dopo causa. Un'esperienza convinta di immergersi nel cuore stesso del mistero non incontra la cosa metafisica più di quanto un microfisi­ co la incontri alla scala dell'atomo. Colui che spera di incontrare il buon Dio avendo di mira, nella sua ascesa dialettica, cause sempre più eminenti, o si condanna a una regressione indefinita o, dispe­ rando delle cause (dato che "bisogna fermarsi"), decide di consa­ crare arbitrariamente una causa sovreminente che proclamerà pu­ ramente causante, puramente motrice e non mescolata al causato. Colui che annette provincia su provincia e, alla ricerca di un sapere enciclico, dilata all'infinito l'estensione del suo problema, supplisce alla modulazione con l'inflazione nuda e cruda o l'estrapolazione e, credendo di aver trovato l'altro-ordine, si aggira ancora nello "stes­ so ordine". Colui infine che continua indefinitamente l'intervallo è pur sempre nell'intervallo relativo e riconduce l'eternità positiva

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alle proporzioni di una sempiternità. La metafisica comincia dalla metafisica. Si progredisce da un comparativo all'altro per crescen­ do o amplificazione graduale: ma si passa all'incomparabile super­ lativo, al superlativo di tutti i superlativi, tramite mutazione radica­ le. Il - gigantismo del quaggiù non potrebbe sostituire un al di là. Come l'ubiquità non è espansione del luogo, ma spazio topografico nichilizzato, così l'eterno non è il più vasto panorama possibile sul­ la storia, e nessuno ne scoprirà il paesaggio ampliando, secolo dopo secolo, le sinossi che l'empiria mette a nostra disposizione. Colui che parte dall'hic-et-nunc non troverà mai l'altro-ordine delle essen­ ze. L' ecco di ogni esperienza è sempre precisato da un questo, cos� qui e ora. La teologia antropomorfica parla certamente di un laggiù, ma questo laggiù è il futuro Al-di-qua e il Qui di domani: quello diverrà questo pet mezzo del movimento e del tempo. L"'Ecce", architettura volgare edificata coi quattro dati Hic, Sic, Ibi e Nunc, non oltrepassa la portata degli organi sensoriali o dell'allocuzione sociale. Il mondo del senso comune non è altra cosa, al limite, che una sfera della presenza ingrandita ai limiti dell'ecumenicità; una specie di grande "Qui". Tra l'ingrandimento mondiale o mondano dell'Ecco-qui-questo e l'universale dell'uomo matematico vi è lo stesso rapporto che sussiste tra mondo e universo, tra l'Ecco della mondanità sociale e il cosmo della razionalità copernicana: l'uno è un Qui colossale e geocentrico, Via lattea provinciale a misura di cittadino, l'altro è invece il sistema dei sistemi all'infinito. Vi è-for­ se, oltre il mondo e oltre l'universo astratto, una sorta di mondo::­ universo che sarebbe quello del nostro mistero, cioè della "concilia­ rità"? oltre alla localizzazione topografica nello spazio della geogra­ fia e alla pura posizione "atopica" nello spazio ideale della geome­ tria, si darebbe forse un miracolo di ubiquità o di onnipresenza concrete? Dappertutto, in questo caso, non significherebbe più soltanto Altrove né, in senso negativo, In-nessun-luogo: "dapper­ tutto" designerebbe la presenza "onnilocale", che è innanzitutto localizzazione superata e supra-spazialità. Un'esperienza di onni­ presenza e di onnipresente non andrebbe forse a collocarsi al di là della stessa metempiria?

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II. - Conducibilità del!'Apparenza La dialettica sarebbe efficace se il sensibile fosse il riflesso ot­ tico, l'inverso simmetrico e il simbolo di una realtà ontologica, o addirittura il mezzo in vista di un fine. La dialettica è resa possibi­ le dal passaggio dalla sfiducia [mé/iance] alla diffidenza [défi"ance] orientata. La sfiducia, il risentimento ambivalente e un po' maso­ chista contro la soavità sensibile, considera l'apparenza non solo fuorviante, ma ingannevole e perfida, in parte diabolica: Ulisse si tappa le orecchie per non udire le Sirene melodiose dell'adulazio­ ne; le femminilità incantatrici appostate sul suo percorso, Circe e Calipso, non sono lì per costellare il buon cammino della verità, che è il cammino verso Itaca, ma per pervertire l'eroe e indurlo in errore, per "sedurlo" fuorviando o deviando la sua odissea; perché questa è un'odissea: itinerario di verità (Mé>c;) deviato da trappole affascinanti, dal miele delle dolci parole e dalle insidie fatali del consenso. La misoginia, ovvero la fobia dell'effeminazione - Ercole effeminato da Onfale, Ulisse da Circe - è una delle forme di que­ sta sfiducia passionalmente virtuosa verso il Compiacere [Plaire]. - Certamente il piacere [plaisir] è l'attrattiva dubbia per eccellenza, e si sa che Platone ha sempre condannato come edonismo la filo­ sofia. della verità speciosa e adulatrice, e tanto deludente quanto seducente: il Gorgia, insieme alla retorica, vomita le dolci bevande e gli sciroppi nauseanti del consenso, ovvero l'arte di maneggiare una verità gradevole e superficiale; i retori non furono gli esperti dell'adulazione (tcOA.CX.tcétcx.) e i professionisti dell'apparenza per­ suasiva? Alla fraudolenta "Cosmetica" che gioca con smalti e rasi 10 si oppone l'austera, nuda verità della ginnastica; al cromatismo dei riflessi, l'acromatismo dell'essenza. Un solo milligrammo di arren­ devolezza sensibile, dirà Kant, è già una buona ragione per diffida­ re. Tuttavia, la naturalità e la qualità non sono tentazioni diaboli­ che, e meritano piuttosto diffidenza che sfiducia: il Filebo include il piacere nella mescolanza della vita felice che è la vita dei saggi; e inoltre il piacere, come l'opinione vera, è un non-essere relatiIO Gorgia, 465 b: ')WOOµcrot Kaì AEl.Ò'tTJ'tt KCXÌ èa&fpe1 cbta'UOO'a [colori, lisciature e vesti] ...

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vamente esistente a partire dal quale è possibile un'anagogia. Più in generale (e il sembrare, in questo, si oppone all'essere come la fenomenalità alla noumenicità) l'apparenza è ciò che "ha l'aspetto" senza essere, e non è in sé. Ma del resto l'apparenza è apparizione e, nello stesso tempo, sembiante che è relativamente inganno [faux­ semblant], falso sembiante e proprio per questo verosimile! L'ap­ parente è il patente ... Di conseguenza, anziché tapparci stupida­ mente le orecchie, anziché incarnare il debole Ulisse che preferisce non udire le Sirene dell'adulazione e fa il sordo come sant'Antonio il cieco - perché sa che non potrebbe udire senza soccombere -, e se invece ascoltassimo un po' le incantatrici? non per credere a ciò dicono, ma per comprendere quel che pensano. Atteggiamen­ to probabilmente più virile della fobia - cosmofobia o iconofobia! Beninteso, l'apparenza ('CÒ qx:uvéµevov) non è l'essenza (,:b bv), ma è, fattivamente, qualcosa dell'essenza, 1:t 1:0-6 6v1:0c;: in essa· vi è dell'essenziale; come il non-essere, secondo il Sofista, è altra cosa dall'essere, così anche l'apparenza è altra cosa, vale a dire qualcosa. Non apparirebbe niente se non ci fosse niente! Rivelazione di ciò che è velato e visibilità dell'essenza, questa menzogna ben fondata in cui consiste il fenomeno è allo stesso tempo un'ontofania, pone letteralmente l'invisibile in piena evidenza: si dice che l'apparen­ za non esibirà senza deformare o che, al contrario, non deformerà senza alludere all'essenza di cui è apparenza e senza indurre; come l'ironia, sulla via della verità; sta a noi saper decifrare il messaggio cifrato, comprendere l'allegoria, interpretare correttamente i segni� e le allusioni e trovare infine la verità psicologica del mentitore, la verità "patologica" del piacere e la verità secondaria dell'illusione. C'è del vero nell'apparenza, per quanto non sia la verità! Il regi­ me anfibolico dell'apparenza è la ragion d'essere dell'ermeneutica: dunque ci sono ancora giorni felici per la dialettica! Chiaramente la dialettica è resa possibile dalla semi-verità di ciò che al contempo sembra e appare, che tale semi-verità sia l'ambiguità dell'apparenza o l'ambivalenza del piacere. La filosofia è un'interrogazione sulla causalità dell'apparire o, più semplicemente, sul soggetto-sostanza dello splendore: dato che lo splendore tutto rispleso è di per se stes­ so una risposta tutta "risposta" [la splendeur toute resplendie étant elle-meme une réponse toute "répondue"], il filosofo si domanda in generale che cosa risplende o appare. Il credulone si fa raggirare 41

dall'apparire, dal verbo splendido separato dal soggetto risplen­ dente: la funzione senza sostanza riluce, e l'arcobaleno delle qualità inconsistenti abbaglia l'uomo frivolo... L'impressionismo dai mille riflessi porta al sostanzialismo come il docetismo ali'esemplarismo. La filosofia è quindi conduzione a partire da una apparenza buona conduttrice; la funzione della riflessione consiste nel trovare una verità sostanziale dietro immagini senza consistenza e miraggi senza permanenza; nel riscoprire, al di là dell'ombra portata o dell'eco re­ stituito, l'originale archetipico, la verità prima e primaria che porta l'ombra o restituisce l'eco. A queste condizioni, l'errore non è altro che compiacenza al gusto sensibile, cioè ascensione interrotta; l' er­ rore è mancanza d'ironia o di coscienza, stoltezza, arresto adialetti­ co: ingannarsi è prendere l'ombra per realtà e il simulacro per para­ digma. Filosofare, al contrario, è prendere coscienza dell'esponente del riflesso, sia esso apparenza o apparenza di apparenza, sottopro­ dotto secondario dell'apparenza, riflesso a sua volta riflesso in un riflesso... La filosofia dissuade o disillude la vittima illusa dal falso splendore del simulacro; supera in astuzia la filosofia incantata dal lucore superficiale della doxa; la filosofia rimette sulla buona strada il debole Ulisse perennemente tentato di eleggere a suo domicilio la caverna delle ombre. Per il pessimista l'apparenza non è altro che falsificazione, raggiro o seduzione fraudolenta: per il migliorista o il pedagogo essa è invece un fantasma superficiale suscettibile di vol­ gersi in allusione; tramite un'ortopedia appropriata, la conversione ricompone quel che la perversione aveva disfatto. Vi è soprattutto un'anagogia privilegiata particolarmente idonea a condurre verso l'essenza l'uomo frivolo, che in mancanza di essa aderirebbe alla lettera e fraintenderebbe lo spirito: questa anagogia è l'arte. Se oc­ corre una mediazione laboriosamente discorsiva per andare dalla semi-verità del piacere alla verità totale, la bellezza è l'immediato splendore del Bene: non la lontana e menzognera apparenza, ma la vicina, autentica irradiazione della luce originale; l'ermeneutica e l'ironia obliqua, ossia il chiasmo, qui sono inutili per interpretare ciò che non è cammino contorto, ma 6pcp11 òtaÀEK'ttK'll, dialettica diritta e diretta. Il Bello non è forse lo splendore del Bene? la sovra­ na visibilità e veracità della verità? l'emissione non deformata, non rifratta dell'essenza? Perché il vero è a fortiori veridico; ciò che è, a maggior ragione sembra, ovvero si esibisce, così come l'apparire, a 42

minor ragione, rinvia all'essere. Il Bene è una Bellezza criptica che fa esteticamente trasparire qualcosa del proprio essere, una sovra­ bellezza sovrasensibile che fa risplendere lo splendore. La mimetica platonica è dunque resa possibile dall"'analogia" tra sensibile e intelligibile: il modello si legge evidentemente nel­ la sua copia e l'originale imitato nella sua stessa immagine, poiché l'idolo è, in forma deludente, inconsistente e diminutiva ciò che l'archetipo è in estrema densità. Così vi è un momento, alla fine del sesto libro della Repubblica, in cui la corrispondenza tra Visibili e Intelligibili (òpcx:t6:.- vo11m) e l'analogia tra sole e Bene cedono il passo a un'unica scala dialettica: il parallelismo metaforico si tra­ sforma in connessione transitiva e la simmetria allegorica in taute­ goria fisica; il Bene è letteralmente "causa" e padre del sole, e non vi è più che un'unica gerarchia di copie e di modelli, ogni modello facendosi copia al livello superiore, fino al modello di tutti i modelli per cui tutto è copia senza più essere copia di nessun altro modello. Eppure questo platonismo è al contempo troppo ottimista e troppo diffidente nei confronti dell'apparenza: diffidente poiché ammette soltanto un'empiria illusoria e non ammette sensazione verace; e tuttavia ottimista, poiché quest'essere rarificato del "gioco d'om­ bre" non chiede che di essere arricchito, rinforzato, essenzializzato, e poiché le menzogne della sensazione e della voluttà si rivelano in definitiva del tutto inconsistenti. O, se si preferiscono altri parago­ ni: l'intelligibile è inscritto in qualche modo a inchiostro simpatico nel sensibile, e si può leggerlo facendolo apparire col rivelatore del� la dialettica. La marca più riconoscibile della metafisica platonica, almeno nella sua stagione purista e ascetica, è certamente l'evasione ascensionale verso il cielo della trascendenza. Tuttavia, la sublima­ zione catara dell'apparenza, che è tutto il contrario di una distilla­ zione astraente praticata sulla cosa concreta, suppone nondimeno l'omologia fondamentale di modello e immagine, poiché è proprio questo rapporto a giustificare una "mimetica". Si trova la stessa similitudine (bµo'uoµcx.) nella simmetria tra mondo intelligibile e mondo sensibile, sociale o psicologico. È l'eterno idolo della "mi­ niatura", che ispira tante rappresentazioni magiche e la cui origine va forse individuata nel nostro istinto economico, o meglio nella nostra pigrizia immaginativa ... I miti parallelisti, la teoria degli en­ grammi cerebrali, la similitudine di microcosmo e macrocosmo, di 43

monade e universo non esprimono a loro modo questo stesso biso­ gno? O forse si tratta del fatto che la parola immagine può essere presa in due sensi radicalmente opposti: cl� una parte l'immagine è ciò che imita e quindi implica al contempo lo Stesso e l'Altro, sta al paradigma come il minore al maggiore, il negativo fotografico al positivo o la stampa in grigio alla stampa policroma di un'incisione; l'immagine può essere indiscernibile dal modello e non differirne che per il semplice fatto di esserle seconda, perché manca di inizia­ tiva. A questa concezione fotografica di riproduzione o riduzione, ossia di duplicato, si riferisce generalmente la Mimetica. Ma l'im­ magine (eiKcov) può anche rinviare a ciò che è assolutamente altro e non solo relativamente altro, a ciò che, in generale, esiste sotto altri rapporti, su un altro piano e con un'altra promozione. È esat­ tamente ciò che definiamo Altro-ordine ... non un semplice calco servile o un'icona virtuale dell'al di qua, ma un vero e proprio Ol­ tre. L'immagine può qui corrispondere, in piena omologia e punto per punto, al "modello": ma ciò che il modello è effettivamente, essa lo è sul piano ineffettivo, nozionale e simbolico del concetto. Come l'immagine retinica non è una proiezione spaziale dell'evento vissuto dall'Io nel foro intimo del proprio quanto-a-sé, così l'evento vissuto interiormente, ossia l'atto di Vedere, non è un epifenomeno di questa immagine: l'empirico e il metempirico non sono lo stesso testo in due lingue diverse. Nella visione, è l'incomparabile mistero prospettivo della prima persona a essere il totalmente-altro-ordine, l'ordine qualitativo della coscienza senza misura comune con l'ecci­ tante fisico o con una qualsivoglia "impronta" corticale. C'è di più: la mimetica, ammettendo innumerevoli gradi tra empiria e metempiria, e di conseguenza minimizzando (se non completamente aggirando) la soglia della morte, svaluta sia la co­ pia che l'archetipo; ancor meglio - non vi è più modello, vi sono soltanto copie, dato che sensibile e intelligibile sono l'uno l'imi­ tazione dell'altro; e chi non fa onore alla soluzione di continuità della morte svaluta al contempo la morte e la vita, ovvero fa della morte una qualche sopravvivenza e della vita un lento morire: una concezione tanatomorfica dell'esistenza e una rappresentazione biomorfica dell'inesistenza sono indubbiamente solidali... E se la qualità sensibile viene considerata un'apparenza dell'Idea, che ne costituirebbe la verità e il sistema di riferimento, la qualità di-

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venta fantomatica come il male nel socratismo: il male è un sogno, l'esperienza è un sogno, la vita intera è un sogno e il filosofo che si sforza di risvegliare i dormienti dissipandone il molle sogno è lui stesso un fuggiasco e un disertore del mondo. Bisogna trasfe­ rirsi da qui, emigrare verso le altezze: cpe{Jyetv 6ci npbç 'tb dvco [bisogna fuggire lassù], cpeuyroµev 611 vcx.v'ta.t [gli dèi possono tutto]).

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della totalità del possibile; infine un'onnipotenza [omnipotence] me­ talogica che è il potere inconcepibile e contraddittorio dell'impossi­ bile. L'Altro-ordine risultava più imperituro della natura, più indi­ struttibile del sole, più incorruttibile del tempo: ma smette di essere indistruttibile se lo si considera rispetto a un totalmente-altro-ordi­ ne implicito sul quale si staglia: a partire da qui il necessario diviene contingente e l'impossibile diviene iperbolicamente, incomprensi­ bilmente, miracolosamente possibile; a partire da qui una monta­ gna può passare attraverso la cruna di un ago. Questo non equivale, in definitiva, a porre l'eternità come essenziale e a sottintendere il contraddittorio drastico in grado di revocarla?

IV - Il "Potius-quam" Parmenide fece come se il problema non sussistesse. Spinoza e Leibniz non rifiutano più di parlarne. Perché dopo il creazionismo cristiano, il volontarismo scotista e Descartes, il problema non po­ teva più non essere posto. Spinoza, in realtà, rifiuta di giustificare o motivare moralmente i disegni di Dio assegnandogli un "exemplar" o un "certus scopus" che ne sarebbe la mira: la volontà divina non tollera un "ad quod",27 un "aliquid extra Deum" la cui sola preesi­ stenza basterebbe a sdivinizzarla. Spinoza evita la Cariddi del "be­ neplacitum indifferens" ma non per ricadere nella Scilla del mora­ lismo: Spinoza respinge non soltanto, come Leibniz, il fatto dell'a­ liter, ma la possibilità stessa di questo aliter: presagisce che se ci si avventura negli antropomorfismi e negli antropopatismi di una te­ odicea, se ci si intromette nel patrocinare la causa di Dio, non sarà poi più possibile rifiutare l'onnipotenza all'insondabile santità di questo volere. Ora, è proprio questo lo spettro della filosofia prima che si tratta a ogni costo di esorcizzare. Resta il fatto che l'essere procede necessariamente "ex data perfectissima natura", prenden­ do perfectissima non come un superlativo relativo ad altre possibili­ tà, ma "simpliciter", come un superlativo assoluto: "summa perfec­ tio", sovrana perfezione, perfezione pura e semplice, non designa 27 Eth., I, 33 e se. 2. Cfr. 17 sgg.

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qui che la totalità dell'essere, totalità che non può neppure dirsi solitaria poiché al di fuori di essa, per definizione, non c'è nulla. E quanto a questa perfetta pienezza, essa è già totalmente data (data): è dunque tanto participio-passato-passivo quanto superlativo asso­ luto, natura "naturante" non meno immemoriale, a questo riguar­ do, della naturata. E quindi "ab aeterno" e "in aeternum" non sono proprietà dell'essere, poiché non sono altro che l'immutabile attua­ lità dell'esistenza considerata come verità eterna. L'idea di un altro piano dell'universo in cui la somma degli angoli di un triangolo fosse più piccola o più grande di due angoli retti è non soltanto un "absurdum", ma un "absurdissimum". 28 E tuttavia il filosofo dell'ordine geometrico non respingerebbe con tanta indignazione l'idea assurda che le cose avrebbero potuto svolgersi "Alio ordine" se questa possibilità di "ucronia" non avesse almeno sfiorato il suo pensiero. L'impossibile possibilità dell'assurdo sospinge, nell'ordi­ ne geometrico, un movimento di pensiero che l'Eleatismo paraliz­ zava in anticipo. Dio non esiste prima dei suoi decreti, e il decreto (che è ancora participio-passato-passivo) è decretato da tutta l'eter­ nità, ma ciononostante vi è "decreto"; decretum senza voluntas de­ cernens e volontà eterna senza volere. L' Esti eleatico, posto ormai dall'espressa negazione di ogni "aliter", non rivela in tal modo la sua effettività sovrannaturale? Leibniz, per parte sua, non ha più alcuna reticenza circa l"'originatio radicalis" e non esita a scrivere: "Series serum potuit aliter esse" .29 La domanda "radicale" che egli si pone è infatti quella del Potius-quam, del Piuttosto-che: "Cur·' aliquid potius existat quam nihil? ".30 Questo Perché si scompone in due �perché" di cui uno è assolutamente o categoricamente radi­ cale mentre l'altro lo è solo ipoteticamente o relativamente: "Per­ ché esiste qualcosa piuttosto che niente?", e: "Se qualcosa deve esistere, perché così piuttosto che altrimenti?" ("sic potius quam 28 Leibniz giudicherà Assurdissimo che la libera volontà di Dio voglia la verità dell'esistenza divina: Textes inédits, pubblicati da Gaston GRUA, I, p. 433. 29 Textes inédits, cur. Grua, I, p. 268. 3° COUTURAT, p. 533. Principi della natura e della grazia,§ 7. De rerum origina­ tione radicali, cur. Gerhardt, VII, p. 303, 304, 305. GRUA, p. 16: "Cur haec potius rerum series existat quam alla quaevis". "Plutot que" v,iuttosto che]: Jules LEQUIER, La Recherche d'une première vérité (Paris, 1924), p. 112.

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aliter"): per esempio, perché Cesare ha vinto piuttosto che perso la battaglia di Farsalo, ha attraversato piuttosto che non attraversat� il Rubicone?31 Al primo Perché non viene data in realtà alcuna ri­ sposta: "Una volta posto che l'essere prèvale sul non essere... ", "posito semel ens praevalere non-enti" .32 "Si ponamus decretum esse ut fiat triangulum ... " [se poniamo di formare un triangolo], "posito tendendum esse a puncto ad punctum... " [posto che si debba tendere da punto a puntoJ.33 Bisogna che ci siano dei trian­ goli in generale; bisogna inoltre che ci sia movimento in natura. E se non ci fossero né movimento né triangoli? Leibniz non risponde a questa domanda se non con la domanda stessa: vi è una "disposi­ tio ad existendum potius quam non existendum", una "ratio major existendi". Tale è il circolo della petizione fondamentale: "Aliquid potius existit quam nihil". E anche: "Est ergo causa cur (?) Existen­ tia praevaleat non-Existentiae" [vi è una causa per cui l'esistenza prevale sulla non-esistenza].34 E questa "causa cur" che cos'è? Una certa "existendi vis" o "propensio ad existendum" che Leibniz de­ finisce anche Esigenza e "Pretesa" e che ha più della virtù dormiti­ va che della causa esplicativa! Dio è "existentificans". Dunque ci sarà qualcosa e l'alternativa tra essere o non essere è già completa­ mente decisa: questo è il minimo inesplicabile, l'irriducibile residuo di participio-passato-passivo che la metafisica ha bisogno di darsi o di postulare per poter andare più lontano: è solo a partire dall'in­ giustificabile potius quam nihil che può essere giustificato il fatto, già secondo, del potius quam aliter. Dunque il C'è [le Il-y-a] va da sé! È dunque dopo la posizione del positum, e in primo luogo dell'Essere che è cosa posta per eccellenza, dopo il decreto già de­ cretato e dopo che il "fiat" è divenuto "factum" che le determina­ zioni ulteriori possono spiegare non l'essere, ma le maniere di esse­ re dell'Essere; non l'effettività, ma le modalità del Movimento e del

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Causa Dei, 36: "Ratio(. .. ) cur Deus malum permittat potius quam non permittat". Da contrapporre a Pascal, fr. 194, 205, 208. De rerum originatione radicali, VII, p. 304; Grua, p. 17. De rerum originatione radicali, VIL p. 304. CouTIJRAT, p. 534; Grua, pp. 16-17, Elementa vera pietatis. Elementa philoso­ phiae arcanae de summa rerum (Jagodinski, Kazan, 1913, p. 28).

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Triangolo. Allora tutto è giocato, tutto è dato, tutto è posto; l'essen­ ziale è già reciso e deciso; e allora non è più tempo di chiedersi se il nulla non sia "più semplice e più facile che qualcosa".35 Ormai l"'originatio" radicale è un falso problema. Come si vede, il Perché fondamentale non ha avuto neppure il tempo di formularsi che già il secondo Perché ne ha colmato la lacuna. Tutto ha dunque inizio con un sì. Ma è proprio per questo che il potius quam fa problema, e nessuno potrà impedire a Schopenhauer di dire (come se si fosse chiesta la sua opinione alla creatura): meglio sarebbe valso che non ci fosse nulla! - Nel trattare la seconda questione, Leibniz si cura soprattutto di rimettere a posto il Perché scandalosamente rove­ sciato da coloro che fanno dipendere le verità eterne dalla volontà arbitraria di Dio:.l'essere non è buono perché la volontà divina l'ha creato, ma al contrario la bontà divina, che è giustizia e saggezza, l'ha scelto tra i possibili perché era il "Migliore". La teodicea rico­ struisce dunque la motivazione divina, che è sempre una scelta "ex ratione"... Si tratta insomma di giustificare il "prae" della preferen­ za e della prevalenza onorando la "gloria" divina, cioè l'armonia e l'ordine inscritti nella visibilità della creazione; si tratta insomma di giustificare le ragioni che la creatura ha di lodare il suo autore! Ordine e bellezza non sono maniere di essere secondarie dell'Esse­ re già posto? Così, allo scopo di evitare !'"antropomorfismo" dei sociniani o semi-sociniani, e ancor più il "dispotismo" di Cartesio e di Pierre Poiret, Leibniz è costretto a invertire l'ordine stesso del buon senso: magnitudo e potentz'a nella creazione "iam constituta",·· bonitas e sapientia36 nella creazione "costituenda". La moralità del­ la fisica,· che Leibniz si sforza di rintracciare, e l'idea stessa della scelta eccellente, suppongono che alla scelta preesistano delle rela­ zioni intelligibili. Certo, Dio non può tutto! E in particolare: Dio non può creare ciò che è contraddittorio; l'Essere onnipotente "fa. cere potest quod non implicat contradictionem" .37 Ecco un quasi­ onnipotente che andrebbe piuttosto definito multipotente, poiché

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36 37

Principi della natura e della grazia, § 7. Il Causa Dei (Gerhardt, VI, p. 439) oppone Potentia e Sapientia come attributi di Magnitudo a Justiiia e Sanctitas come attributi di Bonitas. Ma: VII, p. 305. De libertate, fato, gratia Dei, GRUA, p. 307.

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non è "onnipotente" che nell'ordine delle esistenze contingenti; questo Dio molto potente non è letteralmente anni-potente: ogni cosa gli è possibile salvo per l'appunto l'impossibile! Diciamo, in poche parole, che tutto il possibile gli è possibile. Dio può tutto quel che gli consente il principio di contraddizione, il quale impe­ disce a certi possibili di essere "compossibili", poiché la compossi­ bilità dei possibili tra loro contraddittori, cioè rispettivamente pos­ sibili ma non simultaneamente possibili, cioè esclusivi l'uno dell'al­ tro, vale a dire incompatibili, questa incompossibilità è proprio l'impossibile. Dio causa l'esistenza dei buoni ma non l'essenza della bontà; è causa del fatto che esista da qualche parte "aliquod trian­ gulum" ma non è causa della triangolarità, poiché le proprietà del triangolo non sono un privilegio che egli avrebbe accordato a que­ sta figura. Sta a noi pretendere, dopo di ciò, che le verità eterne sottratte al volere e al potere del Creatore abbiano luogo nel suo intelletto, che il "paese" delle essenze sia insomma Dio stesso... : occorrerà perciò divinizzare la logica, affinché Dio trovi in sé stes­ so, e non fuori di sé, il limite alla propria onnipotenza; ma per esse­ re interno a Dio, questo limite resterà nondimeno esterno alla vo­ lontà di Dio, - e la difficoltà è solo spostata. Dio, dice Leibniz, non è causa del suo stesso intelletto: "Neque Deus intelligit quia vult, sed quia est" [Dio non comprende a causa del suo volere, ma a causa del suo essere].38 Dio, a causa del destino logico-metafisico accordatogli, impedirebbe dunque a se stesso di fare tutto ciò che vuole. - Se adesso passiamo dall'ordine delle essenze a quello delle esistenze e dalla necessità metafisica, il cui contrario implica con­ traddizione, alla necessità ipotetica il cui contrario è almeno possi­ bile, Dio apparirà onnipotente "ex hypothesi" nei limiti impostigli da una necessità assoluta "ex definitione" o "ex terminis". Rispetto alle verità assolutamente necessarie, Dio non può né del resto vuole tutto: dunque non può far sì che un triangolo abbia quattro lati; rispetto alle verità contingenti può invece tutto, benché non voglia tutto: dunque avrebbe potuto realizzare una serie in cui gli empi fossero salvati e gli innocenti dannati, ma non l'ha voluto. Se Dio 38

Con/essio philosophi (Jagodinski, Kazan, 1915), p. 16. GRUA, pp. 15-16, e 304 (De contingentia): "Major existendi quam .non existendi ratio".

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non può l'assurdo, può sicuramente lo scandalo, benché non lo vo­ glia, o lo voglia in misura minima, cioè lo tolleri come un male mi­ nore o un male necessario e come condizione di un universo accet­ tabile. Nel primo caso non ha né l'onnipotenza né l'onnivalenza; nel secondo ha l'onnipotenza ma non l'onnivalenza ... Ma di fatto, anche qui, ha davvero l'onnipotenza? In un brogliaccio assai curio­ so sul quale Gaston Grua a ragione richiama l'interesse-3 9 e che, come sembra, è un testo unico nel suo genere, Leibniz ha tentato di estendere questa nuova limitazione della volontà divina. "Deus cur perfectissimum eligat nulla potest reddi ratio quam quia vult seu quia haec est prima voluntas divina perfectissimum eligere". Il "primum divinum decretum" è un indimostrabile a priori, una pro­ posizione prima come l'assioma A è A. Da qui il dilemma della causalità circolare o della regressione all'infinito cui l'Arcanum di­ vino ci condanna; o, per diallele o tautologia, bisognerà dire: Dio vuole perché vuole, la ragione della scelta essendo "volutati intrin­ seca"; oppure si dovrà rischiare la regressione nell'insondabile arbi­ trio divino: "Deus enim vult velie(. .. ) et vult voluntatem volendi, et ita in infinitum, (. .. ) et decrevit decernere". Ma non serve più a niente invocare la volontà di volere se per oggetto le è già stata as­ segnata la suprema perfezione, per/ectissimum. Senza dubbio Lei­ bniz potrebbe sempre rispondere che questa necessità non logica ma morale di scegliere il migliore è la libertà stessa ... Dopo questo, non può evidentemente che tacere. Ora, chi non vede che ciò signi­ fica inaugurare la difficoltà ma non risolverla? Leibniz, tra l'altro, lo confessa apertamente: "Perfectissimum sapientissimo non potuit non placere, at quod placuit potentissimo non potuit non existere" .4° Comunque si ponga la questione, la volontà divina su­ bisce in ogni caso l'attrattiva oggettiva del migliore per una specie di aristotropismo teologico. Ed ecco come la volontà antecedente del bene diventa in Dio la volontà conseguente o decretoria41 del Meglio: con una volontà antecedente Dio vuole la salvezza di tutte

39 40 41

GRUA, Ré/lexions sur Bellarmin, pp. 301-302. GRUA, Elementa verae pietatis, p. 17. Causa Dei (VI, pp. 442-443 ), oppone Voluntas praevia o inclinatoria e Voluntas

/inalis o decretoria.

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le creature, con una volontà conseguente si rassegna a dannarne qualcuna; con una volontà permissiva che deriva dal suo orrore per il peccato ammette il fatto del peccato: vuole in una sola volta degli interi blocchi di realtà, delle serie di eventÌ ("series") che includono il male, lo scandalo e la sofferenza; vuole più di quanto non voglia, vuole ciò che non vuole: scegliendo la "notio", sceglie nello stesso tempo tutto il pacchetto, crimini e disgrazie comprese; realizza dun­ que il bene in summa o, come si potrebbe anche dire, ooov 6uva:t6v [per quanto possibile]. Dio, alle prese con gli incompossibili, fa al meglio, del suo meglio o per il meglio, - che poi è una maniera di tenersi tra niente e tutto; la sua arte è una combinatoria alle prese con ostacoli inevitabili, spazi sprecati, varie servitù ... Ili principio ecònomico del maximum, del plurimum o dell'optimum non ha altro senso, e !"'ottimismo" in questo senso non è nient'altro che la filo­ sofia seconda del superlativo relativo: come quest'ultima si definisce rispetto al mistero di una necessità metafisica che impedisce alle perfezioni di realizzarsi tutte al contempo, così l'ottimismo del mo­ ralista e del giureconsulto si staglia, come ha mostrato G. Friedmann, sullo sfondo del pessimisnio.42 L'Essere divino è dunque due volte limitato: nel suo potere dallo "Styx" della necessità metafisica, nel suo volere dall'attrattiva del bene. La prima è ciò che obbliga la vo­ lontà antecedente a farsi conseguente, a gettare la zavorra e a volere il Meglio anziché il Bene, sacrificando al fato la differenza tra questo e quello; la seconda è ciò che determina in generale la volontà ante­ cedente del bene inclinandola alla benevolenza. Vi è dunque in Dio un volere morale canalizzato dalla necessità metafisica e un potere metafisicamente arginato che polarizza o orienta il Bene, oggetto morale·del volere. Il Meglio voluto con volontà conseguente risulta dunque da una composizione di forze: l'attrattiva del bene sul vole­ re, la resistenza della necessità metafisica al potere. A che serve par­ lare ancora di "voluntas volendi"? Non vi è "Ungrund" divino, non vi sono che valori in sé, un diritto in sé, un Meglio in sé che attrag­ gono la più giusta e la più saggia delle Volontà. Il Meglio è insomma la sola ragione assolutamente "sufficiente" della preferenza, poiché esso solo rende conto del perché il mondo è così piuttosto che 42 Si veda il bel libro di Georges F'ruEDMANN, Leibniz et Spinoza (Paris, 1946).

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altrimenti,43 potius quam aliter: la pseudo-regressione all'infinito ottempera infine all'Ananke stenai che è, in ogni circostanza, la pre­ occupazione maggiore di Leibniz. - Il Cur leibniziano era dunque una simulazione. Leibniz è l'awocato borghese dell'Essente, si as­ sume il compito di giustificarlo dopo aver fatto finta di metterlo in questione: la teodicea, dimostrando tramite la sua ermeneutica del male che ciò che non va da sé va pur sempre da sé, spiegando la morte come un inviluppo e riscoprendo all'infinito l'ordine e l'in­ telligibilità, raggiunge, dopo una deviazione, la pienezza44 della continuazione; questa filosofia falsamente prima finisce insomma là dove l'Eleatismo aveva iniziato: l'Eleatismo aveva iniziato dalla continuazione senza inizio, Leibniz conclude con la giustificazione e la riabilitazione dell'Esti per un istante contestato e con l'esclusio­ ne, questa volta morale, di ogni Aliter, di ogni finzione o "fabula" su altre serie possibili. L'Aliter è definitivamente sepolto ... Ma al­ meno avremo avuto paura! Quest'adesione conformista alla prefe­ ribilità del mondo presente valeva tanta metafisica? e Spinoza, a tal proposito, non era forse più vicino al Dio cartesiano?

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Monadologia,§ 32; Discorso di metafisica,§ 13. Monadologia,§ 61; Principi della natura e della grazia,§ 3: "(. .. ) come tutto è

pieno(. .. )".

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CAPITOLO III Della morte

È il caso di dirlo: Giove acceca coloro che vuole perdere. La buona cattiva-coscienza ottimista si sforza di porre il problema che meno desidera veder porre e, smaniosa di preventivi contro l'ango­ scia, giustifica al termine di una teodicea quell"'acquiescentia in se ipso" che, secondo Spinoza, 1 deriva spontaneamente dalla ragio­ ne. E se una buona volta vedessimo il malinteso, questo malinteso che la necessità metafisica, l'attrattiva del Meglio e in generale la prevalenza dell'essere sul non-essere sono concordi nel perpetuare, mantenendo a fior d'essere la questione dell'origine radicale? Di­ stinguiamo continuazione empirica e continuazione metempirica, la prima che è riconduzione dell'intervallo attraverso apparizioni e sparizioni, la seconda che porta a compimento la continuazione du­ revole supplendo alla provvisorietà dei lassi di tempo empirici sot­ tendendo alle intermittenze la sempiternità essenziale. Si tratta, fa­ cendo ricorso alla sussistenza senza esistenza, di schivare una dop­ pia tragedia: la tragedia della morte, che aggrava pericolosamente la discontinuità empirica, e la tragedia della nichilizzazione globale, messa a nudo dalla pienezza e dalla necessità dell'Esti che preten­ deva di colmarne l'abisso. Il secondo fine imminente, sia pure in­ confessato, della filosofia seconda o eterriitaria consiste, prevenen­ do ogni curiosità indiscreta, nel camuffare il nulla tanatologico e compensare la cessazione di tutto; consiste insomma, a rischio di favorire la grande nichilizzazione generale, nel negare la piccola 1

Eth., IV, 52; III, A/fectuum de/initiones, 25.

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nichilizzazione domestica che si chiama morte. La ragione e la ma­ tematica protestavano di comune accordo contro la pseudo-evi­ denza .empirica delle insorgenze e delle eclissi, degli inizi e delle cessazioni: la morte, a sua volta, protesta contro questa protesta; la morte riabilita l'apparenza e i pregiudizi dell'opinione che il logos aveva confutato; la morte resiste alla critica che la gnoseologia eser­ cita sulle qualità "secondarie" ... No, l'apparenza mortale di certo non è un sogno, sopprime la percezione in generale e il soggetto percipiente, mette in causa non tanto le modalità del sentire quanto l'essere totale e il non-essere totale! Mentre la metempiria lavora a rabberciare o turare, e supplisce alle discontinuità dell'esistenza con l'eternità dell'essenza, il tragismo mortale, dilatando le lacune dell'empiria, ne rende più difficile la riconduzione e più fragili i ponti di neve che ne nascondono i crepacci. Si dirà che la morte, annichilazione non totale ma partitiva ed empirica, non interrompe affatto il determinismo naturale: le cose seguitano il loro corso dopo la morte di qualcuno, e non soltanto il ciclo delle stagioni, ma anche gli affari degli uomini proseguono nell'intervallo come se niente fosse accaduto ... La specie sembra vegliare alla sostituzione dei morti coi successori e alla continua occupazione dei posti resi vacanti: è così che la riproduzione compensa2 e neutralizza gli effetti della morte garantendo al tempo stesso, bene o male, la sta­ bilità statistica della popolazione totale. La simmetria fedoniana morire-rinascere (òc.1to8vf]cr1eetv- òc.va.J> tcocrKro0a.t), equilibrando la nascita con la morte, scambiando morti e nascite, evita all'umani- � tà l'entropia del marasma terminale e riduce la morte di qualcuno a un vuoto passeggero subito colmato anziché ampliato, assecondan­ do un'alternanza regolatrice.3 E si sa con quanta cura le dottrine panbiotiche e le filosofie palingenetiche diluiscano la morte nell' o­ ceano della metamorfosi universale! Leibniz, preoccupato di de­ gradare la morte fino a fame un'apparenza, non si riconoscerebbe nelle edificanti raccomandazioni del Pedone e addirittura nella sag­ gezza epicurea? Non solo la morte non modifica per niente la dura2 3

Pedone, 71 e, 72 a: àina1t06Uìooµt [ricompensare]. àvtutep'tcrca.cnc; [antiperistasi, fenomeno per cui una certa qualità viene raffor­ zata dall'incontro con ciò che le si oppone, NdTI.

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ta indefinita dell'empiria ma lascia intatta persino l'infinita eternità del logos: gli assiomi e i teoremi restano veri dopo la morte del­ matematico che li pensava; le verità eterne in generale, verità imma­ colate, impassibili e immuni dalle vicissitùdini dell'esistenza stori­ ca, sopravvivono a fatti contingenti come un'embolia o una sinco­ pe; se l'incidente abbatte il soggetto pensante, non può nulla sul pensiero. Il fatto della morte, benché sembri confermare le discon­ tinuità dell'empiria, non confuta le verità inconfutabili, ovvero non confuta, propriamente parlando, la confutazione delle pseudo-evi­ denze: la causa dell'illusione è definitivamente condannata e il lutto personale non implica che i matematici avessero torto o che l'ingan­ no dell'empiria dopo tutto fosse nel giusto. No, i miserabili prigio­ nieri della caverna non avranno ragione dei matematici col pretesto che la morte di Pietro o di Giacomo rimette tutto in questione! Non è il caso di ritornare su questo processo.4 - Non è il caso di ritornare ... eppure la misteriosa contraddizione, l'insolubile irra­ zionalità della morte sta nel fatto che le verità necessarie restano valide malgrado la morte, anche se, in un altro senso e simultanea­ mente, la profonda assurdità della morte oppone una dura smenti­ ta. In definitiva, ecco il mistero: non si vede perché la verità do­ vrebbe essere meno vera col pretesto che il portatore della verità è costretto a morire; e tuttavia è un fatto che l'evidenza della morte - evidenza innegabile - in certa misura compromette e incompren­ sibilmente diminuisce la necessità della verità necessaria. Sarebbe troppo facile far svanire questa contraddizione alla luce della mathésis I E non basta dire che la negazione della negazione condu­ ce ad altro rispetto alla prima posizione - perché la morte non è neppure la negazione di una negazione - e di conseguenza la morte non impone né la restaurazione della "tesi" né l'instaurazione di una sintesi che la reintrodurrebbe dopo la mediazione dell'antitesi. Il primo caso non sarebbe nient'altro che lo statu quo: il capovolgi­ mento dal Contro al Pro, o capovolgimento numero due, abolisce il capovolgimento dal Pro al Contro, o capovolgimento numero uno, di cui è l'inverso simmetrico, per raggiungere il Pro del senso 4

Léon BRUNSCHVICG, De la vraie e de la /ausse conversion (Paris, 1951), pp. 154-155.

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comune abolendo il Contro; ora, il capovolgimento del capovolgi­ mento, annullando ciò che annullava, equivale a un ripristino puro e semplice. Non è certo in questo senso stazionario che si può affer­ mare: un po' di filosofia allontana dal senso comune, molta vi ri­ conduce. Nessuno può far finta che l'antitesi non sia minimamente passata di qua! Quando Pascal, per esempio, superando il parados­ so razionale della "materia sottile", sorpassa la "prevenzione acqui­ sita" che esigeva il pieno per confermare la prima evidenza del vuo­ to, quel che trova all'arrivo non è affatto l'apparenza del senso co­ mune: l'iperempirismo, il positivismo superiore al quale perviene non giustifica la discontinuità rivelata dall'empiria volgare; la filo­ sofia prima, lungi dal dar ragione alla filosofia terza abolendo la seconda e facendo come se il paradosso meccanicista non fosse il momento necessario di una dialettica, questa filosofia dell'evidenza ritrovata supera e smentisce l'inevidenza razionale integrandola. Ora, come la morte non incarna l'iperparadosso che converge con la doxa come tale per mezzo della revoca di un paradosso ritenuto nullo e non avvenuto, così la morte non è neppure l'iperparadosso che abolisce il paradosso in una sintesi superiore che si configure­ rebbe come doxa paradossale o doxa alla seconda potenza ... La metempiria smentiva l'empiria senza rinnegarla radicalmente, enu­ cleava piuttosto ciò che vi è di essenziale nelle esistenze, in un certo senso la loro ferma impalcatura: in qualche modo la giustificava rettificandola e vivificandola. La morte, invece, fa sussistere fianco a fianco metempiria ed empiria: la verità della morte si giustappone-' alla verità dell'essenza senza tuttavia arricchirla dialetticamente, senza sfumarla di una sfumatura inedita o fondersi con essa in una verità più comprensiva in cui l'eternità metempirica e l'assurdità metalogica della morte si compenetrerebbero; non vi è conciliazio­ ne ma collisione; non vi sono due promozioni o momenti successivi di una stessa verità nel corso di un processo, vi sono due verità sconnesse e contraddittorie ma simultaneamente vere. Il metalogi­ co non è pertanto né un'empiria metempirica, né una metempiria empirica, bensì l'insolubile coesistenza di una metempiria inconfu­ tabile e di un'empiria inconfutata. Questo sporadismo delle verità è la fonte del tragico, cioè della mescolanza beffarda di assurdità ed evidenza, di impossibilità e di necessità che caratterizza la morte.

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I. - I principi di conservazione e di contraddizione smentiti La morte, si dice, è un minuscolo episodio alla superficie dell'e­ terna natura, un fatto insignificante all'interno della grande vita universale. Ma attenzione! Questo fatto è un profondo mistero e un'immensa tragedia; questa impercettibile conclusione dell'inter­ vallo biografico è un istante assai solenne. O piuttosto, il pensiero si trova lacerato tra due verità ugualmente incontestabili e tutta­ via contraddittorie: l'eterna giovinezza della natura e l'irreversibile giovinezza dell'individuo; l'infaticabile e impassibile rinnovamento annuale delle primavere ironizza in qualche modo sull'opprimente cura del nostro destino, e sappiamo come questo misterioso con­ trasto sia sempre stato uno dei grandi temi del lirismo universale: il tragico del mio destino smentisce l'ottimismo demografico; talvolta la morte individuale appare come una scalfittura insignificante nella pienezza della vita panica o cosmica, talvolta la vita individuale ap­ pare come una zattera perduta nell'oceano del non-essere. Innanzi­ tutto, questa soppressione partitiva che è la morte di qualcuno non è la semplice dissoluzione di un composto i cui elementi farebbero ritorno alla massa prima di figurare in altri aggregati. Il cadavere, "spoglio" di ciò che ne fece un vivente, sussiste nello spazio fisico. Ma quel non-so-che che rendeva questo corpo un'ipseità vivente, cosciente e intima a se stessa, quel non-so-che cos'è diventato? I conti non tornano e, con buona pace della fisiochimica, il princi­ pio di conservazione è in grave difetto: la morte è una scomparsa taumaturgica, un gioco di prestigio, una fantasmagoria. L'ipseità si perde senza lasciare tracce. L'ipseità, lungi dall'essere la parte di un tutto, è un tutto a sua volta, un microcosmo organico o, come si esprime Leibniz nel suo linguaggio monadologico, una "totalità diminutiva". La morte, annichilazione minuscola della totalità mi­ nuscola, è dunque un profondo mistero alla stregua della nichiliz­ zazione maiuscola del grande Tutto: con la sola differenza che l' an­ nichilazione mortale si compie quotidianamente, mentre la nichiliz­ zazione generale non è che una finzione iperbolica e una "suppo­ sizione impossibile"; la morte, invece, è un irrappresentabile che, costi quel che costi, bisogna pur rappresentarsi, dal momento che accade di continuo! Ecco il mistero sovrannaturale che è un fatto naturale e storico-empirico. L'idea di una nichilizzazione empirica, 80

cioè di un'annichilazione, non è una contraddizione e un accosta­ mento di parole incomprensibile? Il piccolo Nihil, che è il niente non dell'universo, ma della persona (la quale dopo tutto è universo a suo modo e "imperium in imperio") è non meno miracoloso del grande Nihil; e per di più è magia per eccellenza, ossia un fatto di esperienza quotidiana e continuamente realizzato! Se la morte non fosse nient'altro che un buco passeggero nell'empiria, la necessità essenziale basterebbe a ristabilire la continuità della trama interrot­ ta. Ora, il "qualcuno" che sparisce nella morte non è soltanto uni­ verso per sé, è anch� Hapax: la misteriosa apparizione semelfattiva che chiamiamo ipseità genera la misteriosa sparizione insostituibile e incompensabile che si chiama morte. Come potrebbe non ave­ re un prezzo infinitamente infinito e un valore non-quantificabile questo qualcuno più che rarissimo di cui non vi è un altro esem­ plare nell'universo e nell'eternità, questo qualcuno non qualunque che non verrà mai rimpiazzato? A perdita insostituibile, dispiacere inconsolabile. L"'in summa" dell'ottimismo leibniziano smette di essere consolante per il saggio, dal momento che l'ipseità è tutto: il destino di un solo piccolo bambino è prezioso quanto l'armonia genel'.ale del sistema solare; la folle aritmetica di Bergson e di Ivan Karamazov protesta misteriosamente contro il logos utilitario che preferisce la maggioranza alla minoranza e l'unanimità a uno solo. - La morte smentisce brutalmente il principio di contraddizione e il principio di conservazione. Si dice che la morte è la fine della coscienza pensante e non il naufragio delle verità pensate. Ma è-­ proprio il pensiero pensante, cogitatio cogitans, a essere a suo modo una verità eterna, una verità-eterna-che-un-giorno-muore: immor­ talis moritura, - ecco l'ironica contraddizione dell'ipseità pensante! Da una parte (essendo l'atto di comprendere, per essenza, al di là del luogo e della data, e infinito nella sua portata), il pensiero pensa sotto un certo aspetto di eternità e di universalità; stabilisce rap­ porti necessari, ideali e assolutamente validi, e in questo è ragione; atemporale e impersonale, il pensiero pensante è metempiria, e di conseguenza sovranatura. Tuttavia, questo pensiero che pensa la morte e, prendendone coscienza, se ne situa al di là, la supera e le sopravvive, questo pensiero ha fine con la morte. Contraddicendo la sua stessa vocazione, il pensiero è un atto temporale storicamente legato a un vivente, cioè a un'antropologia, a una patologia e a una 81

somatologia. La prima persona dell'Io penso cartesiano non è un semplice accidente grammaticale della coniugazione: esso significa che se la prima verità è una verità eterna e sinnomica, la scoperta di questa verità non è a sua volta una veri'tà, ma un evento, un'e­ sperienza che ha luogo nell'intimità del raccoglimento riflessivo e il risultato di uno sforzo; l'atto sovrastorico dell'intellezione si in­ carna in un momento e in circostanze ben predse, circostanze di cui Pascal amava sottolineare il carattere accidentale e irrisorio. La morte lascia intatta la verità pensata in quanto intelligibile o parti­ cipio-passato-passivo, ma nichilizza incomprensibilmente la verità pensante: l'eternità-eterna dell'essenza sopravvive alla morte come preesisteva alla nascita, ma l'eternità-mortale, il mistero pensante che si incarna in "qualcuno", un giorno si abolirà nel non-essere come un un giorno ne è emerso. Oppure, la simbiosi tra corpo mor­ tale e vocazione sovrannaturale è tanto contraddittoria quanto mi­ steriosamente indissolubile, e non si comprende né come la morte potrebbe dissolvere il primo rispettando e separando la seconda, né come potrebbe annichilare la loro simbiosi al contempo duplice e semplice, che è il paradosso stesso dell'ipseità vivente. L'annichila­ zione dell'ipseità non ha sempre qualcosa di prematuro, di gratuito e impenetrabile? Il miracolo della morte corrisponde perfettamen­ te al mistero dell "' Hapax" personale.

II. - Misteriologia La morte è quindi un'iniziazione alla saggezza prima e non, come la tanatosofia del Pedone, alla saggezza seconda o metempiri­ ca. La morte ci impone l'iperparadosso doppiamente scioccante di una totalità metalogica e innanzitutto misteriologica. Se la morte·è, per come la intende Gabriel Marce!, un mistero, non lo è soltanto perché colui che prova a pensarla, essendovi coinvolto, è la prima incognita del suo stesso problema: la condizione essenziale di ogni sapere, quella cioè di non far parte dei termini del problema che si pone, almeno nel momento in cui lo si pone, qui non è rispettata, come non è rispettata la distinzione gnoseologica tra soggetto e og­ getto e la distanza problematica o teorematica tra spettatore e spet­ tacolo ... La morte è "misteriosa" soprattutto perché congiunge 82

paradossalmente l'oggettività problematica, che è una specializ­ zazione del logos, e il centrismo irrazionale e passionale, parziale e partitivo della prima persona. Le mie tragedie private non sono questioni metafisiche; esattamente al contrario, un destino utile agli altri e non a me stesso, un destino che vale per altri piuttosto che per me, neanche questa è una questione metafisica. Ancor meglio: un destino che vale per tutti, Pietro e Giacomo compresi, e che dunque include anche me, non è un destino metafisico perché non mi riguarda che indirettamente e, in qualche modo, per combina­ zione; non mi designa personalmente, non mi interpella esplicita­ mente, non punta l'indice su di me. Nella filosofia del logos, come la "persona" nell'etica astratta della giustizia, io non sono che un altro tra gli altri, un esemplare, un campione o un caso particolare dell'umano in generale e cioè, dopo tutto, un oggetto! C'è una clau­ sola sottintesa (poiché va da sé) in ogni problematica medica della morte come in ogni problematica nozionale e libresca dell'azione: tutti sono coinvolti tranne me; sono coinvolto in linea di principio e in generale, ma non di fatto né nell'immediato secondo le due co­ ordinate dell' hic-et-nunc: questo coinvolgimento teorico coinvolge l'ominità dell'uomo e l'umano di ogni creatura ma, quanto a me, non mi riguarda affatto; questa faccenda non è la mia faccenda; non si tratta, in questa faccenda, che di Altrove e di Più-tardi, di Altri e di Assenti, e di me stesso in quanto assente o in quanto altro da questi altri; la presenza e il presente, ovvero i due sintomi dell'ef­ fettività,· scompaiono nella bruma delle generalità nozionali. Ora,' io non rientro nel novero di questi altri, e la prima persona non è un caso particolare delle altre persone o la persona numero Uno, come se le "persone" non differissero tra loro che per il rango ordi­ nale all'interno della coniugazione... No, certo, io non sono come gli altri, benché mi trovi sotto la loro stessa insegna e condivida il destino ecumenico di tutti i miei fratelli! Questo paradosso di un Io al plurale è il Noi: il Noi è sintesi di una prima persona incompa­ rabile, sola a essere sé, e di un plurale astratto in cui l'Ego non figu­ ra che all'interno di una serie e come terza persona; la misteriosa, insolubile contraddizione del Noi è che l'Io - ipseità singolare alla prima persona - è al contempo, come il corista in un coro, universo monadico per sé e membro individuale o esempio-tra-gli-altri in una categoria concettuale che lo sussume; Io sono compreso tra 83

Loro, io, una delle teste di quest'idra policefala che è il grande Io conciliare, e tuttavia sono al contempo Hapax inimitabile e unico! Questa monade è pleiade. Questa monade potrebbe dire: il mio nome è legione, AE'Ytcòv éSvoµa µ01, éSn 1t0X'A.O1 è:o-µEv [il mio nome è legione, perché siamo in molri].5 Multi sumus! Non è il mistero dell'Assoluto plurale? Non certo nel senso della sussunzione pan­ teista, ma nel senso del paradosso ecclesiale secondo cui l'ipseità si esprime come prima persona del plurale, o meglio come plurale in prima persona. "In ipso vivimus et movemur et sumus" ... La "meditazione della morte", che il Pedone considera l'occupazione essenziale dei filosofi, è in realtà una meditazione su questo mistero ecclesiale: nella morte si ricongiungono l'eccezionalità del prospet­ tivismo egocentrico e l'oggettività di una legge fondamentale della natura vivente: la morte giustifica tanto la tragedia parziale della mia ipseità quanto l'imparziale destino enciclico di ogni organismo; la morte è dunque la filosofia stessa. La verità impensabile dell'"Io muoio" e la conclusione destinale, impersonale o sillogistica "Ogni uomo è mortale" si compenetrano nel mistero tragico-destinale del "Noi moriamo", che è plurale in prima persona. Al punto di congiunzione tra tragedia e destino, la metafisica ci rende coscienti della nostra destinazione, che è al contempo meno che tragica e più che umoristica, e che dunque è semplicemente seria. La serietà è il punto in cui evento e fenomeno coincidono, il punto (in altri ter­ mini) in cui la fenomenalità coincide con l'effettività di un dramma semelfattivo che per ciascuno è un "hapax", - ciascuno vive per sé e quanto a sé, per la prima volta, questa vecchia novità, questa bana­ lità sempiterna e sempre inedita della morte. Mea res agitur [la cosa mi riguarda], ma anche: res universa, cosa di tutti e di sempre; e di conseguenza, res nostra ... -Ciò che è vero del mistero della morte, che è mistero di terminazione, è vero anche del mistero dell'amore, che è mistero di rinascita in cui l'ipseità, prima ancora di scoprire in esso il veicolo immemoriale della vita e l'astuzia dell'eterna na­ tura per garantire la perpetuità delle specie, fa l'esperienza senza precedenti del proprio rinnovamento. Questo Eros sempre giova­ ne e tuttavia così venerando, che dà simultaneamente ragione ad 5

Marco, 5, 9.

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Agatone e a Fedra, non è il fratello gemello della morte? -L'espe­ rienza morale, infine, suppone al contempo la nozione universale e razionale di una legge inerente la dignità dell'umano in generale e, nel fondo del foro interiore, un'esigenza privilegiata, urgente, iperbolica che ci spinge sempre al di là del nostro dovere; l'agente riunisce dunque in sé uno spettatore e un attore: il testimone di una legge ragionevole e l'interessato che tale legge attribuisca al primo un'assai ingiusta prerogativa! La morale, se smette di essere pura deduzione cognitiva e sinnomica dei doveri, non può infatti più distinguersi dalla metafisica.

III. - Mutazione iperbolica La morte è una breccia nell'empiria, un taglio profondo su cui il destino fa leva per scuotere la metempiria; e questo non solo per via .· del carattere inglobante della sua "misteriologia", ma soprattutto perché il passaggio all'assolutamente-altro non può che essere una mutazione iperbolica. Il "passaggio ad altro genere", µemf3vTJc; (lat. "repente"), ev àiccx.pE'ì [all'istante], à0p6ooc; [d'un tratto] : V, 3, 17; V, 5, 3, 7 e 10; VI, 7, 34 e 36. Cfr. FìLONE, Quaest. in Gen., III, 9. Repubblica, 511 b; Simposio, 211 c.

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sione iniziale e iniziazione terminale. - La repentinità non è altro che l'effetto empirico prodotto dall'interruzione dell'istante nella continuazione o concatenamento dell'intervallo; la punta dell'ordi­ ne ulteriore disgiunge violentemente l'ordine citeriore e vi crea un disordine o smarrimento specifico: si tratta delle turbolenze provo­ cate dall'istante acuto in seno all'empiria articolata; l'elettrochoc dell'istante introduce una confusione momentanea nella trama dei nostri affari, dei nostri interessi e delle nostre imprese: è così che la perplessità generata dall'ictus emozionale e traumatico sconvolge l'intervallo. La violenza che non viola la continuazione che per in­ staurarne un'altra ispira all'uomo non il panico immotivato dell'i­ stante, ma lo spavento empirico dell'effrazione: repentinità e istan­ taneità non sono qui che un dirottamento senza futuro, una sban­ data senza interesse, una forma improvvisa e fulminante dell'apo­ ria; drastica rispetto all'anteriore, la repentinità è soglia di un nuovo pianoro: è una verticale che conduce a un'orizzontale, un dislivello e il conseguente ripristino di un altro livello. Come l'essere empiri­ co riprende il suo contegno dopo la deflagrazione che l'ha fatto sussultare, così l'intervallo si ricostituisce dopo la prima sorpresa: tutto "si placa", ogni catastrofe si riassorbe nella continuazione na­ turale per effetto dell'abitudine. È quel che si dice "adattarsi". La morte, invece, non è istante in corso di intervallo ma istante che pone fine a ogni intervallo e, al contempo, soglia di non si sa che, articolo terminale e liminale a strapiombo sul non-essere, momento introduttivo che non introduce a niente, a niente di immaginabile o ·· di concepibile. E d'altra parte è soltanto la morte a compiere, gor­ dianamente, la conversione radicale, non dall'altro al relativamente altro, beninteso, ma dall'altro all'assolutamente altro o da contrad­ dittorio a contraddittorio; questa conversione è al contempo vissu­ ta e invivibile: vissuta in quanto evento effettivo che accade all'ipsei­ tà totale, invivibile poiché per l'appunto se ne muore, e colui che la vive non può per definizione "sopravviverle"; nello stesso istante privo di durata colui che la vive la muore, perché nessuna ipseità può sopportare, senza morirne, la negazione pura e radicale di tut­ to il suo essere empirico: se è possibile adattarsi alle trasformazioni più vertiginose, per esempio a variazioni estreme di temperatura e di pressione, nessuno può sopportare il passaggio dalla forma al niente di forma né adattarsi alla nichilizzazione totale del proprio

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Esti. Il massimo contrasto di caldo e freddo, le modificazioni del­ la maniera di essere non sono che modestissimi cambiamenti al cospetto di questo superlativo della mutazione acuta! Il minimo­ essere dell'articolo letale è dunque la verà iniziazione dell'uomo alla metafisica; per converso, l'iniziazione alla metafisica non può che essere mortale: è un'iniziazione senza continuazione che ri­ conferma l'impossibilità dell'esperienza metempirica. Platone aveva più ragione di quanto non credesse nel fare della meditazio­ ne della morte la principale occupazione dei filosofi: filosofare è familiarizzarsi, in corso di continuazione, col mostro dell'iperbole o dell'inconcepibile mutazione, è ravvivare senza sosta la coscien­ za dell'impossibile-necessario che è la morte stessa; ma se nessuno può tentare di vivere, senza morirne, l'articolo liminale dell' epi­ strophé, saremo dunque costretti ad accontentarci di una saggezza puramente iniziale o iniziatica. Questa sophia nascente è ciò che si deve chiamare filosofia.

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CAPITOLO IV

La nichilizzazione delle essenze

I. -Annichilazione e Nichilizzazione La morte dell'ipseità, annichilando non soltanto un'esistenza, ma anche una coscienza che è pensiero dell'esistenza e della morte stessa, allude in qualche modo alla generale nichilizzazione dell'es­ senza. Il va-da-sé più indiscutibile, quello dell'esistenza-propria, ri­ ceve dalla morte una scandalosa smentita; quale maggior scandalo, infatti, di un simile crepaccio nella pienezza ontica? Se per il logos la morte è annichilazione individuale e partitiva, nell'ottica del moren­ te, cioè della prima persona, è invece una catastrofe globale e miste­ riosamente coinvolgente; per di più essa annichila un esistente che non è come gli altri, che a suo modo è una verità eterna; una verità paradossalmente eterna e mortale! Se i lassi successivi incamerati in corso d'intervallo formano l'intermezzo [entre-deux] quotidiano dell'empiria, il lasso di questi lassi, che è la vita mortale nel suo insieme, ritagliata tra due nulla, non può essere un lasso come gli altri. Gli intervalli dell'intermediarietà quotidiana si concatenano familiarmente, punteggiati da brevi istanti: ma i due istanti semel­ fattivi di nascita e morte isolano l'intervallo maggiore, che è hapax insostituibile e intervallo di tutti gli intervalli. I contenuti finiti sono il materiale ovvio della nostra esperienza: ma il fatto della finitezza è un mistero. La continuazione dei lassi è la nostra stessa naturalità: ma il/atto della naturalità è sovrannaturale, e il/atto della continua­ zione, ipso facto, pone l'enigma dell'inizio e della fine. È la coscien­ za filosofica della morte (cos'è infatti la filosofia se non l'esponente di coscienza e coscienza di coscienza all'infinito?) a renderci per­ cepibile il fatto dell'empiria, della finitezza e della continuazione, a

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enuclearne l'estraneità: il diveniente, all'interno del proprio dive­ nire, si affranca dall'immanenza per pensarla; il diveniente si me­ raviglia di divenire. Ora, la carriera vitale dell'ipseità non è sempli­ cemente una sosta più lunga delle altre: è 'il nostro tutto, il nostro universo e la nostra ragion d'essere, non lasciando fuori di sé che la terra ignota delle supposizioni metaforiche e il grande vuoto dell'im­ pensabile. - Tuttavia, benché la soppressione causata dalla morte dell'empiria globale - Io pensante incluso - sviluppi in noi una co­ scienza metafisica al pari della nichilizzazione delle essenze, l'idea dell'empiria totale non è di per sé un'idea metafisica, ma tutt'al più metempirica o matematica. L"'empiria totale", dicevamo, non è a sua volta un'idea empirica, poiché l'empiria è tale solo nella misura in cui è partitiva; l'empiria totale è la negazione stessa dell'empiria tout court. Ciononostante l'empiria totale non è metalogica. Certa­ mente nessuno farà mai esperienza dell'annichilazione dell'esisten­ za generale in quanto tale; certamente l'osservatore assiste sempre a eclissi o insorgenze intessute sul fondale e sulla pienezza del grande arazzo antico che l'esistenza dispiega davanti a lui. Rompere tutte le basi è ancora una distruzione empirica e immaginabile. Ma se non si può immaginare l'abolizione totale delle esistenze, si può almeno concepirla. La nichilizzazione delle essenze è invece inconcepibile e a fortiori inimmaginabile. Perché se la fine del mondo è un'ipote­ si altamente inverosimile ma non assurda né logicamente contrad­ dittoria, il naufragio delle verità eterne è letteralmente un"'ipotesi impossibile", simile alle "stravaganze chimeriche" che Bossuet rim­ proverava a Fénelon e ai teorici del puro amore. E di conseguen­ za: se annichilazione e nichilizzazione si oppongono l'una all'altra come possibilità possibile e possibilità impossibile, la morte sarà let­ teralmente un impossibile necessario; più impossibile della seconda e più reale della prima, la morte rende effettiva la tragedia. L'idea di una contingenza o gratuità fondamentale delle essenze non equivale all'ipotesi assurda del genio maligno: non suppone che gli assiomi siano in qualsiasi momento e di fatto revocabili a causa di un volere arbitrario, non fa dell'insondabile una semplice minaccia empirica destinata a trattenerci in un tremore superstizioso ... No: essa è la semplice presa di coscienza di una possibilità iperbolica e radica­ le; e tuttavia il pensiero, colto da vertigine, precipita insieme alle essenze delle quali pone la precarietà: pensando al limite dell'im94

pensabile, che è anche l'impossibile e l'assurdo, il pensiero si nega dialetticamente e si rovescia nella contraddizione. Se ogni pensiero è relativo, a nessuno è dato "concepire" la totalità delle relazioni intelligibili come un fatto: il pensiero stesso è una relazione che pensa altre relazioni, una relazione pensante e quindi immanente (anche quando li trascende) alla sfera delle relazioni pensati ... Il pensiero umano dovrebbe essere di essenza totalmente diversa per pensare qualcosa nella messa in questione dei principi stessi che ne regolano l'iniziativa: come è impossibile relazionare l'irrelativo o pensare l'impensabile, cioè l'Assoluto, così il pensiero pensante non può pensare come aboliti i principi di cui si serve per pensare l'a­ bolizione dei principi! Ora, è proprio in questo che il fatto globale dell'ousìa è un fatto metafisico. O, con maggiore esattezza: se l'em­ piria totale non è un fatto empirico ma un fatto metempirico, la me­ tempiria totale non sarà a sua volta un fatto metempirico, bensì un fatto metalogico; e come l'empiria, totalizzando progressivamente, è sempre partitiva rispetto al logos che totalizza immediatamente tramite relazioni eterne e universali, così il logos stesso risulterà par­ titivo per una riflessione alla seconda potenza. Il puro fatto della metempiria è quindi metafisico per la sua effettività radicale e per la sua totalità, totalità che ingloba il possibile e a fortiori il dato, il dato e per di più il possibile, ossia tutto ciò che potrebbe essere dato ma che di fatto non lo sarà mai. La metafisica tratta gli assiomi, i teore­ mi e le leggi nel modo in cui l'assiomatica e la matematica trattano i dati dell'esperienza fisica: come il minimo di costanti indeducibili··· richieste per una deduzione immanente. Il principio d'identità non è in qualche modo la costante suprema? Non si può dedurre, come osserva Schelling, che il fosforo fonde a quarantaquattro gradi, si può solo constatarlo a posteriori; ma se non lo si può dedurre, nulla ci vieterà allora di rappresentarci un sistema del mondo in cui la temperatura di fusione del fosforo sia di quarantacinque gradi, que­ sto fatto di esperienza essendo letteralmente, nel senso aristotelico del termine, un potente-essere-altrimenti. Per contro, non si può in alcun modo concepire un ordine dell'universo in cui il tutto sia maggiore o minore della somma delle sue stesse parti. E tuttavia la nuda posizione dell'eterno e universale Necessario ci suggerisce di per sé la possibilità di questa impossibilità. Spinoza, che scongiura immediatamente questo spettro dell'"Absurdum", non cede forse

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alla tentazione di evocarlo? La presa di coscienza del Va-da-sé equi­ vale sostanzialmente ad affermare, come si dice del Male: Questo non va poi così da sé! e inoltre, questo fa tragicamente questione, indubbiamente non nel senso della problematica empirica, ma nel senso dell'insolubile mistero anempirico. La necessità, in quanto immanente, è assolutamente necessaria, ma il fatto della necessità è contingente; la verità eterna è assolutamente vera, ma il fatto della verità è arbitrario e gratuito: ecco l'impensabile mistero in cui il pensiero si abolisce. In realtà, la nichilizzazione delle essenze chiude il pensiero in un dilemma di assurdità: se penso a qualcosa pensandone la soppres­ sione totale questo qualcosa non è più il niente, ma del pensato, ed eccomi di nuovo il piena filosofia seconda; se invece penso il Niente significa che non penso a niente, che non penso, e che dun­ que non vi è neppure pensiero, - ma allora dove si trova, per piace­ re, la filosofia? Ora, non si vede per quale motivo la ragione do­ vrebbe impedirsi di andare al limite di ogni soppressione partitiva e, esercitando il potere di universalizzazione a priori che le è pro­ prio, estendere le sue negazioni a ogni esperienza possibile e a mag­ gior ragione alla globalità stessa del sensibile e dell'intelligibile ... Perché mai la negazione, legittima se esercitata su un solo concetto, diverrebbe illegittima se esercitata sull'universalità delle essenze? Non c'è nessuna ragione di porre un veto all'atto intellettuale della soppressione, anche se destinato a ritorcersi contro il pensiero che sopprime! Non si può impedire a un pensiero di sopprimere la lo­ gica a forza di logica e in nome della logica: non possiamo che im­ plorare di non andare fino in fondo e di limitare arbitrariamente la nichilizzazione devastatrice ... Ma siccome il pensiero non è per il pensiero un tabù volgare, dovremmo o acconsentire alla negazione iperbolica e, rendendo ogni pensiero impossibile, impedirci di filo­ sofare sulle conseguenze di questa negazione, o ammettere che il pensiero, istanza suprema, sopravviva inesplicabilmente alla pro­ pria nichilizzazione, che il pensiero nichilizzato sopravviva a se stesso in quanto nichilizzante e che il pensiero sia di conseguenza impossibilitato a trascendersi e a congedare la propria ombra. Una totale apophasis è dunque necessariamente antiphasis. Solo la morte è contemporaneamente e di fatto (essendo il più effettivo degli eventi) nichilizzazione dell'essenza e nichilizzazione dell'esistenza,

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solo essa strangola l'esistenza di quest'essenza e l'essenza di quest'e­ sistenza; nell'impenetrabile coincidenza di un essere spazio-tempo­ rale empiricamente circostanziato e di una coscienza era racchiuso tutto il mistero dell'ipseità personale, mistero di incarnazione e di unicità anfibia: la morte è la soppressione dell'insopprimibile o, se si preferisce, l'annientamento di un mistero incomprensibile a ope­ ra di un miracolo doppiamente incomprensibile; - perché se non si riesce a comprendere che l' hapax misterioso esiste, ancor meno si comprende come, esistendo una sola volta, possa scomparire per sempre; il mistero, per lo meno, era nell'essere, che è sempre perce­ pito come continuazione e non rivela la propria gratuità che a una coscienza metafisica; mentre invece la morte avviene nell'istante repentino. Colui che viveva misteriosamente morirà miracolosa­ mente: questa è la legge! Nel torcere il collo all'esistenza empirica dell'organismo vivente, la morte distrugge anche il pensiero pen­ sante, cioè la coscienza nichilizzante stessa, la verità eterna-morta­ le ... Dunque la morte porta di colpo al niente di essenza e al nulla di esistenza, che è inesistenza. Eppure la morte, non essendo che morte di qualcuno, non può essere una nichilizzazione generale o ecumenica: tragedia personale e disastro privato, lascia dopo di sé innumerevoli sopravvissuti - gli altri, il mondo, le verità ... Di sicu­ ro l'impenetrabile assurdità di questo evento getta un grave dubbio sui valori in quanto essi si incarnano in un'ipseità che ne è portatri­ ce: nonostante tutto, l'idea del valore immortale o del "messaggio" imperituro non è una semplice consolazione ideale e idealista, un -· "ponte" metaforico o nozionale per scavalcare il vuoto e garantire la continuazione di qualcosa al di sopra del supremo naufragio; l'ultimo respiro abolisce in una sola volta, tramite nichilizzazione adialettica, l'essenza e l'esistenza, ma quest'abolizione non è diri­ mente che per uno solo; questo annientamento che è la pura e sem­ plice ftne-di-tutto per qualcuno non è "alla lettera" la fine di tutto. La nichilizzazione generale sarebbe invece questa fine di tutto. Ma la nichilizzazione, decreto sterminatore, non è qualcosa che accade; e per di più non può mai, nello stesso tempo, nichilizzare l'essenza e annichilare l'esistenza; se nichilizza la possibilità, l'esistenza si ri­ costituisce sotto un altro esponente ... ; via via più impalpabile, e autenticamente indistruttibile, il/atto del!'essenzialità rinasce all'in­ finito dalle ceneri dell'essenza. L'abolizione della totalità empirica,

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dicevamo, non può essere immaginata benché possa essere conce­ pita; l'abolizione della totalità noetica non può invece essere conce­ pita né a fortiori immaginata. Che si tratti di una sola fetta o dell'in­ tera torta, il nominalismo percezionista prova a buon diritto che non ci si può "rappresentare" un nulla di empiria, cioè darsene un'immagine presente, concreta e particolare, essendo ogni rappre­ sentazione necessariamente rappresentazione di qualcosa; ed è ve­ rissimo che il non-essere di un essere è in realtà sempre l'essere di un'altra cosa che per determinate ragioni non viene nominata. Per contro, il proprio della ragione essendo per l'appunto "concepire" ciò che l'immaginazione non può rappresentarsi, l'annullamento di un essere per negazione logica corrisponde a un movimento intel­ lettuale concepibile e significativo. In compenso, la nichilizzazione delle essenze verifica ulteriormente la pienezza bergsoniana, sia pure in tutt'altra maniera rispetto alle soppressioni partitive nell'empiria. La nichilizzazione totale è infatti "di un altro ordine" rispetto alle negazioni partitive, e ne differisce letteralmente in tut­ to e per tutto: una nichilizzazione che ingloba misteriosamente l'e­ sistenza del pensiero nichilizzante, e che dunque distrugge la pro­ pria condizione, una simile nichilizzazione è l'inattingibile limite metafisico delle negazioni parziali e l'iperbole inconcepibile delle soppressioni concepibili! Sta qui tutta la differenza tra non-A e non-Essere, il primo lacuna locale nell'empiria, il secondo puro e semplice niente; un Niente per il quale non sarei nemmeno più pre­ sente per poterlo pensare poiché è niente di ogni cosa, compreso dello stesso pensiero nichilizzante; un non-essere che non soltanto è il nulla o µn bv del Sofista, cioè alterità, ma che è inoltre, per par­ lare con Schelling,1 OÙK bv, e anche où8ev à1tÀCÒç, cioè un niente e al tempo stesso Niente-del-tutto [Rien-du-tout]. La negazione di qualcosa è posizione di altra cosa, così come l'assenza è indiretta­ mente e virtualmente presenza; ma la negazione di tutto finisce per ribaltarsi in posizione totale perché è il fatto stesso della negazione a essere positivo, o perché l'intenzione di negare è già qualcosa;

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Darstellung des philosophischen Empirismus (1836) [trad. it. G. Preti, Esposi� zione dell'empirismo filosofico, in F. SCHELLING L'empirismo filosofico e altri scritti, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 155-215, NdT].

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qualcosa che è tutto! Un pensiero che concepisce la soppressione di tutto fallisce e trionfa nell'impossibile impresa di estirpare la propria esistenza di pensiero, poiché il nulla nel quale potrebbe sopravvivere non sarebbe niente-del-tutto, ma qualcosa ... Questo pensiero, vera e propria causa-di-sé, pretende di superare l'impen­ sabile della contraddizione! del resto, per esso sopprimere tutto senza sopprimere anche se stesso non è più agevole di quanto lo sia il pensare fuori dal principio di identità. Più semplicemente: la sop­ pressione può sopprimere tutto, ma il fatto della soppressione è insopprimibile: ora, se l'atto di sopprimere è fatto salvo, tutto è salvo; e tutto è ugualmente salvo se non vi è soppressione: dunque tutto è salvo in entrambi i casi, e quest'alternativa è un dilemma. Se la soppressione sopprime tutto salvo se stessa non sopprime tutto poiché il pensiero sopravviverà, ed esso è tutto - e pertanto non sopprime niente; e se sopprime se stessa, sopprime sì tutto, ma è l'intenzione di nichilizzare in generale a contraddirsi, così che l'an­ nullamento, annullandosi, finisce per riaffermare indirettamente tutti gli esseri: due negazioni valgono una posizione. Tale è l'insop­ primibilità di un pensiero che non ha vita facile perché, per l'ap­ punto, non "esiste" nel senso in cui esistono le esistenze naturali della filosofia terza, ma nel modo impalpabile e quintessenziale in cui sussistono le essenze. Se non si possono uccidere le verità eterne è semplicemente perché non vivono! Ciò che non vive non muore. Ciò che esiste può essere annichilato, ma ciò che sussiste deve esse­ re nichilizzato, iperbolicamente nichilizzato. Ora, la nichilizzazione .. rimbalza sull'incorruttibilità dell'essenza. Dunque il pensiero, inca­ pace di sbarazzarsi di sé, si afferma con più forza nell'atto dell'au­ tosoppressione; il pensiero sopprimente non è perciò mai libero da se stesso! È in questa rigenerazione, non progressiva né parziale, ma totale e subitanea, che Descartes scopriva l'evidenza del Cogito come immanente alla negatività del Dubito; o piuttosto, il pensiero non rinasce dal nulla giacché a posteriori risulta che non era mai stato abolito; non che l'atto sterminatore l'abbia risparmiato fortu­ itamente, come un neonato dimenticato nel massacro generale che un giorno si rivolterà contro i suoi assassini... La prima verità non è un'eccezione tra le cose sospette, nel senso che ogni cosa sarebbe sospetta salvo una, che sarebbe invece certa: la prima verità non è una cosa, né la verità numero Uno, - la prima verità è la Verità,

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l'atto che porta in sé la potenza di ogni verità; quest'atto non aveva mai smesso di essere presente: ma se prima lo si considerava in ciò che esso negava, cioè nei suoi complementi e participi-passati-pas­ sivi, ora è la sua positività costituente a essere presa in considerazio­ ne. La rivelazione del Cogito (se la rivelazione è repentina per il dubbioso, il Cogito è continuazione essenziale) segna la conversio­ ne dalla materia negata alla positività della negazione e all'ispirazio­ ne tetica, che è attività costituente, ispirante e preveniente. Cogito; scilicet mea cogitatio est; scilicet sum. Il pensiero non è forse, per se stesso, un argomento ontologico sempre all'opera e un continuo passaggio dall'essenza all'esistenza? Ciò che si ricostituisce imme­ diatamente in seno alla nichilizzazione, come indica la prima perso­ na del singolare, è l'essenza in quanto fatto, owero l'esistenza pen­ sante incarnata nel soggetto del verbo ontico. Si può fingere di ni­ chilizzare le verità eterne, dire che le si nichilizza: ma non si può far finta che il Nihil stesso non sia nient'altro che impossibilità di pen­ sare. Tutte le lacune vengono progressivamente colmate dalla co­ spirazione dell'eterno già-qui. Ciò equivale a dire: non si dà co­ scienza totale; la coscienza è sempre parzialmente incosciente e, almeno per un verso, innocente; il conscio è come l'uomo sugge­ stionato che si crede libero mentre è manovrato tanto da una pre­ destinazione quanto da un a priori inestirpabile. Nichilizzando le essenze, non si accorge fin da subito di awalersi ancora dei principi razionali per pensare, di servirsi ancora delle categorie per concepi­ re il Totalmente-altro, di impiegare ciò che nega per negarlo e nell'atto di negare; il muro dell'essenza si rialza alle sue spalle. Ora, spetta alla sovracoscienza di sé accorgersi di quest'inganno, non certo alla coscienza nichilizzante; la sovracoscienza-testimone, cioè il terzo, giocherà un brutto tiro al genio maligno ... A maligno, ma­ ligno e mezzo! Sul punto di intravedere l'origine radicale, la co­ scienza si trova faccia a faccia con la secondarietà del Cogito, poi con la terziarietà del Sum e infine con la sostanzialità della Res cogi­ tans. Il pensiero si attribuisce un privilegio e si sottrae al processo nichilizzatore: il pensiero che pensa le verità nichilizzabili non è a sua volta una verità come le altre. Ma considerandosi intoccabile, la sovracoscienza si fa leggermente meno cosciente. - Perché al di là della sovracoscienza non dovrebbe darsi una supercoscienza capace di affrancarsi o dissociarsi dalla sovracoscienza stessa? per100

ché il pensiero pensante non dovrebbe essere creaturale e le verità pensate revocabili? Perché le verità, ristabilite dalla scoperta del pensiero che ne dubitava, fanno ritorno alla precarietà non appena si prende coscienza della gratuità del Sum-Cogito. Il vuoto possibile di ogni verità è dunque cohnato dal pensiero che è a sua volta una possibilità di vuoto poiché votato alla morte. La morte, in definiti­ va, incoraggia la nichilizzazione: non sembra forse sopprimere la mia promozione sovrannaturale trattando la sostanza pensante come un semplice fatto fisico? Riassumiamo questa dialettica della coscienza infaticabile. Insistenza suprema in Descartes, il Cogito chiude l'era delle nichilizzazioni e inaugura quella delle affermazio­ ni: basta che almeno in un frangente il Genio maligno non sia riu sdto a ingannarmi, che egli non possa distruggere la certezza indi­ struttibile del mio pensiero, affinché non ci sia più Genio maligno; Dio stesso, che è il signore autocrate delle verità, si riconosce a posteriori come il garante dell'evidenza. Tuttavia, è più o meno ar­ bitrariamente che il pensiero ci dice: bisogna fermarsi, quando un movimento metafisico infinito ci spinge oltre. Chi può impedirci di affinare ancora l'esponente della nichilizzazione e di concepire, al di là della nichilizzazione primaria delle essenze (nichilizzazione che il Cogito annullava), una nichilizzazione più sottile che sarebbe quella del pensiero nichilizzante stesso? Il nulla del pensiero divora a sua volta il pensiero del nulla; prima il pensiero si attribuiva inde­ bitamente un privilegio, eccettuandosi dalla nichilizzazione encicli­ ca di cui voleva restare testimone: adesso è l'oggetto stesso del pen siero a inglobare questo pensiero e a volgersi contro di esso per distruggerlo; la concezione raddoppiava la sua vitalità concependo il concetto del Niente universale, ma questo Niente riguarda a sua volta il pensiero che si affermava nichilizzando, come la morte ri­ guarda il pensiero che si affermava nichilizzando, come la morte riguarderà un giorno o l'altro l'apprendista stregone che vi filosofa­ va sopra. Quale dei due è più fondato: quest'atto che non è come gli altri poiché è atto pensante, e che pretende di sfuggire da solo alla nichilizzazione e sopravvivere da solo nel deserto, oppure quest'oggetto-Nihil che non è concetto ma tragedia e mistero, poi­ ché il pensiero vi è incluso? Se la morte non riguarda soltanto gli altri, il niente-del-tutto, se è veramente "niente", deve essere niente del tutto, compreso del pensiero senza cui la totalità non sarebbe 101

tutto ... Ma questa nichilizzazione alla seconda potenza implica da capo un pensiero ancora più impalpabile che è ali'opera nel nuovo compito nichilizzatore; et sic in infinitum! È un perpetuo capovol­ gimento dal Pro al Contro. Le annichilazioni partitive instaurano un certo equilibrio tra il vuoto relativo sempre concepibile per un pensiero negante e il pieno relativo incessantemente ricostituito dall'immaginazione e dalla percezione: il risultato di questo va-e­ vieni tra contrari è un qualcosa che, come il non-essere del Sofista, è alterità piuttosto che nulla. La nichilizzazione metalogica è invece oscillazione estrema da contraddittorio a contraddittorio, gioco dialettico infinito in cui il vuoto vertiginoso e il pieno assoluto rin­ viano senza sosta l'uno all'altro. Qui è impossibile stabilirsi in un medio tra due verità ugualmente vere, l'una dal punto di vista psi­ cologico e l'altra da quello logico: non c'è medio tra un vuoto inso­ stenibile, poiché al contempo inconcepibile e inimmaginabile, e un pieno che ogni volta si annienta per decreto distruttore e ogni volta resuscita, per la ragione sotto forma di evidenza concepita, per l'immaginazione sotto forma di evidenza percepita. Tra annichilare e nichilizzare vi è la stessa differenza che sussiste tra il disfare una cosa fatta e il far sì che ciò che è stato fatto non fosse mai stato fatto: l'annichilazione, neutralizzando o annullando (per esempio nella penitenza) solo le conseguenze dell'atto, ristabilisce una specie di statu quo, mentre la nichilizzazione, pretendendo di estirpare "ra­ dicitus" il/atto stesso di aver /atto, intraprende una radicale, impos­ sibile abolizione che il principio d'identità rende perpetuamente verbale e fittizia. Quella non provoca che il rimpianto degli effetti empirici, mentre questa, giustificata dall'indistruttibilità metafisica del/ecisse, fonda il rimorso di una semelfattività eterna.

II. -Il Quasi-niente e l'intravisione del Quasi-niente Questo significa che i momenti alternativi di questa dialettica non sono equivalenti. La pienezza indistruttibile dell'Io penso è, in filosofia seconda, un'evidenza razionale alla stregua di un fatto d'esperienza inconfutabile; il niente di questa pienezza, per defini­ zione, non può mai essere verificato in atto: la o del Tutto-o-niente non annuncia qui che una disgiunzione platonica, l'alternativa es-

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sendo già decisa, e da tutta l'eternità, a favore dell'Essere, cioè della necessaria e indistruttibile positività. L'esistente si verifica nella continuazione dell'esistenza; e quanto all'essenza, essa è pen­ sabilità permanente, cioè permanente e sussistente possibilità di una verità che si verifica e torna a verificarsi per mezzo della mia riflessione ogni volta che ne prendo coscienza: ma il niente che è al contempo nulla di esistenza e nulla di essenza, inesistente e non sussistente, un simile niente è intr'avvistato [entr'aperçu] come li­ mite evanescente nel fulmineo bagliore dell'istante. Il Niente non si coglie né nel pieno della sussistenza intemporale, che scaccia il niente colmando ogni lacuna, né nel vuoto irrespirabile che soffo­ ca ogni pensiero, compresa la filosofia nichilizzante: è il quasi­ niente dell'istante a offrirci la divinazione fugace del niente, è il quasi-nihil di un miliardesimo di secondo a rivelarci il nihil. In questo minimo-essere che non è "sintesi" di essere e non-essere, ma piuttosto tertium-quid di là dall'intervallo antico come dal vuo­ to meontico, nell'istante, vuota pienezza o piena vacuità, è sospe­ sa ... per un istante, l'alternativa tra un niente di pensiero e un pensiero restauratore di tutto; sospesa, ma non risolta, poiché l'i­ stante è giustamente ciò che dura ... né poco né molto! L'alterna­ tiva è ciò che faceva sì che alla nascita e alla morte si arrivasse sempre troppo presto o troppo tardi. Da una parte il giorno, che è un Già-qui senza mistero, un Esse d'intervallo e di estrema chia­ rezza, un Sì tutto pronunciato, tutto affermato; dall'altra la notte, che è nero su nero e tenebra superlativa. Se il pensiero si crede al di là di se stesso è ancora al di qua, proprio perché lo crede; se invece è veramente al di là, non c'è più nessuno per saperlo. Come si può essere testimoni della propria nichilizzazione, cioè morire sopravvivendo? Scartando le approssimazioni confuse dello pseu­ do-pensiero e del semi-sonno, che sostituiscono la filosofia prima con una fraseologia lamentosa, non resta che un solo risultato: nel­ la tangenza assai delicata dell'istante, cioè in un Nihil-instare quasi inesistente (ma non del tutto) o appena esistente (ma solo sulla soglia), l'intuizione si fa d'un tratto contemporanea a questo Men­ tre [Pendant] irraggiungibile e senza durata che è sempre più tardi del Non-ancora e sempre più presto del Non-più. L'istante desi­ gna dunque al contempo tre Quasi-niente: 1 ° il taglio sottile o mu­ tazione subitanea senza spessore che ci fa passare da una pienezza 103

a un'altra pienezza o, detto altrimenti, il perno su cui si articola la pienezza; cos'è la muta se non il più sottile strato possibile di nulla all'interno del pieno e il minimo di non-essere che rende l'essere poroso, la soluzione di continuità che atieggia la massa compatta del già-dato? E siccome la morte non porta a compimento la nichi­ lizzazione, e questo fino al Nihil effettivo inclusivamente, che sop­ prime il filosofo col suo problema, l'intuizione flagrante, che è una sorta di vita morente, capterà il Nihtl sotto l'aspetto del Quasi­ Nihil e della metabole discontinua. 2 ° Al quasi-niente di oggetto corrisponde il quasi-niente di pensiero, affilato fino alla punta più sottile: perché solo l'acumen supremo dell'intuizione sembra ade­ guato all'estrema puntualità dell'istante; solo il pensiero quasi ine­ sistente, il pensiero nascente-morente il cui nome è Intuizione sembra sufficientemente sottile per l'esistenza minimale il cui nome è Mutazione. 3 ° A ciò che è al di fuori dello spazio e non occupa alcun volume corrisponde ugualmente un niente di durata: la continuazione è sospesa dall'evento così come la continuità è interrotta dalla mutazione; il/iat e il/it avvengono non nella nega­ zione dell'intervallo, ma in quanto negazione dell'intervallo: que­ sta è infatti la definizione della Repentinità! - E perciò: nel niente non vi è che niente su niente o niente in niente, cioè puramente e semplicemente niente, nihil simpliciter; viceversa, nella pienezza di qualcosa che è tutto piuttosto che niente, spazio e tempo si di­ sgiungono lungo tutto il loro spessore, poiché il movimento labo­ rioso serve a occupare il primo percorrendo il secondo. Tra il vuo­ to e il pieno vi è l'istante e il quasi-niente, lo crxeòòv oMsv puntua­ le in cui spazio e tempo coincidono vertiginosamente. Se l'istante, evento effettivo, non è il niente, ma il quasi-niente dell'esistenza spazio-temporale e la quasi-negazione dell'intervallo empirico, esso sarebbe l'inversione nichilizzatrice della sussistenza ideale. L'essenza è essenziale in quanto possibilità permanente di esisten­ za spazio-temporale all'infinito, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento: il suo modo di essere al di là del tempo e dello spazio è molto semplicemente l'esser vero, la verità essendo qui un altro nome per la necessità2 dell'eterno e universale "Va-da-sé". Ora, 2

Enn., m, 7, 6.

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se l'essenza può essere concepita come sussistente, intemporale e sovraspaziale, al di là di ogni luogo e di ogni cronologia, l'istante è un condensato estremo dell'evento, benché non sia un minimo­ essere, cioè un essere estenuato fino al limite del non-essere. Deci­ sione o intuizione, l'istante è qualcosa che accade. La nichilizzazio­ ne qui si ferma all'estrema sporgenza del nihz'l, stringendolo il più rasente possibile e fino all'ultimo secondo, come tramite una ri­ schiosa acrobazia, evitandolo per un soffio. Questo Quasi-niente che stava per essere Niente è letteralmente l'ultimo essere imme­ diatamente prima del Non-essere, prima del Nessun dove e del Mai: ultimum, minimum e proximum; ma il minimum, l'essere del colpo d'occhio e dell'articolo supremo, l'essere salvato dal naufra­ gio all'ultimo momento, non è a sua volta un "essere" -il minore di tutti gli esseri- benché non sia non-essere: quest'essere minima­ le è l'istante! Quasi nunquam, quasi nusquam, quasi nihil: questi tre Quasi-niente sono decisamente un medesimo Quasi-niente, quello di una punta su un punto: la punta dell'intuizione coincide ormai col punto focale dell'istante. Ciò che, essendo di là dalla storia, non occupa più alcun intervallo, restando tuttavia al di qua del Mai non può che essere evento e repentinità semelfattiva. Questo Quasi-niente che non è un essere usurato fino all'ultimo strato né rarificato "usque ad ultimum momentum", ma un autentico Terzo tra essere e non-essere, questo Quasi-niente è anche un Appena­ qualcosa. Lo stesso lucore dell'intuizione, a seconda che lo si con­ sideri come ciò che interrompe la pienezza antecedente o come ciò che la precede, innesca o anche pone la pienezza susseguente, sarà coscienza che si accende o coscienza che si spegne: - scintilla, tale è il termine eckhartiano3 che conviene maggiormente a questi due eventi racchiusi in un solo evento; insorgenza e cessazione non sono più due fasi successive, inverse e simmetriche di uno stesso processo continuo, ma non sono più che uno stesso Fere-Nihil [quasi-niente], uno stesso mistero perfettamente indivisibile il cui

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[Rendiamo "étincelle" con "scintilla". Cfr. Meister ECKHART, I sermoni, trad. it. M. Vannini, Paoline Editoriale, Roma 2002, p. 519 (Sermone 76): "L'anima ha in sé (. .. ) una piccola scintilla (vunkeltn) dell'intelligenza che mai si spegne (. .. )", NdTI.

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nome è Istante. Solo la morte è ultimità a senso unico e soglia infi­ nita del nulla; essa non ha dunque niente da insegnarci, poiché il filosofo non può sfuggire al dilemma di una pienezza pensabile da cui la morte è assolutamente esclusa e di un nulla entro cui non vi è più un pensiero per pensare. Ma perché, in corso d'intervallo, dal vuoto minimale del Quasi-nulla non potrebbe risplendere una certa luce, come presentimento prima e come "risentimento" poi? L'intuizione è una presa di coscienza che è perdita di coscienza, un risveglio che è un venir meno, un lampo che lacera la notte; la co­ scienza, nell'istante del suo venir meno, si risveglia; resuscita nell'i­ stante in cui muore. L'istante è una rinascita che muore una morte che è una vita. Tra la notte e la lucidità diurna non vi è forse la folgorazione che si accende e si spegne, non alternativamente ma nello stesso momento? Anche in Descartes vi sono granelli di evi­ denza e di certezza istantanei: ma anche se una costante e incrolla­ bile "risoluzione" veglia a perennizzare le intuizioni plenarie e di­ sgiunte, anche se un'intellezione continua, replica umana della creazione continua (l'anima pensa sempre), ci garantisce che la verità sarà permanente, in Descartes è la pienezza pensante a sta­ gliarsi sul fondo di non-essere scavatole tutt'intorno dal tempo e dall'oblio, non è la faglia rivelatrice del tutto-o-niente ad aprirsi, come un raggio di luce ontologica, nella pienezza dell'intervallo e articolandone lo spessore massivo; tra l'iperbole dell'abolizione e la prima verità non vi è né soluzione di continuità né colpo di sce­ na, poiché il genio maligno, come appare retrospettivamente, non era nient'altro che un brutto sogno: il pensiero, e con esso l'intero universo delle verità, non procede nemmeno dalle negazioni nichi­ lizzanti, poiché era già all'opera in queste negazioni. Non vi è per­ ciò alcun interregno del caos. Ma forse il genio maligno del nulla diviene un genio benigno se il nulla si assottiglia e si riduce fino al Quasi-niente dell'istante: il mistero che ci nascondono il vuoto e la solida pienezza, l'abisso e il continente, si rivelerà nella sua fla­ granza al punto di giuntura tra questo vuoto e questo pieno? D'al­ tronde, vi è un genio ben più maligno del genio del nulla: è quello dell'intervallo senza quoddità che vizia una coscienza priva di an­ goscia; la continuazione iterativa deborda da tutte le parti per l'uo­ mo del giusto mezzo distante dall'alfa e dall'omega! E chissà se la pienezza seconda o metempirica stessa non sia intellettiva proprio

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perché implica a sua volta l'ontofania-fulmine del Quasi-niente, questo momento propulsivo di ogni intuizione vivente? L'intuizio­ ne, dicevamo, è coscienza simultaneamente perduta e ritrovata non tanto ritrovata dopo laboriose ricerche, come un tesoro ben nascosto, ma, come la grazia subitanea della gioia nella disperazio­ ne di un sincero rimorso, ritrovata in quanto perduta; e se la tan­ genza del moribondo con la morte è una tangenza fatalmente mor­ tale, cioè adesiva e irrevocabile, l'istante intuitivo è un semi-nulla su cui il pensiero rimbalza: cosicché se i morti portano con sé il loro mistero, l'intuizione può trasmetterci qualche frammento del proprio. L'intuizione riafferra con un'acrobazia il pensiero sul punto di sprofondare nel vuoto: è perciò la sottile "punta" dell'i­ stante in attesa di nichilizzazione immediata; morte infinitesimale e sincope-lampo del pensiero, essa è un'intenzione sopprimente che, pur non restando al di qua del niente, non ne va mai al di là; ora, se non c'è niente da pensare nel niente in atto, c'è tutto da pensare nell'intenzione di questo niente. L'istante è al contempo materia e cronologia dell'intuizione: ma questa cronologia è una data senza durata e questa materia è un punto senza volume. I compiti laboriosi dell'empiria durano un certo tempo e, durante questo lasso, compiono un certo quantum di lavoro. Ora, il "fare" e il tempo di questo fare, l'opera e l'evento non sono ormai che l'intuizione di un solo /iat. L'intuizione non è una fantasmagoria? Per dare un nome a questa fantasmagoria potremmo forse, svec­ chiando per l'occasione un termine di Charles van Lerberghe, op­ porre l'intravisione [entrevision] alla visione. 4 Al culmine critico, irraggiungibile e inenarrabile del Quasi-niente, la coscienza può infine l'impossibile: essere nello stesso momento e contradditto­ riamente nichilizzata e spettatrice del proprio niente, apparire per un istante ciò che Dio è insondabilmente e eternamente: causa sui e miracolo di causalità circolare.

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[Charles Van Lerberghe (1861-1907) fu uno scrittore belga, Entrevisions è il titolo di una sua raccolta poetica (1923), NdT].

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III. -Ilfatto dell'essenza e ilfatto dell'esistenza-in-generale Ciò che è raccontabile e analizzabile in filosofia prima è il pro­ gresso delle negazioni seconde, tutte partitive e ipotetiche perché presuppongono tutte la positività del pensiero negativo stesso ... Non vi è niente da dire sull'ultima, l'unica effettiva, decisiva e suf­ ficiente, perché è un'estinzione repentina e un Quasi-niente istan­ taneo. L'ultima soppressione dell'ultima verità non porta a compi­ mento, propriamente parlando, l'opera iniziata dalle precedenti, e le precedenti non danno nemmeno inizio all'opera nichilizzatrice, dato che il passaggio da qualcosa a niente si effettua di colpo nella disperazione ultramicroscopica che è eclissi del pensiero;' il colpo di grazia della sincope intuitiva è dunque fuori serie, come fuori serie è l'ultimo respiro dell'agonizzante, che non è soltanto il mo­ mento finale, ma la fine tout court. Non vi sono, a dire il vero, che due metafisiche: quella della morte-di-qualcuno e quella dell'istan­ te. La morte, dicevamo, nichilizza l'essenza nello stesso tempo in cui annichila l'esistenza, e questo nella misura in cui l'ipseità desti­ nata a morire - ispeitas moritura - è al contempo senso ed esisten­ za, verità e coscienza pensante: lo scandalo incomprensibile della morte non è forse la contraddizione di un'intemporalità mortale? Ma la morte è nichilizzazione di un altro nella generale sopravvi­ venza di tutti gli altri: è dunque tanto partitiva quanto radicale. E quanto all'intuizione dell'istante, essa sospende ... per un istante, l'altalena dell'alternativa che rigenerava all'infinito l'esistenza nell'essenza, che impediva di nichilizzare, con l'essenza, l'esistenza di questa essenza e, con le condizioni di ogni fatto, il fatto stesso di queste condizioni: ma per l'appunto questa nichilizzazione, per de­ finizione impensabile nella sussistenza dell'intervallo, la si presagi­ sce come Quasi-niente nel lampo del minimo essere. Saremmo dunque ridotti a filosofare di sorpresa? Spettatrice della morte di qualcuno o in attesa del Quasi-niente, la creatura è braccata su en­ trambi i fronti dalla morte universale che sarebbe per essa (se non fosse di fatto un mostro assurdissimo) l'istante divenuto intervallo. Ciononostante, la nichilizzazione è radicale solo se implica a fortio­ ri l'annichilazione, detto altrimenti se nell'atto di sopprimere anni­ chila l'esistenza dell'essenza che nichilizza. Perché, così come l'es­ sere pensante rappresenta un "messaggio" e una verità, allo stesso 108

modo e viceversa la verità pensata è qualcosa che esiste ... anche se questo qualcosa non è una cosa e non comporta una realizzazione qui o là. Per esempio: l'essenza intesa come necessità è pensiero in quanto impossibilità-di-pensare-altrimenti e invincibile resistenza all'impensabilità del suo contradditorio. Questa protesta dell'evi­ denza, che secondo Malebranche s'impone a ogni ragione in buona fede, è essa stessa un fatto, un evento intellettuale in cui la coscien­ za fa esperienza del rimbalzo infinito della verità e della perfetta pienezza dell'essenza. La necessità è il regime immanente della me­ tempiria e del pensiero secondo; ma il/atto della necessità, in quan­ to nichilizzabile nel lampo del Quasi-niente, questo fatto è arbitra­ rio e quodditativo. In definitiva, l'essenza non è indipendente da qualsiasi esistenza, né indifferente alla realizzazione in un universo effettivo in cui vi sono, tra le altre, libertà che pongono eventi, cioè che esistono e al contempo fanno esistere. Certamente la verità re­ sta vera anche se Pietro e Giacomo non la pensano in atto hic et nunc, essendo il Chi, il Quando e il Dove, rispetto all'essenza delle determinazioni puramente storiche e psicologiche, delle coordina­ te accidentali. Ora, la verità resterebbe vera anche qualora non vi fosse assolutamente nessun pensiero a pensarla di fatto? Al di fuori di ogni pensiero non solo attuale ma possibile, e astraendo da una ragione umana in generale, la verità avrebbe semplicemente ancora un senso? La pensabilità dice che poco importa che la verità venga pensata da questo o da quello, qui o là, ora o dopo, non dice che-·· per la verità sia indifferente l'essere pensata da qualcuno in genera­ le. Il pensiero di questo o quell'essere pensante è una verità miste­ riosamente eterna-mortale e, in quanto destinata all'incomprensi­ bile morte, separata dall'essenza: il pensiero dell'essere pensante in generale, il pensiero di chicchessia, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento esso sia, questo pensiero è una verità eternamente eterna. Dunque la verità delle verità è alla lettera il fatto dei fatti, benché sia sempre infinitamente al di là del singolo fatto (proprio come il male esiste in generale, senza che Pietro o Paolo siano necessitati ad attivarlo commettendolo hic et nunc); e viceversa il fatto dei fatti, - la possibilità, per un pensiero qualsiasi, di pensare in qualsiasi momento la verità- questo fatto è a suo modo una verità essenzia­ le. Come la pensabilità in generale, anche l'esistenza in generale è una specie di verità eterna: e con esistenza di qualcosa-in-generale

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si deve intendere l'esistenza di qualsiasi cosa, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento essa sia; non questo universo, ma l'universo de­ gli universi e il sistema dei sistemi dei sistemi solari all'infinito e la via lattea delle vie lattee, pensiero umano compreso; non la totalità dell'essere, ma il/atto che vi sia dell'essere in generale e che qualco­ sa esista "potius quam nihil". Questo fatto di tutti i fatti non è la radicalità pura? Ricordiamo che le cosmologie ioniche concepiro­ no il mondo-cosmo, ossia il grande Quaggiù terracqueo, come un ordine disordinabile [arrangement dérangeable], una figura defor­ mabile e una disposizione momentanea delle cose per mettere fuo­ ri discussione la conservazione del tutto-universo5 e meglio disto­ gliere l'attenzione dall'eternità essenziale: inoltre, come mostra l'i­ dea eraclitea e empedoclea di ciclo, gli eoni o epoche del mondo non sono altro che fasi superficiali a fior di eternità; gli elementi evolvono, ma il/atto degli elementi è eterno, i "principi" sono eter­ ni. Per quanto riguarda l'Essere stesso, che è lo sfondo dell'eterno divenire e il Va-da-sé di ogni cosmogonia, la discrezione e l'eufemi­ smo prendono il sopravvento, agevolati dall'alibi dei periodismi. Perciò, se l'anno mille delle esistenze è, benché inimmaginabile, perfettamente concepibile, l'anno mille dell'esistenza-in-generale è inconcepibile quanto l "' anno mille" delle essenze, e il primo serve a camuffare il secondo; se l'esistenza di qualcosa è stata radiata in qualche recesso dell'empiria, l'esistenza di qualcos'altro si ricosti­ tuirà da qualche altra parte: ma se il principio stesso dell'esistere in generale è estirpato, la verità eterna non ha più alcun senso. L'esi­ stenza-in-generale, nella misura in cui è il/atto dell'essere e il fatto stesso dell'essenza, coincide dunque senza dubbio con l'essenza; o, che è lo stesso: la possibilità di un pensiero pensante in generale è essa stessa una verità pensata; che un pensiero sia dato è forse la primissima delle verità ... E, viceversa, ogni verità è riconducibile in definiva a questo dato fondamentale, radicale e arbitrario che è portatore di verità. Il pensiero è dunque posto simultaneamente come rapporto pensante e come rapporto pensabile, soggetto esi­ stente e verità-oggetto, ossia, per finire, pensiero di sé. L'essenza

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J. BAUDRY, Le problème de l'origine et de l'éternité du monde dans la philosophie graecque (Paris, 1931).

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non è distinta dall'esistenza-in-generale, ma, per contro, è distinta dalle esistenze intercambiabili, inessenziali e contingenti dell'empi­ ria, che appartengono al dominio del poter-essere-altrimenti e del poter-essere-altrove; rispetto a queste esistenze alogiche, l'essenza può ben dirsi essenza pigra, apyòi; oùdta, poiché di per sé è impo­ tente, inefficace e sterile: condizione necessaria, indolente e negati­ va che permette alle esistenze di esistere, ma non causa sufficiente e positiva che determina le esistenze possibili a esistere; legalità idea­ le che regola le relazioni possibili tra esistenti e che tuttavia non decide se queste relazioni avranno luogo di fatto. Il sesto libro del­ la Repubblica non aveva di certo in mente l'essenza pigra, assicura­ va anzi che l'Idea del Bene è causa di esistenza così come il sole è causa fisica di vita! È l'esistenza-in-generale, l'esistenza essenziale a porre e a decidere che qualcosa effettivamente sarà: l'essenza-esi­ stenza conduce a un altro piano, il piano indefinibile dell'Essere (Esse è ineffabile), la necessità immanente dei rapporti essenziali o nozionali; senza questo Sì detto all'Essere dall'Essere la necessità non sarebbe forse nient'altro che un sogno ben connesso, e l'intera esistenza potrebbe divenire fantasmatica senza che un solo iota sia sostituito alle relazioni logiche ... È quindi l'esistenza essenziale che, per delega di effettività, conferisce la promozione di esistenza non soltanto all'essenza inesistente di diritto, ma all'esistenza ines­ senziale di fatto, e si può anche dire che l'essenza metempirica sen­ za esistenza e l'esistenza empirica senza essenza siano le due forme incrinate di un'essenza-esistenza indivisa la cui scissione avviene · per dispersione di coscienza metafisica e appare via via come so­ vressenziale nell'effettività prima, essenziale nell'ineffettività se­ conda e subessenziale o inessenziale nell'effettività terza. Allo stes­ so modo, ciò che via via si disarticola in necessità metempirica e in contingenza empirica si rivela incomprensibilmente, e contraddit­ toriamente, come necessità-arbitraria nell'intuizione metafisica del Quasi-niente.

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CAPITOLO V

Su un totalmente-altro ordine

I. - Il Totalmente-altro non è un ordine Ci si chiederà indubbiamente perché non vi sia metafisica se non nella e tramite la nichilizzazione. Quale fatalità ha voluto che l'istante stesso, attraverso un'intuizione errabonda, si rivelasse ne­ cessariamente cessazione di qualcosa e sospensione di pienezza? La presa di coscienza metafisica dei principi, che è coscienza del fatto dei principi, è inevitabilmente coscienza della loro fondamentale gratuità e sopprimibilità. Per esempio: il principio d'identità è ne­ cessario, ma il principio del principio d'identità è un fatto, un dato arbitrario; la necessità è necessaria, ma la necessità della necessità è un fatto, e il fatto della necessità necessaria è contingente! La que­ stione ora è sapere come faremo a dissertare sull'Oltre e che cosa in generale potremo dirne ... Un ordine totalmente-altro, dicevamo. Totalmente-altro, sappiamo adesso in che senso. Ma un "ordine"? L'istante intuitivo è certamente qualcosa di più del minuto di di­ sagio o di aporia che fa seguito all'ictus emozionale; la repentinità della conversione non si riduce a una qualche rudezza improvvisa e senza conseguenze in corso d'empiria, l'istante empirico non es­ sendo tutto sommato che una continuazione assai limitata, un con­ densato di intervallo e un'approssimazione piuttosto grossolana: il saggio non sobbalza perché alla fiera esplode improvvisamente un petardo, ma resta impassibile nel momento in cui la detonazione rimbomba; o piuttosto sobbalza, beninteso, come tutti, visto che come tutti è debole carne e tremante carcassa, immaginazione e sistema nervoso impressionabili, cuore timoroso; ma in quanto es­ sere razionale comprende che il "di-colpo" di un'esplosione è un 112

puro e semplice niente, oùòev, che l'evento sorprendente scompare nell'eterna e universale necessità del determinismo, che ciò che è importante-per-noi (1tpòc; tiµcic;) è in sé falsa evidenza e vuota ap­ parenza. L'ordine è infatti la principale specializzazione del logos metempirico; ed è anche poco affermare che è l'altro ordine, dato che è l'unico e che la sua funzione è quella di sostituire a un ordi­ ne anarchico, atassico e anemico, il cui vero nome è disordine, un ordine intelligibile privo di rapporti con l'empiria confusa. Come potrebbe la ragione cartesiana non intrattenere con l'ordine i più intimi rapporti, in un filosofo i cui sforzi sono tutti tesi a trovare una garanzia degna di fiducia contro gli inganni dell'istante, contro il genio maligno della discontinuità e i colpi di scena, le vicissitu­ dini e le eruzioni vulcaniche di un'empiria tanto deludente quanto sovrabbondante? Significa affermare che l'ordine intelligibile è, per questa stessa ragione, istitutore di saggezza: in Malebranche Ordine immutabile e verità necessaria si richiamano come le due facce, l'una morale e l'altra matematica, di una stessa Legge eterna, di uno stesso Verbo.1 Da qui il doppio senso della parola "princi­ pi": da una parte i principi sono l'essenza delle esistenze, ovvero assicurano consistenza, sussistenza e permanenza a un essere che d'altronde non hanno posto; la perennità dell'Esistere, precaria nella percezione, si fonda e si legittima in tal modo nei principi; dall'altra parte i principi sono ciò che conferisce stabilità e incrol­ labile costanza a un comportamento, ciò che attribuisce all'agente una "condotta", un ideale, norme etiche, massime coerenti. Lei-� bniz, il filosofo dell'ordine e dell'intelligibilità all'infinito, sottrae all'arbitrio divino l'ordine della necessità logico-metafisica per meglio giustificare l'ordine dei valori e dei rapporti di perfezione riconducendoli alla società morale che la repubblica degli spiriti forma con la Provvidenza. Tutto, nell'ordine, annuncia la sussisten­ za seconda, che è espressa adeguatamente tanto dalla ripartizione e dalla sistematizzazione architettonica quanto dalla perennità e sem­ piternità essenziali. L'ordine tende irresistibilmente a organizzarsi in città intelligibile; nella struttura e nelle gerarchie del regno ideale 1

Méditations chrétiennes (ed. Henry Gouhier, 1928), III,§ 21, e IV; Traité de Morale (éd. H.Joly, 1882), I, 1; Traité de l'Amour de Dieu (ed. Roustan, 1923).

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riconosciamo facilmente i cosmomorfismi della semi-metafisica: questo mondo, destinato a essere archetipo, prototipo o paradigma del sensibile, è in se stesso un calco; sottopone a una trasposizione sublimante simmetrie e architetture che in 'realtà copia dal coro, dalla città o dal corteo. Sono già state denunciate le analogie equi­ voche e le omologie metaforiche del sesto libro della Repubblica. L'idea stessa di "mundus" non tende forse a riabilitare la chiusura antropomorfica e le costellazioni sociali sottomettendole all'univer­ so infinito della meccanica celeste? Il sistema dei sistemi è ancora un sistema, e l'universale non sempre resiste alla degenerazione mon­ dana ... Ma anche ammettendo che il "mondo" delle essenze secon­ de non sia contaminato dagli antropomorfismi del senso comune e dai pregiudizi della filosofia terza, che andrebbe detta piuttosto filodossia, esso conserva tuttavia una tendenza ad arrotondarsi in cielo intelligibile o (se si preferisce questa immagine) a offrire agli sguardi la maestà imperiale di un edificio. E non è soltanto l'ordine a confondersi col regno delle Idee o con la piramide dei valori, ma anche l'eternità delle essenze. Solo per l'uomo dell'empiria conver­ titosi alla metempiria l'avvento di una nuova era è un vero e proprio avvento; l'ordine ulteriore è intemporale per essenza, ma la sua rive­ lazione all'intelligenza attenta fa epoca, o viceversa: la conversione alle matematiche segna forse l'inizio storico di una nuova vita, ma la verità stessa non ha mai cessato di esistere e, all'infinito, di pree­ sistere, e questo fin dalle fluttuazioni della conoscenza del primo2 genere, poiché era proprio essa a determinare la consistenza del Dubito e la sola verità dell'illusione. Come potrebbe Malebranche, ripensando Platone, non collocare la Bellezza essenziale sul piano della Verità e dell'Ordine secondo? Questo piano è il piano dell'es­ senza al contempo preesistente e postesistente, cioè sussistente. L'ordine intelligibile costituisce l'essenza della verità dell'esistenza empirica senza tuttavia averla posta, non ne è infatti, il creatore! Certamente Descartes non manca di presentire, al di là dell'ordine, il Dio insondabile che ne sarebbe la fonte; e se Malebranche mette in risalto la "consultazione" della Legge eterna da parte del Padre,3 2 3

Nel nostro linguaggio, è la conoscenza numero tre. Méditations chrétiennes, III, 21; Traité de Morale, I, 6.

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precisa altrove che le Idee fanno parte dell'essenza divina, così che Dio, consultando "la Saggezza", non consulta altri che se stesso. Resta nondimeno che, là dove l'Ordine viene a confondersi col "modello", una saggezza regolata sull'Ordine tende per natura al dogmatismo formale e intellettualistico dell'Imitazione: una mime­ tica fondata sulla contemplazione dell'archetipo eterno esige dal saggio non tanto ispirazione, invenzione o improvvisazione, quanto fedeltà; si tratta di copiare, non di creare ...

II. - La tangenza dell'intuizione con il totalmente-altro L'ordine secondo sconfigge e "confuta" la dossografia senza ni­ chilizzarla, ma lasciandone emergere il solido fondo che la sua in­ consistenza teneva celato; esso sviluppa o rettifica l'apparenza em­ pirica, non ne abolisce l'esistenza. Per questo il momento negativo della confutazione (1::Àeyxoç) è positivo - positivo più che posizio­ nale: la confutazione del disordine è, nello stesso tempo, istituzione della verità. Ora, è forse possibile concepire un ordine che sia total­ mente-altro, cioè altro anche dall'altro, esponenzialmente altro, e tuttavia dotato di eternità essenziale e di arrotondamento sistema­ tologico? L'infinita distanza tra corpi e spiriti, dice Pascal,4 è solo una pallida immagine della distanza infinitamente infinita che sus­ siste tra gli spiriti e il movimento della carità. Ora, la natura "eccle­ siale" o misteriologica di un ordine totalmente-altro, ostinatamente ··· aperto all'infinito dell'io che vi è coinvolto, avversa ogni chiusura sistematica. Come attribuire struttura architettonica, o anche semplicemente sussistenza in atto, a ciò che dovrebbe congiungere in sé i due aspetti contraddittori di universalità oggettiva e destino per­ sonale, soddisfare contemporaneamente due esigenze contraddit­ torie, l'una scientifica e l'altra tragica, il logos astratto e l'ipseità in prima persona? Due verità che si distruggono reciprocamente in modo così radicale - il tutto-o-niente dell'essere in generale, pen­ siero pensante incluso, mette in questione l'essere stesso di tale pensiero - possono soltanto dare vita a un "ordine" fluido e inaffer4

Pensées (Brunschvicg), XII, fr. 793.

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rabile che, propriamente parlando, è un mostro: niente più spetta­ tore di fronte allo spettacolo, niente più soggetto di fronte all'og­ gettività problematica e teorematica, ma un attore incluso in una totalità atmosferica, evanescente, invivibile, 'in cui due verità si ne­ gano reciprocamente. Forse basterebbe ricordare che l'uomo pren­ de coscienza del tutto-o-niente nella tangenza-lampo dell'istante e che l'istante, interruzione infinitesimale in corso d'intervallo, esclu­ de ogni continuazione, ogni perennità, ogni fondazione di un "ordo" stabile e durevole. Quasi-niente è decisamente troppo poco per stabilire solidamente un qualsiasi ordine e garantirne l'equili­ brio! Come potrebbe la punta affilata del minimo-essere, cioè dell'essere minimale sulla soglia del non-essere, farsi base di una nuova era o di un nuovo Adamo? Solo la morte, in questo senso, potrebbe rappresentare l'avvento di un ordine definitivo, se non fosse mutazione dell'essere in puro e semplice non-essere, o almeno radicale inconoscibilità. La tangenza, ossia il contatto istantaneo e quasi imponderabile con cui l'intuizione sfiora il totalmente-altro, questo contatto è in qualche modo un'introduzione che non intro­ duce a niente, a suo modo priva di avvenire e di conseguenze. Il termine stesso di "conversione" non è nient'altro che un modo di dire, nella misura in cui conversione designa solitamente il passag­ gio da un intervallo a un altro intervallo e, dopo l'irregolarità, il pianoro; - il pianoro e tutto ciò che lo scalatore, tornando a solcare una pianura, trova sul nuovo orizzonte: una nuova confessione, un nuovo calendario, una nuova continuazione; il convertito rinnova il proprio intervallo, ma su un altro livello e su un altro piano, e l'in­ tervallo finisce ogni volta per fagocitare l'iniziativa. L'iniziazione all'ordine-totalmente-altro, benché implichi "ordine" e "iniziazio­ ne", si mantiene allo stadio iniziale e taglia corto; questo inizio non è né un inizio continuato (perché si tratterebbe di una sintesi so­ vrannaturale di istante e intervallo) né la soglia di una nuova conti­ nuazione (come nel regime empirico), ma inizio che è fine al con­ tempo, che nasce e muore nell'istante repentino; l'uomo dell' epi­ strophé non si volta che per voltarsi di nuovo, come se una luce accecante lo avesse abbagliato. Colui che si crede al di là, se davve­ ro lo crede, è più che mai al di qua, e proprio perché lo crede; e se professa il contrario non è altro che un ciarlatano, un fariseo e un impostore, poiché il "luogo" metalogico, 't01toç µe'tCX.ÀOyUcéç, non 116

è affatto un luogo, né una professione, né un mercato per venditori di orvietano. Insistiamo ancora: l' al di là, a rigore, è ciò che si può raggiungere nelle punte intermittenti, eccezionali o rarissime dell' e­ stasi intuitiva, ma è ciò entro cui, per definizione, nessuna creatura finita può pretendere di soggiornare senza contraddizione, a meno che non sia un angelo. La tangenza non esclude il domicilio? Ogni continuazione della momentaneità emergente-evanescente è perciò una farsa, uno pseudo-pensiero e una figura retorica. Non ci vuole serietà? L'"ordine" primo o metalogico non è "un ordine", non più di quanto la virtù professionale sia una virtù o la saggezza in atto un'eccellenza; e di conseguenza non si dà conversione al "totalmen­ te-altro" più di quanto si dia, stricto sensu, "perfezionamento" mo­ rale. La verità del progressismo empirico - tecnico o sociale - fa esplodere per contraccolpo la ciarlataneria del "progressismo" eti­ co e l'impostura che si cela in ogni empiricizzazione del metalogico in generale. In altri termini: non si accede al totalmente-altro nello stesso modo in cui si avanza, per gradi o promozioni, nell'"ordine" della Legion d'onore, poiché l'accesso è al tempo stesso ricaduta nella citeriorità.5 I pittori primitivi rappresentavano spesso e volen­ tieri i sette cieli come una sorta di sublime Legion d'onore in cui gli esseri venivano gerarchizzati secondo le regole di un "tableau"6 ••• La dialettica, in generale, è una sorta di mito scalare che riposa in­ teramente sul seguente postulato: i benefici del progresso vengono capitalizzati e ciò che è fatto non è più da fare. Viceversa, le inizia­ zioni reiterate dell'intuizione, discontinue e sempre iniziali, dicono che ciò che è fatto è sempre da fare, da fare e perpetuamente da rifare. Vi è un nesso tra l'idea di progressione dialettica e quella di ordine in atto, come ve ne è uno tra la mutazione subitanea o glo­ bale e il minimo-essere dell'istante. Il dialettico sale al piano supe­ riore servendosi della scala di servizio, e finisce per trovarsi como­ damente negli appartamenti reali. Ora, propriamente parlando non vi è un piano metafisico, così come non vi sono gradi intermedi;

5 6

(Citeriore, da citerior, citer ("al di qua"): contrario di ulteriore, NdTI. [Questo termine si riferisce sia genericamente a una tabella sia ad un albo pro­ fessionale, ma anche al "tableau" che serve per aiutare gli ospiti a trovare il proprio posto a tavola durante un ricevimento, NdTI.

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anche l'ordine metempirico, a rigore, non è un mezzanino o un gradino posto a metà strada tra il disordine empirico e il tutto-o­ niente metalogico: l'ascesa si compie di colpo, nel quasi-niente di un istante avviene la tangenza senza durata, la tangenza non conti­ nuabile dell'intuizione col totalmente-altro del tutto-o-niente. Ora, forse si tratta soltanto di un'apparenza esoterica. La tangenza con l'intangibile ha conseguenze intangibili. Certo, in corso d'em­ piria vi sono sicuramente dei "fiat" - per esempio la decisione av­ venturosa di uno stratega in battaglia - che danno luogo a molte più conseguenze di quest'impalpabile conversione a niente, con­ versione senza consistenza a cui nulla fa seguito. L'istante ontofani­ co manca di estensione intervallare nel senso che non inclina; come una causa fisica, il corso materiale degli eventi: ma produce forse una certa trasfigurazione pneumatica dell'essere, invisibile e ine­ sprimibile. La mutazione da ordine a ordine, la mutazione che fa epoca, genera un disagio sensoriale e un vortice emotivo presto ri­ assorbiti dalla ragione prospettica. Ma chi potrebbe riassorbire, ri­ solvere o liquidare la perplessità della ragione stessa, la cui origine è il mistero irrazionale del Quasi-niente? Questo scuotimento invi­ sibile, al contempo insormontabile ed evanescente come il Quasi­ nulla, è il solo "messaggio" che la tangenza puntuale ci consegna: un messaggio costituito da un non so che di informulabile circa un non si sa che di totalmente-altro su non si sa quale al di là! Ecco, in mancanza di un ordine durevole, saggezza o pianoro, quel che do­ vremo farci bastare. L'uomo dopo la tangenza è nella situazione di colui che, come Dostoevskij, ha visto la morte da vicino pur restan­ do al di qua dell'ultima soglia, oltrepassata la quale il viaggio si fa­ rebbe irreversibile e la resurrezione miracolosa: è internamente trasformato, e tuttavia taciturno, come se avesse sempre in mente il "paese mostruoso e triste"7 in cui stava per approdare. Ha quindi visto qualcosa, imparato qualche segreto, portato da "laggiù" a quelli di "quaggiù" qualche inedita lezione? Àva.J310ùc; a· t11,eyev a. h:e'ì \Set ("appena resuscitato raccontò ciò che aveva visto"): 8 è il caso di Er il Panfilico, che "fa ritorno" perché ci è andato, vi ha 7 8

Henri de Régnier (epigrafe alle Heures dolentes, di Gabriel Dupont). Rep., X, 614 b. Cfr. Gorgia, 523 a; Pedone, 107 d.

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sostato, e perché l'al di là, topograficamente descritto come mondo in atto - un oltremondo! - non è altro che un al di qua, malgrado i paesaggi fantastici e la luce escatologica. Come potrebbero, gli uo­ mini dell'intervallo, non raccogliersi intorno a questo esploratore - sia esso Ulisse, Virgilio o Dante - per farsi raccontare i dettagli del mostruoso viaggio agli inferi? Colui che è veramente entrato nella "casa dei morti" non ha mai fatto ritorno, e chi ritorna carico di racconti e di dettagli geografici non ci è mai andato. Tra il viag­ giatore tragico, nichilizzato per il troppo sapere, e il loquace giulla­ re che non sa nulla, vi è il messaggio intuitivo del Quasi-nihil: mes­ saggio deludente e vuoto, se ci si limita a una lettura grammaticale, se cioè si interroga il Come, il Dove e la lettera; pienezza infinita­ mente suggestiva, allusiva e agogica se viceversa si coglie l'intenzio­ ne esoterica del messaggio. Non date ascolto al "personaggio ridicolo" 9 di cui Dostoevskij ci racconta il sogno, questo nuovo Panfilico ne sa quanto il primo ... Ahimè! questo Panfilico è un Tartarin, 10 ed è proprio la sua facondia a renderlo sospetto; come tutti gli sbruffoni, parla troppo dell'indescrivibile e dell'inenarrabi­ le per saperne davvero qualcosa; non ne sa più di voi o di me. Forse a saperne di più è il condannato a morte graziato all'istante supre­ mo, egli ha infatti vissuto la tangenza al miliardesimo di millimetro e al miliardesimo di secondo. O forse no: l'uomo del Quasi-nihil che, sulla soglia dell'irreversibile, è sfuggito al Nihil, l'uomo del Quasi e della disperazione dell'undicesima ora, l'uomo del rischio mortale, l'uomo che stava per "usque ad mortem" non ne sa, a sua­ volta, molto di più, dato che non c'è niente da sapere; diciamo che ha preso coscienza di quel che già sapeva, e da sempre: ci è sempre possibile imparare quel che meglio conosciamo - per esempio "re­ alizzandolo" come evento effettivo che ci riguarda personalmente. L'uomo dopo la tangenza non è il detentore di un messaggio segre­ to, è lui stesso e personalmente questo messaggio: questo messag­ gio, questo non-so-che che non è niente, è contemporaneamente e

9

lO

Sogno di un personaggio ridicolo. Racconto fantastico {1877): Diario di uno scrit­ tore, II, 1. [Personaggio di wi racconto di Alphonse Daudet, Les aventures prodigieuses de Tartarin de Tarascon (1872), Nd1].

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contraddittoriamente lo sguardo sbalordito con cui osserva l'essere del mondo, lo sguardo distaccato e lontano che getta sugli affari e i negozi dell'intervallo; si tratta del coeffici�nte impalpabile di estra­ neità che colpisce ogni nostra esperienza e che rinnova l'atteggia­ mento propriamente filosofico di prendere costantemente coscien­ za della gratuità del tutto-o-niente.

III. - La sovraverità Tutto ciò basta a costituire "un ordine"? L'istante, che pure ci dona nuovi occhi e trasforma interamente il domani della tangenza, non ordina né organizza niente intorno a sé. Soprattutto non confu­ ta l'ordine secondo come l'ordine secondo confutava l'ordine terzo, ordine mancato, a basso rendimento, deludente e inefficace che può dirsi disordine. Naturalmente la verità più consistente rende caduca la meno consistente, l'ordine più vero rettifica e corregge ciò che dopo tutto è una caricatura di ordine. Ora, la verità essen­ ziale è incontestabilinente "più vera" della semi-verità percettiva o della verità del fatto fisico, in primo luogo perché in essa il pensiero rispetta i principi e gli assiomi razionali la cui negazione renderebbe impossibile questo stesso pensiero, poi perché la verità essenziale è una verità che ha successo, dato che l'essenza non è puramente e semplicemente "inesistente", ma applicabilità infinita e possibilità di esistere quando e dove si preferisce, qua o là a scelta. Vi sono perciò, in questo senso, dei gradi di verità: relazioni dell'esperienza e principi della ragione, ecco la mia doppia verità umana di creatura senziente e pensante ... Ora, vi è forse, in questo stesso senso, una "verità" prima in grado di verificare o rettificare la verità seconda? Si dà, dopo il capovolgimento dal pro al contro, un capovolgimento del capovolgimento, un capovolgimento dal contro al pro, un capo­ volgimento simmetrico e inverso in grado di annullare il primo e, in tal modo, riabilitare la semi-verità e il semi-ordine dell'empiria? L'assurdismo professionale e l'irrazionalismo sistematico lo crede­ rebbero volentieri, dato che fanno dell' "inconoscenza", dell' agno­ sticismo e dell' antimatematica ruoli e specializzazioni. Ma ciò signi­ fica dogmatizzare sul mistero e reificare quel che meno assomiglia a una cosa, cioè un Quasi-niente istantaneo in cui il totalmente-altro 120

si rivela come tutto-o-niente. Un contro-ordine è ancora un ordine, e perciò un al-di-qua. Un sistema di contro-verità o di verità rove­ sciate non è una filosofia prima, ma un'immagine in negativo del senso comune. Insomma, dire che due più due fa cinque (cioè fa cinque in atto e realmente), che lo stesso è un altro e che il tutto è maggiore della somma delle sue stesse parti (precisando quante), non è tanto uno scandalo metafisico quanto un bluff conformista o una sceneggiata borghese. Inoltre significa abusare della ragione per confutare la ragione. L' elenchos non è forse affare del logos? Come potremmo al contempo confutare la ragione e ragionare con­ tro di essa? Ne risulta quanto segue: la verità dell'ordine secondo sussiste inconfutata anche dopo che la sua radice e la sua fonda­ mentale contingenza sono state messe a nudo. Dov'è passata la ma­ tematica non si può più credere all'opinione e ai pregiudizi sensibi­ li; ma dopo, come prima, della domanda radicale, la matematica e la logica restano del tutto vere: la domanda, propriamente parlan­ do, non è critica, e dunque non c'è niente da concludere o conse­ guenze da trarne. - Ammettiamolo pure: non vi è "ordine" primo perché il totalmente-altro non è alcunché di essente: né "ens" né essenza dell' ens ... L'ordine è la prerogativa della secondarietà me­ tempirica, metafisicamente intermedia tra il disordine dell'empiria e un non so che d'altro che non è né ordine né disordine, ma in cui bisogna decidersi a riconoscere la fonte dell'ordine, "fons ordinis". Dei nostri tre livelli ve ne è dunque uno che non è come gli altri, che non è come nient'altro, poiché è altro da ogni esistente e da ogni -­ essenza, ossia che è il tutto-altrimenti dell'assolutamente-altro, il nctvu CÌÀ.Àoc; del navteÀ.c.oç dÀ.Ào. Questo innominato, al contempo inesistente e inessenziale, invisibile e impalpabile, e tuttavia il con­ trario del nulla, nella pratica cede la supremazia all'ordine metem­ pirico; l'acumen è sempre evasivo e si perde nella nebbia. L'ordine intelligibile dà un senso all'empiria, ossia la rende comprensibile, e d'altra parte assicura il buon esito dell'azione; in quanto essenzialità eterna, è infatti permanentemente verificabile nell'empiria. Per converso, non ha causato né posto ciò che condiziona. Esattamente al contrario, l'assolutamente altro crea il semplicemente o relativa­ mente-altro, poiché ne è la fonte; ma per converso non è leggibile nel testo della metempiria poiché è, se non proprio niente, almeno come niente, perché è un quasi-niente di esistenza e di sussistenza e 121

in qualche modo un puro zero o maniera d'assenza! Un soffio, una brezza leggera sono ancora troppo "esistenti" al cospetto di questo imponderabile impercettibile, e soprattutto troppo ambigui per questo supremo equivoco! Da qui la propènsione delle teologie un po' aride a trasformare il totalmente-altro in semplice clausola di stile o "schiocco di dita": un tanto di cappello protocollare al "fons ordinis" ed ecco sbrigate le formalità ... L'intuizione di una fonte dell'ordine non è fatta per consolidare le immemoriali, indistrutti­ bili verità, quanto piuttosto per risvegliare dei dubbi circa il loro valore sacrosanto, suggerendoci l'idea del capriccio arbitrario da cui forse deriva, in ultima analisi, l'idealità delle norme. Leibniz aveva certamente le sue ragioni per moltiplicare i preventivi contro l'angoscia e aggirare il problema dell'origine radicale indiscreta­ mente sollevato dal "dispotismo". La verità non divenuta, ossia al contempo ingenerata e incorruttibile, appare gratuita o addirittura assurda alla coscienza che ne mette a nudo i dettagli e i retroscena. Perciò, se !"'ordine" intelligibile è ciò che rende comprensibile e significativo il disordine sensibile, il sovraordine inintelligibile non mira a far comprendere l'intelligibile del tutto trasparente, realmen­ te massimale degli assiomi e dei principi eterni, ma fonda questa intelligibilità e, fondandola, rivela il non-senso del suo senso, la contingenza e la relatività della sua necessità, la notte da cui sorge la sua luce. E come la meditazione della morte accelera il fallimento del positivismo vitale, così il secondo fine di una nichilizzazione nel quasi-nihil dell'istante è sufficiente a svalutare e a sconfortare la pra­ tica; l'uomo d'azione ha sufficiente noncuranza metafisica per co­ razzarsi contro pensieri così allarmanti e così inutili alla condotta e al rinnovo dei negozi dell'intervallo: l'ironia dell'infinito sminuisce pericolosamente la gerarchia dei valori finiti, e la pratica, che neces­ sita al contrario di frazionamento ed è sempre partitiva, non sa che farsene del tutto-o-niente mortale dell'intuizione. L'ordine ha dun­ que la propria fonte in qualcosa di totalmente-altro dall'ordine; o, reciprocamente, il totalmente-altro, che fonda l'ordine, non può essere esso stesso ordinato, benché non sia propriamente disordine - lo sdoppiamento in ordine e disordine istituiti è infatti posteriore all'istituzione. In altri termini: ciò che pone la verità non è vero; ciò che pone la verità è piuttosto sovraverità, al di là né vero né falso della verità istituita. La sovraverità, che rende vera la verità, che 122

pone arbitrariamente la verità, l'evidenza e i valori, non è in se stes­ sa né un valore, né un'evidenza, né una verità. Se non temessimo di far pensare a delle ipostasi, diremmo che una stessa cosa appare, a seconda della tensione di coscienza metafisica che ne abbiamo, so­ vrintelligibile, intelligibile e sub-intelligibile: sovrintelligibile per un'intuizione dell'istante, intelligibile nell'esercizio abituale del lo­ gos e sub-intelligibile per l'esperienza sensibile; l'intelligibile sareb­ be compreso in tal modo tra il sub-intelligibile che regola e il sovrin­ telligibile che lo fonda: il primo provvisoriamente o relativamente incompreso, misconosciuto, nondum intellectum, il secondo eterna­ mente inintelligibile e definitivamente inconoscibile, poiché non può essere compreso. Le verità eterne che attribuiscono un senso alle esistenze non hanno senso come tali, sono il senso stesso: non sono portatrici di un senso ricevuto altrove, sono interamente il senso, dato che il senso viene sempre attribuito a ciò che può non averne. L'origine radicale del senso non ha senso perché non è nep­ pure il senso, è assolutamente altra dal senso; e ancora, non essendo positivamente insensata né sostanzialmente assurda, la fonte di ogni senso quaggiù può letteralmente esser detta non-senso; non viene conferita a qualcos'altro in quanto preesistente, sussistente e consi­ stente, è pura inesistenza e pura inconsistenza che, creando la verità delle verità, si ritrae da queste verità nel momento in cui le si pensa - perché ciò che rende possibile pensare non può che essere impen­ sabile. La coscienza più acrobatica, la quasi impossibile coscienza, l'estrema coscienza: metafisica è dunque quella che, arroccata sul- � l'"acumen intuitionis", riusciamo a cogliere tramite lampi del prin­ cipio puramente costituente. In quanto al contempo costituente e costituito, istituente e istituito, participio presente attivo e partici­ pio passato passivo, l'ordine propriamente detto è letteralmente secondo o, che è lo stesso, non può essere principio; necessario' ri­ spetto alla contingenza delle esistenze, arbitrario e perciò ipotetico per chi prende coscienza della necessità come fatto e totalità, l'ordo ordinans-ordinatus promette giorni felici alla ragione relazionante e un futuro indefinito alla sua laboriosa problematica. La verità se­ conda è una verità completa e sufficiente, anche se per certi versi manca di qualcosa ... L'uomo ragionevole, nella sua iritermediarietà di creatura, sa tutto quel che c'è da sapere, e si conforma alla sag­ gezza metempirica e alla serietà vitale di non cercare al di là; il pen123

siero che si limita all'esercizio del ragionamento non ha alcun desi­ derio di fendere questa soglia e ritrovarsi a vagabondare con il cielo per tetto! Non manca nulla ... e ciononostapte manca qualcosa - un qualcosa che non è nulla. Cosa manca a questa verità completa e incompleta? Manca un non so che di inesplicabile, ingiustificabile e impalpabile che è il principio stesso dell'inquietudine metafisica: l'uomo metalogico arde follemente per compiere ciò che, pur ba­ stante a a se stesso, gli appare, qualsiasi cosa faccia, incompiuto; questo desiderio infinito di qualcos'altro ha qualche parentela sia con l'Eros profano del Simposio che con l'Eros sacro di Juan de la Cruz; aì.).,o 'tt J3ouÀoµévri tKO'..'tÉpou ti \\fUX1Ì òf!ÀrJ ecr'ttV, 6 où Mva'tm Et7tEtV, àÀÀà µavwuE'tat o J3ouAE'tat, Kaì a'tvt't'tl:'.'tm: "Di tutte le cose evidenti è qualcos'altro che la loro anima desidera, qualcosa che non può dire, ma che fa indovinare tramite enigmi" .11 E lo stesso Alain, che diceva: "Vi è altra cosa", non alludeva forse, nel suo linguaggio, a questo No sé qué atmosferico che avvolge non di una gloriosa aureola, ma di un'aura brumosa i contorni di ogni cosa-in-atto? È irragionevole, nel senso più pieno del termine, l'ani­ ma inappagata e mai soddisfatta, lacerata tra l'appagamento della saggezza statica e la nostalgia contraddittoria, sconfortante e incon­ solabile di un sovrintelligibile indeterminabile, affamata di un nutri­ mento senza nome che nessuno può darle ... Sa soltanto quello che vuole, l'uomo del desiderio in cerca della sua principessa inesisten­ te, della sua introvabile Persefone, del suo Allo ti tanto indesignabi­ le quanto inassegnabile? Se la verità seconda, facendo astrazione dalla propria sovraverità, è una verità volatile, una verità ipotetica e infondata come un sogno, la verità seconda che sfiora le riserve del­ la sovraverità è una verità imprecisa, gratuita, evasiva. La verità in­ fondata è dunque a suo modo perfettamente fondata - non ha biso­ gno di niente. I fantasmi non hanno bisogno di niente. I prigionieri della caverna platonica, che prendono l'ombra per realtà, non chie­ dono nulla. Ma, all'inverso, la verità fondata sul proprio al di là è una verità senza sostegno: l'al di là pone l'essere della verità così com'è di fatto, senza giustificarlo di diritto o normativamente; ma, per contro, giustificherebbe altrettanto bene la contro-verità di 11

Simp., 192 c-d.

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questa verità; 12 e quindi niente più sicurezza incrollabile per chi ha avuto anche una sola volta il punto di tangenza più fuggevole con la sovraverità. La sovraverità non è più pro/onda della verità al parti­ cipio-passato-passivo, è semplicemente più fondamentale; o, per meglio dire, essa sola è fondatrice: ma non appena l'infondato rice­ ve un fondamento perde la sempiternità ingenerata e incorruttibile del va-da-sé; e non la perde a profitto di una sussistenza più essen­ ziale, come nel caso della conversione da empiria a metempiria, ma la perde a profitto di un impalpabile non-so-che che è permanente possibilità di revoca e su cui nessuna creatura può fare affidamento; la fiducia stessa, che è il regime abituale dei nostri rapporti con l'ordine secondo, assume un altro senso all'indomani dell'istante in cui la sovraverità si è rivelata del tutto arbitraria. La fiducia era in qualche modo il riflesso speculare della perennità, perpetuità e per­ durabilità essenziali in seno a una continuazione empirica precaria­ mente ricondotta di evento in evento tra gli inganni dell'oblio e della volubilità; la fiducia esprimeva il parallelismo tra permanenza intelligibile e intervallo zigzagante - perché l'essenza sussiste men­ tre l'esistenza esiste. Il taglio dell'istante imprime per sempre un dubbio su questo regime e compromette la garanzia accordata all'intervallo dai numi tutelari della metempiria. Come parlare an­ cora di una "saggezza" metalogica? Si dà una saggezza metempirica che consiste per l'appunto nella conversione dal disordine empiri­ co all'ordine intemporale: salvo ubriachezza o follia, la conversione .• all'ordine secondo inaugura necessariamente, per l'uomo della ra­ gione, l'eone delle verità eterne. L'uomo che si volge all'eterno si eternizza: e, almeno in questo, il superlativo dell'ottimismo leibni­ ziano, che lega tra loro Sapientia e Ratio, si ricongiunge al superla­ tivo assoluto dell'attualismo spinozista. Ma la conversione della conversione, se non è saggezza, non è neppure riabilitazione del senso comune, della voluttà e di tutto ciò che la saggezza aveva ro­ vesciato: la conversione della conversione è molto semplicemente il capovolgimento-lampo dell'intuizione; niente è cambiato, tutto è cambiato, a partire dall'impercettibile tangenza che ci ha fatto sfio­ rare il mistero! 12

LEIBNIZ,

Discorso di metafisica, cap. IL

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IV -L'Altro e il Totalmente-altro Fondamento, Principio, Condizione ... ,tutte le parole con cui potremmo designare la sovraverità ricevono qui una sorta di pro­ mozione pneumatica. La condizione della condizione, condizione esponenziale, è certamente "condizione" in un senso ben diverso dalla condizione semplice. Questa è legislazione di una· naturali­ tà anomica, norma ideale e dovente-essere di un pensiero debole, di un pensiero fallibile deviato e distratto dal corpo. In quanto a­ priori, questa condizione è al contempo trascendente e immanente: trascendente perché senza compromessi con un'empiria sia pure purificata e distillata; la metempiria, ricordiamolo, è metempirica fin dall'inizio o "ante rem", non è limite asintotico di un'induzione maggioritaria né verità di consenso generale o di quasi-unanimità; la condizione è trascendente perché la sua universalità, eternità e necessità non risultano da un'approssimazione scalare per gradi, ma appaiono di colpo nella loro superlatività assoluta e globale. Ma è anche immanente poiché non è un'istanza separata, ipostasi o principio reificabile, ma semplicemente pensabilità essenziale in ogni pensiero pensante. Non costituente ma costitutiva o costitu­ zionale, essa governa implicitamente l'esercizio del pensiero senza tuttavia determinarlo a pensare di fatto, senza cioè determinarmi, io che parlo a quest'ora e in questo luogo, effettivamente e in atto, a ragionare, a comprendere, a sforzarmi; la pensabilità o essenzialità di ogni pensiero è in tal modo coessenziale all'essenza pensante; o, in altri termini: la verità eterna, per quanto non positivamente "po­ sizionale", è nondimeno coessenziale alla verità pensante che dice io, che erra, cerca ed è ipseità intima a se stessa. Se la legge morale, essendo più simile a un atto d'amore che a una legge, può essere compromessa dalla cattiva azione di qualcuno (è chiaro infatti che l'Atto degli atti è vulnerabile ai nostri atti e che il mio peccato coin­ volge e affetta, in una certa misura, l'evento radicale), l'impassibile verità dell'essenza, invece, è indifferente ai nostri errori, e questo è comprensibile, poiché l'eternità metempirica è l'altro ordine incommensurabile agli inc,identi e ai lapsus dell'empiria e poiché l'alterazione della prima per mezzo della seconda è più inesplica­ bile della comunicazione delle sostanze nel dualismo parallelista (il mistero del "vinculum", per lo meno, è un fatto!}; la purezza della 126

condizione è più che immacolata, è non maculabile; l'idealità dei principi necessari rimane inalterata, per quanto il Signor Tal dei Tali ne pensi hic et nunc quando ci ragiona sopra. Lev Sestov ama­ va citare questa sentenza della Metafisica di Aristotele: +t à.vd.yK'll 6.µE1:CX.1tEto-1:ov n.13 La necessità è inflessibile. La stessa impotenza di cui parla Epitteto, 1'6.òuvaµi.a 1tEpì ,:ci 6.vayKafo, non è che l'aspetto interiore di questa impossibilità-di-pensare-altrimenti che è l'esatta definizione della necessità; e la cattiva coscienza che fa orecchie da mercante di fronte all'evidenza ode pur sempre, come dice Malebranche, i taciti rimproveri e la muta protesta del verbo interiore. L'assurdità è quindi una sorta di omaggio che la sragione rende alla ragione. Colui che è libero di professare la contraddizio­ ne sarebbe nello stesso tempo, per caso, anche libero di pensare? - c'è "aliter" e "aliter". L'altrimenti dell'empiria pura e semplice è la definizione stessa del fatto contingente, poiché il contingen­ te è ciò che può essere o non essere, essere altrimenti da come è, ÈVÒEX6µEvov dÀ.Àroç �XEtv; o, considerando l'errore empirico: tut­ ti i gradi dell'Altrimenti sono rappresentati, come sono concepibili tutti gli angoli possibili di deviazione dello spirito, a partire da una verità che solo l'esperienza determina. L'Altrimenti dell'empiria ri­ spetto alla metempiria o, se si preferisce, ciò che è altrimenti da la metempiria, per contro, designa l'assurdo; ciò che non può non es­ sere, né essere altro da ciò che è - questa è infatti la definizione del necessario: nequit non esse, nequit esse aliter ... Ciò che è altro da , ciò che non può essere altrimenti, pretendendo di potere l'impossi­ bile o di pensare l'impensabile, confessa tramite questo fatto il suo nulla e il non-senso della sua pretesa contraddittoria. Ora, l"'altro da" le verità eterne è necessariamente il contraddittorio di queste verità: non si è "più o meno" a margine del principio di identi­ tà; la legge del tutto-o-niente, che è anche quella del terzo-escluso, sopprime qui ogni sfumatura e non lascia spazio all'aberrazione graduale. Se l'altrimenti-da-la-metempiria (o, che è lo stesso, !'al­ trimenti-della-empiria) è, alla lettera, "Absurdum", l'altrimenti-da­ la-metempiria può ben essere detto "Absurdissimum". Ricordiamo che la necessità è ciò che, per definizione, esclude ogni Aliter, e 13

Met., 1015 a 30-32; cfr. 984 b 1. Cit. apud Sestov, Atene e Gerusalemme, I.

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non relativamente, ma assolutamente e analiticamente. L'assur­ do si commette colpevolmente, di contrabbando e come inavver­ titamente, e il pensiero che l'ha commesso rende implicitamente omaggio all'istanza sovrana degli assiomi e delle condizioni a priori: l'assurdissimo, invece, è l'impensabile professato iperbolicamente. Il paralogismo va in frantumi contro la necessità incrollabile del logos: ma l'assurdissimo, l'assurdità superlativa, la superassurdità è paralogismo che si pone come logos. Con maggiore esattezza: il pensiero logico o logicistico, nel paralogismo, resta al di qua della barriera, poiché l'assurdo si definisce indirettamente e implicita­ mente tramite il sistema di riferimento della necessità razionale;. l'intuizione, nell'assurdissimo, si colloca al di là della scissiòne tra logos e paralogismo, ed esercita la sua tangenza evanescente con la "fons ordinis"; nel quasi-non-essere della sovraverità, il logòs non ha ancora rigettato fuori da sé il paralogismo, ma una specie di innocenza o di indifferenza del tutto simile all'adiaforia che pre­ cede il peccato le avviluppa entrambe allo stato indiviso, in seno alla stessa nebulosa. Propriamente parlando, il culmine massimo non è la contraddizione assunta cinicamente, né la sostituzione del sistema delle verità con un sistema non meno dogmatico di contro­ verità, della filosofia seconda del senso con una filosofia non meno seconda del controsenso o del non-senso, insomma dell'ordine es­ senziale di un contro-ordine non meno essenziale. La filosofia pri­ ma non è una filosofia seconda alla rovescia. Il culmine massimo, ricordiamolo, è un punto al termine di una punta. Al di là della contingenza contingente dell'empiria condizionata, come al di là della necessità necessaria della condizione, questa punta vertigino­ sa designa !"'iperbole" inconcepibile di una necessità non necessa­ ria, il mostro irrappresentabile di una necessità contingente: se la necessità è essenzialmente necessitante per le esistenze contingenti, il fatto stesso della necessità, considerata in sé e nella coscienza che prendiamo della sua globalità e del suo tutto-o-niente, è essa stessa arbitraria e gratuita; e come l'essenza rinvia al fatto dell'essenzialità, che è radicale esistenza, così la necessità seconda rinvia al fatto non necessario della necessità, alla sorgente prima che con Lachelier dobbiamo risolverci a chiamare libertà. Nell'alternanza infinita tra necessità della libertà e libertà della necessità, la libertà radicale non ha forse l'ultima parola? La necessità che faceva tacere ogni 128

domanda si nega come necessaria e si rivela contingente; l'ipote­ tico si presagisce repentinamente nell' anipotetico. Tale è la nostra tangenza-lampo con· l'inattingibile di questo totalmente-altrimenti che è la paradossale.possibilità della necessità! La condizione della condizione a priori non è dunque "a priori" in se stessa. Né "ideale" in se stessa. E l'anomalia sta nel fatto che il condizionato, questa volta, è giustamente condizione condizionan­ te, necessità necessitante o, in una parola, a priori. Questo a priori, tuttavia, non diviene nonostante tutto a posteriori. Dopo come pri­ ma, la necessità metempirica permane del tutto "inconfutabile". La confutazione si limita a confondere i paralogismi dello pseudo-lo­ gos; a smascherare le contraddizioni clandestine nascoste nelle pie­ ghe del ragionamento. No, la metempiria non ha mai torto, anche una volta azzardata la possibilità metalogica del suo Altrimenti. L'Allos della contingenza empiricofisica è la possibilità, prossima e reale, di essere così o altrimenti; le virtualità realmente innovative tenute in serbo dalla libertà dell'uomo, i fatti fisici singolari (il sasso che in questo momento si stacca da un pendio del Vignemale),14 benché la loro apparente imprevedibilità risieda in un complesso determinismo le cui cause sono innumerevoli e gli effetti minuscoli, insomma le costanti delle grandi leggi fisiche su cui solo l'esperien­ za ci informa, questa costanza propriamente detta risiede in defini­ tiva nell'ordine generale della natura: - tali sono le tre forme del Poter-essere-altrimenti, tali le tre forme di latitudine o di gioco che i principi generali (come avrebbe detto Descartes) lasciano agli ef-� fetti di natura e ai fenomeni osservabili. Qui la possibilità, l'autoriz­ zazione negàtiva a essere altrimenti è conseguenza dell'eccessiva larghezza o ampiezza delle verità necessarie: è possibile tutto ciò che non è impossibile o, in questo caso, contraddittorio. L'aÀÀ.Oç metalogico è una possibilità eternamente possibile e mai attualizza­ ta, dunque platonica quanto l'Aliter leibniziano di cui lo "Styx" della necessità metafisica esclude per sempre l'esistenza effettiva. Alla domanda posta, è stato infatti risposto sì da tutta l'eternità, un sì all'essere e �•ordine dell'essere; e se l'empiria resta sottomessa 14 [Il Vignemale è una·montagna appartenente alla catena montuosa dei Pirenei,

NdTJ.

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alle fluttuazioni e vicissitudini del talora-talatra, l'Altro-ordine non sembra seriamente minacciato dai capricci del Totalmente-altro; è l'Altro a essere il vero - il vero e a maggior ragione il reale (perché il vero sarà a fortiori reale un giorno o l'altro), mentre l'Altro• dall'altro, cioè il Totalmente-altro, è piuttosto super-vero. La sovra­ condizione non rappresenta dunque, propriamente parlando, una "minaccia" per la condizione; ma non per questo è una clausola di stile o una forma di cortesia; e coloro che non vedono una via di mezzo tra le due misconoscono allo stesso modo la gratuità della presa di coscienza metafisica. La condizione a priori non è questa o quella condizione ipotetica all'interno di una relazione sintetica e naturale, bensì condizione analitica sine qua non; condizione gene­ rale senza cui qualsiasi pensiero è impossibile e tramite cui ogni pensiero è possibile ... ma solo possibile! Da una parte la condizio­ ne condiziona idealmente il pensiero senza porlo né determinarlo effettivamente a pensare; la condizione del pensiero non determina che un pensiero debba pensare qui o là, questo o quello, da qualche parte e in quel determinato istante, di fatto e in atto. Non è il suo compito. Compito della condizione è regolare il pensiero, nella pre­ supposizione che un pensiero qualsiasi non debba mai pensare in questo mondo; essa governerebbe il pensiero in ogni caso, anche se nessun essere pensante esistesse, anche se non ci fosse nessun pen­ siero di nessun vivente nell'universo: la condizione è dunque in se stessa condizionale e immanente, e negativa piuttosto che positiva; è condizione pigra [condition paresseuse], àpyòc; CX.PXTJ, perché inef­ ficiente e formale. Inefficace, ma non certo ineffettiva. Questa for­ malità non è senza contenuto, né questa relatività senza verità è as­ soluta e categorica. Diciamo che è più che altro un sogno lucido ... Non si tratta degli imperativi ipotetici di una qualche tecnica, si tratta della logica e di una necessità che presto o tardi si impone allo spirito nella più irrecusabile delle esperienze. La condizione, pur non essendo sufficiente, non per questo è meno reale! Una condi­ zione che investe la ragione in questa perfetta pienezza di necessità non potrebbe avere altra fonte che l'inconcepibile sovraverità. La sovraverità può ciò che era impossibile alla "condizione pigra"; è inconcepibile perché conferisce l'inconcepibile effettività, è invece sufficiente e posizionale per questo: essa conferisce, a ciò che meta­ logicamente (ma non logicamente o metempiricamente) potrebbe 130

essere totalmente-altro, il fatto di essere cosi� ossia il fatto di essere tale piuttosto che altrimenti, fatto immemoriale per cui l'Altrimenti è da tutta l'eternità escluso e la compatta necessità per sempre in­ stallata come eterno già-qui e Va-da-sé ingenerato. Questo total­ mente-altro, di cui già avevamo compreso che non è "un ordine" ma l'impalpabile, irrappresentabile possibilità per l'Ordine metem­ pirico di essere altro da com'è - ossia: altro da ciò che è già altro­ dalla-empiria - questo totalmente-altro non è, dietro il muro dell' es­ senzialità, un muro di sovressenzialità ancora più alto. E in generale è importante respingere dalle parole sovressenzialità, sovraverità e sovracondizione ogni idea puerilmente "empiriomorfica" di rinca­ ro, surclassamen:to o record. La condizione, a questo proposito, è sicuramente l'istanza suprema. Il suo compito di condizione è con­ dizionare l'empiria inconsistente e deludente. Ora, da quale altra necessità questa necessità potrebbe essere a sua volta condizionata? Non certo da una nuova regola ancor più necessaria della prima quest'altra regola sarebbe la necessità dell'empiria, e non abbando­ neremmo l'ordine metempirico ... Non è forse a causa della fatalità di ogni inflazionismo che questa impotenza deve compiere una vol­ ta per tutte il "passaggio ad altro genere"? ma ciò che non è né condizione della condizione né a priori dell'a priori, non può essere un capriccio empirico ... Senza dubbio questo non-so-che non so­ miglia a niente! Se l'empiria intermittente esiste pur senza consiste­ re né sussistere, e se la metempiria essenziale consiste e insiste pur senza esistere, potremmo dire che è il metalogico a far esistere la� consistenza inesistente dell'essenzialità, proprio come il metempiri­ co è la consistenza stessa dell'esistenza inconsistente; non è che la metempiria/accia sussistere o consistere alcunché, nel senso creato­ re del verbo ausiliare "Fare", essendo l'essenza, per l'appunto, eter­ na preesistenza inesistente dell'esistenza, e ancora e sempre preesi­ stenza all'infinito, Già-qui increato, intemporale, compiuto, senza inizio né fine; il Fare non ha senso che rispetto all'Esistere, il quale, essendo emergenza e insorgenza, rimanda presto o tardi all'iniziati­ va di partenza. Ahimè! l'alternativa tra essenza ed esistenza è così perfettamente disgiuntiva, così ben organizzata per tenerci lontani della sovraverità, è così simile, in poche parole, alla morte, la cui traversata è irreversibile, che la creatura è legittimata a credersi vit­ tima di un complotto: non ci si eleva dall'empiria alla metempiria 131

che tramite un disinteresse improvviso e globale circa le domande Dove? e Quando?... Per intravedere un al di là non si dovrebbe concepire l'essenza nell'esistenza (l'esistenza è forzatura, e l'ouszà non può che farne astrazione), ma captare l'esistenza radicale dell'essenza (il che è possibile solo nel Quasi-niente dell'istante in­ tuitivo). Il Totalmente-altro, che fa esistere l'essenza sussistente, non esiste ... né a fortiori sussiste. Alla lettera: ciò che conferisce l'esistenza non esiste; perché se ciò che conferisce l'esistenza esistes­ se a sua volta, a sua volta supporrebbe un altro latore di esistenza. Ora, il latore di esistenza fa esistere al contempo l'essenza, l'essere­ in-generale e gli esseri empirici contingenti; è dunque tanto inesi-. stente quanto inconsistente e insussistente. L'inesistente latore di esistenza non avrebbe per caso la natura di una decisione?

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CAPITOLO VI La via negativa

I. - Positività antica e positività tetica La creatura è esclusa dall'Assoluto, lo schermo della necessità seconda si frappone tra le piccole fioriture dell'empiria terziaria con le sue apparizioni e le sue eclissi e la grande improvvisazione metalogica dell'Al-di-là ... Questa necessità, implacabilmente coe­ stensiva al nostro essere e coessenziale al nostro pensiero, ci preclu­ de il cielo della sovressenza senza residui, latitudini o margini di possibilità; come impossibilità di poter-essere-altrimenti, somiglia alla membrana impermeabile della morte, il cui ingresso è solo a senso unico. Di questo totalmente-altro inesistente e inessenziale, sovressenziale e doppiamente sovresistente, da cui il coperchio del­ la finitezza ci esclude con tanta cura, non possiamo che prendere, nel minimo-essere dell'istante, una coscienza a sua volta quasi ine­ sistente, cioè trans-discorsiva e intuitiva: questa gnosi-lampo è l'u­ nica scienza positiva della sovraverità cui ci sia dato pretendere; un sapere discorsivo e cronico della sovraverità è contraddittorio e, perciò, un sapere fondato sulla memoria e sulla continuazione dell'intervallo si condanna alla negatività. Ecco il chiasmo ironico, l'alternativa che costituisce il paradosso della filosofia prima: la su­ prema positività, essendo meramente posizionale, non può dar luo­ go che a una filosofia negativa; e se la intravediamo nell'istante, questa rivelazione è certamente positiva, ma può ancora dirsi una "filosofia"? Viceversa, la filosofia positiva volgare, quella che affer­ ma, attribuisce, si dispiega nella continuazione, non raggiunge che la negatività dell'essente: in questo modo la positività non è mai 133

data contemporaneamente nell'oggetto conosciuto e nell'atto dico­ noscere, nell'atto come affermazione e nell'oggetto come posizione di esistenza ... salvo quando si tratta della miracolosa coincidenza delle due positività nel nucleo puntiforme dell'intuizione. Così l'in­ tuizione non è niente! Così questa "scintilla" è istante e non essen­ te! A prescindere da questo quasi-nihil evanescente, l'oggetto è positivo quando la scienza è negativa; e quando la scienza si crede positiva, negativo ne è l'oggetto. Il fatto è che si danno due positi­ vità distinte, inversamente proporzionali: positività antica e negati­ vità meontica, positività tetica e negatività ipotetica; la prima offre, tramite lo spessore e il volume ontici, mille appigli ali'asserzione e alla predicazione, e tuttavia va considerata come posizione minima o participio-passato-passivo dell'atto posizionale, ossia "res posi­ ta"; la positività "tetica", invece, essendo un nulla di essere, rifiuta ogni attribuzione, ogni KCX.1:rtyopia o enunciato categorico, ma per contro è posizione condotta al massimo grado di densità. La positi­ vità ontica, essendo negatività tetica o ipotesi, è positività non della posizione, ma della cosa posta: senza dubbio è questa la positività del positivismo e degli spiriti forti che definiamo spiriti positivi per­ ché non credono che a ciò che toccano o calcolano. Ecco infatti i due modi della positività ontica come tale: l'Esse descrivibile e rac­ contabile della continuazione empirica e l'Essentia di questo Esse, che è l'eterna quiddità della continuità metempirica. La filosofia dell'empiria è affermativa in primo luogo perché ha per oggetto il dato ovvio dell'evidenza percettiva immediata - benché in realtà sia terza, è letteralmente la prima per noi (rrpòç 11µ&ç); qui la pluralità di immagini fa volume; qui c'è molto da percepire, molto da com­ parare! Ma d'altro canto questa filosofia positiva è doppiamente negativa, in primo luogo perché lo spessore ontico dell'empiria è in realtà inessenziale e fantasmagorico, e poi perché questa inconsi­ stenza guadagna consistenza soltanto nelle relazioni essenziali che la condizionano, ma che metalogicamente sono infondate. Tutto ciò che nell'empiria è positivo è necessariamente finito, naturale, partitivo, anello di congiunzione nell'intervallo: al contempo feno­ meno relativo ad altri fenomeni e momento di una continuazione da un prius a un posterius; episodio che rinvia ad altri episodi! E come ogni esistenza individuale si afferma al prezzo delle moltepli­ ci rinunce che la circoscrivono, nel tempo e nello spazio, allo stesso 134

modo la positività posta si staglia su un fondo di negazioni privative che sono l'impurità congenita e il riscatto di ogni qui-questo-così, di ogni participio-passato-passivo; l'affermazione, infine, esclude da sé tacitamente un mondo di possibili innumerevoli il cui rifiuto la rinchiude nella scelta assertiva. L'obbligo, per chi vuol essere qualcosa o qualcuno, di non essere più tutto, dappertutto e sempre, il sacrificio dell'ubiquità e dell'eternità, la necessità della colloca­ zione spazio-storico-individuale sono fatalità dell'esistenza costitu­ ita non appena quest'ultima è colta a prescindere dalla pura gene­ rosità efferente e costituente, dopo il principio di identità o di im­ penetrabilità "iam decretum": è questo principio che, rigettando l'altro fuori dallo stesso, impedisce alle esistenze di ostacolarsi tra­ mite la loro coesistenza nello stesso tempo in cui le obbliga a defi­ nirsi "altera extra alteram" attraverso la loro ecceità retroattiva. Non è la caduta del Ciascuno fuori dal Tutto in tutto che dobbiamo chiamare Alternativa? - Quanto alla filosofia seconda, essa è posi­ tiva per la pensabilità infinita di un dato noetico in cui tutto è rela­ zionabile a tutto, in cui tutto è attribuibile a tutto, e in cui lo stesso determinismo offre alla ragione, organo della messa in relazione, una problematica inesauribilmente complessa e incessantemente rinnovata; nel plurale innumerevole delle significazioni che costitu­ iscono la metempiria, è possibile pensare e relazionare all'infinito, poiché tutto ciò che è oggetto di conoscenza a livello del logos è, allo stesso tempo, un Più. Ma se pensare è relazionare senza mai appoggiarsi a un soggetto-sostantivo né conoscere in sé la sostanza, , se la necessità stessa di pensare o (in altri termini) l'impossibilità di pensare altrimenti sono indifferenti a qualsiasi contenuto concreto, si dovrà ammettere che la positività pensabile, che è la più ricca di tutte, possiede qualcosa di ipotetico e di formale. La relazione resta la stessa, che esistano o meno i correlati. Questo pudore relazioni­ sta che rinuncia a decifrare il soggetto stesso, in sé, e ci trattiene al di qua dell'"inseità", questa inibizione (btcx,tj) che frena lo slitta­ mento del giudizio ipotetico verso l'affermazione categorica, questa difesa fatta all'tcri:tv copulativo e enclitico della predicazione di ri­ vestire l'accento dell'Ecr'ttv assoluto e di assorbire l'attributo all'in­ terno del verbo-, tutto questo rivela chiaramente la negatività del­ la positività seconda. Ciò che è condizione della conoscibilità delle essenze, dunque, è ipso facto un ostacolo alla conoscenza dell'In-sé; 135

o viceversa: l'impedimento di pensare la sostanza "in sé" o assolu­ tamente è il mezzo per pensarla "in altro", cioè relativamente; è l'inconoscibile a essere paradossalmente, ironicamente, la condi­ zione del conoscere! Ciò che passa la relaziòne ci sorpassa; e l'irre­ lativo, per parte sua, è alla lettera l'impensabile, poiché si presta soltanto a "tautologie". Ora, per cortesia, come potrebbe darsi un logos del -cau-c6v? Come potrebbe il logos non essere "eterologi­ co"? Il logos logico che relaziona, e il logismo logistico che relazio­ na le relazioni e stabilisce relazioni di relazioni o "analogie" sono dunque come una passeggiata da altro ad altro, da altrove ad altro­ ve, da epiteto a epiteto, un ricorrere infinito che non tocca mai terra senza mai interessarsi a una figura o posarsi da qualchè parte. L'intellezione essenziale, ricreazione di una relazione razionale tra­ mite questa relazione relazionante, intellettiva e intelligente che è il pensiero, tende quindi asintoticamente verso l'intellezione sostan­ ziale come verso il suo limite inattingibile: organizzata per rendere trasparente la sussistenza eterna delle verità, è intellettiva solo gra­ zie alla rinuncia di cogliere abs relationibus e in se stesso questo puro Se stesso, questo Soggetto assoluto che solo l'intuizione coglie nel lampo dell'istante. La filosofia terza e la filosofia seconda sono perciò, nel senso schellinghiano del termine, filosofie negative: l'una perché ha per oggetto la continuità infondata, l'altra perché il suo dato è la conti­ nuità infinita, che è al contempo fondamentale e infondata - fonda­ mentale perché la continuità è il "fondamento" logico-matematico della continuazione, infondata perché la condizione condizionante dell'empiria stessa appare come condizione condizionata e prin­ cipio ipotetico, fondamento inconsistente, fondamento senza base e senza supporto, fondamento senza fondamento, non appena si prende coscienza della sua nuda effettività. È senza dubbio nell'i­ stantaneità fondatrice che si dovrebbe ricercare la positività supre­ ma, quella che non è nemmeno più "fondamento" ma pura "fon­ dazione" o atto di fondare, che non è né fondata né infondata né fondamentale, che è in qualche modo, come il motore puramente movente di Aristotele, scevra da ogni mescolanza di participio­ passato-passivo. Ora, se il fondamento è senza fondamento, e di conseguenza insufficiente e deficitante, come un principio la cui legittimità e valore non fossero giustificati di diritto, la fondazione, 136

invece, è più che altro senza fondo; l'atto di fondare è letteralmente insondabile, e il termine di Bohme, "Ungrund", che significa non­ fondamento, ne è senza dubbio la sola definizione. E come la fi­ losofia terza è terza in sé e prima per me e la filosofia seconda è seconda al contempo in sé e per me, così la filosofia prima è per me addirittura terza, quando non è totalmente inesistente; per la gran parte degli uomini, si può anche dire che l'ora della filosofia prima non suona mai; è il pointillé pudico della religione, è la zona dell'i­ nimmaginabile-impensabile sulla cui soglia il racconto e il logos si bloccano come un romanzo ai limiti dell'inenarrabile. - C'è dun­ que, al di là della positività infondata come al di là della positività fondamentale, una positività fondatrice che si oppone alle prime due come l'attivo al passivo o l'atto creatore alla creatura: la crea­ tura è positiva perché è esistenza in più, opera procreata e durevole progenie; ma è negativa perché è determinazione, restrizione e in­ debolimento della vitalità [verve] creatrice, e perché la produzione si impoverisce sempre nel suo prodotto, l"'operatio" nell'"opus". Tutto al contrario, la creazione è negativa in quanto non-essenza e in quanto non-essere: non ammette sussistenza, continuità o sem­ piternità noetiche, non occupa volume nello spazio; ma è positiva soprattutto in quanto ispirazione infinita e atto inesistente di "esi­ stentificare" [existenti/ier] 1 prima di qualsiasi limitazione o cana­ lizzazione dei suoi possibili. Ora, non è non-essenza come l'essere empirico inessenziale, né non-essente come l'essenza metempirica, inesistente: è piuttosto sovressenza e doppiamente sovresistenza, più che essenza e, a fortiori, al di là dell'al di là dell'esistenza. La positività fondamentale, positività indolente e relativamente infon­ data, è negativa in primo luogo perché condiziona senza porre, poi perché dopo tutto anch'essa è qui e la sua necessità è un fatto. Solo la positività fondatrice, assolutamente scevra da ogni fatto compiu­ to, sarebbe alla lettera "anipotetica", o più semplicemente tetica. La positività costituente della tesi è realmente positività assoluta, e la sua stessa negatività è una positività in più, poiché si riduce a negare la cosa posta, che è essa stessa negativa; per l'uomo dell'em­ piria, è vero, l'istante è negazione dell'intervallo, il quale non è che 1

Neologismo di Leibniz, apud Couturat, op. cit., p. 534.

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positività volgare, crassa, massiccia e palpabile: ma da un punto di vista metafisico, al contrario, è l'intervallo a essere allentamento e stemperamento dell'istante, o almeno di ciò che la creatura, votata a una continuazione laboriosamente condott�, intravede solo come istante. La conversione dell'empirico e del metempirico al metalo­ gico è dunque anche un'inversione del positivo e del negativo, un capovolgimento del Più e del Meno. Se la positività tetica che fa sussistere l'essenza ed essere l'essente, ma per se stessa non sussiste né esiste, è una positività positiva, la positività ipotetica dell'essenza come semplice verità dell'ens è una positività negativa, mentre la positività doppiamente ipotetica dell'essere è una positività dop­ piamente negativa. Distingueremo quindi una positività tetièa, che è anche meontica, o meglio iperontica, e che dice sì all'universo dell'essenza e al mondo dell'esse affinché il mondo-universo dell' es­ se essenziale sia posto una volta per tutte, una positività essenziale che è anche negatività semplicemente ipotetica, e una positività ontica che è anche negatività doppiamente ipotetica. Non sarebbe più semplice riconoscere in questa gerarchia l'eterna processione dell'Atto, del Pensiero e dell'Essere?

II. - Ironia del!'organo-ostacolo Profonda ironia del chiasmo! Niente si può dire dell'Atto che è azzeramento dell'essere e tutto dell'Essere che è azzeramento dell'Atto. Più l'essere è inconsistente, inessenziale, fantasmatico, più si presta a chiacchere e a racconti. E ancora: più l'intervallo vissuto è a fior di destino, più è ricco di passatempi e di possibilità combinatorie, tanto più si presta alle occupazioni e agli affari - e non a quel "fare" (notEÌV) che è poetico, ispirato e fondatore, ma ad "affari" che sono traffici, intrighi e maneggi della continuazio­ ne. Per questo Pascal prescriveva il divertimento [divertissement] quale rimedio per distogliere l'io dal pensiero del proprio desti­ no ... in cui del resto non c'è niente da pensare. Il discorso più verboso è quello che avrebbe per oggetto gli affari della Caverna, le ombre della caverna, le ombre di queste ombre, le immagini di queste ombre, i fantasmi di queste immagini. Ben altrimen­ ti concise sono le scienze consacrate alle relazioni di grandezza, 138

come ben altra sobrietà dimostra il logos non più narrativo ma dialettico, che tratta delle verità essenziali e delle loro relazioni. Ma al di là dell'essenza, la dimostrazione more geometrico si rivela ancora troppo prolissa: qui il silenzio è d'obbligo ... il silenzio o l'allegoria mitologica; anche l'intuizione, in un simile mutismo, è una sorta di lacerazione istantanea e una discorsione [discursion] condensata fino alla condizione di minimo-essere, un logos mu­ tato in scintilla. Sulla pura e sovrana positività del suo atto posi­ zionale, l'iperdialettica non ha più niente da dire: l'atto è positivo non perché in esso vi sia molto da pensare e su di esso molto da dire, ma semplicemente perché pone, perché è, giustamente, quell'impensabile che è la posizione; se l'essere inattivo è ricco di polimorfismo e proliferazione ontici, se il pensiero inattivo è ricco di innumerevoli significazioni e profondità, l'atto al con­ tempo impensabile e inesistente è ricco unicamente della propria generosità; la posizione senza essere (detto altrimenti, senza ne­ gazione) e il dono senza avere (né secondi fini) sono due forme di una stessa grazia creatrice che è insieme infinitamente povera e denudata - poiché priva di esistenza e di valore - e infinitamente ricca - poiché donatrice di valore e di esistenza per tutto ciò che è. Eros, ovvero il desiderio umano, non riflette nella vita della creatura un'immagine di quest'inavvicinabile, inesauribile profu­ sione che è anche effusione priva di essere e di avere? Contraria­ mente a ogni avarizia proprietaria, e nel totale spossessamento di sé, il dinamismo erotico tende all'efferenza caritatevole come··· al proprio limite. Là dove cessano i racconti, gli inventari e i re­ pertori, l'intuizione puntuale trova una ragion d'essere. Il logos, altrettanto largo alla base del plurale brulicante, germinante, mul­ ticolore e multiforme dei singoli fatti, si affila al suo vertice fino a non essere più che un acumen, una sottile punta confusa con un punto. Due punti che coincidono non sono più che un solo pun­ to. Lo spirito puntualizzato nell'istante e il mistero tetico puntua­ lizzato nel fiat non sono più che un solo e medesimo istante. E di conseguenza chi ci promette una filosofia positiva della pura positività è un ciarlatano, dato che la gnosi angelica dell'Actus pu­ rissimus è, per la creatura, contraddittoria quanto il mostro di un istante continuo o di un intervallo istantaneo. Positività pura non significa forse impossibilità di conoscere, l'oggetto e il soggetto 139

confusi in un medesimo Quasi-niente, pura fiamma del fulmine dell'intuizione che arroventa e incenerisce lo spirito? Si dirà che il pensiero non può pensare alle temperature insopportabili di questo Sì incandescente senza mescolanza 'di No! La conoscenza positiva è possibile solo attraverso la commistione del positivo e del negativo, l'ostacolo che la impedisce è cioè lo strumento della sua stessa possibilità. Questo paradosso ironico del Malgrado che è, non accidentalmente ma in quanto Malgrado, un Perché, costi­ tuisce il mistero dei rapporti tra anima e corpo; perché se l'organo scoprisse in se stesso l'intralcio dell'ostacolo, sarebbe ancora più vero dire: è la resistenza dell'ostacolo, ed è la limitazione attraver­ so l'ostacolo a essere l'organo - organo, cioè mezzo per percepire, esprimersi ed esistere individualmente. L'organo-ostacolo è puro ostacolo solo per le coscienze adialettiche, mentre riscopre tutta la sua feconda complessità per la volontà concessiva e conseguente dei mezzi. Si danno due semplicismi inversi, l'uno è il purismo del Quamvis, e tratta il corpo come semplice schermo o impedimento dispensabile per l'anima catara, l'altro è il purismo del Quoniam, e crede possibile una lettura ingenua e diretta dell'anima nei segni sensibili: entrambi ignorano il tragico della contraddizione e della complessità dialettica, e misconoscono il chiasmo che è la legge dell'essere impuro, entrambi ingannati dall'ironia metafisica e dal malinteso che intrattengono intorno all'apparenza equivoca. Si dirà che l'organo-ostacolo è un caso particolare della mediazione, ma a condizione di scartare ogni pretesa di ottimismo teleologico e agogica: l'ostacolo non è antitesi destinata a risolversi in sintesi conciliante, ma è impiantata in un complesso stazionario in cui i contraddittori rinviano eternamente l'uno all'altro. Dunque il corpo è nello spazio ciò che il tempo è nella successione. L'au­ tentico organo-ostacolo della metempiria non è la mediazione, sospensione provvisoria e temporanea della fine, ma la relazione stessa, mescolanza indissociabile di essere e non-essere. Il Sofista non sbagliava allorché, invocando l'essere relativo del non-essere, pretendeva di salvare il principio vitale dell'alterità e con esso la predicazione in generale. Certo, la positività dell'attribuzione ha come "riscatto" l'ignoranza del Soggetto puro, irrelativo, impre­ dicabile, al di là di ogni aggettivo: ma sarebbe ancora più giusto dire che è l'inconoscibilità dell'inconoscibile, portato necessario 140

della nostra finitudine, a essere la condizione dell'attribuzione. Così si può ben dire, con N ovalis,2 che il pensabile è sospeso all'impensabile ... L'esistente è perché non è che colui o ciò che è: questa legge del "qualcosa" e del "qualcuno" è altrettanto valida per l'affermazione che innumerevoli negazioni virtuali restringo­ no e determinano nella sua univocità. La positività senza mesco­ lanza di Non non può dunque essere una relazione. La positivi­ tà puramente positiva pone la relazione, e la relazione posta o fondata enuncia - questo il senso di KCX:tnyopEtV - tali o tal'altri "quatenus" dell'atto posizionale: ma la posizione stessa non può essere affermata dalla relazione.

III. - Tutti gli epiteti salvo uno? L'atto tetico è positività pura, eppure ( o proprio per questo) non lo si raggiunge che per via negativa; o piuttosto, solo l'intuizione vi "attinge", e di conseguenza è positiva quanto l'atto stesso: ma questa coincidenza di due positività non avviene, ricordiamolo, che nell'istantaneità della tangenza; il "toccare" di cui parlano i mistici3 - 8i.ç1c; Km olov arca.cl>ìl ( ...) èx.PP'tl'toc; K6E 'tt), un'ispirazione, incu­ bazione o improvvisazione eterna che ne è l'inafferrabile positività. Dobbiamo essere ispirati per comprendere questa ispirazione. L'in­ tuizione non è forse un'ispirata?

V. - Un )antitesi dialettica? L'atto senza forma, che non è né una forma epitetica privilegiata tra le altre né la sintesi confusa di tutte le forme, non si deduce nep­ pure, come nel momento "tollens ponens" dell'antitesi, a partire dalle soppressioni dialetticamente o mediaJamente positive. Se vi fosse una vera processione ontogonica e storica dall'Uno (1tpoo6oc;), potrebbe esserci anche una vera dialettica: è il caso delle interpre­ tazioni semplicistiche dell'emanatismo che fanno della conversio­ ne una processione rovesciata; colui che ascende procederebbe in ·· qualche modo sulle tracce di Dio, o in altri termini il movimento religioso della dialettica percorrerebbe a ritroso le tappe del pro­ cesso esplicativo dell'emanazione: quanto è principio (à.PX,T)) per il secondo, è terminè ('té.À.oc;) per il primo. Molte filosofie ottimiste presuppongono questa simmetria speculare; questo parallelismo di una cosmogenesi e di una scala dialettica reciprocamente coe­ stensive. In realtà, non vi è coestensività per la semplice ragione che né la conversione né la creazione hànno alcuna continuazione estensiva. La settimana cosmogonica è indubbiamente una meta­ fora, e la stessa processione un mito temporale sull'istantaneo; di conseguenza, l'eptameron alla rovescia del ritorno ali'Assoluto è la metafora di una metafora. La conversione non è raccontabile più della demiurgia cui si presume corrisponda. La posizione si contrae 147

in un punto, e in questo punto coincide con la conversione. Questo punto è l'istante. Questa "focalizzazione", o meglio quest'identi­ tà di posizione e di conversione, altro non è che l'intuizione. Porre l'Essere, ossia Fare, convertendosi al Far-èssere; essere unitivamen­ te questo Far-essere ponendo con esso: tale è l'intuizione, che è in divisione dell'evento patico e del decreto tetico. Due punti so­ vrapposti non sono forse un punto? due istanti simultanei non sono un unico istante e uno stesso Quasi-nulla? Non vi è coestensività di intervalli, vi è coincidenza di istanti. La doppia narrazione si con­ trae, al limite, in una narrazione infinitesimale che è finita appena cominciata e che è piuttosto evento repentino: evento infinitamen­ te semplice in cui l'alfa e l'omega coincidono e in cui il termine è immediatamente principio ... L'iniziazione dei misteri (1:cÀctcr0at) non designava al contempo l'adempimento e l'intronizzazione, l'in­ troibo che è adempimento? Si può ben dire che l'iniziato, in questo genere di cose, comincia dalla fine! Colui che, come afferma Cri­ sostomo, non si può neppure cercare, è forse ... chi lo sa? perché lo si era già trovato: - trovato e subito perduto; perduto nel lampo della scoperta, ritrovato - ma il lampo d'un istante - nella dispe­ razione di perdere ... In ogni caso questa scoperta morta-nata è la negazione di un Eureka definitivo e di un possesso in atto! Delu­ dente scoperta, insomma, che è perdita continua e che tuttavia non impedisce che questo mistero al contempo iniziale e fmale sia più trovabile che cercabile! Il cercatore, in ogni caso, finge di cercare, e la filosofia apofatica è ancor meno zetetica che euristica. Chi, come dice Bergson, rosicchia o rode un problema pezzo a pezzo, una volta al termine può illudersi di possederne la soluzione a titolo di proprietà permanente o di bene ordinario: ma chi raggiunge al primo colpo e in una sola volta il mistero, nello stesso tempo se l'è lasciato sfuggire; perché non vi è mistero se non intravisto nell'atto di perderlo, non vi è mistero se non scomparso e ritirato nella scin­ tilla dell'intravisione. Ogni altro regime di ricerca o di scoperta è impostura o fandonia. "Alle welche dich suchen, versuchen dich, Und die so dich finden, binden dich" .8 Da qui il carattere curio8

[R.M. RILKE, Das Buch von der Pilgerscha/t (1901): "Tutti coloro che ti cercano ti tentano, e coloro che ti trovano ti legano", NdTI.

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samente stazionario delle interminabili litanie apofatiche: queste cumulazioni non ci fanno fare un solo passo avanti; le negazioni successive non ci avvicinano alla meta più di quanto i versetti di un salmo sviluppino un pensiero per via di ragionamento; qui non si sente, come nella Repubblica, la sintesi progressiva e l'esame ago­ gica a due o più voci (Eçé-cacnç, s'll't'l'!O"tç), lo spirito del dialogo, ma tutt'al più il brancolare di un'anima solitaria. Forse si dirà che la dialettica non ci dispensa da una repentinità terminale ... Tutta­ via, al di qua del salto (eçcitK èx:ya.Aµa oùS'àKcbv &ll'a.iYl:6" .3 In termini di causalità, infine, la ricerca dell'Autòs si confonde con quella della causa puramente causante, della causa stessa, della cau­ sa che non è più effetto di altro e che fa essere tutto l'essente. - Il soggetto non impuro ma puro, non relativo ma assoluto, respinge ogni enunciazione da sé [à son propre sujet]: a essere qui impossibi­ le è che il KCX.'t Am0Ka.À611; tanto è irresistibile la gravitazione che ci trascina dall'ipse ali' ipseitas e dal "lui stesso" al lui stesso o ali' autokalon professionale! Troppo spesso i dialettici alla ricerca del "lui stesso" somigliano ai tuffatori di cui parla Giovanni Crisostomo, 18 che si inabissano nella profondità del mare per trovarne il fondo: fendono l'apparenza nella speranza di assegnare al fondo una base [assise] fondamentale, 'lmoKei.µevov, fermo elemento nucleare dell'esse­ re, e, convinti di svalutare l'apparenza, favoriscono al contrario il fenomenismo, il percezionismo e l'impressionismo di coloro che, come Berekeley, denunciano il carattere fantasmatico del sostrato; si buttano alla ricerca dell'Autòs-limite e oltrepassano l'apparenza senza fermarsi, senza accorgersi che il mistero è già inerente alla superficialità come tale. Lui-stesso non è, propriamente parlando, profondo, ma piuttosto insondabile: questo "Ungrund" perciò è anche epidermico. L'essenza, da questo punto di vista, non è "lui stesso" più di quanto lo sia la schiuma inconsistente e iridata delle qualità secondarie e degli epiteti. Se l'Autòs è una cosa, l'illusioni­ smo ha ragione: è l'inevitabile delusione del dogmatismo. Il dialet­ tico somiglia al visitatore che ha chiesto un'udienza per vedere il re stesso, e non il suo primo ministro, non il suo aiutante di campo, non il suo capo di gabinetto o il suo primo ciambellano ... : no, è Sua Maestà in persona che egli reclama. Ora, nel nostro caso si tratta di una Maestà delle maestà che nessuno ha mai visto, mai vedrà né può vedere; il concetto che vi presentiamo, malgrado la corona e lo scet- ., tro, non è che un ridicolo manichino e una rutilante panoplia com­ pletamente vuota; ·"nessuno ha mai visto Dio" ,19 dice Giovanni, così come Geova aveva detto: "Nessun uomo potrà vedere il mio volto e continuare a vivere". Siamo nella situazione dell'iniziato che, al termine di una lunga serie di visioni sempre più esoteriche, 18 Ilepì a.tca:i:aidpt'tO\l, 721 b-c. 19 0i;òv oùoeìc; ec:bpa.tcev 10C01t0'te: I, 18. Cfr. VI, 46. I Ep. Giovanni, IV, 12: 0i;òv ou&ìc; 1tcbn:O'te 'te8ta.'ta.1 [nessuno mai ha visto Dio]. I. Tim., VI, 16: òv et8ev oùoeìc; 6.v8pc.òmov oi>6è '16etv 6ùva.'ta.t. Esodo, XXXIII, 20. Deut., IV, 12 (où 6vvito'11 ioe'ìv 'tè> n;p6cr�v µov. Où yò.p µti 1611 dv8p(l)1toc; 'tÒ 1tp6aom6v µO\l, tca.ì t1Jo-e'ta.t [Non potrai vedere il mio volto. Voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura]). Corpus hermeticum (ed. Budé, 1945), Trattato V.

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scopre un santuario vuoto. Nessuno dietro la tenda, niente nella cella! Il mistero era mistificazione. In materia di Autòs, il sancta sanctorum riserva alla nostra estasi un posto vuoto o un buco nero. Questo zero di realtà è decisamente la rivelazione suprema di una dialettica di approfondimento ... Fintanto che si cerca il lui-stesso non lo si ha ancora, altrimenti non lo si cercherebbe; e quando lo si è trovato non lo si ha più, perché propriamente parlando non è "trovabile", perché non è un essere che se ne starebbe nascosto da qualche parte, né qualcosa di solido che si potrebbe individuare o circoscrivere poco a poco; si è perduto, insomma, ciò che non era mai stato trovato! O piuttosto, no! lo si è perduto trovandolo; si è tornati a perderlo non dopo averlo trovato, ma· immediatamente, seduta stante e in tronco. Tra trovarlo e perderlo non c'è dunque intervallo cronico, poiché sono entrambi uniti - ma soltanto un istante: perché dall'uno all'altro accade qualcosa, evento, modula­ zione e mutazione. Discontinuità continua o continuità interrotta, l'istante è il cardine sul quale trovare e perdere si articolano imme­ diatamente. Questo limite senza spessore del trovare-perdere, in cui entrambi coincidono in un lampo, è il taglio liminale e minimale richiesto affinché il "fiat" si produca. Ciò che si può cercare meto­ dicamente, e che si finisce poco a poco per conquistare, può anche essere conservato durevolmente;. al contrario, ciò che si incontra in un sol colpo, per illuminazione repentina, si torna a perderlo in un sol colpo e all'istante senza poterlo perennizzare, stabilizza­ re o capitalizzare. Così si passa senza transizione dal Nondum allo Iam-non, e tuttavia in un punto quasi inesistente il non-ancora è già non-più e il non-più non è ancora: questa soglia impercettibile, questo Kairòs inafferrabile è l'intuizione, di cui abbiamo mostrato come designi la sottile punta della contemporaneità, l'acumen del presente flagrante e opportuno, l'Occasione semelfattiva. L'Autòs, invece, è ciò che non si ha mai: prima, perché è troppo presto; dopo, perché chi crede di averlo in pugno non ha nulla e non ha, del resto, niente da avere. In tal modo il Lui-stesso sfugge, per defi­ nizione, a qualsiasi "habitus", sia esso maniera di essere o maniera di possedere. Non appena crediamo nella sua presenza, una voce già ci mormora: non è lui; non è ancora questo, non è più quello; è altra cosa! come sempre ad altra cosa, secondo l'Aristofane del Simposio, aspirano gli amanti. Questo Lui-stesso evasivo, dilavato 170

e sfocato, non è niente, fosse pure identico a sé: è ipse, proprio lui e in persona, non è idem, cosa identica a sé; è l'ineffabile, l'inaffer­ rabile Ipse ipsi'ssimus che elude [deyoue] infinitamente la dialettica di approfondimento.

III. -L'ipseità personale e l'Ipse ipsissimus Tuttavia, se una filosofia metempirica della tautologia, che tra­ spone nell'assoluto le normali relazioni dell "' allologia", non è che un'allegoria e un'analogia metaforica, la filosofia metalogica della tautegoria è possibile, poiché è intuizione istantanea dell'ipse. La positività istantanea della tautegoria costituirebbe il "limite" delle allegorie negative, aggettive e loquaci; il punto-Autòs ne è la mira [sa vzsée]. Nell'estensione essenziale della quiddità come nella pro­ fondità comprensiva, diritta e concreta dell'ecceità, l'ipseità designa un punto all'infinito, che è il punto-nihil o quasi-nihil a partire dal quale ecceità e quiddità coincidono: in questo punto impalpabile e fugace in cui il soggetto sarebbe per davvero "lui stesso", la quid­ dità è pienamente individuata come una persona e l' ecceità è gene­ rica come un'essenza. Certo, la quiddità si definisce, o piuttosto si classifica, per genere e differenza specifica: ma la quiddità "stessa" è indefinibile; l'ipseità della quiddità deborda da ogni predicazio­ ne singolare; il quid di qualsiasi aliquùl resta infinitamente al di là dell'inerenza partitiva espressa dall'unilateralità della copula "è". -­ Per esempio, cos'è l'Uomo essenzialmente? La nozione di uomo è il soggetto di innumerevoli definizioni parziali, ossia riceve un'infi­ nità di attributi virtuali di cui ciascuno, considerato parzialmente, si rivela frammentario e insufficiente; o, viceversa: un'infinità di epiteti circostanziali e di aggettivi periferici possono divenire attri­ buti del soggetto se li si relaziona al soggetto con una copula; ma il soggetto stesso è in se stesso sempre altro e sempre oltre, eppure l'essenza ('t't ÈO''ttV) del soggetto, che è tutti i predicati e che pos­ siede tutte le maniere di essere, è in se stessa un mistero. Se defi­ nire è semplicemente classificare, l'essenza si lascia definire finché serve a definire le esistenze: ma ciò che l'ipseità dell'essenza è in se stessa, noi non possiamo più dirlo; e di conseguenza il fatto stesso dell'essenza non è più definibile, sussumibile o attribuibile. Non si 171

può far altro che comparare l'unico soggetto di certi predicati ad altri soggetti non meno unici per suggerire allusivamente, tramite analogia e metafora, l'idea concreta di questo soggetto, così come si compara l'indefinibile colore rosso ad altre qualità tattili, uditive o olfattive, tutte altrettanto indefinibili, facendo leva sulla corrispon­ denza delle sensazioni. Oltre a queste approssimazioni poetiche, il solo modo discorsivo per suggerire al pensiero l'Al di là (Epèk.eina) e l'indefinibile sarebbe la definizione circolare in cui il soggetto si relaziona a se stesso rispondendo alla domanda "chi è questo?" con la domanda stessa. L'unicità della quiddità recupera dunque, all'altro estremo, quella dell'ecceità, che è realizzazione concreta e particolare di un inesprimibile in cui tutte le predicazioni virtuali si compenetrano e si incarnano fisicamente. La persona è, in carne e ossa, la vivente ipseità di questo hapax qualitativo. E qdesto è vero soprattutto di due persone privilegiate - non la terza, che è astratta e concettuale, ma delle prime due: perché ciò che fa sì che le mie esperienze mi appartengano e che io sia Io per me stesso, questo qualcosa non è sostanzialmente niente, o quasi niente, dato che tutto l'assegnabile e il palpabile nell'ego è alla terza persona, la quale è Egli, cosa e chiunque tra altri mille; e tuttavia l'inesplicabile evidenza dell'ipse si ricostituisce senza sosta nella volatilizzazione stessa che fa apparire l'inconsistenza dell'io-per-sé. E quanto al­ i"' altro" privilegiato di questo duo appassionato, è infinitamente più dei modi di relazione che intrattengo con lui, delle funzioni che svolge, del genere cui appartiene, della cerchia in cui rientra, della confessione che professa: egli è Tu, ipseità d'amore o d'odio e oggetto di allocuzione immediata, mistero incomparabile, inimi­ tabile, insostituibile, impenetrabile dell'"instar mei". L'io, ponen­ dosi per amore, coraggio o intuizione della "parousìa", in presenza della presenza, riconosce nel suo prossimo immediato il fraterno compagno, colui che è come me, ma che, proprio per questo, non è me, che è al contempo io per sé e tu per me come io sono io per me stesso e tu per lui: in questa reciprocità o bilateralità dell'io e del tu non c'è forse già tutto il mistero translogico del Noi? Dunque l'ominità dell'uomo, in quanto fatto gratuito della quiddità umana, è un'ipseità, e pertanto un mistero; ma l'ecceità di Pietro, in quan­ to hapax e apparizione semelfattiva nell'universo e nella storia, è a sua volta l'inesprimibile per eccellenza: perché la diafora non più 172

specificante, ma individuante, che è al di là anche dell'ultima spe­ cie e che caratterizza quest'individuo come unico, la diafora, dico, più sottilmente differenziale, è per definizione anche indefinibile. Occorrerà dire della qualità quel che si è detto dell'uomo in gene­ rale: perché c'è un quale ineffabile e ogni qualità - quale che sia il cuore del coraggio o il volere della volizione - è l'ipseità provata [éprouvée] stessa; è così che la volontà si affila in volizione, la voli­ zione in volere e il volere in "fiat" istantaneo per uno spirito riso­ luto a intravedere, al limite, la "scintilla" della decisione puntuale. Ciò che è vero dell'ipseità del soggetto relativo è vero a maggior ragione del soggetto di tutti i soggetti, colui che, non rientrando più in alcuna relazione attributiva, va considerato come il soggetto as­ soluto o purissimo; colui che, in breve, è forse tempo di chiamare Dio. L'ipseità del soggetto relativo, dicevamo, è infinitamente al di là della somma dei predicati che si possono enunciare su di essa: per esempio, "l'uomo è mortale" non mi dice niente sulla natura dell'uomo o sul mistero della morte, ma sposta l'accento dall'inseità intrinseca del soggetto alla relazione affermata dal verbo, cioè di­ stoglie l'attenzione dall'impensabile Lui-stesso, considerato assolu­ tamente, al riferimento dell'uno all'altro. E tuttavia sarebbe inesat­ to affermare che questo enunciato relativo non ha niente da inse­ gnarmi sull'essenza. Questa relazione non è la verità, ma nemmeno me la nasconde; sarebbe piuttosto un elemento della Verità totale infinita, benché non sia questa verità stessa in se stessa. Certo, non basta arricchire l'enunciato precedente aggiungendo che l'uomo è anche un vivente ragionevole, un animale socievole, un essere dota­ to di linguaggio e per di più una creatura libera in grado di ridere, cercare, ecc., per ottenere "al limite" la nozione dell'uomo-in-sé, così come si moltiplica indefinitamente il numero dei lati per passa­ re dal poligono inscritto al cerchio: lungi dal fatto che gli enunciati parziali si risolvano tra loro per ricostituire all'infinito, tramite la loro coalescenza, il mosaico della quiddità, non si è mai dispensati dal bordo discontinuo che, al di là di ogni somma finita, ci permet­ te di porre la semplicità inesauribilmente complessa, la ricchezza ineffabilmente semplice dell' Autòs. Ma se l'ipseità dell'essenza per­ mane costantemente altra e sempre altra rispetto a questa somma, ogni relazione isolata non rappresenta tuttavia un elemento positi­ vo del Lui-stesso; ogni relazione isolata è sì una parte del messag173

gio, ma l' assemblaggio di tutte le predicazioni non compone il mes­ saggio completo ... Si può dire, sicuramente, che l'uomo non è né questo né quello: ma forse sarà ancora più esatto dire che è un po' tutto questo, e inoltre un non so che di altro che non si può dire; l'uomo non è né esclusivamente questo né esclusivamente quello, e la filosofia negativa dell'uomo è piuttosto una filosofia positiva all'infinito in cui la negazione esprime semplicemente l'insufficien­ za di ogni predicazione disgiunta. Definire la Francia, per esempio, è scegliere tra i diversi punti di vista unilaterali che ce la farebbero apparire sia come entità geografica, sia come potenza politica, sia come tradizione storica, sia come stile di vita, modo di sentire o concezione dell'esistenza: ma per quanto nessuna di queste unilate­ ralità disgiunte contenga l'essenza della Francia-ipsa, e per quanto cento unilateralità congiunte non facciano nemmeno un inizio di onnilateralità, è tuttavia innegabile che ogni punto di vista unilate­ rale apporti un contributo positivo alla visione onnilaterale del Lui­ stesso; ora, colui che, come la Monade delle monadi in Leibniz, ri­ unisce tutti i punti di vista prospettivi [perspectzfs] al contempo, costui non ha più prospettive né punti di vista, ha piuttosto una vi­ sione. Questa gnosi che esclude ogni luogo, ·ogni alternativa, ogni limitatezza deformante è evidentemente ciò che si deve chiamare Intuizione. Certo, l'ipseità della Francia non si ottiene, come una fotografia composita, tramite la sovrapposizione di più carte geo­ grafiche, fisiche, climatiche, ferroviarie, amministrative, ecc., la cui sintesi sarebbe la Francia stessa - poiché queste "France" a due dimensioni dovrebbero essere in numero infinito ... E tuttavia ogni punto di vista ci prepara in una certa misura a una sorta di predica­ zione immediata e totale in cui la copula "è", anziché essere partiti­ va o simbolica, verrebbe assunta al contempo in tutta la sua esten­ sione e in tutta la sua connotazione; predicazione-limite, predica­ zione transdiscorsiva la cui impensabile formula sarebbe l'identità nuda, "la Francia è la Francia". È nell'intuizione che questa tauto­ logia, questo irrelativo ottiene un senso concreto e ricco. D'altra parte, quest'assoluto relativo che è l'ipseità umana si esprime, alme­ no parzialmentre, in segni e cifre: lo stile, l'abbigliamento, la scrit­ tura, l'immaginazione sono in tal senso come la visibilità dell'atto relativamente posizionale. Questo iconismo rende possibile una dialettica e un'ermeneutica, cioè un'interpretazione dei simboli: 174

tramite il ministero dei simboli e dei geroglifici mediatori, una sim­ patia gnostica ci porta al mistero invisibile. E inoltre vi sono sistemi di segni privilegiati che accelerano l'intuizione dell'ipseità: la nota­ zione partitiva che, per un atomismo concettuale, non sarebbe che un dettaglio tra mille, è oggetto di una totalizzazione istantanea in cui il mistero subito si rivela. È la funzione dell'arte e della poesia. Di tutti i punti di vista che, per esempio, si possono adottare su un paesaggio - quello del militare, che è schema di un territorio propi­ zio all'attacco o alla difesa, quello dell'agronomo, che è nozione di un certo insieme di colture, quello del geografo, che è lettura di una certa configurazione fisica o geologica, perfino quello del turista, che è spettacolo più o meno pittoresco, c'è un punto di vista che non è per l'appunto più un punto di vista, ma una visione, poiché in esso ogni altro punto di vista si riassume e appare subalterno, e poiché esso soltanto ci fa penetrare nell'essenza del paesaggio, in ciò per cui il paesaggio è veramente lui stesso: è la visione del pitto­ re. Il soggetto non più impuro ma puro, e non soltanto puro ma purissimo, in una parola il soggetto per eccellenza, il Soggetto Ka't'E/;oX,YJV non è più soltanto altra cosa, e neppure infinitamente più di ogni epiteto separato: non è assolutamente questo o quello. La scienza per metà negativa e per metà positiva della persona uma­ na si edifica a poco a poco completando e approfondendo all'infi­ nito i non-tantum, i "non-soltanto" delle asserzioni unilaterali. Ora, non si dà scienza, sia pure parziale, di Dio. Qui è il discorso in ge­ nerale a essere inadeguato, il logos in generale a essere impotente; qui è il proposito stesso di definire a essere ciarlataneria e impostu­ ra; qui qualsiasi narrazione è mito e qualsiasi descrizione farsa. Dio non soltanto è indefinibile come l'ipseità vivente, né soltanto indi­ cibile come la morte: è al contempo indicibile e indefinibile, cioè radicalmente ineffabile. L'ipseità vivente si presta a biografie in cui il romanziere riempie di indiscrezioni il mistero essenziale; e quan­ to al mistero della morte, quando non dà la stura che a patetiche chiacchiere, quando il retore, credendo di parlare dell'istante stes­ so del morire non parla che dell'intervallo moribondo, è comunque un fatto reale e familiare. Il Mysterium maximum, invece, mistero da parte a parte e nient'altro che mistero, è ciò di cui non c'è asso­ lutamente niente da dire. La morte, chiudendo bruscamente il tota­ le sempre aperto che costituiva la persona vivente, designa (senza 175

tuttavia spiegarlo) il mistero dell'ipseità: il "messaggio" è indivi­ duato e diventa, una volta oltrepassata la soglia fatidica, cosa defi­ nitiva o definibile, carriera finita e definita. Ora, l'ipseità divina non ha altra definizione che l'apertura stessa, l'apertura infinita che non è nient'altro che impossibilità di definire, circoscrivere o "com­ prendere". Parlando propriamente, e non per metafore o modi di dire, Dio non si "esprime", neppure parzialmente, attraverso la cre­ azione così come il genio si esprime attraverso l'opera; ciò che dell'infinito si esprime nel finito non può che essere finito, ossia infinitamente eterogeneo all'infinito e assolutamente incommensu­ rabile ali'assoluto. No, la "gloria" dell'Ipseità maggiore non la si può leggere nello splendore dei tramonti e delle aurore boreali, e le prove cosmologiche del cosmocentrismo ottimista non possono che empiricizzare una maestà puramente metalogica e pertanto so­ vrannaturale. Né la gnosi dell'ipseità si costituisce col rafforzamen­ to graduale di una convinzione, come accade nelle inferenze stati­ stiche, né scaturisce da un'esperienza privilegiata, come la scintilla subitanea dell'intuizione: è un'ispirazione metafisica nata dal nien­ te e non dal quasi-niente, e più rapidamente morta che nata; e non un Eureka intorno a qualche segno tipico, ma una suggestione ex mhilo, un'allusione miracolosa "ad quodditatem" e una conversio­ ne radicale. Ecco perché l'idea che la teologia possa svolgere, ri­ spetto all'Ipse ipsissimus, lo stesso ruolo dell'antropologia rispetto ali'ipse in generale è una pretesa grottesca: poiché se le astrazioni "antropiche" dell'antropologia possono essere in certi casi, col mi­ nistero e l'occasione illuminativa dell'intuizione, un cammino verso l'ipse, le astrazioni teologiche così spesso derise da Schelling e Kier­ kegaard non sono che pretenziose fandonie. Che si associ il nome di Dio a una "logia" o a una "grafia", che si prediliga il ragionamen­ to o la descrizione ... , una fraseologia vale l'altra, non è così? e il metafisico si guarderà qui dal competere con Swedenborg, come eviterà di competere con quella che Kant chiamava "teologia arro­ gante". Vi è biologia e biografia, cosmologia e cosmografia, geolo­ gia e geografia, ma non vi è teologia che possa essere teografia o angelografia: poiché Dio, che non è cosmo, bios ... e neppure théos, Dio non è innanzitutto il re dei concetti o il primo funzionario dell'universo. Bisogna anche rinunciare alla simmetria di Arte e Re­ ligione, che ci darebbe l'intuizione dell'ipse o del Mysterium ma-

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gnum, che ci offrirebbe la rivelazione del Mysterium magmum o dell'Ipse ispisst'mus: perché non vi è né parallelismo né corrispon­ denza tra la positività della bellezza plastica e l'ineffabilità della So­ vraverità informe; e la simmetria di estetica ed etica, così cara ai cuori romantici, fa spazio a una sorta di processione. Anche l'ipse, propriamente parlando, non è il cammino verso l'Ipse t'pst'sst'mus: se una distanza infinita separa il totale degli epiteti e il mistero sovran­ naturale dell'ipse, vi è un infinito di infinito da superare per passare dal relativamente-infinito dell't'pse all'assolutamente o infinitamen­ te-infinito dell'Ipse ipsissimus; se l'ipseità semplice, in quanto sog­ getto posizionale, differisce metafisicamente dai suoi participi-pas­ sati-passivi, l'ipseità delle ipseità sarà il soggetto dei soggetti, la posizione delle posizioni e il mistero dei misteri; il mistero in ogni mistero! Rispetto al mistero vivente, parlante e pensante, il mistero chiamato Uomo oscilla senza tregua tra l'inesprimibile-incompara­ bile della propria solitudine e l'essenzialità del concetto, ecceità e quiddità coincidono nel nucleo del mistero maggiore, ossia nel cen­ tro appena intravisto dell'essere super-geniale che bisognerà risol­ versi a chiamare Dio: la quiddità senza ecceità è un'entità astratta, ma l'ecceità senza quiddità non è che un idolo.

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CAPITOLO VIII Il non-so-che

I. -Il mistero del Nescioquid E ora la controprova dell'ipseità. Alla continuazione empirica manca qualcosa che non è un non-so-che, nescio quid, ma che pro­ prio al contrario è un so-che, uno scio quid che è "aliquid", benché questo qualcosa non sia più una cosa; all'empiria inessenziale man­ ca una verità essenziale e altamente assegnabile poiché, a fortiori, è realtà: al di fuori della verità nessuna pratica efficace, buon esito né evento; un resoconto non accertato, una testimonianza infondata, un palazzo edificato a dispetto delle leggi fisiche si confrontano nell'ordine dello scacco e della realtà incompleta. Alla continuità essenziale, per fitta che ne sia la trama, per inassegnabile che ne sia la lacuna, manca qualcosa di sovressenziale, un non-so-che più che essenziale che non si può nominare, determinare e neppure pensa­ re, manca qualcosa e non manca niente, manca qualcosa che non è niente ... Ma questo niente non è forse infinitamente maggiore di un voluminoso qualcosa? Ciò che manca all'empiria inessenzia­ le ha un bel non essere lacuna nello spazio o "difetto" della mor­ fologia ottica: questa mancanza esprime molto bene una maniera di incompletezza; dei rapporti violati, delle relazioni matematiche fallaci sono, benché invisibili, un elemento la cui assenza è perfet­ tamente localizzabile e constatabile. Ciò che manca alla metempiria non è semplicemente non-cosa o non-essere quanto piuttosto non­ essenza: come una bellezza "incompleta" la cui incompletezza pur sempre completa non deriva dall'assenza di questo o quel carattere preciso dapprima inosservato quanto dall'indefinibile assenza di 178

uno charme inafferrabile, di una grazia effusa e diffusa dappertut­ to (xaptc; èm0éoucm, i:q> Ka.À.À.Et) 1 che, secondo Plotino, riveste l'opera d'arte di un nescioquid atmosferico. Non è l'insufficienza dell'analisi a essere qui in causa, ma l'impotenza del pensiero.,. Il mistero non è qualcosa di esistente di cui ancora ignoriamo il nome, come nel caso del segreto, ma un niente perpetuamente impensabi­ le di cui avvertiamo soltanto l'assenza o la presenza. Si può anche fingere senza rischio di disconoscere ciò che non è affatto indispen­ sabile sapere (perché, di fatto, non c'è niente da "sapere") e che ciascuno dei nostri atti e ciascuno dei nostri pensieri tuttavia pre­ suppone. La presenza o l'assenza di questo mistero intrasmissibile promuove tutti i malintesi che sono all'origine del fraintendimento [mécomprehension] ... Il malinteso [malentendu] non è forse la ti­ pologia stessa dell'errore privo di materia, dell'errore vero che non differisce dalla verità se non per il tono e per l'impalpabile intenzio­ ne? La porta ormai è aperta all'equivoco. Ma proprio per questo la vaghezza e l'impalpabilità della ritrosia sono il punto debole della metafisica così come il non-so-che è la vitalità - Autòs e ipseità dell'organismo - e il punto debole delle teorie vitaliste, e la libertà stessa il punto debole e la causa persa in anticipo della filosofia: tutte le conquiste del determinismo materialista o del meccanici­ smo fisico-chimico sono un "più" e un progresso positivo, mentre il vitalismo dà scioccamente ragione al positivismo della positivi­ tà-posta reificando l'inassegnabile ipseità posizionale. Ma questo è seguire il nemico sul terreno che lui stesso ha scelto e lasciarsi , imporre la scelta delle armi. Se Dio è qualcosa o qualcuno - qual­ cuno come può esserlo, per esempio, il primo presidente della Cor­ te di cassazione, Dio non esiste: queste imprudenze hanno sempre determinato il trionfo dell'ateismo, come l'evidenza perfettamente inevidente del sovrannaturale il trionfo del naturalismo in generale, o l'anfibolia di male e bene il trionfo del positivismo immoralista. La natura - occorre ripeterlo? - è naturale in tutto il suo spessore, è visibilità e pensabilità positive, ma il /atto della natura-in-gene­ rale è sovrannaturale: ora, l'obbedienza alle leggi di natura è al­ trettanto indispensabile quanto "dispensabile" è il mistero gratuito 1

Enn., VI, 7, 22. Cfr. I, 6, 1-2.

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contingente e arbitrario della naturalità! Questo mistero è ipseità, e perciò nescioquid. Dio è interamente ipseità, nient'altro che questo, poiché i suoi epiteti non sono, come quelli della libertà o della vita, le cifre esoteriche del puro soggetto. E c'é di più: l'inadeguatezza di una logica "troppo" impeccabile, l'inesplicabile disagio in cui, quando la sincerità, l'ispirazione e il cuore non ci sono, ci trascina­ no un mestiere esatto e una tecnica impeccabile. Cosa vuol dire se non che vi è un al di là della logica, o meglio un "fatto" metalogico del logos? Per questo fatto impalpabile, e ciononostante più vero della verità stessa e più intimo delle regole del sillogismo, Pascal aveva inventato l'esprit de /inesse, che è spirito di ipergeometria e percezione irrazionale del nescioquid. Chissà se la finezza necessa­ ria a percepire il non-so-che in seno alla naturalità non sia che un semplice assaggio della super/inezz.a con cui la punta dell'anima, in una tangenza istantanea e quasi inesistente, presagisce il sottilissi­ mo non-so-che della divina ipseità? L'ipseità delle ipseità è un mistero, cioè il contrario di una cosa. Mistero è ciò che non è res, ma aliquid; neppure aliquid, bensì ne­ scioquid: lo esprime a meraviglia la parola Nescioquid, in cui la ne­ scienza è relativa al cosa e al come; non so né cosa né come è, cioè: ignoro sia il suo nome sia la sua qualità o natura, comprendendo nella "natura" il suo colore, il suo peso e il suo piumaggio, in breve le innumerevoli maniere di essere o modalità epitetiche, tanto av­ verbi di verbi quanto aggettivi del soggetto-sostantivo; non posso rispondere né alla domanda quis? ('ttç), che vuole un nome proprio alla terza persona, Pietro, Giacomo o Tal dei Tali, né alla domanda quid? (-et), perché la risposta sarebbe aliquid ('tt) o qualcosa, cioè questo o quello, né in generale ad alcuna domanda categoriale, sia essa il Dove, il Quando o il Quanto ... Così il Non-so-che è a mag­ gior ragione non-so-quando, non-so-chi, non-so-come: nescioquis, nescioquando, nescioquomodo, nescioquot! Ma, nello stesso tempo: so che vi è qualcosa anche se non so quale cosa; presagisco il che (61:1) senza sapere il cosa (1:1) o, per attingere al vocabolario di Schelling: ho l'intuizione del Quod, ma ignoro il quid ... Se non vi è altra "conoscenza" che il sapere e non vi è altro sapere che il sapere di qualche-cosa, bisogna confessare che "sapere" il quod è non sa­ pere, sapere del vuoto, o più semplicemente sapere che non si sa, sapere ignorando: l'ipseità, residuo irriducibile e di un totalmente

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altro ordine rispetto a ogni "nozione", è il contrario di una res sci­ bilis. Vi è qualcosa che non è niente: a questo si ridurrebbe l'intui­ zione morta-nata, paradossale e contraddittoria del nescioquid: sen­ za sosta il qualche-cosa rinvia al niente - perché se il non-so-che è cosa, allora non è niente; il non-so-che non è infatti né cosa né esse­ re né elemento, ma "non so che" d'altro ... ; e continuamente il niente rinvia da capo a qualcosa, perché un'ostinata evidenza pneu­ matica protesta contro la constatazione non meno ostinata del vuo­ to; quest'oscillazione quasi dialettica da essere a non-essere si im­ mobilizza nell'intuizione di un "C'è" ,2 e non di un "C'è qualcosa" in cui qualche-cosa attende un nome di battesimo inscritto en poin­ tillé, cifrato in geroglifici o nascosto da un velo, ma di un "C'è" che è dichiarazione di presenza in generale, e di presenza effettiva, sen­ za relazione attributiva di predicato e soggetto; presenza assente, indubbiamente, per chi si ostina a reificarla, presenza pneumatica, malgrado tutto, il cui muto rimprovero vuole dire, come l'evidenza inafferrabile di uno sguardo: Eppure sono qui! Tale è l'intuizione anfibolica della paroustà,3 contrapposta al sapere univoco del­ l'oustà, dell'oùcriex, oùcrcx. [sostanza sostanziante]. Per la semi-gnosi che dice al contempo "scio" e "nescio", so e non so, il Simposio aveva scelto il verbo cùvt-c-coµcn, "alludo", e la Repubblica il verbo anoµcx.v-ceuoµm, "profetizzo" (questo sapere riprende i tratti della Mantica); non ignoro né so, ma presagisco. Già nell'empiria il sape­ re materiale che sa "aliquid" e che si può definire quidditativo non si confonde con il sapere-che, cioè col sapere quodditativo: per _, esempio, può accadere che si dimentichi il quid e il quis, il quomo­ do, il quo (ubi) e il quando, ma non il quod; ci si ricorda che c'è qualcosa senza ricordare che cosa; talvolta accade nel riconosci­ mento del passato, quando ci si ricorda della "relazione" o della forma, ma senza i dettagli circostanziali di nome, data e luogo che

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Emmanuel LEVINAS, Il y a ("Deucalion", 1946, t. I, p. 143) [L'articolo a cui Jankélévitch fa riferimento è stato successivamente raccolto da Lévinas, con poche modifiche, in Dall'esistenza all'esistente (1947), trad. it. F. Sossi, Mariet­ ti, Bologna 20192 , pp. 45-57, NdTI. È un concetto specificamente plotiniano. In particolare: Enn., III, 2, 2; 8, 6; V, 3, 17; VI, 4, 11; 5, 11-12; 6, 13; 8, 13; 9, 4 e 8.

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permetterebbero di localizzare il già visto. E ugualmente, rispetto al futuro: la speranza preimmagina e l'intenzione anticipa il Come o modo di essere determinato di un futuro di cui si ignora se avver­ rà effettivamente; invece l'angoscia teme ii" "fatto-che". In realtà, sapere quodditativo e sapere quidditativo, questo che sa il quid in aliquid, quello che intravede la quoddità di tale aliquid, sono cia­ scuno rispettivamente, quantunque in sensi opposti, scientza media. Si osserverà che il quid e il quod si oppongono l'uno ali'altro come pronome e congiunzione. La scienza quidditativa sa il qualche-cosa della cosa, ma lo saprebbe anche se la cosa non esistesse, se la cosa fosse un sogno o un fantasma; viceversa, la scienza quodditativa è nescienza quanto al quid: essa presagisce che "c'è", ma non sa cosa né chi né come; prima lo scio-quid aveva come riscatto un "nescio­ quod", adesso è il nescioquid ad avere come ricompensa lo "scio­ quod" -, meglio ancora (perché una simile nescienza è interamente positiva e non amathza privativa), il non-so-che esprime immediata­ mente la nuova gnosi, è esso stesso l'intuizione stessa! In quest'op­ posizione tra che e qualcosa non risiede forse l'opposizione tra filo­ sofo e sofista? Il sofista che è, come indica la sua ragione sociale, sophos professionista o commerciante in sophia, ha per settore e specializzazioni essenziali il mercato nero dei sofismi: il "sofisma" è commercio in articoli di saggezza e vendita al dettaglio, saggezza fattasi sapere, tecnica, consuetudine e anche merce; al bazar dei concetti, il sofista espone la politica, la retorica, la logistica e la fi­ nanza come fossero ricette e suggerimenti. Nessuna angoscia circa l'origine radicale di queste tecniche lo pervade, né si meraviglia del­ la loro effettività, ma trova già qui una "sapienza" prefabbricata, vale a dire preliminarmente confezionata, e la accetta come dispo­ nibile, fatta e finita; credendo di vegliare, sogna un sogno d'imma­ nenza in cui casi intramondani e piccoli negozi si ammantano di una sorta di frivolezza spettrale. Il sofista è il tecnico della conti­ nuazione senza basi e il cavaliere del senso comune più meschina­ mente conformista. Al contrario del mercante in saggezza, il filoso­ fo "ama", cioè ricerca una gnosi infinita che non si vende in pillole: è la saggezza filosofica dei saggi oltre la saggezza filosofale degli speziali, Sophia oltre i sofismi. Socrate ha di mira l'essenza al di là di ogni epiteto e Platone la sovressenza al di là dell'essenza. Socrate dice: so di non sapere, o18cx. 01:1 ouK o18cx.; non sa questo o quello, 182

come i detentori di un sapere intellettivo e sofistico, sa soltanto di non sapere: e mentre il secondo oida, quello negato, designa un sapere quidditativo e dottorale, il primo è un sapere "formale" o un sapere-che (6-n): non il sapere della propria ignoranza (poiché fare dell'ignoranza un oggetto è fare della scienza socratica il sapere di un insegnamento vuoto), ma il fatto di sapere che si ignora. Dicia­ mo che se la scienza è sempre scienza di altra cosa (cXÀ,Àou 'ttvoç), la scienza socratica è invece coscienza: coscienza di una nescienza; se la scienza nesciente, sempre erudita, pedante e ben informata, appartiene ai dottori del sofisma, la dotta nescienza, che è coscien­ za della scienza nesciente, è l'autentica gnosi filosofica. La retta opi­ nione del Teeteto, che sa certe cose ignorando o non riconoscendo perché le sa, è più che altro una sofistica; mentre la gnosi, che non sa niente ma comprende di non sapere niente, è sulla via dell'ipsei­ tà. Se potessimo congiungere il sofista del quid e il Socrate del quod, otterremmo uno gnostico accettabile? Il pronome che la scienza dell'intervallo ha di mira è un pronome in attesa di un nome, un pronome che, rappresentando qualcuno o qualcosa, non chiede al­ tro che di essere definito o battezzato. Battezzare non è forse la grande occupazione di un senso comune sempre attento a ricono­ scere, identificare e distinguere? Il medico non guarisce il malato, eppure il suo cliente si stima guarito non appena il nome del suo male è trovato. Il tuo nome è scarlattina. La teodicea si prende cura di designare quei mali metafisici che si chiamano mali necessari per esorcizzarli o scongiurarli col solo nominarli: colui che denuncia elude [déjoue] ... Come se il nome esistesse in sé, al di fuori delle convenzioni della pratica! come se Dio avesse creato il Monte Bian­ co e un cartello con su scritto: qui c'è il Monte Bianco! Comunque sia, l'intera grammatica è al servizio di una metafisica della "nomi­ nazione" quidditativa che un tempo appartenne alla virtù dormiti­ va e che è sempre la metafisica della cosa. Lo "scioquid" non è as­ segnabile a causa del suo essere, in senso schellinghiano, ipotetico. Che si tratti di un elemento della struttura morfologica o di un ele­ mento dell'Essere in generale, lo scioquid occupa un posto nella visibilità dell'esistente, cioè del già-qui; è un Più che è un meno! Se lo scioquid è una positività negativa, il nescioquid, che proprio per questo è scioquod, è una negatività autenticamente positiva; tutto ciò che se ne può conoscere resta a lato e intorno al centro dell'ipsei183

tà, tutto ciò che di esso si può descrivere resta ai confini della posi­ zione pura; e il lui-stesso in lui-stesso, il lui-stesso che è totalmente­ altro sfida, tanto è posizionale, la descrizione e il discorso. Il non­ so-che è anonimo, perché fin da subito innòminabile: dunque non accetta che i nomi divini più evasivi, Autòs, Ipse, o Non-so-che. Insomma, il So-che e il Non-so-che non sono le due metà equiva­ lenti, simmetriche e complementari, di una medesima gnosi: il quid senza quod, per quanto risulti dettagliato, è un pensiero insufficien­ te, inconsistente e infondato, una doxa a fior di realtà perché manca della cosa più importante, quella che, a rigore, la dispenserebbe da ogni altra - ossia l'esistere; mentre la quoddità senza quz'd, anche se indeterminabile, inassegnabile e non localizzabile, sarebbe pur sempre posizione sufficiente e preveniente; l'unica posizione deci­ siva e l'unica puramente categorica: chi ha l'intuizione del soggetto ipse, a fortiori potrà conoscere un giorno, se vorrà degnarsi, gli epi­ teti della tesi, il suo luogo, il suo peso, il suo stato civile e le sue impronte digitali. Il Tanto e il Tale, i gradi del Quanto e le maniere del Come sono dettagli oziosi finché non si risponde all'alternativa "sì o no", "tutto o niente", an ... annon. Dunque l'effettività non è una proprietà come le altre, o accanto alle altre, ma il tetico e l'in­ definibile per eccellenza che costituisce la realtà di ogni proprietà impedendole di essere proprietà vuota o semplicemente nozionale. Allo stesso modo lo charme, la sincerità e l'ispirazione non sono caratteri assegnabili o designabili dell'opera d'arte, ma piuttosto il "divinum quid" che rende la bellezza efficace e convincente o, vice­ versa, il nescioquid senza cui una perfezione pur impeccabile è ari­ da, inoperante, inefficace, priva di verità e forza persuasiva: perché la sincerità è effettività sufficiente che, essa soltanto, ci dispense­ rebbe da ogni talento; perché senza una convinzione appassionata niente inizia e niente si compie. Più in generale, ciò che fa sì che l'ipse sia lui stesso, che rende effettive bellezza e presenza, e che fa essere l'essente non può essere una proprietà localizzabile di questo essente; il nescioquid non è l'elemento di una totalità aperta, bensì ciò che mantiene l'apertura; è tutto, ma in sé non è niente, o meglio non è. La semi-scienza quidditativa e la semi-gnosi quodditativa sono quindi entrambe, ognuna a suo modo, scienza media, ma rap­ presentano due modi assolutamente contrari, l'uno statico e l'altro dinamico, di intermediarietà che si oppongono come mediocrità 184

sofistica e mediazione socratica; quest'ultima, non discorsiva ma demonica, erotica e ispirata, si solleva interamente, come la voca­ zione di Diotima, verso un'evanescente ipseità che si nega offren­ dosi e la cui unica definizione è di essere al di là di sé, altra da sé, sempre altrove e sempre dopo.

II. - La semi-gnosi della Quoddità, e la presenza assente Tutto ciò che è metafisico, misterioso e autenticamente impor­ tante è l'oggetto della semi-gnosi, cioè, alla lettera, di una divina­ zione che ne presagisce la parouszà o effettività senza conoscerne la natura: si è detto che la quoddità non sarà mai "saputa" né cono­ sciuta, e che il sapere saprà soltanto la continuazione dell'interval­ lo, che è oggetto di conoscenza, o la continuazione metempirica, che è oggetto di comprensione. Per esempio la libertà stessa, ipsa, è sempre presagita come presenza, effettività o evidenza generale: tutto ciò che della libertà viene saputo giustifica per definizione il determinismo, per la buona ragione che il sapere ha presa solo sulla circonstruttura circostanziale del/iat, cioè sugli epiteti dell' at­ to posizionale. La libertà come ipseità è una specie di charme. Ugualmente, e Henri Bergson è stato il primo a presagirlo, la vita, il movimento e l'intenzione caritatevole rivelano solo all'intuizione l'evidenza quodditativa e si negano ostinatamente a un sapere quidditativo in grado unicamente di giustificare l'egoismo, lo stati­ cismo e il meccanicismo. Più brutalmente (poiché è evento repen­ tino e insorgenza semelfattiva), la morte, mutazione-limite, si im­ pone allo spirito come pura e impensabile quoddità, perché non c'è assolutamente niente da sapere e da pensare nel mistero dell'i­ stante letale; la morte non ha natura, e tutto ciò che se ne può scrivere, sviluppare, analizzare, raccontare è necessariamente non­ dum o iam-non, anteriore o posteriore all'ipseità flagrante e alla captazione opportuna di tale ipseità; tutti, insomma, sono penosa­ mente a margine della questione. E come è nescioquomodo, così la morte è anche nescioquando. So che, ma non so quando, non so né il giorno né l'ora; o, come dicono i teologi: mors certa, hora incerta! L'indeterminazione e l'imprevedibilità della data non derivano in questo caso da una lacuna parziale, accidentale o provvisoria delle 185

nostre informazioni (come per esempio conoscere tutte le coordi­ nate circostanziali di un appuntamento salvo l'ora), ma dall'impos­ sibilità di quiddificare la semi-scienza della morte. Georg Simmel ha profondamente filosofato sull'alternativa del Che (èSn) e del Quando (61:av), che rivela secondo lui la situazione mediana della creatura. 4 Si potrebbe, usando il linguaggio dell"'ambiguismo" pa­ scaliano, ritrovare la stessa dissimmetria a proposito dell'infinito: presagiamo che vi è un numero infinito5 come Socrate diceva "So che ... " (o18a èSn), ma non possiamo precisare quale sia questo numero; e in particolare: non possiamo decidere se questo numero sia pari o dispari; non appena lo poniamo come dispari, un nume­ ro maggiore lo respinge nella finitezza; ma il numero pari, appena posto, fa a sua volta spazio a un numero dispari maggiore. Più in generale, tutto ciò che è posto al participio passato passivo è per ciò stesso cosa finita. Così lo spirito si lascerebbe rinviare da pari a dispari fino alla fine dei tempi se non presagisse che l'infinito è molto semplicemente il movimento posizionale, positio ponens, maggiore di qualsiasi grandezza posta. L'attualismo finalista di Re­ nouvier dava quindi prova di grande spessore quando riconosceva, nell'impossibilità di concepire una grandezza in atto che non fosse questo-o-quello e cosa assegnabile, la confutazione dell'infinito at­ tuale. Vi è, al contrario, una quoddità impalpabile che rifiuta l'al­ ternativa tra pari e dispari e che è l'infinito stesso come rifiuto di ogni opzione. Pascal distingueva il finito, del quale conosciamo esistenza e natura perché siamo noi stessi estesi e finiti; l'infinito, di cui conosciamo, tramite il "cuore", l'esistenza, ma ne ignoriamo la natura, perché se è esteso come noi non è, come noi, limitato; Dio, infine, di cui non conosciamo né l'esistenza (salvo per fede) né la natura (salvo per la sua gloria), perché non ha né estensione né limiti. Diciamo qui più semplicemente: vi sono cose empiriche delle quali specifichiamo a volontà la natura, ma che restano, nell'intermezzo [entre-deux] degli estremi, assolutamente ineffetti­ ve; e vi sono misteri di cui sappiamo unicamente che sono senza sapere ciò che sono. Pascal non scrive forse: "Dunque si può sape4

Lebensanschauung, 1918, pp. 103-107 ("Tod und Unsterblichkeit"). Sezione III (BRUNSCHVICG), fr. 233; IV, 282. Cfr. De l'esprit géométrique.

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re che vi è un Dio senza sapere ciò che è"? Ma le ipseità subalterne, pur essendo dubbie o velate quanto alla loro natura, sono perfetta­ mente inambigue quanto alla loro esistenza: le une, come la morte, in virtù di una violenza tanto indiscutibile quanto incomprensibile; le altre, come la vita, il movimento e la libertà, perché, avendo il loro punto di applicazione nella creatura, cioè nel portatore natu­ rale del mistero sovrannaturale, corrispondono a un sentimento interiore di evidenza che protesta senza sosta contro le evidenze contrarie del meccanicismo; le altre, come l'infinito, negativamen­ te, perché non vi è alcuna ragione di fermarsi, e ogni Ananke stenai è una rinuncia arbitraria. L'unico motivo che avremmo per dubita­ re dell'esistenza di tali ipseità è per l'appunto il carattere proble­ matico o impenetrabile della loro natura - perché l'empiria non ci offre esempi di nature dubbie la cui esistenza sarebbe non-dubbia e l'effettività dimostrata. Lo sforzo eccezionale che queste ipseità esigono da noi consiste nell'acconsentire a esistenze senza natura, cioè a un quod senza quid e a un indefinibile che s'impone senza intrinseca chiarezza, a una forza di persuasione drastica senza tra­ sparenza gnostica. L'Ipse ipsissimus, invece, non è soltanto opaco nella sua natura o nel suo "ciò-che": il suo stesso Quod ha qualcosa di ambiguo o, come ebbe a dire Platone, di "controvertibile" [controversable]; 6 l'esistenza del Soggetto dei soggetti non è di cer­ to, come la libertà, un'evidenza intestina e un effetto d'insieme! Dio è certamente nescioquid, ma è infinitamente di più, perché non è nemmeno candidato all'ecceità né in attesa di esistenza persona­ le, perché neppure "esiste", nel senso denso e antico del verbo "esistere"; Dio non è "qualcuno", né il signor Non-so-che, hic o ille. Se il dogmatismo è la tentazione diabolica della gravitazione, occorre impedire al nescioquid di arrotondarsi, imborghesirsi e in­ trufolarsi al centro di un "nescioquidismo" professionale: il siste­ matismo del Non-so-che non sarebbe il più pedante di tutti? È il quid del Bene Supremo, secondo Platone, a gettare l'anima nell'a­ poria e nella perplessità: ma il Non-so-che è appena presagito; lx rcoµaV"CEuoµtv11µ n EÌvm àrcopoùcra òè Kcù ouK txoucra 'Aa­ J3Eìv tKavroç 'Cl rco1: 0 Ecrnv [col presentimento che è, e tuttavia nel 6

àµ(J)tcrf311'tl1Cnµov.

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dubbio perché manca della capacità di coglierne con chiarezza l'essere] ... 7 Giovanni Crisostomo lo chiarisce con molta semplicità distinguendo Fatto e Maniera - oioa µtv rco'A'Acl, oùK l::rctcr-caµm ot aù-cwv -cov -cp6rcov8 - e comparando il mistero di Dio-nel-mon­ do al mistero dell'anima-nel-corpo: 01:1 µtv l::criw l::v -cc§ crroµa-c1 "Cql tiµE-ctpq> tcrµEv, "CO ot rcwç ÈO''tlV OÙK foµEv.9 E allo stesso modo: cm ... rcanaxou ÈO''tlV b 0Eoç oioa, KCÙ on o'Awç ... , "CO ot rcwç oùK oìoa. Ciò che lo spirito necessariamente disconosce è il "punto essenziale"; [fin mot]il punto essenziale, ovvero il mecca­ nismo dell'ubiquità e dell'eternità, per noi è misterioso quanto l'assimilazione degli alimenti nell'organismo; il punto essenziale, ossia il Come e il Quanto, 10 principio di aporia e di vertigine: on µtv l::cr-c1 0Eoç oioa, -co ot, -et 1:11v oùcrtav Ècriw, ayvoEì o-c1 µtv cro�6ç tcritv Èrctcr-ca-cm, "CO OÈ, rc6crov tcri1 cro�6ç, àyvoEÌ. Non che si conosca una parte dell'essenza divina ignorandone il resto, infatti è un'essenza infinitamente semplice ... Diremmo piuttosto, in linguaggio moderno: ciò che so (o potrei sapere) e ciò che igno­ ro non sono sullo stesso piano, né appartengono allo stesso ordine; ciò che conosco, e dove del resto non vi è niente da conoscere, né natura descrivibile né contenuti conoscibili, appartiene all'ordine iperbolico della pura posizione senza spessore d'essere; e ciò che misconosco è al contrario questo spessore ontico stesso: non "che sia" in generale, a titolo di ipseità impalpabile, ma come sia, e qua­ le, e dove, da tutti i punti di vista e secondo tutte le categorie im­ maginabili; oux cm tcriw, à'A'Aà i:i tcrnv [non che è, ma che cos'è].ll Tale è questa scienza chiara-oscura di un mistero né na­ scosto né patente, ma piuttosto nascosto a metà, nascosto quanto alla sua natura, patente quanto al suo "c'è". "Entender no enten­ diendo, saber no sabiendo": è in questi termini che Juan de la Cruz Rep., VI, 505 e. Cfr. 506 d. 8 Op. cit., Omelia I, 704 b. 9 Omelia V, 741 a. Cfr. Enn., V, 3, 14. 10 705 a: dt 1tpocj,rrcm où µ6vov ,:i 'tl]V oooiav EO''tlV àyvooùvwç cj,aivov,:m aÀÀà KCÙ m::pt i:nç o-ocj,iaç aùi:ou 1t60-ri i:iç EO''tlV ànopooot. 707 a: òn µév EO''tl µÉycx.ç OUK c'x.yvoeì, ,:o ÒÈ µ60-ov, ri i:iç Tl µi;ycx.ÀùlO'UVT] cx.ui:ou, i:ou,:o 01.JK OiÒEV. Il "fin mot", traduzione di Robert FLACELIÈRE. 11 7 42 a; cfr. d, 743 a-6.

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parla della scienza nesciente, della conoscenza disconoscente che è quella del supremo "No sé qué". Da qui l'evidenza inevidente, as­ solutamente manifesta, assolutamente opinabile e, come dice Er­ mete Trismegisto, al contempo apparente e inapparente 12 che ca­ ratterizza per il nostro spirito l'indeterminabilità del soggetto dei soggetti. Niente è divino e tutto è sovrannaturale. Dire che Dio è sempre un altro è far intendere che è al contempo tutto e niente; dire che è sempre altrove è suggerire che è al contempo dappertut­ to e in nessun luogo. "Nusquam est, quod ubique est", dice para­ dossalmente Seneca. Questo mistero appare come un mostro in­ comprensibile di ubiquità e "nusquamità" solo perché è nello stes­ so tempo ibi e, non appena si minaccia di reificarlo, alibi, perché è insieme al di là e al di qua, perché non ammette l'alternativa del qui-o-là. L'onnipresenza che per ciò stesso è onniassenza è ciò che si può chiamare parouszà, presenza assente e mistero trans-spazia­ le. Il paradosso dell' atopia rifiuta per definizione ogni topografia, 13 cioè ogni assegnazione distributiva di luogo, come rifiuta gli altri epiteti circostanziali: le localizzazioni cerebrali del pensiero e le localizzazioni grammaticali del senso non sono più assurde né più deludenti della localizzazione cosmica del divino. Esquirol diceva: il pensiero non è nel cervello e il movimento non è nel muscolo. Come la presenza della vitalità nei tessuti o della libertà nella mec­ canica delle cause, la "presenza" di Dio nella natura è una presen­ za metaforica, pneumatica e ben più che atmosferica: presenza lontana-vicina, presenza inafferrabile e diffusa e niente affatto col­ locazione spaziale o topica ... In questo l'ipseità somiglia ai morti, che non sono mai "da qualche parte", ma altrove e dappertutto. Dell'ipseità non vi è localizzazione né topologica né cronologica! Ecco perché Giovanni Crisostomo dice: "Dio non è più facile da circoscrivere di quanto lo sia l'anima"; 14 e Plotino, spingendo il paradosso fino all'estremo dell'iperbole, afferma che il corpo non è un luogo per l'anima - oùoe 1:61toç 1:0 crò:iµa 1:n \lfUXTI - e che se

12 Aqia,vr'v;, qicwEpooi:awc;: Trattato V, IO. 13 ERMETE, V, 10; Giovanni CiusosTOMO, op. cit., 707 b. Enn., VI, 9, 1:émoc; oùoùc; a.u1:4'>. Cfr. V, 5, 8. 14 TIEptypci(jJEW 1:6rrq>: Omelia I, 704 d; IV 0 , 729 a.

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l'essere-in qui ha un senso, è piuttosto il corpo a essere nell'anima; ossia che è immerso-in, sommerso dall'etere spirituale; che è inte­ ramente climatizzato dal mistero. Così le metafore orfiche della prigione o tomba dell'anima sono svalutate: Quanto all'Uno, il su­ premo Indicibile, a maggior ragione esso non è in niente (l::v è>'tqiouv) pur essendo interamente dappertutto (oÀov na:.v'ta:.xou); 15 e Plotino, giocando con una sorta di grammatica apofatica, infran­ ge una contro l'altra tutte le preposizioni contraddittorie con le quali si potrebbe localizzare l'onnipresenza trans-spaziale. Dove bisogna guardare, chiede Ermete Trismegisto: 16 in alto? in basso? dentro? fuori? dvoo, Kci'too, ecroo, tl;oo? Come la Circonferenza pa­ scaliana, il cui centro è dappertutto e la circonferenza in'nessun luogo, l'Amorfo di Plotino è contemporaneamente avvolgente e avvolto. Plotino si serve delle antinomie non certo per farci ricade­ re nel relativismo empirico, ma per orientare il pensiero verso l'in­ tuizione del paradosso e dell'assurdo. "Che meraviglia, esclama,17 che dio ci sia senza mai essere arrivato!" 0a:.uva:. 011, ne.oc; OUK'. È:À0oov 1tCX.pEcr'tt K'.CÙ OÙK CÒV oùoa:.µou OÙK'. È:O''ttV Ò1tOU µ11 È:cr'ttv. E altrove: 1ÌÀ0Ev ooç OUK È:À0c.ov. Ila:.pòv µn 1tCX.pEÌVa:.t [Egli venne senza venire. Egli è presente senza essere presente].18 Così vicino, così lontano! L'assenza universalmente presente ignora l'impene­ trabilità con cui i corpi massivi si ostacolano nello spazio, si sposta­ no di posto in posto e occupano gelosamente il luogo della loro residenza: la domiciliazione privata e l'esclusivismo proprietario le sono ugualmente estranei. Essa ci dispensa quindi dallo scegliere tra la trascendenza dualista e il materialismo. Quel che Alain dice dello Spirito: 19 che essendo "tutto di tutto", e perciò relazione in­ finita, è molto più che essere o fatto dato, vale a fortiori per la Quoddità; resistere alla tentazione della "cosa" è riconoscere che il

15 Enn., V, 5, 9; Parmenide, 138 b: ouK d.pa eo-"tiv rcou 'tÒ ev; Giovanni CRISOSTO­ MO 705 e: rcav"to:x,où rcapeìvm. 16 ERM., Trattato, V, 10. San Giovanni CRISOSTOMO citaSal., 138, 8. Cfr. Enn., VI,

8, 18.

17 Enn., V, 5, 8. 18 Enn., V, 5, 8; VI, 9, 4. 19 Les Dieux, IV, 1, pp. 198-200.

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Quod è al contempo fuori e dentro,20 che il quod è nescioquid. La Quoddità, che è non soltanto Non-so-che e Non-so-dove, ma an­ che Nessuno-sa-che né mai-saprà-che la suprema Quoddità è, come l'anima o la libertà, una specie di charme; è il Thauma e la deludente, evanescente meraviglia di onnipresenza, e attribuisce un nuovo senso alla venerabile sentenza dell'Etica Nicomachea: nclv,;a, yàp cpt'.lcret txet n 0eìov. Ogni cosa ha per natura un non so che di divino. La scienza quodditativa dell'ipseità non è conoscenza ontosco­ pica dell'Assoluto, bensì semi-scienza come lo è la scienza quid­ ditativa, quantunque su un altro piano e su un tutt'altro ordine: si è infatti mostrato come la scienza del quod e quella del quid non siano sorelle gemelle, le due metà omologhe e comparabili di un'unica gnosi. .. A dire il vero, e per amore di completezza, sono non due, ma tre ordini di semi-scienza a dover essere distinti: la percezione empirica e pratica, che è scienza quidditativa delle cose, cioè dei corpi o delle sostanze designate da sostantivi; l'intel­ lezione metempirica, che è scienza quidditativa non più delle cose materiali, ma delle relazioni formali, rapporti essenziali e verità intelligibili; infine l'intuizione metalogica, che è la sola a essere autenticamente quodditativa. La prima è a malapena semi-scienza e sarebbe forse meglio definirla quarto-di-scienza, o molto sem­ plicemente nescienza pretenziosa, perché è la doxa degli uomini d'affari e degli uomini dell'intervallo che si affrettano, negoziano, trafficano ... , "s'indaffarano" nell'intermezzo [entre-deux] degli estremi, spettri o manichini piuttosto che uomini: i loro sostantivi non sono che aggettivi fantasmatici; la loro positività concreta è un sogno, 6va.p, e la loro serietà un gioco; in definitiva, gli in­ teressi che li agitano somigliano ai giochi d'ombre ( O"K'.taypacpi.a, O"Ktaµa.xi.a) che agitano i patetici prigionieri della Caverna; idoli di idoli e icone di icone, e nemmeno marionette, ma ombre di ma­ rionette, e non soltanto il suono della loro voce, ma l' eco di questo suono, - tale è l'esponente irrisorio dei simulacri che occupano questi personaggi impagliati. La ragione seconda sa ugualmente il quid e non il quod, perché per quanto deviante dalla cosa, la 20

PASCAL,

fr. 465.

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sua indifferenza all'intuizione dell'effettività la trattiene sul piano della necessità che è, lungi da ogni origine radicale, il piano del già-qui e dell'immanenza immemoriale o sempiterna. L'intuizione, invece, sa il quod senza il quid: cosicché sè la scienza terza è quella della Cosa e la scienza seconda quella della Relazione, si dovrebbe dire che la scienza prima è quella dell'Atto. Bergson ha sempre considerato l'intuizione come eccezionale: sarebbe forse un po' ottimista l'ammettere come regime normale della conoscenza me­ tafisica un'intuizione in grado di sintetizzare l'istinto categorico e l'intelligenza ipotetica, in grado di riconciliare Trovare e Cercare: non soltanto perché nell'intelligenza si confonderebbero così la percezione del senso comune e la scienza metempirica delle rela­ zioni, cioè le nostre scienze terza e seconda, non soltanto perché l'istinto è una forma assai grossolana, più ontica che gnostica, del­ la nostra scienza quodditativa, ma soprattutto perché l'intuizione non è mai uno "stato". In realtà, l'intuizionismo mente sull'intu­ izione come il misticismo mente sul mistero: quel che è votato al fiasco è una sistematologia della gnosi evanescente promossa al rango di conoscenza regolare: non vi sono intuitivi di professio­ ne più di quanto vi siano virtuosi di professione o charmeurs di professione; il visionario specializzato è, come il fariseo, un ciar­ latano o un buffone ... La sintesi delle tre conoscenze, percezio­ ne, intellezione e intuizione, e più in particolare la sintesi del quid e del quod, sarebbe la gnosi angelica stessa, e questa gnosi ci è irrimediabilmente preclusa; chi fosse in grado di congiungere le due semi-gnosi disgiunte, conoscendo al contempo l'effettività e la natura dell'effettivo, otterrebbe senza dubbio l'impossibile, la sovrumana, l'irraggiungibile scienza che Clemente Alessandrino concedeva al suo "gnostico". Ma, ahimè l, i nettari del delirio non sono qui il nostro caso ... La scienza quodditativa non è una gnosi, ma solo una metà della gnosi; e la legge dell'alternativa, che non ci rivela il quod se non nascondendoci il quid, e non ci spiega il quid se non nascondendoci il quod, per l'intuizione come per l'intelle­ zione. Anche nell'intuizione scegliamo ancora: ma, senza dubbio, scegliamo la parte migliore: 'tÌlV àyaenv µi::ptèì a ... 21 21

[Luca, 10, 42, NdT].

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III. -Il comparativo-superlativo L'ipseità, essendo presagita nel suo quod, appare innanzitutto al di là di ogni concezione attuale. Se si sapesse non soltanto "quod sit", ma anche "quid sit", "ubi sit" e "quomodo", l'ipseità ritorne­ rebbe superlativo in atto e assoluto della gnosi arcangelica; e noi ricadremmo - se si tratta del nescioquid - nell'impostura dello scire: è il caso di Swedenborg, il professionista delle visioni, quando de­ scrive senza battere ciglio le plaghe del cielo e le dimore degli ange­ li. . . È il caso di ripetere che una scienza quidditativa della pura posizione posizionale è una pedantesca assurdità? niente è più tri­ vialmente contrario alla serietà metafisica della quiddificazione del quod, dei racconti dettagliati e circostanziati di un'intravisione di cui nessun uomo fu mai il visionario. È come domandarsi, per par­ lare con Fénelon, se la Vergine Maria fosse bionda o bruna! L'ipsei­ tà non è mai reificabile, eppure deve profilarvisi una specie di asso­ luto, essendo la sola effettività autenticamente fondatrice. O, più semplicemente: se l'empiria è comparativo indefinito e la metempi­ ria superlativo assolutamente determinato, l'intuizione metalogica appare, di primo acchito, come oscillazione dialettica infinita tra comparativo e superlativo. Innanzitutto, il superlativo-comparativo iperbolico, il cui limite è l'Assoluto, non è infinito nel senso dell'A­ peiron platonico, che è l'ordine del Più (µ· 'tÒ 6è ai.'ttov ob � cit'tl.Cl.'tC\l. Tb 6è 1tciV'tcov ob6év Èo"ttv È11:etvcov [il pensiero non pensa, ma è causa del pensare per altri. Ma la causa non si identifica col causato; eppure, la causa di tutte le cose non è nessuna di esse]. Cfr. VI, 9, 3: YEVV11'ttK'Ì'J, +i 'tOU tvoç ; e come questa lpseità, infine, è in se stessa posizione, così è la creazione in gene­ rale a dover essere detta atopica. La creazione non è dunque una traslazione da altrove in altrove più di quanto non sia una trasfor­ mazione da altro in altro; e poiché il "trans" evoca irresistibilmen­ te la topologia della trasmigrazione e del paese sotterraneo, la creazione esclude al contempo qualsiasi metabole e qualsiasi me246

tabasi. È proprio quel che Platone dice dell'Uno39 nel Parmenide. L'essere creato non proviene quindi da qualche parte e nemmeno da un Nessun-dove ipostatizzato che sarebbe, sull'esempio del ne­ scioquid ipostatizzato, qualcosa come un regno del Nusquam (Mll­ fo,µou): propriamente parlando, non proviene affatto... Non che sia già qui! Per niente: bisognerebbe dire piuttosto che un bel gior­ no si trova qui, senza mai essere arrivato. "Et lux facta est". Quan­ do, nell'empiria, il passaggio dal Fiat al Factum-est si compie all'i­ stante, senza transizioni, lo spettatore grida al gioco di prestigio, perché sa bene che gli si nasconde qualcosa: nessuna creatura ha il dono dell'ubiquità e può sfuggire alla maledizione del processo, del trasloco e dello spostamento; i mediatori sono semplicemente ca­ muffati per dare l'illusione della fantasmagoria. Se la successione del Fiat (yEvll0iJ'tw) e del Factum-est (eyÉ.VE'to) è un gioco di presti­ gio nell'ordine empirico, è invece un prodigio nell'ordine metafisi­ co. L'atto non è situato, è esso stesso a situare: 40 non localizzato, localizza ciò che fa essere, è avvento del Luogo; a partire dall'inizia­ tiva atopica vi sarà topografia, movimento e collocazione distribu­ tiva delle esistenze nello spazio. Anche da questo punto di vista l'atto è generoso, perché dona ciò che non ha, a differenza dell'ani­ ma umana, nescioquid relativo che, sia pure non localizzabile (la memoria ne testimonia), è almeno generalmente solidale con un corpo, con un organo cerebrale e con una presenza carnale, cioè con un'esistenza fisica. Così, se è possibile dire che la creazione esclude qualità e quantità, oppure che è al contempo cambiamento assoluto di qualità e accrescimento assoluto di quantità, è altrettan­ to possibile dire che la creazione è un atto extra-spaziale o un atto onnipresente: Dappertutto e Da nessuna parte sono la stessa cosa. - L'esclusione del tempo, infine e soprattutto, è implicita in tutte le altre, essendo il tempo la dimensione comune agli accrescimenti, alle trasformazioni e alle traslazioni. Il movimento, l'alterazione e

39 Parmenide, 162 e: Et µ118aµoù yé EO"tt 'tOOV ovi:oov, cbç ouK l'.:o-i:w e\1tep µri l'.:o-i:tv, oulì' &.v µe0io-i:ano no0év not [non è in nessun luogo tra le cose che sono, dal momento che non è non può nemmeno spostarsi da un luogo a un altro]. Cfr. 138 a: oulìaµoù àv e\11 (. .. ) [... ] 40 Enn., VI, 9, 6:\lìpuew. Dall'Uno, 6yKoç ù1tÉcr'trJ 't61toç e bcix811. Cfr. VI, 9, 3.

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l'aumento richiedono tempo: la rinuncia all'assoluta repentinità, cioè all'onnipresenza che è negazione del luogo, e alla simultaneità, che è negazione del processo, non è forse il segno della nostra fini­ tezza creaturale? La fatalità del tempo è inclusa nella mediazione discorsiva, nell'aspettativa e nel lavoro. Il passaggio da un quantum a un quantum maggiore, da un quale a un quale eterogeneo, insom­ ma da un ibi a un alibi, questo triplo passaggio è non soltanto tran­ sizionale, ma laborioso; attendere, lavorare, plasmare sono dunque le forme concretamente vissute in cui la creatura finita diviene, la durata dura, l'intervallo continua. La creazione sarebbe, al limite, la sospensione di questa naturalità o relatività empirica e prosaica che ci costringe a passare "per gradus debitos" senza bruciare alcuna tappa. È ciò che apparirebbe inoltre se si volesse a ogni costo tra­ scrivere il prodigio creativo nel linguaggio categoriale: per passare non soltanto dall'assenza di ogni forma a una forma qualsiasi, né dal piccolo al grande, ma da niente (da assolutamente niente) a qualcosa in generale, per estrarre un essere non da altrove, nemme­ no da un Nessun-Dove mitologico, per lontano o distante che sia, ma dall'inesistenza assoluta; per porre un essere e, al contempo, porre il luogo di quest'essere, occorrerebbe un lavoro infinito (se si trattasse di lavoro), e questo lavoro infinito richiederebbe un tem­ po infinito. Gli sforzi erculei dell'intervallo non sono che un passa­ tempo al cospetto di questo compito vertiginoso! Un lavoro infini­ to non è nemmeno più un "lavoro"; anzi, a queste condizioni sareb­ be forse più facile confessare che ciò che dura un tempo infinito si attua altrettanto bene repentinamente. Se il compito creatore aves­ se come materia un quantum minuscolo o una forma indeterminata o un essere lontano, si occuperebbe sia di quantificare lo zero, qua­ lificare l'informe e localizzare e presentificare l'assente; la "poiesis" non sarebbe altro che un semplice processo partitivo di costruzio­ ne, qualcosa come l'elaborazione di un manufatto. Ora, il proprio della creazione (per definizione) è creare la materia stessa da elabo­ rare, e di crearla già elaborata: l'atto posizionale, pertanto, agisce inizialmente nel vuoto integrale di ogni materia e nel nulla di ogni essere creatore. Ciò che "coesiste" all'atto assoluto non è quindi né poco né molto, ma niente: assolutamente niente, e non la possibilità di qualcosa, il nudo ricettacolo capace di ricevere le forme. Il limite dell'assenza, il limite dell'amorfismo e il limite della nullità si con248

fondono con l'inesistenza assoluta. Qui tutto è da fare. Qui l'atto non si trova, come un architetto, di fronte a un problema che biso­ gna semplicemente sgrossare, essendo già stata fatta la parte genia­ le e prodigiosa del compito, ma non per l'appunto la parte laborio­ sa: il genio (e l'Atto non è forse la genialità elementare?) inventa lui stesso il problema e, ponendolo, nello stesso tempo lo risolve. Se un processo non può che essere unilaterale, come potrebbe la creazio­ ne non essere onnilaterale, dato che pone l'essere qualificato, quan­ tificato e localizzato (il quantum che è volume implicando l'occupa­ zione di un luogo nello spazio), dato che pone, in sintesi, l'essere completo di tutte le coordinate cronologiche e topologiche? Palla­ de, nata adulta, tutta equipaggiata e in pieno ordine di marcia dalla testa di suo padre, non nasce di una nascita più geniale dell'essere prodigiosamente posto dalla primissima invenzione della primissi­ ma prevenzione.

VII. L'operazione assoluta risiede nel mznzmo-essere dell'Istante Tutte le categorie si annullano e in qualche modo si condensano nel nucleo dell'istante. Quando avviene il cambiamento, "n:6't'ouv µEmj)ciÀÀEl", si chiede Platone discutendo la terza ipotesi del Par­ menide; e risponde che questo sconcertante non-so-che 't6'tE ... O'tE al quale non si fa mai caso non può essere localizzato nei participi statici (ecr't6ç, KtvouµEvov ... ) dello stato anteriore o del fatto com­ piuto. L'inafferrabile costituito dall'indivisione dell'Eç [da] e dell'E'1ç [in] è al contempo fuori luogo (awn:ov) e fuori tempo (!::v xp6vq> OÙòEvi). L'istante non è né l'Essere (poiché lo previene) né questo o quell'essere caratterizzabile; ma non è nemmeno non-esse­ re (come potrebbe il non-essere iniziare a essere autonomamen­ te?) ... Che dico? non "è" nemmeno il Fare, né è propriamente par­ lando Più-che-essere, Altro-che-essere! Né è né non è 41 - ciò signi­ fica che accade o avviene. Advenit, evenit, praevenit -, e la preve-li

Parmenide, 157 a: oui:E fon (. .. ) oui:E oùK 1:crn [né è né non è]. 156 e: àµqié,:i;pa [entrambe le cose] (e: &µa). L'i;çcdq>vT]ç [repentinamente]: 156 e, d.

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nienza significa qui che questo evento o avvento è innanzitutto un sopraggiungere iniziale. Venire è al contempo essere e non essere o (se si preferisce il neutrum all' utrumque) non è né essere né non essere: né l'essere né il non-essere si predicano del Far-essere, e il predicato ontologico è inadeguato quanto la predicazione copulati­ va. L'istante è, almeno per l'uomo, la "durata" intemporale o su­ pra-temporale del Far-essere miracoloso che, sviluppato, esplicita­ to, raccontato discorsivamente, richiederebbe un tempo infinito. A viaggio infinito, racconti interminabili. Ora, quale altro viaggio può essere paragonato a questo volo rapido come il lampo, a questo trasporto immobile, cominciato a partire da un niente che al con­ tempo è nullità, nessun-dove e nessun-essere, alla traversata per cui partenza e arrivo coincidono? Un'autobiografia esaustiva e circo­ stanziata, che non omettesse nessuno degli innumerevoli dettagli della continuità vissuta, sembrerebbe povera cosa rispetto a quest'avventura; e tuttavia basta il miliardesimo di un battito di ci­ glia per attraversarne la distanza, e basta una semplicissima intui­ zione per vivere e comprendere dall'interno ciò che secoli di narra­ zioni e di storiografia non basterebbero a spiegare; insomma, quale che sia l'infinita complicazione dell'organo visivo, basta aprire gli occhi affinché si effettui la visione.42 Allo stesso modo, Achille di­ vora in un boccone le innumerevoli mediazioni che lo separano dalla tartaruga; Achille si slancia ... e inghiotte l'infinito. L'istante è il punto-vertigine in cui tempo e spazio coincidono, in cui qualità e quantità appaiono l'una nell'altra, in cui forma e materia si confon­ dono, in cui la relazione stessa si riduce fino a non essere che un unico assoluto. La creazione risiede nell'istante, o meglio (dato che l'istante non è, se non per modo di dire, una brevissima durata, un intervallo infinitesimale in cui la creazione potrebbe aver luogo) la creazione è interamente l'istante stesso, e, viceversa, l'istante per eccellenza è l'istante creatore e posizionale; in questo senso l'Istan­ te si oppone al Divenire e all'Essere, che sono le due varianti dell'Intervallo: il divenire, ovvero la continuazione di istanti virtua­ li all'infinito, ma istanti diluiti e dilatati, più promotori che creatori, più propulsivi che tetici; l'essere, ovvero il congelamento dell'Istan-

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Henri BERGSON, L'Évolution créatrice.

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te primordiale definitivamente irrigidito e raffreddato in Cosa. Or­ mai disponiamo di ciò che un dogmatismo sarebbe certamente ten­ tato di definire i tre principi della metafisica: l'Istante tra il Niente e l'Essere; a seconda che si vogliano fissare le idee in un senso o nell'altro (perché in nessun caso il nostro linguaggio schiumoso, tagliato a misura delle cose, è adatto a esprimere la finezza sottilis­ sima e infinitesimale del quasi-nihi[), si chiamerà l'istante Quasi­ niente o Quasi-essere: quasi-essere in quanto emerge nell'essere abbandonando il non-essere, quasi-niente in quanto la scintilla si spegne, quasi-essere in quanto, per il fatto stesso di spegnersi, essa si accende. Ma, a rigore, l'istante non è né l'uno né l'altro. Il Quasi­ niente non è un minimo-essere né un essere minimale; il quasi-nihil non è un minuscolo aliquid: non è per esempio quel minimo d'esse­ re, quell'ultimo ridotto con cui lo pseudo-creazionismo ci riporta alla filosofia dei tre arpenti; il quasi-niente non si ottiene, come l'essere minimale, tramite un'estenuazione o rarefazione dell'esse­ re: un essere minimale, sia pure indefinitamente ridotto, è ancora "dell'essere", mentre il quasi-niente appartiene a un altro ordine rispetto all'essere. Il quasi-niente non è il risultato di un'usura pro­ gressiva, di una minimizzazione o compressione dell'essere, ma nemmeno risulta da un'abolizione troppo brusca il cui termine sa­ rebbe il Niente puro e semplice. Viceversa, il quasi-essere non sboccia miracolosamente al termine di un'inflazione del niente; il niente non diviene qualcosa a forza di ingrassare; un niente indefi­ nitamente gonfiato resterà niente fino alla fine dei tempi. Zero più zero uguale zero. Un'inflazione o deflazione indefinita è sempre un parto dello stesso ordine: l'altro ordine risulta, all'infinito, da un repentino passaggio al limite; l'istante designa così la soglia inaffer­ rabile in cui l'essere cessa di essere qualcosa e il niente cessa di es­ sere niente, in cui ogni contraddittorio è sul punto di, o addirittura in procinto di divenire il suo stesso contraddittorio. O piuttosto, come l'istante non è né un essere sgonfiato né un non-essere soffia­ to o rigonfio, ciò non toglie che sia fin dall'inizio il presente inattin­ gibile di questa cessazione-avvento e di questo avvento-cessazione. Il quasi-niente che per ciò stesso è "quasi qualcosa" o quasi-essere è quindi raddoppiamento e istanza: un po' come la creatura, secondo Pascal, è niente rispetto all'essere e tutto rispetto al niente; ciò che, nella lettura negativa, esiste appena, appare, nella lettura positiva, 251

come quasi esistente, cioè come emergente o insorgente dal niente. Nascente o morente, non è il minimo-essere di un decrescendo sca­ lare, ma mistero d'insorgenza nell'invisibile tenebra o, come il pia­ nissimo di Debussy, nel silenzio inudibile. Non bisogna avere la mano troppo pesante se si vuole toccare questa soglia senza cadere nel Niente né restando nell'Essere! Occorre, al contrario, un gioco di mano [tour de main] sovrannaturale e una leggerezza imponde­ rabile di "maniera". Tuttavia, nell'awerbio Quasi permane una sfumatura di dogmatismo o di sostanzialismo antico un po' offensi­ va per l'instante: "Quasi" sottintende che l'Esse resti la vocazione universale e il sistema di riferimento che distribuisce il successo e lo scacco, la creatura vitale e l'aborto. Precisiamo perciò che il Quasi serve qui a fissare le idee e che l'istante è il Terzo termine che tutta­ via è Primo: da esso bisogna cominciare! Il Quasi-niente non è er­ rore o approssimazione di Qualcosa, il Quasi-essere non è un Esse­ re mancato: è piuttosto l'Essere a configurarsi come Istante diluito e stemperamento dell'atto posizionale. Per rispettare questa natura "anceps" o "bifrons", al contempo essere e non-essere, quasi-esse­ re, il principio del terzo-escluso è irrazionalmente abrogato: perché tra il qualcosa e il niente c'è posto per il Non-so-che. L'istante non è in alcun modo essente, né poco né molto, e di conseguenza la creazione non è nell'istante, dato che l'inesse o essere-in smarrisce qui ogni senso preciso; e tuttavia l'istante non è un niente, poiché pone e poiché il fatto di porre, se non è cosa, è per lo meno qualco­ sa. Così la creazione non trova posto nell'istante, non essendo più cosa di lui; così il rapporto che quest'ultimo ha con la prima non è un rapporto da awolgente ad awolto ... Sarebbe più esatto dire che la creazione coincide con l'istante; che la sua quintessenza è istan­ tanea; che è istante operativo; o ancora che si realizza a partire dall'istante, cioè a partire da quest'atomo esplosivo, irradiante, che è ogni operazione e ogni "poesia". L'alternativa tra la cosa e il nulla - essendo il nulla il posto reso vacante dall'abolizione della cosa, e la cosa il buco virtuale colmato dall'essere-, l'alternativa tra il nul­ la e l'essente, abbiamo detto, è sospesa nell'istante, e per un istante è sospesa. Come potrebbero degli ultimatum come: la morte o la vita, la notte o il giorno, il non-essere o l'essere, avere ancora corso dal momento che l'istante non è né la frontiera o il taglio lineare di due continenti uniti, giustapposti l'uno ali' altro senza soluzione di 252

continuità, né uno stato-cuscinetto tra i due? Nel primo caso, i due imperi non sarebbero che un unico blocco diviso in due zone, poi­ ché il limite della prima, senza nessuna transizione, sarebbe l'inizio della seconda. Nell'altro caso, la transizione stessa formerebbe un terzo continente, che renderebbe necessarie due nuove transizio­ ni ... Non vi è che un solo inizio semplice e del tutto inaugurale: quello che è decisione puramente posizionale senza morfologia ot­ tica né spessore spaziale. Tutto ciò che ritiene in sé qualcosa dell'in­ tervallo o della reità costituita esige a sua volta una posizione che lo ponga! È il caso di ripeterlo: se la generosità consiste nel donare ciò che non si è, e se la creazione è uno slancio ardente di generosità, è nello scoppio e nell'innesco esplosivo dell'istante che si attesta la posizione più sovranamente generosa. L'atto squalificato e squanti­ ficato, o meglio inquantificabile e inqualificabile, cioè informe e nullo, dona la qualità e la quantità malgrado o proprio perché è nulla di qualità e zero di quantità; l'atto utopico localizza perché è esso stesso uno zero di luogo; l'atto assoluto dona l'intreccio delle relazioni perché è lui stesso irrelativo; e infine l'istante, che è zero di tempo e in generale zero di qualsiasi cosa, luogo, qualità, quanti­ tà ... , l'istante che è zero di tutto pone il tempo e con esso l'essere completo di ogni dimensione ontica nella sua stessa effettività. Ben di più: l'informe stesso pone le forme, la nullità le grandezze e l'as­ senza assoluta i luoghi, proprio perché sono inesistenza al pari dell'istante. Il punto è negazione dello spazio, ma è posizione nello spazio, cioè posizione di luogo: risposta formale alla domanda Ubi e pura determinazione del Da-qualche-parte. Il momento è nega­ zione del tempo, ma è posizione nel tempo, cioè posizione della data. Il momento, del resto, nega il punto che a sua volta nega lo spazio ed è quindi al contempo negazione dello spazio e della posi­ zione nello spazio; se il punto è il quasi-spaziale, il momento, che è la più breve continuazione possibile, appare come minimo interval­ lo o durata minimale. L'istante, a sua volta, è negazione del punto e del momento, cioè al contempo negazione dello spazio-tempo e negazione della posizione nello spazio e nel tempo: l'istante soppri­ me tutte le dimensioni del vissuto, così come il punto annulla tutte le dimensioni spaziali (non una dimensione su tre, come il piano, né due su tre, come la linea, ma tre su tre). L'istante è un punto che arretra all'infinito e che non è più "da nessuna parte". L'abolizione 253

delle dimensioni trascende l'empiria a vantaggio di un "altro ordine", che è ideale, metempirico e geometrico: l'abolizione della localizzazione geometrica, a sua volta, trascende la semplicità dell'altro-ordine a vantaggio di un "totalmente-altro-ordine" infini­ tamente semplice. Ciò che non ha nessuna continuazione, foss'an­ che brevissima, e nessuna estensione, foss'anche microscopica, non è il momento nel quale l'evento accade, ma l'evento stesso come non-tempo. Più la negazione dello spazio tende verso il punto, che è minima spazialità, spazialità minimale o infinitesimale, più la loca­ lizzazione è precisa e preciso il riferimento. Ma questa negazione è doppiamente partitiva: negando lo spazio senza negare il luogo, il punto è una macchia ancora troppo approssimativa al cospetto del­ la sottilissima punta dell'istante; d'altra parte, essa nega lo spazio senza interferire col tempo, come lo zero nega la quantità senza interferire con la qualità, e conserva così qualcosa della res constitu­ ta. Dunque il punto è ancora nullità inattiva, negazione pigra: non è il punto, ma il movimento del punto a generare la linea, così come non è lo zero, ma il fatto di contare a generare i numeri. Non si dà perciò posizione assolutamente creatrice che attraverso e nell'istan­ te; perché essendo negazione superlativa e nulla di negazioni parti­ tive, esso è contraddittoriamente e incomprensibilmente posizione. Il punto è nulla di spazio, ma la sottilissima punta è nulla posizio­ nale; e non basta dire che è il più striminzito di tutti i non-essere e il meno ostacolato dalla sua "natura", il meno ingombro di conte­ nuti e bagagli: perché non è più nient'altro che il fatto stesso di porre, atto puro e dono totale! Il nulla posizionale non crea "a for­ tiori", vuotando il sacco dei suoi tesori nascosti, ma a più debole ragione e miracolosamente: l' "a fortiorismo" non è infatti altro che la legge conservatrice e fisico-prosaica della più forte ragione, men­ tre la più debole ragione è il miracolo creativo del generoso Quasi­ niente. L'istante non ci dona la storia, lo spazio e tutto il resto al fine di pensarlo - esso ucronico e utopico, sovratemporale e transspaziale - nei recitativi del tempo e del discorso, simili regali sarebbero ben miseri regali! Tutti questi doni esso li prodiga a noi forse per finta e perché si comprenda che lui stesso è tutt'altra cosa ... Lui-stesso! Ma noi forse ci preoccupiamo di ciò che è lui stesso in quanto lui stesso? La grossolana e crassa esperienza, inca­ pace di una tangenza reale con l'ipseità del Quasi-niente, preferisce

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accanirsi stupidamente sugli antecedenti e i conseguenti; o meglio, per quanto disserti sul prima o sul dopo, sui prodromi o sui con­ traccolpi, l'intelligenza naturalmente retrospettiva, retrograda e tardigrada arriva sempre troppo tardi. La dignità della celebrazione non risiede forse nel meccanismo ritardante che ci libera dall'istan­ taneità riflessa e dalle improvvisazioni emozionali, così che il "tem­ po di reazione", anziché lo stigma della nostra inerzia, diventi la condizione del nostro tempo liberato [lozsir]? Ma perché, ahinoi, la facoltà di attendere deve avere come riscatto una rinuncia alla veri­ tà flagrante, o, viceversa, perché l'estemporaneità e la contempora­ neità devono essere il regime di una mens momentanea costretta a improvvisare la sua risposta? Comunque sia, si è detto che il mec­ canismo ritardante sarà all'origine di una conoscenza ritardataria. Questa funzione postuma del conoscere è verificabile già in corso d'intervallo: filosofare sulla creazione estetica è necessariamente ri­ flettere a posteriori sui prodotti e i sottoprodotti della creazione, in altri termini sulla creatura: come nessun genio, per geniale che sia, è creatore ante litteram e semplicemente a parole, così il testimone preso alla sprovvista, il testimone sorpreso inavvertitamente dall'i­ stante inafferrabile dell'operatio, è ridotto a ripiegare sull'opus ope­ ratum se vuole filosofare a mente fredda; troppo ottuso per l'intui­ zione acrobatica dell'operazione, il conoscente preferisce interpre­ tare i suoi ricordi di operante o individuare nell'opera, cioè nell'o­ pera già "operata", non so quale messaggio immaginario: il testimo­ ne non è a proprio agio se non quando può discorrere sui segni precursori della posizione o descrivere la morfologia della cosa deposta. La deludente metafisica e la deludente estetica, che si af­ faccendano intorno ad aggettivi, hanno ben altre preoccupazioni che l'ipseità! Resteremo quindi a bocca asciutta. E non soltanto non si è mai contemporanei alla creazione degli altri, ma il creatore stesso non è più in grado di comprendere ciò che ha fatto mentre faceva: preferirà senza dubbio raccontare un pettegolezzo, empiri­ cizzare il proprio mistero o ricostruire a posteriori una versione pomposa e prolissa dell'inenarrabile. Che beffa che il soggetto stes­ so, nella misura in cui è cosciente della propria creazione, non pos­ sa essere contemporaneo di sé! Il testimone delle creazioni in corso d'intervallo, incapace di cogliere la posizione sul fatto, la descrive a posteriori o ne ricostituisce a priori i sedicenti prodromi: ma se 255

descrivere a posteriori è opera di una conoscenza ritardataria, rico­ struire a priori è opera di una conoscenza retrospettiva: profezia o storia antica, in entrambi i casi la nostra scienza è conseguente e susseguente. Per lo meno lo storico può, personalmente e cronolo­ gicamente, preesistere a una creazione della quale non conoscerà che a posteriori il senso creatore. Ma la creazione delle creazioni, la creazione al contempo istoriotetica e anistorica, rispetto alle crea­ zioni subalterne nel corso della storia, è una creazione senza data di cui nessuno, nemmeno sul calendario, è mai stato contemporaneo; qui il Durante è sempre e fatalmente un Dopo; qui la secondarietà delle nostre reazioni, riproduzioni o risentimenti non riguarda più soltanto la lentezza costituzionale e fisiologica del sistema nervoso: è, per definizione, l'inversione speculare di un primato radicale; infatti l'Iniziativa preveniente è assolutamente iniziale perché in essa il passato non è mai stato presente! L'intera cosmogonia non è posteriore all'istante immemoriale? In qualsiasi momento si arrivi, la decisione è già decisa, il decreto decretato, la volontà voluta, il fiat posto come /actum; della prevenzione non conosceremo mai nient'altro che la posterità o ulteriorità; così il dono, originariamen­ te datio o donazione, ci apparirà come dato o datum; dell'amore, il grezzo non conserva che i doni. Non basta dunque un'acrobazia intuitiva per sorprendere volteggiando e di passaggio, cioè sul vivo, sul momento o all'istante [sur-le-champ], ciò che è eccessivamente rapido per essere oggetto di un resoconto e persino di un'improv­ visazione: occorre, al di fuori di ogni sincronismo, una riposizione simpatetica della posizione. Mano mano che vediamo il mistero creativo, nell'istante, raffi­ narsi in punta acutissima, esso tende a confondersi col mistero della morte: perché due quasi-niente senza morfologia, eterogeneità dif­ ferenziale e diversità di parti sono indiscernibilmente un medesimo quasi-niente, una medesima scintilla in cui abbiamo mostrato come nascita e morte coincidano, come accendersi e spegnersi non siano che due punti di vista su un unico non-so-che. È l'intenzione o ten­ denza, e la sola direzione a distinguere istante natale e istante letale o, se si tratta del punto ontico-meontico, origine dell'essere e fine dell'essere: nella morte, l'essere punta al non-essere attraverso il quasi-non-essere o, se si preferisce, il Qualcosa sprofonda nel Nihil attraverso l'insecabile Quasi-nihil della nichilizzazione; e nella crea-

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zione è il Niente a raggiungere l'Essere attraverso l'istante del Qua­ si-essere. Quasi-essere e quasi-non-essere, essendo due punti senza contenuto, sono senza dubbio la stessa cosa e si confondono in un unico punto, ma quest'istante indivisibile designa due direzioni contrarie a seconda che si tratti della fine o dell'inizio. Allo stesso modo, vi è un momento in cui la quantità di luce è uguale durante l'alba e durante il crepusculo; e tuttavia un non-so-che, un'indefi­ nibile qualità della luce, una certa disposizione umorale dell'intra­ visione ci avvertono che questo momento nel primo caso è posi­ zione e nascita, mentre nel secondo è l'altra "punta" del giorno, la punta di un giorno sul punto di disfarsi: cosicché la coscienza di un colpo d'occhio, se anche ignorasse tutto del sorgere o tramontare del sole, dovrebbe leggere intuitivamente in questo squarcio sottile l'aurora in procinto di spuntare o la notte incipiente. Non si pos­ sono pensare nichilizzazione e creazione che tramite un "pensiero" impari e dissimmetrico, un impossibile pensiero instabile senza al­ terità e un impossibile relazione senza correlato - che questo cor­ relato sia attuale o virtuale, espresso o sottinteso. Tuttavia le due impossibilità non sono equivalenti, dato che l'ordine del vuoto e del pieno inverte nell'uno ciò che è nell'altro: nella creazione, il cor­ relato spaiato è secondo mentre è primo nella nichilizzazione; nella nichilizzazione, il nihil è secondo mentre è primo nella creazione. I due movimenti di pensiero cercano necessariamente appigli sulla terraferma dell'essere, partono necessariamente dal continente in­ termedio tra i due vuoti: ma la morte annichila un già-qui, e la fine del mondo annichila un mondo già dato - cosicché il pensiero del­ la nichilizzazione parte direttamente dal già-dato. Il pensiero della creazione, al contrario, deve rappresentarsi in primo luogo l'essere nichilizzato e tentare poi di sorprendere l'emergenza di qualcosa dal niente: procede quindi dall'essere ali' essere passando per il niente, dall'essere in quanto va-da-sé e cosa posta all'essere fondato da una decisione gratuita, passando per questa puntualità che è allo stesso tempo estinzione di tutto e punto d'alba, morte e nascita, cessazione-insorgenza, insomma scintilla! Il pensiero della creazio­ ne suppone in tal modo due enormi sforzi anziché uno - ma questi due sforzi non sono i due momenti cronologicamente successivi di una mediazione: questo doppio movimento, che abbiamo dovuto analizzare, compone nell'istante una vibrazione intuitiva semplice

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e un solo battito in cui abolizione di tutto e avvento di tutto non sono che il negativo e il positivo di uno stesso atto; la negazione che è riposizione spegne l'elettricità ... e allo stesso tempo "lux facta est". Perdere tutto è ritrovare tutto. L'immaginazione fa dapprima piazza pulita o tabula rasa per poi ricostruire, e queste due opera­ zioni si succedono perché, essendo decomposizione e costruzione empiriche in corso d'intervallo, sono entrambe relative e partitive. Laddove, invece, la nichilizzazione è radicale, la creazione stessa non può che essere metafisica: essa è allora il recto di questo ver­ so, e il nulla dinamico in cui germina repentina l'esistenza. Come potrebbe la morte non essere una fonte inesauribile di perplessità, dato che realizza ogni giorno in forma partitiva, nichilizzando la persona, la prima metà del mistero posizionale? perché la posizio­ ne, senza questo vuoto di partenza, non sarebbe che riempimento di una semi-pienezza preesistente ... Il mistero creativo non è tuttavia il semplice raddrizzamento di un mistero capovolto che, sotto il nome di Morte, ne sarebbe il simmetrico negativo: se la morte è inconcepibile, per lo meno è in­ contestabile, essendo assurdità empiricamente reale e impossibilità quotidianamente realizzata. Questa sfida alla ragione non sempli­ cemente immaginata, ma effettivamente eseguita, si può chiamare scandalo: lo scandalo di un impensabile che è un fatto empirico e un fenomeno naturale ... Pertanto, è tramite l'evidenza misteriosa della fine che si prende coscienza dell'inevidenza doppiamente mi­ steriosa delle origini. La realtà della negazione fonda la possibilità della posizione. Quanto a repentinità brutale e radicalità, nessuna discontinuità nella continuazione antica è comparabile alla mor­ te: la morte è la scomparsa dell'ipseità completa, mentre la nascita è la comparsa di un organismo incompleto e incosciente; così il miracolo positivo della nascita si riassorbe, tramite l'embriogenesi e l'ereditarietà, nella continuità della vita specifica, più di quan­ to il miracolo negativo della morte si lasci compensare da finzioni metaforiche o ellittiche di sopravvivenza ... Più la nostra lucidità aumenta, più le discontinuità dell'empiria si rivelano superficiali; l'approfondimento dell'esperienza precisa progressivamente una continuazione che non cessa di inghiottire e digerire le innovazioni apparenti, le brusche mutazioni, le generazioni spontanee e tutte le lacerazioni di un senso comune nella colata unica dell'esistenza 258

media; essendo tutto preparato, preformato, preceduto, il primato radicale del genio tende a sciogliersi; la tradizione e la trasmissione dissolvono l'iniziativa. Se la ricerca storica degli antecedenti, delle influenze e dei precursori ci immunizza dalla vertigine degli inizi radicali, non è perché venga sostituita con un iniziatore radicalissi­ mo! Il principio storico di conservazione e di riconduzione indefi­ nita smentiscono il mistero anistorico della posizione. Coscienza di coscienza e riflessione esponenziale, la metafisica di secondo grado si offre volentieri di rattoppare quest'Essere lacunoso che ricevia­ mo da un'empiria lacera come uno straccio: che le si sostituisca il blocco massivo e monolitico dell'Esti parmenideo o il tessuto arti­ colato delle relazioni legali, la metempiria, in entrambi i casi, ci pre­ clude l'accesso alla quoddità e mette a tacere ogni domanda sulla produzione o lo scopo. Non ci sono più fantasmi. Tuttavia la morte, fantasmagoria negativa, la morte, taumaturgia alla rovescia (poiché taumaturgia di soppressione e di cessazione anziché di produzio­ ne), la morte compromette il successo della cospirazione ontica che ha lo scopo di eludere il non-essere richiesto da qualsiasi creazione. Perché la morte è, almeno in miniatura e rispetto all'ipseità, la nul­ lità di essere che è il centro stesso in cui opera la creazione ... La posizione non ha forse bisogno di un vuoto da riempire, o, meglio ancora, del nulla per porre? Ma nel caso inverso, la morte fa risal­ tare la gratuità e la contingenza fondamentale dell'essere positivo che nichilizza. In tal modo il naufragio partitivo dell'essere rimette in questione la sua stessa emergenza, così accuratamente camuffata dalla filosofia della pienezza.

VIII. Il Fiat pone la possibilità dell'effettività La creazione è il solo mistero che è al contempo un miracolo; la creazione non è né istante nichilizzatore, come la morte, né sempli­ ce inizio, come l'iniziativa decisoria; a fortiori, essa non è, come le costruzioni empiriche, una nuova disposizione o trasposizione del­ le parti, ma pura posizione di esistenza. Avendo detto apofatica­ mente che questa posizione miracolosa è assolutamente fuori dalle categorie e che è istante indescrivibile e inenarrabile- indescrivibi­ le perché privo di volume e morfologia, inenarrabile perché privo

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di durata -, si sarà detto tutto quel che è umanamente possibile dirne. Precisiamo ancora: l'istante è mistero miracoloso perché è, repentinamente, posizione di essenza ed esistenza congiunte; porre l'essenza come esistente, e non porre l'esistenza che come essenzia­ le, questo è creare! Infatti la caratteristica peculiare del miracolo è di essere al contempo ousìaco e antico. Se la creazione creasse l'es­ sente (òv) senza al contempo creare l'essenza (oùota) dell'essente, il preteso miracolo non sarebbe che un prodigio pagano, un prodi­ gio di metamorfosi e trasmutazione: ma non è di certo la trasmuta­ zione minore di un modo di esistenza in un altro, come i prodigi mitologici, quanto la trasmutazione maggiore della possibilità nell'esistenza in generale. Se il creatore creasse l'esistenza senza creare la preesistenza essenziale all'esistenza, cioè se non creasse l'inessenziale, l'einai grezzo e triviale, il sedicente creatore sarebbe un semplice modellatore o costruttore, e ricadremmo, col Timeo, dal Fare al Plasmare [Façonner];43 dal poetico al tecnico e al plasti­ co, dalla genialità alla manifattura. La causa che produce (cioè porta alla luce) certi effetti conformemente a certe leggi, ma non decide delle leggi stesse e del determinismo generale, e non sceglie le co­ stanti che la legge implica, la paternità che procrea una progenie a condizione che qualcun altro abbia pre-creato il plasma germinativo necessario non solo alla produzione, ma alla "riproduzione", infine l'artigiano che realizza nella materia l'idea concepita dall'artista: tutti e tre imitano molto approssimativamente, e all'interno delle categorie empiriche della continuazione, della conservazione o dell'identità, una posizione di esistenza che non è posizione creatri­ ce se non perché è ipso facto posizione della possibilità dell'esisten­ za. Ogni produzione empirica presuppone un pre-essere che la precede e che è per l'appunto l'essenza: sia essa ritrovamento di un già-qui, fecondazione di un germe già dato, plasmazione di un caos informe, realizzazione di un'intuizione anteriore, attivazione o in­ nesco di energie latenti, non si tratta che di succedanei della crea­ zione. L'ape che secerne il miele non lo ha creato ex nihilo, ma lo ha estratto dal nettare dei fiori ... C'è un abisso tra l'Eureka creatu43 Ilotetv- 1tì..chi:etv [fare-plasmare]. Cfr. 28 a-e: à1tepyd.çecr9m, ànoi:eÀetcr9m, 'tEK'taivecr9at [portare a compimento, portare a termine, fabbricare].

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rale, che è scoperta, e la divina invenzione! Leibniz ha un bel desi­ gnare l'intelletto divino come la scatola delle meraviglie e delle ma­ lizie, la scatola delle idee geniali e l'emporio dei possibili della cre­ azione, non riesce in ogni caso a distinguerlo da un volgare Eure­ ka ... Il demiurgo del Timeo congiunge il cerchio dello Stesso e il cerchio dell'Altro, che trova già qui: ma come sono qui? e da quan­ do? e perché? perché due "generi" anziché cinque, come nel Sofi­ sta, o quattro, come nel Filebo? L'interesse di Platone per il mondo dei "modelli" prova che non vi è essere, secondo lui, al quale non preesista un pre-essere, non vi è "creazione" che non presupponga preschema, prefigura, prenozione o preconcezione. Quanto all'in­ venzione preveniente di questo stesso "Pre", non è un problema platonico. Ora, la preesistenza non preesiste alla prevenzione così come la prevenzione non previene la preesistenza; dei due modi di precedenza, la preesistente e la preveniente, è la precedenza preve­ niente a essere decisiva, perché è un atto pre-essenziale, e di conse­ guenza la prima e l'ultima parola di tutto, dopo la quale non resta che dire: bisogna fermarsi, àvctyic11 cr'tfìvm; preesistere non è co­ minciare, ma continuare a essere e a esistere indefinitamente mentre la prevenzione è una venuta, cioè un avvento, un evento e una fondazione. Questo Pre, che è il contrario di uno stato, non è forse la sola iniziativa eminentissima e letteralmente non anticipabi­ le? non è l'unica e autentica origo originum? 44 Platone dice corret­ tamente: la cosa più importante è incominciare dall'inizio naturale, µÉytcr'èov 1tcx.V'tòç &.�cx.cr0cn xcx.1:d umv à.PX,11v.45 Ora, è la Ge­ nesi, e non il Timeo o la Teogonia, a iniziare dall'inizio e a misurar­ si per davvero con il mistero dell'incoazione! Ecco perché il Crea­ tore della Genesi non estrae la luce reale dalla luce possibile, non porta all'atto la luce in potenza, non imbottisce essenze preesisten­ ti né si avvale di virtualità già date: ma crea al contempo e in un solo atto la luce effettiva degli astri e la possibilità della luce; crea nello stesso istante la luce fisica - quella del sole che fa il giorno, quella del lampo che lacera il firmamento della notte - e inventa l'idea stessa della luce ... È il caso di dirlo: bisognava pensarci! Ancora

44 45

GRUA, cit.,

I, p. 363.

Timeo, 29 b.

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meglio: Geova, creando, crea l'idea stessa del creare. Questa crea­ zione è posizione geniale e super-geniale, scaturigine tetica, im­ provvisazione simultanea dell'effettività e della possibilità di tale effettività. Il caos della Teogonia non pensa di' creare qualcosa, non decide46 che la luce sarà, e per di più all'improvviso, ma "genera" l'Erebo e la tenebrosa Notte che, a loro volta, genereranno il Gior­ no e l'Etere: non si tratta dell'apparizione miracolosa e geniale del­ la luce che, illuminando il vuoto (non vi sono ancora oggetti da il­ luminare), respinge allo stesso tempo le tenebre e divide il giorno dalla notte; è piuttosto la forza genesìaca [généstque] a trasmettersi, come un'eredità latente, senza decreti fragorosi, di generazione in generazione; progressivamente illuminate, le forme dell'essere si succedono genealogicamente, o meglio si concatenano spontanea­ mente sullo sfondo e sul sostrato del pre-essere. Se la prevenzione pura non attualizza virtualità inscritte en pointillé nel caos del pre­ essere, allo stesso modo non conferisce alle cose un valore preesi­ stente o ideale, che sarebbe un eterno già-qui: no, l'atto prevenien­ te crea il valore che dona, e non lo crea per donarlo, ma nel donarlo; conferisce qualcosa che non esisteva assolutamente prima di essere conferito, ma che si metterà a esistere nell'istante e per il fatto che lo conferisce: è quindi l'atto stesso del conferimento a essere crea­ zione, è la donazione stessa della cosa donata a essere posizione o improvvisazione pura di qualcosa da dare, restando inteso che non vi sarebbe niente da donare se non vi fosse il genio al contempo generoso e inventivo della donazione; questo genio inventa pro­ gressivamente ciò che conferisce, e lo prodiga col progredire della sua invenzione - perché se conservasse per sé ciò che crea, come un avaro, la sedicente creatura non sarebbe che proprietà o possesso, mentre la sedicente creazione non sarebbe che appropriazione o accaparramento di un avere preesistente, cosa possedibile, patri­ monio circolante o bene in sé; e se ricevesse da altrove o da altri ciò che dona, non farebbe che trasmettere e non sarebbe affatto gene­ roso, ma prodigo del bene altrui. Ora, il creatore è donatore, non distributore o ripartitore di ricompense in base a tariffe e percen­ tuali, colui che conferisce equamente decorazioni e dignità: il crea46 "Per voluntatem, direbbe san Tommaso, e non per necessitatem narurae».

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tore è fonte viva del valore e posizione valorizzante di tutti i valori, cioè produce il valore dei valori e il valore stesso del valore all'infi­ nito, facendo sì che in generale il valore abbia valore. È forse la ra­ gione per cui Plotino diceva dell'Uno che "precede il più prezio­ so", npò 1:ou i:tµwnchou ... : 47 perché è non solo preveniente ma giustificante, e come tale non ha bisogno di alcuna giustificazione. L'assoluto è ciò che rende valevole ogni valore, ed è per questo che ha tante affinità con l'amore; perché l'amore non è propriamente parlando il più prezioso dei "beni", l'amore è, con maggiore esat­ tezza, ciò senza cui nulla vale; l'amore inverte la buona creanza [bienséance] della precedenza [préséance] ontica secondo cui è l'a­ mabile a suscitare l'amore ... La creatura, seconda dappertutto, va­ luta, cioè stima o apprezza valori oggettivi che crede di individuare nella sfera intelligibile del diritto: l'iniziativa preveniente, invece, valorizza il valore, in altri termini lo fa "valere", "efficit ut valeat" e, al contempo, lo irradia nell'essere come normatività costituita; per la fonte irradiante inventare e prodigare sono infatti una cosa sola. Non si dà creazione che nella forma operativa del beneficio. Il/atto compiuto trae valore dal diritto, ma questo valore a sua volta ha la propria fonte nel se-facente sovrannaturale del primo fiat - o, se si preferisce: la norma santifica la forza, ma la norma stessa sboccia nell'effettività preveniente della prima decisione. Come la creazio­ ne esclude anche la possibilità degli antecedenti, così il genio si cura poco dei precedenti: il genio osa l'inaudito, l'inedito e l'inconcepibi­ le come se presagisse che la sua iniziativa diverrà, a posteriori, pre­ cedente per gli altri. "Osare" è contro-natura, poiché cominciare è l'atto avventuroso della sovranatura. Colui che, allo stesso tempo [du meme coup], crea l'essere e l'idea stessa dell'essere, avrà quindi, a posteriori [après coup], reso quest'essere possibile a fortiori: per­ ché è a posteriori e per mezzo di una ricostruzione retrospettiva che l'essere creato immette di sé, nel passato, un'idea di sé che è la sua possibilità, come se il creatore, seguendo un percorso inverso, fosse disceso dal possibile all'atto ... Le creazioni geniali in corso di con-

47 Enn., VI, 9, 5. Cfr. VI, 8, 18: (. .. ) ev 'tO Mov Kcù \-i 'tou lìéov'toç iòvÉpyEta (. .. ) 'tOU'tO ecr'ttv, 01tEp Òtov el3ouA17811 ai.l't6ç [ciò che deve essere e l'atto di ciò che deve essere sono una cosa sola, egli vuole ciò che deve]

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tinuazione verificano pienamente, a questo proposito, il nominali­ smo bergsoniano: la creazione, prima di essere effettiva, non era nemmeno "possibile", nel senso che nessuno ci avrebbe pensato e ne avrebbe avuto anche soltanto l'idea; è a pòsteriori - essendo il possibile, in questo caso, predizione al "futuro anteriore" - che il creatore avrà creato la sua opera in base a una legislazione ideale. È l'idea del possibile concettuale e il mito di un certo margine tra concetto e realtà che, trasformando la creazione in semplice irrigi­ dimento o condensazione del vuoto, buca e rarifica la pienezza vis­ suta. La creazione, in quanto posizione genialmente simultanea di essenza ed esistenza non smentisce, ma al contrario conferma la pienezza: l'intuizione bergsoniana, che fende a tratti il tetto dell'in­ tervallo, non è forse un omaggio all'improvvisazione preveniente? - L'intuizione di un creatore non solo dell'esistenza, ma della pree­ sistenza essenziale a questa esistenza, designa una volta di più, oltre tutti i pianeti, l'Ipse ipsissimus che è la nostra mira costante: Ecce creator ipse, ecco l'autore stesso, colui che è non soltanto soggetto puro, ma posizione pura e iniziativa assolutamente iniziale. Dio non è un vice-creatore incaricato di eseguire i piani del Creatore, nel nostro caso di confezionare il tipo di universo possibile che comporta il principio d'identità e il teorema di Pitagora; Dio non è il potere esecutivo e subalterno al servizio di un intelletto eterno che presagirebbe un mondo in cui A è A, in cui 1t vale 3,1416 e in cui il quadrato dell'ipotenusa è identico alla somma dei quadrati degli altri due lati, e proprio questa somma piuttosto che un'altra (potius quam!. .. ), piuttosto, per esempio, che leggermente di più o leggermente di meno; Dio non rafforza i concetti - "concepta" concepiti da un altro, non realizza i participi-passati-passivi del mondo intelligibile, ma è lui stesso a concepire, concipit; Dio non è incaricato di riscaldare piatti già cucinati e, nella fattispecie, di ispessire laboriosamente la perfezione o la quantità di essere, con­ fezionando con la crema troppo leggera della preesistenza la torta dell'esistenza, la torta architetturale del Cosmo; Dio non è insom­ ma il segretario di un demiurgo che si occupa di garantire i concet­ ti del padrone, di sgrossare idee già concepite e rimasticare ciò che è già stato masticato, di sviluppare, in poche parole, progetti prepa­ rati o di rispettare modelli prefabbricati ... Niente di tutto ciò! Dio è l'inventore stesso. Non vi è ipseità più geniale, causa più diretta, 264

più radicale, più efficiente. Rispetto a un simile istante operativo noi siamo, occorre ripeterlo?, come i pellegrini venuti da molto lon­ tano per vedere il re e ai quali vengono presentati cappellani gallo­ nati, cioè epiteti altisonanti, cause seconde e agenti subalterni; ma il pellegrino si ostina nell'anticamera, perché non vuole saperne dei sottordini; chiede di vedere il capo stesso, cx:Vcéc;, colui che è non soltanto il re, ma, come diceva Plotino, il Re dei re, BacrtAÉOOV Ba­ crtAeuc;, il Re di questo re all'infinito e l'origine di tutte le origini. Con questo primato ha fine la ricorrenza da altrove in altrove e da altro in altro.

IX. Il Fiat pone l'effettività della possibilità Il creatore crea l'esistenza come essenziale, e questo perché, es­ sendo la creazione a fortiori una giustificazione sufficiente dell'es­ sere creato, ogni esistenza si rivela lecita e possibile a posteriori; ma, viceversa, il creatore è anche colui che pone l'essenza come effettiva e la pone una volta per tutte. Creare è, nello stesso istante, porre la possibilità cieli' effettività e l'effettività della possibilità; è porre un'ouszà ousa. Se l'istante tetico fosse semplice e diretta posizione di esistenza inessenziale, vi sarebbe solo manipolazione, manuten­ zione, manifattura o manovra; ma se fosse semplice posizione di essenza ineffettiva o di possibilità nuda e astratta, mancherebbe di potenza; se creasse (ma è ancora lecito dire: "creare"?) l'essenza nuda, in altri termini la semplice possibilità ideale e nozionale, non andrebbe fino in fondo all'atto creatore e somiglierebbe a un finto genio incapace di procedere se non per abbozzi informi e larvali: come lo scacco può dirsi una creazione abortita incapace di confe­ rire esistenza effettiva, così lo stesso aborto è una pseudo-progeni­ tura incapace di accedere all'esistenza vivibile; ma poiché l'istante creatore è a sua volta taumaturgia repentina che esclude ogni suc­ cessione di momenti e pone in una sola volta ciò che pone, e recide con un improvviso colpo di scena la doppia alternativa "tutto-o­ niente" e "subito-o-mai", ne consegue che una creazione incom­ piuta non è neppure cominciata; che una posizione senza seguito non è una posizione. Se la posizione è veramente creazione efficace, deve porre una creatura effettiva e non, come la causa efficiente, un 265

semplice effetto. Dio non "fa" senza, al contempo, far essere: per­ ché se si ammette che la mutazione da contraddittorio a contraddit­ torio, per decreto rivoluzionario di una posizione che nega il nulla, accade in una sola volta, e non in due tempi, si deve concludere che creare è far esistere fisicamente. Il Fiat, se si tratta di un /iat serio e non di una velleità platonica o di un protocollo accademico, il Fiat non è forse l'evento per eccellenza? e viceversa ogni evento non implica un modo del Fiat? Il Fiat è dunque un'effettività che pone dell'effettivo, un evento che depone dell'esistenza: il Sejacente e il Factum, che sono i due versanti del Fiat, non sono pertanto che una sola e medesima effettività, un'effettività insorgente nella posizione e un'effettività congelata nel deposito o participio-passato-passivo della posizione. Se invece di essere, come nel caso della prevenzio­ ne preveniente, effettività radicale, la posizione fosse effettività empirico-ipotetica, non concilierebbe che riarrangiamenti superfi­ ciali a fior di esistenza o in corso di continuazione; se fosse semplice idealità intelligibile sarebbe invece, come l'essenza senza forza, condizione di possibilità e non posizione d'essere e forza "esisten­ tificante"; se insomma non ponesse essa stessa dell'effettivo, non sarebbe una creazione ma un semplice sogno o una graziosa chime­ ra della dea Metafora. Non è inoltre contraddittorio con la defini­ zione stessa di far-essere che l'essenza sia creata e tuttavia perman­ ga pura essenza, cioè possibilità noetica e ineffettiva? perché l'es­ senza puramente essenziale, in quanto intemporale e sempiterna­ mente sussistente tra gli intelligibili, è per l'appunto una verità in­ creata. Dato che si ammette il mistero incomprensibile, vertiginoso, iperbolico di un'essenza al contempo eterna e creata o (che è lo stesso) di una creazione istitutrice di eternità, e dato che ci si inter­ roga sull'origine radicale degli assiomi, si presuppone che l'essenza abbia una sorte determinata di esistenza gratuita e arbitraria. Crea­ re l'essenza è come minimo creare il fatto dell'essenza e la sua pen­ sabilità in generale per un pensiero qualsiasi: senza questa possibi­ lità di essere pensiero ovunque, in qualsiasi momento e per chiun­ que, l'essenza non sarebbe essenza; benché l'essenza, come necessi­ tà immanente, sia condizione fondamentale, ma non fondatrice delle esistenze, l'essenza in generale è nondimeno qualcosa che esiste in un universo effettivo in cui il determinismo, le costanti, i principi e i teoremi sono precisamente ciò che sono. Creare non è

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dunque semplicemente porre l'effettività empirica di un questo-o­ quello, localizzabile secondo la data e il luogo, è invece porre l' esi­ stenza di qualcosa in generale, porre il fatto che qualcosa in genera­ le esista: un mondo, un universo di mondi e un universo di universi all'infinito; porre insomma questa possibilità indefinita di eventi intellettuali che è la verità di qualsiasi cosa, dove e quando essa sia. Per caso il creatore, disdegnando di spingersi fino ali' effettività, si fermerebbe a metà strada, come un compositore disgustato che non scriva da solo la sua sinfonia e lasci che i suoi i temi e le sue scoperte vengano sviluppate dal suo segretario? Delle due l'una, o il compositore dovrebbe, gradualmente, scrivere da solo tutta la sinfonia, - o è l'allievo stesso che ne sarebbe il creatore48 ( .•. a meno che per allievo non s'intenda semplicemente il copista o il trascrit­ tore). No, Dio non crea essenze che avrebbero ancora bisogno di passare per un altro atelier, tra le mani di un altro specialista, affin­ ché lo schema virtuale divenga capolavoro attuale! - Spetta a noi, dopodiché, preferire lo stile analitico e pedagogico, distrubuire due ruoli a due divinità e dividere il compito ontogonico tra un creatore delle essenze e un creatore delle esistenze, ma a condizione di pre­ cisare che il paradosso impenetrabile della creazione risiede per l'appunto nell'indivisione delle due specialità. Qui non vi è nessuna divisione del lavoro e separazione dei poteri. Infatti, così come dio e deità non sono, per i teosofi, che due momenti eternamente si­ multanei di una stessa divinità e il contrario di un politeismo na­ scente, così all'origine non vi è che un istante primordiale e solita­ rio, un istante che fa tutto, che basta a tutto, e che da solo è causa necessaria e sufficiente di tutto. L'idea stessa del duello o del con­ dominio è un antropomorfismo che si realizza senza dubbio nel duumvirato, ma contraddice la definizione stessa di Assoluto. In pratica, lo sdoppiamento delle funzioni condurrebbe da una parte a sottrarre alla volontà divina un mondo di verità ideali e di essenze eterne perfettamente increate, dall'altra a favorire, col plurale mito-

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H. BERGSON, Le Possible et le réel (La Pensée et le mouvant, p. 110): "Se sa­ pessi come sarebbe la grande opera drammaturgica del domani, la scriverei io stesso" [Il possibile e il reale, in Pensiero e movimento, Bompiani, Milano 2000, trad. it. F. Sforza, p. 92, NdTI.

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logico, l'Olimpo delle graziose trasmutazioni, degli innesti assurdi, delle ablazioni e delle amputazioni. L'istante metalogico somiglia piuttosto al decreto insondabile di cui parla, seguendo Descartes, Pierre Poiret,49 e che soffoca sul nascere ogni plurale: infatti la sem­ plicità indivisa e miracolosa di una posizione che è, non dimenti­ chiamolo, Quasi-niente, esclude la differenziazione politeista delle attribuzioni e l'appropriazione delle attività, così come esclude la scomposizione dei momenti laboriosi e l'analisi delle operazioni tecniche; non c'è posto per occupazioni diversificate, pittoresche e complementari, se la legge del tutto-o-niente è fatta valere rigorosa­ mente: la fantasmagoria puntuale dell'istante pone immediatamen­ te il tutto dell'essere e la molteplicità degli esseri. È nell'organismo umano che Ef/icio e Concipio si scindono, perché una sede-cervello [brain-bureau] e funzioni motorie specializzate si ripartiscono i compiti: e tuttavia la decisione morale, soprattutto nel movimento intenzionale del sacrificio, sorge per istanti in pieno regime duplici­ sta come testimone dell'indivisione metafisica di Concepire e Fare: perché se il creatore estetico può, teoricamente, conservare il pri­ mato dell'intuizione o dell'ispirazione affidandone l'esecuzione a un manovale, il creatore etico, se non si sporca le mani, se non fa quello che dice, se non dà personalmente l'esempio, non è un crea­ tore ma un velleitario o un fariseo. La decisione divina è il punto incandescente in cui la deliberazione, non disponendo più del tem­ po discorsivo per pronunciare né di motivi preesistenti da confron­ tare, si consuma istantaneamente, il punto in cui la concezione e l'esecuzione non costituiscono che un solo miracolo, in cui la teoria e la pratica non costituiscono che un'unica improvvisazione e un'u­ nica "poesia".

X. La divina Improvvisazione "In questo punto vi è qualcosa di semplice, di infinitamente semplice, di così straordinariamente semplice che il filosofo non è mai riuscito a dire. Ed è per questo che egli ha parlato per tutta 49

De l'économie divine (Amsterdam, 1687).

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la sua vita" .5° Ciò che Bergson dice così magnificamente dell'in­ tuizione vale anche per l'istante posizionale che è l'oggetto per eccellenza dell'intuizione, che è intuizione in quanto coincide in un punto evanescente con il miracolo della posizione originale. "Attingitur inattingibile inattingibiliter" [si attinga l'inattingi­ bile inattingibilmente]: 51 è l'epigrafe che il filosofo russo Simon Frank ha scelto per le sue profonde ricerche sull.'Inattingibile. 52 L'essenza, dicevamo, è il sempiterno Sempre-qui.53 L'essenza non coniuga il verbo essere delle esistenze fortuite, bensì è l'Essere-in­ generale di cui si dice puramente e semplicemente: Esti; l'essenza non è un "datum" storicamente dato a questa o quella data, ma è "pre-dato" all'infinito. La creazione di una verità eterna che, per definizione, non può nascere nel tempo, è pertanto un miracolo, se è vero che il miracolo per eccellenza è la contraddizione com­ piuta ... La necessità non ha letteralmente la sua fondazione nel miracolo? Il miracolo, in questo caso, è l'inizio di ciò che non è mai iniziato e la genesi di ciò che è ingenerabile e perfettamente anistorico. La creazione biblica non fa onore al creatore che po­ nendo, col cielo e la terra, l'Essere eleatico in generale: in questo esamerone dei sei prodigi (un prodigio fisico al giorno), in questa settimana puramente cosmogonica, non è previsto alcun giorno per la creazione delle essenze; con ogni evidenza, il principio d'i­ dentità è presupposto tacitamente prima di ogni inizio! L'Essere eleatico, escludendo ogni divenire, esige la taumaturgia iperbolica della prevenzione radicale. L'essenza, benché sviluppi conseguen­ ze all'infinito, non è fatta alla bell'e meglio; l'essenza non ha parti, e nemmeno la si costruisce con dei pezzi; l'essenza e il senso non sono più o meno, sono o non sono, ed è questa disgiunzione am­ letica tra tutto-o-niente e subito-o-mai, inerente all'indivisibilità delle verità e degli assiomi, a spiegare la miracolosa semplicità di una prevenzione assolutamente preessenziale. Ciò che vale per la

L'intuizione filosofica (Pensiero e movimento, p. 100). [Niccolò CUSANO, Idiota. De sapientia I, 7, NdTI. 52 Nepostijimoie (in russo), 1939 [S.L. FRANK, L'inattingibile. Verso una/iloso/ia della religione, trad. it. P. Modesto, Jaca Book, Milano 1977, NdTI. 53 Ad: à.ilhov cltcovtov ... 50

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creazione paradossale dell'increato, cioè della metempiria (perché la creazione, operazione dell'onnipotente, può letteralmente tutto, ivi compreso l'impossibile), vale altrettanto per il fatto dell'empi­ ria in generale. Questo duplice paesaggio empirico-metempirico non è un dipinto che sarebbe stato composto a piccoli tocchi e ritocchi o che risulterebbe da qualche laboriosa messa a punto. L'insorgenza dell'essenza esistente e dell'esistenza essenziale so­ miglia piuttosto a un'improvvisazione, non all'improvvisazione brancolante di una creatura che inventa col progredire del fare, e diventa fabbro fabbricando, ma piuttosto a un'improvvisazione assoluta per la quale l'improvvisatore, in un colpo solo e senza preesistenza, pone al contempo la possibilità e l'effettività, conce­ pisce l'idea e la realizza, e crea infine la sua progenitura adulta e completa. La teoria dell'immaginazione magica in Bohme,54 No­ valis, Baader e Schelling è forse, per quanto metaforica, più vicina al "mysterium" di quanto lo sia la demiurgia del Timeo. Perché tale è la magia del Verbum divino: Fiat, la parola posizionale della creazione, Fiat, il monosillabo magico, è come un desiderio che, appena concepito, è già esaudito. Niente attesa o lavoro! Esto, Sit, Fiat non sono imperativi alla seconda persona, cioè comandamenti rivolti a un preesistente appena esistente che chiederebbe di esi­ stere maggiormente; quest'ordine non innesca il meccanismo ne­ cessario affinché il Poco, in virtù della sua spontaneità, si faccia Molto, affinché la semenza si sviluppi o si attivi. No! il Fiat, in assenza di ogni controparte, subordinato o correlato che ne sia il Tu, il Fiat non può essere che un imperativo magico alla terza persona, un Dixit proferito nel silenzio e nel vuoto, insomma una parola rivolta a Niente e a Nessuno poiché questa parola crea il suo futuro interlocutore parlando in lui: la parola non parla a nes­ suno ... , e nell'istante stesso in cui parla ("Dixitque Deus"),55 la parola si fa allocuzione. Tale è il soliloquio magico nel deserto di ogni alterità: la terza persona non è una seconda persona virtuale che diventerebbe seconda in atto; la terza persona non è letteral5� A. KOYRIO,, La philosophie de Jacob Boehme, p. 347,377; E. SUSlNI, Franz van Baader, t. II. 55 Kcù ÙrcEv b 9E6ç [e Dio disse] (Settanta). 270

mente "nessuno", Ò'lYt:tç, e questo nulla si metamorfosa istantane­ amente in alterità tramite la grazia taumaturgica dell'imperativo. Dio non dice: e se illuminassi queste tenebre? perché l'idea stessa di tenebra presuppone implicitamente l'attesa della luce, la dispo­ sizione a riceverla e la possibilità del contraddittorio che negherà l'oscuro. Dio non dice: e se mi fabbricassi un'alterità per popola­ re questa solitudine? perché l'idea stessa di solitudine implica en pointillé o in filigrana l'immagine di un'alterità virtuale. Ma Dio improvvisa genialmente la luce, la cui idea stessa non preesiste, e la pone in una volta, effettività e possibilità riunite. Dio concepisce o preconcepisce - ed ecco le forme. Questa magia miracolosamente intransitiva non ha niente in comune con una causazione che im­ plicherebbe la preesistenza dell'effetto virtuale e l'attualizzazione di una possibilità immanente. Mentre i verbi dell'empiria trovano l'accusativo preesistente, lavorano su un complemento diretto che è il loro già-qui, il loro oggetto e il sostrato della loro operazione, il Creare o Far-essere pone esso stesso, tramite un'operazione as­ soluta, l'accusativo della sua creatura: il relativo entra in rapporto partitivo col suo correlato, per trasformarlo o ispessirlo, ma l'irre­ lativo inventa da sé, e di sana pianta, il proprio correlato ... Non è una fantasmagoria? Se l'immaginazione fosse assolutamente crea­ trice, e non solo riproduttrice, continuatrice e trasmutatrice, se la carità fosse puramente graziosa, se la concezione premeditasse gli effetti futuri e, al contempo, li rendesse effettivi per magia istan­ tanea, non avremmo ancora che una debole idea dell'esuberanza divina; infatti l'operazione primordiale ( npwwupyoç Ki vricnç), la prevenzione vertiginosa che fa scaturire l'essere nell'istante, è qualcosa come Dio in vena [en verve]. La creazione non è quindi propriamente parlando un "capolavoro", né il/iat un atto di for­ za; se l'essere fosse una meccanica complessa, vi sarebbe nella sua apparizione qualcosa da ammirare: ora, l'essere sorto ex nihilo è, in misura ben maggiore della struttura dell'occhio e di qualsiasi organismo, un atto infinitamente semplice. La creazione non è una prodezza, è un miracolo. Così non proviamo noi stessi, davanti a essa, il sentimento estetico che ci ispira una bellezza senza pari o la realizzazione di un oggetto ben costruito, ma piuttosto la vertigine metafisica che s'impadronisce dell'uomo in presenza del mistero senza nome.

XI. "Perché Egli era buono" Perché, insomma, Dio ha creato qualcosa? perché, dopotutto, aveva bisogno di porre l'alterità piuttosto cHe non porla? Il Timeo, senza espressamente volerlo, aveva già risposto a questa domanda. Perché era buono. Àycx.0bç fiv.56 Si dirà senza dubbio che non è una ragione. Ma non è appunto l'assenza di ragione a essere qui la ragione? A dire il vero, la bontà del demiurgo platonico è più che altro un omaggio alla bellezza, cioè alla preesistenza del modello eterno... : questo mondo è bello ( KCX.À.6