Eutanasia del marxismo. Le culture liberali nel mondo che cambia 8857561062, 9788857561066

L'estinzione del marxismo ha lasciato un vuoto nella cultura civile e politica internazionale e italiana. Occorre,

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Eutanasia del marxismo. Le culture liberali nel mondo che cambia
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MIMESIS / ETEROTOPIE N. 605 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna

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comitato scientifico

Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina), Stefano G. Azzarà (Università di Urbino), Oriana Binik (Università degli Studi Milano Bicocca), Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria”, Varese), Giuseppe Di Giacomo (Sapienza Università di Roma), Raffaele Federici (Università degli Studi di Perugia), Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera), Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo), José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid), Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3), Micaela Latini (Università degli Studi di Cassino), Luca Marchetti (Sapienza Università di Roma)

I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review

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Giulio de Martino

EUTANASIA DEL MARXISMO Documento acquistato da () il 2023/04/04.

Le culture liberali nel mondo che cambia

MIMESIS

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MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Eterotopie, n. 605 Isbn: 9788857561066 © 2020 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383

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INDICE

Preambolo La crisi che non finisce7

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Capitolo primo I tormenti di Marx21 Capitolo secondo Morte e Resurrezione del marxismo37 Capitolo terzo Pentecoste e Avvento della Terza Internazionale43 Capitolo quarto Stalin51 Capitolo quinto Il marxismo occidentale59 Capitolo sesto La destalinizzazione e il marxismo della “coesistenza”77 Capitolo settimo Il socialismo europeo85 Capitolo ottavo

il marxismo italiano95

Capitolo nono Dalla New Left al postmarxismo109 Capitolo Decimo La lotta tra i liberalismi nel XXI secolo125

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PREAMBOLO LA CRISI CHE NON FINISCE

In che epoca siamo nel “mondo occidentale”? Alcuni affermano che è un’epoca di liquidità sociale, altri di disperazione: si sprigiona l’effetto combinato dell’inquietudine e del pessimismo con un diffuso senso d’impotenza. È una situazione poco congeniale all’Occidente moderno abituato a dialettiche conflittuali, ma esaltanti, di progresso e conservazione, di libertà e totalitarismo, uso a trovarsi in posizione dominante e sicura a livello mondiale1. Segno dell’epoca è la crisi delle due grandi dottrine ottimistiche e vitalistiche occidentali: quella liberale e quella marxista, dottrine che si sono fronteggiate – con attrito, ma anche con vantaggio reciproco – dalla metà dell’800 all’età della Guerra fredda tra NATO e Patto di Varsavia. Il liberalismo, dottrina “pragmatica”, ha vantato il brillante superamento di cicli economici avversi e successi scientifici e tecnologici. Il marxismo, dottrina “critica”, ha prosperato nel mondo capitalista grazie alla sua opposizione sociale e valoriale al liberalismo e, nel mondo non capitalista, ponendo il “socialismo di stato” alla guida dello sviluppo2. L’ottimismo liberale si è rivelato un ottimismo ragionevole, che scaturiva dall’osservazione e dalle realizzazioni, dalla valutazione concreta delle possibilità. Quello marxista è stato un ottimismo della volontà, nel senso della negazione: un ottimismo rivoluzionario che ha tratto incitamento da progetti di “capovolgimento”, “distruzione”, “liberazione”, “riappropriazione” ecc. presentando la realtà delle cose come l’ostacolo al di là del quale occorresse lanciare il cuore. Correggendo l’abusata sentenza di Gram1 2

Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a c. di Clara Gallini, Einaudi, Torino, 1977; Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, 1999, tr. it., il Mulino, Bologna, 2018. Eric R. Wolf, Guerre contadine del XX secolo. Messico, Russia, Cina, Viet Nam, Algeria, Cuba, ISEDI, Milano, 1971.

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Eutanasia del marxismo

sci, si potrebbe affermare che il liberalismo è stato un ottimismo dell’“intelligenza avveduta”, mentre il marxismo è stato un ottimismo della “volontà coraggiosa”. Se Adorno si impegnò, nel 1950, a studiare i recessi e le incognite della “personalità autoritaria”, oggi farebbe bene curare gli incubi e le allucinazioni della “personalità rivoluzionaria”3. Non è semplice pronunciarsi in merito alla parabola del liberalismo, come pure a quella del marxismo. Bisogna districare le questioni di “storia delle idee” da quelle di “storia dei movimenti sociali e politici”: il liberalismo e il marxismo si sono dislocati su fronti opposti sul piano della teoria come su quello dell’azione e hanno dato vita a ideologie, ma anche a poteri, in conflitto. Il liberalismo ha generato dispositivi di potere/sapere in nome dell’idealità libertaria e tecnologica, del dinamismo della società borghese; il marxismo ha creato dispositivi di sapere e di potere, in nome dell’“unità di teoria e prassi” e della difesa degli interessi del proletariato4. Il pensiero storico appare il più attrezzato per analizzare l’opposta diacronia, ma anche la strana complementarità, marxista e liberale, munito com’è di uno sguardo puntato su entrambi i piani: quello delle idee e quello dei fatti. Dopo il periodo apocalittico del 1989-1991, nello scontro tra i due contendenti è prevalso il liberalismo e le società socialiste europee sono crollate, svelando il basso livello di sviluppo e di benessere, oltre che di democrazia e libertà, cui erano pervenute e trascinando nel discredito anche il marxismo5. 3

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5

Antonio Gramsci, Discorso agli anarchici, “L’Ordine Nuovo”, anno I, n. 43, 3-10 aprile 1920; Theodor Wiesengrund Adorno (e altri), The Authoritarian Personality, Harper & Brothers, N.Y., 1950; Frank S. Robinson, The Case of Rational Optimism, Routledge, NY, 2009. Gilles Deleuze, Qu’est-ce qu’un dispositif?, in: AA.VV., Michel Foucault philosophe, Seuil, Paris, 1989, pp. 185-195, tr. it., Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli, 2007; Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma, 2006. Richard Wright, Louis Fischer, Andre Gide, Stephen Spender, Ignazio Silone, Arthur Koestler, Testimonianze sul Comunismo. Il dio che è fallito, Comunità, Roma, 1950; Rudolf Bahro, The Altemative in Eastern Europe, New Left Books, London 1978; François Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, tr. it. Mondadori, Milano 1995; AA.VV., Il libro nero del comunismo, a c. di Stéphane Courtois, tr. it., Mondadori, Milano 1998; Domenico Mario Nuti, Ascesa e caduta del socialismo, Uniroma, 2017.

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Preambolo9

Se c’è stata un’era “pagana” e poi una “cristiana”, quella che sta finendo è l’era del “marxismo”. L’influenza di Marx sulla cultura occidentale è stata molto rilevante e oggi – in epoca di congedo e di eutanasia – siamo in grado di valutarne le conseguenze. Il marxismo ha influito su partiti e movimenti politici, su intellettuali e tecnici, che hanno creduto nel socialismo: Marx ha influito anche su coloro che marxisti non erano costringendoli a recepire alcuni aspetti della sua visione dell’uomo, della società e della storia. Si potrebbe dire che il nostro sguardo verso il passato, come pure la percezione del presente e anche l’idea di futuro sono state condizionate – in modo consapevole o meno – da Marx. Tre decenni dopo la dissoluzione dell’URSS, le contraddizioni della globalizzazione, la crisi finanziaria internazionale e seri cambiamenti ecologici nello “stato del mondo” proiettano l’Occidente in un incerto Duemila e risvegliano – insieme a problemi settoriali – questioni di teoria che si pensavano superate6. Per questo, nel bicentenario della nascita e facendo leva sul fatto che le “contraddizioni del capitalismo” sono giunte nuovamente a un livello molto alto, diversi autori hanno dato alle stampe studi dedicati a Marx7. Ci si è appoggiati a questo argomento: 1) il marxismo non è Marx; 2) il marxismo ha condotto a risultati negativi, ma la teoria “di Marx” è ancora meritevole di considerazione e 3) il “Marx vivo” è quello che “noi” sosteniamo essere tale. Il ragionamento è circolare, ma in esso si può rintracciare un nucleo di verità: l’unica speranza di “salvare Marx” è quella di separarlo dal marxismo. Dargli le sembianze di un filosofo ignoto sarebbe, però, una falsificazione: nel marxismo si trovano tutte le idee di Marx. Si può, allora, escogitare una “bu6 7

Paul Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione. Stiamo andando verso un nuovo ’29?, ed. it., Garzanti, Milano, 2001; Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992. Etienne Balibar, La filosofia di Marx, manifestolibri, Roma, 1994; Alan Ryan, On Marx: Revolutionary and Utopian, Liveright Classics, Norton, N.Y., 2014; Luciano Canfora, La scopa di don Abbondio. Il moto violento della storia, Laterza, Roma-Bari, 2018; Biagio De Giovanni, Marx filosofo, Editoriale scientifica, Napoli, 2018; Rita Di Leo, Il tempo della moneta, il Mulino, Bologna, 2018; Diego Fusaro, Bentornato Marx!, Rinascita di un pensiero rivoluzionario, Bompiani, Milano, 2018; Stefano Petrucciani, A lezione da Marx. Nuove interpretazioni, manifestolibri, Roma, 2012; AA.VV., Il pensiero di Karl Marx. Filosofia, politica, economia, a c. di Stefano Petrucciani, Carocci, Roma, 2018.

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Eutanasia del marxismo

gia pietosa”: nel pensiero di Marx vi sono spinte vitali che è bene rimangano in circolo nella società, a rinfocolarne l’ottimismo e le speranze di cambiamento. A tale “speranza nella speranza”, si potrebbe collegare l’idea di una “sinistra non dogmatica” inserita nella liquidità e eterogeneità dell’attuale cosmo sociale, che si orienti in modo nuovo nella pluralità delle preferenze locali e culturali8. Meno fantasiosamente, gli storici che si sono occupati del legame tra “marxismo e socialismo” si sono domandati: è stata l’utilizzazione delle idee di Marx da parte di formidabili movimenti politici e sociali a determinarne la fortuna alla fine dell’800 e nel ’900? Oppure: è stata la potenza intrinseca del pensiero di Marx – che ha svelato i “segreti della storia” – a suscitare possenti movimenti e organizzazioni? La risposta prevalente è stata la prima: il marxismo è stato un’efficace ideologia e come tale ha avuto successo e ha ispirato molte e diverse pratiche. Sarebbe da chiedersi: perché, a un certo punto, il marxismo ha smesso di funzionare? Oppure: perché è stato necessario – più volte – modificarlo e integrarlo con categorie provenienti da altre teorie? Fatto sta che oggi del marxismo non è rimasto in vita quasi nulla ed è in questa imbarazzante circostanza che si sviluppano la ricostruzione e l’analisi del nostro saggio. È ancora lui? Non è più lui? Togliere la spina? Aspettare ancora? Quel che è certo è che il marxismo – travestendosi da “teoria critica” – ha preteso di assiomatizzarsi e ha dilatato la sua vigenza nel tempo e nello spazio9. Il liberalismo ha ammesso il proprio carattere empirico, scettico e ha intrattenuto un rapporto cauto con la cultura scientifica e tecnologica, tenendo distinti dalla scienza e dalla tecnologia il piano etico e quello politico e proponendo, in ogni contesto, miglioramenti specifici. Il marxismo, invece, ha teso a proporsi come “macroteoria”, “paradigma scientifico”10. Si è appropriato delle teoRichard Rorty, Achieving Our Country, tr. it., Una sinistra per il prossimo secolo, Introduzione di Gianni Vattimo, Garzanti Milano, 1999. 9 Alfred Schmidt, Storia e struttura. Problemi di una teoria marxista della storia, De Donato, Bari, 1973; Pasquale Serra, Sulla storia del marxismo. Questioni di metodo e di teoria, in: “Democrazia e Diritto”, 4/2005; Giuseppe Galasso, Quel che resta del marxismo, apparso su: “Corriere della sera”, Cultura, 9 giugno 2011. 10 Karl Popper, Miseria dello storicismo, (1946, 1957), tr. it., Feltrinelli, Milano, 1975; Richard P. Feynman, Il senso delle cose, 1961, tr. it. Adelphi, Milano, 1999. 8

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Preambolo11

rie della fisica, della biologia ecc. interiorizzandole come se fossero ampliamenti e corollari della propria visione della filosofia e della storia e ha generato una dottrina panottica del passato e del futuro. Mentre il liberalismo ha scavato al proprio interno per correggere la teoria e ha differenziato – ad esempio – nell’individualismo gli istinti utilitaristici da una più aperta opzione contrattualista, il marxismo ha teso a presentarsi immutabile nelle molte versioni che lo hanno caratterizzato: engelsiana, leninista, stalinista, occidentale, cinese, cubana, jugoslava, operaista, situazionista, combattente, bolivarista, decostruzionista, altermondista. Oggi, al di là del “One long argument” marxista, il mondo comunista è qualcosa di molto differente da ciò che era anche solo trenta anni fa. L’URSS è divenuta Federazione Russa, si è data un assetto politico e economico parzialmente democratico e liberale e ha una collocazione internazionale fondata sull’asse “euroasiatico” proposto come alternativo all’atlantismo dell’UE11. La repubblica di Cuba – divenuta laboratorio politico poco significativo – mena vita stentata nel contesto dei fragili socialismi dell’America latina12. La Corea del Nord solitaria prosegue nella sua teologia marxista-leninista13. La repubblica popolare di Cina, abbandonati i vincoli di sistema di tipo sovietico, è diventata un’inedita società di massa: l’“economia socialista di mercato” al primo posto nel mondo per incremento demografico, livelli di tecnologia e tasso di crescita economica, ma non per “diritti civili” e rispetto dell’ambiente14. E in occidente? Qui del marxismo sopravvive una meditata visione gandhiana, che allude a Marx come al precursore della “antiglobalizzazione” e come l’av-

11 “Limes, la rivista italiana di geopolitica”, GEDI, Roma: Albania e Macedonia. Le terre mobili, n. 2/2001; La Russia sovrana, n. 10 /2010; Il mondo di Putin, n. 1/2016. 12 Nayar López Castellanos, Perspectivas del Socialismo Latinoamericano en el Siglo XXI, Ocean Press 2013; Fidel Castro, La rivoluzione cubana. Le origini del socialismo latinoamericano, Pgreco, Roma, 2015. 13 Kim Jong Il, On having a correct viewpoint and understanding of the Juche philosophy, Talk to the Senior Officials of the Central Committee of the Workers’ Party of Korea, 25 October, 1990. 14 Michael Pillsbury, The Hundred-Year Marathon: China’s Secret Strategy to Replace America as the Global Superpower, S. Martin’s Griffin, N.Y., 2016: Elizabeth C. Economy, The third revolution, Xi Jinping and the new chinese state, Oxford University Press, US, 2018.

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Eutanasia del marxismo

versario dell’“antropizzazione antiecologica” del Pianeta15. Alcuni evocano il “fantasma di Marx” come il filosofo di un’antiteoria e di un antiparadigma. Altri hanno sconfinato nella dimensione violenta e sacrificale di movimenti guerriglieri, anarchisti e “destituenti”16. Se si vuole rendergli omaggio, si potrà dire che la funzione di Marx oggi è quella di stimolare il liberalismo democratico a prendere le distanze dal liberismo autoritario e a distinguere, con chiarezza, ciò che è economia da ciò che è società e ciò che è finanza da ciò che è politica17. Il liberalismo, nel corso del ’900, si è calato in regimi politici per lo più repubblicani diventando un “liberalismo democratico”, promotore di una società “regolata” da contrappesi istituzionali e da autorità di controllo e garanzia (“Check and Balance”). Ha promosso costituzioni aperte alla libertà del mercato e ai pubblici controlli, alla libertà della religione e della cultura. Ha dato vita a organismi multilaterali: politici, monetari e giurisdizionali. Ha promosso forme d’intervento pubblico nell’economia senza ostacolarne lo sviluppo autonomo, ha imposto nuovi diritti delle minoranze, fino a essere sfidato dalle problematiche della bioetica e dell’ecoetica e dalle nuove frontiere della privacy e della proprietà intellettuale18. Per questo il 15 James O’Connor, L’ecomarximo, 1988, ed. it., Datanews, Roma, 1990; Susan George, Another World Is Possible If, Verso Books, N.Y., 2004; AA.VV., Capitalismo, natura, socialismo, a c. di Giovanna Ricoveri, Jaca Book, Milano, 2006; J.W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, Ombre corte, Verona, 2015; M. Armiero, M. De Angelis, Anthropocene: Victims, Narrators, and Revolutionaries, in: “The South Atlantic Quarterly”, 116/2, 2017, pp. 345-362. 16 Oscar José Dueñas Ruiz, Mirna Rugnon de Dueñas, Tupamaros: libertà o morte, Sapere edizioni, Milano-Roma, 1974; Sabino Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia. Ideologia, fatti, prospettive, Rizzoli, Milano 1979; Richard Clutterbuck, Guerrillas and terrorists, [1977], Ohio University Press 1980; Ernesto Che Guevara, La guerra di guerriglia [1960], Baldini Castoldi Dalai, Roma, 2003; Salvatore Ricciardi, Maelstrom. Scene di lotta di classe in Italia dal 1960 al 1980, DeriveApprodi, Roma, 2011; Antonio Negri, Il comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte, Ombre corte, Verona, 2012. 17 Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Liberalismo e liberismo, 1931, 1938, ed. Il Corriere della sera, Milano, 2011; Sebastiano Maffettone, Karl Marx. Nel XXI secolo, LUISS University Press, Roma, 2018. 18 Van Renssellaer Potter, Bioethics: bridge to the future. Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1971; Aurelio Peccei, Cento Pagine per l’Avvenire, Mondadori, Milano, 1982; Giulio de Martino, Etica e bioetica. I problemi morali della medicina e della scienza, Liguori, Napoli 2008; Luisella Battaglia, Bioetica

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Preambolo13

campo teorico e politico in cui è urgente lavorare è quello del liberalismo: una teoria politica aderente alla realtà, al multiculturalismo, aperta a pratiche settoriali e a ampliamenti disciplinari. Da alcuni decenni il liberalismo è ricco di innovazioni, ma è lacerato da progetti e princìpi diversi e sottoposto a tensioni che investono le sfera politica oltre che quella morale19. Terminati gli effetti dell’esaltante Golden Age di rinascita e sviluppo del secondo Dopoguerra (1950-1965), esauritasi l’euforia neoliberista connessa alla globalizzazione produttiva, finanziaria e commerciale degli anni ’90, si trova esposto alle tempeste del mondo multipolare20. Emergono criticità sia all’interno del “sistema”, a causa del cambiamento tecnologico e politico, che all’esterno di esso: per la rivalità internazionale, per la scarsità e il costo delle risorse, per i cambiamenti climatici e ecologici21. Piuttosto che alimentare utopie o colossali sensi di colpa, fantasie rivoluzionarie o slanci universalistici, è bene che prevalga la consapevolezza del compiersi del multiversum storico nell’incertezza dei destini delle principali civilizzazioni. Non si tratta di scatenare dispute su visioni di “filosofia della storia” e neppure di disegnare “scenari apocalittici”, ma di comprendere che gli stati dell’Occidente e del mondo occidentalizzato (America Latina, Giappone, Corea del sud) hanno raggiunto il culmine produttivo e demografico con una società basata sull’informazione telematica e sui mezzi di comunicasenza dogmi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009; Cass Sunstein, #Republic. com. La democrazia nell’epoca dei social media, Il Mulino, Bologna, 2017; Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism. The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Public Affairs, N.Y., 2019. 19 John Rawls, Una teoria della giustizia [1971], tr.it., Feltrinelli, Milano, 1982; Ralf Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, tr. it., Laterza, 1988; Sebastiano Maffettone, Ronald Dworkin, I fondamenti del liberalismo, Laterza, Bari-Roma, 1996; Liberal International, Andorra Liberal Manifesto, 2017. 20 Bruno Bongiovanni, La caduta dei comunismi, Garzanti, Milano, 1995; Giacomo Gabellini, La parabola: geopolitica dell’unipolarismo statunitense, CeSEM, Roma, 2012; VIII BRICS Summit, The Goa Declaration, Goa, India, 16 October 2016. 21 Jurgen Osterhammel, Storia della globalizzazione: dimensioni, processi, epoche, il Mulino Bologna, 2005; Alessandro Volpi, La globalizzazione dalla culla alla crisi: una nuova biografia del mercato globale, Altreconomia, Milano, 2013; Tse Ching Lok, Capitalism, Ecological Crisis and the End of History, Baptist University Library, Hong Kong, 2014; ISPI, La fine di un mondo. La deriva dell’ordine liberale. Rapporto 2019, a c. di A. Colombo e P. Magri, Milano, 2019.

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Eutanasia del marxismo

zione. Ciò ha apportato sia effetti vantaggiosi sia dannosi: le società dovranno mettersi alla ricerca di metodi per superare le nuove criticità e per conservare lo standard di vita che hanno raggiunto22. Il rinnovamento, ma anche la multiformità del liberalismo ci portano al cuore dei problemi: la radicale inattualità della contrapposizione fra liberalismo e socialismo, ma anche l’inattualità della loro sintesi: quel “socialismo liberale”, di cui anni fa scrissero Carlo Rosselli e Norberto Bobbio23. In realtà il dialogo dei liberali e dei socialisti era cominciato nel primo Dopoguerra e si incrementò a seguito della “crisi del 1929”. Ha dato origine, nei Paesi occidentali, a forme differenti di Welfare State. Si deve, però, distinguere l’apertura riformista e democratica del liberalismo – di cui Keynes e Beveridge furono un esempio – dalla convergenza, da parte del socialismo, verso i principi e le regole del liberalismo: una convergenza che trascinava con sé l’aspirazione a restare con un piede nel marxismo 24. Oggi, dopo l’“abbattimento del muro di Berlino” (9 novembre 1989), con il tramonto del “socialismo reale” e il crollo del dualismo est-ovest, il mondo è cambiato: il liberalismo ha trionfato ovunque e ha liquefatto anche la dottrina socialdemocratica che del socialismo sovietico era stata la forma di compromesso con gli ordinamenti liberali europei. Con la fine del socialismo si è aperto il territorio – aspro ma da esplorare – della politica contemporanea. Se volessimo definirlo con una sola espressione potremmo dire che siamo giunti all’epoca del liberalismo compiuto: vi è stata, non tanto l’espan22 Remo Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Bibliopolis, Napoli, 1983; Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, 1996, tr.it., Garzanti, Milano, 2000; Paul Virilio, La bomba informatica, 1998, tr. it., Cortina, Milano, 2000. 23 Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, 1994, edizione del ventennale, introduzione di M. L. Salvadori e commenti di D. Cohn-Bendit e di M. Renzi, Donzelli, Roma, 2014; Anthony Giddens, Beyond Left and Right. The Future of Radical Politics. Cambridge, UK, Polity Press, 1994; tr. it., il Mulino, Bologna, 2011. 24 Enzo Bettiza, Ugo Intini, Lib-Lab. Le prospettive del rapporto tra liberali e socialisti in italia e in Europa, SugarCo, Milano, 1980; David Perrin, The Socialist Party of Great Britain. Politics, economics and Britain’s oldest socialist party, Bridge Books, Wrexham, 2000; Gaetano Pecora, Carlo Rosselli, socialista e liberale. Bilancio critico di un grande italiano, Donzelli, Roma, 2017; AA.VV, “The Economist”, A manifesto for renewing liberalism, settembre, 2018.

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Preambolo15

sione totalizzante del mercato, quanto piuttosto la sparizione dello stato e la sua identificazione con il sistema politico. È questo il fatto nuovo, al di qua e al di là dell’Atlantico: la società domina sullo stato e lo controlla tramite il sistema politico. I cittadini forgiano lo stato restringendolo o modificandolo – secondo le loro opzioni e preferenze. Ciò ha implicato due cose: 1) lo stato ha perso la sua autonomia e la sua neutralità. Non è più nelle mani di un ceto autonomo e competente, ma è lo strumento di partiti post-ideologici che ambiscono a essere rappresentativi di “tutto il popolo”. In realtà tali le forze politiche sono essenzialmente “maggioranze silenziose” – come le definiva Jean Baudrillard – fortemente condizionate dai mezzi di informazione e da gruppi finanziari e industriali che sono in competizione tra di loro. 2) la distinzione fra una destra e una sinistra si produce adesso tutta all’interno del liberalismo e non più al suo esterno. Abbiamo cioè la competizione – anche molto aspra – fra un’area composita che si può definire di liberalismo democratico e inclusivo (erede del Welfare State, ma anche dei movimenti per le libertà civili) e un’area, anch’essa eterogenea, che si riconosce in un liberalismo autoritario e escludente (affascinata da ritorni identitari e gerarchici)25. Alcuni politologi – dopo l’estinzione del marxismo e della socialdemocrazia – danno allo strapotere delle masse il nome di populismo: in effetti si tratta di un conflitto interno al sistema democratico e fra le opposte anime di un liberalismo in crisi26. La società della “disintermediazione”, della “omologazione” e dell’anomia strisciante ha trasformato le energie della libertà, dell’individualismo e della “democrazia” facendo loro assumere nuove caratteristiche, correlate alla funzione dei massmedia old e new. Questi non costituiscono più quello che si amava definire come il “quarto potere” – un soggetto “autonomo e indipendente” posto allo snodo tra le opinioni personali dei cittadini e il sistema politico – bensì un dispositivo del tutto interno al “sistema democratico”, che 25 David Harvey, Breve storia del neoliberismo (2005), tr. it., il Saggiatore, Milano, 2007; Piero Ignazi, La fattoria degli Italiani. I rischi della seduzione populista, Rizzoli, Milano, 2009; Richard Aldous, Reagan and Thatcher. The Difficult Relationship, W. W. Norton & Company, N.Y., 2012; Tito Boeri, Populismo e Stato Sociale, Laterza, Roma-Bari, 2017. 26 Loris Zanatta, Il populismo, Carocci, Roma, 2008; Rino Genovese, Populismi e totalitarismi, manifestolibri, Roma, 2016; Patrick J. Deneen, Why Liberalism Failed, Yale University Press, 2018.

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Eutanasia del marxismo

opera quotidianamente per costruire una “percezione del mondo” da offrire alle iniziative dei leader politici attraverso vere e proprie campagne di mobilitazione emotiva. In questa nuova dimensione, il liberalismo si è diviso fra una destra conservatrice, pervicacemente reazionaria e sconcertantemente nazionalista, e una sinistra, interessata ai temi dell’equità e tendenzialmente internazionalista. Entrambe sono costrette a cavalcare o a subire i flussi di opinione attraverso i quali il sistema massmediale anticipa gli eventi. Peculiare è il rapporto che i massmedia tendono a stabilire non solo con la cronaca – vera e propria sintesi adulterata della realtà – ma, soprattutto, con l’azione della magistratura e con gli umori dell’audience allo scopo di negoziare l’attenzione dei leader politici. Quello che va evidenziato è il cambiamento di significato e di funzione sociale di ciò che si definisce “pubblica opinione”. L’opinione personale di un cittadino o di un gruppo sociale era alla base della concezione liberale della società civile grazie alla pluralità e autonomia dei punti di vista elaborati da cenacoli elitari e da agenzie informative qualificate. La capacità di giudizio e di valutazione, la guida competente da parte di gruppi intellettuali indipendenti e critici, la lettura e il libero esame dei problemi, trasformavano l’opinione personale di un cittadino in una opinione collettiva e quindi degna di influire sulla società. Oggi è venuta meno la distinzione fra “opinione privata” e “opinione pubblica”: il cittadino non è portatore di una forma di “conoscenza personale” fondata sull’esperienza dei fatti e opportunamente contestualizzata. Oggi nelle menti dei cittadini si è installata una “percezione della realtà” costruita dai mass-media che si propone immediatamente come “forma pubblica di conoscenza”. L’opinione è diventata una interpretazione che orienta – in un cosmo sociale divenuto enigmatico – individui e gruppi verso alcuni idealtipi, da ribaltare poi sulla realtà effettiva27. Nelle nuove modalità socio-culturali e a parti invertite, si è rinnovata la contrapposizione che vi era stata fra liberali e repubblicani nella seconda metà dell’80028. Oggi i “repubblicani” (la destra li27 Giulio de Martino, La mente virtuale, Iacobelli, Roma, 2015. 28 Quentin Skinner, Liberty before Liberalism, Cambridge University Press, 1998; Maurizio Viroli, Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari, 1999; AA.VV., La democrazia radicale nell’ottocento europeo. Forme della politica, modelli culturali, riforme sociali, a c. di Maurizio Ridolfi, Feltrinelli, Milano, 2005; Luca Baccelli, Critica del repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari, 2003; Tho-

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Preambolo17

berale) e i “liberali” (la sinistra liberaldemocratica) si contendono l’egemonia nel mondo globalizzato attraverso un’azione politica costruita nell’interazione con i mezzi di informazione per la costruzione del consenso. Il neoliberismo – termine con cui si è definita la destra repubblicana – si è prestato a restaurazioni religiose e identitarie, al ridimensionamento del Welfare State, a politiche protezionistiche, assumendo connotazioni “patriottiche”, xenofobe e autoritarie. In Europa e nelle Americhe si sono affermati partiti politici “sovranisti”29. Invece, la sinistra liberale ha difeso il sostegno pubblico agli investimenti e ai consumi bilanciato dalla fiscalità e da un indebitamento moderati, e ha propugnato una ”economia dei diritti” civili, sociali e ambientali di origine radicale e libertaria. Di fronte a uno “stato del mondo” quanto mai problematico, nulla sarebbe più sbagliato per le forze della cultura, della scienza, della tecnologia di una resa alle tendenze regressive e apocalittiche. Spetta al liberalismo progressista combattere il tribalismo identitario, le “teorie del complotto”, il risentimento sociale, l’abuso del potere giudiziario contro la libertà personale, la confusione fra il leaderismo carismatico e l’elitarismo meritocratico30. Lo deve fare, però, senza lasciarsi confondere dalle “sirene” universaliste e utopiste, dai movimenti antagonistici e alternativisti. Al liberalismo democratico spetta di valorizzare la propensione etica e prosociale – sia individuale sia di gruppo – senza mortificarla sotto il peso di ideologie totalizzanti o gravarla di aspettative irrealistiche. Ristabilendo la distinzione di ruoli fra la politica e la società e fra l’informazione e la cultura – senza preponderanze né in un senso né nell’altro – si può incentivare il comportamento responsabile e tollerante da par-

mas Casadei, La traiettoria del repubblicanesimo conflittualista tra storia e teoria del diritto, in: “Diritto e Questioni pubbliche”, vol. 5, 2005, pp. 131-152. 29 Giovani Leghissa, Neoliberalismo. Una introduzione critica, Mimesis, Milano, 2012; Jennifer Jackson, Lina Molokotos-Liederman, Nationalism, Ethnicity and Boundaries: Conceptualising and understanding identity through boundary approaches, Routledge 2014; Alberto Martinelli, a c. di, Beyond Trump. Populism on the Rise, Milano, ISPI, 2016; Nigel Culkin, Richard Simmons, Tales of Brexits. Past and Present. Understanding the Choices. Threats and Opportunities In Our Separation from the EU, Emerald Publishing Bingley 2018; Ivan Rogers, 9 Lessons in Brexit. Short Books, London, 2019. 30 Umberto Eco, Il fascismo eterno, La nave di Teseo, Milano, 2017.

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Eutanasia del marxismo

te dei cittadini31. Decisiva sarà la libera e autonoma creazione del vincolo sociale attraverso istituti e “corpi intermedi qualificati”. Il mutamento tecnologico e valoriale nel mondo del lavoro, nella sfera della comunicazione, nelle relazioni pubbliche e private, nei rapporti con l’ambiente e gli animali, impone una riflessione deontologica posta su nuove basi32. La ricostruzione di un’articolata e competente “società civile”, premessa del buon funzionamento di un’autonoma “sfera politica”, deve essere sottratta sia alle pressioni degli interessi privati, sia alle minacce e ai ricatti del populismo. In uno scenario che è stato definito, drammaticamente, dal papa Francesco I come “una terza guerra mondiale a pezzettini”, anche la Chiesa cattolica di Roma sta riposizionando la propria ideologia. Ha abbandonato il tradizionale anticomunismo e sostiene di stare applicando quanto era stato proclamato dal Concilio Vaticano II (1959-1966). Da un lato, si è posta sulla via dell’ecumenismo: del dialogo interconfessionale e interreligioso. È il “cristianesimo della globalizzazione”, che pone al primo posto dell’agenda pastorale il pacifismo e l’ambientalismo, la lotta alla diseguaglianza economica e la difesa della tolleranza religiosa33. Dall’altro, ha conservato il tradizionale profilo “apocalittico” per interrogare il mondo accusandolo di nichilismo e di economicismo, di agnosticismo e di idolatria della tecnica per seminare dubbi sul futuro dell’umanità34. Segnali di risveglio del liberalismo democratico vengono da intellettuali capaci di suggerire al mondo economico e alla comunità tecnica e scientifica linee di azione che indirizzino la società globalizzata verso migliori assetti. Dopo il declino delle ideologie 31 Giulio de Martino, Marco Stimolo, L’altro come scelta. L’ozio altruistico, Intra Moenia edizioni, Napoli, 2007; 32 Jürgen Habermas, Etica del discorso, tr. it. a cura di Emilio Agazzi, Laterza, 1989; Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990; Martha Nussbaum, Women and Human Development: The Capabilities Approach, (2000), tr. It., Diventare persone, il Mulino, Bologna, 2001; Id., Cultivating Humanity. A Classical Defense of Reform in Liberal Education, (1997), tr. it, Carocci, Roma, 2006. 33 Papa Francesco, Laudato si’. Lettera enciclica sulla cura della casa comune, 24 maggio, 2015; Joseph Stiglitz, Un’economia per l’uomo, 2012, Castelvecchi, Roma, 2016. 34 Karol Józef Wojtyła, Centesimus Annus, Enciclica del 1º maggio 1991; Joseph Ratzinger, Caritas in veritate, Enciclica del 29 giugno 2009; Joseph Ratzinger, La città dell’uomo, “il Foglio”, XXIV, n. 116, Roma, 18 maggio 2019.

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Preambolo19

novecentesche, le “comunità morali” si sono estinte per lasciare il posto ad un magma sociale oscillante. Il rapporto fra etica individuale e società va ridiscusso all’interno di un mondo “postsociale”. In esso va stabilita la vigenza di norme etiche, civiche, economiche globali, coesive e “neocontrattuali”. Tali norme potrebbero configurare – rivisitando sia i valori tradizionali che quelli trasgressivi del ’900 – una Multilevel governance basata su una rete di “luoghi comuni”. Ne nascerebbe una “tavola dei valori” per la ridefinizione dell’individuo come campo di relazioni e di libertà, di identità e di condivisione. Quelle che erano le virtù liberali di indipendenza, integrità, laboriosità, prosocialità, tolleranza e, per converso, i vizi più deprecati: moralismo, avidità, brutalità ecc. si prestano a delineare le esigenze di una società in mutamento globale, postindustriale e ecologico35. Per tutte queste ragioni, il mix di “cauto ottimismo” e di “sobrio pessimismo” che ha caratterizzato il liberalismo storico e il liberalismo democratico di fine Novecento sembra costituire il giusto stile di pensiero. Probabilmente, una delle novità della sfera politica prossima ventura sarà che in essa, di fronte al dilagare del populismo e del sentimento apocalittico, il liberalismo democratico non potrà accontentarsi di essere la “forma del sistema” – una infrastruttura giuridica al modo dello “stato di diritto” (Rule of Law) e dell’ “utilitarismo delle regole” – ma dovrà dare vita a un impegno politico diretto, ad azioni positive, per meglio difendere e garantire la conquista di un mondo sociale, libero e pluralista.

35 Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano, 2003; Nadia Urbinati, Liberi e uguali. Contro L’ideologia individualista, Laterza, Bari-Roma, 2011; Emrys Westacott, Frugalità. Storie della vita semplice, LUISS University Press, Roma, 2017.

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CAPITOLO PRIMO I TORMENTI DI MARX

I grandi pensatori meritano sia una “storia della critica” sia una “storia della fortuna”: le due storie possono incrociarsi, ma anche scontrarsi. Karl Marx (1818-1883) è stato un notevole pensatore e la sua teoria filosofica e economica ha meritato più di una analisi critica. È stato anche un profeta politico, fondatore di movimenti di grande rilevanza: poco ascoltato prima e troppo ascoltato poi. Per questo si è discusso molto, e si discute ancora, della sua dottrina1. Alcuni autori hanno cercato di separare “Marx” dal “marxismo”, quasi fossero due oggetti di pensiero diversi: lo hanno fatto malgrado lo stesso Marx – in nome dell’“unità di teoria e prassi” – avesse rifiutato tale separazione. Hanno per questo introdotto la distinzione filologica fra ciò che è marxiano e ciò che è marxista. Tale distinzione cela, in realtà, due esigenze. Una è quella di distinguere Marx come filosofo dai suoi discepoli, seguaci e interpreti per inserirlo, con maggiore libertà, nella storia delle idee. L’altra esigenza è quella di tenere separati il “Marx filosofo” dal socialismo e dal comunismo in quanto movimenti politici. Come è ovvio: la distinzione fra ciò che è marxiano e ciò che è marxista è, dal punto di vista metodologico, corretta. Meno corretto è immaginare Marx e il marxismo come se fossero due mondi incomunicanti: in uno avremmo un Marx osservatore distaccato, totalmente estraneo al marxismo; nell’altro avremmo un marxismo puramente ideologico, senza basi teoriche, apolide e partenogenetico. Certamente Marx fu autore contraddittorio e problematico: lo stesso Engels auspicò cambiamenti nelle teorie comuniste dopo la morte di Marx. Tuttavia, nel marxismo si 1

François Furet, Giuliano Procacci, Controverso Novecento, i Libri di Reset, Donzelli Roma, 1995; Bruno Bongiovanni, Postfazione a: Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, [1848], ed. Einaudi, Torino, 1998, pp. 115-215, in particolare pp. 160 sgg.

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Eutanasia del marxismo

sono trasferite le idee formulate originariamente da Marx. Proprio a lui e ai suoi scritti va fatta risalire la sostanza di quei movimenti politici che al marxismo si sono in vario modo ispirati. Marx fu filosofo nutrito di cultura classica, vigoroso prosecutore del materialismo di origine greca e latina, permeato da tensione illuministica, laica e liberale. Destino volle che la sua evoluzione culturale fosse intensamente influenzata dall’ambiente hegeliano tedesco e che la sua passione politica – di matrice, originariamente, ellenistica – fosse ostacolata dal regime prussiano. Dopo esser transitato, brevemente, nelle fila della Sinistra hegeliana, finì nelle congreghe dell’emigrazione comunista prima in Francia, poi in Belgio e infine in Gran Bretagna2. Queste vicende avrebbero condizionato la sua visione filosofica in almeno due aspetti decisivi. Il primo: non adoperò mai il termine “critica” (Kritik) in senso kantiano, relativistico e liberale, ma soltanto in senso “hegeliano”, cioè: antitetico, oppositivo, ad esempio, con la teoria della “oggettività della contraddizione”3. Il secondo vizio fu di confondere l’“economia politica” di Smith, Ricardo e Say con il “liberalismo”, cioè il mezzo con il fine. La teoria politica e giuridica liberale ebbe il suo inizio assai prima della rivoluzione industriale: con la lotta prima antiassolutistica dei baroni e poi antifeudale dei borghesi. Esordì con le dottrine di Grozio e di Pufendorf, si ampliò con le quelle di Locke, Mandeville e di Montesquieu, poi con il pensiero politico e giuridico illuminista di Beccaria, Jefferson, Madison, Filangieri4. Il liberalismo economico, la “Political Economy”, propose una teoria della libertà individuale, differente, per scopo e presupposti, dagli scritti dei giuristi e dei politici. Antonio Genovesi, Adam Smith e Bernard de Mandeville

2

3 4

M. Alfred Sudre, Histoire du communisme ou Réfutation historique des utopies socialistes, Albert Lecou, Paris, 1848; Franz Mehring, Vita di Marx, (1919), Editori Riuniti, Roma, 1969; Françoise Giroud, Jenny Marx, o la moglie del diavolo, 1992, tr. it., Rizzoli, Milano, 1993. Lucio Colletti, Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari, 1969. Franco Venturi, Settecento riformatore, vol. I, Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino, 1969; Id., La lotta per la libertà. Scritti politici, a cura di L. Casalino, Einaudi, Torino, 1996; Hamilton, Madison, Jay, The Federalist Paprs. A collection of Essay written in favour of the new Constitution, September 17, 1787, d. Coventry House Publishing, 2015.

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I tormenti di Marx23

rappresentarono il tentativo di inserire elementi di moralità liberale nel vivo dell’economia e del lavoro5. Che significato si deve dare alla “critica dell’economia politica” di Marx? C’è chi evidenzia il suo giudizio positivo sul capitalismo: “La borghesia, durante il suo dominio di cento anni scarsi, ha creato forze produttive più massicce e colossali di tutte le generazioni precedenti messe insieme. L’assoggettamento all’uomo delle forze della natura, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, le opere necessarie alla coltivazione di interi continenti, le canalizzazioni dei fiumi, la comparsa di intere popolazioni – chi mai nei secoli precedenti aveva avuto anche il solo presentimento di tali forze produttive […]. La borghesia, con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con l’immensa agevolazione dei mezzi di comunicazione, ha portato alla civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare” (Manifesto, 1848). C’è chi, invece, evidenzia come Marx abbia osservato che: “la ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci” e poi che: “all’inizio la merce ci si è presentata come qualcosa di duplice, valore d’uso e valore di scambio. In un secondo tempo s’è visto che anche il lavoro, in quanto espresso nel valore [delle merci], non possiede più le stesse caratteristiche che gli sono proprie come generatore di valori d’uso”. In queste parole tecnicizzate, poste all’inizio del Capitale, Marx esprimeva l’orrore che gli provocava il sistema socio-economico creato dalla borghesia che aveva sostituito il “mondo naturale” e, soprattutto, che aveva fatto in modo che l’uomo ne fosse risucchiato, diventandone l’astratto protagonista. Il valore d’uso delle merci e il lavoro vivo degli uomini nel sistema capitalista non sono più realtà fisiche, ma sono divenuti oggetti quantificabili e manipolabili, in ultima istanza: “prodotti”. Invece di proporre un’analisi realistica dei pregi e dei limiti della società liberale e borghese e dell’economia capitalistica in Gran Bretagna 5

Giulio Preti, Alle origini dell’etica contemporanea. Adamo Smith, Laterza, Bari, 1957; Andrea Branchi, Introduzione a Mandeville, Laterza, Bari, 2004; Adelino Zanini, Adam Smith. Economia, morale, diritto, Bruno Mondadori, Milano, 1997; Albert O. Hirschman, The Passions and the Interests. Political Arguments For Capitalism Before Its Triumph, Princeton University Press, 1976, tr. it. Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, Milano, 1977.

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Eutanasia del marxismo

e negli Stati Uniti, Marx diffuse con i suoi scritti un profetismo ribelle e diede vita a una aggressiva religione politica antiliberale, quasi che fosse possibile attuare un “capovolgimento della realtà” che portasse le cose del mondo in un’altra direzione. Per questo ciò che san Paolo era stato per il cristianesimo – contro il paganesimo e l’ebraismo – lo sarebbe stato Marx contro il liberalismo e il capitalismo. Marx si scagliò – nuovo apostolo delle genti proletarie – contro l’economia politica e il suo antico testamento: le opere di Smith, Ricardo e Say6. La sua profezia escatologica fu il comunismo: al di là del passato e del presente. Il capitale, il denaro, era mostro orribile alla catena della borghesia: la moneta era artifizio che uccideva il lavoro vivo trasformandolo in lavoro morto. Per mezzo di essa, la legge borghese poteva imporre il dominio dell’astratto sul concreto. Il lavoro e la proprietà privata – che per gli economisti inglesi costituivano le modalità di accesso degli individui socializzati allo scambio e alla circolazione delle merci e della moneta – erano anatemizzati in quanto simulacri ingannatori che volteggiavano sopra le teste di proletari affamati e miserandi. Invece di porsi questioni “di giustizia e di equità”, Marx si propose la rivoluzione e il capovolgimento del mondo7. Oltre all’ebraismo capitalista, Marx cercò di aggredire il cristianesimo liberale e – ritenendo di spingersi oltre gli illuministi – rifiutò il progetto di ridurre il peso politico delle chiese trasferendo nella vita privata dei cittadini la scelta religiosa. Fantasticò di ampliare a dismisura i poteri dello stato sulla vita interiore e esteriore delle persone e negò ogni forma di religiosità nella Gemeinshaft degli atei felici8. In realtà – a differenza di Ludwig Feuerbach, che affermava l’illusorietà, ma anche l’innocenza, del sentimento religioso e lo contrastava con la cultura filosofica e scientifica – Marx attribuì un valore di verità, sia pure negativo e alienato, alla religione. Scrisse ne Il capitale: “In generale il riflesso religioso del mondo reale non potrà sparire che allorquando le condizioni del lavoro e della vita pratica presenteranno all’uomo dei rapporti trasparenti e 6 7 8

Alain Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, [1997], tr. it., Cronopio, Napoli, 1999. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it., Einaudi, Torino, 1968. Bruno Bauer, Karl Marx, La questione ebraica, 1843, ed. a c. di Massimiliano Tomba, manifestolibri, Roma, 2004.

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I tormenti di Marx25

razionali con i suoi simili e con la natura. La vita sociale, di cui la produzione materiale e i rapporti che essa implica formano la base, non sarà liberata dalla nebbia mistica che ne nasconde l’aspetto che il giorno in cui in essa si manifesterà l’opera di uomini liberamente associati, agenti coscientemente e artefici della propria dinamica sociale”9. Marx pensava che l’“alienazione religiosa” fosse la conseguenza dell’“alienazione economica”. In coerenza con tale assunto, l’economia politica era la religione del tempo presente e il libero mercato e la libera circolazione monetaria assumevano la valenza di una “vendetta storica dell’ebraismo sul cristianesimo”. Per questo, modificando radicalmente il sistema economico liberale, si sarebbero cancellate dalla società, in un sol colpo, sia l’“alienazione economica” che il “bisogno religioso”, sia l’ebraismo che il cristianesimo. Tuttavia è proprio qui che si annidava una delle antinomie più insidiose del marxismo: da un lato, Marx intese negare la differenza ontologico-religiosa e pose l’“essere sociale” (Sozialleben) come unico fondamento del pensiero e come luogo di origine della verità. Dall’altro conservò la “differenza metafisica” trasformandola in “differenza ideologica” e postulò un radicale “dualismo” in seno all’essere sociale tra borghesia e proletariato10. Marx vide il mondo da una parte sola: quella di un supposto “punto di vista di classe”. Descrisse la società attraverso la visione narcisistica e apologetica del proletariato e con l’intenzione demonizzatrice della classe borghese: il mondo imprenditoriale, i tecnici, i professionisti. La sua concezione del capitalismo fu meccanica e semplificatrice. Più di recente, sotto lo stimolo della “coscienza ambientale”, al pensiero di Marx sono state rivolte obiezioni in merito alla sopravalutazione dello sviluppo tecnologico e del progresso scientifico, stigmatizzando il carattere marcatamente “antropocentrico” del suo materialismo e della sua visione della natura. Per Marx, i fattori limitanti dello sviluppo economico non erano di tipo ecologico. Erano di tipo sociale e politico: la borghesia aveva impresso una direzione sbagliata – manipolatoria e classista – al progresso della scienza e Karl Marx, Il capitale, I, tr. it., Editori Riuniti, Roma, 1970, p. 111. Karl Marx, Friedrich Engels, Sulla relìgione, a c. di Luciano Parinetto, La Nuova Italia, Firenze, 1980, n. ed., Pgreco, Roma, 2015. 10 Giovanni Carlo Leone, Marx dopo Heidegger, Mimesis, Milano, 2007; Gianni Vattimo, Santiago Zabala, Comunismo ermeneutico. Da Heidegger a Marx, Garzanti, Milano, 2014. 9

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Eutanasia del marxismo

della tecnologia vincolandola ai suoi interessi. I marxisti hanno – in ogni tempo – criticato le teorie sottosviluppiste: nel caso di Malthus (1798) riguardo all’incremento demografico, nel 1972 riguardo alle previsioni sui “limiti dello sviluppo” del Club di Roma. Hanno denunciato l’uso strumentale della demografia e dell’ecologia allo scopo di conservare il potere di classe. Per il marxismo la contrazione dei consumi e dell’occupazione sarebbero lo strumento per imporre restrizioni al proletariato e domarne l’impulso alla “lotta”. In campo liberale, si è pensato che le teorie di Keynes potrebbero essere integrate con il limite ecologico dello sviluppo e con le esigenze dell’“economia circolare”: l’equilibrio economico sarebbe raggiunto con una pressione fiscale finalizzata a una ecotassazione, che non porti all’incremento del debito pubblico, con un effetto positivo sulla distribuzione dei redditi e dei profitti in base al principio che “il moltiplicatore fiscale deve sempre eguagliare il moltiplicatore del reddito”11. Ma l’aspetto più inquietante del marxismo è la sua dottrina politica: il “socialismo scientifico” o “comunismo moderno”. Al di là della vecchia discussione sulla congruità dei mezzi (la “dittatura del proletariato”) e dei fini (la “società senza stato”), va analizzato il modo in cui Marx si è inserito nello sviluppo della moderna teoria dell’“autonomia del politico”. Sorta come una dottrina borghese, finalizzata a creare un sistema politico indipendente dai retaggi nobiliari e religiosi e a domarne e circoscriverne la forza, la teoria dell’autonomia del politico ha avuto una evoluzione illuministica per la quale si è trasformata in autonomia del diritto e delle leggi (Rule of Law), prevedendo la divisione e la separazione dei poteri politici, l’autonomia della magistratura e l’emancipazione dell’individuo: la privacy. Una forma di “autonomia autoritaria del politico” si verificò, invece, in occasione di eventi “rivoluzionari” che attrassero l’attenzione di Marx e di altri nell’800 (Bakunin, Blanqui). In questi casi l’autonomia del politico era finalizzata alla libertà rivoluzionaria 11 Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Bari, 1969; Nicholas Georgescu-Roegen, Bioeconomia, Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, 1971-1977, Bollati Boringhieri, Torino, 2003; Laura Conti, Questo pianeta, Editori Riuniti, Roma, 1983; André Gorz, Ecologica, tr.it., Jaca Book, Milano, 2009; Giulio de Martino, Il filosofo locale, Intra Moenia, Napoli, 2011.

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I tormenti di Marx27

che veniva posta nelle mani di “cittadini ribelli” dando origine al “dispotismo democratico”. Questo, non si manifestò soltanto nel successo momentaneo di capipolo e demagoghi in vari Paesi tra il XIV e il XVII secolo, ma si sarebbe concretizzato in durevoli e sofisticati regimi autoritari basati sulla “libertà” di una classe politica che tutto può fare e ovunque può condurre. Il leader rivoluzionario, spogliatosi di ogni caratteristica personale, assume la veste simbolica di “incarnazione della volontà popolare”, mentre la moltitudine sostenitrice e fautrice della sovversione diventa il “popolo eletto”. Nell’autonomia rivoluzionaria la potenza morale e civile del “popolo” si rispecchia nell’onnipotenza del capo. La celebrazione del politico rivoluzionario è giustificata dall’entusiasmo popolare, dall’ideologia che lo legittima: la rivoluzione sovrana non conosce limiti né nella storia né nel diritto. Il leader – ma anche il gruppo o partito – insieme al popolo che li sostiene, trasforma il sistema politico da strumento di amministrazione in punto di riferimento obbligatorio per l’intero corpo sociale e per tutte le sue libertà e autonomie. La rivoluzione assume così connotazioni demiurgiche che – superata la fase della ribellione contro i vecchi e tradizionali assetti di dominio – si trasformano in autoritarismo. Che di questo si tratti anche per la “rivoluzione proletaria” di marxiana concezione è confermato nel Manifesto (1848) e nella Critica del programma di Gotha (1875) dove è spiegato che lo scopo della rivoluzione non è di edificare un nuovo tipo di “sistema politico” – con i suoi limiti, regole e procedure – bensì un “nuovo tipo di società”. Il proletariato, governando se stesso, governerà la società giacché ne rappresenta la parte migliore: il “comunismo moderno” si configura come una “sovranità popolare”. Ciò che conta non è il numero dei capi rivoluzionari (uno, nessuno, centomila), ma il fatto che possano esercitare un potere politico immediato, cioè assoluto e totale. In base a tali concezioni, il marxismo diventa un’ideologia politica antipolitica, fondata sull’“odio di classe” (Klassenhass) e si propone di sostituire i “falsi idoli” del capitalismo e della democrazia liberale con i veri santi del comunismo. Siamo quindi spinti dalla dottrina politica del marxismo alla sua “teoria della società”: una sociologia che si vorrebbe critica e non empirica, ma che è intrisa di contraddizioni. La prima è

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Eutanasia del marxismo

che, secondo Marx, la “società comunista” non sarebbe in senso proprio una società – il frutto di un contratto, di un patto, di un ordinamento – bensì una “comunità”, vale a dire: l’armoniosa e spontanea cooperazione di individui ognun per sé sociali. La teoria sociale del marxismo è anche una metateoria: postula infatti che ogni precedente teoria della società non sia stata altro che lo strumento ideologico attraverso il quale una parte della società ha occultato all’altra le forme del proprio dominio. Il marxismo, essendo una teoria critica, proporrebbe invece la visione scientifica e quindi oggettiva e condivisibile di tutta la società. In realtà, anche la sociologia marxiana resta ideologica: contrappone alla società reale – la società umana che c’è e che da sempre esiste – una postsocietà purificata e perfetta12. Marx aveva respinto con sdegno la dottrina borghese della “insocievole socievolezza” umana, che comportava il relativismo ideologico e l’instabile libertà delle formazioni sociali. A lui interessava di più la società umana in quanto ontologicamente comunista, conforme a una filosofia della storia che annunciava l’evangelo ultrasociale del mondo senza classi e senza individui. Scrisse Marx: “i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana”13. Mettendo parte, il limite eurocentrico del pensiero di Marx, va evidenziato che la sua condanna dell’economia monetaria e dell’industrializzazione guidate dal capitalismo si congiunse al rifiuto del sistema politico fondato sulla rappresentanza e sul parlamento. A dire di Marx, la borghesia liberale aveva ridotto i poteri dei ceti dominanti dell’“antico regime” al solo scopo di incrementare i propri e di esclu12 Lucio Colletti, Ideologia e società, Laterza, Bari, 1970. 13 Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Prefazione, 1859, tr. it., Editori Riuniti, Roma, 1969, pag. 6.

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I tormenti di Marx29

dere il proletariato dal potere politico. In questo si differenziò poco da Rousseau: per un colossale errore prospettico non intese il sistema del mercato libero e il sistema rappresentativo come mondi perfettibili, bensì come ipostasi dell’ingiustizia e della miseria umana. A Rousseau e a Marx rimase estraneo quello che era il frutto pregiato della dottrina politica liberale (segnalato da John Locke): creare un’autorità pubblica sufficientemente forte da regolamentare lo svolgimento delle relazioni sociali, ma – al tempo stesso – sufficientemente debole da non generare uno stato tirannico. Con la religione antireligiosa del comunismo e con il suo sistema postpolitico, Marx dissipò il duplice beneficio della liberazione illuminista della società civile dal controllo dello stato assoluto e della separazione della vita economica dal mondo politico. Non comprese che, attraverso il trasferimento dell’amministrazione e della competizione politica a libere e elettive rappresentanze, la borghesia era riuscita ad affrancare l’individuo dallo stato e a intensificare il ruolo delle libertà civili nella società14. Per Marx, invece, le molteplici alienazioni dell’uomo moderno si riassumevano nella scissione giuridica e economica del citoyen (astratto) e del bourgeois (concreto): una scissione che impediva l’esistenza storica dell’homme (l’ente generico del futuro) e dava origine a una sfera pubblica fittizia e di classe15. Due concetti chiave diedero al pensiero di Marx un’impronta esplicitamente antipolitica: il concetto di alienazione (Entfremdung, Entäußerung) e quello di feticismo (Fetischismus) che descrivevano le società moderne come aberrazioni dell’umanità (Menschlichkeit). Fra i concetti di alienazione e di feticismo non corse mai una barratura così netta da giustificare la distinzione fra il “giovane Marx” e il “Marx maturo”. Anzi: i due concetti furono sempre saldamente uniti nell’indicare la repulsione di Marx verso la realtà storica e sociale effettuale, intesa come forma di pervertimento della “essenza originaria” (Gattungwesen) della specie umana. La teoria classista fu escogitata sul modello delle costituzioni dei Greci e dei Romani. In esse Marx e Engels videro attuata la suddivisione delle società antiche in ceti e classi ferocemente distinti, la discriminazio14 Benjamin Constant, Constant, a c. di Antonio Zanfarino, il Mulino, Bologna, 1962; Guido De Ruggiero, Storia del liberalismo, Laterza, Bari, ed. 1949; Corrado Ocone, Il liberalismo nel Novecento. Da Croce a Berlin, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015. 15 Galvano Della Volpe, Rousseau e Marx e altri saggi di critica materialistica, Editori Riuniti, Roma, 1957; Mario Dal Pra, Rousseau e Marx, Milano, 1978..

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Eutanasia del marxismo

ne di genere nei confronti delle donne e la preclusione dei diritti nei confronti degli schiavi16. Con avventata predizione, si formò in Marx l’idea che il mondo potesse un giorno diventare eguale per tutti gli individui e assumere la forma di un ambiente omogeneo, pacificato e armonioso, in cui ognuno potesse godere dei medesimi beni di tutti gli altri: un sociale non sfigurato da competizione né da scarsità, da diseguaglianze né da guerre17. Ci si potrebbe chiedere se quella di Marx sia stata una “teoria della giustizia”? cioè se il marxismo possa venire interpretato come una dottrina insieme politica (finalizzata la governo della società) e morale (finalizzata alla riforma in senso egualitario delle relazioni civili e sociali). In realtà, uno stato comunista non potrebbe mai essere giusto e libertario: nessuna società fondata sulla libertà possibile degli individui potrebbe essere governata in nome di una concezione precostituita di “giustizia”. Una società che pretendesse di essere giusta sarebbe inevitabilmente illiberale e totalitaria: sottrarrebbe la determinazione dell’equità distributiva e della giustizia commutativa alla negoziazione tra le parti, al confronto tra interlocutori liberi e responsabili18. La comprensione eminentemente moderna – illustrata da Grozio e Pufendorf, da Machiavelli e Hobbes, da Montesquieu e Kant – che tra ordine e conflitto vi sia un rapporto aperto, e che quella che vigeva tra gli esseri umani fosse una “insocievole socievolezza”, non piacque a Marx. Gli apparve priva di senso, se non mistificante, la scelta della “borghesia” di limitare i poteri dello stato, consentire il libero mercato dei beni, organizzare forme politiche che favorissero la leale competizione fra i cittadini19. Per Marx si doveva fare ben altro! Bisognava “rovesciare alla radice” il rapporto fra gli individui e l’essere socia16 Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884, 1891, tr. it., Edizioni Rinascita, Roma, 1955. 17 Alfredo Sabetti, Studi sul giovane Marx, Liguori, Napoli, 1967; Karl Marx, Democrito e Epicuro. Dissertazione dottorale discussa a Jena il 15 aprile 1841, a c. di Alfredo Sabetti, La Nuova Italia, Firenze, 1979; Bruin Christensen, Zum Zusammenhang von Mensch, Natur und Entfremdung in Marx´ Ökonomisch-Philosophischen Manuskripten, in: http://www.cbchristensen. net/papers/, Jul 14, 2016. 18 AA.VV., Marxismo e giustizia, a c. di Sebastiano Maffettone, il Saggiatore, Milano, 1983; Ágnes Heller, Oltre la giustizia, il Mulino, Bologna, 1990; Martha C. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia, ed. it., il Mulino, Bologna, 2007; Amartya Sen, L’idea di giustizia, ed. it., Mondadori, Milano, 2009. 19 Giuseppe Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari, 1990.

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I tormenti di Marx31

le (Gesellschaftliches Sein), consentire alla collettività di anticipare e preordinare il destino dei singoli: soltanto così l’umanità avrebbe potuto realizzare la pienezza della sua essenza (Menschliche Essenz). L’aspirazione soteriologica del marxismo è quella della “eguaglianza di tutti gli esseri umani”. La brama di eguaglianza scaturisce dalla percezione sgradevole della ineguaglianza storica e sociale e si alimenta dell’oscuro e conflittuale legame tra l’individuo e il mondo. Della nobile pulsione alla redenzione dall’ineguaglianza tramite la “comunità degli eguali” si è appropriato il “genio del marxismo”. La storia umana è interpretata come una sequenza di ingiustizie e di ineguaglianze, di servitù e di patimenti, in cui i fasti e gli agi di alcuni si fanno beffe delle sofferenze e miserie di altri. Le tappe storiche nominate dal marxismo (schiavismo, feudalesimo, capitalismo e poi: imperialismo e globalizzazione) sono stazioni di una Via Crucis dell’umano inserite in un disegno teleologico. La “concezione materialistica della storia” indica i colpevoli e i responsabili di tanta indigenza e infelicità e ne prospetta l’imminente punizione attraverso il “capovolgimento” della finalità della storia (Gesetzmäßigkeit). Nascerà così una civiltà che cancellerà alienazione e valorizzazione capitalistica (Verwertung) e che compirà la purificazione dell’intero mondo. Nell’Ottocento la produzione industriale, effettuata tramite le macchine, con livelli crescenti di automazione e di produttività, avrebbe portato alla moltiplicazione dei beni di consumo, al calo dei prezzi, alla diffusione del lavoro salariato. Grazie alla “divisione tecnica” e alla “divisione sociale” del lavoro – organizzata scientificamente dai capitalisti – il mondo sarebbe uscito dalla miseria: lo scrisse Adam Smith, lo confermerà Schumpeter. Marx no. Lui nel capitalismo vide un sistema economico pericoloso e parassitario e nell’operaio alla catena di montaggio la materializzazione della mortificazione umana e dell’ingiustizia sociale20. Secondo una visione antropofagica dell’oggettivazione, nella produzione e nel consumo il proletario divora se stesso. Se la fabbrica e il mercato producono un “immane ammasso di merci” (1859), nel “consumo produttivo” della forza-lavoro si annida il morbo dello sfruttamento (Ausbeutung). Quello operaio – come quello degli impiegati, degli artisti e degli scienziati – diventava da “lavoro vivo” (Lebendig Arbeit) un “lavoro morto” (Tote Arbeit), svilito dalle macchine industriali che gli rubavano libertà e creatività se20

Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sez. IV, Cap. 13, “Macchine e grande industria”.

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Eutanasia del marxismo

condo le mire dei padroni (Besitzer) tese al sordido scopo di estorcerne plusvalore (Mehrwert)21. Marx fece balenare l’utopia di una società senza più lavoro: né intellettuale né manuale, senza merci e senza consumo, in cui le macchine – affrancate dall’uso capitalistico e liberate dai ceppi della “caduta tendenziale del saggio di profitto” – potessero funzionare da sole in gloria dell’umanità22. Si oppose così alla concezione cognitiva e costruttiva della trasformazione economica, della crescita tecnologica e della diffusione del consumo, che erano stati intesi da liberali come John Stuart Mill come vettori di sviluppo, di arricchimento sociale, di integrazione e di progresso per gli individui. Marx stava dando vita a una delle conseguenze più perniciose della sua dottrina: l’illusione “antilavorista”. La separazione fra Arbeit e Arbeitskräfte – espressione del dominio del capitalista sull’operaio – si sarebbe dissolta nel mondo comunista con la fine “della condanna al lavoro”. Marx ignorava che lo sviluppo tecnologico e la trasformazione del modo di produzione non avrebbero mai potuto produrre la “fine del lavoro” e neppure la nascita della società in cui ognuno avrebbe potuto: “la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare”. Il cambiamento scientifico e tecnologico – come pure il cambiamento dei mass-media – avrebbero provocato soltanto la ciclica trasformazione del lavoro23. In Marx soteriologia e commiserazione confluiscono nell’intensificazione salvifica dello “spazio politico” con la “dittatura del proletariato”: dai pulpiti del socialismo si divulgherà la fede degli ultimi che si oppongono ai satrapi dominatori. Per Marx e i suoi seguaci, le funzioni di governo e di legislazione, di amministrazione e di giurisdizione, di direzione e di organizzazione, non si dovranno praticare nella forma della delega e della intermediazione, in base a un livello di competenza e di razionalità procedurale 21 Alfred Sohn-Rethel, Geistige und körperliche Arbeit. Zur Epistemologie der abendländischen Geschichte, tr.it., Lavoro intellettuale e lavoro manuale: per la teoria della sintesi sociale, Feltrinelli, Milano, 1977. 22 Karl Marx, Il Capitale: Libro I, Capitolo VI inedito, a c. di Bruno Maffi, La Nuova Italia, Firenze, 1971. 23 Marshall McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, 1964, tr. It., Il Saggiatore, Milano, 1964; AA.VV., Stanchi del lavoro, a cura di Giulio de Martino, in: Paradigmi dell’ozio, vol. 1, Intra Moenia, Napoli, 2004; Luciano Floridi, The Fourth Revolution. How the infosphere is reshaping human reality, Oxford University Press, 2014.

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I tormenti di Marx33

efficace ma limitato. Per i marxisti le scelte politiche, giuridiche, economiche dovranno essere inoppugnabilmente valide e definitive, dedotte dalla “esatta visione storica” e dalla “interpretazione scientifica” delle “leggi dello sviluppo umano e sociale”. La dialettica marxista civetta con la concezione liberale della società presentandola come la conferma “a contrario” della propria ideologia. Il marxismo propone l’abolizione dell’economia monetaria, del mercato e del libero scambio e la sovversione del sistema politico rappresentativo come prerequisiti essenziali di ogni avventura rivoluzionaria24. Da dove potrà avere inizio una tale immane impresa? Occorre una Pars destruens, ma anche una Pars Construens, con la “rivoluzione” come punto di giuntura. Guardandosi intorno, fuori della Germania, Marx vide la borghesia inglese e americana intente – tra il XVIII e il XIX secolo – a modernizzare e a trasformare le società, i sistemi politici e economici: si propose, quindi, di passare dalla “filosofia” a una più terrena “Kritik der Politischen Ökonomie”25. Premessa della soppressione del capitalismo fu la teoria della “crisi economica” come crisi di sovrapproduzione che, ciclicamente, portava al collasso i mercati. Era il “capitale finanziario”, intimidito dalla “caduta tendenziale del saggio del profitto”, a provocare lo scatenamento delle crisi ritirando i capitali dal mercato e gettando la società nella miseria. I keynesiani descriveranno piuttosto la crisi come derivante da insufficienza di domanda e quindi da insufficienza di investimento. Da qui la disoccupazione, la caduta della quota dei salari e le fasi sottoconsumiste di stagnazione dello sviluppo. Se Keynes paventava un esito stagnazionistico, la teoria crollista (Zusammenbruchstheorie) sosteneva l’incompatibilità fra il mondo sociale e la prosecuzione dell’economia capitalistica. Se Marx descriveva i periodi di crisi economica come causati dal cieco dominio di classe, Keynes attribuiva le crisi agli imprevedibili moti degli “spiriti animali” (Animal Spirits) del capitalismo. Poco c’era da fare se non intervenire alla bisogna con politiche riformatrici, che aiutassero la società ad andare oltre i suoi malesseri senza intaccarne i 24 Hannah Arendt, On Revolution, 1963, ed. it., Sulla rivoluzione, Milano, Edizioni di Comunità, 1983; Luciano Pellicani, Anatomia dell’anticapitalismo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010. 25 Karl Polanyi, La grande trasformazione, 1944, tr. it., Einaudi, Torino, 1974

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Eutanasia del marxismo

meccanismi autoregolativi. Una siffatta Gelassenheit sarebbe stata preclusa ai marxisti. Abside del loro edificio era la critica della società liberale: quella in cui i poteri restavano divisi fra la classe politica e i gruppi capitalistici. Marx, spregiativamente, aveva definito lo stato liberale come il “comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese” (1848), Lenin avrebbe pensato che fosse sorto un mostruoso “capitalismo monopolistico di Stato” che aveva posto “le forze dei monopoli con le forze dello stato borghese in un unico meccanismo” e avrebbe concluso che: “il socialismo non è altro che il capitalismo monopolistico di stato messo al servizio di tutto il popolo”. Questo capovolgimento rivela come lo scopo delle teorie marxiste altro non fosse che di porre termine a ogni forma di autonomo dinamismo economico, con la sottomissione dei cicli a regole ferree dettate dallo stato. Non solo la teoria economica marxista non accetta il pluralismo dei poteri e dei sistemi presente nella società liberale, ma non tollera neppure gli aspetti psicologici – cioè storici e contingenti – del processo economico e delle sue tendenze accidentali e imprevedibili. Il marxismo immagina che si possa creare un sistema economico razionale e pianificato, non segnato dalla scarsità e dalla “lotta per la sopravvivenza”, un sistema stabile come non lo è neanche il sistema fisico abiotico26. Non così ingenui sarebbero stati i neomarxisti che, vedendo con i loro occhi le capacità innovative dell’economia capitalistica – permeabile ai mutamenti tecnologici e a quelli culturali – avrebbero interpretato in senso dinamico l’“antagonismo di classe”. Agli storici interessa il carattere mutevole dell’anaciclosi politica: può condurre ad un ruolo riformatore degli stati nella gestione dei cicli finanziari e economici, ma anche a derive autoritarie, con conseguenze distruttive per le libertà sociali. Marx – da filosofo d’epoca27– fu prosecutore di quel “platonismo politico” che vorrebbe al governo classi dirigenti immuni da avidità e corruzione, odio 26 AA.VV., Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, a c. di Lucio Colletti e Claudio Napoleoni, Laterza, Bari, 1970; Hyman P. Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Milano, 2010; AA.VV:, Karl Marx e la crisi, a c. di Mauro Ponzi, Quodlibet, Roma, 2017. 27 Allen Wood, Karl Marx. The Arguments of the Philosophers, Routledge, 1981; AA.VV., Politics at the Turn of the Century, con scritti di: Arthur Melzer, Richard M. Zinman, Jerry Weinberger, Todd Gitlin, Seyla Benhabib, Alan Wolfe, Alan Brinkley, Rowman, Oxford 2001.

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I tormenti di Marx35

e incompetenza, velleità e sogni. Pur volendo sembrare realista e spregiudicato, fantasticava élite formate da illuminati funzionari dell’umanità che realizzassero il “migliore dei mondi impossibili”. Ancora oggi i marxisti si impegnano a disegnare “castelli in aria”, di contro al “mondo vero” che sarebbe un coacervo di abiezioni, di stoltezza e di ingiustizie28. Il sogno di Marx fu quello di rintracciare, all’interno della millenaria evoluzione dell’umanità, le modalità del suo autosuperamento (Aufhebung). Le trovò nel nesso “dialettico” fra storia e guerra. Studiando la storia greca e il pensiero di Eraclito, si chiese quale fosse l’“essenza della guerra” (Essenz des Krieges) e pensò che essa fosse il segno della “preistoria umana”. Qui intervenne il rovesciamento (Sturz): la guerra costituiva sia la forma del conflitto (ἀγών) tra le associazioni umane che l’occasione (καιρός) per il loro cambiamento. Abbandonò la distinzione fra periodi di guerra e periodi di pace e la tesi di Carl von Clausewitz che la guerra fosse “la continuazione della politica con altri mezzi” (Vom Kriege, 1834). Affermò, invece, che la lotta rivoluzionaria del proletariato era la “continuazione della guerra con altri mezzi”. La “lotta di classe” (Klassenkampf) era una “guerra sociale” destinata a produrre la “rivoluzione finale” (Δευτέρα Παρουσία) in cui – sconfitta la borghesia – si sarebbe aperto l’accesso alla pace perpetua29. Una concezione della guerra come dialettica dell’umanità – agòne essenziale nella insocievole socievolezza tra i popoli e le genti – si trova invece formulata in Proudhon. Il filosofo francese giunse a comprendere l’importanza del trasferimento – proposto dalla borghesia europea – dell’antagonismo sanguinario e violento al più regolamentato conflitto della politica e della concorrenza economica30. Peculiarità del marxismo, che lo rese – quando ebbe trovato adeguata diffusione nella società – una potente macchina da guerra politica, fu il “nesso inscindibile di teoria e prassi”. Per esso si univano 28 Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2011; Maurizio Lazzarato, The Making of Indebted Man, An essay on the neo-liberal condition, Semiotext, Los Angeles, CA, 2012. 29 GIK, Klassenkampf im Kriege. Der zweite Weltkrieg ist unabwendbar, Holland, 1935; Gian Mario Bravo, La Prima Internazionale: storia documentaria, Editori Riuniti, Roma, 1978. 30 Pierre-Joseph Proudhon, La Guerre et la Paix, Paris, Dentu, 1861, tr. it. parziale, La guerra e la pace, a c. di Piero Jahier, Carabba, Lanciano, 1934.

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Eutanasia del marxismo

in una circolarità ferrea una teoria dogmatica e una prassi aggressiva, come nelle dottrine religiose di maggiore impatto politico. Mirando a sottomettere le vicende storiche dell’umanità a una consapevole azione che ne assumesse le contraddizioni e ne pianificasse gli esiti, il marxismo ha messo al mondo una ideologia che ha trasfigurato in forma immanentistica i timori e le speranze del cristianesimo31. Il nesso dogmatico di “storia” e “politica” è il vero scandalo del marxismo, sia di quello di Marx che di quello di Engels32. Come scrisse Karl Popper: “la ragione del fallimento di Marx come profeta va esclusivamente trovata nella povertà dello storicismo in quanto tale, nel semplice fatto che anche se constatiamo oggi il manifestarsi di una certa tendenza o direzione storica, non possiamo sapere quale aspetto essa potrà assumere domani”33.

31 Karl Löwith, Marxismo e storia, 1949, in: “Pólemos. Materiali di filosofia e critica sociale”, VI, numero 4-5, dicembre 2011, pp. 146-156; Alasdair MacIntyre, Marxism and Christianity, University of Notre Dame Press, Indiana, 1984; Stephane Courtois, Dictionnaire du Communisme, Larousse, 2007. 32 Friedrich Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, (1880), tr.it., Editori Riuniti, Roma, 1971; Karl Marx, La concezione materialistica della storia, (L’ideologia tedesca, 1846), a cura di Fausto Codino, Editori Riuniti, Roma, 1974. 33 Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, volume I: Platone totalitario; volume II: Hegel e Marx falsi profeti, 1942, tr. it., Armando, Roma, 1973, vol. II, p. 225.

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CAPITOLO SECONDO MORTE E RESURREZIONE DEL MARXISMO

Il marxismo – inteso come discesa sugli “uomini di buona volontà” dello Spirito Santo (Ἅγιον Πνεῦμα) di Karl Marx – ebbe origine dopo la morte del filosofo. Furono gli sforzi di Friedrich Engels e di Eleanor Marx a propiziarne la Resurrezione coagulando i primi nuclei di illuminati. Il simbolo del marxismo apostolico non fu il comunismo, bensì il socialismo. Il suo cuore dottrinale non fu un progetto politico bensì una visione della storia del mondo: la “concezione materialistica della storia”. La concezione dualista – fondata sulla contrapposizione di due classi principali (schiavi e liberi, servi e nobili, borghesi e proletari) – avrebbe illuminato la logica del processo d’industrializzazione visto dalla parte del proletariato e dato impulso alla nascita del “movimento operaio”. L’Ottocento aveva portato al consolidamento del potere della borghesia che governava secondo i principi del liberalismo: la limitazione dei poteri delle monarchie, l’estensione alla “classe media” dei privilegi nobiliari. Alcuni storici marxisti ne hanno evidenziato le tendenze autoritarie e addirittura predatrici, occultandone le tendenze riformatrici1. Affascinati dal bipolarismo, gli storici marxisti hanno costruito una narrazione che ha appiattito il profilo culturale, economico e politico della “classe media”. La dialettica interna alla società borghese, come pure le alternative presenti nel sistema politico, le evoluzioni dell’amministrazione e della vita economica, non sono state apprezzate nella convinzione che il meccanismo propulsivo della vita sociale risiedesse nella “lotta tra le classi” e che ogni forma di cambiamento dovesse necessariamente derivare dal conflitto tra “le forze produttive e i rapporti di produzione”. In realtà, all’interno della borghesia vi erano forti differenziazioni: partiti politici diver1

Crawford Brough Macpherson, The political theory of possessive individualism: Hobbes to Locke, Oxford 1962, tr. it., ISEDI, Milano, 1973; John Hobson, L’imperialismo, ISEDI, Milano, 1974.

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Eutanasia del marxismo

si e contrapposti. I gruppi politici borghesi erano caratterizzati dal contrasto fra il liberalismo e il repubblicanismo ben più che dalla lotta, privilegiata dai marxisti, tra liberalismo e socialismo. Nella realtà storica, le “rivoluzioni borghesi” avrebbero diffuso nel mondo i diritti individuali e i principi di eguaglianza e di giustizia. Si trattò certamente di processi incompleti e disomogenei, ma della cui direzione non si può dubitare2. All’interno del movimento socialista non vi furono accadimenti lineari: i gruppi e le organizzazioni che avrebbero tradotto in epoca altra il lascito dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori furono in forte contrasto fra loro. I congressi, che avrebbero dovuto comporre le divisioni e unificare le interpretazioni, furono più spesso occasione di diverbi e di scissioni, tanto da mettere in discussione non solo il marxismo ma la stessa vitalità politica del socialismo3. Alcuni storici e filosofi si persuasero che, morti Marx e Engels, il marxismo e il socialismo fossero anch’essi defunti4. E invece il socialismo risorse. Furono le componenti gradualiste e riformiste a creare le condizioni di compatibilità fra l’ideologia marxista e lo sviluppo capitalista: gli obiettivi del socialismo furono stabiliti nel congresso fondativo dell’Internazionale a Parigi, il 14 luglio 18895. I partiti socialisti si determinarono a occupare gli spazi politici e istituzionali che il liberalismo e il repubblicanismo stavano aprendo loro in opposizione sia ai partiti liberali sia a quelli nazionalisti: diedero origine a un singolare connubio di radicalismo intellettuale e di riformismo pratico. Benedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari, 1932; Eric John Hobsbawm, Il lungo XIX secolo: Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, 1962, tr.it., Il Saggiatore, Milano 1971; Il trionfo della borghesia. 1848-1875, 1975, tr.it., Laterza, Bari, 1976; L’età degli imperi. 1875-1914, 1976, tr. it., Laterza, Bari, 1991; Alessandro Pinzani, Repubblicanesimo e democrazia liberale: un binomio inconciliabile?, in: “Annali del Dipartimento di Filosofia 2003-2004”, University Press, Firenze, 2005, pp.299-316. 3 Lorenzo Gori (a cura di), Le disavventure della Rivoluzione Socialista, Prospettiva edizioni, Firenze, 2014. 4 Falea di Calcedonia, La morte del socialismo (Discorrendo con Benedetto Croce), in: “Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica”, Serie terza, Vol. 42 (Anno 22), n. 3 (marzo 1911), pp. 294-300. 5 AA.VV., Storia del marxismo, vol. II, Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale, Einaudi, Torino, 1979; in part.: Marek Waldenberg, La strategia politica della socialdemocrazia tedesca; Iring Fetscher, Bernstein e la sfida all’ortodossia. 2

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Morte e Resurrezione del marxismo39

Certamente, nel corpo del socialismo, si celava il fantasma del comunismo. Le forze politiche e i sindacati, anche quando praticavano la negoziazione e una politica di accordi parlamentari, prelevavano dal Manifesto e dal Capitale i modelli di analisi sociale e il loro “fine ultimo” (ἐντελέχεια). L’ambivalenza dei testi di Marx – nonostante le cautele storiche e epistemologiche del vecchio Engels – avrebbe generato un pensiero politico enigmatico: sospeso fra scienza e utopia, realismo e messianismo. Alcuni gruppi, di più marcata ispirazione rivoluzionaria, seguitarono a leggere gli scritti di Marx come fossero le lettere di un apostolo intransigente, nunzio di una società futura totalmente diversa da quella presente. Antonio Labriola, ad esempio, ancorava saldamente la prassi alla teoria. Scrisse: “[Il materialismo storico] non implica una preferenza soggettiva ad una certa qualità e somma d’interessi umani, contrapposti ad altri interessi per elezione di arbitrio, ma enuncia soltanto la obiettiva coordinazione e subordinazione di tutti gli interessi nello sviluppo di ogni società, ed enuncia ciò per via di quel processo genetico, il quale consiste nell’andare dalle condizioni ai condizionati, dagli elementi della formazione alla cosa formata”6. Come dire che, per i marxisti, la politica non è astratta ideologia ma è scienza e che “la filosofia della praxis è il midollo del materialismo storico”. Vi si potrebbe opporre – fermandosi alla vicenda italiana – l’ispirazione tutta differente di Filippo Turati che, pur non liberando completamente la politica socialista dal carico greve dei teoremi marxiani, non la vincolò a un programma prefissato e dedotto dogmaticamente dai “sacri testi” e non perseguì un classismo tanto intransigente quanto ideologico. Riguardo alla costituzione ambivalente del proletariato – classe portatrice di bisogni e di rivendicazioni democratiche, ma anche di rancori, violenza e illegalismo – scrisse: “esso è tutto pieno di principi, di tendenze, di residui borghesi: il nemico che ha contro di sé lo ha anche in se stesso. Deve … gettare il vecchio uomo: questo non avviene in un giorno”7. Insomma, se l’AIL (1864) era divisa tra marxisti e bakuninisti, la Seconda Internazionale si sarebbe di6 7

Antonio Labriola, Del materialismo storico. Delucidazione preliminare, Roma, 1896, 1902, p. 3. Filippo Turati, Dove andiamo?, in: “Critica Sociale”, 16 ottobre 1892. Leo Valiani, Turati e le sintesi delle tendenze Risorgimentali, in “Critica sociale”, n. 24, 1961; AA.VV., Filippo Turati e il socialismo europeo, a c. di Maurizio degl’Innocenti, Guida, Napoli, 1985.

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Eutanasia del marxismo

visa tra gradualisti (o minimalisti) e rivoluzionari (o massimalisti). Grazie alla separazione fra la tattica e la strategia si sarebbero poste in sequenza la teoria della riforma della società e la teoria della rivoluzione, cosa che avrebbe consentito la coabitazione, nelle stesse organizzazioni, di gruppi differenti8. Si deve dare atto agli anarchici di avere evidenziato – negli anni ’60 e negli anni ’90 dell’Ottocento – gli aspetti totalitari e antiliberali del marxismo. Essendo, però, caparbiamente avversi ai gradualisti si sarebbero confinati in un ambito antipolitico9. Nel socialismo, qualcosa sarebbe cambiato con il pensatore e politico tedesco Eduard Bernstein (1850-1932). Con lui l’orizzonte riformista si aprì un’autonoma strada fuoriuscendo dall’impianto culturale e ideologico marxista e allontanandosi sia dall’equivoco gradualista sia dall’aggressività dei massimalisti. La sua dottrina, definita unanimemente come revisionista, comportò – come lui stesso scrisse in Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (1899) – l’abbandono dell’impianto catastrofista e palingenetico di Marx. Bernstein non intese il socialismo come una Weltanschauung totalizzante, bensì come un paradigma etico e politico relativo alle differenti epoche dello sviluppo capitalistico e ai differenti contesti storici. Nei primi anni del ’900 i socialdemocratici tedeschi si sarebbero, in larga maggioranza, atteggiati a difensori delle garanzie liberali e sarebbero stati ostili a iniziative violente e temerarie. Per questo – scoppiata la rivoluzione in Russia all’insegna del ritorno al marxismo – sarebbero giunti allo scontro frontale con Lenin, Trotzskij e con la Luxemburg che rivolsero loro – leader a quel tempo era Karl Kautsky (1854–1938) – l’anatema di socialtraditori. A noi importa che, sia la drammatica emergenza bellica, sia gli eventi del 1917, furono affrontati, nel dibattito politico interno alla SPD, con un linguaggio improntato al realismo e alla valutazione delle possibilità e delle alternative. Pur discutendo su tematiche apicali e dirimenti, la 8 9

Nicola Tranfaglia (e altri), 1892-1992. Percorsi e contrasti della Sinistra italiana, Istituto Gramsci, Roma, 1992. George Woodcock, L’anarchia: storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli, Milano, 1966; Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta (1862-1892), Rizzoli, Milano, 1969; Jean Préposiet, Storia dell’anarchismo, Dedalo, Bari, 2006.

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Morte e Resurrezione del marxismo41

SPD non scivolò mai dal piano storico e pragmatico, a quello metapolitico e ideologico. In Germania, l’abbandono della prospettiva rivoluzionaria consentì di promuovere l’organizzazione sindacale della classe lavoratrice e la partecipazione del partito socialdemocratico alla competizione parlamentare. La SPD che aveva avuto nel 1912 circa 4.250.400 voti (34,8 % del totale), dopo la sconfitta bellica, nel 1919, avrebbe ottenuto 11.509.048 voti (pari al 37,9%). La Prima guerra mondiale e la Rivoluzione bolscevica avrebbero spezzato e complicato l’evoluzione riformista del socialismo, interrompendo il suo inserimento nella formazione sociale liberale e repubblicana. La vicenda del socialismo occidentale sarebbe proseguita con l’“Unione dei Partiti Socialisti per l’Azione Internazionale” di Vienna (27 febbraio 1921) e poi con la riunione dell’Internazionale dei Lavoratori Socialisti (Amburgo 1923) esplicitamente antileniniste. In Germania la SPD, dopo essersi attestata su consensi mediamente superiori al 20%, ancora nel 1930 – in piena crisi della repubblica di Weimar e di ascesa della NSDAP – avrebbe riscosso il 24,5% delle preferenze, pari a 8.575.244 voti10.

10 Siegmund Ginzberg, Sindrome 1933, Feltrinelli, Milano, 2019.

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CAPITOLO TERZO PENTECOSTE E AVVENTO DELLA TERZA INTERNAZIONALE

La nuova e folgorante apparizione (ἐπιφάνεια) del marxismo rivoluzionario sarebbe accaduta nel 1917. Artefice di tanto prodigio fu Vladimir Ilic Ulianov detto Lenin. Con lui il marxismo si sarebbe inserito nella poco commendevole schiera delle dottrine politiche totalitarie del Novecento1. Filosofo e uomo politico, lettore della Logica di Hegel e de Il Capitale, Lenin fu unto “sulla via di Mosca”. La sua genialità si manifestò nel far convergere la teoria ultrapolitica di Marx con la realtà storica della Russia: un Paese che si era inserito nella prima guerra mondiale trasformandosi, in circa un decennio, da impero assolutista in una monarchia parlamentare e poi in una fragile repubblica2. Se si esaminano i documenti del dibattito fra le frazioni del POSDR nel 1903, si potrà vedere come i militanti della frazione bolscevica – non diversamente dai massimalisti degli altri partiti socialisti – fossero distanti dall’impegno per la trasformazione costituzionale della Russia e tenessero separati il tempo storico dello zarismo e della borghesia dal tempo di avvento del “movimento rivoluzionario del proletariato”3. La concezione della doppia storia costituisce il cuore del marxismo. Secondo tale veduta – di ascendenza teologico-cristiana – la storia in effettivo svolgimento non costituisce la vera storia, bensí un accadere esteriore, distorto e manipolato dall’azione della borghesia e dei centri del potere capitalistico. Al di fuori Jacob L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, 1952, tr.it., il Mulino Bologna, 1967, 2000. 2 Lenin, Materialismo e empiriocriticismo, 1909, tr. it., Editori Riuniti, Roma, 1953; Id., Quaderni filosofici, a c. di Ignazio Ambrogio, Editori Riuniti, Roma, 1971; Tito Perlini, Lenin, Sansoni/Accademia, Firenze, 1971. 3 Russia 1903. Programma e statuto della Socialdemocrazia, tr. it., Prospettiva edizioni, Roma, 1999, pp. 16-20. 1

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di tale storicità inumana e perversa – pronto a erompere in superficie – appena condizioni propizie glielo avessero consentito – scorre il “fiume carsico” della lotta di classe del proletariato: è l’altra storia, quella di un “mondo non ancora reale, ma possibile”. In particolare, i bolscevichi spiegavano che lo scardinamento dell’organizzazione politica e economica della Russia zarista era reso praticabile dal “metodo scientifico di Marx e di Engels”. Il marxismo aveva cambiato sia la loro visione della realtà sia la loro collocazione nella società. In apparenza i bolscevichi sembravano credere nella possibilità di una “repubblica democratica” che rovesciasse l’“autocrazia zarista” (pp. 55-60). In realtà, l’enfasi che ponevano sulle questioni dell’“organizzazione” e sulle rigorose procedure volte a stabilire chi avesse titolo per diventare un “membro del partito”, ci rivela come stessero costituendo un raggruppamento settario. Dando vita a una concezione mistica della politica, i bolscevichi utilizzavano il marxismo e la missione che ne scaturiva come un credo: stigmatizzavano “tentennamenti, confusioni, opportunismi” e assumevano la fedeltà alla dottrina come un talismano per “salvaguardare la fermezza e mantenere la purezza” dei principi e degli obiettivi (pp. 85-87). Nelle Tesi di aprile, Lenin scrisse: “4. […] Fino a che saremo in minoranza, svolgeremo un’opera di critica e di spiegazione degli errori, sostenendo in pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai Soviet dei deputati operai, perché le masse possano liberarsi dei loro errori sulla base dell’esperienza”4. Enunciò così il principio della “democrazia diretta” del proletariato che poneva fine al “dualismo di potere” fra lo stato repubblicano e gli organismi popolari. Il POSDR bolscevico avrebbe spazzato via “le illusioni della democrazia borghese” e realizzato una nuova forma politica della società: la “dittatura del proletariato e dei soviet”. La radicale politicizzazione della società, che era implicita nel “tutto il potere statale ai Soviet”, derivava dal democraticismo dispotico che stava nel cuore del marxismo. Abolendo ogni distinzione fra società e sistema politico e, in generale, fra società e stato, Lenin approdò al totalitarismo5. 4 5

V.I. Lenin, Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale. Tesi d’Aprile, (1917). Hannah Arendt, The Burden of Our Time, 1951, tr. it., Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1967.

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Pentecoste e Avvento della Terza Internazionale 45

Nell’ottobre del 1917 il nesso di marxismo e guerra sarebbe stato confermato. Il conflitto in corso era “sciovinista” e “imperialista” – scrisse Lenin – e i partiti socialdemocratici, allineati con i governi dei diversi Paesi, agivano da “opportunisti” e da “servi della propria borghesia”. Se la guerra mondiale era stata il portato della follia devastatrice del “capitale finanziario”, il POSDRb avrebbe posto fine alla “guerra tra le nazioni” e avviato la “guerra civile” delle classi: l’“ultima guerra” (letzter Krieg), quella che preludeva alla rivoluzione6. Era finita l’epoca della borghesia: si inaugurava un tempo d’eccezione, un tempo di prodigi (ἔλευσις) in cui si potevano eliminare il “parlamento”, la “libertà di riunione” e la “libertà di stampa”. In quel passaggio ultrastorico, con pratiche violente ma “assolutamente legittime”, vi sarebbe stata la soppressione della “democrazia pura” e della “libertà astratta” e si sarebbe sostituito il potere di alcuni con l’“eguaglianza di tutti” (Tesi di Lenin sulla democrazia borghese e sulla dittatura proletaria7). Il luogo metapolitico in cui si andava a collocare il movimento comunista “era stato scoperto” da Marx e da Engels, da esso si modificava la direzione del mondo. Nella Piattaforma dell’Internazionale comunista i bolscevichi avrebbero ribadito che si era giunti alla intensificazione della lotta contro i “briganti del capitalismo”: “il periodo rivoluzionario esige che il proletariato usi un metodo di lotta capace di concentrare tutta la sua energia […] nell’urto diretto, nella guerra dichiarata contro la macchina statale borghese”8. Nel pieno della terribile esperienza della guerra vi erano le condizioni per porre termine al male della società russa – e quindi del mondo intero -con un cambiamento epocale9. Risultato importante dell’opera di Lenin fu precisare, con rigore mai raggiunto prima, quale fosse la filosofia del marxismo. Da quella dottrina, dai suoi lemmi e teoremi, derivava il punto di vista in situazione, vale a dire la prassi politica. Nel laboratorio del POSDRb sarebbe stata sintetizzata quella “astrazione concreta” che sarebbe stata la cellula germinale della “trasformazione del mondo”. Gli eventi, fino ad allora oscuri e poco 6 AA.VV., Primo congresso della Internazionale comunista. Documenti, manifesti e risoluzioni (1919), Samonà e Savelli, Roma, 1970. 7 Ivi, pp. 39 sgg. 8 Ivi, pp. 71 sgg. 9 John Reed, Ten Days That Shook the World, Boni and Liverlight, New York, 1919.

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Eutanasia del marxismo

prevedibili, si sarebbero illuminati di nuova luce per entrare perfettamente nella scansione categoriale della teoria. La rivoluzione diventava da opzione teorica una necessità e le organizzazioni bolsceviche potevano finalmente guidare il proletariato di “tutti i Paesi” nella marcia verso la “società socialista”. Una difesa accanita dell’evento rivoluzionario sovietico è stata tentata dagli storici marxisti, che sono giunti a contrapporre l’“ottobre rosso”, nel suo splendore liberatorio e creativo, alle meno esaltanti e cupe vicende che, pochi anni dopo, lo avrebbero seguito10. Un ruolo decisivo nella costruzione del pensiero di Lenin lo svolsero gli scritti di Imperializm, kak novejsij etap Kapitalizma (Parus, 1917): in essi l’impostazione marxista trovò la sua piena e matura applicazione. Alcuni hanno definito quegli scritti come uno “sviluppo” de Il Capitale, altri ne hanno apprezzato la descrizione storica degli ultimi anni del secolo XIX e l’esplicazione dei meccanismi economici che avevano condotto le elite politiche europee alla prima guerra mondiale. In quel libro, Lenin interpretò il colonialismo come esigenza vitale delle economie industriali europee. In seguito alla trasformazione imperialistica, la politica degli stati liberali si sarebbe sviluppata secondo un “doppio standard”. In ambito interno, questi stati e i loro governi avrebbero ostacolato il protagonismo politico delle classi popolari e dei partiti socialisti adottando il riformismo e introducendo primi elementi di welfare state. Quando ciò non si fosse dimostrato sufficiente, avrebbero adottato misure autoritarie e poliziesche. In politica estera, invece, avrebbero praticato senza esitazione la “diplomazia delle cannoniere” (Gunboat diplomacy): un metodo di pressione militare sfociato in campagne imperialistiche contro i Paesi dell’Asia e dell’Africa. L’assoggettamento di popolazioni giudicate inferiori sul piano economico e culturale fu congiunto al narcisismo nazionalista. Ultimata l’espansione coloniale, al principio del nuovo secolo, la tendenza bellicista sarebbe degenerata nello scontro dei Paesi capitalisti gli uni contro gli altri. In realtà, nell’analisi storica di Lenin erano contenute valutazioni discutibili. Derivavano dall’impostazione filosofica marxista che le ispirava. Lenin ritenne che l’ideologia liberale si potesse identificare senza residui con il “colonialismo”. Il punto di transizione dal li10 Ernest Mandel, Ottobre 1917. Storia e significato di una rivoluzione, 1992, Datanews, Roma, 1993.

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Pentecoste e Avvento della Terza Internazionale 47

beralismo al colonialismo era stato rappresentato dal nazionalismo. Che l’“idea di nazione” fosse presente nella vita politica dei Paesi occidentali nel corso del secolo XIX è senz’altro vero. Che avesse avuto significati diversi (culturali, politici, ideologici) anche. Che, di per se stesso, il nazionalismo fosse un fenomeno degenerativo delle società è falso. Il liberalismo ha intrattenuto un rapporto con l’idea di nazione di tipo progettuale e politico, differente da quello autoritario e integralista delle ideologie totalitarie. Il liberalismo essendo un’ideologia individualista, è contrario a ogni forma di controllo autoritario delle libertà personali: esso è, fin dalle origini seicentesche, la dottrina politica dello “stato debole”, dello “stato minimo”. Per questo ha assimilato l’idea di nazione come sinonimo di indipendenza, di autodeterminazione, di unificazione giuridica di un popolo. Certamente la massificazione è stata una conseguenza dei processi di industrializzazione e di sviluppo della “società dei consumi” tra ’800 e ’900, ma anche con questo fenomeno il liberalismo ha intrattenuto un rapporto critico e problematico. Il liberalismo ha tutelato il pluralismo, la concorrenza, la competizione, l’iniziativa individuale e la libertà privata. È vero quindi l’opposto di ciò che pensava Lenin: sono stati i movimenti antiliberali – sia quelli di ispirazione dispoticamente democratica sia quelli di ispirazione reazionaria e conservatrice – a utilizzare a proprio vantaggio le dinamiche della massificazione. Gli storici si riferiscono proprio a tale strumentalizzazione quando scrivono della “nazionalizzazione delle masse” e dell’uso a fini di consenso della “propaganda politica”11. Lenin, seguace dell’internazionalismo marxista, non tenne in conto le due facce del nazionalismo: quella regressiva (massificatrice, totalitaria) e quella progressiva (liberale, indipendentista) e per questo adoperò le parole: liberale, nazionalista e imperialista come se fossero sinonimi12.

11 George L. Mosse, The nationalization of the masses; political symbolism and mass movements in Germany from the Napoleonic wars through the Third Reich, New York 1975, tr. it., il Mulino, Bologna 1975. 12 Ernest Renan, What is a Nation?, 1882, in: Chaim Gans, The Limits of Nationalism, Cambridge University Press, 2003; Federico Chabod, L’idea di nazione, a cura di Armando Saitta e di Ernesto Sestan, G. Laterza, Bari, 1961; Anthony D. Smith, Nazioni e nazionalismi nell’era globale, [1995], Asterios, Trieste, 2000.

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Eutanasia del marxismo

Lenin ritenne che l’imperialismo delle nazioni europee e degli USA potesse determinare il “crollo dell’ideologia liberale”. Seguendo Marx – che aveva definito le rivoluzioni liberali del ’700 e lo sviluppo capitalista dell’800, come l’inizio della “dittatura di classe della borghesia” – Lenin scrisse che, con il colonialismo e l’imperialismo, il liberalismo stava “gettando la maschera” e rinnegava i suoi stessi principi, per svelarsi come una “forma di dominio di classe”. Ecco che qui appare lampante la confusione tra il capitalismo (fenomeno economico) e il liberalismo (dottrina etica e politica). Tale confusione avrebbe condotto i marxisti-leninisti di ogni epoca a ritenere che, per superare vizi e contraddizioni dello sviluppo economico e sociale, non fosse necessario adottare le opportune strategie riformistiche dell’economia e della legislazione, bensì “abbattere il liberalismo”. Lenin considerò lo scoppio della prima guerra mondiale come una occasione d’oro per i movimenti rivoluzionari per conquistare il potere nel maggior numero di Paesi europei. I bolscevichi, non interpretarono la scelta bellicista delle nazioni europee in forma storicamente determinata – certamente crudele e distruttiva – ma la intesero in forma apocalittica come il tempo della fine (aharit hayamim) del sistema delle nazioni europee e come la “bancarotta” terminale del liberalismo. Che la scelta del 1914 fosse stata folle e autolesionista, lo hanno compreso gli storici analizzandone freddamente i meccanismi e senza lasciarsi trasportare dal profetismo. La prima guerra mondiale portò le potenti nazioni europee a distruggersi tra di loro e compromise la posizione di dominio di cui godevano nel mondo. La Russia e poi l’Italia e la Germania sarebbero giunte a perdere l’ordinamento liberale. Il dispositivo di mobilitazione generale creatosi nel corso della guerra – volto a controllare la produzione e a distribuire i costi e le responsabilità del conflitto – avrebbe provocato una spinta “corporativa” da cui sarebbero sorte le modificazioni istituzionali che, nella seconda metà degli anni ’20 e negli anni ’30, avrebbero condotto alla stabilizzazione totalitaria. Non solo. Le contraddizioni degli “accordi di pace” di Versailles avrebbero innescato ulteriori contrapposizioni fra gli stati europei13. 13 John Maynard Keynes, The Economic Consequences of the Peace [1919], tr.it., Le conseguenze economiche della pace, Adelphi, Milano, 2007; Charles S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, [1973], tr. it. De Donato, Bari, 1979.

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Pentecoste e Avvento della Terza Internazionale 49

Ricordiamo che, in quell’epoca, non esistevano istituzioni internazionali per la regolazione dei conflitti e neppure era stato formulato il “pacifismo giuridico” connesso alla “dottrina dei diritti umani”: istituti e principi che si sarebbero affermati soltanto dopo la seconda guerra mondiale14. Lenin immaginò che la Russia dei soviet fosse una sorta di “tribunale della storia”: superiore a quel mondo liberale di cui il socialismo russo stava oltrepassando i limiti e le contraddizioni. Al termine della prima guerra mondiale, mentre a Ginevra si costituiva la Società delle nazioni – operativa dal 10 gennaio 1920 – si svolgeva a Pietrogrado e a Mosca – dal 19 luglio al 7 agosto 1920 – il primo Congresso dell’Internazionale Comunista (IC). In esplicita contrapposizione ai nuovi istituti del diritto internazionale verso cui stavano convergendo, su sollecitazione di Woodrow Wilson, gli stati liberali, il marxismo-leninismo sottrasse la Russia dei soviet a tale processo. L’IC, che vide la luce dopo il Natale (Γένεσις) del comunismo, si sarebbe proposta come la concretizzazione trionfante del “metodo scientifico della conoscenza storica”, avrebbe diagnosticato l’inarrestabile “declino del capitalismo” e annunciato “l’inizio dell’epoca della trasformazione socialista del mondo”15.

14 Mary Ann Glendon, A World Made New: Eleanor Roosevelt and the Creation of the Universal Declaration of Human Rights, Knopf Doubleday, N.Y., 2000; Biagio De Giovanni, Kelsen e Schmidt. Oltre il Novecento, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018. 15 Umberto Cerroni, La prospettiva del comunismo. Marx, Engels, Lenin, [1960], Editori Riuniti, Roma, 1978, pp. 8 e 11.

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CAPITOLO QUARTO STALIN

Il crollo del socialismo reale nel 1989-1991 ha consentito di guardare al comunismo del periodo tra le due guerre mondiali e alle successive trasformazioni dell’URSS con maggiore ampiezza di orizzonti rispetto a quanto era stato possibile fare in precedenza1. Il “socialismo reale” va studiato senza teleologie, né positive né negative e, soprattutto, senza applicarvi la sua stessa ideologia: il marxismo-leninismo. Alcuni storici hanno segnalato una frattura e una discontinuità fra gli eventi dell’età di Lenin e di Trotzskij (1917-1924) e l’età di Stalin (1928-1953). Altri, all’opposto, hanno sostenuto che lo stalinismo sia stato la prosecuzione del percorso totalitario avviatosi negli anni rivoluzionari2. Per lo più si è convenuto di evidenziare un elemento di continuità nel processo di omologazione della società russa ottenuto con la metodica centralizzazione delle decisioni politiche. Un processo che sarebbe stato impraticabile nel mondo occidentale, in cui le alternative politiche, le divergenze culturali, il pluralismo sociale, rendevano fluido 1

2

Edward Carr, La rivoluzione Bolscevica 1917-1923, Einaudi, Torino, 1964; Id:, La morte di Lenin. L’interregno 1923-1924, Einaudi, Torino, 1965; Id., Il socialismo in un solo paese. La politica interna 1924-1926, Einaudi, Torino, 1968; Id., Il socialismo in un solo paese. La politica estera 1924-1926, Einaudi, Torino, 1969; Laszlo Nagy, Democrazie popolari 1945-1968, Il Saggiatore, Milano, 1971; Viktor Zaslavskij, Storia del sistema sovietico. L’ascesa, la stabilità, il crollo, Carocci, Roma, 2001; Andrea Graziosi, L’URSS di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica, 1914-1945, Il Mulino, Bologna 2007; Id., L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica, 1945-1991, Il Mulino, Bologna, 2008. Isaac Deutscher, Stalin, Longanesi, Milano, 1951; Leone Trotzkij, I crimini di Stalin, 1936, Roma, Casini, 1966; Robert Conquest, Il grande terrore. Le purghe di Stalin negli anni Trenta, Mondadori, Milano, 1970; Rita Di Leo, Il modello di Stalin, Feltrinelli, Milano, 1977; Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma, 2008.

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Eutanasia del marxismo

e incerto il dinamismo storico, anche nei periodi più drammatici. In Russia, invece, tutto diventò convergente: la realtà geopolitica e culturale, quanto mai composita e diversificata, fu sottoposta a violente dinamiche autoritarie che ne azzerarono la complessità. Ancora al principio del Novecento vi coesistevano sistemi socioeconomici, popoli e civiltà, classi e ideologie incomparabilmente distanti: la Rivoluzione si è impegnò nel compito di convogliare tutto in un unico tempo storico, sostituendo il centralismo simbolico dell’istituzione imperiale zarista con il più efficace “centralismo democratico” dei bolscevichi. Da questo punto di vista, si può dire che i leader del PCUS si siano impegnati in uno dei più grandi esperimenti di “ingegneria politica” che la storia del Novecento abbia conosciuto. Tuttavia, dopo circa settanta anni, quel sistema politico e economico, falliti i suoi obiettivi, si sarebbe autodissolto3. L’assetto totalitario, sorto negli anni di Lenin, potenziatosi nel periodo staliniano e scarsamente modificatosi con la destalinizzazione, sarebbe risultato fatale. L’ideologia marxista – responsabile dell’enfatizzazione del ruolo dello stato – limitò gli orizzonti politici e culturali del governo russo e ne alterò la percezione del contesto internazionale. Il predominio del Gosplan – la Commissione statale per la pianificazione economica – si scontrò con risultati diversi da quelli programmati e con una sequenza di rotture e di scosse ripetute: la guerra civile, la carestia, la lotta drammatica per il potere al vertice del partito, il dissenso interno, la nuova guerra mondiale, la rivalità tecnologica e militare con gli USA. Vicende che avrebbero sfibrato la classe dirigente. La fine implosiva dell’URSS, pacifica dopo tanta violenza, ebbe il significato della rassegnata dissoluzione di un’ideologia che, oltre che a danneggiare quel Paese, era stata l’incubo del mondo durante il “secolo breve”. Qualche storico – prigioniero delle sue stesse categorie concettuali – si è chiesto se nell’URSS sia stata tentata la nazionalizzazione delle masse sul modello dei totalitarismi nazifascisti o se non vi sia stata, piuttosto, una massificazione dello stato per il tramite di un regime iperdemocratico. In realtà poco cambia: in entrambi i 3

Arrigo Battaglia (a cura di), Crollo del comunismo sovietico e ripresa dell’utopia, Dedalo, Bari, 1994; Archie Brown, The Gorbachev Era, in: Ronald Grigor Suny (a cura di), The Cambridge History of Russia, vol. 3, Cambridge University Press, 2006.

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Stalin53

casi si costringe l’unicità e la diversità degli individui e dei popoli nell’“utopia distopica” di un’unica comunità (Gemeinshaft). I contadini, i soldati, gli operai, l’Inteligencija ci raccontano di un paese in cui si tese a negare la diversità, la pluralità, la libertà personale sopprimendone sia l’idea sia le manifestazioni concrete4. Se la rivoluzione degli anni ’20 e ’30 era stata solcata da un fiume di violenza, il socialismo reale degli anni ’50 sarebbe stato un sistema insieme “tragico e orribile”. Se Lenin aveva creato l’antiélite marxista per distruggere ogni forma di stratificazione sociale, culturale, economica della precedente società russa, con Stalin arrivò al potere un ceto proletario che si concepiva come la nuova stirpe dei santi: i vangeli di Marx e di Lenin li avevano forgiati. La contrapposizione all’elitarismo prima aristocratico e poi borghese fu totale: i gruppi dirigenti settoriali (dell’economia, della medicina, dell’università, dell’arte, della scienza) furono delegittimati e esautorati. La nuova classe che li sostituì derivò dall’apparato politico e militare del POSDR bolscevico. Si trattava di un ceto spesso dogmatico e impreparato, ma fedele e obbediente, che non conosceva limiti di tipo culturale e tecnico5. Il rapporto fra cultura e potere politico nell’URSS staliniana andrebbe studiato alla luce della negazione del pluralismo e della censura – feroce nei confronti di autori e correnti sgraditi al regime – ma anche nei peculiari meccanismi produttivi delle organizzazioni “socialiste” dell’arte e della musica, della letteratura e del cinema. In sintesi: il dispositivo censorio operò in URSS in negativo, sotto forma di esclusione, ma soprattutto in forma positiva: come sistema di promozione di prodotti culturali graditi al regime. Dopo la fase rivoluzionaria (1917-1926), nella quale al mondo dell’arte e della cultura fu data la possibilità di vivere una stagione di cambiamento, di sperimentazione, di liberazione dalle regole della tradizione ottocentesca, in 4

5

Marcello Flores, Zygmunt Bauman, Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, Milano, Bruno Mondadori, 1998; Juan José Linz, Totalitarian and Authoritarian Regimes, Boulder, Lynne Rienner Publishers, 2000; Gian Piero Piretto, Quando c’era l’URSS. 70 anni di storia culturale sovietica, Cortina, Milano, 2018. Bruno Rizzi, Il Collettivismo Burocratico, Milano, SugarCo Edizioni, 1977; Dominique Lecourt. Il caso Lysenko. Editori Riuniti, Roma, 1977; Roj A. Medvedev e Zores A. Medvedev, Stalin sconosciuto: alla luce degli archivi segreti sovietici, Feltrinelli, Milano, 2006.

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Unione Sovietica cominciò la stagione dell’arte e della cultura di stato6. Una testimonianza interessante, in merito al rapporto tra il mondo dell’arte e della cultura e il potere sovietico – tra meccanismi ideologici e politici di inclusione e di esclusione, forme di assoggettamento e obblighi alla collaborazione – si legge nelle lettere dello scrittore Michail Bulgakov a Stalin. Il marxismo-leninismo era divenuto lo stabile orizzonte politico e culturale della Russia: il filo che collegava gli intellettuali al regime si era aggrovigliato, ma anche istituzionalizzato, iniziava uno sconcertate dialogo tra il servo e il padrone7. Uno sguardo su Stalin, gettato dall’esterno del mondo sovietico si trova, invece, nelle Conversazioni con Stalin – avvenute nel periodo 1944-1948 – pubblicate nel 1962 dal dirigente comunista jugoslavo Milovan Gilas, accusato poi di “revisionismo antistalinista” e di tradimento “filocapitalista”8. Gilas ricordava che l’Armata Rossa della Guerra patriottica era stata un esercito comandato da operai: “Konev era uno dei nuovi comandanti nominati da Stalin in tempo di guerra; […] entrato nell’Armata Rossa subito dopo la rivoluzione (era allora un giovane operaio), pian piano era salito di grado. Anche lui aveva fatto carriera sul campo di battaglia, come più o meno tutti gli alti ufficiali dell’Armata Rossa sotto il comando di Stalin nella seconda guerra mondiale”. Stalin aveva dedicato grande attenzione al mondo militare agendo “simultaneamente in due direzioni: obbligò l’esercito all’obbedienza assoluta verso il governo, il partito e lui come persona. Fece, nello stesso tempo, ogni sforzo per migliorare l’efficienza delle forze armate e per assicurare ai militari rapide promozioni”. Gilas ci parla di un gruppo di rivoluzionari temerari che si trovarono al comando di un’intera società senza che nessu6

7 8

V.E., Meyerhold, La rivoluzione teatrale (1912-1957), ed. it., Editori Riuniti, Roma, 1962; Vladimir Majakovskij, Poemi, ed. 1958, tr. it., Editori Riuniti, Roma, 1963; Pietro Montani, Dziga Vertov, La Nuova Italia, Firenze, 1975; AA.VV. Avanguardie russe. Malevich, Kandinskij, Chagall, Rodchenko Tatlin e altri, a c. di Andrej Sarabjanov e Claudia Salaris, Silvana, Milano, 2012; Alexandr Lavrentiev, Rodtchenko et le Group Octobre, Paris, Hazan, 2006; M. Bown, Z. Tregulova (a cura di), Realismi socialisti. Grande pittura sovietica. 1920-1970, Skira, Milano, 2011. Michail Bulgakov, Lettere a Stalin, (1927-1946), tr. it., il Melangolo, Genova, 1990. Milovan Gilas, Razgovori s Staljinom (Belgrado, 1962), tr. it., Conversazioni con Stalin, Feltrinelli, Milano, 1962.

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no riuscisse ad arrestarne il cammino. Stalin – scrisse Gilas – era una figura contraddittoria. Il suo curriculum vitae, fatto di prigionia, fuga e confino, era simile a quello di tutta la dirigenza bolscevica: “rivoluzionari di professione” che avevano vissuto più in carcere che in libertà. Dopo la rivoluzione di Ottobre, gli si schiuse l’insperata ascesa al potere in una società che era priva di contrappesi e di separazioni ordinamentali: in Russia non vi erano i limiti che la democrazia e il liberalismo avevano imposto al potere in Occidente. Gilas mise in risalto il rapporto perverso che Stalin e l’intero gruppo dirigente sovietico intrattenevano con la loro vicenda storica. Per i cospiratori del 1917, il passato era diventato una forma di legittimazione assoluta e definitiva, un’eredità inviolabile e sacra. Provenivano dal fondo della società e della povertà e, dopo anni di repressione zarista, si erano affermati nel loro Paese nell’ostilità e nel disprezzo da parte delle élite borghesi occidentali. Stalin si era trovato a governare la “seconda potenza mondiale” senza aver attraversato le prove di selezione e di competizione che distinguevano le classi dirigenti occidentali. La sua attività politica si accompagnava a un futile trionfalismo, a una sterile autocelebrazione. Il rivoluzionario russo, assiso sopra la sua opera, se ne intestava non solo l’origine ma anche il futuro impedendo ogni evoluzione che portasse a un passaggio di consegne, fosse pure all’interno dello stesso sistema politico. Solo la sua morte avrebbe potuto innescare un qualche elemento di discontinuità. I gruppi dirigenti di tutti i regimi totalitari sorti negli anni ’20 e ’30 del Novecento avevano avuto questo carattere insieme autocratico e cameratesco. Gilas ricordava, nel suo diario, quanto gli fosse apparsa “assurda l’esistenza di quegli uomini che ogni sera si riunivano a gozzovigliare insieme al loro vecchio capo; eppure da quegli uomini dipendeva la sorte dell’umanità”. La civiltà politica e scientifica liberale, al confronto, gli appariva meglio regolata e efficiente pur con limiti e difetti personali, ma suscettibile di cambiamenti e di significative correzioni. Il mondo politico sovietico, concludeva, non aveva nulla da insegnare all’Occidente. Le ricostruzioni storiche e diacroniche dell’URSS e degli stati del Patto di Varsavia diluiscono nel flusso degli eventi l’astrazione sincronica, di tipo politologico e sociologico, tesa a focalizzare la struttura del regime. Sarebbe utile porre in relazione i due approcci. La guerra tra Russia e Ucraina – che segnò l’inizio della guerra

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civile di Lenin e Trotzskij contro l’armata bianca zarista – permise ai bolscevichi di utilizzare strumenti di repressione che, finite le ostilità, sarebbero divenuti abituali per il nuovo potere politico. Anche la lotta contro i contadini e contro le diverse nazionalità di cui era composto l’ex-impero zarista sarebbe stata condotta utilizzando il dispositivo comunista (l’armata del lavoro, gli attivisti, le cooperative di produzione agricola) e, soprattutto impiegando spietati strumenti di esclusione e di reclusione. In parallelo alla violenza, il regime selezionava le forze sociali disponibili alla collaborazione e pronte a concorrere al dominio ricevendone vantaggi. Tali dinamiche porterebbero a inglobare gli anni della NEP (1922-1929) nella guerra tra stato e contadini che fu ferocemente conclusa da Stalin al principio degli anni ’309. Mancando nello stato sovietico qualsiasi infrastruttura giuridica e politica di tipo liberale e borghese che consentisse il pluralismo dei partiti, l’indipendenza della magistratura, l’eguale rappresentanza degli interessi, la lotta per la successione a Lenin avrebbe assunto le forme di una congiura medievale, di una spietata guerra tra fazioni. Stalin ne sarebbe uscito vincitore, dando l’avvio a quella che gli storici definiscono come una “dittatura personale”. Collettivizzazione delle campagne, industrializzazione forzata, sottomissione del sistema giudiziario e di sicurezza al potere politico, creazione di un dispositivo concentrazionario furono attuate con il consenso di buona parte dei vertici e dei quadri del partito e secondo lo schema della “rivoluzione dall’alto”, della trasformazione sociale che parte dal “quartiere generale”. Gli anni tra il 1929 e il 1939 costringono gli storici dell’URSS a mettere a dura prova i loro metodi di analisi. Da un lato si consolidano i meccanismi della repressione, del totalitarismo, dell’illibertà più retrograda. Dall’altro si sviluppa un’intensa mobilità sociale, la costruzione di nuove burocrazie e di nuovi comparti produttivi. Quindi: da un lato in URSS vi fu la “guerra dello stato contro il suo popolo” (il “Grande terrore” del 1937-1938), dall’altro si attuò il balzo in avanti tecnologico e produttivo tramite i due piani quinquennali del 1928-1937. Per questo, rispetto alla sua tradizione ottocentesca, alla vigilia del secondo conflitto, mondiale, l’URSS si 9

Eugenio Corti, Lo sterminio dei contadini kulaki, in: “Studi cattolici”, Milano, 174-175, gennaio 1975.

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presentò ammodernata economicamente, ma anche degradata culturalmente10. Bisogna sottrarsi alle semplificazioni che sottomettono le vicende collettive all’azione di pochi protagonisti, come pure alla spiegazione di eventi storici complessi per il tramite di teorie astratte: la migliore storiografia sull’URSS ha cercato di evitare questi errori. Al nostro scopo basta ricordare che, dal giugno 1941 al maggio 1945, il PCUS mobilitò con successo le masse in una guerra nazionale e patriottica: investì il conflitto con la Germania di un significato ideologico e morale. Le vicende belliche – drammatiche e dolorose – avrebbero visto correre in parallelo le vicissitudini militari e le deformazioni politiche indotte dal centro staliniano, in un miscuglio di occasioni riscatto e di procedure di asservimento, di momenti di speranza e di sentimenti di rassegnazione. La politica di Stalin procedeva sul doppio binario dell’incentivazione dei consenzienti, con premi e onorificenze, e della dura punizione dei disobbedienti. Tra i militari, vi furono momenti di crescente consapevolezza delle proprie forze uniti al senso di impotenza davanti uno stato che restava dispotico e autoritario. Ci riferiamo, in particolare, alla deportazione di settori della popolazione considerati inaffidabili (nel Caucaso e in Crimea) e all’azione dell’Armata Rossa nel 1945, in Polonia, dove fu necessario occultare le tracce ancora sanguinanti della conquista del 194011. Violenze vi sarebbero state in tutti i Paesi finiti “oltre cortina”12. Alcuni storici hanno evidenziato come sia stata proprio la guerra – con le sue paradossali condizioni di libertà – a creare le premesse per la messa in questione del regime comunista e per la formazione delle prime avanguardie del dissenso: la nuova opposizione antimarxista e antistalinista13. 10 AA.VV., Filosofia, religione e letteratura in Russia all’inizio del XX secolo, a c. di Vittorio Strada, Guida/Istituto Suor Orsola Benincasa, 1989; Vittorio Strada, La questione russa: identità e destino, Marsilio, Venezia, 1991. 11 Victor Zaslavsky, Pulizia di classe. Il massacro di Katyn, Il Mulino, Bologna, 2006. 12 Alan Watson, Churchill’s Legacy: Two Speeches to Save the World, Bloomsbury, 2016. 13 Aleksandr Solženicyn, Arcipelago Gulag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, 3 voll., ed. it., Mondadori, Milano, 1974-1978; AA. VV., Il dissenso culturale nell’URSS: documenti letterari e del “samizdat”, Edizioni La biennale di Venezia, 1977; Roy Medvedev, Vittorio Strada, Dissenso e socialismo: una voce marxista del Samizdat sovietico, Einaudi, Torino, 1977.

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CAPITOLO QUINTO IL MARXISMO OCCIDENTALE

Per irradiamento degli eventi in Russia, nel contesto dei combattimenti del 1914-1918, si sarebbe sviluppata nei Paesi dell’Europa occidentale una veemente e contraddittoria attrazione intellettuale e politica per il marxismo-leninismo. Si era sulla faglia culturale apertasi fra il pensiero insular anglo-americano e il pensiero continental europeo1. Si credette alla possibilità di una rilettura “in vivo” dei testi di Marx: illuminati dalla luce che si sprigionava dall’Ottobre sovietico2. Leninisti si, ma soprattutto: “marxisti”. Lev Trotzskij, Rosa Luxemburg, Antonio Gramsci e Karl Korsch furono i fondatori di quel poligono irregolare che sarebbe stato chiamato marxismo occidentale. In ossequio al principio dell’“unità di teoria e prassi”, divennero i fautori di una migrazione della missione filosofica e intellettuale dalle fila della borghesia e dalle istituzioni ufficiali a gruppi eterodossi e a organismi politici e sindacali fondati dalle classi popolari. Sono pensatori differenti, ma uniti nel criticare sia il marxismo revisionista della Seconda Internazionale sia – dopo complicate riflessioni – l’ideologia marxista-leninista che stava trionfando in Russia. Si può parlare, per loro, di un rinnovamento della visione antiliberale e anticapitalista, ma anche di un’articolata presa di distanza dallo stalinismo come riduzione e sviamento dell’ideale marxiano3. 1 2

3

John Protevi (a cura di di), A Dictionary of Continental Philosophy, Yale University Press, New Haven and London, 2006. George Douglas Howard Cole, Storia del pensiero socialista, 7 voll. Laterza, Bari, 1967 e 1968, voll. 4 e 5; Eric Hobsbawm, La cultura europea e il marxismo fra Otto e Novecento in “Storia del Marxismo”, Einaudi, Torino, 1979, vol 2°, pp. 897-935. Angelo Tasca, Autopsia dello stalinismo, Milano, Edizioni di comunità, 1958; Bruno Rizzi, La lezione dello stalinismo. Socialismo e collettivismo burocratico, Opere nuove, Roma, 1962; Louis Althusser, Umanesimo e stalinismo. I fondamenti teorici della deviazione staliniana, De Donato, Bari,

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Lev Trotzskij, esiliato dall’URSS, fu in Europa occidentale dal 1930. A lui si deve la prima critica del bolscevismo proveniente dal suo interno: una critica che univa la fedeltà ai principi intoccabili di Marx e di Lenin alla sconfessione della “degenerazione staliniana”4. Il trotzskismo contiene il paradigma originario di tutto il marxismo occidentale poiché segue la traccia ideologica delle eresie: la fedeltà al dogma originario e la critica spietata allo stravolgimento compiuto dai suoi rinnegatori. Da martire testimoniale Trotzskij non pensò che l’errore fosse contenuto nel dogma originario, ma nella sua applicazione degenerata. In sostanza, criticò Stalin non perché fosse un dittatore totalitario, ma perché non fu genuinamente marxista e leninista. Come scrisse in Stalinismo e Bolscevismo (1937), non è vero che: “lo stalinismo rappresenta un legittimo prodotto del bolscevismo, come lo stesso Stalin dichiara e come i menscevichi, gli anarchici e certi dottrinari che si considerano marxisti credono”. E non è vero che per “la proibizione degli altri partiti socialisti, la repressione degli anarchici e l’instaurazione della dittatura bolscevica nei Soviet, la Rivoluzione d’Ottobre poteva concludersi solo con la dittatura della burocrazia”. Da bravo autodidatta, Trotzskij si mostrava entusiasta del suo bricolage dialettico: “l’esperienza dello stalinismo non confuta gli insegnamenti di Marx, ma anzi li conferma per contrario […], i marxisti sono ‘pro-stato’ solo nel grado in cui non si può raggiungere l’eliminazione dello stato ignorando semplicemente quest’ultimo”. Lo stalinismo, afferma, “è ora costretto a condurre una diretta guerra civile contro il bolscevismo, sotto il nome di ‘trotskysmo’: non solo in URSS, ma anche in Spagna. Il vecchio partito bolscevico è morto, ma il bolscevismo sta alzando la sua testa ovunque”. Assiomaticamente: poiché Trotzskij è marxista-leninsta e Stalin lo cerca per farlo assassinare, Stalin non è marxista-leninista. Come volevasi dimostrare. A Rosa Luxemburg dobbiamo intuizioni preziose per i successivi sviluppi del marxismo occidentale. Attiva in Germania con la Lega di Spartaco da cui sarebbero derivati l’USPD e poi il KPD – nella

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1977; György Lukács, Testamento politico e altri scritti contro lo stalinismo. In appendice: Interrogatorio della polizia sovietica nel 1941, a c. di Antonino Infranca e Miguel Vedda, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2015. Lev D. Trotzskij, La rivoluzione tradita. Che cosa è l’Unione Sovietica e dove sta andando? [1936], tr. it., Schwarz, Milano, 1956; Id., I crimini di Stalin [1937], tr. it., Casini, Roma, 1966.

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fase iniziale della Repubblica di Weimar e in stretta contiguità con gli eventi russi – cercò di essere più leninista di Lenin. Scrisse – in La rivoluzione russa: un apprezzamento critico (1918) – che “il primo esperimento nella storia del mondo di dittatura della classe operaia [è stato attuato] nelle più difficili condizioni concepibili […], [le quali] costringono all’ipotesi che […] anche il più gigantesco idealismo e la più incrollabile energia rivoluzionaria non siano stati in grado di realizzare né democrazia né socialismo, ma solo dei primi rudimenti impotenti e deformati di entrambi”5. Tuttavia la consapevolezza che il progetto politico e economico dei bolscevichi fosse rimasto incompiuto e, per molti versi, oscuro e enigmatico, non la spinse verso il realismo storico. Pur di criticare Karl Kautsky e i socialdemocratici tedeschi – che rispettavano il principio dell’alleanza parlamentare con i partiti “liberali borghesi” e erano contrari alla pace immediata – la Luxemburg stese l’ispida coltre del marxismo sulla contraddittoria complessità degli eventi storici. In nome dell’autentica democrazia del proletariato, vagheggiò la società dei soviet e bacchettò Lenin per la trattativa di Brest-Litowsk attraverso cui i russi erano usciti dalla guerra. Osservò, giustamente, che il risultato che ne era sortito era stato il “rafforzamento della politica imperialistica pantedesca, l’indebolimento delle chances di una sollevazione rivoluzionaria in Germania” e il prolungamento della guerra. Più comunista di Lenin, riguardo a quella che sarebbe stata poi la NEP – cioè la privatizzazione della proprietà rurale, promessa dal programma dei bolscevichi alle masse contadine – la Luxemburg avrebbe affermato che la creazione di un vasto strato di contadini che diventavano piccoli e medi proprietari terrieri avrebbe spinto la società russa in una direzione opposta a quella del socialismo. In Italia gli eventi russi furono seguiti con attenzione da Antonio Gramsci, il fondatore del PCdI. Gramsci, pure riconoscendo la temerarietà dell’impresa politica di Lenin, ne approvò con entusiasmo l’avvento. Scrisse che quella russa era stata: una “rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx” in cui “i fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx!”. Poi, per 5

Vedi in: Rosa Luxemburg, Socialismo, democrazia, rivoluzione. Antologia 1898-1918, Editori Riuniti, Univ. Press, Roma, 2018.

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chiarire, aggiunse: “se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente vivificatore”. Infatti: “i massimalisti sono stati in questo momento l’espressione spontanea, biologicamente necessaria, perché l’umanità russa non cada nello sfacelo più orribile”6. Merito di Gramsci è stato di aver segnalato l’irrompere sulla scena mondiale delle forze della sinistra comunista, destinate a modificare la politica internazionale per svariati decenni, condizionando tutte le forze politiche, anche quelle avverse alla rivoluzione russa. A metà degli anni ’20, gli scritti di Gramsci ci segnalano un significativo cambiamento nel nesso tra l’evoluzione dell’URSS e la rivoluzione in occidente. Scrisse Gramsci: “oggi nel mondo è attiva, ideologicamente e politicamente, la persuasione (se esiste) che il proletariato, una volta preso il potere, può costruire il socialismo”7. La rivoluzione di Ottobre restava l’evento originario, atto prometeico che aveva modificato il corso della storia, tuttavia, il fatto che “il socialismo si fosse realizzato in un solo Paese” aveva prodotto nell’Europa occidentale soltanto il dato della possibilità del socialismo: la verifica sperimentale della verosimiglianza della teoria marxista. Tuttavia, non aveva avviato in Italia, in Germania, in Romania, in Ungheria alcun processo rivoluzionario. Anzi: aveva favorito il successo dei movimenti fascisti e contribuito alla crisi del sistema politico liberale e democratico. Ernst Nolte ha distinto il carattere “rivoluzionario” del Fascismo da quello “conservatore” dell’alta borghesia liberale. Per Nolte si può attribuire un carattere rivoluzionario anche ai movimenti totalitari di destra promotori di una violenta “reazione” contro i bolscevichi. I movimenti fascisti non devono essere interpretati come “conservatori”: tale definizione va riservata ai liberali e ai monarchici intenzionati a preservare lo status quo ante. La tesi di Nolte è, ovviamente, aborrita dai sostenitori dell’incomparabilità di fascismo e comunismo8. In Gramsci, in realtà, stava maturando la consapevolezza che i mondi europei erano due o forse anche tre (l’Europa sovietica, l’EuAntonio Gramsci, La Rivoluzione contro il Capitale, in: ” Avanti!”, 24 novembre 1917. 7 Id., Lettera del 14 ottobre 1926 al Comitato centrale del PCUS. 8 Ernst Nolte, Der Faschismus in seiner Epoche. Action francaise · Italienischer Faschismus · Nationalsozialismus, 1963, tr. it., I tre volti del fascismo, Sugar, Milano, 1966. 6

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ropa liberale e l’Europa fascista). Cosa era accaduto? Leggendo La mia vita. Tentativo di autobiografia di Lev Trotzkij, aveva compreso che l’occidente liberale non poteva essere aggredito né trasformato con l’“attacco frontale” di cui si erano resi protagonisti i bolscevichi in Russia. Addirittura, nei Paesi dell’Europa occidentale, il bolscevismo si era trasformato in “causa di disfatta” per i partiti socialisti e socialdemocratici. Alla metà degli anni ’20, Gramsci pensò di contrapporre Lenin a Trotzkij: la rivoluzione di Lenin era stata – a suo dire – una “guerra manovrata”, fondata su di una strategia diacronica e complessa (pensiamo alla NEP), per nulla ispirata alla lineare e impraticabile “rivoluzione permanente” che Trotzskij andava predicando. Questa fu per Gramsci la tappa di passaggio. Ben altre considerazioni troveremo nelle pagine dei Quaderni scritte tra la metà del 1932 e l’inizio del 1935: ancora più dense di riflessioni e di consapevolezze critiche. Vi si trovano un bilancio problematico della “grande trasformazione” avvenuta sotto la guida di Stalin e anche il ridimensionamento dell’azione di Lenin. Gramsci, ovviamente, non criticava le realizzazioni economiche del primo piano quinquennale (1928-1932) e neppure la costruzione della potenza industriale e militare sovietica. Deplorava piuttosto la forma dello stato e le sovrastrutture politiche che stavano soffocando la vita sociale in Russia: erano i frutti amari del progetto bolscevico di una “rivoluzione dall’alto”. È stato evidenziato come Gramsci, nel carcere, avesse scarsa contezza dell’effettiva vicenda russa, ma le sue critiche all’onnipotenza dello stato sovietico, all’informazione come propaganda, al centralismo burocratico, allo strapotere dell’esercito, coglievano alcune delle caratteristiche più dannose e illiberali della dittatura del proletariato in URSS. Tuttavia, nonostante tali acute osservazioni, Gramsci non pervenne a una rivalutazione della cultura politica borghese: la mediazione politica e giuridica introdotta dalla democrazia rappresentativa e la rigida distinzione liberale dei poteri pubblici e sociali9. Non giunse – in nome del classismo ideologico – a comprendere la funzione del pluralismo economico e finanziario in uso nei Paesi 9

Antonio Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, ed. Einaudi, Torino, 1948, pp. 205-222; Giancristiano Desiderio, Borghesia, in: “Lessico crociano”, a c. di Rosalia Peluso, La scuola di Pitagora, Napoli, 2016, pp. 131-137.

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occidentali. La critica del fascismo non imboccò mai la via di una difesa del liberalismo. Gramsci formulò le sue critiche al totalitarismo sovietico – e, in parallelo, al liberalismo - in nome dell’autentica interpretazione delle intenzioni di Marx e di Lenin. Al fine di sviluppare nuove forme di vita politica, il “socialismo” non avrebbe dovuto configurarsi come una statolatria, un dogmatismo fanatico produttivo di oscurantismo e di conformismo, ma avrebbe dovuto dare vita a una relazione tra governanti e governati autenticamente democratica. Le critiche di Gramsci al giacobinismo e alle concezioni autoritarie ammantate di democraticismo intendono criticare lo stalinismo per contrapporvi non già la democrazia liberale di cui aveva scritto Gobetti10, bensì la democrazia assoluta. La rivoluzione leninista era stata – a suo dire – un movimento che non puntava “all’instaurazione di un potere che abbia bisogno di sostenersi con la violenza e il dispotismo”. Quello leninista era stato un “potere operaio”, che non era “sospinto da una fazione, ma esprimeva i bisogni della maggioranza della popolazione, e questa maggioranza, appena sarà messa in condizione di pronunciarsi, dimostrerà di volersi riconoscere nell’opera della rivoluzione”. Alcuni sostngono che in Gramsci era vivo anche un altro pensiero: una “filosofia della politica” accantonata a causa dell’accettazione del marxismo. Si tratta di un pensiero che Gramsci aveva cominciato a sviluppare in contrapposizione al cosiddetto “fascismo di sinistra” e che sarebbe diffusamente ritornato nei Quaderni laddove scriveva di Machiavelli e della funzione storica degli “intellettuali”. Scrisse: “Il fascismo si è presentato come l’anti-partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano” 11. Si può sostenere che nel Gramsci teorico della “democrazia” fosse celata, nell’idea di una riforma della mentalità e della cultura sociale italiana, una dottrina evolutiva e pluralista del rapporto fra società e politica. Tale

10 Piero Gobetti, La rivoluzione liberale, 1924, ed. Einaudi, Torino, 1964. 11 Antonio Gramsci, “L’Ordine Nuovo”, 26 aprile 1921. Vedi: Id., Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino, 1949.

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istanza avrebbe consentito di evitare la confusione di liberalismo e fascismo e di svolgere una critica del totalitarismo russo12. Dalla parabola politica della Germania di Weimar proviene anche Karl Korsch13. Sopravvissuto alla fine del KPD, emigrato in Inghilterra e poi negli USA, Korsch avrebbe seguito la Luxemburg nella critica simultanea a Kautsky e a Lenin. Nei suoi scritti emergono nitidamente i nodi filosofici e teorici nei quali si sarebbe impigliato il marxismo occidentale. Korsch cercò di distinguere Marx dal marxismo (sia da quello opportunista di Kautsky che da quello rivoluzionario di Lenin e di Stalin) e di porre il tema del rapporto fra marxismo e filosofia in modo non marxista, bensì marxiano14. In questo Korsch è stato un grande maestro. In una prima fase ha teso a sostenere che le idee di Marx fossero del tutto differenti da quelle dei suoi epigoni: Marx aveva un profilo critico e analitico, mentre altri lo avevano trasformato in un ideologo e in un dogmatico. Nella fase più matura, Korsch avrebbe preso coraggio e sarebbe divenuto un “anarco-marxista”. Anticipando la via di fuga di molti marxisti di fronte al fallimento del marxismo-leninismo capovolse la dottrina ultrapolitica di Marx (totalitaria) in una dottrina impolitica di Marx (libertaria). I dogmi apicali su cui si paralizzò Korsch furono due: l’identificazione del marxismo con la scienza e la teoria classista della conoscenza. Erano due autentici macigni filosofici: impossibili da rimuovere per chi restava – malgré soi – nel recinto teorico del marxismo e non riusciva a vederne l’intima contraddittorietà. Negli anni tra le due guerre mondiali, le antinomie dei fondatori del marxismo occidentale sarebbero state aggirate da Simone Weil. Di fronte all’eresia degli ammiratori/detrattori di Lenin, il suo sofferto scisma appare oggi ancora più radicale. Sottraendosi alla fascinazione marxista, da cui pure era stata inizialmente colpita, la 12 Massimo L. Salvadori, Gramsci e il problema storico della democrazia, Einaudi, Torino, 1970; Dino Cofrancesco, La democrazia liberale (e le altre), Rubettino, Soveria Mannelli (CZ) 2003; Silvio Pons, Antonio Gramsci e la Rivoluzione russa: una riconsiderazione (1917-1935), “Revista Brasileira de História”, vol. 37, n. 76, 2017, pp. 1-21. 13 Vedi Karl Korsch, Marxismo e filosofia (1923), tr.it., Milano, Sugar 1966; Id., Il materialismo storico. Anti Kautsky (1929), tr. it., Laterza, Bari, 1971; Id., Dialettica e scienza nel marxismo, 1938, tr. it. Laterza, Bari, 1974. 14 Giorgio Amico, Il “rinnegato” Korsch. Storia di un’eresia comunista, Edizioni Giovane Talpa, Savona, 2003.

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Weil intuì le paradossali analogie tra il bolscevismo che si rafforzava in Russia e il fascismo che si stava affermando in Italia, in Germania e in Francia: erano uniti dalla comune ignoranza dell’autentico bisogno umano e dalla falsificazione dei doveri della politica nei confronti degli individui15. Polemizzando contro il classismo astratto, ragionò incredula su ciò che Marx aveva scritto in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 [1850, 1895] a proposito dei “poveri” e del “sottoproletariato straccione” (Lumpenproletariat): “in tutte le grandi città [si trova] una massa nettamente distinta dal proletariato industriale, nella quale si reclutano ladri e delinquenti di ogni genere, che vivono dei rifiuti della società – gente senza un mestiere definito, vagabondi, gens sans feu et sans aveu, diversi secondo il grado di civiltà della nazione cui appartengono, ma che non perdono mai il carattere di lazzaroni”. Nella Weil il sentimento cristiano e pauperistico era più forte dell’operaismo dei bolscevichi e del populismo dei nazionalisti. Lei, una cercatrice di assoluti, rimase ferma sulla sponda dell’apocalisse: estranea a ogni forma di società costituita, liberale o rivoluzionaria che fosse. Eppure Alain e Edoardo Volterra avevano cercato di indicarle un percorso più cauto, che moderasse la sua ansia di un radicamento salvifico (enracinement) nelle forme concrete della modernità16. Nulla a che vedere con il “marxismo occidentale” ebbe, invece, la riflessione di Bertrand Russell sulla rivoluzione di Ottobre17. Pure scaturita da quell’interesse che suscitò, nei suoi primi anni, in America e nel Regno Unito, l’esperimento sovietico, l’analisi critica di Russell rientra nella storia dell’evoluzione democratica del liberalismo inglese. La rivoluzione, e le sue conseguenze sulla società russa, andavano apprezzate dal punto di vista di una correzione delle tendenze conservatrici del “liberalismo di stato” anglo-americano, ma andava mantenuto un marcato scetticismo verso i rischi religiosi e fanatici dell’ortodossia marxista. La fascinazione che Russell provò 15 Simone Weil, La Germania in attesa, “La Révolution prolétarienne” [1932], tr. it., in: Sulla Germania totalitaria, Milano, Adelphi, 1990; Id., Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale (1934), tr. it., Adelphi, Milano, 1983; Pietro Sessa, Fascismo e Bolscevismo, Mondadori, Milano, 1934. 16 AA.VV., Oltre la politica. Antologia del pensiero “impolitico”, Bruno Mondadori, Milano, 1996. 17 Bertrand Russell, Teoria e pratica del bolscevisno, (1920), tr. it., Newton Compton, Roma, 1970.

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per Lenin si potrebbe avvicinare alle preoccupazioni di Keynes per i limiti della teoria ottocentesca dell’“equilibrio economico”: giunse a prospettare nuove forme e finalità della circolazione monetaria di fronte alla stagnazione, al sottoconsumo e alla disoccupazione provocati dalla guerra e dalla crisi18. Dopo la Seconda guerra mondiale, i principali esponenti del marxismo occidentale sarebbero stati Ernst Bloch, György Lukàcs, Jean-Paul Sartre e Herbert Marcuse. Questi autori sono stati dei veri filosofi, pensatori di grande levatura che non hanno nulla del dilettantismo, ancorché eroico, dei Padri fondatori. Si sono misurati con serietà e competenza con i temi e i problemi della storia e della filosofia, della scienza e della politica. La loro funzione è stata quella di svincolare il marxismo occidentale dalle vicissitudini del Cominform e del Blocco sovietico negli anni della “Cold War”. Marxisti dell’“epoca della coesistenza” hanno aperto la via a quello che sarebbe stato il neomarxismo degli anni ’70 e ’80. Sarà abbastanza agevole distinguere i contenuti filosofici di questa stagione del marxismo occidentale (la rifondazione del materialismo storico e filosofico, la critica del neopositivismo e della fenomenologia) dagli orientamenti politici (l’ostilità antiborghese, la critica del liberalismo e del liberismo, l’anticapitalismo). Il marxismo occidentale del secondo dopoguerra trovò la sua categoria principale nella relazione fra struttura e sovrastruttura e quindi nella convergenza fra la teoria critica della “società borghese” e l’analisi delle sue produzioni ideologiche, artistiche e scientifiche19. Sul piano strettamente politico, avrebbero perseverato nella critica dell’economia politica e nell’antiliberalismo negando ogni forma di autonomia della scienza giuridica e di quella economica. Proseguendo nell’assillo per la mancata “rivoluzione in occidente” avrebbe peregrinato in cerca di altri modelli di edificazione del socialismo: quello jugoslavo, cinese, terzomondista, cubano. Nella riflessione sui partiti 18 Claudio Napoleoni, Il pensiero economico del ’900, Einaudi, Torino, 1963, pp. 82-88. 19 Gian Enrico Rusconi, La teoria critica della società, Il Mulino, Bologna, 1968; Martin Jay, L’immaginazione dialettica. Storia della Scuola di Francoforte e dell’Istituto per le ricerche sociali (1923/50), Einaudi, Torino, 1979; AA. VV., György Lukács nel centenario della nascita 1885-1985, QuattroVenti, Urbino, 1986; Bernard-Henry Lévy, Il secolo di Sartre. L’uomo, il pensiero, l’impegno (Le siècle de Sartre, 2000), Il Saggiatore, Milano, 2004.

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politici, i sindacati, la democrazia ecc. questi filosofi si sarebbero sganciati dall’esperienza del socialismo reale nell’URSS, anche se avrebbero circoscritto all’Europa e agli USA il loro interesse20. Ernst Bloch, già negli anni successivi alla prima guerra mondiale, aveva colto le motivazioni spirituali per le quali un’intera generazione di studenti e di intellettuali piccolo borghesi e borghesi erano stati attratti dal richiamo dell’URSS rivoluzionaria e dal suo simbolo metafisico: la filosofia di Marx. Lo spettro da cui fuggire era la grettezza dell’indifferenza piccolo-borghese21: “L’uomo così semplicemente angusto può, sì, sentirsi interessato a eventi comuni, nella misura in cui questi lo riguardano in prima persona. Ma non appena ciò non avviene più, egli si ritira nel guscio del suo privatissimo parere fino a nuovo ordine. Getta sul tavolo le carte del bene comune, come qualcosa che gli appare semplicemente esteriore, e chiude bottega. Ma questa specie d’uomo sarebbe ben difficilmente immaginabile senza il suo fratello antitetico: il pienamente impegnato”22. L’ideologia che li folgorò non fu quella del “giovane Marx”, ma piuttosto – scrisse Bloch – quella del “Marx giovane”: una ricerca di senso straordinaria da parte di quanti si erano avvicinati alla bandiera rossa senza averne alcun bisogno. Marx e Lenin divennero le icone di un “entusiasmo rivoluzionario” teso a “rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, asservito, abbandonato e spregevole”. Fu tempo di avvento: ci si batteva per la trasformazione collettiva della storia e della società. Le migliori avanguardie della cultura e dell’arte si sollevarono: “la rivoluzione è realizzata in un momento di slancio eccezionale e di straordinaria tensione di tutte le facoltà umane: viene realizzata dalla coscienza, dalla volontà, dalle passioni, dalla fantasia di decine di migliaia di uomini”. Nel primo dopoguerra uno spirito di utopia si impadronì delle menti: “il domani vive nell’oggi, ed è sempre esso, che si ricerca. I volti che si rivolsero nella direzione utopica 20 Gian Enrico Rusconi, Alle origini del marxismo occidentale. Karl Korsch, in: “Rivista di Filosofia Neo-Scolastica”, Vol. 58, n. 3 (maggio-giugno 1966), pp. 299-331; Perry Anderson, Il dibattito nel marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 1977; Costanzo Preve, Storia critica del marxismo, Edizioni Città del Sole, Napoli, 2006; Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Bari.Roma, 2017. 21 Roberto Esposito, Il sistema dell’indifferenza, Dedalo, Bari, 1978. 22 Ernst Bloch, Karl Marx, Il Mulino, Bologna, 1972.

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furono in ogni tempo diversi, né più né meno come ciò che credettero di vedere, caso per caso, nei particolari”23. György Lukàcs – convertitosi al marxismo ai tempi del tentativo di rivoluzione filosovietica nell’Ungheria di Béla Kun (marzo-agosto 1919) – affrontò il tema della “sociologia del marxismo” da un punto di vista filosofico. Era quella di Marx una sociologia ultrastorica, e quindi utopistica, o piuttosto – pur restando una teoria critica della società – era basata su elementi economici e antropologici concreti e realistici24? L’“hegelo-marxismo” di Lukács integrava il materialismo storico con le forme e i limiti della conoscenza postulati da Kant definendo l’oggetto della storia e della sociologia in modo autonomo da quello della scienza naturale, ma egualmente “rigoroso”. Decisivo per comprendere l’angolatura visuale da cui si sarebbe posto Lukàcs per osservare le vicende dei decenni centrali del ’900 fu Die Zerstörung der Vernunft (1954)25. Nella ricostruzione della vicenda storico-culturale europea – tra ’800 e ’900 – Lukàcs collegò il successo del pensiero liberale alla diffusione dell’“apologetica indiretta” del capitalismo e della società borghese proprie dell’“irrazionalismo moderno”. A tale nichilismo liberale si doveva la cinica rinuncia ad affrontare i mali del mondo moderno in nome di una “astorica e astratta negatività della condizione umana”. Non solo, in una società la cui cultura aveva abdicato ai grandi ideali della “cultura classica borghese” (l’età di Goethe e di Hegel) diventava inevitabile la diffusione di ideologie romantiche e mistiche, razziste e nazionaliste. Si stava producendo una “crisi della cultura europea” sulla base dell’ideologia del “tramonto dell’Occidente” e su di essa avrebbe fatto leva il furore nazifascista degli anni ’20 e ’30. Lukàcs intuì una via di salvezza per la cultura scientifica e progressista europea nell’ideologia marxista e immaginò che il “razionalismo materialista” avrebbe potuto modificare il corso della storia e risparmiare al mondo il terribile travaglio del ’900. Affascinato 23 Ernst Bloch, Geist der Utopie, München, Duncker & Humblot, 1918, tr. it., La Nuova Italia, Firenze, 1982; AA.VV., Intellettuali e coscienza di classe. Il dibattito su Lukàcs (1923-24), a cura di Laura Boella, Feltrinelli, Milano 1977. 24 Giulio de Martino, Lukàcs e Marx, in “Itinerari” Rivista di Filosofia dell’Università di Chieti e Pescara, n. 1, 2004; Ágnes Heller, Breve storia della mia filosofia, Castelvecchi, Roma, 2016. 25 György Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino, 1959.

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dalle figure di Rosa Luxemburg e di Lenin (Geschichte und Klassenbewusstsein, 1923; Lenin. Studien über Zusammenhang seiner Gedanken, 1924) diede grande valore alla trasformazione in atto in URSS e nell’Est Europa cui collegò il tema filosofico dell’“ontologia dell’essere sociale”. La questione dello statuto epistemologico e ontologico della società umana – sollevato accademicamente da Nicolai Hartmann (1882-1950) – fu trasferito da Lukàcs sul piano storico e politico. Un approccio genuinamente ontologico all’essere sociale sarebbe potuto avvenire soltanto all’interno della formazione economico-sociale del “mondo socialista”. Nel “mondo liberato” dal capitalismo l’essere sociale – che in Occidente era messo a repentaglio dalle dinamiche economiche e manipolato attraverso la regolazione astratta del diritto – si sarebbe potuto svelare nelle sue potenzialità e manifestarsi nella pienezza della diretta esperienza dei cittadini disalienati. Nel mondo socialista, le implicazioni ontologiche del lavoro, insieme alla scienza e alla tecnica – sottratte alla logica dell’alienazione e della reificazione capitalista – creavano un autentico approccio materialistico all’essere e all’esistenza dell’individuo sociale26. Il limite della filosofia di Lukàcs fu di considerare il marxismo come l’unica forma accettabile di “materialismo”. Il filosofo ungherese – in questo ortodosso seguace di Engels – reputò, infatti, il materialismo storico come nettamente superiore sia rispetto al materialismo antico (greco e latino) sia rispetto al materialismo illuministico e positivista, da lui definito “materialismo volgare”. Anche il materialismo einsteiniano e neopositivista sarebbe stato da lui giudicato falso e manipolatorio27. L’altro fraintendimento di Lukàcs fu operato nei confronti del “diritto universale” e della “scienza dell’economia”. Il marxista ungherese era convinto che il 26 György Lukács, Prolegomena. Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, Darmstadt e Neuwied, Luchterhand, hrsg.von F. Benseler, 1 e 2, Halbband, 1984, 1986; Nicolas Tertulian, Lukàcs. La rinascita dell’ontologia, Editori Riuniti, Roma, 1986. 27 Friedrich Lange, Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, 1866, tr. It., Storia del materialismo e la critica della sua importanza nel nostro tempo, Monanni, Milano, 1932; Ludovico Geymonat, Riflessioni critiche su Kuhn e Popper, Dedalo, Bari, 1983; Girolamo De Liguori, Materialismo inquieto: vicende dello scientismo in Italia nell’età del positivismo, 1868-1911, Roma-Bari, Laterza, 1988; Tony Burns, Materialism in Ancient Greek Philosophy and in the Writings of the Young Marx, Brill, Boston, 2000.

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fondamento “politico” sia del diritto sia dell’economia – auspicato dai liberali europei e americani – fosse in realtà un non-fondamento, un lasciare via libera alla più sfrenata manipolabilità dell’esistente nell’interesse dello sviluppo capitalistico. In questa visione Lukàcs era sintonico con la disincantata diagnosi dell’“epoca della tecnica” del secondo Heidegger28. Avendo emancipato la tecnologia – e con essa la scienza, il diritto e l’economia – da ogni relazione ontologica il capitalismo le aveva destinate a diventare strumenti di un definitivo sradicamento dell’“essenza umana”. In seguito a tale processo il “mondo della tecnica” era finito sotto il comando di un “potere autopoietico”, autofondativo e autogenerativo, che si era eretto di contro al genere umano29. In Francia, la filosofia di Jean-Paul Sartre, pure collegata al marxismo, sarebbe invece rimasta nei limiti del pensiero trascendentale dell’umano: l’integrazione del materialismo storico con la fenomenologia e con l’esistenzialismo non avrebbe trasceso i confini dell’esperienza soggettiva e della prassi intersoggettiva. La “soggettività”, come piegatura intima della “cosa umana” – margine che si insinuava fra l’oggettività esterna e interna di ciascuno – restava una dimensione inaccessibile a ogni forma di conoscenza “oggettivistica” e liberamente consegnata alla dialettica dell’esistenza30. Per lunghi anni Sartre avrebbe cercato di confrontare il suo esistenzialismo libertario con il marxismo occidentale. Ne avrebbe discusso anche con Lukàcs e con i marxisti italiani: interlocutori con cui aveva, in realtà, ben poco da condividere. Benché avesse chiara l’eterodossia del suo pensiero, Sartre rimase ostinatamente ancorato allo scenario intellettuale e politico del marxismo. Intransigente nelle critiche a Lenin e a Stalin, esorcizzò in ogni modo la dissoluzione della speranza socialista del secondo dopoguerra: temeva di più la metafisica cristiana e il positivismo scientista che il dogmatismo del “materialismo dialettico”. Si evi28 Lucien Goldmann, Lukács und Heidegger. Nachgelassene Fragmente, Neuwied, Luchterhand, tr. it., Lukács e Heidegger. Frammenti postumi, Bertani, Verona, 1973; Kostas Axelos, Marx e Heidegger, 1966, tr. it., Guida, Napoli, 1977. 29 AA.VV., Lukács: in cammino verso l’ontologia, a cura di Guido Oldrini, Nicolas Tertulian e Ester Vaisman, “Quaderni Materialisti”, vol. 17, Milano, 2019. 30 Gabriella Farina, Sartre, Marx nella cultura francese del dopoguerra (19461956), in AA.VV., Sartre e la tradizione metafisica, Biblink, Roma, 2008, pp. 103-123.

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denziò in lui l’effetto paradossale di un credo marxista che era un a-priori morale, senza e, addirittura, contro lo stesso Marx. Il marxismo di Sartre sembrò l’umanesimo di un liberale dissidente. Certo, lui si pensava come un intellettuale rivoluzionario (engagée), come un soggetto in rivolta perpetua che eccedeva il lavoro e l’oggettività. Sartre lo troviamo, con Simone de Beauvoir, in cerca di una posizione asimmetrica all’interno del mondo: lo si sarebbe visto ancora nel 196831. Se Lukàcs e Sartre animarono il marxismo europeo che cercava di valicare la porta stretta che divideva il capitalismo reale dal socialismo reale, Herbert Marcuse, emigrato negli USA, scoprì paradossali analogie tra la Germania stravolta e deturpata dal Nazionalsocialismo e il mondo unidimensionale e repressivo del capitalismo americano. Il punto di congiunzione fra i due sistemi sociali – per molti aspetti differenti e addirittura antitetici – era costituito dal “dominio della politica sulla società”: un dominio che raggiungeva finanche le strutture psichiche degli individui per unificare libertà e servitù, felicità e repressione32. Marcuse proveniva dall’Istituto per la Ricerca Sociale (Institut für Sozialforschung) dell’Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte sul Meno, sorto tra gli anni venti e trenta. Dopo l’avvento del nazismo il gruppo dirigente della scuola aveva lasciato la Germania per trasferirsi dapprima a Ginevra, poi a Parigi e infine a New York e in California. In Germania, durante la Repubblica di Weimar, i francofortesi avevano costruito una teoria critica della società attraverso l’applicazione della sociologia marxista. Si trattava di un marxismo modificato, che capovolgeva – rispetto al marxismo-leninismo sovietico – il rapporto fra struttura e sovrastruttura e sottoponeva alla critica materialistica la scienza e la tecnica moderne. Negli Stati Uniti i francofortesi – costruendo un ponte tra il “marxismo occidentale” d’anteguerra e il neomarxismo della New Left degli anni ’60 – avrebbero riscoperto alcune delle intuizioni di Marx nella 31 Jean-Paul Sartre, Il filosofo e la politica, a cura di Mario Alicata, Editori Riuniti, Roma, 1972; Rossana Rossanda, Quando si pensava in grande. Tracce di un secolo. Colloqui con venti testimoni del Novecento, Einaudi, Torino, 2013. 32 Herbert Marcuse, Psicanalisi e politica, 1957, tr. it., Laterza, Bari 1968; Id., Critica della società repressiva, 1965-1967, tr. it., Feltrinelli, Milano, 1968.

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Grundrisse: il rapporto fra il dominio e la tecnologia, fra l’autoritarismo e l’industria culturale della società capitalista avanzata produttrice di ideologia funzionale al mercato. Ciò che appare discutibile nella prospettiva di Marcuse e degli altri francofortesi è l’equiparazione fra il liberalismo e il fascismo interpretati come le due varianti del dominio capitalista33. Conta poco che aspre critiche siano rivolte oltre che agli USA anche alla società sovietica34. Una volta consegnato il liberalismo al novero delle teorie totalitarie – insieme al fascismo e allo stalinismo – e una volta attribuito al marxismo e al freudismo il ruolo di “teorie critiche”, non restava alcuna via di uscita dalla philosophia perennis di Marx. Ecco quindi che l’articolata e concreta “teoria delle libertà” (economica, politica, religiosa, di pensiero ecc.) propria del liberalismo veniva sottostimata e il pensiero liberale si trasformava in una ideologia di occultamento e di stabilizzazione del dominio capitalistico. L’errore di Marcuse fu di pensare che il liberalismo non avesse gli strumenti per diventare una “teoria critica” del neocapitalismo e delle trasformazioni della scienza e della tecnologia. Ecco che al labirinto borghese – inviolabile senza il “filo di Arianna” di Marx – Marcuse avrebbe contrapposto la mitologica società liberata del movimento giovanile. Dall’“ossessione antifascista”, di lontana origine terzinternazionalista, sarebbe derivata una “teoria della liberazione” che era, in realtà, un’ossessione antiliberale. Non c’è nulla di più difficile per i nemici del liberalismo che la comprensione del totalitarismo e del fascismo35. Il neomarxismo di Marcuse, immaginando di incarnare la rivoluzione permanente degli anni ’60, avrebbe visto la società contemporanea, democratica e liberale, tecnologica e capitalistica, come un mondo degradato e oppressivo, alienato e perverso. Invece di analizzare, dentro le tecnologie e dentro i processi di innovazione delle imprese, le alternative da incentivare e quelle da rifiutare, demonizzò il "sistema" 33 Reinhard Kuhnl, Due forme di dominio borghese liberalismo e fascismo, 1971, Feltrinelli, Milano, 1973. 34 Herbert Marcuse, Soviet marxism. Le sorti del marxismo in URSS, 1957, Guanda, Parma, 1968. 35 Palmiro Togliatti, Lezioni sul fascismo, 1935, a c. di Ernesto Ragionieri, ed. Editori Riuniti, Roma, 1970: “il fascismo è la forma aperta della dittatura dei gruppi più reazionari […] del capitale finanziario [ …] della borghesia”, ivi, pp. 3 e 167.

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nella sua globalità. Da una tale percezione avrebbe avuto origine la dottrina del “fascismo americano”: una forma di fascismo eterno, orrido travestimento della borghesia nelle fasi di crisi del suo dominio. Una concezione che avrebbe influenzato – dopo le Black Panthers36- l’intera costellazione del marxismo guerrigliero e combattente, incrementandone il “narcisismo rivoluzionario”37. Oltre a contribuire alla gnosi apocalittica della “società opulenta”, il neomarxismo di Marcuse avrebbe dato un poderoso slancio al pensiero terzomondista e anti-neocolonialista negli USA e negli ambienti radicalizzati europei. Stati Uniti ed Europa avebbero fatto bene a guardare con raccapriccio e pentimento all’“orrore” che avevano seminato per il globo nel secolo precedente: mondi meravigliosi erano stati sottomessi e sfruttati per la brama di dominio e per l’avidità dei Paesi occidentali38. Fornendo un apparente fondamento alle tesi antimperialiste e terzomondiste, proprio in quegli anni, i Paesi vincitori della seconda guerra mondiale stavano intervenendo nella vita politica e economica dei Paesi da poco decolonizzati: gli USA esibivano la loro potenza militare in Medio Oriente e nella penisola del Vietnam, l’URSS si inseriva nell’Africa sub-sahariana, la Francia difendeva le sue aree di influenza in Africa centrale. Le riflessioni critiche di Marcuse, Sweezy, Gunder Frank e di altri intellettuali radicali sembrarono verosimili e avrebbero contribuito allo sgretolarsi dell’ideologia conservatrice che era prevalsa negli USA negli anni della Guerra fredda e aveva giustificato ogni scelta militare e giudiziaria – per quanto scellera36 George Jackson, Col sangue agli occhi. Il “fascismo americano” e altri scritti, tr. it., Einaudi, Torino, 1972; Michael Joseph Roberto, The Coming of the American Behemoth: The Origins of Fascism in the United States, 1920–1940, Monthly Review Press, U.S., N.Y., 2018. 37 Yonah Alexander, Dennis A. Pluchinsky, Europe’s Red Terrorists. The fighting Communist Organizations, Routledge, London, 1992; Giorgio Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004. 38 Paul Marlor Sweezy, The Present as History, Monthly Review Press, 1953, tr. it., Il presente come storia, Einaudi, Torino, 1962; AA.VV., Monthly Review (1968-87) Edizione italiana, Dedalo, Bari; Gabriel Kolko, Le radici economiche della politica americana, ed. it., Einaudi, Torino, 1970; Wolfgang Reinhard, Storia del colonialismo, (1966), Einaudi, Torino, 2002; Edward Said, Culture and imperialism, Knopf, Inc., New York, 1993, tr. It., Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidentale, Gamberetti Editrice, Roma, 1998.

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Il marxismo occidentale 75

ta e crudele – in nome dell’anticomunismo. Resta però sconcertante l’enfasi con la quale si facevano culminare denunce specifiche, analisi di problemi storici particolari, in un anatema generale e apocalittico contro la “società occidentale”. Non si comprese che l’alternativa alla colonizzazione non era la pura e semplice “indipendenza”: Paesi poveri e arretrati non avrebbero potuto amministrarsi e progredire da soli, recuperando in pochi anni secoli di mancato sviluppo economico, culturale, politico. Piuttosto i Paesi colonizzatori avrebbero dovuto favorire la crescita economica, amministrativa, culturale dei paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina, consentendo loro di avvicinarsi gradualmente agli standard occidentali. Un ambito particolarmente complesso era rappresentato dai vasti e popolosi stati del continente africano, in particolare nell’area sub-sahariana e centro-meridionale. Lì, un’economia basata principalmente sull’esportazione delle materie prime verso l’Europa, restava priva di infrastrutture e di un’autonoma base industriale. L’assenza di un mercato interno evolutivo e interrelato, con accordi di libero scambio tra i Paesi centro-africani, condannava le popolazioni a periodiche carestie ed epidemie e a un generalizzato sottosviluppo. L’entusiasmo per i “movimenti di liberazione” e per la valorizzazione delle culture e delle risorse “native” non avrebbe scalfito il permanere in quei Paesi della povertà. Anzi, lungi dal promuovere l’autonomia dell’Africa, secondo la prospettiva del cosiddetto panafricanismo, il diffondersi di culture politiche e economiche antiliberali, avrebbe aperto la strada, oltre che a continue guerre regionali, a forme di totalitarismo e di nuova subordinazione verso Paesi come la Russia e la Cina39. Il neomarxismo e la New Left degli anni '60 avrebbero esaltato le culture “altre” e remote – quella indiana, cinese, precolombiana – in quanto custodi di saperi non-razionali e non-borghesi da opporre all’Occidente e al suo percorso evolutivo dall’antichità ai 39 Gianluigi Rossi, L’ Africa verso l’unità (1945-2000). Dagli Stati indipendenti all’atto di unione di Lomè, Roma, Nuova cultura, 2000; A. Ferrari, Africa Gialla. L’invasione economica cinese nel continente africano, UTET, Torino, 2008; G. Dematteis, C. Lanza, F. Nano, A. Vanolo, Geografia dell’economia mondiale, UTET Università, Torino, 2010; Michele Di Cinto, Valerio Nuzzo, Controstoria dell’Africa. Dal grande passato degli antichi regni, agli orrori ed errori del colonialismo e postcolonialismo, Aracne, Roma, 2016.

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giorni nostri. Dal connubio di esotismo e neomarxismo sarebbe sorta un’“ambigua utopia” della società futura immaginata come un “Brave New World” rovesciato, simmetrico rispetto al capitalismo idealizzato dai conservatori. Alla fine, i “marcusiani” e i neomarxisti americani, che insorgevano contro i principi e i metodi democratici e liberali, si scagliarono contro ideali che avrebbero potuto costituire il più efficace strumento per la critica e la trasformazione riformista degli aspetti negativi della società contemporanea.

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CAPITOLO SESTO LA DESTALINIZZAZIONE E IL “MARXISMO DELLA COESISTENZA”

Le modalità della dittatura del PCUS sulla società sovietica durante l’epoca di Stalin (1927-1953), furono illustrate da Nikita Chruščёv nel 1956, al XX congresso del PCUS. Il totalitarismo staliniano fu da lui definito come un “culto della personalità”1. In realtà, la ricostruzione critica di Chruščёv avrebbe investito tutta la storia dell’URSS: dal periodo immediatamente successivo alla morte di Lenin (1924) alla fase dei piani quinquennali, dall’accordo difensivo con Hitler e von Ribbentrop (1939) alla “guerra patriottica” contro il Nazismo (1941-1945), dallo strutturarsi della “cortina di ferro” tra est e ovest (1945) alla morte di Stalin (1953). L’URSS descritta da Chruščёv era un Paese privo di una magistratura indipendente, senza stampa e Intelligencija libere e critiche, con un esercito organizzato secondo regole autoritarie. Era un Paese in cui la lotta politica tra leader contrapposti – in assenza di pluralismo, di alternanza e di leale competizione – non si era potuta svolgere con metodi democratici, bensì soltanto con faide e congiure, processi e massacri, con gravissimi danni ai singoli e all’intera società. Stalin aveva disseminato la Russia di monumenti che lo ritraevano in pose enfatiche, aveva fatto girare film apologetici su se stesso, si era attribuito ogni merito riguardo all’avanzata del socialismo, era riuscito a persuadere – per mezzo di un poderoso apparato di propaganda – centinaia di milioni di persone che le vicende della Russia non avrebbero potuto svolgersi diversamente da come lui e il PCUS le stavano indirizzando. In sintesi: Chruščёv avrebbe avuto tutti gli elementi per dichiarare fallito l’esperimento del “socialismo reale” nell’URSS. Nulla del genere accadde. Atte1

Il Rapporto Chruščёv. La denuncia del culto della personalità, 1956, a c. di Antonio Maria Carena, Nino Aragno Editore, Torino, 2016.

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nendosi alla celebrazione del “leninismo” come autentica dottrina democratica, si limitò a denunciare il “tradimento” perpetrato da Stalin e dai suoi accoliti nei confronti del progetto autenticamente proletario ideato da Marx e applicato da Lenin nell’Ottobre del 1917. A suo modo di vedere, la popolazione sovietica, il partito, i dirigenti civili e militari, erano stati asserviti, plagiati e abbacinati, per quasi 30 anni, da un leader folle e megalomane. Stalin aveva coagulato intorno a sé un’invincibile piramide di servi, di delinquenti, di sciocchi vassalli contro i quali nulla avevano potuto i gruppi che, a vario titolo, gli si erano opposti. Tutto ciò non era stato la conseguenza del sistema monopartitico e centralistico del socialismo leninista. Anzi – guardando fuori dal Kremlino – Chruščёv pronunciò parole alate per esaltare le gesta della meravigliosa popolazione russa: cittadini e operai, contadini e donne, militari e tecnici che avevano saputo sopportare eroicamente orrende privazioni e terribili prove. Una popolazione che aveva vinto la guerra contro il fascismo e che, malgrado Stalin, aveva reso l’URSS una grande potenza mondiale. Il discorso di Chruščёv illustra bene i poteri magici del marxismo-leninismo: un metodo di pensiero che, esaltando la centralità del potere politico, consente di raffigurare la realtà in modo autoconvincente e di spacciare come giustificazione dei fatti la teoria sulla base della quale questi stessi fatti sono stati descritti. Un tale incantesimo, però, stava per terminare. Nel periodo fra il 1956 e il 1964, in URSS si sarebbe affermata una nuova classe dirigente e si sarebbe intensificato il formarsi del “dissenso” (инакомыслие)2, mentre negli USA – la potenza rivale – sarebbe emersa la grande figura liberale e progressista di John F. Kennedy3. I cambiamenti sarebbero stati notevoli: l’Occidente atlantico avrebbe vissuto la Golden Age del neocapitalismo, mentre in Russia si sarebbero avvertite le conseguenze benefiche del disgelo (оттепель) e della riduzione della tensione internazionale. La politica liberale americana – con Kennedy e, in modo diverso, con Johnson – si sarebbe 2 3

Roy A. Medvedev, Lo Stalinismo. Origine, storia, conseguenze, tr. it., Mondadori, Milano, 1972; Id., On Soviet Dissent, Columbia University Press, N.Y., 1979. Arthur M. Schlesinger jr., A Thousand Days. John F. Kennedy in the White House, 1965, tr. it., Rizzoli, Milano, 1966, p. 356.

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La destalinizzazione e il “marxismo della coesistenza” 79

arricchita di nuove implicazioni sociali e scientifiche, ma anche il “socialismo sovietico” avrebbe attraversato una fase di cambiamento, nel passaggio dagli anni della Cold War agli anni della “coesistenza pacifica” (1956-1968)4. Documento prezioso della trasformazione del marxismo-leninismo di matrice bolscevica nel “socialismo della coesistenza e della competizione” è un testo di Andrei Zacharov5. Nel breve opuscolo, l’insigne scienziato elencò i temi che, negli anni ’60, erano stati oggetto della riflessione dell’Intelligencija sovietica e che ambivano a diffondersi in tutto il mondo, in specie in quello americano. L’esordio era ampio e ambizioso: “la civiltà è minacciata da una guerra termonucleare totale, dalla catastrofe della fame per la maggioranza del genere umano, dall’intossicazione prodotta dalla droga della cultura di massa e dal dogmatismo burocratizzato, dall’esplosione di miti di massa che gettano interi popoli e continenti in balìa di demagoghi crudeli e impostori e dalla distruzione o degenerazione dell’ambiente naturale dovuta alle imprevedibili conseguenze di rapidi mutamenti delle condizioni di vita sul nostro pianeta”6. Al lucido elenco delle emergenze planetarie, Zacharov aggiungeva l’individuazione di una nuova ideologia totalitaria, in rapida diffusione in Cina: il “maoismo”, un’ideologia che il fisico russo collocava, accanto all’hitlerismo e allo stalinismo, tra le matrici dei regimi totalitari di metà ’900 definendola

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5 6

Eli Ginzberg, Robert M. Solow, The Great Society. Lessons for the Future, Basic Books, N.Y., 1975; Arthur M. Schlesinger Jr, Robert Kennedy and His Times, Houghton Mifflin, Boston, 1978; Guthman, Edwin O.; Allen, C. Richard, eds., Robert F. Kennedy, Collected Speeches, Viking, New York City, 1993; Irwin Unger, The Best of Intentions: the triumphs and failures of the Great Society under Kennedy, Johnson, and Nixon, Doubleday, U.K., 1996; John A. Andrew, Lyndon Johnson and the Great Society, I.R. Dee, Chicago, 1998. Sull’URSS della coesistenza Giuseppe Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, vol. II (1945-1964), Mondadori, Milano, 1979; Sidney Pollard (a cura di), Storia economica del Novecento, Il Mulino, Bologna, 1999; Mihail Heller e Aleksandr Nekrič, Storia dell’URSS, Bompiani, Milano, 2001; Viktor Zaslavskij, Storia del sistema sovietico. L’ascesa, la stabilità, il crollo, Carocci, Roma Editore, 2001. Sul marxismo sovietico: György Lukács, Il marxismo nella coesistenza, Editori Riuniti, Roma, 1968; A.N. Šeptulin, La filosofia marxista-leninista, Edizioni Progress, Mosca, 1977. Andrei Dmitrievic Zacharov, [Andrej Dmitrievič Sacharov], Progresso, coesistenza e libertà intellettuale, 1968, tr. it., Etas Kompass, Milano, 1969. Op. cit., p. 32.

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Eutanasia del marxismo

un “neostalinismo”7. Zacharov si definiva “schiettamente socialista”, ma non esitava a pronunciare la più terribile requisitoria contro Stalin e i suoi genocidi8. Andando oltre quanto era stato detto nel documento di Chruščёv, Zacharov individuava il cuore dell’ideologia totalitaria e del “culto della personalità” – egualmente denominabili come fascismo, hitlerismo, stalinismo, maoismo – nell’“allestire un ottimo schermo per ingannare la classe operaia e indebolire la vigilanza degli intellettuali e degli altri concorrenti nella lotta per il potere”. Questo era stato il terribile sortilegio dei totalitarismi: impedire alla società di essere consapevole dei propri problemi e dei propri errori e quindi inibirla in ogni critica e correzione. Il totalitarismo era stato un potere assoluto che si era rappresentato come rovesciamento del potere. Al centro del suo ragionamento si trovavano le considerazioni su quella che definiva “libertà intellettuale”. Per Zacharov il maggior pericolo per i Paesi dominanti del Pianeta era rappresentato dal “controllo biochimico e elettronico dei processi psichici”9. Il progredire delle neuroscienze e della cibernetica, negli USA come in Russia, determinava una sequenza di risvolti negativi. Il primo era rappresentato dalle nuove possibilità della “censura” sulle arti e sulla libertà di pensiero: il maccartismo americano e lo stalinismo sovietico erano espressione di due apparati di potere in competizione, che utilizzavano la minaccia esterna da parte dell’altro come giustificazione dell’incremento del controllo interno sulla propria società. Le conseguenze di un tale programma manipolatorio erano duplici. La prima: i governi dei due Paesi agivano al di fuori di ogni controllo da parte delle rispettive società. La seconda: il livello culturale e artistico dei due popoli diminuiva sensibilmente con l’affermarsi di servizi scolastici e informativi sempre più dozzinali e ripetitivi. Se crescevano la dotazione tecnologica e la ricerca settoriale (pensiamo alla “Space Race” di quegli anni), si deprimevano la libertà personale e la democrazia e si privava la società di quel libero e autonomo sviluppo dell’intelligenza, della discussione e della creatività – così importanti per “i filosofi della Grecia antica” – che avrebbero potuto condurre il mondo a intensificare le proprie esperienze e a sviluppare conoscenze sui dossier più impor7 8 9

Ivi, pp. 69-70; 79-80. Regimi totalitari, a quel tempo, si erano affermati in “Portogallo, Spagna, Albania, Grecia, Sud Africa, Haiti e altri stati latino-americani”. Ivi, pp. 71-79. Ivi, p. 84.

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La destalinizzazione e il “marxismo della coesistenza” 81

tanti per la civiltà umana. Le pagine su Solženicyn e su altri scrittori russi processati e censurati, esprimono bene lo sdegno di Zacharov per un potere politico che impoveriva la società delle sue energie vitali e intellettuali più preziose. L’universalismo e il liberalismo – impliciti nel “marxismo della coesistenza” – potevano erompere se i gruppi intellettuali dei mondi in lotta di quel tempo si fossero amichevolmente confrontati e avessero unito le proprie potenzialità scientifiche e culturali: la Guerra Fredda tra i due blocchi sarebbe divenuta una competizione leale e l’orizzonte internazionale si sarebbe trasformato da conflittuale in cooperativo. Un certo ottimismo spinse Zacharov a scrivere: “sia il capitalismo che il socialismo sono in grado di raggiungere un progresso a lungo termine prendendo a prestito reciprocamente gli elementi positivi e avvicinandosi realmente l’un l’altro”. Ecco che il capitalismo andava considerato un sistema sociale evolutivo e che addirittura primeggiava in svariati campi rispetto a quello socialista. Lo stesso dualismo fra capitalismo e socialismo stava svanendo. L’uccisione a Dallas, il 22 novembre del 1963, di John F. Kennedy – grande rappresentante della “borghesia riformista” – era stata un’occasione irreparabilmente perduta per il dialogo internazionale, ma si doveva andare avanti nell’interesse del mondo10. Il “marxismo della coesistenza” degli anni ’60 affrettò la sparizione del marxismo ortodosso: quel DIAMAT (materialismo dialettico) che aveva dominato nell’URSS, in Cina e a Cuba durante l’età del COMINFORM (19471956). Lo stesso Memoriale di Yalta di Togliatti può essere considerato un estremo appello rivolto al Kremlino perché aggiornasse dottrina e prassi politica di fronte ai grandi cambiamenti del mondo occidentale e di quello orientale11. Evoluzione del “marxismo della coesistenza” sarebbero state le successive posizioni di Zacharov come pure il socialismo della “перестройка” di Gorbačëv. In un saggio del 1975, Zacharov avrebbe sollecitato il dialogo fra la classe operaia e gli intellettuali “liberali di sinistra” occidentali e la classe operaia e l’Intelligencija russi perché dessero comune prova di “generosa abnegazione e di coraggiosa preoccupazione per le sorti di tutta l’umanità”12. I pila10 Ivi, pp. 104 e 113. 11 Palmiro Togliatti, Il memoriale di Yalta, 1964, Sellerio, Palermo, 1988. 12 Andrei Sakharov, Il mio Paese e il mondo, 1975, tr. it., Bompiani, Milano, 1975, p. 99.

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Eutanasia del marxismo

stri di questo patto per la pace, la sicurezza e il progresso avrebbero dovuto essere il disarmo nucleare, il rifiuto della guerra e la pianificazione di un sostanzioso e durevole contributo finanziario ai paesi del Terzo mondo. Oltre alla preoccupazione che non si diffondessero, a ovest e a est, tendenze fasciste e neostaliniste. Zacharov delineava il marxismo della coesistenza come una forma nuova di pensiero politico, frutto di una sintesi fra socialismo e liberalismo. Molte pagine erano dedicate al modo parziale e inconsapevolmente errato con il quale in Europa occidentale e negli USA, in quegli stessi anni, il movimento di contestazione stava guardando ai problemi interni dei Paesi capitalisti: un radicalismo ingenuo e imprudente che esaltava la presunta azione “anti-imperialista” della Cina di Mao. In contrapposizione all’autocritica di Chruščёv – giudicata mistificatrice e opportunista – nella Repubblica popolare cinese si stava consolidato il maoismo, la dottrina della Rivoluzione culturale e di Mao Tse Dong (1893-1976) che preludeva a un aggressivo ruolo internazionale della Cina13. Inoltre, sottolineava Zacharov, il radicalismo occidentale stava trascurando l’importanza dell’introduzione di elementi di liberalismo, di pluralismo politico e culturale in URSS. Di fronte alle tensioni internazionali determinate dall’espansionismo sia sovietico che cinese – in aspra competizione fra di loro14 – i movimenti radicali studenteschi occidentali e intellettuali puntavano a un pericoloso indebolimento militare e tecnologico dei propri Paesi. Non comprendevano che politiche unilaterali di disarmo, come pure scelte “isolazioniste” e di mancato contrasto alle intrusioni dell’URSS e della Cina in Indocina e nel Medio Oriente, avrebbero rafforzato nei Paesi comunisti le forze totalitarie e le tendenze egemoniche verso il Terzo mondo15. Passati dieci anni, si possono considerare il pensiero e l’azione di Mikhail Gorbačëv come un’evoluzione della dottrina di Zacharov. L’URSS, consapevole del suo enorme peso internazionale, si saHan Suyin, Mao Tse-Tung Una vita per la rivoluzione, Bompiani, 1972; Philip Short, Mao. L’uomo, il rivoluzionario, il tiranno, Rizzoli, Milano, 1999. 14 Sul contrasto cino-sovietico del 1961-1971 F. Joyaux, La politique extérieure de la Chine Populaire, Paris, 1983; J.D. Spence, The Search for Modern China, New York/London, 1991; J.W., Garver, The Chinese Communist Party and the Collapse of Soviet Communism, in “The China Quarterly”, n. 133, 1993. 15 Andrei Sakharov, Il mio Paese, cit., pp. 95-114. 13

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La destalinizzazione e il “marxismo della coesistenza” 83

rebbe persuasa che, depurando il “marxismo della coesistenza” dei suoi residui connotati marxisti e leninisti, avrebbe potuto dar corpo a una visione politica rinnovata e globale. Sul piano interno, sarebbe stato necessario incrementare gli aspetti democratici e pluralistici dell’amministrazione sovietica (la “perestrojka e i Soviet”), sul piano internazionale si sarebbe dovuto riconoscere: “il diritto di ogni nazione a scegliere la propria via di sviluppo sociale, [… con la] rinuncia a interferire negli affari interni degli altri stati [… e con] una visione autocritica obiettiva della propria società. Una nazione può scegliere il capitalismo o il socialismo: è il suo diritto sovrano”16. In qualche modo Gorbačëv, rivalutando i meriti storici di Churchill e di Roosevelt e le intuizioni di Zachrov, saebbe tornato allo spirito delle Moscow Declarations del 1943 ponendo termine alla “Guerra fredda” e facendo diventare l’ONU il laboratorio politico mondiale per la fine del Novecento e il secolo che stava per cominciare17.

16 Mikhail Gorbaciov, Perestrojka, 1987, ed. it., Mondadori, Milano, 1987, p. 188. 17 Il 30 ottobre 1943 si svolse a Mosca un incontro – cui parteciparono i rappresentanti di Regno Unito, Cina, Unione Sovietica e Stati Uniti – che elaborò la Dichiarazione sulla sicurezza generale (Declaration of the Four Nations on General Security). Questo documento prospettava un’organizzazione che rifondasse su basi più ampie e solide la Società della Nazioni e garantisse la pace e la sicurezza internazionale diffondendo la democrazia nella vita politica interna degli stati. Tale progetto sarebbe stato rilanciato dai leader di Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito, Roosevelt, Stalin e Churchill, nella conferenza di Teheran del 1º dicembre 1943.

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CAPITOLO SETTIMO IL SOCIALISMO EUROPEO

Il secondo Novecento ha portato alla frantumazione del marxismo e alla dissoluzione del “movimento operaio internazionale”1. Le ambiguità, le contraddizioni, ma anche le interpretazioni differenti dell’originaria impostazione di Marx, si sono sgretolate in orientamenti divergenti e contrapposti. Soprattutto è emerso con chiarezza che il cosiddetto “realismo politico” della sinistra socialista, era null’altro che una costruzione ideologica lontana dalla storia e dai fatti. L’allontanamento e poi il distacco dalla realtà si era aggravato alla fine degli anni ’50 quando il marxismo era diventato, più che altro, una sovrastruttura ideologica e culturale. Si possono individuare tre distinti percorsi di transustanziazione del marxismo nella seconda parte del’900, in forte contrasto reciproco. Il primo è stato quello del “socialismo europeo”: collegato alle vicende dell’Internazionale socialista – ricostituita a Francoforte nel 1951 – e ai partiti socialisti e socialdemocratici. In questo filone si è palesata la volontà di rompere l’“Hortus conclusus” del marxismo-leninismo e l’autosufficienza del materialismo storico, per aprirsi a concezioni pluralistiche del sapere, influenzate dalla cultura politica e scientifica liberale e anglo-americana2. Non si è trattato 1

2

Eric John Hobsbawm, The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914–1991, London, The Penguin Group 1994; tr. It.: Il Secolo Breve. 19141991: l’Era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995; Enzo Bettiza, 1989. La fine del Novecento, Mondadori, Milano, 2009. Jürgen Habermas, Teoria della società o tecnologia sociale, 1971, tr. it., Etas Kompass, Milano 1973; AA.VV., Il sapere come rete di modelli. La conoscenza oggi, Atti del Convegno Internazionale, 20-23 gennaio 1981, Panini, Modena, 1981; Perry Anderson e altri, Socialismo liberale. Il dialogo con Norberto Bobbio oggi, a c. di Giancarlo Bosetti, Roma, l’Unità, 1989; Peter Kammerer, La fortuna del socialismo nella Germania del Novecento, in: “Parolechiave”, 2, Carocci, Roma, luglio-dicembre 2014.

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Eutanasia del marxismo

di un processo lineare, bensì diseguale per tempi e sviluppi, che ha portato il movimento socialista, negli ultimi decenni del Novecento, al definitivo abbandono del marxismo. Al suo posto si è affermato un pensiero politico diverso al quale si possono dare i nomi di “socialismo europeo” o di labourismo della “Third Way”3. Il secondo percorso di tramonto del marxismo è stato quello del “comunismo europeo” e dei partiti comunisti occidentali: da esso è derivata la specifica elaborazione del marxismo italiano. Originato dal marxismo sovietico, tale orientamento si è fatto, gradualmente, più autonomo. Nel suo ambito, si è teso a dare corpo a una sorta di “enciclopedia marxista”: un sapere unificato delle scienze umane e naturali all’interno delle “coordinate filosofiche marxiste”4. In tale ambito è emersa la totale divaricazione fra la teoria e la prassi generando un marxismo lacerato fra “integralismo ideologico” e “opportunismo pratico”. Infine, il terzo percorso è stato quello che possiamo chiamare dell’“altra storia”: in esso il marxismo si è reinventato come filosofia della liberazione e si è concretizzato in movimenti e gruppi politici in dissenso sia con il socialismo europeo (accusato di essersi inserito nel sistema) sia con il comunismo europeo (reo di un servile filosovietismo). Questo radicalismo marxista ebbe origine nella “destalinizzazione” successiva al 1956 e conobbe un forte sviluppo con la “contestazione globale” del 1968, per approdare a una sorta di “marxismo negativo”, con esiti in alcuni casi “guerriglieri” e, in altri, variamente anarchici e decostruttivi5. Ovviamente in tutte e tre le correnti erano presenti – con intensità differente – i dogmi 3 4

5

Anthony Giddens, The Third Way. The Renewal of Social Democracy, US, Polity Press, 1998; Giorgio Napolitano, Dal PCI al Socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Laterza, Bari-Roma 2006. AA.VV., (a c. di Giuseppe Vacca), Politica e teoria nel marxismo italiano, 1959-1969. Antologia critica, De Donato, Bari, 1972; Ornella Pompeo Faracovi, Il marxismo francese contemporaneo. Fra dialettica e struttura, Feltrinelli, Milano, 1972; AA.VV., Marxismo e filosofia in Italia, 1958-1971, (a c. di Franco Cassano), De Donato, Bari, 1976.. Raniero Panzieri, La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, Milano, Sapere, 1972; Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della Nuova Sinistra, Feltrinelli, Milano 1977; Costanzo Preve, La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano, 1984; Maurizio Ferraris, Differenze. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Multhipla, Milano, 1981.

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Il socialismo europeo 87

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ancestrali del marxismo: l’odio antiborghese, la “lotta di classe”, il rifiuto del liberalismo e del capitalismo, l’anelito moralistico a un mondo sociale “diverso” da quello esistente. Nel contrasto – spesso aspro e violento – tra socialismo europeo, comunismo europeo e marxismo radicale vi sono stati periodi nevralgici: – il periodo 1948-1965, iniziato con il Piano Marshall e proseguito con “L’âge d’or” del capitalismo labourista e del neocapitalismo6. – il periodo 1968-1987, caratterizzato dalla “contestazione globale” e dalla crisi del Welfare state, con le convulsioni del marxismo radicale e la parabola del “terrorismo rosso”7. – il periodo 1989-1995, in cui si sono prodotti il crollo del “Socialismo reale” e la fine della divisione dell’Europa. Ne sono derivati l’allargamento a est dell’UE e della NATO e la sparizione dei partiti comunisti occidentali8. Alla fine della Seconda guerra mondiale – dopo gli accordi di Teheran tra USA, UK e URSS (28 novembre – 1 dicembre 1943) – i partiti comunisti vissero una stagione di gloria grazie alle conquiste di Stalin in Europa centro-orientale e al ruolo svolto dai partigiani nella guerriglia di Resistenza al nazifascismo in Grecia, Albania, Jugoslavia, Italia e Francia. I partiti comunisti si dimostrarono superiori a quelli socialisti grazie all’organizzazione centralizzata, di tipo militare, e alla chiarezza degli obiettivi politici: entrare nei parlamenti dei paesi defascistizzati contestando ai socialisti il primato nella rappresentanza della sinistra. Nella lunga durata, sono stati due i fattori che hanno contribuito al successo del pensiero “riformista” di tipo socialdemocratico in Europa: uno di protezione e l’altro di 6

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L. Niethammer, La nascita e la caduta delle prospettive socialiste nell’Europa del secondo dopoguerra, in “Il Piano Marshall e l’Europa”, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1983; I. Favretto, Alle radici della svolta autonomista. PSI e Labour Party, due vicende parallele (1956-1970), Carocci, Roma, 2003; Aldo Agosti, Il partito provvisorio. Storia del PSIUP nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, Bari-Roma, 2013. Sergio Zavoli, La notte della Repubblica, Roma-Milano, Nuova Eri-Mondadori, 1992; Giorgio Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2004; Barry M. Rubin e Judith Colp Rubin, Chronologies of Modern Terrorism, M.E. Sharpe, N.Y., 2008, pp. 33-102. Achille Occhetto, Un indimenticabile ’89, Feltrinelli, Milano, 1990.

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Eutanasia del marxismo

facilitazione. Il fattore di protezione è stato costituito dalla “cortina di ferro” che dal 1948 al 1995 ha diviso l’Europa in due aree: ha consentito ai socialisti nordeuropei, greci, tedeschi e inglesi, un’autonoma collocazione internazionale. Sono stati pacifisti, tra Nato e Patto di Varsavia, europeisti, in quanto impegnati nel MEC, indipendenti ideologicamente in quanto liberi dalle limitazioni imposte dall’URSS ai partiti comunisti, vincolati al COMINFORM e poi alle conferenze dei “partiti comunisti e operai”9. Fattore di facilitazione nella divaricazione fra socialismo europeo e comunismo europeo è stato lo sviluppo neocapitalistico del mondo industriale e finanziario. Il neocapitalismo si sarebbe rivelato inclusivo e innovatore nella vita sociale e culturale e avrebbe trovato una proiezione politica nelle forze riformatrici che crearono il Welfare State, ampliarono la spesa pubblica e emanarono leggi di tutela del lavoro dipendente10. Se Schumpeter aveva pensato a una inevitabile “eutanasia del capitalismo”, nel secondo Novecento sarebbe stato il “socialismo reale” a scomparire e, con esso, la validità predittiva e politica dell’ideologia marxista. Si potrebbe quindi concludere che l’“occidentalizzazione del marxismo” sia consistita nell’abbandono della sua dottrina politica e economica da parte del socialismo europeo11. Rilevante è stato il percorso compiuto dalla SPD con il Programma di Bad Godesberg (1959), poi con il Programma di Berlino (1989) fino al Programma fondamentale di Amburgo (26-28 ottobre 2007)12. Anche gli altri partiti socialisti (in Francia, Italia, Spagna), 9 AA.VV., Documenti della Conferenza di Mosca di 81 partiti comunisti e operai, Roma, 1960; Mario Telò (a cura di), L’Internazionale socialista. Storia, protagonisti, programmi, presente, futuro, L’Unità, Roma, 1990; Guillaume Devin, L’Internationale socialiste: histoire et sociologie du socialisme international. 1945-1990, Paris, Presses de la Fondation national des Sciences politiques, 1993. 10 William Beveridge, Social Insurance and Allied Services, London, HMSO, 1942, rist. “Bulletin of the World Health Organization”, 2000, 78; John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, ed. a c. di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese, Mondadori, Milano, 2019. 11 Joseph A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, 1954, tr.it., ETAS, Milano, 2001. 12 Francesca Traldi, Verso Bad Godesberg. La socialdemocrazia e le scienze sociali di fronte alla nuova società tedesca (1945-1965), Il Mulino, Bologna, 2010; SPD, La socialdemocrazia tedesca. Il nuovo programma fondamentale, Berlino 1989, tr. it., Datanews, Roma, 1990.

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Il socialismo europeo 89

con sofferenze e scissioni, avrebbero avviato esperienze di governo riformatrici nei rispettivi Paesi. Al cuore del socialismo europeo degli anni '60 vi fu la rielaborazione – in senso sia politico che economico – delle teorie anticicliche di Keynes e la trasformazione del “Piano Beveridge” in politiche permanenti di Welfare state. Il keynesismo sarebbe divenuto lo spazio di compromesso fra le teorie socialiste e le regole di una economia di mercato mitigata sulla base delle priorità sociali13. Il successo del neocapitalismo avrebbe spinto i socialisti a promuovere il “capitalismo regolato” e l’intervento massiccio dello stato. All’opposto avrebbe indotto i partiti comunisti occidentali a radicalizzare la propria dissidenza ideologica e la loro critica della “società borghese”14. Forti della sintesi ideologica raggiunta da Gramsci, i comunisti si tennero in posizione di alterità rispetto alla sfera politico-economica capitalistica e, parlando di fantomatiche “riforme di struttura”, utilizzarono la “doppiezza” come connotazione identitaria15. Il punto archimedico del socialismo europeo è localizzabile nel rapporto ambivalente con il pensiero liberale: il sistema sociale e il sistema politico schiettamente europei e occidentali, democratici e pluralisti16. Il movimento socialista fu suggestionato dal liberalismo – trasfigurato nelle forme dei “principi inderogabili della democrazia” – ma cercò di allontanarsene con la denuncia del suo carattere eminentemente borghese e capitalista. Esemplificazione dell’antinomicità del socialismo fu il discorso introduttivo di Pietro Nenni al 32° congresso del PSI (Venezia, 6-10 febbraio 1957)17. La celebre protesta di Croce contro l’“ircocervo liberalsocialista” aveva ampiamento segnalato che la distinzione tra liberali e socialisti non scompariva né quando i liberali mostravano interesse per le tematiche della dise13 Giuseppe Berta, Eclissi della socialdemocrazia, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 122 sgg. 14 Antonio Pesenti, Vincenzo Vitello, Tendenze del capitalismo italiano, 2 voll., Istituto Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1962; Lucio Magri, Il gramscismo alla prova. I cruciali anni ’60, la Rivista de “il Manifesto”, 21 ottobre 2001. 15 Pietro Di Loreto, Togliatti e la “Doppiezza”. Il PCI tra democrazia e insurrezione (1944-49), Il Mulino, Bologna, 1991. 16 Giuseppe Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015. 17 Pietro Nenni, Il socialismo nella democrazia, a c. di Giuseppe Tamburrano, Vallecchi, Firenze, 1966; Jacopo Perazzoli, Il socialismo europeo e le sfide del dopoguerra, Biblion, Milano, 2018.

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guaglianza sociale (pensiamo alla concezione LIB-LAB), né quando erano i socialisti a mostrare apprezzamento per le misure di contenimento dell’intervento dello stato nella vita della società (pensiamo al “Programma di Bad Godesberg” del 1959)18. In ogni caso, i “socialisti europei” – più rapidamente inglesi, nordici, francesi – procedettero alla revisione dell’internazionalismo per ritagliarsi un orizzonte di azione focalizzato sulla realtà del mondo atlantico e sulle prospettive europeiste: optarono per il rispetto, senza eccezioni e riserve, del sistema elettorale rappresentativo, del pluralismo dei partiti e dei sindacati, dell’eguale considerazione degli interessi e dei diritti (interclassismo, individualismo) e furono protagonisti di importanti esperienze di governo in alternanza con le forze moderate e conservatrici. Punto debole del socialismo europeo post-bellico fu l’accettazione della subordinazione militare dell’Europa occidentale agli USA: la NATO al posto di una inesistente CED. Aspetto qualificante fu l’attenzione ai fenomeni di “dissenso” e di “protesta” presenti nei Paesi del Blocco sovietico19. Nel 1957, durante la ratifica dei Trattati di Roma, i partiti comunisti occidentali – in Italia il PCI – votarono contro l’istituzione della CEE e dell’EurAtom definendo il mercato comune come “la forma sovrannazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico”. Il PSI, prudentemente, si astenne. Negli anni ’60 i socialisti e i socialdemocratici si collocarono alla giuntura del rapporto fra innovazione tecnologica e industriale e struttura sociale: luogo di trasformazione decisivo durante la Golden Age del capitalismo. In precedenza erano stati condizionati dalla concezione organicistica e classista del rapporto fra mondo dell’economia e sistema sociale ereditata dal marxismo. Per questo avevano definito la missione del potere politico in termini sostanzialisti: avevano parlato di un “incremento giustizia e di equità” 18 Benedetto Croce, Scopritori di contraddizioni, in: “La Critica” del 20 gennaio 1942, scritto in risposta al “Manifesto del Liberalsocialismo” di Guido Calogero; Michael Freeden. Liberal Languages: Ideological Imaginations and Twentieth-Century Progressive Thought, Princeton University Press, N.Y., 2004. 19 Valentine Lomellini, L’appuntamento mancato. La sinistra italiana e il dissenso nei regimi comunisti, 1968-1989, “Quaderni di Storia”, Le Monnier, Firenze, 2010; Bettino Craxi, Uno sguardo sul mondo. Appunti e scritti di politica estera, Mondadori, Milano, 2019.

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nei rapporti economici e nelle relazioni sociali, ritenendo che, nel mondo capitalista, la funzione redistributiva e equilibratrice non costituisse il fondamento assiologico dell’azione politica, bensì fosse condizionata dalla presenza di un governo orientato “a sinistra”. Mentre la variabilità d’indirizzo del potere era accettata dai liberali – che la intendevano come “alternanza delle forze di governo” – la periodica prevalenza di forze “conservatrici” o “moderate” era percepita, sia dai comunisti sia dai socialisti, in modo negativo: la interpretavano come fonte di regresso e restaurazione, di arretramento nei “diritti dei lavoratori”. Per questo, nell’evidente fluttuazione delle ideologie e dei governi, i socialisti europei cercarono di conservare al proprio interno i rituali della morale comunista (“compagno socialista”) e l’ispirazione universalista tesa a “cambiare il mondo”. Solo dopo gli anni ’60, per l’assimilazione di elementi di pensiero liberale e di economia politica, il socialismo europeo non si sarebbe più configurato come propagandista di un sistema economico alternativo a quello capitalista, bensì come il promotore di una strategia di riforme volte alla regolazione dei conflitti e alla riduzione degli squilibri all’interno di una economia mista, pubblica e di mercato20. Ancora di più a partire dagli anni ’70 – in contrapposizione alle teorizzazioni del neomarxismo e della New Left - i socialisti europei avrebbero sostituito la divisione classista e dicotomica della società in “borghesia e proletariato” con la partizione di “ceti agiati e ceti svantaggiati” da mitigare non già con l’“eguaglianza economica di tutti i cittadini”, bensì con l’“alleanza fra i meriti e i bisogni”. La divaricazione fra i settori sociali “affluenti” – inclusi nei processi di valorizzazione – e le “sacche di esclusione e di emarginazione” sarebbe così diventata un’evenienza cui porre rimedio con politiche di assistenza e di recupero che avessero come obiettivo l’ “equità sociale”21. La marginalità e l’esclusione furono intese non solo in 20 Giorgio Ruffolo, Rapporto sulla programmazione, Bari, Laterza, 1973; Enzo Bartocci (a cura di), I riformismi socialisti al tempo del centro-sinistra. 19571976, Viella, Roma, 2019. 21 Paul Blackledge, Left reformism, the state and the problem of socialist politics today in: “International Socialist Journal”, November 2013; Stan Parker, Reformism – or socialism?, in: “Socialist Standard”, June 2015; Giovanni Scirocco, Una rivista per il socialismo. “Mondo Operaio” (1957-1969), Carocci, Roma, 2019.

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senso economico (diseguaglianze), ma anche in senso culturale, psicologico, fisico (diversità)22. In conclusione, la nozione marxista-leninista del “conflitto antagonistico fra lavoro e capitale”, come pure la contrapposizione manichea fra individualismo e collettivismo, furono sostituite dalla distinzione liberale fra: comportamento prosociale e responsabile e comportamento antisociale e pericoloso23. Particolarmente complessa, rispetto a quanto avveniva nel resto dell’Europa occidentale sotto la spinta di leader riformisti come Olof Palme, François Mitterand, Felipe González Márquez e poi Tony Blair e Gerhard Schröder sarebbe stata la vicenda italiana. Già nel dopoguerra – mentre a Parigi si sottoscrivevano complessi trattati di pace – il Partito Socialista Italiano si era trovato lacerato fra il “frontismo” con il PCI, rinsaldatosi nel moto antifascista della Resistenza, e l’“autonomismo” dei socialdemocratici. I partiti riformisti dell’“area laica” (liberali, repubblicani, azionisti) erano divisi e avevano un modesto, seguito popolare a causa della scarsa diffusione nella società italiana – con l’eccezione del mondo della cultura – dei principi del liberalismo24. Dopo la stesura della Costituzione – cui tutti i gruppi dell’arco antifascista diedero il loro contributo, dotandola, oltre che degli istituti della “democrazia repubblicana e parlamentare”, di robuste e articolate garanzie liberali – la responsabilità del governo fu assunta stabilmente da un partito che non proveniva dalla storia del riformismo scocialista: la Democrazia Cristiana. Nell’ambito della “sinistra” italiana, orientamenti antisovietici e filo-atlantici furono propugnati soltanto da Giuseppe Saragat con la “scissione di Palazzo Barberini” (11 gennaio 1947)25. La questione non era di poca rilevanza giacché comportava un decisivo smarcamento dell’ideologia socialista 22 T. Booth T., M. Ainscow, L’Index per l’inclusione, Trento, Erickson, 2008; Patrizia Gaspari, Sotto il segno dell’inclusione, Anicia, Roma, 2011. 23 R. Axelrod, The Evolution of Cooperation, N.Y., Basic Books, New York, 1984; R. Dawkins, R., The Selfish Gene, Oxford University Press, 1989. 24 Arnaldo Ciani, Il Partito Liberale Italiano. Da Croce a Malagodi, ESI, Napoli 1968; Giovanni De Luna, Storia del Partito d’Azione. 1942-1947, Feltrinelli, Milano, 1982; Francesco Malgeri, La stagione del centrismo. Politica e società nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1960), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, Michele Spera, L’immagine del Partito Repubblicano. Una rllettura, 1962/2008, Gangemi, Roma, 2008. 25 Giuseppe Saragat, Quaranta anni di lotta per la democrazia. Scritti e discorsi 1925-1965, Mursia, Milano, 1966.

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rispetto ai dogmi del marxismo incardinati nella storia dell’URSS. Tuttavia, malgrado l’intuizione di Saragat, la sinistra restò egemonizzata dal 1948 al 1963 dal Partito Comunista Italiano che godeva del maggiore peso elettorale26. Poiché, al PCI era interdetta la partecipazione al governo, a causa dello stretto legame con l’Unione Sovietica, veniva così meno la possibilità di una alternativa politica alle maggioranze “centriste” guidate dalla DC. Anche le successive esperienze di centrosinistra (1963-1968) e di pentapartito (19811991) avrebbero coinvolto il Partito Socialista Italiano e il Partito Socialdemocratico in una forma di collaborazione subordinata rispetto alla Democrazia Cristiana. Il “fattore K” (l’gemonia del PCI) spiega sia il limitato avvicendamento delle forze politiche governative nei primi cinquant’anni dell’Italia repubblicana, sia il fatto che il PSI e il PSDI non ebbero mai consensi elettorali sufficienti a rappresentare l’alternativa alla DC27. Ha osservato Umberto Cerroni, che lo sviluppo della democrazia e la libertà di informazione avrebbero provocato una profonda modificazione sia della dottrina socialista sia di quella liberale. Ideologie contrapposte, sarebbero state obbligate a uscire dalla rigidità dei principi e a tenere in conto, nei loro programmi e nei loro atti di governo, delle oscillazioni della “pubblica opinione”. Se è vero , però, che la cornice democratica avrebbe stemperato le contrapposizioni ideologiche degli anni della “Guerra fredda”, non le avrebbe fatte scomparire del tutto. Sul piano dottrinale, socialdemocrazia, socialismo europeo e socialismo liberale conservarono un punto in comune: l’idea di socialismo elaborata dal “marxismo”. Pensiero fondante era che, senza un sistema politico pianificatore, non vi potesse essere una “società civile”. Il liberalismo, invece, reputava essenziale il “sistema” politico, ma non la costruzione di uno stato troppo potente. Per il liberalismo la “società civile” poteva autogovernarsi attraverso i legami tra gli individui sociali che la compongono e dotarsi di una “sfera pubblica” non statale fatta di interessi comuni, di accordi pattizi. Il riformismo libe26 Il PCI andò dal 22,60% dei voti alla Camera dei deputati nel 1953, al 34,37% nel 1976, fino al 28,33% del 1987. Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, 1967, n. ed., 5 voll., Einaudi, Torino, 1976; Giuseppe Mammarella, L’Italia dopo il fascismo (1943-1968), Il Mulino, Bologna, 1970. 27 Alberto Ronchey, La sinistra e il fattore K, il “Corriere della Sera”, 30 marzo 1979.

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rale, tuttavia sosteneva che la “libertà economica” non potesse svilupparsi senza regole e controlli, poiché, in certe situazioni, poteva recare danno alla “società civile”. Occorreranno quindi autorità indipendenti che regolino la monetazione, controllino il credito, disciplinino il mercato e la produzione, tutelino una diffusa proprietà privata.

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CAPITOLO OTTAVO IL MARXISMO ITALIANO

L’Italia, tra i Paesi dell’Europa occidentale, è stata quella in cui, con maggiore durata e intensità, si è manifestata la presenza di formazioni politiche e sindacali, di organi d’informazione e di gruppi intellettuali, che si sono richiamati al comunismo e al marxismo. La presenza del PCI nella società italiana è stata peculiare. Escluso dal governo centrale, ha avuto notevole peso negli Enti locali e alla guida di numerose Regioni. Essendosi dislocato all’interno degli snodi decisivi della vita italiana (il sistema produttivo del nord, l’industria dello spettacolo, il mondo della cultura e dell’informazione), il PCI sovrappose alla concretezza dell’azione amministrativa e al contrasto alle sacche di arretratezza e di criminalità organizzata del Mezzogiorno una sovrastruttura ideologica che gli assicurò il voto popolare1. Grazie a un poderoso lavoro culturale ci fu in Italia una lunga stagione di rinascita e divulgazione del pensiero di Marx, utilizzato non già come “dottrina politica” immediatamente applicabile, ma come idealtipo, disegno prospettico della “via italiana al socialismo”2. Il marxismo italiano va diviso in quelli che sono stati i suoi due filoni principali: il “marxismo del PCI” e il “marxismo radicale”. 1

2

Palmiro Togliatti, La politica culturale, a c. di Luciano Gruppi, Editori Riuniti, Roma, 1974; Giampasquale Santomassino, Gli intellettuali e il Pci, in: “Italia contemporanea”, giugno 1980, n. 139; Albertina Vittoria, Togliatti e gli intellettuali. La politica culturale dei comunisti italiani (1944-1964), Carocci, Roma, 2014; Andrea Millefiorini, Cultura politica di partito e cultura politica nazionale: il caso del Pci nella Prima Repubblica in “Società, Mutamento, Politica”, vol. VI, n. 12, pp. 321-346, 2015. Inchiesta sull’anticomunismo, in “Rinascita”, agosto-settembre 1954; Istituto Studi comunisti, La lotta delle classi nella storia d’Italia, Dispense, Editori Riuniti, Roma, 1958; Giorgio Galli, Storia del PCI, Bompiani, Milano, 1976; Giuseppe Galasso, Seguendo il P.C.I.: da Togliatti a D’Alema (1955-1996), Marco, Lungro (CS), 1998; Marcello Mustè, Marxismo e filosofia della praxis. Da Labriola a Gramsci, Viella, Roma, 2018

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Del primo scriveremo ampiamente tra poco, del secondo anticipiamo che avrebbe annoverato nelle sue fila i gruppi dissidenti che avevano avuto origine nella Terza Internazionale e nel “marxismo occidentale” (trotzkisti, luxemburghiani ecc.) e poi gruppi e riviste che si rifacevano alle forme di marxismo emerse negli anni ’60 in Cina (maoismo), in America Latina (guevarismo) e nel mondo capitalista con la contestazione generalizzata del 19683. Il marxismo del PCI può, a sua volta, essere suddiviso in una fase gramsciana (dal 1923 al 1943) e una post-gramsciana: il periodo di Palmiro Togliatti, di Enrico Berlinguer e, infine, di Achille Occhetto. Non si tratta di identificare meccanicamente la prassi politica del PCI e dei suoi leader con il marxismo italiano, ma di evidenziare la “convergenza parallela” che si determinò fra l’ideologia e l’azione in un partito che aveva il punto di forza in una ben gestita “doppiezza”. Mentre il “marxismo del PCI” diventò presto una venerabile filosofia, un “plesso di valori irrinunciabili”, l’azione parlamentare, amministrativa e sindacale del partito si sarebbe inserita in tutte le pieghe della società italiana perseguendo pragmaticamente gli interessi dell’ampio elettorato comunista e dell’elite di attivisti e funzionari del partito. Il “marxismo del PCI” è stato, in buona sostanza, una “teoria della doppia verità”, che la formula del “partito di lotta e di governo” riassunse in modo semplice ed esplicito4. Negli anni ’20, con Antonio Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937) e “L’Ordine nuovo” era tramontata presto l’interpretazione di Marx segnata dal positivismo e dal socialismo della Seconda internazionale. Invece, con i Quaderni del carcere degli anni ’30, il “marxismo italiano” si sarebbe sottratto all’influsso esclusivo di Lenin. La funzione del gramscismo e della “rivoluzione intellettuale e morale” fu quella di aggredire il “fondo oscuro” della società italiana da cui era scaturito il Fascismo, di elevare il livello culturale e la coscienza politica di rilevanti settori della classe operaia e del mondo contadino, di favorire l’ascesa politica del “movimento operaio”. Le intuizioni di Gramsci si concretizzarono 3 4

Giulio de Martino, La prospettiva del ’68. Una forma di vita e di coscienza politica, Liguori, Napoli, 1998. Domenico Settembrini, Marxismo e compromesso storico, Vallecchi, Firenze, 1978; Alberto La Volpe, RAI 643111. Il taccuino di un giornalista lottizzato, EIR, Roma, 2015.

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nell’occupazione, da parte di funzionari e intellettuali comunisti, delle “casematte del potere” (istituzioni politiche, magistratura, banche, aziende) e nell’egemonia del marxismo negli “apparati ideologici e culturali” (università, scuole, giornali, televisione, cinema, musei, istituti scientifici)5. L’ostilità dei comunisti europei – e quindi dei comunisti italiani – nei confronti del sistema politico di tipo occidentale: democratico, pluralista e con forti garanzie liberali nella vita sociale, si concentrò sulle “criticità” diagnosticate dal marxismo. Il “sistema occidentale” prevedeva il pluralismo e l’alternanza dei partiti nel governo. Ciò era coerente con il concetto quantitativo di “maggioranza politica” proprio dei liberali, secondo il quale il potere politico doveva, ogni volta, costruirsi le condizioni del proprio esercizio6. Invece, secondo il PCI, il carattere agonistico della leadership politica, poneva un limite strutturale alla possibilità di trasferire i diritti dal piano formale a quello sostanziale. Non solo. Nelle società liberali, il potere pubblico era sottoposto al condizionamento dei “mezzi d’informazione”, che orientavano le scelte della “pubblica opinione” e degli elettori, e alle pressioni di gruppi (Lobby) che rappresentavano interessi economici e preferenze morali riconosciuti come legittimi. Si trattava di condizionamenti deprecati dal PCI che propendeva per la teoria essenzialista del rapporto fra governo e classi sociali di origine marxista-leninista. In ambito economico, il sistema occidentale consentiva il finanziamento delle politiche pubbliche solo attraverso il prelievo fiscale. Scoraggiava quindi il ricorso al debito da parte dei governi e prevedeva l’autonomia del Tesoro nella emissione di moneta. Ciò implicava rapporti di collaborazione e conflitto fra le parti sociali e l’oscillazione permanente delle relazioni industriali. Le distinzioni ideologiche fra il sistema occidentale e il comunismo europeo si compendiavano, infine, nella contestazione del carattere “politico” e non neutrale degli organi di garanzia quali il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale7. Il pensiero di Gramsci, a c. di Carlo Salinari e di Mario Spinella, II ed., Editori Riuniti, Roma, 1973. 6 Niklas Luhmann, Potere e complessità sociale, 1975, tr. it., Il Saggiatore, Milano, 1977; Alessandro Pace, I limiti del potere, Jovene, Napoli, 2008. 7 AA.VV., Diritto e culture della politica, a c. di Stefano Rodotà, Annali della Fondazione Basso, Carocci, Roma, 2004. 5

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Nell’epoca della Guerra fredda tra NATO e Patto di Varsavia, con Palmiro Togliatti (Genova, 26 marzo 1893 – Jalta, 21 agosto 1964), il PCI giunse a elaborare una dottrina di notevole vastità e complessità. Togliatti attribuì al marxismo una potenza storica e morale pari a quella del cristianesimo8. Appare poco rilevante la denuncia dello “stalinismo di Togliatti”: il presentarlo come un mero e mediocre esecutore degli ordini di Mosca. Limitandosi a eventi precedenti la “svolta di Salerno” (aprile 1944), si svaluta la successiva originalità di Togliatti nel disegnare la collocazione internazionale dell’Italia repubblicana e nell’occidentalizzazione dell’idea del comunismo9. Punto focale del genio politico di Togliatti fu la concezione del PCI come “partito nuovo”: un vero e proprio corpo intermedio tra le classi popolari e il sistema politico ed economico, luogo di “educazione e di formazione politica” dei lavoratori10. Il percorso di autonomizzazione del PCI dal PCUS fu avviato da Togliatti con le formule della “unità nella diversità” e della “via italiana al socialismo” e riassunto nel “memoriale” di Yalta dell’agosto 196411. La fase in cui Enrico Berlinguer (Sassari, 25 maggio 1922 – Padova, 11 giugno 1984) fu alla guida del PCI fu l’ultima in cui il partito conservò il riferimento ideologico al marxismo. Assediato contemporaneamente dal socialismo europeo e dal marxismo radicale, Berlinguer riuscì a contrapporsi all’estremismo disperato dell’Autonomia Operaia e delle Brigate Rosse, ma faticò a praticare la distinzione rispetto al socialismo europeo. Il distacco dal santuario sovietico – per come era stato modificato da Nikita Chruščёv e da Leonid Brežnev – gli consentì di esaltare la specificità nazionale del “comunismo italiano”, ma non di cancellare l’approccio marxista alla storia e alla cultura. Tuttavia, con lui, il riferimento a Marx diventò, nei fatti della politica, inconsistente. Dopo aver parlato di “vie corrispondenti alle peculiarità e condizioni concrete di ogni paese, anche quando si tratta di avviare e portare a compimento l’edificazione di società socialiste” (Mosca, 3 novembre 1977), Berlinguer Palmiro Togliatti, Il destino dell’uomo, 1963, in: Id., La via italiana al socialismo, a cura di Luciano Gruppi e Paola Zanini, Editori Riuniti, Roma, 1964; Giuseppe Vacca, Saggio su Togliatti e la tradizione comunista, De Donato, Bari, 1974. 9 Giulio Seniga, Togliatti e Stalin, SugarCo, Milano, 1961. 10 Alessandro Natta, Togliatti e il “partito nuovo”, Roma, 1974. 11 Heinz Timmermann, I comunisti italiani, De Donato, Bari, 1974, pp. 67 sgg. 8

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dissolse ogni riferimento politico all’URSS: “ciò che è avvenuto in Polonia [la costituzione di Solidarność] ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune società, che si sono create nell’est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella rivoluzione socialista d’ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, e che ha dato luogo poi a una serie di eventi e di lotte per l’emancipazione nonché a una serie di conquiste [...]. Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude” (Intervista televisiva del 15 dicembre 1981). In realtà, era dagli anni del “compromesso storico” – dopo il colpo di stato militare in Cile (1973) – che Berlinguer pensava alla “prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico” (“Rinascita”, 12 ottobre 1973). Lo avevano spinto a tanto: “la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico” . Tali circostanze rendono sempre “più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano” (Ivi)12. Restava viva in lui, però, l’opzione contrappositiva: riconosceva che l’URSS non fosse “un regime politico che garantisce il pieno esercizio delle libertà” (“Corriere della Sera”, 26 luglio 1980), ma pensava ancora che lo sviluppo economico e sociale capitalistico fosse “causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza” (“Repubblica”, 28 luglio 1981). Una radicata concezione antiliberale e antieuropeista lo spinse a rifiutare ogni forma di convergenza ideologica e culturale con il socialismo europeo e, in particolare, con il socialismo italiano13. 12 Francesco Barbagallo, Enrico Berlinguer, il compromesso storico e l’alternativa democratica, in: “Studi Storici”, Anno 45, n. 4, ott.- dic., 2004, pp. 939-949. 13 Eugenio Scalfari, L’anno di Craxi, o di Berlinguer?, Mondadori, Milano, 1984; Antonio Padellaro, Giuseppe Tamburrano, Processo a Craxi, Sperling & Kupfer, Milano, 1993; Simona Colarizi, La cruna dell’ago. Craxi, il Partito Socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Bari-Roma, 2006.

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Eutanasia del marxismo

Un approfondimento merita la dottrina dell’“eurocomunismo” affermatasi dalla metà degli anni ’7014. Si trattò di un ampliamento della dottrina delle “vie nazionali al socialismo”, non certo dell’adesione all’europeismo e ai principi del federalismo, che, anzi, rimasero dottrine ostili e avverse. Proprio dai partiti dell’internazionalismo proletario fu anzi conservato il riferimento alla realtà socioeconomica e alle tradizioni nazionali: nulla vi era nell’eurocomunismo di sovranazionale e gli unici fratelli dei comunisti erano i “partiti comunisti fratelli”. Si è parlato della progettazione di una “terza via” fra “capitalismo occidentale” e “socialismo reale”. Nulla di più errato. L’eurocomunismo si sviluppò in radicale opposizione allo sforzo del socialismo europeo di assimilare gli elementi della società liberale e di cancellare ogni forma di estraneità fra il mondo della sinistra e il riformismo. L’approdo cui pervennero i comunisti europei non ebbe nulla a che vedere con le dottrine economiche neokeynesiane dei socialisti e con il liberalismo democratico, anzi: fu l’estremo tentativo di affermare il “dualismo politico e sociale” in base alla “collocazione di classe” e alla fede ideologica. Il tramonto dell’“eurocomunismo” non sarebbe stato soltanto il riflesso, in Europa e in Italia, della dissoluzione dei Partiti comunisti dei paesi del Blocco sovietico. Fu anche una conseguenza della transizione sopravvenuta nell'ultimo ventennio del ’900: la società industriale e di massa, che aveva generato il movimento socialista, sarebbe stata superata dalle trasformazioni economiche e tecnologiche digitali e dalla dimensione “globale” del mercato mondiale. Le tendenze alla concentrazione della produzione, all’urbanizzazione, al consumo di massa, alla creazione di vasti apparati burocratici, le forme di vita e di acculturazione del mondo industrializzato furono sostituite dai sommovimenti e dalle trasformazioni della postindustrializzazione15. L’ultimo congresso del PCI si svolse dal 31 gennaio a 3 febbraio 1991 a Rimini. In quel congresso, con la mozione presentata da Achille Occhetto (Torino, 3 marzo 1936) si diede vita al Partito Democratico della Sinistra (Democratici di sinistra dal 1998) che 14 Enrico Berlinguer, Santiago Carrillo, Georges Marchais (e altri), La via europea al socialismo (1974-1975), Newton Compton, Roma, 1976. 15 Donald Sassoon, Cento anni di socialismo: la sinistra nell’Europa occidentale del XX secolo, Editori Riuniti, Roma, 1998; Toni Negri, Goodbye Mister Socialism, Feltrinelli, Milano, 2006.

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Il marxismo italiano 101

avrebbe posto fine, anche simbolicamente, alla storia politica del marxismo-leninismo in Italia. L’8 febbraio Achille Occhetto sarebbe stato eletto primo segretario nazionale del nuovo partito. Una novantina di delegati, però, non aderì alla formazione e diede vita al Movimento per la Rifondazione Comunista che, con Democrazia Proletaria (DP) e altre gruppi minori, assunse – tra maggio e luglio del 1991 – la denominazione di Partito della Rifondazione Comunista (PRC). Il passaggio formale di quello che era stato il partito del “comunismo italiano” nelle fila dell’Internazionale socialista sarebbe avvenuto nel 1992. In quello stesso anno vi fu l’ingresso del PDS nel “Partito del socialismo europeo” all’europarlamento con l’atto firmato a L’Aia da Bettino Craxi (PSI), Achille Occhetto (PDS) e Carlo Vizzini (PSDI)16. Nel 1996 – all’interno di una vittoriosa coalizione di centrosinistra: l’Ulivo – il PDS sarebbe andato al governo pur mancando di una autentica cultura politica liberale e riformista17. Meno lineare sarebbe stato il cambiamento sul piano culturale. Nel secondo Dopoguerra – in “convergenza parallela” con le vicissitudini della sinistra politica – ebbe inizio un serrato dialogo tra filosofia e marxismo. Secondo alcuni storici, per merito del marxismo la cultura italiana si aprì al confronto con le teorie internazionali e arricchì i propri orizzonti scientifici. Limite di tale ampliamento categoriale e cognitivo fu quello di ricondurre – con una sorta di spirito neo-scolastico – ogni nuova acquisizione e ogni nuovo spunto di ricerca ai principi fondamentali dell’assiomatica marxista. A conti fatti, il pluridecennale sviluppo del “marxismo” in Italia ostacolò la diffusione dei temi e dei problemi, delle categorie e dei concetti, del pensiero liberale che erano in rapido sviluppo e aggiornamento in larga parte dell’Europa, nel mondo anglo-americano e nei Paesi occidentalizzati dell’Asia: in India, in Giappone, in Corea del sud ecc. Soltanto alcuni gruppi intellettuali, portatori di sensibilità filosofiche differenti, riuscirono a 16 Massimo Luigi Salvadori, La sinistra nella storia italiana, Laterza, Roma – Bari, 2001; Achille Occhetto, Governare il mondo. La nuova era della politica internazionale, Editori Riuniti, Roma, 1998; Id., La gioiosa macchina da guerra, EIR, Roma, 2013. 17 Claudio Rinaldi, I sinistrati. L’odissea di Prodi, D’Alema e Co., Latrza, Bari, 2006.

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sottrarsi all’egemonia marxista o, almeno, a porre il marxismo in posizione subordinata18. A partire da Galvano Della Volpe (1895-1968) il marxismo del PCI contestò l’eredità di filosofi liberali come Benedetto Croce e la cultura neopositivista. Utilizzando la “cassetta degli attrezzi” di Marx, oltre a combattere il retaggio dell’“idealismo speculativo” che comprometteva le scienze sia della natura che della società, i marxisti italiani tesero a inserirsi nel filone progressivo del pensiero europeo, collocandosi, però, in una posizione “critica” che corrispondeva alla collocazione problematica del PCI in seno alla società italiana. Filosofi come Nicola Badaloni (1924-2005) e Cesare Luporini (19091993) affrontarono lo storicismo da prospettive differenti, egualmente con ottiche diverse Giulio Preti (1911-1972) e Ludovico Geymonat (1908-1991) analizzarono lo sviluppo del pensiero scientifico. Caratteristica decisiva del marxismo italiano fu di dilatare la rilevanza del “materialismo storico” e della “critica dell’economia politica”, rendendo il pensiero di Marx il canone dell’intera cultura moderna occidentale e collegando ai teoremi marxiani numerosi autori estranei al marxismo (Machiavelli, Galilei, Vico, Adam Smith, Kant, Hegel, Darwin …). Il carattere contraddittorio della modernizzazione filosofica marxista si potrebbe riassumere in una duplice sopravalutazione: quella del pensiero di Marx – di cui si propagandò una visione mirabolante e onnipervasiva – e quella della cultura italiana, intesa come la spina dorsale della modernità, che peraltro culminava nel marxismo italiano stesso. Ovviamente non mancarono in Italia i riferimenti alle evoluzioni del marxismo che si venivano sviluppando in altri Paesi occidentali (ad es. con Marcuse negli Stati uniti, Sartre e poi Althusser in Francia, Dobb e Hobsbawm in Gran Bretagna). Tali autori, in realtà, furono più cauti in merito alla “centralità di Marx”, che fu ripensato sulla base di autonome esigenze teoriche più che di allineamenti dottrinali. Invece, gli autori ortodossamente “marxi18 Enzo Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Taylor, Torino, 1950; Umberto Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano, 1962; Id., Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano, 1964; Salvatore Veca, Saggio sul programma scientifico di Marx, Il Saggiatore, Milano, 1977; AA.VV., Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, a cura di Aldo Gargani, Einaudi, Torino, 1979; AA.VV., Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, Milano, 1983.

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sti-leninisti” furono guardati con diffidenza in Italia, evidenziando gli elementi dogmatici e ideologici presenti nel loro pensiero19. Negli anni ’80 – in corrispondenza con l’avvio del cambiamento socio-economico post-industriale e delle difficoltà del sistema sovietico – il marxismo del PCI andò incontro a una fase che si potrebbe definire di “crisi del marxismo”. In questa fase, accanto alla consapevolezza dell’assoluta non-autosufficienza del marxismo, si registrarono aperture, anche audaci, verso autori non marxisti che apportarono categorie nuove e indussero visuali differenti sulla società e sulla politica: Freud, Nietzsche, Saussure, Weber, Wittgenstein, Kelsen, Piaget, Schumpeter, McLuhan. Esponente esemplare della fase di “crisi del marxismo” e del vacillare e del suo organicismo filosofico può essere considerato Lucio Colletti (1924-2001) che – dopo una fase ortodossa – impostò le linee di una critica e di una fuoriuscita dal marxismo che giunse fino alla rivalutazione del pensiero di Croce e del liberalismo. In molti autori degli anni ’80 e ’90 – la cosiddetta “Scuola di Bari”, Massimo Cacciari, Roberto Esposito e altri, riviste come “Laboratorio politico” e “il Centauro” – prese forma l’idea di un marxismo come “teoria negativa” più che come dottrina umanistica e liberatoria. Andando contro un tranquillizzante storicismo, questi filosofi evidenziarono gli aspetti problematici del pensiero di Gramsci e dello stesso Marx e si aprirono a prospettive sincretiste e eclettiche. La visione del mondo marxista fu stravolta e costretta a interiorizzare il conflitto, il disordine, l’incertezza, l’antiumanismo. Il marxismo del PCI avrebbe così rinunciato alla sua egemonia culturale nella percezione della fine di un’epoca e per l’emersione di gruppi intellettuali orientati esplicitamente in senso post-marxista20. 19 Istituto Gramsci, Il marxismo italiano degli anni sessanta e la formazione teorico-politica delle nuove generazioni, Editori Riuniti, Roma, 1972; Giuseppe Bedeschi, La parabola del marxismo in Italia (1945-1983), Laterza, Bari, 1983; André Tosel, Divenire del marxismo. Dalla fine del marxismo-leninismo ai mille marxismi, in: Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. XI, Garzanti, Milano, 1996, pp. 214-58; Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, manifestolibri, 2005, n. ed. 2011; Costanzo Preve, Storia critica del marxismo, Città del Sole, Napoli, 2006. 20 Massimo Cacciari, Krisis, Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano, 1976; Alberto Asor Rosa, Le due società, Einaudi, Torino, 1977; Mario Tronti, Soggetti, crisi, potere, a cura di A. Piazzi e A. De Martinis, Cappelli, Bologna, 1980.

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L’abbandono da parte di dirigenti politici del PCI del riferimento al marxismo-leninismo e la sua sostituzione con il filone tutto italiano: “Gramsci-Togliatti-Longo-Berlinguer” e poi – a partire dagli anni ’70 – le inquietudini sottilmente nichiliste del “marxismo negativo”, avrebbero consegnato l’eredità politica e messianica di Marx al “marxismo radicale”. I gruppi politici e intellettuali della “sinistra non istituzionale” si rivolsero al pensatore tedesco con un duplice scopo: criticare l’autoritarismo e il burocratismo del “socialismo reale” e dell’eurocomunismo e accentuare il contrasto con il riformismo del “socialismo europeo”. Dopo i moti operai di Berlino (16-18 giugno 1953), il XX congresso del PCUS (14-26 febbraio 1956) e la successiva rivolta di Budapest (ottobre-novembre 1956) si era aperta una voragine nella compattezza politica e ideologica dei Paesi del blocco sovietico che ebbe importanti ripercussioni sull’Europa atlantica. Nel 1956 giunse al suo approdo definitivo la “rottura” dei socialisti e dei socialdemocratici con il bolscevismo, si manifestarono i primi segni della crisi ideologica dei partiti comunisti collocati all’esterno della “cortina di ferro” e si accelerò la formazione del “dissenso marxista” che cercava la via di un “socialismo dal volto umano” o di un “altro comunismo”21. Se i socialisti avevano aperto la propria cultura politica al “riformismo” e ai saperi e ai poteri che si sviluppavano nel mondo neocapitalista e se i comunisti avevano imboccato la via della “doppiezza” fra purismo ideologico e pragmatismo politico, i marxisti radicali, con slancio utopistico e rigorismo morale, tentarono il ritorno ai testi delle origini: a “Marx secondo Marx”22. Fuori dal campo marxista, sulla rivista “Aut aut” – fondata da Enzo Paci (1911-1976) e che, dagli anni ’50, portava avanti studi su Husserl e Sartre si affermò, dopo il 1968, un forte interesse per i giovani studenti e per il marxismo fenomenologico, diffuso oltre che nelle 21 Colletti, Libertini, Maitan, Magri, Basso, Il dibattito su “Stato e rivoluzione”, “Problemi del socialismo” 1967-1968, n. ed., Savelli, Roma, 1970; Alexander Dubček, Il socialismo dal volto umano. Autobiografia di un rivoluzionario, a c. di Jiří Hochmann, Editori riuniti, Roma, 1996; Ivan Medek, Tutto bene, grazie. Dalla Cecoslovacchia di Mesaryk alla “rivoluzione di velluto” e la nuova Repubblica Ceca, Medusa edizioni, 2010; Vaclav Havel, Cinque discorsi sull’Europa, Euno edizioni, Leonforte (EN) 2019. 22 AA.VV., Marx vivo. La presenza di Karl Marx nel pensiero contemporaneo, 2 voll., Mondadori, Milano, 1969.

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principali università europee e americane anche nell’est europeo. L’ambizioso progetto era di stimolare una “riforma del marxismo” teorico e dello stesso “socialismo reale”. “Aut aut” ospitò gli allievi di Lukàcs della “scuola di Budapest” (Ágnes Heller, Ferenc Feher, Mihály Vajda) e diede spazio alla “teoria dei bisogni”23. Fu evidenziato anche quanto stava avvenendo in Jugoslavia: terra di frontiera fra l’Est e l’Ovest dell’Europa. A Zagabria la rivista filosofica e politica “Praxis” si era avventurata – dal 1964 al 1974 – in una disamina spregiudicata sia del concetto di socialismo reale che di quello di comunismo, giungendo alla scoperta che si trattava di gusci vuoti che celavano sistemi di potere autoritari24. Emerse che ciò che mancava nel “marxismo” era un’autentica comprensione della struttura del legame sociale e quindi un’adeguata teoria politica che intrattenesse con il sociale non un rapporto di dominio, ma di liberazione. Scrisse la Heller: “nessun genere di istituzione, di ideologia, di comunità ci toglie dalle spalle il peso di costruire un nostro rapporto individuale verso i sistemi di valore, di doverci assumere la nostra responsabilità personale […], se il socialismo è un ideale di libertà e di uguaglianza non si può realizzare con mezzi che calpestino la libertà e l’uguaglianza degli uomini”25. La corrente più aggressiva e virulenta del marxismo radicale italiano fu quella raccoltasi intorno alla rivista “Quaderni rossi” (19611966) che avviò la lettura “operaista” di Marx26. L’operaismo, va distinto dalla concezione del PCI della “centralità operaia”27. Fondatore di “Quaderni rossi” fu un allievo di Della Volpe, Raniero Panzieri (1921-1964), che vide il neocapitalismo come fase dello sviluppo industriale in cui la classe padronale estendeva la “pianifi23 Ágnes Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Milano, Ferltrinelli, 1974; Id., Sociologia della vita quotidiana, Editori Riuniti, Roma, 1975; Guido Davide Neri, Prassi e conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1966; Id., Aporie della realizzazione. Filosofia e ideologia nel socialismo reale, Feltrinelli, Milano, 1980. 24 AA.VV., La rivolta di “Praxis”, Milano, Longanesi, 1969. 25 Ágnes Heller, Per cambiare la vita, intervista di Ferdinando Adornato, Editori Riuniti, Roma, 1980, pp. 179 e 180. 26 Raniero Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino 1976; Laura Fiocco, Classi e pratiche di classe, Marsilio, Venezia, 1975; Guido Romagnoli, Consigli di fabbrica democrazia sindacale, Mazzotta, Milano, 1976; Giuseppe Trotta, Fabio Milana, L’operaismo degli anni Sessanta. Da “Quaderni rossi” a “classe operaia”, DeriveApprodi, Roma, 2008. 27 AA.VV., Operaismo e centralità operaia, Editori Riuniti, Roma, 1978.

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Eutanasia del marxismo

cazione dello sviluppo e dello sfruttamento dal livello di fabbrica a tutta la società”. Secondo tale visuale, la “lotta operaia” andava intesa come una “lotta immediatamente politica” e il “partito” coincideva con l’azione dell’“operaio collettivo in lotta”. Nella sua forma più combattiva – Potere Operaio – l’operaismo predicò il sabotaggio e l’insubordinazione nelle fabbriche e negli uffici, spesso in contrasto con le rivendicazioni delle organizzazioni sindacali accusate di “fare gli interessi dei padroni”. L’operaismo si rifaceva ai testi marxiani della Grundrisse e al famoso “capitolo VI inedito” del primo libro del Capitale su “macchine e grande industria” e si diffuse nei grandi complessi del nord Italia, rifiutando la delega politica al partito comunista e ogni “strategia di governo” della società. Le teorizzazioni sull’“inchiesta operaia” e sulla “composizione di classe”, oltre a diffondere un peculiare “narcisismo operaista”, avrebbero costituto una insidiosa forma di riduzionismo politico. Dall’operaismo – negli anni ’70 – sarebbe scaturita la teoria della “proletarizzazione del lavoro intellettuale” che avrebbe coinvolto tecnici, studenti e impiegati, e poi – nella fase della transizione alla società post-industriale – la teoria dell’“operaio sociale” sviluppata, da Antonio (Toni) Negri (Padova, 1933)28. Scrisse: “in questo felicissimo momento di fondazione sistematica, [le categorie marxiane sono] mature soprattutto nel senso di una fondazione dinamica ed antagonistica, laddove l’antagonismo è il motore dello sviluppo del sistema […]. Ogni oggettivismo materialistico viene con ciò meno: il rapporto è aperto nella misura in cui è fondato dall’antagonismo”29. Valorizzando l’immediatezza della disobbedienza, in un vortice di esaltazione e di aggressività che avrebbe coinvolto strati sociali marginali e soggetti “nomadici” (come si amava dire), si aprì la strada al “partito combattente”. 28 Antonio Negri, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, Feltrinelli, Milano, 1978; Id., Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a c. di Paolo Pozzi e Roberta Tommasini, Multhipla, Milano, 1979; Id., Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, SugarCo, Carnago, 1992. 29 Antonio Negri, Marx oltre Marx, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 64. AA. VV., Controcultura, La scienza contro i padroni, Savelli, Roma, 1974; Alberto Franceschini, Mara, Renato ed io: storia dei fondatori delle B.R., Mondadori, Milano, 1998; Toni Negri, Storia di un comunista, a c. di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie, Milano, 2015.

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Il marxismo italiano 107

Dal gruppo dei “Quaderni rossi” si erano separati, alla fine degli anni ’60, Mario Tronti (Roma, 1931), Alberto Asor Rosa (Roma, 1933) e Massimo Cacciari (Venezia, 1944) che – pure corroborando in alcuni punti la teoria operaista con l’antiumanismo e la dissoluzione della teologia politica marxista – entrarono nel PCI in quanto “unico partito della classe operaia italiana”. Con loro ebbe inizio la teorizzazione dell’“autonomia del politico”, opposta all’immediata identificazione di “teoria e prassi”, e fu posta su nuove basi la “quistione degli intellettuali”, dei saperi e della mediazione politica30. Negli anni ’80 del Novecento, si creò in Italia uno scenario che abbiamo definito di “crisi del marxismo”. In esso si riflettevano – insieme all’incompletezza e alla vetustà intrinseche alla dottrina – la fine dell’espansione neocapitalista e il travaglio del socialismo sovietico e cinese. Il marxismo radicale, traendo stimoli e energie dai processi di decomposizione sociale e politica, li affrontò esasperando il suo apparato concettuale31. Uno spazio autonomo nella vicenda del marxismo radicale italiano merita l’elaborazione del gruppo de “Il Manifesto”. Fortemente influenzati dagli eventi internazionali del 1968, espulsi dal PCI nel 1969, Magri, Rossanda, Pintor si collocarono sulla linea di confine fra la corrente neo-gramsciana del PCI e i gruppi della Sinistra extraparlamentare, cercando di mitigare il vortice nichilistico del neomarxismo italiano, senza approdare esplicitamente al riformismo e allo slargo di orizzonti del socialismo europeo32.

30 Alberto Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia. Saggi sulle forme di uno storico conflitto e di una possibile alleanza, La Nuova Italia, Firenze, 1974; Mario Tronti, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano, 1977; Massimo Cacciari, Dialettica e critica del politico. Saggio su Hegel, Feltrinelli, Milano, 1978. 31 AA.VV., Movimento settantasette. Storia di una lotta, “Quaderni di fabbrica e stato”, 11, Rosemberg & Sellier, Torino, 1979; AA.VV., Anni ’70. Le identità perdute, “Laboratorio politico”, 5.6, Einaudi, Torino, 1982. 32 Il Manifesto, Per il comunismo. Tesi, in: “Il Manifesto”, rivista mensile, numero 9, Roma, Alfani, settembre 1970; AA.VV., Spazio e ruolo del riformismo, a cura di Valentino Parlato, Il Mulino, Bologna, 1974; Lucio Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, Il Saggiatore, Milano, 2009; Id., Alla ricerca di un altro comunismo, Il Saggiatore, Milano, 2012; AA.VV., Lezioni per Pietro Ingrao, EDIESSE, Roma, 2013.

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CAPITOLO NONO DALLA NEW LEFT AL POSTMARXISMO

Negli anni dal 1955 al 1968 l’Europa, gli Usa e il Giappone vissero la Golden Age del neocapitalismo. Vi fu – nel mondo occidentale e occidentalizzato – un imponente sviluppo economico e tecnologico con la crescita dei consumi e la diffusione di nuovi “stili di vita”: fu un’età caratterizzata dall’adozione di strumenti politici e finanziari innovativi, dal dispiegarsi di efficaci strategie nel campo industriale, delle comunicazioni e del commercio1. Si assisté a realizzazioni avveniristiche nell’architettura, nell’urbanistica e nel design, a scoperte scientifiche e tecnologiche in medicina e nell’ingegneria aerospaziale: progressi che si svilupparono in parallelo con le apprensioni per il nuovo “stato atomico” e i contraccolpi della “Guerra fredda”2. Terminati i tragici anni della seconda guerra mondiale e della guerra in Corea, si produsse un’intensa stagione di benessere e di felicità sociale, nonché di frenetica creatività in campo artistico e culturale. Probabilmente, fu l’ambiguità dell’epoca – sospesa fra catastrofe e progresso – che favorì lo sviluppo nel mondo intellettuale, sindacale e politico, di un rinnovato interesse per il pensiero “di Marx” cui si è dato il nome di “New Leftism” o radicalismo di sinistra3. Per me1 2

3

John Kenneth Galbraith, Storia dell’economia, 1987, tr. it., Rizzoli, Milano, 1988, pp. 279 sgg.; Eric John Hobsbawm, Il Secolo Breve, op. cit., “Gli anni d’oro”, pp. 303 sgg. Robert Jungk, Die Zukunft hat schon begonnen, [1952], tr. it., II futuro è già cominciato, Einaudi, Torino, 1954; Arthur Clarke, Il volto del futuro, [1955], tr. it., Milano Sugar 1965; Id., Le nuove frontiere del possibile, [1962], Rizzoli, Milano, 1965; Deborah Cadbury, Space Race, U.S., Harper Perennial, 2007. Charles Wright Mills, The Marxists, United States, Dell Publishing, 1962, tr. It., Feltrinelli, Milano 1969; Paul M. Sweezy, Harry Magdoff, The Dynamics of U.S. Capitalism, Monthly Review Press, 1972.

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Eutanasia del marxismo

glio valutare il significato della “primavera del neo-marxismo” degli anni ’60 – in realtà secondo tempo del “marxismo occidentale” – la storiografia ha preso in esame due categorie di eventi: da un lato, ha analizzato i cambiamenti nel costume e nelle mentalità verificatisi negli anni ’50 e ’60 del Novecento. Sono state analizzate le utopie e le trasgressioni, le conquiste e le evoluzioni, ma anche le paure e i timori, le proiezioni millenariste e palingenetiche. Gli anni ’60 – al di là del loro vitalismo – non ebbero la spensieratezza e l’ottimismo dei “Roaring Twenties”4. Dall’altro lato, la storiografia ha messo in luce il “revivalismo” di alcune tradizioni dissidenti e minoritarie del pensiero europeo e americano dell’800: il socialismo utopistico, l’anarchismo, l’ascetismo dei trascendentalisti americani: tutte forme di romanticismo politico che possono essere considerate “compagni di strada” del “pensiero rivoluzionario” del secondo Novecento5. Si è evidenziato che i culturemi ideologici e politici della “New Left” si sono sviluppati all’interno di una specifica costellazione di linguaggi, di forme di comunicazione e di conoscenza (dalla televisione alla musica pop, dalla pubblicità alle arti visive, dalla psicanalisi alla sociologia) decisamente nuovi e originali. Essi, da un lato, hanno favorito la nuova forma di autocomprensione della società occidentale, dall’altro lato, hanno amplificato le contraddizioni e le criticità del processo di cambiamento, cristallizzandole in categorie di vita e di pensiero che avrebbero avuto grande popolarità e influenza nei decenni successivi6. Nel complesso gli anni della Golden Age neocapitalista videro la società occidentale procedere simultaneamente in direzioni divergenti che sono esemplificabili nelle contrapposizioni di integrati e apocalittici, di Establishment e Movement, di Overground e Underground. Non pensiamo alla polarizzazione ottocentesca tra ceti alti e ceti bassi, tra classi dirigenti e classi subalterne, quanto piuttosto 4 AA.VV., Le paure del mondo industriale, a c. di Sergio Ricossa, Bari, Laterza, 1990. 5 Luciano Pellicani, Sociologia delle rivoluzioni, Napoli, Guida, 1976; SISSCO, Rivoluzioni. Una discussione di fine Novecento, Atti del convegno annuale SISSCO, Napoli, 20-21 novembre 1998, a c. di Danuela Luigia Caglioti, Enrico Francia, Roma, Mibact, Direzione Generale Archivi, 2001; 6 Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano, 1964; Gianfranco Piazzesi, La svolta dell’America, Rizzoli, Milano, 1972.

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Dalla New Left al postmarxismo111

allo sviluppo di inedite anti-elite, al diffondersi di nuovi linguaggi e di nuove organizzazioni sociali. Un processo che condusse alla formazione, dentro la “società” e dentro la “cultura”, di una “controsocietà” e di una “controcultura” che utilizzavano codici sofisticati per dare corpo a una differenziazione umana prima che politica. Si registrò, nelle generazioni giovani, una marcata oscillazione antropologica che culminò nei movimenti Beat e Hippy e in fenomeni come quello della psichedelia, dell’orientalismo, dell’antipsichiatria. Punto focale della contestazione globale fu l’opposizione a quello che era definito come il “complesso militare-industriale” dispiegato intorno al lavoro organizzato e allo sfruttamento dell’energia nucleare. Il Movement, nel suo furore antitecnologico, giunse a contestare anche le missioni Apollo7. Nell’ambito di un originale “folklore progressivo” si diffusero le dottrine visionarie del “pensiero apocalittico” di sinistra e il desiderio di un immediato esodo dal “mondo occidentale”8. In questo contesto, negli USA e in Europa, ebbero nuova risonanza le elaborazioni politiche del terzomondismo. Originato dal “Not Aligned Movement” (1955) e da tendenze marxiste-leniniste, fu in sintonia con gli esperimenti eterodossi del “socialismo” in Cina, in Africa e a Cuba9. 7

8

9

G. Mannino Patané, L’energia nucleare nelle sue concezioni e applicazioni, Milano, Hoepi, 1957; Heinz Gartmann, La tecnica e il futuro dell’uomo, Firenze, Sansoni, 1969; Michael Riordan, Il giorno dopo, 1982, tr. it., Garzanti, Milano, 1984; Kai Bird, Martin J. Sherwin, Robert Hoppenheimer. Il padre della bomba atomica, Garzanti, Milano, 2007; Cinthia C. Kelly (ed.), The Manhattan Project, New York, Atomic Heritage Foundation 2009. Mario Maffi, La cultura underground, Bari, Laterza, 1972; Alan W. Watts, “This Is It” and Other Essays on Zen and Spiritual Experience [1960]; tr. it., Beat Zen e altri saggi, Arcana, Roma, 1978; Matteo Guarnaccia, Claudio Gorlier, Jack Kerouac, Beat e Mondo Beat. Storie e documenti 1965-1967, Roma, Stampa Alternativa, 1994; Carlos Castaneda, Gli insegnamenti di Don Juan. A scuola dallo stregone, [1968], Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1970; Id., L’herbe du diable et la petite fumée. Une voie Yaqui de la connaissance, Paris, Editions du Soleil Noir, 1972; Fernanda Pivano, Beat, hippie, yippie, Bompiani, Milano 1972. Frantz Fanon, I dannati della Terra, [1961], Einaudi, Torino, 1962; Fidel Castro Ruz, La rivoluzione cubana, Editori Riuniti, Roma, 1961; Ernesto Che Guevara, Scritti, discorsi e diari di guerriglia. 1959-1967, Einaudi, Torino, 1969; Tom Kemp, Teorie dell’imperialismo. Da Marx a oggi, Einaudi, Torino, 1969; Renato Grispo, Mito e realtà del Terzo mondo, ERI, Roma, 1970; Frantz Fanon, Opere scelte, 2 voll., a c. di Giovanni Pirelli, Einaudi, Torino, 1971.

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Eutanasia del marxismo

Fu così che il neomarxismo e la New Left si posero a colloquiare con la New Age e le culture “altre” – quella africana, indiana, tibetana, buddista, precolombiana – in quanto giacimenti di saperi non-occidentali e antiborghesi: ci si illudeva di poterli contrapporre alla storia dell’Europa e al suo lungo percorso evolutivo tecnologico, scientifico, economico. L’orientalismo, l’esotismo, il controculturalismo facero balenare il miraggio del poter “vivere in un mondo altro” e portarono il neomarxismo a contaminarsi con tendenze rousseauiane di tipo mistico e ascetico. Sfuggiva al movimento del ’68 che le filosofie e le religioni, i valori e gli stili di vita delle culture non-europee stavano trovando proprio nella cultura europea e occidentale il contesto più idoneo alla propria attualizzazione e valorizzazione10. Già nell’Ottocento, la saggezza orientale e il simbolismo africano e amerindio avevano portato nuova linfa alla cultura e all’arte occidentali, mentre il duro cammino degli Occidentali verso una “società migliore” sarebbe stato di stimolo ai popoli che vivevano, con grande travaglio, le condizioni della precarietà, dell’arretratezza, del sottosviluppo11. Al cuore dell’ideologia e della prassi della New Left vi era l’attivazione di un dualismo conflittuale fra la società obbediente allo stato e al sistema economico (massificata, omologata, conservatrice) e la controsocietà (libertaria, innovatrice, anticonformista) ribelle nei confronti delle “istituzioni”: famiglia, scuola, fabbrica, esercito, stato nazionale. Alla fine, nel frantumarsi del progetto della Great Society inclusiva proposto da Lyndon Johnson nel 1964 e nell’opposizione fra la “società costituita” (Constitued Society) e la “società alternativa” (Liberated Society), si produsse un fiducioso “ritorno a Marx” e a Bakunin con l’individuazione del marxismo e dell’anarchismo come teorie dell’antistato, della libe-

10 Mohandas Karamchand Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza (19191948), a c. di Giuliano Pontara, Einaudi, Torino, 1973; Alan W. Watts, Psicoterapie Orientali e Occidentali, Roma, Ubaldini, 1978; Stephen Batchelor, Il risveglio dell’Occidente. L’incontro del buddhismo con la cultura europea, Roma, Ubaldini, 1995. 11 Amartya Sen, Laicismo indiano, Feltrinelli, Milano, 1998; Id., L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana, Mondadori, Milano, 2005.

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Dalla New Left al postmarxismo113

razione e del superamento dello “stato di cose presente”12. Non va trascurato, nel diffondersi di una visione “apocalittica” del mondo, il ruolo svolto dalla narrativa distopica di metà del ’900 – con autori di grande successo come: Aldous Huxley, George Orwell, Ray Bradbury – che aveva disegnato un’immagine inquietante e allarmante del futuro prossimo13. Quello che scomparve fu l’ideale cauto e riformista della “Open society”, preconizzato da Karl Popper, che restava ancorato alla missione progressiva dell’Occidente e alla sua evoluzione. Potente vettore di espansione della controcultura “apocalittica di sinistra” – e di quella neomarxista che in essa si era innestata – sarebbe stato il movimento studentesco degli anni 1966-1969 con la “contestazione globale” rilanciata, ampliata e propagandata da gruppi intellettuali critici e radicalizzati14. Nella New Left, la funzione specifica del neomarxismo fu di cercare di incanalare in un orizzonte critico e razionalizzato il fermento giovanile anarcoide e millenarista, utilizzando come ideologia propositiva e rendentrice gli ideali rivoluzionari del marxismo e del leninismo. Favorì il successo della dottrina neomarxista la convinzione che i diritti e i principi liberali inerissero alla sola dimensione soprastrutturale della società e che, per “sovvertirla dalle fondamenta”, fosse necessario attingere la base nascosta dell’essere sociale - i “rapporti di produzione” - per destrutturarla con le lotte e la cultura alternativa. Un pungolo alla crescita del movimento di “contestazione globale” fu la contraddittoria azione degli Usa nel Vietnam dal 1962 al 1975 (anno della caduta di Saigon nelle mani dei Vietcong). Si trattò di un intervento ingente sul piano economico e massiccio su quello militare, ma fallimentare 12 John Lewis, Marxism and the Open Mind, N.Y., Routledge and Kegan, 1957; Andrzej Walicki, Karl Marx as philosopher of freedom, in: “Journal of Politics and Society”, Volume 2, 1988, pp. 10-58; Robert J. C. Young, Marxism and the National Liberation Movements, U.S., Wiley & Sons, 2016; Antonio Moscato, Bakunin contro Marx. Marx contro Bakunin. Alle origini del frazionismo delle sinistre, Firenze, goWare, 2018. 13 Aldous Huxley, Il mondo nuovo (Brave new world, 1932); George Orwell; La fattoria degli animali (Animal Farm, 1945); Id., 1984 (1948-1949); Ray Bradbury, Fahrenheit 451 (1953). 14 Jack Newfild, Il New Left. La Nuova sinistra americana, 1966, tr. it., Firenze, Vallecchi, 1968; AA.VV., Movimento studentesco, Documenti della rivolta universitaria, Bari, Laterza, 1968; AA.VV., Centro di informazioni universitarie. Documenti della rivolta studentesca francese, 1968, tr.it., Bari, Laterza, 1969.

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Eutanasia del marxismo

nella gestione politica. I governi USA, democratici e repubblicani, passarono dalla “guerra giusta” in difesa del Vietnam del sud contro l’aggressione del FPL e della Cina, all’escalation di crudeli e insensati bombardamenti sul Vietnam del nord, per terminare con un ripiegamento di fronte alla resistenza vietnamita fino a firmare gli accordi di pace nel 1973. Il tutto sotto la pressione di un’opinione pubblica sempre più inferocita e contrariata. In meno di quindici anni, gli USA avevano cambiato volto: le nuove generazioni erano passate dall’ideologia anticomunista dell’età della Guerra fredda – con la disciplinata adesione ai valori di una società capitalista e liberale che si batteva in difesa della democrazia – a un’ideologia pacifista e antimilitarista che metteva sotto accusa l’intera classe dirigente per aver mentito alla nazione e trascinato il Paese in una guerra ingiusta e devastante15. Il “Tribunale internazionale contro i crimini di guerra”, organismo indipendente e non giurisdizionale fondato da Bertrand Russell e da Jean-Paul Sartre nel novembre 1966, indagò sui crimini commessi dall’esercito statunitense che erano stati denunciati nel libro War Crimes in Vietnam16. Gli intellettuali radicali ebbero gioco facile nel mettere in luce la contraddizione fra le intenzioni sbandierate e i comportamenti effettivi dell’Establishment americano e del suo esercito, mentre in Europa si sviluppava un virulento antiamericanismo con risvolti antiliberali e filocinesi. Gli scritti del tempo abbondano di espressioni agiografiche del tipo: “Il Vietnam si presenta oggi come una sintesi simbolica di tutto ciò che la nostra epoca sa esprimere di inumana perversione e di esaltante umanesimo”, oppure: “Il marxismo-leninismo è la verità più giusta, più scientifica e più rivoluzionaria, generata dalla realtà oggettiva e confermata da questa stessa realtà”, o ancora: “L’immensa maggioranza dell’umanità vive oggi nella sofferenza, e non può liberarsene se non seguendo la via indicata da Stalin”17. 15 Noam Chomsky, Gabriel Kolko, Il Vietnam in America, Editori Riuniti, Roma, 1969. 16 Bertrand Russell, War Crimes in Vietnam, Allen & Unwin, Londra, 1967. 17 Jean Chesnaux, Georges Bourdarel, Daniel Hemery, Vietnam: storia e rivoluzione, 1971, ed. it. Mazzotta, Milano, 1973, p. 7; Mao Tse Tung, Citazioni dalle opere del presidente Mao Tse-tung [1963], ed. it., Edizioni Oriente, Milano, 1967; AA.VV., L’antiamericanismo in Italia e in Europa nel secondo dopoguerra, a cura di Piero Craveri e Gaetano Quagliariello, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004.

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Dalla New Left al postmarxismo115

I principi del neomarxismo della New Left si discostarono da quelli della Terza Internazionale e, in parte, dal marxismo occidentale: la loro finalizzazione politica, al di là della forza ideologica, fu modesta, come scarsa fu l’ambizione scientifica e sistematica. Motivi trainanti dal forte sapore esistenzialista furono l’“anti-autoritarismo” connesso all’“anti-imperialismo” e l’“anti-consumismo”. Probabilmente, un Lenin redivivo avrebbe accusato di “estremismo infantile” i leader e gli ideologi del radicalismo degli anni ’60, ma da questi sarebbe stato a sua volta accusato di paternalismo e di dogmatismo18. Il nucleo profondo del pensiero e dell’azione della New Left, negli Stati Uniti, ma anche in Europa, fu sostanzialmente liberale e anarchista anche se, identificando il liberalismo con l’Establishment, finì con il ricercare in Marx, in Lenin, in Mao Tse Dong improbabili riferimenti dottrinali e politici. La ribellione antiautoritaria del ’68 fu la traduzione, nel contesto della moderna società tecnologica e affluente, dei motivi libertari e antistatalisti del liberalismo settecentesco e della teoria del diritti civili del liberalismo ottocentesco. L’abbaglio neomarxista della New Left fu dovuto al fatto che nel mondo neocapitalista, la libertà personale era messa in pericolo dal conformismo di massa e dalla pressione delle “ideologie del benessere”. In Occidente, l’intrusione statalista si era manifestata, per lo più, nei contesti di militarizzazione, sotto la forma di controlli sulla “sicurezza interna”, con gli spettri nucleari della “Guerra fredda”, con le azioni in armi contro i Paesi comunisti. Invece, l’aggressione alla Privacy e alla libertà individuale sembrò provenire marcatamente da quella che Pier Paolo Pasolini avrebbe definito come l’“omologazione sociale” indotta dai mass media e dal consumismo dilagante19. In reazione a tali fenomeni, la Nuova Sinistra immaginò un futuro mondo comunista in cui né lo stato né il capitalismo avrebbero potuto tiranneggiare l’individuo e la società, che sarebbero tornati in mistica consonanza tra di loro. In realtà, il neomarxismo della New Left, pur esaltando Marx, più spesso echeg18 Gabriel e Daniel Cohn-Bendit, L’estremismo, rimedio alla malattia senile del comunismo, tr. it., Einaudi, Torino, 1969; Rudy Dutschke, Lenin rimesso in piedi. Lenin, Lùkacs e la Terza Internazionale, 1974, tr. it., La Nuova Italia, Firenze, 1979. 19 Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1975; Id., Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976.

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Eutanasia del marxismo

giava Bakunin20. Attraverso la denuncia del “moderno fascismo”, della massificazione e della “acculturazione di massa”, indotti dalla società dell’informazione e dei consumi, il neomarxismo e la New Left avrebbero anticipato i temi dell’antiliberalismo di fine Novecento. Per illustrare la natura del nesso culturale che unì, nel New Left americano e poi nella Nuova Sinistra europea, le istanze libertarie e le dottrine neomarxiste possiamo esaminare le prospettive di tre differenti leader politici: il grande democratico americano Robert Kennedy, il filosofo e militante francese Daniel Cohn Bendit, il regista e intellettuale tedesco Alexander Kluge (con il filosofo sociale Oskar Negt)21. Nella sua disamina dell’orientamento sociale e politico delle più giovani generazioni americane – nate dopo la seconda guerra mondiale e attive alla fine degli anni ’60 – Robert Kennedy notò un marcato cambiamento rispetto alla “taciturna generazione beat degli anni ’50”. Mentre la “Wasted Youth” del dopoguerra e dell’età della Guerra fredda si era piegata su se stessa, estraniandosi dalla società in una forma di opaco disadattamento al mondo, adesso dai giovani veniva un forte vento di ribellione che sfociava nella creazione di un Underground distinto e distante dai valori e dalle forme di vita della Middle class. Non solo: da questo mondo si levavano combattive voci di protesta e di contestazione nei confronti delle scelte politiche dell’Establishment e delle zone oscure della “società del benessere”: la segregazione razziale, la cristallizzazione della condizione femminile, la vuotezza del modello competitivo del neocapitalismo, le politiche imperialistiche nei confronti del Terzo mondo. Agitando questi temi, secondo Kennedy, la gioventù americana si poneva problemi più avanzati di quelli dei giovani russi o di quelli cinesi: problemi che nascevano dalla società opulenta e dalla ricchezza sociale e non dalla mancanza di libertà e di benessere economico. Ken20 AA.VV., Alla prova del ’68. L’anarchismo internazionale al Congresso di Carrara, a cura di Roberto Zani e della Commissione Storica della FAI, Zero in Condotta, Carrara, 2008. 21 Robert Kennedy, To Seek a Newer World, 1967, tr. it., Vogliamo un mondo più nuovo, Garzanti, Milano 1968; Gabriel e Daniel Cohn-Bendit, L’estremismo, cit., 1969; Alexander Kluge, Oskar Negt, Öffentlichkeit und Erfahrung. Zur Organisationsanalyse von bürgerlicher und proletarischer Öffentlichkeit, 1972, tr. it., Sfera pubblica ed esperienza. Per un’analisi dell’organizzazione della sfera pubblica borghese e della sfera pubblica proletaria, prefazione di Pier Aldo Rovatti, Mazzotta, Milano, 1979.

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nedy fu affascinato dall’impatto “antiborghese” della contestazione e si chiese come dovesse cambiare la società democratica e liberale americana per recepire gli spunti più innovativi e interessanti che venivano dai giovani, spunti che esprimevano, in forma limpida, problemi che erano avvertiti, in modo involuto, dagli stessi adulti. I Mod inglesi, i Provos olandesi, il Movement delle università americane: “esigono la dignità dell’uomo in quanto individuo, esigono un limite allo strapotere, esigono un sistema politico che conservi il senso della comunità, che parli direttamente e onestamente ai suoi cittadini”22. L’intuizione di Robert Kennedy fu quella del nesso fra il libertarismo e il liberalismo, fra la contestazione e la teoria dei diritti. Se per Robert Kennedy la New Left poneva problemi che investivano la democrazia e la libertà americane e le sospingevano verso nuove frontiere, per Gabriel e Daniel Cohn Bendit il Maggio francese aveva creato tumulto soprattutto all’interno della Sinistra istituzionale francese. Il movimento studentesco e i collettivi operai erano in rivolta contro la “burocrazia” del PCF e della CGT. Una veterosinistra marxista-leninista e stalinista, ossificata e addormentata, veniva meno al suo compito di contestazione delle forze al potere (De Gaulle prima degli altri). Sia nei documenti che nelle analisi socio-politiche i fratelli Cohn Bendit mettevano in campo una critica della forma-partito e della forma-sindacato che seguiva modelli “trockisti o filocinesi”23. Tuttavia, se nell’attualità della protesta nuovi soggetti sociali e politici sembravano avanzare oltre “lo stato di cose presente”, la rigidità e opacità dei loro schemi ideologici – spacciati come rivoluzionari e innovativi – impedivano loro di vedere la direzione del cambiamento sociale e tecnologico in atto. Partendo dalla visione di Hilferding del “capitalismo organizzato”, di Alain Touraine del cambiamento del lavoro produttivo, di Pierre Naville dell’automazione crescente dei procedimenti industriali, Serge Mallet avrebbe, invece, scritto di una “nuova classe operaia” – nell’elettronica e nell’estrazione del petrolio, nell’industria automobilistica e nell’aereonautica, nell’aerospaziale e nel nucleare civile – che si collocava al centro dei processi di programmazione e controllo dell’attività produttiva e superava la tradizionale 22 Robert Kennedy, Vogliamo un mondo, cit., p. 34. 23 Daniel e Gabriel Cohn Bendit, L’estremismo, cit., p. 320.

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Eutanasia del marxismo

condizione dell’“operaio massa” subordinato alle “macchine” e dei Blue Collars subordinati ai White Collars24. In realtà, gli stessi Cohn Bendit si erano resi conto dell’aspetto arcaico e dogmatico di quel neomarxismo che stava fagocitando i linguaggi e le soggettività della “Nouvelle Gauche”. Le forme di lotta e di contestazione del ’68 erano anticipate, categorizzate e organizzate, dentro un lessico estremista e velleitario che propugnava l’assunzione collettiva della gestione della società (p. 324) e la continuazione, oltre “il maggio”, della lotta contro “il potere e l’autoritarismo” (p. 328). In realtà, auspicando una “forma di espressione generalizzata che sia la somma coordinatrice dell’autonomia delle collettività attive” (p. 329), i Cohn Bendit, all’ultima pagina del libro, ammettevano che il neomarxismo e il neoleninismo agivano come una macchina ideologica che sottraeva pensiero, libertà e creatività agli studenti e agli operai in maniera del tutto analoga a quanto facevano nei loro confronti “il potere” e “il sistema”. Per questo, dopo aver invitato i contestatori a gettare “uova e pomodori” contro le vetrine e contro lo “schermo su cui appare la pubblicità”, i Cohn Bendit gridarono che: “non per gli altri, ma con gli altri, devi fare la rivoluzione per te stesso, qui e ora” (p. 330). Svelarono così la contraddittorietà di un movimento che a parole rilanciava il mito della rottura rivoluzionaria e idealizzava una politica creatrice di un futuro diverso mentre, in realtà, restava scollato rispetto al presente. Nei fatti, quel movimento che si reputava progressista e rivoluzionario diventava retrogrado e distruttivo. Anche i Situazionisti e Guy Debord si erano avveduti del paradosso in cui erano caduti i rivoluzionari25. La società neocapitalista non era la società dell’avere e dell’accumulare, bensì dell’“apparire” (Société d’apparence). Come scrisse Debord – e come avrebbe approfondito Jean Baudrillard – la forma spettacolo si era generalizzata e diffusa in ogni ambito – anche in quello marxista e rivoluzionario – determinando “un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini” e una singolare forma di assoggettamento psicologico in cui l’individuo, isolato dagli altri nella percezione del mondo, 24 Serge Mallet, La nuova classe operaia, [1963], nuova ed. con un saggio sugli avvenimenti di Maggio 1968, Einaudi, Torino, 1970. 25 Guy Debord, La Société du Spectacle, Buchet Chastel, 1967; AA.VV., Internazionale Situazionista. La vera scissione, [1969-1971], ed. it., manifestolibri, Roma, 1999.

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assisteva allo svilupparsi di: “un discorso ininterrotto che l’ordine presente teneva su se stesso”. La spettacolarità era la dimensione fondante della società contemporanea, responsabile della perdita, da parte del singolo, di una reale individualità, personalità, libertà. Anche i marxisti-leninisti sarebbero caduti nella trappola della duplicazione immaginaria con la “messa in scena della rivoluzione” secondo il copione dei sacri testi di Marx, Mao e Che Guevara26. Tuttavia, se Debord e i Situazionisti avevano fatto i conti – in modo nuovo e illuminante – con un aspetto importante del mondo neocapitalista occidentale, se ne erano anche loro fatti sovrastare poiché non avevano colto i punti politici, di sviluppo e di regolazione, del sistema finendo con l’elaborare una sia pure dissonante e apocalittica mitologia27. Il neomarxismo avrebbe elaborato critiche rilevanti dei processi di discriminazione ancora operanti in una società che si voleva più libera e progredita di quante altre del passato. Le politiche di subordinazione e di sfruttamento contro le donne, l’aggressione agli omosessuali accusati di minare la “quiete delle famiglie”, la limitazione dei diritti dei neri, la segregazione dei malati di mente, la criminalizzazione dei dropout (minoranze etniche, prostitute, barboni, nomadi, tossicodipendenti) accusati perbenisticamente di turbare l’“ordine sociale” furono duramente contestate dal “movimento del ’68” mediante l’elaborazione di una controcultura che avrebbe modificato in profondità il costume sociale con riflessi anche sulla legislazione. Negli anni ’60 del Novecento il movimento di contestazione avrebbe riscoperto tematiche schiettamente liberali, interne alla sfera dei diritti civili e individuali, assai poco compatibili con il classismo, la dittatura del proletariato, lo statalismo comunista auspicati da Marx, da Lenin e dalla “rivoluzione culturale” delle Guardie Rosse di Mao. Lo stesso dicasi per la difesa della libertà di parola e di stampa, la liberazione della ricerca scientifica e artistica dalle censure della religione: tematiche decisive – fin dal secolo XVIII – della civiltà liberale europea e americana28. Negli anni ’50 26 Giulio de Martino, Il cinema del ’68. La sua giornata di gloria cinquant’anni dopo, su: “il Manifesto/Alias”, 07.04.2018. 27 Simon Nora, Alain Minc, L’informatisation de la société. Rapport à M. le Président de la République, Seuil, Paris, 1978. 28 AA.VV., Censura e spettacolo in Italia, “il Ponte”, rivista mensile, anno XVII, n. 11, La Nuova Italia, Firenze, novembre 1961; Charles Whalen, Barbara

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Eutanasia del marxismo

e ’60, durante il lungo sonno delle culture liberali, fu il neomarxismo a farsi paladino dell’emancipazione delle soggettività liberate e indipendenti. Il Movement pensava che il complesso delle libertà civili e costituzionali – storicamente difeso dai liberali – fosse inficiato dall’esercizio del potere da parte dello “stato borghese” e dai processi di massificazione e di manipolazione del consenso indotti dal sistema economico e informativo capitalista. Di tutt’altro genere sarebbe stata la riflessione di Robert Nozick che propose di far convergere lo spirito libertario della New Left verso l’obbiettivo della società con il minimo di statualità e il massimo di liberazione di una pluralità di forme di vita e di pensiero29. La presenza del neomarxismo della New Left durò per breve tempo negli USA, in Giappone e nel UK, rimase viva più a lungo in Italia, in Francia e in Germania. Per l’Italia si ebbe addirittura un decennio (1968-1978) di vitalità dei movimenti di lotta extraparlamentari e della Nuova sinistra30. Sostituendo il sano empirismo riformista del pensiero laico e liberale, il neomarxismo avrebbe fornito alle generazioni in movimento un quadro teorico e un progetto politico confuso e contraddittorio, oscillante fra anarchismo e sovversivismo, ma radicalizzato e alternativo rispetto alle politiche conservatrici dello statu quo ante e alle prospettive riformiste del socialismo europeo. Il neomarxismo tedesco si mostrò meno ideologico e dogmatico di quello francese e meno avventurista e anarcoide di quello italiano. Se si analizza la polemica di Hans Jürgen Krahl con Jürgen Habermas vediamo delinearsi un rapporto di peculiare intensità fra il marxismo come teoria e filosofia e il marxismo come prassi e Whalen, The Longest Debate. A Legislative History of the 1964 Civil Rights Act, Cabin John, Seven Locks Press, Maryland, 1985; Hugh Davis Graham, The Civil Rights Era. Origins and Development of National Policy, 1960-1972, Oxford University Press, New York, USA, 1990; Townsend Davis, Weary Feet, Rested Souls. A Guided History of the Civil Rights Movement, W. W. Norton & Company, New York, 1998; Rosalind Rosenberg, Divided Lives: American Women in the Twentieth Century, Hill and Wang, New York, 2008. 29 Robert Nozick, Anarchy, State, and Utopia (1974), tr. it., Anarchia, stato e utopia. I fondamenti filosofici dello ‘Stato minimo’, Le Monnier, Firenze, 1981. 30 Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, SugarCo, Milano, 1988; Peppino Ortoleva, I movimenti del Sessantotto in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma, 1988.

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azione politica31. Per Krahl il punto di discrimine fra il neomarxismo e il revisionismo stava nella fedeltà al pensiero autentico e originario di Marx: soltanto Marx aveva cercato “di rappresentare la contraddizione di universale e particolare che, nella società capitalistica, è interna al soggetto della produzione materiale”32. Scrisse che la “protesta esistenziale” era stata all’origine del movimento del ’68 e che Sartre e Marcuse avevano cercato di darle ulteriore fondamento collegandola alle intuizioni di Marx. Come capirono Oskar Negt e Alexander Kluge, la via intrapresa dal movimento di “contestazione globale” era stata quella di dare vita a una “controsocietà”, a “forme di vita” e di “socialità proletaria” in cui vigessero relazioni umane e regole intersoggettive differenti da quelle indotte dal “sistema” e dalla “società costituita”. Un’utopia realizzata, praticata in comuni e collettivi, periodici e radio libere, associazioni d’arte e di teatro, che – negli anni ’70 – si sarebbe scontrata – oltre che con le istituzioni – con il machiavellismo della “sinistra tradizionale” e avrebbe dato origine alla deriva violenta della “sinistra armata”33. L’impianto neomarxista sarebbe definitivamente tramontato dopo gli eventi del biennio 1989-1991, la dissoluzione del blocco politico, militare e economico coeso intorno all’URSS e ai partiti comunisti europei. L’alterazione sistemica del mondo occidentale – alla fine del “secolo breve” e al principio del nuovo millennio – sarebbe stata l’occasione per una palingenesi del pensiero “rivoluzionario” in una forma che possiamo definire postmarxista. Si tratta di un pensiero eclettico che, prendendo la forma di una “teoria negativa”, di un “antagonismo eterno”, genera una macroteoria politica di sfondo per l’antiglobalismo, per i nemici della società digitalizzata e i fautori della “Deep Ecology”34. 31 Hans Jürgen Krahl, Costituzione e lotta di classe, tr. it., Jaca Book, Milano, 1973; Id., Attualità della rivoluzione, tr.it., manifestolibri, Roma, 1998. 32 H. J. Krahl, op, cit., p. 42. 33 Giuseppe Vettori, La sinistra extraparlamentare in Italia, Newton Compton, Roma, 1973; Giorgio Bocca, Gli anni del terrorismo, Curcio, Milano, 1988; Francesco Berardi (Bifo), La pantera e il rizoma. A/traverso, Bologna, 1990; Id., La fabbrica dell’infelicità: new economy e movimento del cognitariato. DeriveApprodi, Roma, 2001. 34 Guido Dalla Casa, L’Ecologia Profonda. Lineamenti per una nuova visione del mondo, Mimesis Edizioni, Milano, 2011.

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Eutanasia del marxismo

Nel trasformarsi da neomarxismo della New Left a postmarxismo del movimento antiglobalizzazione il marxismo si traveste da “filosofia della storia”: un candido utopismo, contaminato da orientamenti oppositivi di tipo anarcoide, philosophia perennis, voce del disperato “bisogno di futuro” del genere umano35. È importante definire il quadro filosofico in cui si colloca il postmarxismo, poiché evidenzia una mutazione profonda del marxismo, ma ne si conserva l’orientamento morale: l’esperienza dell’Occidente moderno come anomalia, alienazione e degrado dell’umano36. Di Marx sopravvive la “metafisica fondamentale”, mentre i programmi, le forme organizzative e politiche, sono desunte da altre fonti. Il postmarxismo è un “pensiero negativo” e al tempo stesso un “sentiment” vitalista: l’affermazione si istituisce a partire da una negazione, da una contraddizione. La sintesi è posta nel negativo poiché è dall’interno del negativo e della sua esperienza che sorgono le forme nuove dell’esistenza. Vari percorsi filosofici hanno aiutato il postmarxismo a costruirsi come un “pensiero forte”, un pensiero del negativo costituente. Pensiamo innanzitutto alla teoria della “condizione postmoderna” di Jean François Lyotard, in cui la società liberale trionfante viene interpretata come uno stato di perversione e disagio dell’umano. Il secondo apporto è stato fornito dal pensiero decostruzionista di Derrida, sorto dentro e accanto alla “filosofia della differenza” di Gilles Deleuze: la realtà non è rappresentabile se non attraverso un antiparadigma che fornisce una base per la categorizzazione del suo presentarsi negativo. L’ultimo tassello dell’orizzonte di pensiero in cui si è generato il postmarxismo si trova nella “critica della biopolitica”. Quest’ultima va intesa come una nuova strutturazione del potere che da un lato cambia natura, dall’altro diventa onnipervasivo. Dalla lettura biopolitica della società – un ampliamento del materialismo storico – deriva l’esigenza di una lotta contro ogni forma di controllo sull’esistenza e sulla vita da parte del potere neoliberista37. 35 Aldous Huxley, The Perennial Philosophy, 1944; tr. it., Adelphi, Milano, 1995; Erich Fromm, To have or to be?, Harper & Row, New York, 1976, tr. It., Mondadori, Milano, 1977. 36 Stuart Sim, Post-Marxism. An Intellectual History, London, Routledge, 2000; Simon Tormey & Jules Townshend, Key Thinkers from Critical Theory to Post-Marxism, Pine Forge Press, Thousand Oaks CA, 2006. 37 Michel Foucault, Sorvegliare e punire: nascita della prigione (1975), tr. it., Einaudi, Torino, 1976; Id., Microfisica del potere: interventi politici, ed.it.,

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Dalla New Left al postmarxismo123

Tale lotta va portata avanti attraverso comportamenti antagonistici anch’essi di tipo micro-fisico, ma di senso opposto a quelli adottati dal sistema. Questa teoria è stata elaborata da Michel Foucault e parte dal presupposto che il potere sia stato, per tradizione, basato su comando e imposizione. Nella fase della modernizzazione borghese il potere si è invece presentato come disciplinamento, selezione e esclusione: il modello di questo potere biopolitico è stato fornito dal ruolo della medicina e della psichiatria nella società positivista e nella Germania nazionalsocialista. Nella società neoliberista – in cui lo stato è divenuto un attore della società – il potere ha dovuto rinunciare al suo aspetto separato e autoritario ed è diventato un “potere liberale”: democratico e utile, che produce servizi e occasioni per la società. È un potere microfisico – o meglio: microbiologico, micropsichico, informatico – poiché si va a occultare dentro le strutture stesse della società e della sua esistenza. Le politiche e le pratiche del potere non si esercitano tramite il “sistema politico” o lo “stato”, ma attraverso l’azione di dispositivi che modificano le “forme di vita” e di pensiero, che promuovono e organizzano le libertà dei cittadini. Il potere postmoderno è un designer, un produttore di cultura e di economia. Per agire contro tale potere dissimulato, l’“altra parte” della società – la “comunità antisociale” – mette in atto antitendenze simmetriche in una sorta di “libera antilibertà”38. Più di recente si è delineata la “teoria dei beni comuni”: un dispositivo postmarxista che cerca di collocare la teoria comunista nella galassia ideologica sprigionata dall’antiglobalismo anticapitalista. Se nella visione ecomarxista l’unico “bene comune” della società umana è la “natura”, la “biosfera terrestre” (terra, aria, acqua, energia, forme viventi), per gli antagonisti la sfera dei beni comuni si deve estendere – in questo c’è l’influsso del neomarxismo – a realtà più ampie della vita sociale: la città, la casa, il lavoro, i beni culturali,

Einaudi, Torino 1977; Id: Biopolitica e liberalismo: detti e scritti su potere ed etica, 1975-1984, a cura di Ottavio Marzocca, Milano, Medusa, 2001. 38 Jean-François Lyotard, La Condition postmoderne: rapport sur le savoir, 1979; tr. it.,, La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano: 1981; Jacques Derrida, Marges – de la philosophie, 1972; trad. it., Einaudi, Torino, 1997; Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), tr. it., il Mulino, Bologna, 1972; Roberto Esposito, Comunità e biopolitica, Mimesis, Milano, 2012.

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Eutanasia del marxismo

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le tecnologie39. Il postmarxismo contemporaneo ha quindi come campo privilegiato di applicazione l’antagonismo fra la “libertà personale” (in cui rientrano tutte le forme di proprietà: da quella del corpo a quella delle idee, da quella della comunicazione a quella dei beni) e i fenomeni di controllo e di standardizzazione messi in atto sia dall’economia digitale sia da agenzie di controllo governative40. L’ illusione degli antiglobalisti è che si possa invertire il cammino della storia: arrestare l’avanzare della post-modernità, creare un’altra umanità.

39 Tiziano Bagarolo, Marxismo e ecologia, Edizioni Internazionali, Milano, 1989; Giovanna Ricoveri, Beni comuni versus merci, Jaca Book, Milano, 2010; Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011; Paolo B. Vernaglione, Filosofia del comune, manifestolibri, Roma, 2013. 40 Vedi: Oliver Stone, Snowden, Usa, Germania, 2016. Il film si basa su The Snowden Files di Luke Harding e su Time of the Octopus di Anatoly Kucherena. È ispirato alla vicenda di Edward Joseph Snowden (n. 1983) tecnico informatico della CIA e consulente della NSA che, nel 2013, divulgò al mondo le procedure messe in atto, negli USA e nel UK, da un tribunale speciale che monitorava i social network per ragioni di “sicurezza nazionale”. Vedi anche: AA.VV., Ibridazione uomo-macchina. Identità e coscienza nel cinema post-moderno, a c. di Massimo Monteleone, EDS-LUMSA, Roma, 2005.

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CAPITOLO DECIMO LA LOTTA TRA I LIBERALISMI NEL XXI SECOLO

Che giudizio dare del mondo contemporaneo? Le opinioni sono contrastanti e le ricostruzioni storiche incerte. I pareri più polemici e negativi vengono dall’universo Occidentale, che pure costituisce la parte più ricca e progredita del Pianeta. I più positivi vengono da altri mondi, da storie di decolonizzazione e di sottosviluppo. Secondo gli “ottimisti” all’evoluzione dei sistemi politici si è accompagnata una vera e propria “rivoluzione liberale” sul piano sociale e su quello economico. Vi hanno contribuito movimenti sociali, cambiamenti tecnologici e innovazioni culturali che hanno modificato radicalmente il mondo. Ciò sarebbe avvenuto incrementando il livello dei diritti e delle libertà per miliardi di individui. Per altri ancora il XXI secolo ha portato solo cambiamenti negativi e definiscono questa nostra epoca con gli epiteti allarmistici di: “globalizzazione finanziaria”, “turbocapitalismo digitale”, “catastrofe ecologica”. Adottando il primo punto di vista, si potrebbe porre in evidenza – di fronte al catastrofismo e al pessimismo – che il liberalismo ha mantenuto molte delle sue promesse e sconfitto, in numerosi Paesi, i regimi totalitari. Se guardiamo al mondo occidentalizzato (in Europa, America, Asia) vediamo che si sono prodotte una nuova mission del potere giurisdizionale (magistratura, avvocatura) e una nuova funzione della comunicazione e dell’informazione. Si sono incrementati i riferimenti alle Costituzioni, si è data concretezza a nuove fonti del diritto, sono veicolate opinioni divergenti che sopravanzano i parlamenti e incalzano i governi. Tale cambiamento liberale ha ridimensionato i poteri e le tradizioni nazionali a vantaggio di una società globalizzata e dell’espansione delle facoltà (Ca-

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Eutanasia del marxismo

pability) delle donne, delle minoranze e delle diversità1. In realtà, nessuno afferma che gli attuali sistemi socio-politici siano perfetti o che ovunque nel mondo l’umanità goda di condizioni di esistenza ideali, cosa che invece denunciano, polemicamente, gli osservatori problematici2. L’“ottimismo” odierno è di tipo realistico e razionale, non certo ingenuo o utopistico. Certamente ogni società è ricettacolo di poteri criminali e movimenti antisociali, ogni suo comparto è segnato da problematiche e conflitti. Tuttavia la filosofia laica e liberale invita a fare a meno di ogni “dialettica del negativo” e di ogni “mitologia dell’umana salvazione”. Con mentalità scientifica e empirica, si devono mettere in correlazione le “condizioni effettive di esistenza” con le “forme di senso” di tale esistenza, accettando i limiti del mondo e esplorandone le possibilità, poiché i problemi della società liberalizzata richiedono soluzioni settoriali e specifiche, non generali e generiche3. È importante affermare che i dati economici, sanitari, sociologici, psicologici segnalano il miglioramento globale delle condizioni di vita in gran parte del Pianeta, ma è più importante che economisti, sociologi e psicologi abbiano modificato il concetto di “crisi” e di “criticità” e abbiano proposto – insieme a criteri innovativi di rilevazione della qualità dello sviluppo, dei rischi e dei pericoli in cui incorre la società – strategie di soluzione dei problemi. Nella sua appassionata difesa dei princìpi dell’illuminismo e dei loro benefici effetti sul miglioramento della “condizione umana”, Steven Pinker ha mostrato i notevoli passi avanti compiuti, in ogni campo, dalla maggior parte del genere umano: nell’aspettativa di vita, nella tutela della salute, nella riduzione della fame e nella moltiplicazione delle fonti di sostentamento, nella crescita della ricchezza, nella riduzione di alcune disuguaglianze, nell’affermazione della pace e nella diffusione della democrazia, nel rispetto e nella parità dei diritti, nell’ac1

2 3

Ulrich Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1997; Roland Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste 1999; Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà, 1996, tr. it., Mondadori, Milano, 2000. Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000; Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, Einaudi, Torino, 2013; Thomas Piketty, Le promesse tradite, 2014, tr. it., Castelvecchi, Roma, 2018. Gianni Vattimo, con Piergiorgio Paterlini, Non essere Dio. Un’autobiografia a quattro mani, Ponte alle Grazie, Milano, 2006, pp. 112-114.

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cesso alla conoscenza e alla chance di felicità4. Questo progresso materiale, intellettuale e morale non è stato il frutto del caso, ma il successo – spesso poco celebrato – delle idee guida di ragione, scienza e libertà. Infatti, per affrontare le formidabili sfide del nostro tempo, come il cambiamento climatico, le ondate migratorie, i conflitti regionali e internazionali, non servono le recriminazioni sdegnate e neppure i proclami velleitari, ma la lucida razionalità di chi possiede tecniche e conoscenze, di chi sa risolvere problemi concreti. Popper scrisse al proposito di un “piecemeal social engineering” per indicare un tipo di pratica politica e economica, non ideologica, bensì localizzata e fondata su basi scientifiche e sperimentali5. Oggi non è accettabile alcuna “teoria apocalittica” e alcuna “proclamazione dello stato di pericolo” che autorizzi a rifiutare il liberalismo e a promuovere ordinamenti autoritari in nome dell’imperativo di “salvare l’umanità” o “il Pianeta”. Ma, allora, come si potrà conciliare un tale “encomio della libertà” con la consapevolezza, da cui siamo partiti, che il sec. XXI stia spingendo verso la “disperazione” non solo il marxismo, ma anche il liberalismo? Le trasformazioni macro e micro sociali indotte dalla fine del sistema economico industrialista e dalla crisi della civiltà di massa stanno dando luogo a nuove forme di vita e di pensiero. A volte si tratta di mutamenti correlati a soluzioni nuove e a cambiamenti positivi nelle forme di relazione sociale. Altre volte è prevalsa l’irresponsabilità, la violenza di piazza, si sono riproposte pratiche antiquate che hanno aggravato i problemi invece di affrontarli e risolverli. A livello globale, le divisioni e le contrapposizioni tra i liberalismi democratici e quelli conservatori – con la crisi dell’atlantismo e degli organismi internazionali – hanno alimentato un cinico disfattismo, ribellioni antipolitiche e movimenti populisti6. D. Perkins, M.A. Zimmerman, Empowerment Theory, Research, and Application, in: “American Journal of Community Psychology”, 23 (5), 1995, 569-579; Mark Prensky, From Digital Natives to Digital Wisdom. Hopeful Essays for 21st Century Learning, 2012, tr. it., Erickson, Milano, 2013; Steven Pinker, Enlightenment Now. The Case for Reason, Science, Humanism, and Progress, 2017, tr.it., Mondadori, Milano, 2018. 5 AA.VV., Contro Popper, a c. di Bruno Lai, Armando, Roma, 1998; AA.VV., Popper liberale riformista, a c. di B. Lai, i Libri di Reset, Roma 2003. 6 Ivo H. Daalder, The End of Atlanticism, The Brookings Institution, Washington D.C., June 1, 2003; Nadia Urbinati, Ai confini della democrazia. Opportunità e rischi dell’universalismo democratico, Donzelli, Roma, 2007; HM 4

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Risulta ogni giorno evidente che, per descrivere lo “stato del mondo” nel sec. XXI, è necessario abbandonare gli schemi storici e mentali dualisti che sono stati adoperati nel Novecento. Alla fine del “secolo breve” – come hanno intuito in molti – l’umanità ha subito un profondo shock, è entrata in una “zona d’ombra”. È stato un trauma diverso da quelli, pure ingenti, accaduti nel recente passato: le guerre e le crisi. Si è manifestata una patologia sociale che Jean Baudrillard – ha definito come: l’esperienza della “catastrofe”7. Si è riferito a quel processo di mutazione interna del mondo occidentale – e di tutte le “grandi civilizzazioni” – descritto dai concetti di “società postmoderna”, di “società postindustriale” di “società dell’informazione”8. Se guardiamo fuori dell’“esplosione implosiva” dell’Occidente – prodotta dalla “quarta rivoluzione” dell’economia digitale e dalla “globalizzazione” dei mercati e delle culture9 – vediamo che in tutto il mondo si stanno verificando processi nuovi e poco prevedibili. Gli stessi leader politici “navigano a vista” piuttosto che ispirarsi ad antiche dottrine o proporre le grandi idealità degli anni ’60 del Novecento. Si tratta di uno “stato di disordine” che non conferma neppure la teoria della “mondializzazione capitalista” e del dominio sistemico dell’“impero” che è stata proposta dai santoni del “postmarxismo”10. Nella realtà del mondo si sta evidenziando un inquieto “multipolarismo competitivo”, fatto di negoziazioni bilaterali e di conflitti regionali, poco regolabile da parte dalle istituzioni internazionali (ONU, BM, WTO). Inoltre, nelle faglie di scivolamento tra USA, Government, Theresa May MP, The Future Relationship Between the United Kingdom and the European Union, The Crown Edition 2018. 7 Jean Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, Bologna, 1976; Id., Lo scambio simbolico e la morte, tr.it., Feltrinelli, Milano, 1979; Id. Della seduzione, SE, Milano, 1980; Id. Lo spirito del terrorismo, ed. it., Cortina, Milano, 2002. 8 Krishan Kumar, Le nuove teorie del mondo contemporaneo. Dalla società postindustriale alla società postmoderna, 1995, tr. it., Einaudi, Torino, 2000. 9 Roland Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste 1999; AA.VV., Understanding the Digital Economy. Data, Tools, and Research, Edited by Erik Brynjolfsson and Brian Kahin, MIT Press, Cambridge, 2000. 10 Samir Amin, La crisi. Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi? Punto rosso, Milano, 2009; Michael Hardt, Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2003.

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UE, BRICS, sono deflagrati violenti contrasti interni al mondo islamico e, in Africa e in Asia, sono emerse spaventose aree di anomia e di emergenza umanitaria11. In più, elemento trasversale – diversamente presente nei vari quadranti del Pianeta – è la “crisi ambientale” (Ecological Crisis) di cui tutte le agenzie registrano l’evoluzione. Si tratta del contrasto fra la struttura del mondo antropizzato e le formazioni naturali del pianeta: una tendenza che è in atto fin dalla prima rivoluzione industriale del sec. XVIII e che è stata oggetto di differenti misurazioni e valutazioni con l’incerta teoria dell’“antropocene”12. La crisi ambientale si presenta in alcune aree sotto forma di esplosione demografica (High Demographic Growth), altrove con cambiamenti climatici e eventi metereologici inusuali ed estremi (Climate Change), in altre come incremento dell’“effetto serra” (Global Warming) con scioglimento del Permafrost, deforestazione e “desertificazione” del suolo. Nelle aree industrializzate appare come inquinamento dell’aria e delle acque (Pollution). Gli esperti delle scienze naturali sono divisi, non fra negazionisti e catastrofisti, ma fra quanti ritengono che si possa elaborare una “teoria globale del mutamento ambientale sulla Terra” e quanti ritengono che sia più prudente formulare teorie settoriali, ognuna con i suoi fenomeni e le sue tendenze osservabili13. Va rilevato che le criticità ecologiche e ambientali, oltre che in base a eventi obbiettivi, sono percepite all’interno di un profondo mutamento culturale per il quale le questioni scientifiche e etiche, i cambiamenti economici e sociali, vengono tematizzati e affrontati in maniera diversa che nel passato. In ambito psicosociale, nella medicina, nella nuova ruralità, nell’urbanistica, nella tecnologia sono presenti a livello di massa, interro11 Giovanni Arrighi, The Africa crisis. World Systemic and Regional Aspects, in: “New left review”, 15, may june 2002, pp. 3-36; Bernard Lewis, The Crisis of Islam, Random House, UK, 2004; Dino Carpanetto, Conflitti e aree di crisi nel mondo. Scenari geopolitici dopo la caduta del muro di Berlino, De Agostini, Milano, 2005; CeSPI, Nuovi scenari di violenza, crisi e sicurezza globale, a c. di Marco Zupi, n. 78, luglio 2013. 12 Paul Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, ed. it., Mondadori, Milano, 2005. 13 ONU, United Nations Framework Convention on Climate Change, Rio de Janeiro, 1992; UN, Paris Agreement, 2015; UN, Progress tracker1. Work programme resulting from the relevant requests contained in decision 1/CP.21, 22 October 2018.

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Eutanasia del marxismo

gativi e preferenze assai distanti da quelli del mondo industriale. Se il grande tema del ’900 era stato quello del superamento della mentalità “tradizionale”, ottocentesca: contadina, conservatrice, e dei correlati livelli di indigenza e di sottosviluppo, oggi emergono i problemi della società postindustriale e globalizzata. In questo scenario tocca al liberalismo democratico di contribuire a ridisegnare l’immaginario politico del mondo occidentale: andando oltre le velleità populiste e i detriti nichilisti del marxismo. Osservando la storia mondiale, si sarebbe potuto pensare – dopo gli eccessi e gli estremismi del “secolo breve” – a un trionfo delle teorie di tipo scettico e prudenziale, come la psicanalisi di Freud, l’epistemologia relativista e antiriduzionista di Popper, le critiche della “democrazia totalitaria” di Jacob Talmon e Hannah Arendt. Tali impostazioni, in senso lato liberali e empiristiche, avrebbero dovuto impedire ogni sopravalutazione dell’“ideologia”, ogni aspirazione a credere in modo fideistico in una qualche religione secolarizzata o trascendente14. È accaduto invece che la morte del marxismo ha lasciato un vuoto non colmato dal liberalismo. Come una colossale specie che si estingue e rende attonite e malcerte le specie che le sopravvivono, la dottrina marxista è diventata un buco nero, un cratere da cui fuoriescono inquietanti esalazioni, strani surrogati, fantasmatiche essenze. Il lutto e la costernazione hanno contribuito alla opacizzazione degli ideali liberali e democratici affermati da Rosalind Roosevelt al termine della Seconda guerra mondiale con la Dichiarazione universale dei diritti umani e i mitologemi marxiani si sono ibridati con le epistemologie postmoderne della “differenza” e della “biopolitica” per rilanciare, in nuova forma, le profezie della “liberazione dell’umanità”, della redenzione mitologica delle “ineguaglianze e dalle ingiustizie”, dell’“altro mondo possibile”15. Già il neomarxismo degli anni ’60 aveva cercato di proporsi come l’erede autentico della impostazione soteriologica del socialismo e del comunismo e aveva rilanciato l’utopia della rivoluzione, della comunità dei liberi ed eguali inclusiva di ogni individuo e di ogni 14 Jacob Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy, Secker & Warburg, London, vol. 1: 1952, vol. 2: 1960; Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism, 1951, tr. it., Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1967. 15 AA.VV., Lessico postfordista, a c. di Adelino Zanini e Ubaldo Fadini, Interzone, Feltrinelli, Milano, 2001.

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forma culturale apparsi su questo pianeta. Insomma, se il marxismo sembrò nel ’900 l’unica dottrina che potesse contrapporsi all’ottimismo pragmatico del pensiero liberale, la sua eutanasia e ha creato uno stato di nichilismo planetario in cui possono insediarsi nuove forme di utopismo e di fanatismo. Il lutto per la morte del marxismo è particolarmente avvertito nei Paesi in cui più lunga è stata la sua fortuna e più intenso il suo radicamento come concezione storicistica e umanistica. Sarebbe importante che il pensiero liberale – nella forma aggiornata che auspichiamo: con le sue regole e distinzioni, ma con inedite forme progettuali, – si appropriasse dello spirito prosociale e trasformativo che proviene da movimenti che nascono dalle emergenze del presente, liberandoli, però, dalla sovrastruttura apocalittica e oppositiva che accompagna le loro scelte etiche e sociali. Il tema è la relazione fra il liberalismo e la globalizzazione. Se la globalizzazione è stata favorita dalla dissoluzione del socialismo sovietico, ha messo duramente alla prova il liberalismo. Il moto di insicurezza e di instabilità che ha colpito le società liberali ha provocato una reazione di chiusura e di arroccamento di cui è espressione il cosiddetto “neoliberismo”con le sue implicazioni “sovraniste” e isolazioniste. Ad esso il liberalismo democratico deve opporre un desiderio di apertura e di negoziazione interculturale che non vada in conflitto né con la “nuova ruralità”, né con le tante sopravvivenze delle culture popolari. Il liberalismo è per la “società aperta”, instabile e problematica, disposta al pluralismo: in cui vi è relazione di scambio tra le diverse concezioni dell’esistenza. Accettando mondi culturali e sociali differenti, si accetta che possano entrare in contatto e anche in contrasto tra di loro, ma si rifiuta il conflitto: l’opposizione intollerante che assume la forma della guerra e della distruzione dell’avversario. Il cambiamento tecnologico postindustriale ha messo in difficoltà il liberalismo. È sembrato che la trasformazione dovesse avvenire nell’oscurità delle prospettive, nell’oblio della storia, con una temeriaria dissoluzione della civiltà occidentale – dei suoi limiti e delle sue potenzialità – attraverso una inaudita palingenesi della natura. Vacillante nelle strutture produttive e nelle soprastrutture ideologiche, la società novecentesca è costretta a ridefinire la propria identità, i propri confini, le proprie finalità. Di fronte al decremento di

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Eutanasia del marxismo

complessità e di organizzazione, un senso di inquietudine e di incertezza la attraversa. I nuovi mezzi di comunicazione: “internet”, i device digitali, funzionano come una biblioteca, come un mercato, come un sistema di socializzazione, ma, nell’insieme della loro azione, diventano più che una forma di stabilizzazione del consenso e della cooperazione, una fabbrica della divergenza e dell’insicurezza. Sarà necessario impedire la divisione irrazionalista e tribale fra politica e tecnologie, fra politica e cultura e la degenerazione anomica del legame societario. Al principio del XXI secolo, in correlazione con il disperante “stato del mondo e del Pianeta”, è apparso un nuovo “soggetto antagonistico globalizzato”. Originato dalla questione del debito insoluto dei Paesi poveri e dalla denuncia del commercio ineguale, il movimento antiglobalizzazione e antiG8 è divenuto movimento di opposizione al Global Warming e ai “mutamenti climatici”. Va compreso che nel catastrofismo e nell’anticapitalismo del Social Global Forum trovano espressione un desiderio di vita e di libertà e una sincera preoccupazione per i rischi di morte e distruzione che incombono sul Pianeta (anche sulle società tecnologiche e progredite)16. Il Noglobal manifesta una commistione di timori apocalittici, “teorie del crollo” e concezioni scettiche o addirittura avverse alle strategie compatibiliste adottate dai governi secondo la modalità della “Shallow Ecology”. In realtà – ed è una contraddizione – allo spirito mistico si unisce in questi movimenti la volontà di addurre argomentazioni di tipo razionale e si manifesta un’accettazione dei metodi di analisi scientifica – che, invece, andrebbero tenuti distinti dalle sintesi politiche e ideologiche – quando questi sembrano convalidare i loro timori. Il postmarxismo si inserisce in questi movimenti apportandovi una connotazione antagonistica e rivoluzionaria e argomentando che lo “stato di eccezione”, il “paradigma sicuritario” e la negazione dei diritti sociali e finanche civili sono divenuti la base del programma politico del “capitale finanziario sovranazionale”. Certamente, il movimento di “democrazia sociale” alimenta un “principio speranza” e un desiderio di futuro che fanno fatica a 16 AA.VV., Antologia del dissenso. Orizzonti politici e culturali del movimento antiglobalizzazione. Da Che Guevara al Sub-comandante Marcos, da Gandhi a Vandana Shiva, a c. di Giulio de Martino, Intra Moenia, Napoli, 2003; Luciano Pellicani, Anatomia dell’anticapitalismo, cit., pp. 245-282.

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contenersi nel “principio di responsabilità” e nella cauta applicazione delle leggi e delle garanzie, delle tecnologie e delle scienze, che la società e i poteri liberali mettono in campo. Lo slancio volontaristico e oppositivo sembra voler viaggiare verso il futuro a una velocità maggiore del lavoro metodico, delle strategie di compromesso, delle soluzioni intermedie e realistiche adottate dai sistemi politici e amministrativi e dagli organismi multilaterali. Il dogma dei nuovi rivoluzionari è un impasto di conservazione e cambiamento, poiché afferma che si può sopravvivere in questo mondo solo pensando che non sia davvero il nostro mondo e che se ne possa rapidamente mettere in cantiere un altro: che poi sarebbe lo stesso, ma restituito alla sua purezza originaria17. Lo spirito apocalittico del nostro tempo assume le sembianze, gioiose e variopinte, del “popolo di Seattle” o di “Porto Alegre”, dei gruppi della New Age, del “Friday for Future” e delle enclave del tradizionalismo etnico discendenti dal Terzomondismo degli anni ’60 e dalle prime battaglie ambientaliste18. Ma assume anche la forma – più inquietante e minacciosa – del populismo e del sovranismo, forze settarie, gruppi e partiti autoritari che esaltano le pulsioni di masse reattive e antisociali, risvegliano intolleranza, razzismo e un anacronistico nazionalismo. Il movimento dei movimenti va distinto dai gruppi fanatici e terroristici che prosperano sulle miserie e sui conflitti locali e regionali, che organizzano le loro basi guerrigliere in ristrette entità territoriali: ricettacolo di organizzazioni criminali che si contrappongono al sistema degli stati19. È molto importante esaltarne lo spirito pacifista e solidaristico, la ricerca di nuovi profili dell’umano, la preoccupa17 Jean Paul Dollé, Desiderio di rivoluzione, tr. it., Dedalo, Bari, 1975; Félix Guattari, Rivoluzione molecolare. La nuova lotta di classe, Einaudi, Torino, 1978; Hans Jonas, Il principio responsabilità [Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation], 1979, tr. it., Einaudi, Torino, 2002; AA.VV., “Un altro mondo è possibile”, documentario, Italia, 2001; Joseph Stiglitz, La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino, 2007; Giuliano Battiston, Per un’altra globalizzazione, Edizioni dell’asino, Roma, 2010; Anthony Giddens, The Politics of Climate Change, Cambridge Polity Press, UK, 2011. 18 Fritjof Capra, The turning point, 1982, tr.it., Feltrinelli, Milano, 1984. 19 John L. Esposito, Unholy War: Terror in the Name of Islam, Oxford University Press, 2002; Charles Allen, God’s Terrorists: The Wahhabi Cult and the Hidden Roots of Modern Jihad, Da Capo Press, Philadelphia, 2006; AA.VV.,

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Eutanasia del marxismo

zione per l’impoverimento della biosfera e per le insuperate ineguaglianze socio-economiche, propri dell’area del Terzo settore e della “democrazia solidale”: sono princìpi che si richiamano alla missione delle Nazioni Unite, dei tribunali internazionali e alle dichiarazioni dei Diritti umani e del Diritto dei popoli20. È necessario, però, segnalare l’equivoco filosofico che ispira le organizzazioni antiglobalizzazione e antineoliberiste, equivoco che condiziona i gruppi intellettuali e i servizi informativi che fanno loro da supporto. Si tratta dell’idea che le istanze critiche e prosociali, le iniziative umanitarie e di sostegno allo sviluppo, si inquadrino meglio in una cultura antagonistica di tipo anticapitalistico – che deriva dal postmarxismo – piuttosto che in una cultura riformista, contrattualista e pluralista che derivi dal liberalismo. Nella realtà storica, è stata l’anima democratica e riformista del liberalismo a recepire e rilanciare le istanze umanitarie e le politiche di collaborazione internazionale poiché le ha correttamente inquadrate nella salvaguardia del sistema sociale e culturale che quelle istanze ha reso possibili: la “società aperta” di stampo liberale. All’opposto, le correnti di tipo antagonista e postmarxista – poiché non prendono in considerazione le alternative, alcune democratiche, altre populiste, che il sistema produce al proprio interno – si propongono di distruggerlo, reputando che la sua soppressione, superamento, capovolgimento ecc. siano da preferirsi alla prevalenza di una o dell’altra delle tendenze che in esso si manifestano. Si tratta di un errore grave, che compromette l’onestà intellettuale e morale di coloro che tali movimenti portano avanti e sostengono. Se guardiamo, in particolare, all’Italia, vedremo che le grandi battaglie civili e ideali per il federalismo, per l’unificazione economica e politica dell’Europa, per la nonviolenza, contro il nazionalismo, contro la cementificazione dei centri urbani, contro la distruzione dell’ambiente e del paesaggio, per la tutela dei monumenti e dei centri storici, la conquista di nuovi diritti civili e sociali per le donne e le minoranze, la critica della concezione punitiva e degradante del carAon’s guide to Political Risk, Terrorism & Political Violence, Global Broking Centre – Crisis Management, Risk Maps, 2018. 20 Linda Bimbi, Gianni Tognoni, Speranze e inquietudini di oggi. I trent’anni della Dichiarazione Universale del Diritto dei popoli, EDUP, Roma, 2008; AA.VV., Rapporto sui diritti globali 2011. Tra vecchi modelli e nuovi scenari, Associazione SocietàInformazione, Milano, 2011.

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La lotta tra i liberalismi nel XXI secolo 135

cere, l’opposizione al giustizialismo demagogico e non garantista, le battaglie per la libertà di informazione e di pensiero, le proposte di nuove leggi sui temi bioetici sono state tutte portate avanti da gruppi e da esponenti del liberalismo democratico e radicale21. Invece, nel planisfero, globalizzato dei mass-media, i temi e problemi al centro dell’azione degli Organismi internazionali vengono rappresentati con la divisione fra catastrofisti e negazionisti. Sono gli opposti idealtipi del “movimento antiglobalizzazione” e del “neoliberismo”22. Si tratta di una contrapposizione strumentale e manichea: un dualismo di tipo novecentesco che mette in ombra le vere alternative e soprattutto le posizioni più meditate e ragionevoli. Le polarizzazioni pro/contro, oltre a essere un espediente giornalistico, incrementano fenomeni di smarrimento di massa, inducendo quello che è stato definito “analfabetismo funzionale” e la diffusione delle “Fake News”. Si impone, allora, una più precisa e calzante definizione di “populismo”. Non dobbiamo definire con questo termine specifiche forze politiche – di destra o di sinistra che siano – bensì una nuova “forma della politica” prodotta dall’azione dei “nuovi mezzi di comunicazione”, dall’instabilità ideologica e, soprattutto, dalla smania delle masse di veder realizzati istantaneamente, attraverso azioni simboliche, i propri obbiettivi. Nell’alveo populista, si trovano a confluire molte ideologie politiche del Novecento: quella marxista e terzomondista, ma anche quella razzista e nazionalista, forme di fondamentalismo religioso e di radicalismo etnico e guerrigliero. L’evoluzione dal populismo al totalitarismo di nuovi e svariati movimenti politici all’inizio XXI secolo

21 Altiero Spinelli, Dagli stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, La Nuova Italia, Firenze, 1950; Antonio Cederna, La distruzione della natura in Italia, Einaudi, Torino, 1975; Guido Aghina e Claudio Jaccarino, Storia del Partito radicale, Milano, Gammalibri, 1977; Manlio Del Bosco, I radicali e “il Mondo”, ERI, Roma, 1979; Silvana Castignone, Diritti degli animali in: “Enciclopedia delle scienze sociali”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1993; Giuseppe Galasso, La tutela del paesaggio in Italia (1983-2005), Editoriale Scientifica, Napoli 2006; Carlo Flamigni, Maurizio Mori, Le ragioni dei 4 si, Libri di Diario, Milano, 2015; Eugenio Lecaldano, Sul senso della vita, il Mulino, Bologna, 2016. 22 Pierre Bourdieu, Controfuochi. Argomenti per resistere all’invasione neoliberista, i Libri di Reset, Roma, 1999; David Harvey, Breve storia del neoliberismo, 2005, il Saggiatore, Milano, 2007.

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Eutanasia del marxismo

va ostacolata con ogni mezzo e contenuta nei limiti della democrazia rappresentativa, pluralista e liberale23. Non si è determinato un territorio agevole per chi opera nel nome della tolleranza e del liberalismo, per chi non vuole esaltare i leader politici e intensificare il loro protagonismo nei mass media, ma vuole favorire l’equilibrata convergenza della sfera economica e di quella morale. Il rapporto con le masse è difficoltoso per quel liberalismo democratico che si è ritirato nell’ambito accademico e ristretto agli ambienti più illuminati dell’imprenditoria e della finanza, alle élite dell’arte e della cultura. In Europa e in Italia, la scarsa presenza delle teorie e delle categorie di azione liberali nella sfera politica, nel tessuto sociale e nel “senso comune”, ha favorito la diffusione di ideologie e semplificazioni, di polarizzazioni estremiste. Ciò che è mancato alla cultura liberale è stata la tensione empatica e sentimentale che fu dei grandi pionieri dell’800. Sarebbe provvidenziale il ritorno alla vocazione eroica, all’etica dei valori, all’intervento dei liberali, oltre che sul piano delle regole e delle funzioni, anche su quello delle sfide, dell’esempio e della battaglia civile24. Potremmo affermare che la “filosofia” oggi coincida con il liberalismo e con il suo confronto con il mondo globalizzato? La filosofia non è più un sapere “europeo”. È sorta nella Grecia antica ed è stata – per lunghi secoli e in varie forme – un sapere occidentale, ma oggi deve diventare un sapere “transnazionale”, come lo sono la scienza e la tecnologia. Non deve avere radici e dogmi, ma superare le barriere religiose, culturali, linguistiche. Si può pensare a 23 Cas Mudde, “The Problem with Populism,” The Guardian, 17 February 2015; David Goodhart, The Road to Somewhere: The Populist Revolt and the Future of Politics , Hurst, London, 2017; William A. Galston, “The 2016 U.S. Election: The Populist Moment,” Journal of Democracy 28 (April 2017): 23; AA.VV., Le trasformazioni della democrazia. Narrazioni, leadership e ideologie, a c. di Flaminia Saccà, “Sociologia” Rivista quadrimestrae, LII/3, Gangemi, Roma, 2018; Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio, Venezia, 2018. 24 Salvatore Veca, La società giusta. Argomenti per il contrattualismo, Il Saggiatore, Milano, 1982; AA.VV., Natura, vita, persone, corpi, “Quaderni laici”, n. 1, Claudiana, Torino, maggio 2010; Paolo Bonetti, Breve storia del liberalismo di sinistra, Da Gobetti a Bobbio, Liberilibri, Macerata, 2014; Corrado Ocone, La cultura liberale. Un breviario per il nuovo secolo, Giubilei Regnani editore, Roma, 2018; AA. VV., Liberalismi eretici. La “civile filosofia” dei liberali italiani a c. di Giovanni Leghissa, Alberto Giustiniano, “Philosophy Kitchen” # 8, anno 5, 2018.

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La lotta tra i liberalismi nel XXI secolo 137

un liberalismo geocentrico ed ecologico che cerchi di ridurre l’ipercomplessità del sociale globalizzato. Oppure a una nuova forma di produzione di consumo, che vada al di là della contrapposizione fra “homo oeconomicus” e “homo antioeconomicus”, alla ricerca di un’ individualità libera e sociale, competente e responsabile. Tutto ciò, rende attuale la figura dell’“intellettuale singolare”: l’intellettuale che rinuncia alla pericolosa categoria di “totalità” e non si posiziona staticamente in istituzioni e partiti, ma si colloca in movimento sulle faglie della cultura e della società. Nel Novecento, in Italia, Alberto Moravia, Ernesto de Martino, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco, Leonardo Sciascia operarono per la demistificazione del paradigma marxista nell’epoca del suo massimo splendore. Oggi che erompe la crisi anche del paradigma liberale, l’“intellettuale singolare” è chiamato a interrogarsi, di nuovo, sulla politica: sulle sue finalità oltre che sui mezzi del suo esercizio.

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ETEROTOPIE

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Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna 550. Lorena Pasquini, Pietro Zanelli (a cura di), Crisi e critica della modernità nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Parole chiave, tensione utopica, sollecitazioni 551. Nicolò Addario, La fine della morale. Genealogia, forme storiche e criticitò dell’autodescrizione della società moderna 552. Antonio Imbasciati, Una vita con la psicoanalisi 553. Bruno Fedi e Maurizio Corsini (a cura di), L’errore antropocentrico. Uomo-Natura-Altri viventi 554. Carmelo Buscema, Contro il suicidio contro il terrore Saggio sul Neoliberalismo Letale, prefazione di Tonino Perna 555. Diego Fusaro, Il cervello della passione. Marx e la critica del capitale 556. Ernesto C. Sferrazza Papa, Modernità infinita. Saggio sul rapporto tra spazio e potere 557. Riccardo Mazzeo, Esistenze rammendate. Strategie di sopravvivenza, strategie di vita 558. Matteo Bittanti (a cura di), Fenomenologia di Grand Theft Auto 559. Vittorio Marchis, Marco Pozzi (a cura di), Nuovi incontri con la macchina. Scritti meta-scientifici 560. Terenzio Fava, Elisa Lello, Giovani Politica Società, in collaborazione con Francesco Fratto. Presentazione di Luigi Alfieri 561. Fabio Francione (nuova edizione, a cura di), Erotismo Eversione Merce 562. Roberta Bonfanti, Giovanna Cervini, In aula con Calvino.Un approccio educativo alla formazione degli adulti per lo sviluppo di competenze trasversali, Premessa di Gianmarco Gaspari 563. Ilaria E. Lesmo, Malattie rare in emergenza. Una ricerca antropologica tra biopotere e saperi della cura 564. Arnaldo Spallacci, Maschi in bilico. Uomini italiani dalla ricostruzione all’era digitale 565. Règis Debray, Fenomenologia del terrore. Lo sguardo cieco dell’Occidente 566. Judith Butler, Athena Athanasiou, Spoliazione. I senza casa, senza patria, senza cittadinanza, traduzione e cura di Agostino Carbone 567. Slavoj Žižek, Pedofilia. Il segreto sessuale della Chiesa 568. Gabriella Mangione, Lino Panzeri (a cura di), Italia e Germania tra Ottocento e Novecento. Atti del Convegno tenutosi a Como, presso il Chiostro di Sant’Abbondio, il 31 ottobre 2017 569. Riccardo Sciacchitano, La tutela della persona e della proprietà nell’Atene arcaica 570. Laura Rampazzi (a cura di), Un laboratorio tutto per sé. La scienza al femminile 571. Aldo Giannulli, Alessandro Curioni, Cyber war. La guerra prossima ventura 572. Laura Brignoli (a cura di), InterArtes. Diegesi migranti

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573. Francesco Spampinato, Musica a pelle. Immaginario tattile e Globalità dei Linguaggi 574. Agnese Soffritti, I materiali dell’assenza 575. Nicoletta Gandus, Cristina Tonelli (a cura di), Doppia pena. Il carcere delle donne 576. Carmelo Zicari, Dalla formazione esperienziale al mondo del lavoro 577. Agostino Riitano, Artigiani dell’immaginario 578. Fabrizio Battistelli, La rabbia e l’imbroglio. La costruzione sociale dell’immigrazione 579. Lorenzo Donghi, Elisa Enrile, Giorgia Ghersi, A mezzi termini. Forme della contaminazione dal XX secolo 580. Fabio Galimberti, Il principe nero. Don Giovanni, un sogno femminile 581. Milosh Fascetti, Idolatria del lavoro 582. Tommaso Gatti, Dalia Maini (a cura di), Visual Studies. L’avvento di nuovi paradigmi 583. Pedro Almeida Vieira, Così si è fatto il Brasile. Tre secoli di invasioni, guerre, rivolte e altre calamità nel periodo coloniale, dalla scoperta fino all’indipendenza dal Portogallo, a cura di Francesco Ambrosini 584. Gabriel Albert Aurier, Scritti d’arte 1889-1892, a cura di Elisa Baldini, Gian Luca Tusini, Giuseppe Virelli, traduzione dei testi dal francese a cura di Agnese Napoletti, Licia Reggiani 585. Stefano D’Errico, La scuola distrutta. Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica e del Paese 586. Rossana Barcellona, Teresa Sardella (a cura di), Violenza delle parole, parole della violenza. Percorsi storico-linguistici 587. Alfred Adler Klarerl Macht, L’arte di leggere la vita. Storia di una malattia (1928), edizione critica a cura di Egidio E. Marasco, Luigi Marasco, supervisione del caso clinico e postfazione di Gian Giacomo Rovera 588. Enrico Consoli, Oltre il mito dell’autoimprenditorialità 589. Nevio Dalle Fabbriche, Simona Stefanelli, Le istituzioni scolastiche italiane in Etiopia. Una storia tra diplomazia ed emancipazione sociale 1956-2000 590. Sergio Genovesi, Tracce dell’informe. L’indecostruibile e la filosofia dell’evento in Jacques Derrida 591. Chiara Bassetti, Genesi dell’opera d’arte. Fare danza assieme 592. Max Scheler, Ascesa e declino della borghesia. Tre saggi sullo spirito del capitalismo, a cura di Vincenzo Di Marco 593. Nicolò Addario, Modernità antiliberale. Reazioni romantiche e pensiero politico antisistema nell’Europa di Otto e Novecento 594. Valentina Conti, Per una narratologia interculturale. I confini millenari tra Occidente ed Estremo Oriente 595. Claudia Attimonelli, Vincenzo Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale 596. Jo Hye-Ran, Donne di Choson. The ladies from the past 597. Renato Soma, I professionisti chimici. Cronaca di novant’anni di attività del Consiglio Nazionale e degli Ordini dei Chimici italiani

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598. Vanni Codeluppi, Ligaland. Il mondo di Luciano Ligabue 599. M. Cambiaghi e G. Turchetta (a cura di), Itinerari della critica teatrale italiana del Novecento 600. Gianpaolo Anderlini, Niente di nuovo sotto il sole. Quando la Shoà sarà solo una pagina di storia (o di narrativa) 601. Simone Azzoni, Smagliature. Esperienze di estetica relazionale fra teatro, danza e fotografia 602. Ruggero D’Alessandro, Sull’orlo dell’abisso. Le origini della shoah nel dibattito fra storici “intenzionalisti” e “funzionalisti” 603. Alessandra Casati, Caravaggio tra naturalismo e realismo. Un percorso nella critica attraverso le mostre 1922-1951 604. Enrico Manicardi, Rete oppio dei popoli. Internet, social media, tecno-cultura: la morsa digitale della società

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2020 da Digital Team – Fano (PU)

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