Che cosa cambia con Nietzsche?

“Terremoto dell’epoca”, con l’appellativo di Gottfried Benn, o “dinamite”, come egli stesso si definiva, Friedrich Nietz

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Che cosa cambia con Nietzsche?

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Alice Giordano a cura cli

Che cosa cambia con Nietzsche? 115CH1BBOLETH

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Nota editoriale

Il volume è il risultato di un ciclo di seminari, organizzato dal centro di ricerca Diaporein e tenutosi presso la Facoltà di Filosofìa dell'Università Vita-Salute San Raffaele nell'anno accademico 2021-2022. Si ringraziano pertanto tutti gli studenti, dottorandi, ricercatori e docenti che hanno contribuito alla discussione. 000

Salvo diversa indicazione, si sono adoperate le edizioni critiche tedesca e italiana di Giorgio Colli e Mazzino Montinari: BVN = Epistolario di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, proseguito da G. Campioni e F. Gerratana, Adelphi, Milano 1976 ss. KGB = Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, proseguito da N. Miller e A. Pieper, de Gruyter, Berlin-New York 1975 ss. KGW = Kntische Gesamtausgabe Werke, a cura di G. Colli e M. Montinari, proseguita da V. Gerhard, N. Miller, W. Muller-Lautere K. Pestalozzi, de Gruyter, Berlin-New York 1967 ss.

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KSA = Siimtliche Werke. Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, 15 voll., dtv-de Gruyter, MfinchenBerlin-New York 1999. OFN = Opere compl,et;e di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, proseguite da M. Carpitella e G. Campioni, Adelphi, Milano 1964 ss.

Per indicare le opere di Friedrich Nietzsche nelle note, si sono usate le abbreviazioni ormai tradizionali nell'ambito degli studi niet7.scheani. La sigla dell'opera è seguita dal numero o dal titolo della sezione (se presente), dal numero dell'aforisma (es. MA, La cita religiosa, 111) e, dove si è ritenuto necessario, della pagina. Per quanto riguarda i frammenti postumi, alla sigla segue l'arco temporale che consente di individuare il volume corrispondente e il numero del frammento (es. NF 1882-1884 24[36]). Per le lettere, viene indicato il destinatario, la data, il volume, il numero di riferimento e la pagina (es. A Cari Fuchs, metà aprile 1886, BVN, voi. V, 688, p. 181).

AC = L'anticristo.

EH

= Ecce honw.

EkP = Enciclopedia della fil,owgia clnssica. FW = La gaia scienza.

GD

= Il crepuscoÙJ degli idoli.

GM = Geneal.ogia della morale. GT = La nascita della tragedia. HkP = Omero e la fiwwgia classica. JGB = Al di là del bene e del male. M =Aurora.

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MA = Umano~ troppo umano. NF = Frammenti postumi.

VM = Opinioni e sentenze diverse. WL = Su verità e menzogna in senso extramorale. ZA

= Così par"lò 'Zarathustra.

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Introduzione

Una volta si prendeva la trasformazione [Veriindemng], il cangiamento [Wechsel], il divenire in generale come prova dell'apparenza, come indice che doveva esserci qualcosa a indurci in errore. Viceversa oggi, esattamente nella misura in cui il pregiudizio della ragione ci costringe a stabilire unità, identità, durata, sostan7.a, causa, cosalità, essere, ci vediamo in certo modo irretiti nell'errore, necessitati ali'errore. 1

In questo passo del Crepuscol,o degli idoli, celebre per la sua conclusione - «Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora nella grammatica ... >.Jl-, Nietzsche riformula il problema deU'"errore", svincolando quest'ultimo dal divenire e dal cambiamento per ricondurlo, al contrario, al carattere monolitico e statico dell"essere. Obiettivo della citazione nietzscheana è mostrare come le strutture oggettivanti e fossilizzanti del linguaggio abbiano concesso il loro patrocinio agli errori dell'umanità; tuttavia, tenuto conto del significato teorico specifico del brano, è possibile prenderlo come spunto per introdurre il lavoro qui presentato, a partire dal titolo: Che cosa cambi.a con Nietzsche?. 1. GD, La «ragione» nella filosofia, 5. 2. Ibidem.

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Volutamente si è scelto di rimarcare, come filo conduttore tra i singoli saggi che compongono il testo, il tema del "cambiamento"". In antitesi a ogni tentativo di definire "che cosa ha veramente detto"' un autore, ci si è voluti ispirare al «diverso modo»3 di guardare le cose che Nietzsche stesso aveva proposto: non una domanda sul ti estì, su quella substantia che la metafisica occidentale ha ostinatamente cercato ma che è «vuota finzione» 4, bensl un'indagine sulla ''trasformazione"' e sul "cambiamento". Parole chiave per comprendere Niet7sche su più livelli, a partire da quello strettamente speculativo sino a quello storico-ermeneutico: «terremoto dell" epoca» 5 , con l"appellativo di Gottfried Benn, o «dinamite»6, come egli stesso si definiva, Nietzsche è il filosofo che per eccellenza "cambia" il volto e le movenze della filosofia. Tale trasformazione avviene su molteplici fronti concettuali, e poiché sarebbe impossibile una trattazione esaustiva, ne sono stati selezionati alcuni tra i più rilevanti: ciascun capitolo di questo volume prende allora in considerazione che cosa cambia con Nietzsche rispetto a un tema specifico. La "morale"', come mostra Maria Cristina Fornari, presentando un Nietzsche geologo dei fatti morali, la cui origine non può sottrarsi all'indagine filosofica, scientifica e antropologica. La "verità", nel testo di Carlo Gentili, che sulla scia della domanda rivolta da Pilato a Gesù, Quid est -veritas?, tesse una trama che dallo scettico Pirrone passa attraverso Kant, per arrivare a Nietzsche. La "scienza", nelle analisi di Pietro Gori, incentrate sull'originalità della teoria della conoscen7.a niet7scheana, che non deve 3. Ibidem. 4. GD, La «ragione» nella filosofia, 4. Qui Nietzsche cita con sommo rispetto, pur in parte criticandolo, Eraclito. 5. G. Benn, Lo smalto sul nulla, tr. it. di G. Russo, a cura di L. Zagari, Adelphi, Milano 1992, p. 255. 6. EH, Perché io sorw un destirw, 1.

15 necessariamente condurre a esiti relativistici estremi - e che viene infatti ereditata da correnti epistemologiche contemporanee. Il "linguaggio'', nell'articolo di chi scrive, che offre una campionatura del modo in cui Nietzsche rivoluziona i rapporti tra le parole, la coscienza e il corpo, con una radicalità che influenzerà tutto il '900. La ''potenza", nel ponte che Rocco Ronchi getta fìno ai megatici e che attraversa un canone illustre, e tuttavia minoritario, per mostrare i punti di continuità e rottura con la Wille zur Macht. Infìne, la "classicità", nell'excursus di Carlotta Santini che ci riporta al primo Nietzsche, filologo, professore, educatore, per rivisitare i termini del celebre stravolgimento nietzscheano dell'antichità classica.

Alice Giordano

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Il geologo dei fatti rrwrali Maria Cristina Fornari

1. Un tono completamente cambiato Con U1nano, troppo u1nano, pubblicato nel 1878 e dedicato alla memoria di Voltaire, Nietzsche segna, come è noto, una svolta nella propria fìlosofìa, una vera e propria separazione da quanto lo aveva attratto fìno a quel momento e che sentiva non appartenergli più. In particolare, si porta qui a compimento un processo di progressivo distacco dagli ideali romantico-metafisici della giovinezza, oltre che dal disegno culturale wagneriano, che già aveva mostrato i suoi sentori negli appunti dell'epoca delle Considerazioni inattual,i, ma solo in maniera privata e paniale. «Umano, troppo umano» è il monumento di una crisi. Dice di essere un libro per spiriti liberi: quasi ogni frase vi esprime una vittoria - con quel libro mi sono liberato da ciò che non apparteneva alla mia natura. L'idealismo non mi appartiene: il titolo dice «dove voi vedete cose ideali, io vedo - cose umane, ahi troppo umane!» [ ... ]. Il tono, il suono della voce sono completamente cambiati: si troverà il libro intelligente, fresco e, quand'è il caso, duro e beffardo. 1

1. EH, Umano,

troppo umano. Con due continuazioni, 1.

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Se Nietzsche sceglie di accentuare l'elemento di novità rappresentato da Umano, troppo umano (del resto, gli amici lo avevano accolto con stupore e con preoccupazione, stante la lontananza, per contenuto e forma, dall"opera del 1872 che aveva consacrato il giovane Nietzsche quale megafono filosofico di Wagner), tuttavia, come detto, la svolta verso una filosofia storico-critica non era giunta all"improvviso. Accanto alla delusione umana e politica di fronte a un Wagner che aveva tradito gli ideali rivoluzionari della propria giovinezza e a una scepsi progressiva che, fin dai primi anni universitari, aveva eroso in Nietzsche ogni residuo di fede, prima rivelata e poi metafisica, dobbiamo porre nuove esigenze conoscitive che lo spingono in direzione, genericamente, della "scienza''. Si è molto parlato dell'influsso di Paul Rée, giovane prussiano che Nietzsche aveva conosciuto nel 1873 e con Il quale aveva intensificato i rapporti a partire dal 1875: e forse non è un caso se le liste di prestito della biblioteca dell'Università di Basilea fotografano, proprio per il 1875, un Nietzsche che improvvisamente si interessa a testi appartenenti all'ambito storico-scientifico, dalla chimica alla fisica, all'antropologia, ali'etnografia. Nel primo, signincativo viaggio di Nietzsche a Sorrento2, il cenacolo ideale che si era formato presso la villa dell'anziana ospite, la wagneriana Malwida von Meysenbug, si dilettava in passeggiate e letture comuni; discuteva di psicologia, di chimica, di etnografia, di diritto comparato; vagheggiava un ''convento per spiriti liberi" nel quale maturare ideali e visioni del mondo più moderni e sostenibili delle costruzioni erette sulle nuvole della vetusta metafisica tedesca. Se gran parte di Umano, troppo umano nasce proprio in questa atmo-

2. Nietzsche, Rée e il giovane Albert Brenner trascorsero a Sorrento circa sei mesi (da fine ottobre 1876 ai primi di maggio 1877). Si veda in proposito P. o-Iorio, Le ooyage, de Nietzsche à Sorrente. Genèse de la philosophie de tespnt libre, CNRS Editions, Paris 2012.

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sfera sorrentina, bisogna ricordare che, di contro, viene allo stesso modo completata quella che si può considerare la sua opera gemella, L'origine dei sentimenti moral,i di Paul Rée3 : è da qui che dobbiamo cominciare, se vogliamo mettere a fuoco "ciò che cambia'' nelle considerazioni di Nietzsche riguardo all'origine e alla natura della morale.

2. Ritorno al, passato Se Niet7..sche, dieci anni più tardi, si preoccuperà di segnare una distanza tra sé e l'amico, fortunosamente «irraggiato con l'aureola di gloria della storia universale» 4 ma per nulla meritevole di una tale considerazione, in quanto cattivo storico e ingenuo moralista>, è ormai acclarato che Rée abbia giocato un forte ruolo di mediazione nell'adozione, da parte di Niet7..sche, dei nuovi paradigmi scientifici e naturalistici. Giovane aperto, curioso, appassionato, formatosi a Lipsia e a Berlino, fiori all'occhiello delle scienze sperimentali (Rée partecipò senzaltro all'atmosfera del laboratorio che fu del grande fisiologo renano Johannes Miiller, poi passato a Karl Reichert e a Emil Du Bois-Reymond, e che rappresentava una autentica centrale di energia intellettuale nell'Europa della metà del secolo), Rée aveva assunto, nella sua opera, il punto di vista evolutivo come imprescindibile. Fin dalla premessa, infatti, leggiamo: I fenomeni morali vengono spesso considerati come qualcosa che risiede oltre i sensi - come la voce di Dio, come dicono i

3. P. Rée, Der Ursprung der mora/,ischen Empfindungen, Schmeitzner, Chemnitz 1877.

4. EH, Umano~ troppo umano. Con due continuazioni, 6. 5. Si veda anche GM, Prefazione.

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teologi. Lo stesso Kant[ ... ], nonostante tutto, ha visto nella coscienza morale qualcosa di trascendente, una rivelazione, per cos} dire, del mondo trascendente. A dire il vero, prima che apparisse la teoria delrevoluzione, molti di questi fenomeni non potevano venir spiegati attraverso cause immanenti, e certo una spiegazione trascendente è sempre più soddisfacente - di nessuna spiegazione. Ma oggi, dopo che Lamarck e Darwin hanno scritto le loro opere, i fenomeni morali possono essere ricondotti alle loro cause naturali tanto quanto i fenomeni fisici: ruomo morale non è più vicino al mondo intelligibile dell,uomo fìsico. 6

Quest'ultima asserzione, che colpisce tanto Nietzsche dariproporla in Umano, troppo umano, perfino in Ecce homo (in questo caso, tuttavia, attribuendola a se stesso )7, rappresenta una vera novità paradigmatica: l'uomo, considerato dal suo lato morale, non differisce affatto ontologicamente dall'uomo organico, fisico, naturale; il primo è espressione del secondo, e il compito del moralista diventa allora quello di comprendere come queste due dimensioni, in apparenza tanto distanti, possano trovare conciliazione nella nostra storia evolutiva8 • Richiamarsi a Darwin per rischiarare il passato morale dell'uomo è operazione temeraria. Nonostante D'origine delle specie avesse conosciuto in Europa una traduzione e una diffusione quasi immediate9, la sua lettura in senso radicale, materialista e antireligioso lo rendeva inviso tanto al sapere accademico

6. P. Rée, Der Ursprong dermoralischen Empfindungen, cit., pp. VII-VIII.

7. Cfr. MA 37; EH, Umano, troppo umano. Con due continuazioni, 6. 8. «[ ... ] le cattive, illogiche abitudini, che rintelletto eredita fin dalla nascita, hanno aperto tutto queU'abisso tra cosa in sé e apparenza: questo abis-

so sussiste solo in quanto sussistono il nostro intelletto e i suoi errori» (NF 1876 23[ 125]).

9. Cfr. A. Kelly, The Descent ofDarwin. The Popularization ofDarwinism in Germany:, 1860-1914, University ofNorth Carolina Press, Chapel Hill 1981.

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che al senso comune. Lo stesso Rée dovette pagarne lo scotto, osteggiato dall'ambiente universitario che, a causa del suo libro «che si fonda sull'evoluzione darwiniana dell'uomo dalla scimmia» 10, non lo accolse mai tra le sue fila, considerando le sue ipotesi poco meno che immorali. Per Nietzsche, invece, la sentenza di questo «ardito e freddo pensatore», che pone tra l'uomo morale e l'uomo fisico soltanto una distinzione di grado, è destinata a «recidere alla radice il bisogno metafisico degli uomini», temprata sotto i colpi di martello della ormai non più eludibile conoscenza storica11 • La filosofia storica cosl intesa, dunque, «non è più affatto pensabile separata dalle scienze naturali»: sarà compito della fisiologia e della storia dell'evoluzione degli organismi spiegare lo iato tra la nostra immagine del mondo - frutto di errori sensibili e concettuali - e la concezione della sua presunta essenza razionale, mentre una «storia della genesi del pensiero» renderà vana ogni interpretazione metafisica12 • Ciò che Nietzsche ritiene ormai prossimo a venire è un ribaltamento della gerarchia tra l'alto e il basso: «non appena la valutazione delle verità non appariscenti e lo spirito scientifico cominceranno a dominare», si affermerà finalmente una cultura delle "cose prossime" e l'abbandono degli errori letificanti e abbaglianti che hanno costituito, fin qui, ciò che tradizionalmente si è chiamata verità 13• Anche per l'uomo morale, dunque, non esiste più una realtà extramondana o sovra-mondana nella quale collocarsi: l'unica sua appartenenza è ali'ambito naturale, dove lo si può idealmente osservare alle prese con le proprie origini. 10. Così Réein unaletteraaOverbeckdel l0febbraio 1877 (F. NietzscheL. von Salomé - P. Rée, Triangolo di lettere, ed. it. a cura di M. Carpitella, Adelphi, Milano 1999, p. 16). 11. Cfr. MA 31. 12. Cfr. MA 1, 10, 18. 13. Cfr. MA 3.

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Torniamo allora a Rée e al suo programma di indagine, che condivide con l'amato Helvétius 14: Come il geologo prima cerca e descrive le diverse formazioni, e in seguito si interroga sulle cause attraverso le quali hanno avuto origine, allo stesso modo l'autore ha qui raccolto i fenomeni morali nell'esperien7..a e, nella misura in cui ne è stato capace, ha seguito la storia della loro genesi. 15

Il riferimento al geologo non è casuale, se è vero che la geologia, e ancor più la paleontologia stratigrafica, da qualche anno avevano reso familiare l'idea di uno sviluppo lineare e progressivo degli organismi, rintracciabile attraverso lo studio delle loro vestigia 16• Il mondo del cosiddetto spirito non fa eccezione: sulla scorta del darwiniano Rée, Umano, troppo umano vede Niet7.sche confrontarsi massivamente, per la prima volta, con l'idea che i fenomeni morali possano venire classificati e disposti in un ordine ininterrotto di evoluzione (sarà proprio questa ricostruzione lineare che Nietzsche sconfesserà, una volta che il suo metodo genealogico sarà giunto a piena maturazione) 17• Per quanto riguarda i risultati dell'indagine, Nietzsche e Rée sembrano concordare qui su una genesi utilitaria del concetto di buono: buono è ciò che in origine si è dimostrato utile per il gruppo, per la tribù o per la specie. Lo attesta Darwin,

14. «Sono risalito alle cause muovendo dai fatti. Ho creduto di dover trattare la morale come tutte le altre scienze, e costruire una morale come una fisica sperimentale» (C.-A. Helvétius, De l"esprit, Durand, Paris 1758, voi. I, Préface, pp. 1-11). 15. P. Rée, Der Urspnmg dermoralischen Empfindungen, cit., Von.oort. 16. Lo stesso Darwin, nella sua biografia, asseriva di esser certo di poter far luce sulla variazione degli animali e delle piante se solo avesse lavorato come aveva fatto Lyell nel campo della geologia, cioè raccogliendo tutti i fatti che vi avessero avuto relazione. 17. Cfr. GM, Prefazione.

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lo attestano gli antropologi, come John Lubbock e Edward Burnett Tylor - che Nietzsche conosce e frequenta 18 - , che vedono un parallelismo tra le cosiddette "culture primitive" e il nostro stato originario: Lo studio delle razze umane in uno stadio di civiltà poco avan-

7.ato offre da molti punti di vista un grande interesse [ ... ]. Infatti la condizione sociale, i costumi e le abitudini dei popoli ancora selvaggi ricordano per molti aspetti, sebbene non assolutamente, quelli dei nostri avi in un'epoca molto lontana. Spiegano, nelle nostre società moderne, molti costumi che non hanno alcun rapporto col nostro stato sociale attuale; spiegano anche alcune idee che sono, per cos} dire, impresse nelle nostre menti come i fossili sono impressi nella roccia; e finalmente possiamo, grazie al paragone, sollevare in qualche modo un poco del fitto velo che separa il presente dall'avvenire. 10

Ipotizzare le condizioni primitive, oppure osseIVare più da vicino gli odierni ''selvaW", ci pennette di decifrare ciò che oW sarebbe altrimenti incomprensibile. Qualcosa che si affenna in un certo tempo sopravvive infatti in mutate circostanze successive e si può rintracciare nell'attualità: è ciò per il quale Tylor introduce il termine «sopravvivenza>> («survival», citato da Nietzsche in lingua originale due volte e nella sua traduzione tedesca «Oberbleibseln»20). La stessa religione cristiana è

18. Nietzsche aveva consultato la traduzione tedesca di Primitive Culture (1871) di E.B. Tylor (DieAnfonge derCultur, C.F. Winter'sche Verlagshandlung, Leipzig 1873) presso la bibliotecadell'U niversità di Basilea nel giugno 1875. La traduzione tedesca di The Origin ofCivilization and the Primitive Condition of Man (1870) di J. Lubbock (Vie Entstehung der Civilisationund der Urmstand des Menschengeschlechtes, Costenoble, Jena 1875) si trova invece tutt'ora conservata nella sua biblioteca personale. 19. J. Lubbock, Die Entstehung de,- Civilisation, cit., Einleitung, p. 1 (corsivo mio). 20. Rispettivamente,NF 1877 24[2] e MA64; NF 1875-18765[164],]GB52.

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un'antichità emergente daepoche remotissime, epoche di fede in fenomeni magici, sacrifici di sangue, terrore superstizioso di tribunali demoniaci, sconforto di sé, meditazioni estatiche, allucinazioni, e cosl via, come attestano diversi luoghi di Umano, troppoumano 21 • Del resto, come scrive Niet7.sche in un appunto del periodo, oggi non basta più l'introspezione morale per imparare a conoscere i complicati motivi delle azioni: sono necessarie anche la storia e la conoscenza delle popolazioni arretrate (zuruckgebliebenen Volkerschaften), nelle quali si rispecchia tutta quanta la storia dell'umanità e si trovano intrecciati tutti i nostri grandi errori e le nostre errate rappresentazioni22• La storia primitiva testimonia spesso, tuttavia, di atti gratuiti, che non trovano alcuna ragione nelI'utilità, cosl come accade per i cerimoniali o per i comportamenti superstiziosi: un osservatorio privilegiato per indagare l'origine e la storia dei nostri sentimenti morali sembra allora il rapporto col costume (Sitte), owero «il modo tradizionale di agire e di valutare». Confortato anche in questo caso da diverse letture etnografiche e constatato il peso, neIIa nostra storia, di un' «autorità superiore alla quale si presta obbedienza non perché comanda quel che ci è utile, ma soltanto perché ce Io comanda»Z1, la cui esistenza serve a fidelizzarci in qualche modo con la legge, civile e morale, Nietzsche conclude che la morale della pietas debba essere molto più antica di quella che esige azioni altruistiche24:

21. «Videa di un Dio inquieta e avvilisce finché la si crede, ma come essa sia nata, su ciò nelt'attuale stato dell"etno'logia comparata non può più sussistere alcun dubbio; e quando ci si rende conto di questo nascere, quella fede svanisce» (MA 133; corsivo mio). Si vedano anche MA 5, 12 e 13.

22. Cfr. NF 1876-187723[48]. 23. M 9. Cfr. anche M 19. 24. «"Egoistico" e "altruistico" non sono la principale coppia di contrari che ha portato gli uomini alla distinzione di morale e immorale, bene e male, bensì: l"esser legati a una tradizione, a una legge, e il separarsi da essa. Come

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alla base di questa subordinazione, un"emozione violenta alla quale l"uomo dei primordi è sottoposto, la paura, che viene indicata significativamente da Nietzsche come la base naturale della morale primitiva. L"inedita lettura storico-antropologica nietzscheana riporta dunque all"animalità la nostra sfera morale 25 • Non nel senso di una comunità simpatetica, spinta alla moralità da un naturale istinto sociale (era questa l"ipotesi di Darwin ne L"origine dell"uomo )26, ma di un animale-uomo tenuto a bada dal timore superstizioso affinché la sua singolarità eccentrica non rappresenti un danno per se stesso e per il gruppo sociale. «Un costume qualsiasi è meglio dell"assenza di costumi» 27, giudica lapidariamente Nietzsche: essere costumato significa infatti essere accessibile in alto grado alla paura, dalla forza coesiva della quale ogni comunità è tenuta in vita.

3. La moral,e al, seroizio degli impulsi Questo insistere sulle disposizioni ali"obbedienza e soprattutto sul timore superstizioso di un"autorità superiore viene in gran parte da Herbert Spencer: molti aforismi di Aurora sono stati ispirati da un dialogo ideale che Niet7.sche ha tenuto con The la tradizione siasorla qui non interessa; in ogni caso, essa non è nata avendo riguardo al bene e al male, o a qualche imperativo categorico immanente ... » (MA 96).

25. Cfr. ad es. M 23, 24, 26. 26. «Il sentimento del piacere derivante dalla società è probabilmente una estensione delraffetto parentale e filiale; e questa estensione può venire attribuita in parte alr abitudine, ma in gran parte alla selezione naturale» (Ch. Datwin, Vorigine delr-uomo (1871], tr. it. di M. Lessona, a cura di B. Chiarelli, Rizzoli, Milano 1982, p. 104). 27. M 16.

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Date of Ethics (1879), un testo che ancora oggi si conserva nella sua biblioteca con numerose tracce di lettura28 • Nietzsche ne ricava molti spunti interessanti, primo fra tutti l'idea che la morale abbia la sua origine nel mondo degli impulsi (Triebe), che non hanno una finalità precostituita se non il ''desiderio" di essere appagati20 • Pur non concordando con Spencer, e in generale con l'evoluzionismo di marca spenceriana, sul fatto che si possa individuare un "fine buono" come quello che l'inglese vede nella promozione della vita mediante un sempre maggior adattamento di organi e funzioni all"ambiente esterno30, è evidente che l'insistenza sui Triebe proposta dal naturalismo morale (sebbene enfatizzando erroneamente il primato dell'istinto altruista) apre a Nietzsche un nuovo campo di indagine. Ecco che, allora, il filosofo è disposto a correggere la sua stessa ipotesi, avanzata nel libro per spiriti liberi:

r

L'essenziale non sono i motivi dimenticati e abitudine a movimenti determinati, come in passato [friiher] supponevo. Bensl gli istinti, che non hanno uno scopo [die zwecklosen Triebe] di piacere e dispiacere.31 Io vi propongo un modello: se vi affascina, dovrete imitarlo. Non i fini, bensl l'appagamento di un istinto [Trieb] già esi-

28. H. Spencer, Die Thatsachen der Ethik, E. Schweizerbart'sche Verlagshandlung (E. Koch), Stuttgart 1879. 29. Mi permetto su questo di rimandare al mio La morale evolutiva del gregge. Nietzsche legge Spencer e Mill, ETS, Pisa 2006, ma anche a G. Moore, Nietzsche, Spencer, and the Ethics ofEoolution, in «The Journal of Nietzsche Studies>>, n. 23, 2002, pp. 1-20. 30. «Tutti i moralisti hanno valutazioni in comune a proposito del bene e del male, perché seguono istinti di simpatia ed egoismo. lo trovo buono ciò che serve a un fine, ma il "fine buono" è un'assurdità. Infatti si dice dovunque "buono a che cosa?". Buono è sempre nient'altro che un'espressione per un mezzo. Lo "scopo buono" è un mezzo buono per uno scopo» (NF 18791881 6[75]). 31. NF 1879-1881 6[366].

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stente ci costringe a questa o quella morale. Non la ragione! se non al servizio di un istinto.32

Nietzsche non abbandonerà più questo aggancio del mondo morale allo stato fisiologico: "buono" e "giusto" diventeranno ciò che è stato dettato dall~impulso più forte e a cui l'intelletto è stato sedotto; ogni grande fìlosofìa non sarà altro che «una specie di non volute e inawertite mérnoires del suo autore»3.1; ogni produzione - fìlosofìca, artistica, morale - dovrà essere letta come il segno (Zeichen) o il sintomo (Symptom) della forma di vita che la propone. La dottrina della volontà di potenza si inserirà coerentemente in questa prospettiva. Ancora nel 1884, Niet7.sche scriverà: Tutte le valutazioni sono risultati di determinate quantità di energia e del grado di consapevolezza di ciò: sono le leggi prospettivistiche corrispondenti di volta in volta all'essenza di un uomo o di un popolo - ciò che è vicino, importante, necessario e così via. Tutti gli istinti umani, come tutti quelli animali, sono stati elaborati in certe circostanze e messi in primo piano come condizioni di esistenza. Gli istinti [Triebe] sono gli effetti postumi di valutazioni da lungo tempo nutrite, che adesso agiscono in modo istintivo come un sistema di giudizi di piacere e sofferenza. Dapprima costri-

32. NF 1879-1881 6[108]. 33. «[ ... ] io non credo che un "istinto di conoscen7.a» [Trieb zur Erkenntnis] sia il padre dellafìlosofia, ma che piuttosto un altro istinto [ein andrer Trieb], in questo come in altri casi, si sia setvito della conoscen7.a (e delia errata conoscen7.a) soltanto a guisa di uno strumento. Ma chi considera i fondamentali istinti umani, per vedere fino a che punto proprio essi possano qui essere entrati in giuoco come geni ispiratori (oppure demoni e coboldi), si accorgerà che certamente una volta essi hanno tutti praticato la filosofia - e che ognuno di questi, nelia sua singolarità, sarebbe disposto anche troppo volentieri a presentare precisamente se stesso come rultimo fine delresisten7.a e come il più legittimo signore di tutti gli altri istinti. Ogni istinto infatti è bramoso di dominio: e come tale cerca di filosofare» (JGB 6).

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zione, poi abitudine, poi bisogno, poi inclinazione naturale (istinto ).34

La prospettiva di Rée, Spencer e affini, dalla quale risulta una valutazione unilaterale di determinati affetti3.'>, denuncia allora una particolare conformazione pulsionale: quella ''gregaria'', nella quale a dominare è ancora una volta la paura, cattiva consigliera delle loro scelte assiologiche. Ma questo significa la fine di ogni credibilità di questo genere di moralisti, che pongono come risultato della loro indagine ciò che il loro istinto, svilito e decadente, desidera trovare16• Questa operazione è viziata e manca di storicità: difetto che Nietzsche imputerà sempre a quel tipo di dotti, incapaci di percorrere la complessa e vasta regione che si chiama morale; e se costoro - come aveva dichiarato Rée di se stesso - sono geologi delle conformazioni attuali, Niet7.sche awerte che il passato morale dell'uomo è piuttosto una pergamena, raschiata e più volte riscritta (per riprendere una nota immagine di Michel Foucault)37, che non si accontenta della descrizione, ma vuol essere finemente interpretata. 34. NF 1884 25(460]. 35. «Esiste oggi una dottrina morale, fondamentalmente errata, che è molto celebrata, segnatamente in Inghilterra: stando ad essa i giudizi "buono" e "cattivo" sono la collezione delle esperienze su ciò che è "adeguato al fine" e "inadeguato al fine"; stando ad essa ciò che chiamiamo buono è ciò che conserva la specie, cattivo ciò che la danneggia. Ma in verità i cattivi istinti sonoadeguati al fine, utili alla conservazionedella specie e indispensabili allo stesso grado in cui lo sono i buoni: soltanto la loro funzione è diversa» (FW 4). 36. «Il valore delraltruismo non è il risultato della scien7.a; ma, dalfistinto oggi predominante Uetzt vorherrschenden Trieb], gli uomini di scien7.a si lasciano indurre a credere che la scienm confermi il desiderio del loro istinto (cfr. Spencer)» (NF 1879-1881 8[35]). Cfr. anche NF 1881 11(98]; GD, Scorribande di un inattuale, 31. 37. Celeberrimo, su questa distinzione metcxlologica, lo scritto di M. Foucault, Nietzsche, La généalogie, l histoire, in S. Bachelard et al., Hommage à Jean Hyppolite, PUF, Paris 1971, pp. 145-172; tr. it. di G. Procacci e P. Pa11

Se volessimo rintracciare un ulteriore elemento di cambiamento sopravvenuto con }"indagine nietzscheana, segnalerei dunque questo atteggiamento prudenziale: nessuna morale può sottrarsi all"indagine circa la propria provenienza (Herkunft) e, una volta ben esercitata l"osseivazione psicologica38, troveremo che a parlare dietro ogni assetto valoriale sono davvero le leggi prospettiche di un uomo o di un"intera epoca.

4. Un"occhiata al,l"oggi Mi permetto di concludere con un brevissimo rimando alle teorie contemporanee, nelle quali si indicano - ancora una volta - come ''naturali" atteggiamenti di altruismo, di spontanea cooperazione e di socialità39• Certamente, molto è cambiato con l"aiuto della tecnologia, in particolare con le tecniche di brain imaging: non possiamo negare che determinate aree cerebrali si attivino in presenza dei conspecifici (basti pensare alla nota teoria dei mirror-neurons) o che certi dilemmi morali vengano risolti prediligendo statisticamente un esito piuttosto che il suo opposto. Ma dire, con ciò, che siamo buoni "per natura" - come sembra suggerire numerosa letteratura sul tema - significa, in termini niet7.scheani, passare dalla ricerca delle condizioni biologiche e fisiologiche di una capacità morale umana (affascinante oggetto di indagine della neurosquino, Nietzsche, la genealngia, la storia, in M. Foucault, Microfisica del potere. lnteroenti politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, pp. 29-54. 38. Cfr. MA 35. 39. Cfr. ad es. il testo molto conosciuto di M.D. Hauser, Moral Minds. How Nature Designed Our Universal Sense of Rightand Wrong, Ecco Press, New York 2006; tr. it. di A. Pedeferri, Menti morali. Le origini naturali. del bene e del male, il Saggiatore, Milano 2007.

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biologia del comportamento morale) al tentativo di ratifica di un determinato sistema morale 40• La petizione di principio non sfugge a Paul Ricoeur, il quale, in dialogo con Pierre Changeux su questi temi, si chiede se, oggi, «è ancora una volta sotto l"egida di uno sguardo retrospettivo il quale parte dalla moralità che supponiamo costituita, che mettiamo in evidenza i tratti di comportamento che anticipano la moralità»41 • Non troppo distante da ciò che Nietzsche rimproverava ai suoi contemporanei: segno di quanto, del disincantato sguardo nietzscheano, o quantomeno del suo invito alla prudenza, ci sia ancora bisogno.

40. Si passa, cioè, dal fatto che la capacità morale è un risultato dell'evoluzione, ed è biologicamente vincolata, alla tesi che allora la morale, intesa quale sistema di detenninati valori e giudizi, sia biologicamente fondata o fondabile. 41. J.-P. Changeux- P. Ricoeur, La nature et le règle (1998); tr. it. di M. Basile, La natura e la regola. Alle radi.ci del pensiero, Cortina, Milano 1999, p. 190. O ancora: «Tutti i problemi relativi alla disposizione naturale alla moralità sono problemi retrospettivi, in cui il dato normativo cerca anticipazione del suo passato» (ivi, p. 182).

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Quid est veritas? Statuto ambiguo di una nozione nel pensiero di Nietzsche Carlo Gentili

Il tema della verità è certamente uno dei più vasti tra quelli trattati da Nietzsche. Si può dire che l'intero suo pensiero potrebbe essere raccolto sotto questo titolo•. Per poter esaminare questo argomento entro limiti ragionevoli, si è assunta come guida la domanda che affiora come un torrente carsico nei suoi scritti -Quid est veritas? -, di cui si cercherà di mettere in eviden7.a il significato che, a seconda del contesto, essa vi assume.

1. La domanda di Pilato Il luogo originario in cui la domanda è posta è, com"è noto, il Vangelo di Giovanni: «Gli disse allora Pilato: "Dunque, sei tu re?"". Rispose Gesù: 'Tu dici bene che sono re. Io per que1. Una delle trattazioni più complete sulrargomento è il libro di J. Granier, Leproblème de la-vérité dans la philosophie de Nietzsche, Seuil, Paris 1966, in cui la questione è esaminata sullo sfondo di tutta la tradizione metafisica occidentale, del razionalismo scientifico, dell'idealismo tedesco, ecc.; un libro che è anche airorigine di molte delle immediatamente successive interpretazioni della filosofia di Nietzsche in ambito francese.

32 sto sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce"". Gli dice Pilato: "Che cosa è la verità?"» (Go 18,3738) - Quid est veritas?, secondo la traduzione latina della Vulgata. Occorre soffermarsi, in primo luogo,. sulla traduzione italiana della domanda. Se si chiede, infatti, "che cosa è la verità?"", si chiede - o, per lo meno, si dà ]"impressione di chiedere - una definizione dell"essen7.a della verità. Se si chiede, invece, "che cosa è verità?" (senza far precedere il sostantivo dall'articolo determinativo), la domanda assume un senso lievemente diverso; quasi Pilato chiedesse a Gesù di cosa sia possibile predicare la verità: "che cosa possiamo definire come vero?"". In questo secondo caso, la domanda assume manifestamente una tonalità scettica. Ciò detto, va sottolineato che la traduzione latina non poteva essere ovviamente diversa da Quid est veritas?, dal momento che la lingua latina non contempla l'uso dell"articolo determinativo. Nell"originale greco la domanda suona: Ti s>; perché ogni essere vivente si consetvi occorre piuttosto «l'inclinazione opposta: affermare piuttosto che sospendere il giudizio, errare e inventare piuttosto che attendere, assentire piuttosto che negare» (FW ll 1, KSA 3,472; si cita dall'edizione italiana a cura di C. Gentili: F. Nietzsche, La gaia scienza, Einaudi, Torino 2015, p. 129, d'ora in avanti indicata con la sigla GS seguita dal numero di pagina).

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re è quello denunciato da Hegel, il quale definisce la «coscienza scettica» quell' «inconsapevole vaneggiamento che consiste nell'oscillare da un estremo all'altro: dal]'autocoscienza uguale a se stessa alla coscienza accidentale». In questa oscillazione, essa passa dal dubitare delle apparenze - attraverso le quali soltanto, però, la realtà può darsi a noi - all'accogliere, paradossalmente, quelle stesse apparenze come realtà ultima: la coscienza scettica «va enunciando la nullità del vedere, dell'udire, e via di seguito, eppure essa stessa vede, ode ecceteTa>> 11 • Tenendo presente questa insidia anche da Niet7~che awertita nella scepsi, possiamo awicinarci alla genuina interpretazione che egli dà della questione della verità; vale a dire, l'enunciazione di una verità dev'essere posta in relazione al contesto nel quale essa è utiliz7.ata. Non esiste una verità generale, tanto meno esiste una verità assoluta, ma possono tuttavia esistere delle verità, il cui contenuto è pertanto di natura pragmatica e si misura con le esigenze che il contesto presenta. Niet7.Sche illustra questo concetto in maniera curiosa, costruendo un dialogo tra Schwarzert (Melantone) e Lutero in un aforisma del Viandante e la sua ombra (1879/1880) che reca nuovamente, come titolo, il nostro Was ist Wahrheit?: Schwarz.ert (Melantone): «Spesso si predica la propria fede proprio quando la si è perduta e la si cerca per tutte le stra-

de, - e non la si predica allora nel modo più cattivo!». - Lutero: «Tu dici oggi il vero come un angelo, fratello!». - Schwarzert: «Ma è il pensiero dei tuoi nemici, ed essi lo applicano a te». - Lutero: «Allora era una menzogna uscita dal sedere del diavolo». 12

11. G.W.F. Hegel, Phiinomenologie des Geistes, a cura di H.-F. w~ls e H. Clainnont, con una intr. di W. Bonsiepen, Meiner, Hamburg 2011, p. 143; tr. it. di G. Gare1li, Fenomenologia dello s,>irito, Einaudi, Torino 2008, p. 143.

12. WS 66, KSA 2, 581 s.; OFN, IV/III, 169.

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Al di là dell'abituale invettiva contro Lutero, ricorrente in Nietzsche, vediamo qui comparire l'alternativa alla verità: la menzogna. Verità e menzogna, tuttavia, si scambiano di ruolo a seconda del contesto. Quel che Lutero, nella prima risposta a Melantone, aveva giudicato una verità - detta addirittura da un angelo - diventa ora menzogna in quanto attribuita ai nemici di Lutero stesso. Verità e menzogna sono, dunque, concetti relativi. In questo relativismo può annidarsi, secondo i critici dello scetticismo, l'ulteriore rischio di ogni posizione scettica; quello, cioè, di far scadere la dialettica filosofica a mera chiacchiera. È Hegel, ancora una volta, a denunciare il fatto che la «chiacchiera>> (Gerede) della coscienza scettica è «un litigio fra ragazzi ostinati, l'uno dei quali dice A quando l'altro dice B, per poi dire B quando l'altro dice A; ciascuno di loro- a prezzo della contraddizione con se stesso - si guadagna la soddisfa7lone di rimanere in contraddizione con l'al,tro» 13•

3. Nietzsche e la scepsi antica Se vogliamo parlare a ragion veduta di una componente scettica del pensiero di Nietzsche, dobbiamo quindi pensare che egli porti la scepsi a un livello talmente radicale da superare il vacuo palleggiamento di opinioni e contro-opinioni, enunciazioni e contro-enunciazioni, denunciato da Hegel. Per arrivare a tanto, tuttavia, dobbiamo prendere atto che lo scetticismo, fin dal modo in cui l'aveva concepito l'antichità, si prendeva del tutto consapevolmente un tale rischio; e che la via per esorcizzarlo era di natura essenzialmente pragmatica. Se ci riferiamo a un autore che Nietzsche conosceva molto bene fin dagli anni della sua formazione di filologo, Diogene Laer-

13. Ibidem.

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zio 14, leggiamo che questi pone in generale gli scettici sotto una premessa che ci è utile anche per chiarire il senso dello scetticismo nietzscheano in ordine, precisamente, al senso della verità: essi «sono detti Zetetici o ricercatori perché ricercano sempre e soprattutto la verità, sono detti Scettici o indagatori perché indagano e non trovano mai» (IX, 70). Lo scettico cerca dunque la verità nella consapevolezza di non trovarla mai; e, semmai trovasse qualcosa che a'PPare come verità, non sarà tuttavia, perciò stesso, la verità. Poche pagine avanti Diogene si era soffermato sulla figura principale dello scetticismo antico: quel Pirrone di Elide dal cui nome deriva il termine pirronismo, col quale si suole indicare una forma di scepsi particolarmente radicale. Pirrone infatti, riferisce Diogene (IX, 61), «applicava a tutte le cose il principio che nulla esiste in verità e sosteneva che tutto ciò che gli uomini fanno accade per convenzione e per abitudine, e che ogni cosa non è più questo che quello». Tutto è quindi uguale nella misura in cui nulla è. Diogene riporta tuttavia, subito dopo, le parole di Enesidemo, altro filosofo scettico, il quale riferiva che, «nella filosofia», Pirrone «applicava il principio della sospensione del giudizio, ma che nella vita quotidiana si comportava con cautela e preveggenza» (IX, 62). Pur attenendosi quindi, nella teoresi, all''impossibilità di prendere una qualunque decisione, nella vita ordinaria Pirrone non poteva prescindere dal seguire un qualche criterio pragmatico. Le parole riferite da Diogene sono probabilmente alla base dell'osservazione che si legge nel libro di Victor Brochard, Les sceptiques grecs, pubblicato nel 1887: «Pyrrhon n'attend rien,

14. Ancor prima di laurearsi Nietzsche aveva pubblicato su due numeri della rivista «Rheinisches Museum», rispettivamente nel 1868 e nel 1869, un importante studio sull"autore della tarda grecità; cfr. F. Nietzsche, De Laertii Diogenisfontibus, ora in KGWll/1, 77-167.

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n>espère rien, ne croit à rien: pourtant il vit comme ceux qui croient et espèrent. Il n>est soutenu par rient et il se tient debout» 15. Nietzsche legge questo libro nel 188816• È dopo questa data, infatti, che il nome di Pirrone ricorre con particolare insistenza nei suoi scritti e nelle sue annotazioni, nelle quali appare prevalentemente come un "nichilista» dell>antichità. Prima del 1888, se si esclude qualche fugace riferimento nei lavori filologici, il nome di Pirrone compare una sola volta negli scritti di Nietzsche. È quindi inevitabile dedurne che la sua fonte non possa essere, in questo caso, che Diogene Laerzio 17• Si tratta dell>aforisma del Viandante e la sua ombra intitolato Il fanatico della diffidenza e la sua garanzia. Benché non ci si trovi, qui, di fronte a un riferimento rigoroso dal punto di vista 6.lologico18, il contenuto di pensiero delJ>aforisma è di assoluto rilievo e originalità19 •

15. V. Brochard, Les sceptiques grecs, Imprimerle Nationale, Paris 1887,

p.73. 16. Il libro cli Brochard è tuttora conseivato nella biblioteca cli Nietzsche a Weimar; cfr. G. Campioni - P. D•lorio - M.C. Fornari - F. Fronterotta A. Orsucci (a cura cli), Nietzsches personliche Biblwthek, de Gruyter, BerlinNew York 2003, p. 154. 17. Jessica Beny documenta come, già dal 1872, Nietzsche avesse lavorato con particolare intensità sul libro IX delle Vite, in cui Diogene si sofferma su Pirrone cli Elide e sul suo immediato seguace 1ìmone cli Fliunte; cfr. J.N. Beny, Nietzsche and the Ancient Skeptical Tradition, Oxford University Press, Oxford-New York 2011, p. 26. 18. Secondo A. U. Sommer, Nihilism and Skepticism in Nietzsche, in K. Ansell Pearson (acuracli),A Companion toNietzsche, Wiley-Blackwell, Chichester 2009, pp. 250-269: p. 260, il personaggio di Pirrone qui tratteggiato «has nothing in common with the historic figure of Pyrrho of Elis». Della stessa opinione è C. Zittel, Der Dialog als phùosophische Fonn bei Nietzsche, in «Nietzsche-Stuclien», voi. 45, n. 1, 2016, pp. 81-112: p. 102. 19. Cfr. E. Miiller, Die Griechen im DenkenNietzsches, de Gruyter, BerlinNew York 2005, p. 180, nota 433, per il quale raforisma rappresenta «una summa della prima concezione nietzscheana della scepsi».

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Nietzsche immagina un dialogo - costruito sul modello dei Dialoghi dei, nwrti di Luciano di Samosata e dei Dialogues des nwrts di Bernard de Fontenelle20 - tra un vecchio e Pirrone: «Rizzatevi contro la verità - dichiara Pirrone - per nausea di colui che ne è il propugnatore»; ossia di lui stesso: tanto più gli uomini «diffideranno della verità, se essa passa per la mia bocca». A questo punto chiede il vecchio: «Vuoi dunque insegnare la diffidenza verso la verità?»; e Pirrone: «La diffidenza verso tutto e tutti. È la sola via che porta alla verità». «Per decine d'anni - prosegue - dovrete inghiottire le menzogne a manciate per non morir di fame, nonostante sappiate che sono menzogne»; verrà, però, il «giorno del raccolto», dopo che «quei grani verranno seminati»21 ; questo, tuttavia, nessuno può prometterlo, «a meno che non sia un fanatico»; ma le tue parole, obietta il vecchio, sono proprio «quelle di un fanatico!»; hai ragione, conclude Pirrone: occorre essere diffidenti anche verso le parole; e allora, commenta il vecchio, «dovrai tacere»; non solo, replica Pirrone, ma dirò agli uomini «che essi devono diffidare del mio silenzio». «Ti ritiri dunque dalla tua impresa?», chiede il vecchio; al contrario, risponde Pirrone: «Mi hai or ora mostrato la porta per la quale devo passare»22 • A questo punto il vecchio costringe Pirrone alla conclusione: - Il vecchio: Io non so -: ci comprendiamo ancora appieno? - Pirrone: Probabilmente no. - Il vecchio: Purché tu comprenda appieno te stesso! - Pirrone si gira e ride. - Il vecchio:

20. L'opera.di Fontenelle èinfatti citata nell'aforisma immediatamente successivo: Libri europei; cfr. WS 214, KSA 2, 646 s.; OFN, IV/III, 221 s. 21. Evidente è l'allusione alla parabola in cui Gesù, nei tre Vangeli sinottici, paragona il regno di Dio a un granello di senape; cfr. Mt 13,31-32; Mc4,3032; Le 13, 18-19. 22. Nuovo riferimento ai Vangeli; cfr. Mt 7,14: «Quanto stretta è la porta ed angusta la via che conduce alla vita, e come sono pochi quelli che la trovano!»; e Le 13,24: «Sforzatevi di entrare per la porta angusta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrare e non potranno».

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Oh amico! Tacere e ridere- è ora questa tutta la tua filosofia? -Pirrone: Non sarebbe poi la più cattiva [die schl.echteste ].23

È stato giustamente osservato che, con questo aforisma, Nietzsche anticipa il concetto di una gaya scienza24 • Una scienza dev'essere necessariamente frohl,ich nel momento in cui prende atto che non può darsi alcuna conoscenza dell'assoluto, di una verità incondizionata. Nell>aforisma che apre la Gaia scienza Nietzsche mette in relazione questa scienza direttamente con il riso: «Ridere di se stessi, come si dovrebbe ridere per ridere a partire dalla verità nel suo oomplesso [aus der ganzen Wahrheit heraus]». In questo modo «il riso si sarà forse unito alla saggezza, allora soltanto ci sarà forse ancora "gaia scienza"»ci."'.

4. Scetticismo kantiano Una domanda come "che cos'è (la) verità?" fa naturalmente parte del corredo d'ordinanza di qualunque filosofo. Anche Kant, infatti, se la pone e, per quanto la formula7Jone da lui usata riprenda alla lettera il Was ist Wahrheit? di Lutero, non è obbligatorio pensare che si riferisca specificamente alla domanda di Pilato. Circostanza che in ogni caso, data la formazione protestante, con sfumature pietistiche, di Kant, non può nemmeno essere completamente esclusa, considerando che una diretta e profonda conoscenza delle Scritture era tra

23. WS213, KSA 2, 645s.; OFN, IV/III, 220s. 24. Cfr. A.C. Bertino, Nietzsche und die hellenistische Philosophie. Der Obermensch und der Weise, in «Nietzsche-Studien», voi. 36, 2007, pp. 95130: p. 128: di fatto, «Nietzsche attribuisce a Pirrone la capacità di inaugurare il futuro di una gaia scienza». 25. FW 1, KSA 3, 370; GS, 30 s.

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le premesse della Riforma. Nella Dottrina trascendentale degli e"lemniti della Critica della ragion pura Kant ossetva: L'antica e famosa domanda, con cui si credeva di mettere i logici con le spalle al muro, cercando di portarli di fronte all'alternativa per cui o dovessero farsi cogliere in un circolo vizioso, o dovessero ammettere la propria ignoran7.a, e dunque la vanità di tutta la loro arte, è la domanda: che cos'è la verità? [Was ist Wahrheit?]. (A 58)21>

Di fronte a una tale domanda occorre dare «per acquisita e presupposta» la «definizione nominale [Namenerkliirung] di verità», ossia «l'accordo della conoscenza con il suo oggetto»; tuttavia, al di là di ciò, quel che si tratta piuttosto di sapere è «quale sia il criterio generale e sicuro della verità di una qualsiasi conoscenza>> 27 • Ora, se la verità è ]"accordo della conoscenza con ]"oggetto, è anche vero che ogni oggetto è sempre distinto dagli altri; mentre un criterio generale della verità dovrebbe essere vero per ogni conoscenza, a prescindere dalla distinzione degli oggetti. Questa verità generale non potrebbe quindi coincidere con il contenuto di verità riguardante i singoli oggetti. E dunque, se il contenuto di una conoscenza è «la materia di essa», ne segue che «non è possibile richiedere alcun segno caratteristico generale della verità della conoscenza, per il motivo che si tratta di una cosa in sé contraddittoria» (B 83-A 59)28• I criteri generali della verità potranno riguardare, al più, «la semplice forma della conoscenza (con ]"esclusione di ogni contenuto)»; cosa che, però, può spettare solo alla logica, che espone «le regole generali e necessarie dell"intelletto». Tali criteri riguar-

26. I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it., con testo a fronte, a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004, p. 177.

27. Ibidem. 28. lvi, pp. 177-179.

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deranno quindi «soltanto la forma della verità»; una verità che non dovrà contraddirsi sul piano, appunto, formale, ma potrà esser sempre contraddetta dai contenuti (B 84) 29 • Com'è noto, la logica - che si avvale, per Kant, di sole proposizioni analitiche - è utile nella misura in cui conferisce un ordine ai pensieri, ma non può produrre conoscenza in quanto questa deriva solo dai contenuti dell'esperienza e, dunque, dalle proposizioni sintetiche. Questa riduzione della portata della verità generale alla sua dimensione meramente formale può essere considerata il risultato dell'applicazione di una metodica scettica. Una tale concezione della verità - pur nel riconoscimento di una sua utilità, per cosl dire, di secondo grado -resta di fatto esclusa dall'ambito della conoscenza. Per quanto Nietzsche sia largamente debitore a Kant in merito alla propria concezione della conoscenza - che assume quasi sempre la posizione kantiana, solo in forma più radicale 30 - , i suoi riconoscimenti espliciti nei confronti del «grande cinese di Konigsberg»31 sono alquanto rari. È dunque significativo che uno di questi pochi apprezzamenti riguardi proprio Io "scetticismo" di Kant. Nell'aforisma della Gaia scienza intitolato Per il vecchio problema: ~che cos'è tedesco?", Nietzsche scrive: «In quanto Tedeschi, dubitiamo insieme a Kant della validità ultima delle conoscenze che ci forniscono le scienze della natu-

29. lvi, p. 179. 30. Cfr. H. Heit, Wozu Wissenschaft? Nietzsches Wissenschaftskritik als Radikalisiemng Kants, in B. Himmelmann (a cura cli), Kant und Nietzsche im Widerstreit, de Gruyter, Berlin-New York 2005, pp. 47-56. 31. Cfr. JGB 210, KSA 5, 144; OFN, VI/li, 119: «Anche il grande cinese di Konigsberg era soltanto un grande critico». Per la spiegazione di questa definizione rimando a C. Gentili, Nietzsche and ~the Great Chinese of Konigsberg:,, in M.J. Mayer Branco - K. Hay, Nietzsche:,s Engagement with Kant and the Kantian Legactj, voi. III, Nietzsche and Kant on Aesthetics and Anthropology, Bloomsbmy, London-New York 2017, pp. 179-194.

45 ra e, in generale, di tutto ciò che si fa conoscere causal,iter: il conoscibile ci sembra già, in quanto tale, di scarso valore»32•

5. Verità e tropos Concludiamo il nostro percorso a ritroso esaminando la prima ricorrenza della domanda Was ist Wahrheit?. Nell'estate del 1873 Nietzsche detta all"amico Cari von Gersdorff uno scritto intitolato Su verità e menwgna in senso extramorale3-1 • Incontriamo qui la nostra domanda: Che cos"è dunque la verità? [Was ist also Wahrheit?] Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorlìsmi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni fo17.a sensibile. 34

La congiunzione also, inserita nella domanda, è un semplice rimando alle considerazioni - che vedremo tra breve - svolte da Niet7.sche nelle righe immediatamente precedenti, delle quali la definizione della verità costituisce la conclusione. Se non si può dare assolutamente per scontato che Nietzsche si

32. J.W 357, KSA 3, 599; GS, 266. 33. Nietzsche aveva progettato un libro, che avrebbe dovuto intitolarsi Das Philosophenbuch, composto di due parti: una teorica - appunto Su verità e menzogna in senso extramorale - e una storica. Questa seconda avrebbe dovuto intitolarsi, nel progetto originario,. Il fil,osofo come medico della cultura. Nietzsche rinuncia tuttavia al progetto e alla parte storica assegna il titolo di Lafil,osofia nell,.epoca trtl/!)ca dei Greci. Entrambi gli scritti saranno pubblicati prima della sua morte, ma dopo l'awento della malattia. 34. WL I,. KSA I, 880 s.; OFN, 111/11, 361.

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riferisca qui intenzionalmente alla domanda di Pilato, si tratta però di un'ipotesi da considerarsi più che plausibile-15• Sulla scorta della lettura del primo volume del libro di Gustav Gerber, Die Sprache als Kunst:16, Niet7sche abbraccia qui la tesi della natura tropica della lingua. In quanto si assegna a quest'ultima un'intrinseca autonomia creativa, ogni ipotesi di corrisponden7~ tra lingua e realtà, tra parola e cosa, risulta non più percorribile. La verità è il risultato di un accordo tra i parlanti; vale a dire, è stabilita unicamente per convenzione. La parola diviene concetto non in quanto conservi la memoria di una qualunque «esperienza primitiva», ma perché si adatta «a innumerevoli casi più o meno simili, cioè - a rigore - mai uguali, e quindi a casi semplicemente disuguali. Ogni concetto sorge con l'equiparazione di ciò che non è uguale [durch Gleicfisetzen des Nicht-Gleichen]». Quando io pronuncio la

35. Di questa opinione è, ad es., S. Scheibenberger, Kommentar zu Nietzsches Ueber Wahrheit und Liige im aussermoralischen Sinne, de Gruyter, Berlin-Boston 2016, p. 50: «Con questa frase N. cita una nota figura della Bibbia», cui segue il rimando a Gv 18,38. Per tale questione, e per altre considerazioni su questo scritto di Nietzsche, rimando a C. Gentili, Quid est ooritas? Skeptische lmplikationen oon Ueber Wahrheit und Liige im aussermoralischen Sinne, di prossima pubblicazione in «Nietzsche-Studien», voi. 51. 36. G. Gerber, Die Sprache als Kunst, voi. I, Mittler>sche Buchhandlung, Bromberg 1871. Dal catalogo della biblioteca delrUniversità di Basilea risulta che Niet7.Sche prende a prestito il volume il 28 settembre 1872; cfr. L. Crescenzi, Verzeichnis der oon Nietzsche aus der Unioersitiitsbibliothek in Basel entliehenen Biicher (1869-1879), in «Nietzsche-Studien», voi. 23, 1994, pp. 388-442: p. 418. Si vedano in proposito A. Meijers - M. Stingelin, Konkordanz zu den wortlichen Abschriften und Obemahmen von Beispielen und Zitaten aus Gustav Gemer: Die Sprache als Kunst (Bromberg 1871) in Nietzsches Rhetorik-Vorlesung und in Ueber Wahrheit und Liige im aussermoralischen Sinne, in «Nietzsche-Studien», voi. 17, 1988, pp. 350368; A. Meijers, Gustav Gemer und Friedrich Nietzsche. Zum historischen Hintergrond der s-praclrphilosuphischen Auffassungen des friihen Nietzsche, ivi, pp. 369-390.

47 parola "foglia", e ne penso il concetto corrispondente, non indico alcunché di realmente presente in natura; questo concetto si forma nella misura in cui io lascio cadere tutte le «differenze individuali»37• Già a questa data, dunque, Niet7.sche prende commiato dal concetto di verità adottando una metodica scettica che si applica, in quesfoccasione, sul solo piano linguistico. Squisitamente scettica può definirsi la conclusione che ne trae: la verità «è completamente antropomorfica e non contiene neppure un solo elemento che sia "vero in sé", reale e universalmente valido, a prescindere dall'uomo». Chi cerca la verità cerca, in fondo, «soltanto la metamorfosi del mondo nell'uomo»38 •

37. WL I,. KSA I, 879 s.; OFN,. 111/1, 360. 38. WL I,. KSA I, 883; OFN, 111/1, 364.

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La archeologia delle scienze umane, tr. it. di E. Panaitescu, BUR, Milano 2015, p. 329. 8. KGW 11/2, 185-189 (le traduzioni dal tedesco, per questo testo, sono di chi scrive). Per un'analisi approfondita di Vom Ursprong der Sprache si rimanda alla monografia: C. Crawford, The Beginningsof Nietzsche's Theory ofLanguage, de Gruyter, Berlin 1988. Si veda anche C. Mangion, A Criticai, Commentary onNietzsche's "On the Origin ofLanguage", in «New Niet:7.sche Studies», voi. 8, n. ~, pp. 40-51.

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Quanto alle prime, il riferimento è all'Antico Testamento, che contiene un mito della genesi del linguaggio e che, tuttavia, presuppone ciò che dovrebbe spiegare. Adamo nomina le cose del mondo, istituendo con esse una relazione umana; ciò nonostante, l"atto del nominare implica già la presenza di un linguaggio che Dio e l"uomo condividono e che usano per comprendersi. Sin dal Cratilo di Platone è evidente }"arbitrarietà di tale nomenclatura: «questo punto di vista presuppone una lingua prima della lingua»9, presuppone che il mondo sia già categori72ato secondo significati e aspetti solo di essere nominato. Se il linguaggio non è un dono divino è allora, forse, frutto di un accordo umano; sono le teorie convenzionaliste, per le quali Nietzsche fa riferimento a tre autori -de Brosses, Maupertuis e Lord Monboddo - le cui posizioni vengono liquidate in poche battute, giudicate preconcette, precarie o contraddittorie. Nel 1770, l"Accademia di Berlino seleziona il contributo di Herder sul tema Origine del linguaggio. Nietzsche ne apprezza alcuni aspetti e ne critica altri: in particolare, trova che Herder condivida, erroneamente, con i suoi predecessori la convinzione che "madri" del linguaggio siano le esclamazioni, suoni espressi che, successivamente, vengono resi interni e interiori. Approva invece ]"intuizione - dal sapore novecentesco - che «l"uomo è nato per il linguaggio» 10 con la stessa urgenza con cui un feto nasce quando la gravidanza arriva al suo termine. La metafora herderiana del corpo materno non è ripresa da Nietzsche casualmente, ma in coerenza con la soluzione che egli stesso prospetta al problema della genesi del linguaggio. La proposta che, in questo testo, egli abbraccia si può difatti

9. KGW 11/2, 187. IO. Ibidem.

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comprendere solo alla luce della teleologia kantiana degli organismi viventi. La giusta conoscen7.a è divenuta comune solo a partire da Kant, il quale, ne La critica del giudizio, riconosce la teleologianella natura come qualcosa di reale ma, allo stesso tempo, mette in rilievo l'eccezionale antinomia secondo cui qualcosa può essere intenzionale sen7.a una coscienza. Questa è essenza dell'istinto. 11

r

L'istinto qui evocato non è riducibile, per Nietzsche, né alla coscienza riflessa né al puro meccanismo. Non è, in altri termini, il prodotto spontaneo dell'organizzazione del corpo o di un circuito cerebrale, e nemmeno il risultato di un pensiero cosciente; si configura, piuttosto, come «la conquista più autentica dell"individuo, o di una massa, che emerge dalla sua propria natura» 12• L'istinto da cui scaturirebbe il linguaggio è lo stesso istinto che regola la vita delle api o delle formiche, lasciando cosl emergere un paradosso: ]"elemento autenticamente umano, il linguaggio appunto, deriva da una componente animale, l'istinto 13• Non è difficile scorgere la coerenza di questa posizione con le future riflessioni di Nietzsche: anche gli ideali 6loso6ci più alti non sono altro che istinti mascherati, come si legge nella pre-

11. KGW 11/2, 188. In conclusione a Sult'origine del linguaggio, Nietzsche riporta inoltre una citazione di Schelling, a supporto dell'idea che nel linguaggio vi sia una teleologia simile a quella degli organismi, istintiva e non cosciente. 12. KGW 11/2, 186.

13. Come nota Mangion, la soluzione di Nietzsche all'indovinello sull'origine del linguaggio implica un cambio di prospettiva: l'origine non è più da intendersi diacronicamente, come un momento passato di cui riscoprire le tracce, ma sincronicamente, ossia come una genesi sempre al lavoro attraverso l'istinto. Cfr. C. Mangion, A Criticai Commentary, cit., PP· 43-44.

55 fazione alla seconda edizione de La gaia scienza 14• E il motivo principale del radicamento dei pensieri metafisici nella componente istintiva è proprio il linguaggio, come è, in realtà, già evidente da questo testo del 1869-1870. Nel primo paragrafo è annunciato, difatti, uno dei punti fondamentali che caratterizzeranno le successive analisi di Niet7.sche sul linguaggio -e, come conseguenza, la sua critica a tutti gli ambiti dell'umano che se ne servono, dalla filosofia alla morale, dalla religione alla scienza. Ogni pensiero cosciente è possibile solo grazie all'aiuto del linguaggio. È assolutamente impossibile avere un pensiero tanto intelligente, ad esempio, con un linguaggio che consiste di meri suoni animali: l'organismo meraviglioso, pensoso [tiefsinnige ]. Le conoscen7.e filosofiche più profonde sono già implicitamente contenute nel linguaggio. Kant dice: «Una gran parte, forse la parte maggiore del lavoro della ragione consiste nell'analizzare i concetti che l'uomo trova preesistenti dentro di sé». Basti pensare a soggetto e oggetto; il concetto del giudizio è astratto dalla frase grammaticale. Il soggetto e il predicato sviluppati nelle categorie di sostan7.a e accidente. 15

Oltre ad attestare, in questa fase aurorale della filosofia nietzscheana, l'esplicita influenza di Kant e di Schopenhauer (al quale l'autore rimanda in nota), il brano include un'affermazione cruciale, che Niet7~che riprende dalla Filosofia dell/inconscio di Eduard von Hartmann, facendola propria: le conoscenze filosofiche più profonde - scrive - sono già implicitamente contenute nel linguaggio. Ciò significa che è la struttura del linguaggio a imprimere al mondo la sua ontologia, come nel caso emblematico del soggetto e del predicato grammaticali

14. «L'inconsapevole travestimento di necessità fisiologiche sotto il mantello dell'obiettivo, dell'ideale, del puro-spirituale va tanto lontano da far riZ7.are i capelli» (FW, Prefazione alla seconda edizione, 2).

15. KGW Ilfl, 185.

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che diventano, in metafìsica, sostanze e accidenti, sostrati separati dalle azioni, entità sganciate dalla loro stessa forza. Se il pensiero umano è in grado di concepire separatamente un lampo dal suo bagliore, è perché la frase ''il lampo illumina'' 16 è possibile, ossia perché la grammatica ha abituato a pensare una realtà fatta di soggetti e predicati. Si tratta di uno snodo imprescindibile per comprendere che cosa cambia con Nietzsche - e non solo rispetto al linguaggio ma, più in generale, alla concezione di una realtà il cui tessuto ontologico non separa agente e agito, ma in cui «il fare è tutto» 17•

2. Finzione e metafora Nel testo del 1873 Su verità e menwgna in senso extramorak Niet7sche si pone la domanda: «Il linguaggio è dunque espressione adeguata di tutte le realtà?» 18• La risposta che dà è negativa, perché le parole sono definite «delimitazioni arbitrarie» 19 della realtà e collocate, dunque, agli antipodi di una «espressione adeguata». Lo snodo epistemologico fondamentale di queste pagine coincide con la inappellabile estromissione della verità dal processo genetico delle parole. Nella sua argomentazione, Nietzsche fa riferimento alle figure acustiche di Chladni, increspature prodotte sulla sabbia dalla vibrazione

16. «Il volgo, in fondo, duplica il fare; allorché vede il fulmine mandare un barbaglio, questo è un far-fare: pone lo stesso evento prima come causa, e poi ancora una volta come effetto di essa» ( GM, Buono e malvagio, buono e cattivo, 13).

17. GM, Buono e malvagio, buono e cattivo, 13. 18. WL I, p. 358. 19. WL 1, p. 359. Cfr. ibidem: «Le diverse lingue, poste runa accanto alraltra, mostrano che nelle parole non ha mai importanza la verità, né un'espressione adeguata».

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di corde: un individuo completamente sordo, vedendo quei disegni, può credere di capire quale sia la "verità" del suono, ma si tratta di una convinzione illusoria. In maniera analoga, l'uomo è sordo alla realtà: suppone di comprendere la verità delle cose attraverso il linguaggio, ma lo strumento di cui dispone è fuorviante e falsifìcante. Noi crediamo di sapere qualcosa sulle cose stesse, quando parliamo di alberi, di colori, di neve e di fiori, eppure non possediamo nulla se non metafore delle cose che non corrispondono affatto alle essenze originarie. m

La parola non è dunque conoscenza, ma metafora. Essa è, aggiunge Nietzsche, «il riflesso in suoni di uno stimolo nervoso»21. Lo stimolo nervoso in quanto "cosa in sé" che "causa" la raffigurazione resta, però, tanto inaccessibile quanto la musica all uomo non udente che osserva i disegni sulla sabbia. Non si può, inoltre, parlare di un vero e proprio nesso causale, poiché lo stimolo è "trasferito" metaforicamente in un immagine che è poi ''plasmata in un suono. Anche supponendo che le cose abbiano un essenza - l' «enigmatico x della cosa in sé»22 - , secondo Nietzsche 7

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7

il sorgere della lingua non segue un procedimento logico, e l'intero materiale su cui e con cui più tardi lavorerà e costruirà l'uomo della verità, l'indagatore, il fìlosofo, proviene, se non da una Nefelococcigia, certo però non daU'essenza delle cose.23

È uno dei punti in cui la fìlosofìa di Niet7.sche si dimostra un "platonismo alla rovescia": il concetto corrispondente alla parola "foglia non è il modello razionale e originario che le singole foglie imitano, più o meno fedelmente, ma il risultato di 77

20. WL I, pp. 359-360. 21. WL I, p. 358. 22. WL I, p. 360. 23. Ibidem.

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una metafora dimenticata. La "sordità" degli uomini si configura, in queste pagine del 1873, come Vergesslichkeit. Dimenticare l'individualità delle cose genera l'illusione che esse possano essere accomunate, addirittura poste come uguali le une alle altre: «ogni concetto sorge con l'equiparazione di ciò che non è uguale» 24 • L'origine del linguaggio non ha dunque nulla a che fare con una Uifonn, con forme originarie, ma coincide piuttosto con un «arbitrario lasciar cadere queste differenze individuali»25, come se non sussistessero. Ammessa e non concessa una metafisica in cui le cose hanno la loro "essenza,,, tale essenza è destinata dal linguaggio all'oblio. Derrida dirà, a un «oblio radicale»26 •

Le parole non descrivono la realtà, ma la inventano a immagine e somiglianza dell'uomo; ci si potrebbe chiedere, allora, quale sia per Nietzsche un ''buon uso'' del linguaggio, tenendo ferma la sua struttura falsificante. In prima battuta e a partire dal testo del 1873, un buon uso pare essere quello che risponde ali'obbligo sociale di servirsi delle «delimitazioni arbitrarie» usuali, consolidate, approvate: L'espressione morale di ciò è dunque la seguente: sinora abbiamo inteso parlare soltanto delrobbligo di mentire secondo una salda convenzione, ossia di mentire schierati, in uno stile vincolante per tutti. fl:i

24. Ibidem. 25. Ibidem. 26. J. Denida, Donare il tempo. La nwneta falsa, tr. it. di G. Berto, Cortina, Milano 1996, p. 19. «Secondo Denida, la metafisica occidentale è una mitologia bianca, fondata sulla rimozione del tessuto metaforico dei propri enunciati, sulroblio dell'elemento mitico alrorigine della supremazia del logos» (M. Vo72a, Il sapere della supeificie. Da Nietzsche a Simmel, Liguori, Napoli 1998, p. 18). 27. WL 1, pp. 361-362. Cfr. NF 1869-1874 19[229].

Fa buon uso delle parole chi dice la "verità", laddove la verità non è la corrispondenza tra cose e parole, bensì l'adozione di quelle partizioni della realtà condivise e comprese da una comunità. Essere veritieri non è altro che "mentire schierati", allo scopo di comprendersi reciprocamente e conseivare la specie. Nietzsche, però, guarda con favore al soggetto artisticamente creativo che si sforza di uscire dalle suddette schiere linguistiche. Anche la sua personale e instancabile attività di homo scribens -come Io ha definito Giorgio Colli28- risponde ali'esigenza di ricercare un linguaggio che non replichi le trame concettuali vigenti, ma che sia quanto più possibile individuale. Nel Tentativo di autocritica del 1886, Niet7~che si rimprovererà di essersi servito di formule schopenhaueriane e kantiane ne La nasci,ta della tragedia, invece di aver adottato un linguaggio personale29 • Già nel 1874 però si appuntava: Dovrebbe piuttosto valere come legge, che il diritto di esprimere le proprie esperienze interiori spetta soltanto a colui che sappia altres} trovare un proprio linguaggio al riguardo. 30 Ci si deve perciò comportare artisticamente di fronte alla lingua, per evitare il disgusto [ ... ] . Oggi certo lo scrivere diventa più difficile di quanto non lo fosse un tempo: ci si deve costruire la propria lingua. Non si tratta di un desiderio esteriore, quasi che si fosse sazi di un certo abbigliamento e si desiderasse una nuova moda. 31

«Costruire la propria lingua» è un compito problematico, perché richiede una torsione della natura stessa del linguaggio. Per

28. Colli attribuisce l"epiteto a Nietzsche con sfumatura polemica: «Lui, il dissacratore di ogni eccelle117.a, non ha saputo dissacrare l"attività dello scrittore» (G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano 1996'>, p. 131).

29. Cfr. GT, Tentativo di autocritica, 6. 30. NF 1869-1874 34[20]. 31. NF 1869-1874 37[7].

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assolvere alla sua funzione comunicativa, esso deve di necessità essere semplifìcatore, gregario e intersoggettivo. Niet7.sche è consapevole di tale problematica, ma esercitare il proprio linguaggio affinché trovi la forma più adeguata, che lo liberi dalle "schiere" linguistiche esistenti, è un compito che egli sentirà sempre proprio. Se le parole sono - come afferma Nietzsche nel testo del 1873- «delimitazioni arbitrarie», allora Deleuze contribuirà a specifìcare la missione linguistica del fìlosofo in questi termini: rivedere, rinnovare e riplasmare in continuazione tali delimitazioni arbitrarie. «Il genio di una fìlosofìa si misura innanzi tutto secondo le nuove distribuzioni che essa impone agli esseri e ai concetti» 32, scriverà, memore dell'invito niet7.scheano a comportarsi artisticamente di fronte alla lingua.

3. Linguaggio e coscienza Coscien7.a è propriamente soltanto una rete di coIIegamento tra uomo e uomo - solo in quanto tale è stata costretta a svilupparsi: l"uomo solitario, l"uomo bestia da preda non ne avrebbe avuto bisogno. Il fatto che le nostre azioni, i pensieri, i sentimenti, i movimenti siano anche oggetto di coscien7.a - almeno una parte di essi - è la conseguenza di un terribile «dovere» che domina l"uomo da lungo tempo: essen-

32. G. Deleuze, Logique du sens, Minuit, Paris 1969; tr. it. di A. Verdiglione, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 20146, p. 13. Fondamentale anche la tematica deleuziana dell'"uso minore" di una lingua, definito non dalla potenza delle costanti ma delle variazioni: gli scrittori «[i]nventano piuttosto un uso minore della lingua maggiore in cui si esprimono interamente [... ]. Questo va oltre le possibilità della parola, per raggiungere il potere della lingua e anche del linguaggio» (G. Deleuze, Critica e clinica, tr. it. di A. Panaro, Cortina, Milano 1996, pp. 143-144).

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do animale maggiormente in pericolo, ebbe bisogno di aiuto, di protezione; ebbe bisogno dei suoi simili, dovette esprimere le sue necessità, sapersi rendere comprensibile - e per tutto questo gli fu necessaria, in primo luogo, la «coscienza», gli fu necessario anche «sapere» quel che gli mancava, «sapere» come si sentiva, «sapere» quel che pensava. Perché, lo ripeto ancora una volta: l"uomo, come ogni creatura vivente, pensa continuamente, ma non lo sa; il pensiero che diviene cosciente ne è soltanto la più piccola parte, diciamo pure la parte più superficiale e peggiore: infatti soltanto questo pensiero consapevole si detennina in parole, cioè in segni di comunicazione, con la qual cosa si rivela origine della coscien7.a medesima. Per dirla in breve, lo sviluppo della lingua e quello della coscienza (non della ragione, ma soltanto del suo divenire autocosciente) procedono di pari passo. 33

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Questo brano, tratto dall'aforisma 354 de La gaia scienza intitolato Del «genio della specie», consente di compiere un ulteriore passo nell'analisi della concezione nietzscheana del linguaggio, e in modo particolare della sua origine. Se nel secondo paragrafo si è mostrato il carattere falsificante delle parole, nell'aforisma ora preso in esame Nietzsche accantona momentaneamente le questioni epistemologiche: l'opposizione tra soggetto e oggetto, il contrasto tra "cosa in sé" e fenomeno - spiega - sono questioni da lasciare «ai teorici della conoscenza, che sono rimasti penzoloni nei lacci della grammatica (la metafisica popolare )»34 • Si riprende, invece, la tematica affrontata nel primo paragrafo, ossia l'origine del

33. FW V, 354. Si veda a commento di questo aforisma: L. Lupo, Linguaggio e coscienza nel pensiero di Nietzsche negli anni 1880-88, in D. Gambarara - E. Sergio - A. Givigliano, Fiwsofia & Linguaggio in Italia: nuove ricerche in corso. Incontro dei Dottorati di Ricerca, Atti del VIII Convegno di Arcavacata di Rende, 20-22 settembre 2001, Dipartimento di Filosofia, Rende 2002, sez. 2, pp. 23-32. 34. FW V, 354.

62 linguaggio, ma allo scopo di metterne ora a fuoco le motiva7loni essenziali. Se l"origine del linguaggio ha a che fare con un istinto, occorre capire di che tipo di istinto si tratti e a quale bisogno risponda. Per affrontare la domanda del "perché"" del linguaggio, Nietzsche deve passare attraverso un"altra domanda, che riguarda il "perché" della coscienza. Lo sviluppo delle due cose, linguaggio e coscien7~, difatti, procede di pari passo - questa la tesi nietzscheana. Attento agli studi scientinci e in particolare fisiologici del suo tempo, ma anche anticipatore della grande rivoluzione psicoanalitica del secolo successivo, Nietzsche concepisce l'uomo come un corpo che solo parzialmente è in grado di pensare se stesso: la materia vivente possiede sl una sua "ragione", che è, però, solo in parte infinitesimale autocosciente - parte di cui potrebbe tranquillamente fare a meno. La coscienza non è il risultato di un processo di sviluppo, se per risultato si intende il prodotto più nobile, ma un epifenomeno di fatto marginale; il problema della coscienza, come viene spiegato in questo aforisma, si presenta in tutta la sua forza solo quando si comprende quanto essa sia inessenziale. «La vita intera sarebbe possibile senza che essa si vedesse, per cosl dire, nello specchio: in effetti, ancor oggi la parte di gran lunga prevalente di questa vita si svolge in noi senza questo rispecchiamento» e sorge, pertanto, spontanea la domanda: , la futura generazione di fìlosofì sarà infatti chiamata ad affrontare «il problema del valore della verità» e interrogarsi sullo statuto di questa volontà di verità6 • Anche qui, occorre notare che l'obiettivo critico di Nietzsche resta comunque esclusivamente l'attenzione che tradizionalmente è stata dedicata all,ontologia del sapere, ritenuta I,unico riferimento sulla cui base poter giudicare un determinato contenuto. Il senso di un,attribuzione di valore, il senso di un giudizio (nel caso della verità, di un giudizio epistemico), risiede nella stabilità che tale giudizio dimostri di possedere; una stabilità che a sua

4. GM III, 24 e 27.

5. JGB I. 6. Oltretutto, questo problema gioca per Niet7.sche un ruolo significativo in chiave antropologica, ovvero relativamente alla questione delreducazione e formazione di un «tipo umano» spiritualmente forte che si contrapporrebbe alr«animale gregario» determinato nel contesto culturale della morale cristiana (GM, Prefazione, 6; JGB 203). Su questo cfr. ad es., R. Schacht, Nietzsche and Philosophical Anthropology, in K. Ansell Pearson (a cura di), A Companion to Nietzsche, Wiley-Blackwell, Chichester2009, pp. 115-132; P. Cori, Pragmati~ Perspecti~ Anthropology. A Consistent Triad, in «Internationales Jahrbuch fiir philosophische Anthropologie», n. 7, 2017, pp. 83-102.

77 volta viene riportata a una presunta consistenza metafisica o ontologica del giudizio stesso. Da parte sua, Nietzsche invita a considerare l"ipotesi che l"esistenza di una tale consistenza ontologica vada messa in discussione e che sia piuttosto opportuno ammettere che non vi sia (o almeno non sia possibile individuare) alcun contenuto fisso alla base del giudicare (leggi: «Dio è morto»). Ma questo non vuol dire rifiutare del tutto l'idea che esistano verità e valori, e quindi annichilire l"impalcatura assiologica che regge il nostro agire pratico. Semplicemente, come si legge nella prefazione al Crepuscolo degli idoli, Nietzsche intende riflettere criticamente su tale contesto e operare su di esso col martello filosofico «come con un diapason» per rivelare l'inconsistenza ontologica degli «idoli eterni» o «antiche verità» di cui è costituito l'edificio della cultura occidentale. Se sia poi possibile donare loro un senso diverso, se sia cioè possibile trovare nuovi principi e un nuovo criterio di valutazione che renda conto in altro modo (in un modo non metafisico) dell'origine dei punti di riferimento epistemici, morali ed estetici del nostro agire, questo è precisamente ciò che resta da capire.

2. Prospettiva e funzione Il percorso teorico che Nietzsche svolge relativamente al problema della verità da cui emerge il motivo antimetafìsico inizia già col celebre testo postumo Su verità e 1nenwgna in senso extramorale, redatto nel 1873. Le riflessioni contenute in questo scritto, che appartiene alla fase in cui l'interesse di Nietzsche si sposta definitivamente dalla fìlologia alla fìlosofia, mostrano chiaramente come si stesse sedimentando in lui l'influsso di due opere molto diverse tra di loro, ma accomunate da una matrice kantiana: Il mondo come volontà e ra'PPresentazione di Arthur Schopenhauer e la Storia del materi,al,ismo di

78 Friedrich Lange7• Sulla scorta dell"ontologia e della teoria della conoscenza che si trovano esposte in questi testi, Nietzsche elabora alcune considerazioni sul tema del linguaggio e della verità che possono essere considerate la vera e propria matrice teorica di tutta la sua riflessione successiva. Esse delineano una concezione del linguaggio orientata evoluzionisticamente e in base alla quale il valore delle parole non va oltre la loro funzione di segni di designazione. Il linguaggio, in altri termini, è considerato da Niet7.sche come un sussidio adattativo che rende possibile la costituzione di comunità di individui, riuniti appunto da una designazione del mondo condivisa che permette loro di comunicare efficacemente. Niet7..sche riferisce in effetti l"origine della nozione di ''verità"" a questa esigenza di costituire una società: essa è qualcosa di elaborato, di creato; è il risultato di una convenzione linguistica sulla base della quale si determina «una designazione delle cose uniformemente valida e vincolante»8 • Su questo punto la riflessione di Niet7..sche opera la prima signifìcativa considerazione epistemologica: le designazioni e le cose non si sovrappongono - osserva Niet7.sche - e il linguaggio non è «l"espressione adeguata della realtà» 9 • Perché sostiene questo? Su che base è possibile difendere tale posizione?Per rispondere a questa domanda occorre guardare al contesto culturale della seconda metà dell"Ottocento e più in particolare all"ambito dei primi studi relativi alla fìsiologia della percezione (riportati, in parte, nel testo di Lange). Molto semplicemente, il lavoro svolto da un ricercatore come Johannes Miiller, per esempio, aveva rivelato che gli stessi organi

7. Il principale riferimento di studio su questo resta G. Stack, 1.Ange and Nietzsche., de Gruyter, Berlin 1983.

8. WL, KSA I, 871. 9. WL, KSA I, 878.

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di senso operano attivamente sul dato esterno, restituendone un"immagine che non è mai pura o immediata• 0 • Ma se le cose stanno in questi termini, allora va ripensato l"intero modello cognitivo e bisogna ridefinire il concetto stesso di rappresentazione, abbandonando !"ipotesi che esso possa costituire un accesso veridico owero diretto alla realtà. Per quanto riguarda il linguaggio, in cui trova espressione il nostro mondo della rappresentazione, tale concezione mette in crisi l"idea che esso possegga un valore "letterale e apre la strada a posizioni scettiche o per Io meno agnostiche che ammettono che, di fatto, operiamo con mere .finzioni e non piuttosto con "verità" (da intendersi qui nel senso tradizionale di una teoria della corrispondenza). Questa è in effetti la tesi che Nietzsche sostiene nel testo del 1873 e da cui segue ]"idea che ogni definizione che adottiamo possiede un valore limitato alla sfera umana (culturale, sociale, ecc.) all"interno della quale è stata elaborata e nel cui contesto risiede il suo senso più proprio. L"immagine del mondo costituita dalla somma di tali definizioni non è quindi in alcun modo "veridica", se con questo si intende il riportare adeguatamente e in maniera non mediata Io stato delle cose. Tuttavia, questa considerazione conffigge col realismo del senso comune, che ripone grande fiducia nella rappresentazione linguistica del mondo che ciascuno di noi adotta quotidianamente con tanto successo. Il linguaggio in effetti funziona bene; ci permette di muoverci nel mondo e in un certo senso di dominarlo, ed è questo il motivo della nostra istintiva convinzione che la sua veridicità debba riposare ben più in profondità della sua mera efficacia operativa. La riffessione critica di Nietzsche insiste particolarmente su questo punto, quando per esempio

10. Alcune interessanti considerazioni su questo discorso si trovano in F. Moiso, Nietzsche e le scienze, a cura di M.V. D'Alfonso, Rosenberg & Sellier, Torino 2021, pp. 47 ss.

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egli osserva che «l"indagatore della verità [ ... ] dimentica che le metafore originarie dell"intuizione sono pur sempre metafore, e le prende per le cose stesse» 11 • Anche in Umano, troppo umano, di poco posteriore, Niet7.sche ribadisce tale idea, sostenendo che il linguaggio ricopre un ruolo essenziale per lo sviluppo della cultura e osservando che l'uomo istintivamente ripone in esso una fiducia eccessiva, considerandolo veridico nel senso più proprio 12• Come in precedenza, la questione risiede nel valore che viene attribuito ai segni linguistici, la cui efficacia quali strumenti di comunicazione non può certo essere negata ma che non per questo devono essere riferiti a un fondamento metafìsico. L"impressione generale è che Niet7_.sche intenda mantenere una netta separazione tra due piani di discorso: quello logicolinguistico dei concetti e della verità (o magari delle verità) e quello ontologico-metafìsico del mondo esterno (Auflenwelt). Il primo costituirebbe il nostro effettivo spazio di azione e comunicazione, mentre il secondo rimarrebbe completamente fuori dalla nostra portata. Il problema, secondo Niet7.sche, si pone nel momento in cui si voglia riflettere su quale sia la relazione tra i due piani e specialmente nel momento in cui si abbia la pretesa che il sussidio logico-linguistico di cui disponiamo rifletta adeguatamente l'articolarsi del mondo esterno. Per usare i termini che Niet7.sche adopera in una nota del 1888 in cui torna sulla questione qui esposta, il principale errore che si deve imputare al senso comune è quello di confondere un «criterio della "verità"» (la funzionalità del mezzo linguistico) con un «criterio della "realtà"» 13• Diversamente, come leggiamo ancora in Umano, troppo umano, la nostra riflessione

11. WL, KSA l, 883. 12. Cfr. MA l, 11. 13. NF 188814(153].

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critica dovrebbe portarci a considerare il "mondo fenomenico'' - l'unico piano di "realtà" che davvero ci riguarda - come un quadro prodotto con l'accumularsi di una quantità di errori e fantasie sorti poco a poco nelrevoluzione complessiva degli esseri organici e che sono cresciuti intrecciandosi gli uni alle altre e ci vengono ora trasmessi in eredità come tesoro accumulato in tutto il passato - come tesoro: perché il valore della nostra umanità riposa su di esso. 1-1

Questo abbozzo di concezione evolutiva della conoscenza pone l'uomo al centro del conoscere, in quanto creatore degli stessi oggetti del suo interrogare. «I coloristi siamo stati noi» - continua Nietzsche-, siamo noi gli autori di questo quadro cosl variopinto ed elaborato da sembrare qualcosa di indipendente dalla nostra mera attività di rappresentazione. Per quanto l'impianto del discorso sia sostanzialmente in linea con quanto Niet7~che aveva sostenuto nel 1873, va notato che l'attenzione si sposta qui dal piano sensoriale a quello intellettuale. Nietzsche non guarda più al modo in cui un dato sensibile venga modificato dalla nostra fisiologia, ma chiama in causa le forme logiche e i concetti che affollano la nostra descrizione del mondo, costituendo quell'ambito che più tardi prenderà nei suoi scritti il nome di «mondo vero». Alla base vi è comunque sempre la medesima idea: il mondo dei fenomeni riportato nella nostra descrizione linguistica è un mondo umano, dal momento che risulta dal nostro intervento attivo sul dato sensibile. Per quanto ci si possa sfo17.are di riflettere sui caratteri di un presunto piano metafìsico, non ci sarà comunque mai possibile accedere ad esso, dal momento che «noi vediamo tutte le cose con la testa umana, e non possiamo tagliare questa testa» 15 • Per questo motivo, conclude Nietzsche, ogni

14. MA I, 16. 15. MA I, 9.

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interrogare metafìsico è sostan7jalmente poco interessante e anzi indifferente: lo spazio del nostro giudizio non si estende oltre questo limite fenomenico e le nostre valutazioni non dovrebbero prescindere da ciò. Una simile considerazione si trova anche nel paragrafo 110 della Gaia scienza, da cui è tratta la prima delle due frasi poste in esergo e in cui Nietzsche ribadisce l'idea che il nostro piano di discorso sia costituito dal complesso di concetti elaborati nel corso dell'evoluzione della nostra specie e quindi sulla base di un'esigenza adattativa. Nietzsche ammette inoltre che tali concetti siano di fatto erronei, dal momento che risultano da un intervento attivo che modifìca il dato originario. Non si tratta quindi di una corrispondenza con lo stato delle cose, di una riproduzione diretta o letterale della realtà, ma piuttosto di una sua elaborazione intellettuale. Da questo segue che il valore di tali concetti non può essere giudicato a partire da un loro confronto con ciò a cui si riferiscono: «La forza delle conoscenze non sta nel loro grado di verità - osserva Nietzsche-, bensl nella loro età, nel loro essere incorporate, nel loro carattere di condizione di vita» 16• Ecco, quindi, come egli passa dal contenuto alla funzione, come avevo anticipato: svincolato dal riferimento a un piano ulteriore, il giudizio può essere valutato solamente a partire dalla sua operatività, dal modo in cui esso interagisce col nostro contesto pratico di azione. Inoltre, assieme agli «errori», tra le «potenze intese alla conservazione della vita» Niet7..sche inserisce anche I' «istinto di verità» 17, spogliando dunque quest'ultima di ogni connotazione metafisica che le sia stata tradizionalmente attribuita. È a questo punto che egli pone la questione relativa alla possibilità di assimilare una verità - nel momento in cui questa sia stata

16. FWUO. 17. Ibidem.

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privata di ogni consistenza e non risulti essere nulla più che una funzione valutativa; nel momento in cui, cioè, essa non possa più costituire l'ago della bussola da utilizzare per orientarsi nei meandri labirintici dell"esistenza. L"attenzione di Nietzsche per le questioni sin qui considerate si mantiene coerente anche negli anni in cui egli introduce uno degli elementi tematici più noti della sua produzione matura: il prospettivismn. Nella prefazione a Al di là del bene e del 'ITUlle, Nietzsche si esprime criticamente nei confronti del dogmatismo platonico radicatosi in Europa (leggi: Occidente), che egli considera un errore che nega di fatto «il carattere prospettico, la condizione fondamentale di ogni vita». Tale errore si manifesta in forma ancora più evidente nella già menzionata «volontà di verità», che Nietzsche considera essere il nucleo dell"intero sistema di pensiero metafisico contro cui muove la propria crociata filosofica 18 • Nella volontà di verità, owero nella pretesa di poter attribuire un valore in sé ai nostri giudizi di valore e, su questa base, suddividere il mondo in rigide dicotomie del tipo urtenay, Capacity and Volition. A History of the Distinction ofAbsolute and Ordained Power, Lubrina, Bergamo 1990.

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radicale dell'ente creato funge da premessa per una indagine spregiudicata (cioè ipotetica-congetturale) del reale 15• Di che cosa tale articolazione della potenza era la contro-idea se non della equazioneperfetta dei megarici, sconosciuta come tale al pensiero medievale, ma ben presente nella forma del principio di pienezza e di continuità che aveva animato il razionalismo teologico? Per questo principio la potenza infinita di Dio non è altro che r attualità infinita della sua creazione, la quale non può conoscere vuoti o pause. Tutto è pienezza sebbene in gradi diversi. Il male non ha consistenza in questo universo. Tutto è bene. Ebbene, che cosa Nietzsche pensa con la sua strana formula Wille zur Macht? Gli esegeti ne hanno sottolineato rambiguità. Volontà di potenza, è stato detto eripetuto, non significa ((volere la potenza''. Non ha il senso del desiderare qualcosa che non si possiede. Non è il sentimento lacerante di una mancanza vissuta. Nella formula nietzscheana i termini in gioco sono certamente due, volontà e potenza, e questo sembrerebbe implicare una volontà sovrana che si decide per la libera realizzazione di uno dei due corni deWalternativa, confermando lo schema aristotelico. In realtà, le cose non stanno affatto cosl. Non eè una soggettività sovrana che, disponendo del potere come di una capacity, vuole qualcosa. C'è piuttosto una potenza che «vuole'' incrollabilmente se stessa e c'è una volontà che, lungi dall'evocare la libertà sovrana del soggetto che può i contrari, ha la strana forma di una obbedienza a un imperativo - l'intensificazione della potenza - al quale è impossibile sottrarsi. Il soggetto della volontà di potenza è la potenza stessa e la ooùmtà di potenza nomina il non poter non attuarsi della potenza: il soggetto non è nient'altro che la potenza e la potenza non è nient'altro che il suo atto in atto. 15. F. Oakley, Omnipotence, Covenant, & Orcler. An Excursion in the History of Ideas from Abelard to Leibniz, Cornell University Press, New York 1984.

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L'equazione perfetta dei megarici è cosl riproposta da Nietzsche e con essa il principio di continuità e di pienezza (nella sua metafìsica, esso prenderà la forma della dottrina dell"Eterno Ritorno). Facendo della volontà di potenza l"essere dell"ente e dell"Eterno Ritorno dell"U guale la modalità in cui l"essere dell"ente si dispiega, N iet7~che si ricollega cosl a una tradizione tanto illustre quanto minoritaria, se si giudicano gli effetti che questa tradizione ha avuto nel discorso pubblico della fìlosofìa contemporanea, presso il quale è dato invece per scontato che }"ambito del possibile sia più esteso di quello del reale 16• Abbiamo come sua fonte senz"altro Spinoza con la sua radicale contestazione della contingenza dell"ente -contingenza che costituiva il dogma della metafìsica teologica almeno a partire dal fatidico 7 marzo 1277, quando a Parigi la tesi megarica, nella sua riformulazione araba, fu messa defìnitivamente all"indice come la più atea delle tesi 17 - , ma abbiamo anche Hobbes del De corpore, X, e, soprattutto, Giordano Bruno, per il quale la peggioreblasphemia consisteva proprionell"articolazione della potenza in assoluta e ordinata 18 • Se infatti si conferma il modello aristotelico antimegarico proposto in Metaph., 9, 3, allora, secondo Bruno, la semplicità di Dio risulterebbe compromessa. Avremmo, infatti, un Dio che può assolutamente e un Dio che vuole determinatamente, selezionando possibili, come una sorta di monarca assoluto. La sua decisione (potenza ordinata) sarebbe conseguente a una scelta (potenza asso-

16. A questo proposito, mi permetto di rimandare al mio La lampada di Vitiello. Sulla potenza e sul possibile, in M. Adinolfi - M. Donà (a cura di), Trovarsi accanto. Per gli ottant>anni di Vincenzo Vitiello, Inschibboleth Edizioni, Roma 2017, pp. 603-622. 17. Cfr. L. Bianchi, Il vescovo e i.filosofi. La condanna parigina del 1277 e [>evoluzione dell/aristotelismo scolastico, Lubrina, Bergamo 1990. 18. Cfr. M.A. Granada, Il rifiuto della distinzione fra potentia absoluta e potentia ordinata di Dio e [>affemuzzione dell/universo infinito in Giordano Bruno, in «Rivista di storia della filosofia», n. 3, 1994, pp. 495-532.

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Iuta). Dovremmo supporre in Dio una poten7a maggiore della sua volontà, con la conseguenza di riabilitare l'immagine idolatrica di un Dio sterile, geloso, che si astiene dal comunicarsi integralmente, che rimane in pausa. Si riconfermerebbe cosl la visione antropomorfìca di Dio come di un sovrano capriccioso che dispone liberam,ente della potenza, mentre per Spino7.a come per Bruno Dio è piuttosto il puro automatismo di un atto infìnitamente in atto. Tuttavia Niet7_sche si discosta da questa tradizione «panteista" perché la sua vo"lontà di potenza, proprio in quanto volontà di potenza e non sola potenza in atto, mantiene un fuoco centrale, conserva cioè un nucleo di irriducibile soggettività che rimanda alla esperienza del limite come sua caratteristica precipua. La volontà di potenza di Nietzsche, a differenza del Dio di Spinoza o di Bruno, è infatti strutturalmente «fìnita".

6. Il divenire Sappiamo che la volontà di potenza nomina in Niet7.sche l'atto del vivente, l'accadere della vita come vita che vive, dunque essa ha a che fare con la dimensione del divenire, un divenire, però, che non è il ff usso omogeneo pseudo-eracliteo. Per Nietzsche, come per tutti i futuri fìlosofì del processo, da Bergson a Whitehead, il divenire coniuga la continuità con l'eterogeneità zampillando in gocce che sono delle autentiche crea7loni. Divenire è creatioity, divenire è durata creatrice di imprevedibili novità. Come avviene allora la creazione? Nietzsche risponde: attraverso la posizione dei valori, vale a dire prospetticamente. Ne consegue che essendo incessante posizione del valore, la vita, come tale, non può essere messa a sua volta in prospettiva, cioè giudicata: la vita è al di là del bene e del male. Il valore è un punto di vista immanente alla vita che vive:

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è il punto di vista di condizioni di conseroazione, potenzia-

mento [Erhaltungs-Steigemngs-Bedingungen], la cui vita ha durata relativa entro il divenire. 19

I valori "scandiscono" la volontà di potenza segnandone quell'attuazione incessante che ne costituisce l'essenza. Volontà di potenza come intensificazione e come creatività: pieno che crea il pieno, secondo una logica che non prevede per la potenza vacanza alcuna. Un altro aforisma della Voùmtà di potenza recita: divenire come inventare, volere, negazione di sé, superamento di sé; non un soggetto, ma un fare, un porre, creativamente, niente «cause ed effetti». 20

Il sé "negato'' e "superato" nell'ubbidienza assoluta all'imperativo "formale" della intensificazione della potenza (ubbidienza dal tratto profondamente kantiano) è il sé immaginario che si reputa padrone dell'agire: in realtà non c'è nessun soggetto siffatto, ma solo un "fare", un ''aoire" e,, solo un "porre creativamente". È semmai quell'agire senza Io che può meritare il titolo di «soggetto». Il soggetto nel senso psicologico, il soggetto che "vuole" questo o quello, il soggetto morale che "sceglie" e che è responsabile delle proprie azioni, è piuttosto un effetto di rimbalzo del processo, secondo quella strana logica della supplementarità che sarà portata alla luce, nella sua struttura formale, da Whitehead. Quel soggetto è infatti solo il supergetto del processo, il suo risultato che immaginariamente si pone alla sua origine. Non c'è, scriverà Whitehead (riprendendo su questo tema quasi letteralmente Nietzsche, che per altro non conosceva ... ), un Ego che pensa, c'è un pensiero insonne che si pensa incessantemente, in una presenza fuori

19. NF 1885-1887 73(247]. 20. NF 1885-1887 54(297].

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dal tempo. C'è un "esso" che pensa: l'Ego che cogita è un suo pensato, il quale, per una fallacia della concretezza malposta, si insignorisce, après-coup, del fondamento del pensare, divenendo il fantasma del vero soggetto, che è l'agire senza ego, il puro porre creativo21• Non ci sono, quindi, nemmeno cause ed effetti: il divenire scandito dalla posizione dei valori non è un processo lineare-omogeneo. Non si può stabilire un rapporto analitico tra la causa e l'effetto: l'effetto differisce dalla causa per natura e non per grado e l'effetto è qualcosa che contiene altro e ''di più" rispetto alla sua causa.

7. La volontà di potenza &sere : agire significa dunque che la potenza non si può esautorare dalla sua attuazione. Gli ambasciatori ateniesi lo rammentano agli abitanti dell'isola di Melo quando reclamano la loro resa incondizionata, nonostante la loro dichiarata neutralità22. Potere, dicono, non è una sostanza e non è un sostantivo. Potere è un verbo ed è un verbo in diatesi media. Dynasthai non esprime un'azione fatta o subita da un soggetto presupposto, come i verbi in diatesi attiva o passiva. La diatesi media indica un processo all'interno del quale si costituisce un soggetto solo di rimbalzo, come l'effetto del processo. Il che significa che a differenza di altre azioni, non si può il, potere. Potere non rientra nell'ambito delle disponibilità. Piuttosto si è disposti da esso: non si può che esercitarlo. Il che non significa affatto passività perché grazie a questo esercizio ci si individua come quel soggetto potente che si è e non si può non essere.

21. A.N. Whitehead, Processo e realtà, tr. it. di M.R. Brioschi, Bompiani, Milano 2019, cap. I, Fatti e forma,§ 2. 22. Cfr. Tucidide, I.A guerra del Peloponneso, V, 8 5-114.

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La cosa faceva inorridire Simone Weil, che vi leggeva la clau-

strofobica chiusura del soggetto umano in una immanenza assoluta23. Per rimediare a tale orrore non restava che la via della trascendenza (Weil faceva appello alla giustizia del Dio cristiano), vale a dire il passo fuori dall'immanenza. Ma come compiere questo passo? Come è fatta, in ultima analisi, la "trascendenza"' che salva? Essa ha la natura della "riflessione"' o, più precisamente, di una certa riflessione oggettivante (e soggettivante) che permette rarttcolazione del potere. La trascendenza che salva è il dynasthai che si riflette in se stesso e che si raddoppia in un punto ''sovrano"', il punto del soggetto, nella forma di un potere di secondo grado - un meta-potere "più"" grande di ogni potere effettivo (mega dynasthai 24 ) - il quale, invece di esercitarsi automaticamente, può il suo stesso esercizio. Il potere diventa cosl una disposizione del soggetto sovrano. Grammaticalmente è espresso dalla forma echein dynamin, "avere"' il potere o la capacità di, la quale prende progressivamente il posto dell"equazione megarica a cui ancora si attenevano gli ambasciatori ateniesi. Potere è ora qualcosa che si possiede (ktesis) e che si può liberamente usare (chresis). Potere è una facoltà. La sua unità di misura non è più data dal suo esercizio ma dalla messa in pausa del suo esercizio, dal potere-di-non ("facoltà" significa potere-di-non). Di questo meta-potere e della libertà che pare assicurare al soggetto che ne dispone Niet7__sche si è fatto beffe in tutta la sua opera. La sua critica della morale platonico-cristiana ha Il la sua radice. Ma questo non significa che Nietzsche sposi la necessità del 100re geometrico spinoziano. La sua potenza, pur non essendo in alcun modo una potenza del possibile, resta infatti una ooùmtà di potenza. Non è solo potenza che si attua, 23. S. WeiLVombra e la grazia, tr. it. di G. Hourdin, Bompiani, Milano 2002.

24. Espressione usata da Platone in Gorgia, 466e 3, per indicare la tecnica retorica.

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ma in quanto volontà di poten7~ consetva un fuoco centrale, un nucleo di soggettività ineliminabile. Ciò si deve al fatto che, come abbiamo detto, nell"ipotesi megarica la poten7~ funziona come ratio essendi e ratio cognoscendi delI"ente. La potenza indioidua in modi sempre differenti. Possiamo allora dire che Wille zur Macht è il nome che Nietzsche dà a ciò che la "forza" - titolo che assegniamo alI"esercizio della potenza in generale, alla energheia (essere : agire) - ''può"" caso per caso. Chi è Achille? Achille è l"eroe invincibile segnato dal limite strutturale del suo tallone. Chi sono in generale gli eroi? Coloro che sono assegnati a un destino dalla finitezza della loro natura. Non c"è fatum da amare senza fissazione di un limite: ciò che dunque è detto (fatum) una volta per tutte e per sempre dal dire performativo (fari) è il limite. Potenza, in questa prospettiva megarica, che è la prospettiva di Nietzsche, è dunque definizione e il limite è il differenziale della forza. La volontà di potenza, ha scritto Gilles Deleuze, va intesa come un principio essenzialmente plastico non più ampio di ciò che condiziona [ ... ] . La volontà di potenza si aggiunge dunque alla forza, ma come un elemento difTerenziale e genetico, come l'elemento interno della sua produzione. 25

Riassumendo: I) la volontà di potenza non è la forza genericamente intesa (sen7.a che possa essere separata da essa); 2) la volontà di poten7~ è ciò che la fon.a può, caso per caso; 3) la volontà di potenza individua (la poten7~ di Achille non è la potenza di Ettore); 4) la volontà di potenza è definizione; 5) il limite è il differenziale della forza. Conclusione: 6) il limite articola la fo17..a in una pluralità di enti (= potenze) tra loro indefinitamente differenti e tra di loro in relazione (relazioni che sono rapporti di fon.a).

25. G. Deleuze, Nietzsche, tr. it. di S. Tassinari, Colportage, Milano 1978, PP· 84-85.

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Ne consegue che alla domanda "che cosa è volontà di potenza?" possiamo rispondere che essa in prima istanza denota una quantità intensiva e non estensiva. Il limite non è una cornice che delimita qualcosa dal di fuori, ma della cosa esprime la immanente potenza reale. Come tale la volontà di potenza è soggettività, è tendenza, è processo. Le ''cose" si animano, si fanno "normative" e non più semplicemente "normate'': sono potenze in atto e non il risultato della determinazione di una materia inerte da parte di forme trascendenti. A differenziare gli enti tra di loro e a rela7jonarli non è la loro pretesa "essen7a", ma il grado intensivo di poten7a che essi sono e che non possono non essere. L'esempio canonico fornito da Deleuze ai suoi studenti è quello della grande foresta26• Dove/quando termina? Risposta: dove/quando la sua potenza di radicamento si esaurisce. Fino a quel punto c'è della foresta in atto, secondo l'equazione megarica physis: dynamis: energheia. L'attuosità della poten7.a è tutta l'essenza della cosa, cosl come per Spino7.a l'essen7.a di Dio era la sua stessa poten7.a infinita. Ma proprio l'esempio della foresta, come quello del Dio spinoziano, permette di fare un passo ulteriore nella comprensione della volontà di potenza di Nietzsche. Abbiamo visto che, in quanto potenze, le cose, tutte le cose, nessuna esclusa, sono virtual,mente dei "soggetti". Il sentimento (non il concetto!) del limite immanente alla forza - una sorta di sensus sui della forza - qualifìca allora in aggiunta la volontà di poten7.a nel senso propriamente niet7.scheano del termine. La volontà di potenza di Nietzsche è questa esperien7.a del limite immanente alla forza. La foresta non ha il sentimento del limite, che è cosl, come il Dio spinoziano non ha il sentimento dell'infinito, che è e non può non essere. Dobbiamo allora supporre

26. G. Deleuze, Cosa può un rorpo? Lezioni su Spirwza, tr. it. di A. Pardi, Ombre corte, Verona 2010, pp. 143-144.

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che ovunque sia presente un "sentire'', vi sia, a livelli diversi, una riflessione della potenza su se stessa, una riflessione d'altra natura, però, rispetto a quella "posizionale" che pennetteva una via di fuga dall'immanenza assoluta dell'essere. Quella era appunto un vedersi della potenza come tale, come oggetto posto a distanza e messo a disposizione di un soggetto che ne sarebbe il titolare e ne avrebbe "facoltà". Quelfa riflessione era rappresentazione. Qui, nell'immanenza del "sentire", c'è invece una riffessione senza rappresentazione, senza dualismo soggetto-oggetto. Il vocabolario della intuizione sarebbe forse quello più adeguato a descrivere questa autoaffezione sen7.a distan7.a, senza rapporto cogitativo di sé a sé. E il vocabolario dell'intuizione, lo ricordo senza poterlo approfondire, ha, non a caso, da sempre privilegiato il sensorio tattile a scapito di quello ottico27• Intuire è toccare/toccarsi/essere toccato, l'intuizione è trauma, non un vedere a distanza nella luce della trascendenza. Sta di fatto che è nel sentimento del limite che la potenza fa esperienza di sé, si dota di un fuoco soggettivo e diviene volontà di poten7.a. Ma come si esperisce?

8. Eterno Ritorno dell'Uguale E qui ritorna in gioco il fatum che il bambino coscienzioso Niet7.sche si impegna ad amare per l'anno che verrà. Nel limite la potenza fa esperien7.a di sé come Eterno Ritorno dell'Uguale. Nel limite la potenza si riflette in se stessa, ma non si raddoppia in un meta-potere (potere-di-non). Essa è certamente una potenza che, megaricamente, non può non attuarsi, ma,

27. Si veda R. Ronchi, Metodo deltintuizione, in R. Lanfredini (a cura di), Filosofia: metodi e orientamenti contemporanei, Carocci, Roma 1922, pp. 99-115.

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appunto, a differenza di quanto presumibilmente accade alla potenza della foresta e di Dio, si sente come un siffatto nonpoter-non. L"eroe omerico, che abbiamo preso ad esempio, non può sottrarsi a una decisione che non dipende da una sua scelta. La necessità (ipotetica) Io individua come quel ''chi" che è e che non può non essere. Se la mamma Io ha immerso nello Stige tenendolo per un tallone, i giochi sono fatti: «cosl fu». Ma il suo tratto eroico dipende dal suo sentirsi assegnato a una necessità inevadibile e a volerla per quel Sé - un Sé radicalmente finito e differente dagli altri - che la potenza in atto ha individuato: «cosl volli che fosse». L"eroe ouole la potenza che è e che non può non essere, l'eroe vuole assolutamente il suo limite. Le sue scelte operative sono orientate da una decisione irrevocabile che non è, a sua volta, il frutto di una scelta. Bisognerebbe rileggere in questa luce le celeberrime pagine deleuziane sul poeta ferito9B. Essere all'altezza dell' evento - nel caso di Joe Bousquet, una schiena spezzata dalla pallottola - signifìca fare qualcosa di ciò che l'altro ha fatto di me, essere uno che dice di sl, ricomporre in Uno l' «orrida casualità». Ma forse è sufficiente sfogliare le lettere dei condannati a morte della Resistenza per ritrovare sistematicamente confermata questa interpretazione megarica della volontà di poten7~. Mai, nelle ultime parole rivolte ai propri cari, si fa riferimento alla dimensione della scelta. Sempre si richiama una necessità inflessibile, un "dovere" che ]'occasione ha reso inevadibile. L'eroe è tale perché non ha scelta. Fa, nelle circostanze date, quello che semplicemente non può non fare. L'eroe ama il fato. Figurativamente: morde la testa del serpente che rischia di soffocarlo. Vale per lui quanto Plotino, nel trattato 39, scriveva dell'Occasione (kairos). Quando il kairos si manifesta, il "può" diventa un "si deve" (to deon). 28. Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, tr. it. di M. de Stefanis, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 133-137.

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Se, come potrebbe obiettare il sofìsta, l'occasione fa anche l'uomo ladro, se, cioè, è possibile evadere il f atum in una libertà immaginaria (nella libertà della trasgressione), è perché l'apparizione del destino (circulus vitiosus deus) suscita angoscia. L'angoscia non si genera, come crede tutto il Novecento, di fronte all'abisso del nulla, ma gettando un colpo d'occhio nell'abisso dell'essere in atto, nell'abisso del non-poter-non. Zarathustra ne sa qualcosa. Sa quale sia il prezzo esistenziale da pagare per il pensiero dell'Eterno Ritorno. Infatti bistratta il nano e rampogna, seppure con dolcezza, i suoi cari animali. Il primo ha fatto del sentimento del non-poter-non una facile fìlosofìa, ne ha tratto, insomma, un concetto, i secondi ne hanno fatto una poesia, hanno cantato, insomma, una bella «canzone da organetto». Sul piano del detto (fatum) la versione del nano, quella degli animali e quella di Zarathustra sono la medesima versione. Concetto, poesia e intuizione dell'Eterno Ritorno non divergono sul piano del contenuto. La differenza (il differenziale) la fa il sentimento del limite della forza, vale a dire l'amore del fato, che non è né concetto né poesia, ma etica, cioè una ontologia pragmatica e una etologia degli effetti/affetti, come scriverà Deleuze lettore di Spinoza. Potremmo aggiungere che questa etica è, in ultima analisi, anche una estetica trascendentale e una pedagogia dei sensi, perché amare significa imparare a sentire la differenza (l'infìnito in atto) come causa immediata di ogni ente fìnito: Voglio imparare sempre di più a vedere il necessario nelle cose come fosse quel che v'è di bello in loro: cosi sarò uno di quelli che rendono belle le cose. Amor fati: sia questo d" ora innanzi il mio amore! Non voglio muovere guerra contro il brutto. Non voglio accusare, non voglio neppure accusare gli accusatori. Guardare al,trove sia la mia unica negazione! E, insomma: quando che sia, voglio soltanto essere, d"ora in poi, uno che dice si!

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Nietzsche un anti-classico? Carlotta Santini

1. Che cosa cambia con Nietzsche? In introduzione a questo contributo, credo sia utile provare a rispondere alla domanda che costituisce il filo conduttore di tutti gli interventi di questo volume: Che cosa cambia con Nietzsche? Spero con questo di creare le migliori premesse per cercare di rispondere a un'altra domanda, quella posta a titolo del mio intervento: Nietzsche un anti-classico? Che cosa cambia con Nietzsche? Tutto e nulla. Quella di Nietzsche può essere considerata l'ultima grande rivoluzione copernicana della modernità: la sua opera ha avuto un impatto incalcolabile su ogni aspetto della cultura, della società e della visione del mondo contemporanee. Nonostante il mancato riconoscimento e quasi l'anatema da parte dei suoi più diretti contemporanei, nonostante le vicende della Seconda guerra mondiale l'abbiano travolto suo malgrado assieme al fior fiore della cultura tedesca, Nietzsche è stato per tutto il XX secolo un pensatore ineludibile, un riferimento ineliminabile, esplicito o implicito, col quale tutti, le destre come le sinistre, i filologi classici come gli artisti, i fìlosofì e altrettanto i teologi (nemmeno papa Benedetto XVI si è tirato indietro) si sono

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sentiti in dovere di confrontarsi. Il "fenomeno Nietzsche" ha nutrito tutta la vita culturale e intellettuale del XX secolo, e la nostra "modernità" - o la nostra eventuale ''post-modernità" sarebbe impensabile senza questo evento culturale di portata epocale che chiamiamo Nietzsche. Se Friedrich Nietzsche, per la portata rivoluzionaria del suo pensiero, può essere considerato il primo pensatore del XX secolo, egli è però anche, e non solo anagraficamente, l'ultimo grande pensatore del XIX secolo. Nietzsche è il depositario della cultura- artistica, storica, filologica - del suo secolo, una cultura che potremmo a ben diritto definire l'ultima veramente classica prima della nostracontingente modernità. Contro il suo tempo, contro la cultura del suo tempo Nietzsche rivolge, certo, le armi della sua critica, ma da questa stessa cultura egli non può prescindere, e, a mio parere, forse nemmeno lo vuole. Cosa cambia,dunque, dopo Nietzsche?Tutto, main fondo nulla; se non forse (e non è poco) il modo con il quale guardiamo al vecchio mondo di sempre. Il pensiero di Nietzsche si fonda sul passato: la conoscenza del passato ne è il presupposto. Il suo pensiero è stato certo un pensiero critico, ma la sua critica è in primo luogo epistemologica, una critica al nostro sguardo sul mondo e sul passato. Possiamo cosl riconoscere quanto antropomorfa sia la nostra visione del passato e quali meccanismi creativi e produttivi siano implicati nella nostra coscienza di esso. Come critico della cultura, tanto contemporanea quanto nel suo divenire storico, Nietzsche è consapevole del ruolo che egli stesso riveste all'interno di questa tradizione. Egli è consapevole dei meccanismi attraverso i quali opera la cultura e si fa creatrice di valori. Il suo obiettivo non è quello di smantellare il passato sotto il "martello" della sua critica-quanti fraintendimenti ha generato questo "filosofare col martello"-; egli aspira piuttosto ad agire sulla storia deviandone il corso, generando nel presente quei germi che produrranno mutamenti storici e

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culturali nel futuro. Più che distruttiva la sua critica è "eversiva", in senso meramente etimologico, poiché fa leva sul passato e sul presente per ribaltare le conseguenze che potremmo trarne nel futuro. Ma senza il peso di questo passato, senza il peso della cultura che egli pur critica, non ci sarebbe nulla su cui fare leva, non si darebbe dunque nessuna possibilità di futuro.

2. Nietzsche un anti-classico? Tra i molti elementi di novità del suo pensiero, Nietzsche è noto in primo luogo per la sua rivoluzionaria interpretazione del mondo antico. La "scopertal'l' (come vuole Aby Warburg) 1o, se si vuole, l7invenzione delle due anime - apollinea e dionisiaca - del mondo greco ha aperto il vaso di Pandora dell7antichità. Il mondo antico si rivela al XX secolo molto più complesso, profondo e tragico di quanto le precedenti visioni antiquarie, estetizzanti o finanche moraleggianti avessero sospettato. Questa rinnovata visione del mondo antico viene solitamente interpretata come essenzialmente anti-classica. Se per "classico" si intende una particolare interpretazione delll'arte del secolo dl'oro ateniese secondo un modello ieratico, irenico, la summa della edle Einfal,t und stille Grofte di cui parla Johann Joachim Winckelmann, senz altro la rivalutazione da parte di Nietzsche dell7arcaismo del mondo greco e dei culti orgiastici dionisiaci si situa agli antipodi di questa visione. Ma, a ben vedere, questo modello pacificato della Grecia antica, granitica espressione di divina quiete e splendore, era stato già messo in crisi da molti autori prima di lui. Per restare solamente nel campo della storia delll'arte, già Anselm Feuerbach nel suo 7

1. A. Warburg, Schlusssitzung der Burckhardt Obung (1927), in Id., Werke

ineinemBand, a cura di M. Tremi etal., Suhrkamp, Berlin2010, pp. 695-699.

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Der Vatikanische Apollo (1833) rivendicava i diritti del colore nella statuaria contro la pretesa monocromia spiritualizzata e idealizzata di un Winckelmann2, e quelli del movimento convulso delle menadi e dei satiri - si pensi alla statuaria di uno Skopas- contro l'immobilità ieratica di una concezione del divino che a ben vedere è molto più europea e medioevale che greco-orientale e antica. Se per "classico'' intendiamo invece in senso più proprio quella particolare operazione culturale intrapresa, tra gli altri, dagli eruditi alessandrini, che consiste nell'innalzare delle forme a canone, nel definire strutture e regole di riferimento a cui ricondurre le forme dell'arte greca a partire dall'epoca del suo maggior splendore (quella che appunto chiamiamo l'epoca classica); se per "classico" intendiamo inoltre la maniera in cui questo repertorio selezionato, una volta assurto a canone, abbia influenzato durevolmente e influenzi ancora oggi la nostra cultura: in questo caso il rapporto di Nietzsche con il "classico", con questo specifìco meccanismo culturale, non è facilmente decidibile. La mia impressione è che, ancora una volta, Nietzsche consetvi della tradizione molto di più di quanto non rigetti. È dunque Niet7sche dawero un anti-classico? E su questo punto di domanda che dovremo concentrarci nella trattazione che segue. Quello che mi propongo è di tracciare un percorso un po' anomalo nell'opera di Niet7sche, un percorso che tocca alcuni testi non ancora editi in lingua italiana - in particolare i corsi che Nietzsche tenne all'Università di Basilea- e dei testi già noti - come gli appunti per l'Inattuale Noi filologi - che vengono generalmente rubricati a sostegno della tesi di un Nietzsche critico della classicità, per cercare di darne una nuova lettura. 2. Un pregiudizio, questo, duro a morire, se si pensa che lo si trova ancora ed estesamente argomentato nella per altro validissima Storia dell/arte italiana di Giulio Carlo Argan.

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3. Il compito del filologo Friedrich Nietzsche, come è noto, non nasce per formazione filosofo, bensl filologo classico. Dopo gli studi classici all"internato di Pforta e nelle Università di Bonn e Leipzig, nel decennio che intercorre tra il 1869 e il 1879 Nietzsche insegna Letteratura greca all"U niversità di Basilea. In quegli anni, a fianco del suo impegno come professore, Nietzsche riflette sul valore degli studi classici nella società a lui contemporanea, partendo da un"autoanalisi della sua forma7Jone classica e del suo mestiere di filologo e insegnante. Queste riflessioni troveranno un"espressione più sistematica in alcuni scritti molto interessanti e ancora poco conosciuti: le lezioni sull" Enciclopedia della filologia classica (1871) e ]"abbozzo per la Considerazione inattual,e Noi .filowgi (1875). Ben nota è la critica di Nietzsche a una filologia classica concepita come una scienza fine a se stessa, che mummifica il passato, finalizzata al mero compiacimento erudito: posizioni, queste, che aveva espresse tra l"altro nel suo libro più famoso, la Nascita della tragedia (1872), ma che possiamo leggere fin dalla Lezione inaugurale all"Università di Basilea Omero e la .filologia classica (1869). Meno nota è invece la difesa di Nietzsche del sistema di studi classici e dell'educazione dei giovani attraverso le opere dell'antichità greco-romana, un"apologiache ritroviamo in queste pagine del Nachlass e che "redime'" in un certo senso la sua disciplina, ponendo come condizione che il suo sapere venga vivificato nell'insegnamento. Le lezioni sull'Enciclopedia della filologia classica rivestono un ruolo particolarmente importante in questa riflessione. Partiamo anche qui dal titolo di questo corso. Per "Enciclopedia" nel senso più comune e diffuso del termine si intende o~ un"opera compilativa a carattere sistematico che racchiude e ordina il sapere universale. I: Enciclopedia più celebre dell'età moderna è l"impresa di Diderot e d' Alembert, che oltre a dif-

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fondere il sapere umanistico, scientifico e tecnico, aspirava a riformare i costumi e la mentalità dei contemporanei. Nell'Ottocento l'estensione dei saperi ha già raggiunto dimensioni notevoli, ma non tali da far desistere gli studiosi da ogni pretesa di "enciclopedismo" e "universalismo". Quanto anacronistiche potessero però apparire queste aspirazioni già nell'Ottocento lo lascia intendere la feroce satira di Gustave Flaubert all'insensata impresa di Bouvard et Pécuchet (1881). La concezione delle Enciclopedie necessariamente si trasforma nell'Ottocento, e la definizione stessa di "Enciclopedia della filologia classica" prende il significato di "metodo", "metodica", "metodologia della filologia classica". Non più dunque l'ambizione di racchiudere tutto il sapere universale enumerandolo, bensl quella di ordinarlo in categorie, o meglio ancora di tracciare dei percorsi conoscitivi che rendano fruibile questo sapere. Si potenzia dunque la funzione pedagogica di questo strumento, che lo renderà l'antesignano dei nostri manuali odierni. Come intende Nietzsche la sua Encic"lopedia della fiwwgia classica ci viene detto in incipit a questo corso, dove si trova una critica del termine a partire dalla sua etimologia. Il termine nasce dalla fusione di due termini, l'aggettivo enkyklios associato al sostantivo paideia citati dal greco da Plinio il Vecchio nell'Epistola dedicatoria della sua Storia naturale. Lenkyklios paideia dovrebbe tradursi secondo Niet7.schecome "educazione circolare". Tradizionalmente intesa come una educazione completa, esaustiva, dunque enciclopedica nel senso che coinvolge tutte le discipline e tutto il sapere, l'educazione "circolare" può anche significare una educazione - mi si passi il termine - "a tutto tondo", che mira a sviluppare tutte le facoltà umane. Ed è proprio quest'ultimo senso quello che intende Nietzsche. Per via del doppio statuto della loro destinazione, come nel caso delle molte altre "Enciclopedie della filologia classica"

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della stessa epoca1, ci troviamo di fronte a opere concepite secondo una duplice fìnalità: da una parte l'insegnamento universitario delle tecniche, degli strumenti, ma anche dello spirito della filologia classica, rivolto dunque ai giovani aspiranti filologi; dall'altra, questi testi costituiscono per i loro autori degli importanti momenti di autoriffessione sulle finalità e le modalità scientifiche della pratica filologica, e dei luoghi d'incontro e di scambio per i fìlologi loro contemporanei. Sebbene si trattasse essenzialmente di lezioni universitarie, le Enciclopedie più celebri hanno avuto una diffusione straordinaria, grazie alle trascrizioni degli studenti, ma anche in alcuni casi alla pubblicazione. In questo importante testo, dunque, anche Nietzsche si rivolge almeno a tre interlocutori: ai suoi giovani studenti, ai filologi suoi colleghi, e non ultimo a se stesso, per una auto-riflessione sulle ragioni della sua scelta di divenire fìlologo. La domanda che viene posta in queste pagine è dunque come e perché si diventa filologi. E per rispondere a questa domanda Nietzsche si rivolgerà alla psicologia. Nietzsche identifica tre elementi (che chiamerà alternativamente tendenze, istinti o bisogni) alla base della formazione di un buon filologo. Questi tre elementi devono essere sapiente-

3. Dopo r opera pionieristica di Friedrich August Wolf (F.A. Wolf, Darstellung der Alterlumswissenschaft nach Begri.ft Umfang, Zweck und Wert, Lange & Sprinter, Berlin 1807; Id., Encyclopiidie der Phil,ologie. Nach dessen Vorlesungen oon 1798-1799, a cura di G.M. Stodmann, Expedition des europaischen Aufsehers, Leipzig 1831; Id., Vorlesungen iiber die Al.tertumswissenschaft, a cura di J.D. Giirller, voi. I, Lehnhold~ Leipzig 1831) uno degli esempi più celebri e più compiuti è quellodelle lezioni diAugust Boeckh, pubblicate postume (A. Boeckh, Encyklopiidie und Methodologie derphilologischen Wissenschaften, acuradi E. Bratuscheck, Teubner, Leipzigl877), ma se ne contano molte altre, concepite di regola sottoforma di corsi universitari: da Otto Jahn, a Gottfried Bernhardy, a Friedrich Ritschl, di cui purtroppo non si è tramandato quasi nulla. Ma anche la celebre Henneneutik und Kritik ( 1838) di Friedrich Schleiermacher appartiene a questo novero.

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mente dosati ed equilibrati, oltre a essere sempre compresenti senza che nessuno di questi prenda il soprawento sugli altri. Come condizione preliminare, un buon filologo deve essere innanzitutto ben disposto, nel senso proprio e ben poco metaforico di essere necessitato al suo lavoro dal bisogno. Si tratta qui non tanto del bisogno materiale (guadagno, posizione, prestigio), che fa della filologia un mestiere (Bernf), quanto di un bisogno interiore, quello che potremmo chiamare vocazione (Berufanr), ma che Nietzsche preferisce definire, in maniera più appropriata e al contempo disincantata, istinto (Trieb ). Gli istinti, più propriamente i bisogni (Bedii.rfnisse), che Nietzsche individua alla base della scelta del percorso di formazione di un filologo sono tre: ]"inclinazione pedagogica (piidagogische Neigunr), la predilezione per l"antichità e il piacere che si trae da essa (Freude am Altertum), e per finire la pura sete di conoscenza (rei.ne Wissensgier) 4 • Ognuno di questi istinti, preso isolatamente e non sviluppato in maniera armonica con agli altri, segue una deriva autonoma e diviene il carattere dominante {la monomania, si potrebbe dire) di figure di filologi idiosincratici, dei quali la filologia moderna offre, secondo Niet7.sche, molti tristi esempi: ottusi iperspecializzati, filologi micrologici che vanno a caccia di vermi (come il Wagner di Faust), dogmatici o estetizzanti. A una eccessiva ossessione pedagogica che non renda giustizia

delle istanze estetiche e conoscitive del mestiere della filologia, corrisponderà la figura di un insegnante concentrato nella limitatezza del suo compito specifico: un maestro di lingua, dunque, nel caso del filologo, che concentra tutti i suoi sforzi nell"acquisizione e nell"insegnamento dei mezzi del sapere. Questo genere di uomini non sa distinguere tra il mezzo e il fine, tra ]"insegnamento e quello che è il fine dell"insegnamen-

4. EkP, KGW 11/3, 366.

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to, ]"educazione, e sacrificano quest'ultimo al primo. Cosl facendo privano il loro sapere di qualunque istanza che potrebbe dargli senso, unità e tensione verso l"esterno, verso uno scopo. Il secondo istinto è quello che potremmo definire ''estetico", che spinge gli uomini verso }"antichità poiché essa è bella e il suo studio è una inesauribile fonte di piacere. Questo secondo elemento è meno scontato di quanto possa sembrare, e questo non perché richieda di rispondere alla domanda "che cos"è il bello", vexata quaestio dell" estetica di ogni tempo. In realtà, l"apprezzamento estetico per l"antichità è secondo Niet7.sche un sentimento molto complesso, non propriamente naturale e spontaneo, bensl di difficile acquisizione. L"antichità è un terreno pericoloso per chi vi diriga autonomamente i propri passi. L"educazione giovanile attraverso i classici è un az7.ardo, per via dei discutibili contenuti etici e pedagogici che il mondo antico offre senza alcun filtro al sentimento moderno. Si tratta però di un az7.ardo che vale la pena di essere tentato. Il sorgere di un gusto per l"antichità difficilmente si può manifestare in giovane età. Esso appartiene piuttosto alla seconda giovinez7.a, che prelude all"età adulta: è un sentimento costruito e già retrospettivo, che va di pari passo con lo sviluppo del senso storico. Si tratta di una consapevolez7.a acquisita durante i lunghi anni di studio, spesso indifferente e svogliato, che solo all"ultimo si riscopre come intimamente posseduto. Vorrei sottolineare questo punto. Parlando di gusto per }"antichità, di piacere estetico per ]"antichità, possiamo a buon diritto parlare di "antichità classica"". Lasciando da parte le periodi7..zazioni che lasciano il tempo che trovano, "classica"" è l"antichità nella misura in cui essa diviene oggetto di una vera e propria trasvalutazione da parte di chi ne fruisce - in questo caso dei moderni - che vi riconoscono le forme del bello e dell"esemplare. Niet7.sche ci dice che questo particolare gusto per ]"antichità non è innato, ma si può ottenere: è una facoltà

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che si sviluppa e si costruisce, che si manifesta dunque solo col tempo. Ma proprio per questo, forse, per tornare alle formule care all"estetica romantica, il sentimento per la classicità è paradossalmente l'unica vera forma di coscienza estetica dawero naive. Quando infatti si manifesta, quando cioè il percorso di educazione arriva a confìgurare il gusto e lo rende capace di concepire la classicità dell'antichità, la meraviglia che si offre a quel punto alla coscienza educata è di quelle che non sfumano dopo il primo istante, ma si riproduce ogni volta e nuovamente con la stessa immediatezza e vividezza. I nostalgici della ''naiveté assoluta" dimenticano che essa è un concetto limite: se si rincorresse ogni volta un'impressione per la sua assoluta unicità, primordialità e immediatezza, si fìnirebbe per divenire schiavi di un consumismo delle emozioni. Cercare l'immediatezza e l'originalità a ogni nuova esperienza: questa è una vera condanna a vita. Vista una chiesa si sono viste tutte: ma a un occhio educato e a uno spirito coltivato ogni singola chiesa romanica, ogni paesaggio, ogni singolo tempio greco appariranno ogni volta, giorno per giorno, o ad anni di distanza, come unici e irripetibili, con tutto il loro splendore intatto. Essi potranno generare ogni volta una meraviglia nuova, diversa da quella meraviglia "prima" solo nella misura in cui diverso è lo spirito che la coglie: più maturo, più consapevole, o semplicemente più vecchio. Questa possibilità di costruire il gusto, di godere di un paesaggio, di un'opera d'arte, di un poema, iscrivendoli nell'orizzonte della classicità, è un privilegio di cui siamo ancora troppo poco consapevoli. Nella fìn troppo sbandierata ricerca dell"'autenticità", dell"'immediatezza" e della "spontaneità" diamo la caccia sempre più a dei fantasmi e ci agitiamo in pose scomposte che tutto sono tranne che "spontanee". Un gusto educato e educabile è invece una grandissima risorsa spirituale: basti pensare che noia sarebbe arrivare a 90 anni, dopo aver provato tutto, visto tutto, fatto di tutto, e non essere più in grado di

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stupirsi di niente. E invece anche a 90 anni, eccoci riprendere in mano Tucidide, che ci aveva annoiato mortalmente al Liceo, leggere le pagine "classiche" sugli Ateniesi o su Temistocle, e magari capirle per la prima volta, o ritrovarle piuttosto intatte, come le ricordavamo, riconfermarsi nel nostro ricordo. Questo è dawero un privilegio incredibile e una forma di piacere tanto complessa quanto appagante e duratura. Anche questo istinto rischia però di scavalcare i giusti confini che gli sono più propri e di perdere di vista il suo obiettivo. Il rischio è qui quello delrestetizzante compiacimento dell"antichità, del vuoto estetismo, dell"esasperato spirito antiquario del collezionista. Chi incorre in questi eccessi non sarà certamente un buon insegnante, poiché non avrà alcun interesse di comunicare ad altri di ciò che ritiene essere sua proprietà esclusiva, un lusso riservato al proprio godimento privato. Più in generale, si rischia di ricadere in una sterile nostalgia per un passato ormai morto, che si continua a venerare in quanto tale, mummincato e privato del suo potere attivo e educativo. Il terzo e ultimo istinto è quello secondo Niet7schedominante nella fìlologia a lui contemporanea. È ristinto scientifico, dello studioso delle scienze naturali, degli aridi e astratti ''vivisezionatori"" dell'antichità, che le si accostano come a un oggetto immoto da conoscere e analizzare. Nella sua forma estrema questo istinto conoscitivo è avulso da ogni considerazione estetica e da ogni approccio che abbia un fine altro rispetto a quello della conoscenza e del dominio dell"oggetto. Il pathos conoscitivo (Pathos der Wahrheit o Wille zur W ahrheit) - conviene ricordarlo - è per Niet7..sche una delle forme potenzialmente degenerabili della volontà di poten7~. Il risultato di un tale approccio unilaterale sarà l"erudizione fine a se stessa, che è irrimediabilmente cieca nei confronti dei fenomeni estetici e pertinenti alla sfera etica, che esulano dall'interesse scientifico erudito.

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4. Canone e classicità Isolati, dunque, questi tre istinti - pedagogico, estetico, scientifìco - conducono inevitabilmente ognuno a una deriva differente, e solo uniti e bilanciati riescono a dare vita ali'esperienza completa e fruttuosa del filologo classico, a un tempo custode, conoscitore dell'antico, e insegnante capace di comunicare il frutto del suo sapere. Qual è ora l'orizzonte nel quale si inscrive l'azione di un tale filologo "enciclico" (in senso non pontificale), di un filologo dunque dotato organicamente di queste tre qualità, un filologo ''enciclopedico", "a tutto tondo"? La risposta è tanto ovvia quanto sorprendente: che esso comprenda (verstehen) la tendenza "classica" dell'antichità (Die Tendenz des klassischenAltertums "f. Che cosa rappresenta per Nietzsche la comprensione della tendenza classica dell'antichità e per quale motivo essa è alla base della fonnazione del filologo e rappresenta la meta alla quale le tre tendenze fondamentali devono mirare? In primo luogo, dunque, occorre riflettere più sistematicamente di quanto non abbia fatto finora sul significato del termine "classico". Secondo la sua definizione e la sua storia, "classico", termine latino, ha in origine un'accezione socio-politica che sta a indicare l'appartenenza a un gruppo, non necessariamente ordinata secondo una gerarchia. Il termine viene poi progressivamente a identificare una distinzione non solo di fatto, ma anche di valore: classicus inteso come "di prima classe" (o "il primo della classe", come diremmo noi). Ed è in questo senso che verrà poi utili7..7.ato per defìnire il canone (altro termine fondamentale per concepire il classico) delle opere antiche greche e romane, non tutte indifferentemente, ma quelle considerate migliori, le prime, le classiche, dal punto di vista stilistico6 • "Classico"

5. Ibidem. 6. EkP., KGW 11/3, 341., nota I.

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corrisponde a "canonico", ciò che fornisce il canone, cioè l'unità di misura di tutto il resto. A partire da questa definizione, risulterà dunque evidente come la tendenza classica dell'antichità non possa essere compresa da un filologo che non abbia sviluppato il senso estetico al punto da comprendere i motivi per i quali si distingue tra ciò che è classico e ciò che non lo è. Si presuppone infatti una capacità critica, nel senso più proprio del termine: una capacità di giudizio, e in particolare un giudizio estetico. Ma non è solo la formazione del senso estetico a essere qui chiamata in causa per la comprensione del classico, bensl anche quella pedagogica: «Per essere pedagogo nel senso più alto del termine, il filologo deve comprendere [begreifen] il classico»7• La comprensione, in questo caso il Begreifen, non indica qualcosa di granitico, di dogmatico, ma la capacità di comprendere una pluralità in unità. La definizione di "classico", quando viene data a un gruppo particolare di opere dell'antichità sulla base di un giudizio formale ed estetico, porta con sé un secondo ordine di considerazioni. Questo giudizio non è infatti fine a se stesso: ''classico" è un giudizio che riconosce a un patrimonio letterario di testi delle qualità stilistiche che ne fanno un oggetto valido per l'imitazione. "Classico" significa dunque il modello per l'imitazione, il modello da imitare, ed è in questo che il valore pedagogico della tendenza classica dell'antichità si rivela per Nietzsche decisivo. Le due istanze, quella estetica e quella pedagogica, che devono guidare il filologo nell'approccio al mondo antico e che occorre dunque vigilare si sviluppino nel giovane educato a questo fine, sono magnificamente esemplificate nell'ultimo passo della celebre definizione che Niet7.sche darà della fìlologia classica all'inizio della prolusione del 1869. Delle diverse istanze della

7. EkP, KGW 11/3, 368.

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filologia, citate in questa definizione, la terza, quella estetica, comprende quella pedagogica nella misura in cui al riconoscimento della bellezza fa seguito l'imitazione: [La filologia è un po"] estetica, infine, perché muovendo dalambito delle antichità definisce la cosiddetta antichità classica con la pretesa e l"intenzione di riportare alla luce un mondo ideale sepolto e di porgere al presente lo specchio del classico, dell"eternamente esemplare [Spiegel des Kl.assischen und

r

Ewigmustergultigen].8

La riflessione di Nietzsche sul rapporto imitativo che si instaura con la classicità è molto travagliato. In apertura all'ultimo semestre (Winter Semester 1875/1876) del suo corso sulla Storia della letteratura greca, Niet:7.sche pone una domanda che suona piuttosto sorprendente in questo contesto: come giunsero i Greci alla loro letteratura classica9? Questa domanda nasconde un'altra, implicita, che farà l'oggetto della trattazione del primo capitolo di questa te17.a parte 10: possiamo noi (noi moderni) produrre a nostra volta una letteratura che possa essere considerata classica? Due domande come queste, poste agli studenti che avevano già seguito con lui ben due semestri del corso sulla storia della "letteratura" greca, hanno a mio parere il valore di una provocazione: una provocazione non solo per gli studenti, ma per il professore stesso. Si potrebbe quasi dire infatti che tutta la terz.a parte di queste Lezioni di storia della letteratura greca di Nietzsche siano un tentativo di mostrare come queste due domande siano in realtà illegittime. Il primo problema che si pone è che ciò che chiamiamo "letteratura greca" per i Greci non era affatto "letteratura", ma evento (Ereignis), opera d'arte, realtà performativa: recitazione, espo-

8. HkP, KGW 11/1, 249-250.

9. GGL, KGW II, 5, 271. 10. GGL, KGW Il, 5,275 ss.

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sizione, rappresentazione. "Letteratura"" è termine moderno, preso in prestito ai latini, che presuppone non solo che vi sia un patrimonio di scritti, ma anche che questo patrimonio sia considerato per il suo valore esemplare. Intrinsecamente legato al concetto di "letteratura"" è dunque anche quello di "classico"", non a caso anch'esso un termine latino. Nella terza parte di queste lezioni Nietzsche traccia una sorta di schema chiastico, affine a un quadrato semantico, che gli pennette di problematizzare le relazioni reciproche sviluppate dai concetti di "classico" e di "letterario". "Classico" sta a "letterario" nella più stretta relazione, poiché l"idea di una cultura "classica" o della "classicità" di una cultura può nascere solo all"intemo di una cultura letteraria, che si fonda cioè su un canone di opere considerate esemplari. Una cultura eminentemente "non letteraria" come quella greca antica non poteva, secondo Nietzsche, concepire l"idea del classico, poiché il suo rapporto con la tradizione non era mediato, non richiedeva alcuna presa di distanza epistemologica, ne tantomeno alcun altro giudizio se non quello piuttosto immediato del "ben fatto". Su questo certo si potrebbe discutere, ma su un punto possiamo essere facilmente d'accordo con Nietzsche: i Greci non sapevano di essere "classici""; essi lo sono certamente per noi, poiché solo per noi questa definizione ha un senso. Alla prima domanda, ''come i Greci siano giunti alla loro letteratura classica"", si potrebbe dunque rispondere: perché non sapevano di essere classici o, meglio ancora, poiché la loro cultura non riposava sui "classici"". Alla seconda domanda, "se possiamo noi moderni produrre una cultura che sia a sua volta considerata classica", Niet7.sche risponde in maniera esplicita e impietosa con un verdetto negativo. Anche su questo punto la sua posizione presta il fianco a legittime critiche, ma ci invita comunque a riflettere. Qualche cosa probabilmente ci sfugge del complesso meccanismo di creazione del classico

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se l"esperimento di Harold Bloom di un Canone occidentale (1994) ha incontrato cosi tante resistenze da più parti, e se i tentativi delle case editrici di fornire una lista definitiva dei "classici" della modernità si lascia fin troppo spesso influenzare da giudizi partigiani e mode effimere. Ci vorranno forse alcuni secoli o qualche evento catastrofico (una nuova caduta di Roma, un nuovo incendio della Biblioteca di Alessandria) che metta di nuovo in movimento ifata libellorum, prima che qualche nostro successore possa redigere un canone occidentale degno di questo nome. Ma questo a Nietzsche non interessa. Per lui i moderni non saranno mai classici, e proprio perché la loro cultura si è fondata, nutrita e sviluppata a partire dai classici. Si sarebbe creato un circolo, virtuoso o vizioso che sia, per cui d'ora innanzi la cultura non potrà prodursi che a partire da modelli, in opposizione o in accordo con essi. Sembrano risuonare qui le rimostranze già sollevate dall"estetica romantica: l"arte non nasce più dalla vita, ma dall"arte stessa, dall"imitazione non più della natura, ma di altra arte, e rinuncia dunque all'immediatezza della fonte. Si sente in queste pagine delle Lezioni di storia della "letteratura greca emergere una certa ambiguità di fondo, un nucleo ancora indeciso dell"estetica nietzscheana. Da una parte abbiamo la riffessione sulla decadenza dell"arte, già sviluppata nella Nascita della tragedia, e sul destino di epigonismo a cui sono chiamati tutti gli artisti essenzialmente dopo Omero, a maggior ragione i moderni. Dall"altra sembra però che Nietzsche conservi l"aspirazione a una rifondazione dell"arte, alla possibilità per l'uomo moderno di divenire nuovamente un creatore, cioè produttore di cultura viva. Se vogliamo tentare di essere più consequenti di quanto Nietzsche stesso non sia in queste pagine, si potrebbe dire che l"arte o la letteratura moderne non possono divenire classiche perché lo sono già. Esse infatti nascono e prosperano all"interno di quel meccanismo culturale, inventato dagli alessandrini e protrat-

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tosi fino ai giorni nostri, che crea canoni e impone modelli. Questo meccanismo aumenta le potenzialità dell'arte al quadrato: non più semplice imitazione della natura, ma imitazione di quella imitazione della natura che è l'arte stessa.

5. Perun:,autocritica: Z:,Inattuale Wir Philologen (1875) Contestualmente alla trattazione delle lezioni di Basilea, la questione del classico viene ripresa nel 1875 negli appunti preparatori a Noi filologi, quella che doveva essere la N Considerazione inattuale (prima di Richard Wagner a Bayreuth) rimasta inedita. Per quello che possiamo dedurre dai materiali preparatori, questo scritto doveva avere l'aspetto e la struttura di un contro-testo rispetto all'Enciclopedia11 • Negli appunti del 1875 Niet7.sche si rivolge proprio contro quegli aspetti del mestiere di filologo che avevamo visto nell'Enciclopedia essere considerati gli atteggiamenti fondamentali nell'approccio al]'antichità: quello estetico e quello pedagogico. Ciò che prima era auspicabile sembra ora divenire l'oggetto della critica più feroce. Il punto centrale che viene messo in questione è la predilezione, il gusto per l'antichità e la sua idealizzazione, l'idea cioè che il mondo greco e latino abbiano un valore qualitativamente più alto rispetto al resto del passato e siano con ciò degni di imitazione. In una parola, Nietzsche mette qui in dubbio il valore classico dell'antichità e di conseguenza con ciò delegittima il compito di educatore del filologo. Apparentemente dunque, punto per punto, Nietzsche sembrerebbe smontare le tesi dell'Enciclopedia. Vediamo ora in 11. Si veda anche il parallelismo tra i titoli dei capitoli di questi due scritti, secondo la bozm. di indice dell'Inattuale di cui disponiamo. NF 1875, KGW IV/1, 2[3] (KSA 8, 2[3]).

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che maniera proceda questa demolizione. La predilezione per l'antichità sarebbe frutto di pregiudizi del mondo moderno e risultato di una falsa idealizzazione (falsche Jdeal,isierung) del passato greco-romano, che porta i nomi di classicità e umanesimo. «Falsche Idealisierung zur Humanitats-Menschheib> 12: in questi appunti Nietzsche contrapporrà i due concetti di menschlich e di human 13, che ritiene siano stati confusi nella considerazione delrantichità. Il mondo antico è sl menschlich, nel senso che in esso si svela più facilmente l'elemento umano, ma non per questo deve essere considerato umanistico (se vogliamo provare a tradurre il binomio quasi tautologico del tedesco), human, nel senso di una trasfigurazione dell'ideale umano, come invece vollero in origine gli artefici del Rinascimento e come continuano a volere i moderni filologi e gli esponenti delle correnti neo-umanistiche. Anche in questo caso l'apparente assolutismo delle posizioni nietzscheane può a buon diritto essere mitigato. Si consideri solamente come il rifiuto della trasfigurazione dell'ideale umano non impedisca a Nietzsche di conservare l'esemplarità e dunque la classicità del ''tipo uomo", individuato con l'aggettivomenschlich, come si sarebbe pienamente espresso in Grecia. A ogni modo, poiché l'educazione classica impartita dal filologo poggia su questa idealizzazione, e dunque su questa falsificazione dell'antichità, la necessità dell'imitazione dell'antico, la capacità educativa dell'antichità, dunque il classico in generale, sembrerebbero dei residui condannabili di superstizione culturale. Il sodalizio tra antichi e moderni, reso possibile dall'educazione classica, sembrerebbe dunque essersi spezzato: «Il mio compito è quello di istituire una ostilità assoluta [volle Feindschaft] tra la nostra "cultura" attuale e l'antichità. Chi vuole

12. NF 1875, KGWIV/1,3[4] (KSA 8, 3[4]). 13. NF 1875, KGW IV/1, 3[12] (KSA 8, 3[ 12]).

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servire la prima deve odiare quest"ultima» 14• Ma quali culture Nietzsche vuole mettere in guerra tra loro? Il sodalizio che Niet7sche vuole rompere non è quello tra la cultura e l'antichità, ma quello tra un certo tipo di ''cultura" contemporanea - si noti l'uso delle virgolette-, che dell'antichità si pretende l'erede, e l'antichità stessa. In un appunto aggiunto al quaderno dell'Inattuale Nietzsche chiarisce il suo pensiero: Che solo attraverso r antichità [Altertum] si possa acquistare cultura [Bildung], non è vero. Partendo dalrantichità si -può certo acquistare una qualche cultura, non già tuttavia la cultura che oggi è chiamata tale. La nostra cultura è costruita unicamente su di uno studio dell'antichità, che è del tutto evirato [ganz kastriert] e bugiardo. Ora, per vedere quanto inefficace sia questo studio, non si ha che da guardare i filologi: eppure essi dovrebbero, meglio di ogni al,tro, essere educati dall'antichità. 15

Ecco dunque che ricompare l'educazione attraverso l'antichità. Essa manca proprio là dove si pretende a gran voce che debba essere presente, ma ciò non toglie che essa rimanga valida di principio, sebbene non sembri realizzarsi di fatto ancora nella nostra epoca. Io credo che l'Inattua'le Noi filowgi e l' Encick>pedia, nonostante la loro apparente contraddittorietà, siano in realtà due testi di natura affine. Essi condividono infatti la natura dei desiderata. In entrambi questi testi Nietzsche discute la realizzabilità, e non la realiZ7~one, beninteso, di una visione virtuosa del compito, della vocazione del fìlologo, che costituisce anche la giustifìcazione per la pratica del suo mestiere. Nell' Enciclopedia ci viene detto ciò che "dovrebbe essere", nell'Inattuale ci viene denunciato ciò che "purtroppo non è". Ma non per que-

14. NF 1875, KGW IV/1, 3[68] (KSA 8, 3[68]). 15. NF 1875, KGW IV/1, 3[18] (KSA 8, 3[18]).

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sto la validità del progetto in sé viene meno, né la possibilità (la virtualità) della realizzazione. Se andiamo poi a vedere qual è infine la proposta dell'Inattuale riguardo al rapporto che occorre tenere nei confronti dell'antichità, ci troviamo nuovamente a essere d'accordo con quanto sostenuto nell'Enciclopedia. Nel frammento sopra citato Niet7.sche proponeva di istituire una Feindschaft tra gli antichi e i moderni. Nei frammenti 5[167] e 5[172] dello stesso anno questa ostilità si rivela un sentimento agonale, una competizione emulatoria (Wetteifer). Abbiamo già visto come Nietzsche giudicasse nell"Enciclopedia il godimento estetico dell'antichità come una delle conquiste più difficili per una mente moderna, e come raramente un giovane potesse raggiungere questo traguardo con piena consapevolezza. L'antichità è per lui un modello altissimo e di difficile comprensione. Tutto ciò che la compone risulta estraneo all'uomo moderno, che ne rimane costantemente spiazzato. L'idea che l"antichità greca sia costitutivamente estranea ali'esperienza della modernità, finanche di una modernità che si nutre dei classici, ha una storia lunga. Già i primi traduttori di Omero in Inghilterra e Germania disperavano di poter raggiungere una completa consapevolezza del testo omerico e di poterne comprendere a fondo l'atmosfera che vi veniva espressa e i significati sottesi alla sua lingua cosl lontana ed estranea alla sensibilità moderna. Johann Gottfried Herder rifletteva su questa distanza e si mostrava dubbioso di fronte alla fiduciosa e totale adesione di un Winckelmann al mondo greco16• Senza contare poi la fiducia di molti uomini del "700, convinti che i moderni potessero non solo ereditare lo spirito

16. Si confronti per questo J.G. Herder, Saemtliche Werke. Zur schoenen Literatur und Knnst, voi. I, Fmgmente zur deutschen Literatur, a cura di I.F. Heyne, im Bureau der deutsche Cl~ker, Carlsruhe 1821, parte IV, Von der griechischen Uteralurin Deutschland, se-z. A, Wie weit kennen wir die Griechen?, pp. 54-67.

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degli antichi Greci, ma sostituirsi ad essi per divenire a propria volta dei creatori all"altezza degli antichi o a loro addirittura superiori. Questa fiducia ottimistica Nietzsche non l'ebbe mai, nemmeno nei momenti della sua più intensa infatuazione per l'antichità. I Greci per Nietzsche non ritornano, sono tramontati, e questo è il meglio che si possa dire di loro. I Greci sono infatti gli unici, fino ad ora, ad aver dimostrato la grande virtù di Zarathustra, quella del tramonto. Proprio per questa estraneità radicale sancita dalla storia, l"antichità è il miglior lievito dell"educazione, poiché la sua lontananza dalle nostre esperienze abituali ci stimola a un paragone potenzialmente inesauribile tra essa e noi: Tutto ciò che vediamo e tutto ciò che siamo ci sfida al confronto [Vergleichung], ed è per questo che il filologo deve avere uno spirito contemplativo. Dovrebbe educarsi a questo confronto. Con ciò egli non diventa ancora un greco, ma si esercita sul più alto materiale educativo [Bildungsmaterial]. 11

Già nella descrizione dei tre istinti del filologo nell" Encidopedia, il valore conoscitivo dell"antichità passava in secondo piano rispetto a quello estetico e a quello pedagogico. Il venire in possesso di una conoscenza certa sul mondo antico è infatti subordinato al valore educativo che una tale conoscenza riveste. In quest"ottica avranno ancora più valore lo stupore e l'incomprensione di fronte ali'antichità stessa. Considerare l'antichità come l"oggetto di studio di una scienza è una pratica che appare a Nietzsche decisamente troppo unilaterale: non c"è in gioco altro che il filologo stesso, che attraverso la sua personale erudizione conosce e giudica il mondo antico. Invece il valore educativo dell'antichità sta proprio nel mettere da parte questa unilateralità e nell"istituire un rapporto conoscitivo continuo e reciproco, che non può mai dirsi esaurito.

17. EkP,KGWII/3,372.

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La filologia come scienza [Wissenschaft] che riguarda }"antichità non ha ovviamente una durata eterna [keine ewige Dauer], e il suo materiale deve esaurirsi. Inesauribile è invece il sempre nuovo accomodarsi [Accomodation] di ogni epoca all"antichità, il misurarsi rispetto a quest"ultima [das sich daran Messen]. Se al filologo si propone il compito di comprendere meglio la sua epoca mediante l"antichità, allora questo è un compito eterno [so ist seine Au.fgabe eine ewige]. 18

Il giovane che viene educato all'antichità non rivolge il suo acume critico, la sua capacità di discernimento e di giudizio alla sola antichità: egli bensl conosce se stesso, la sua epoca e il suo mondo a partire dal confronto con essa. Come appare ora capovolta la figura del filologo! Egli non è l'insegnante dell'antichità, ma il maestro del presente. Questo è quello che il Nietzsche del 1875 chiamerà «l'antinomia della filologia [die Antinomie der Philologie]: in realtà si è sempre compresa l'antichità partendo dal presente, e ora si dovrà comprendere il presente partendo dall' antichità?»JO. La leva su cui fa for7~questo ribaltamento del rapporto con il passato, secondo il quale guardando il passato non impariamo più qualcosa su di lui, bensl su di noi, è quella differenza (Differenz) che sperimentiamo costantemente nel rapporto col mondo antico, quella distanza ed estraneità che diventano per noi ideali, modelli, verso i quali proviamo nostalgia (Sehnsucht), e che ci spingono a competere con essi. «La cosa più importante (e la più difficile) [Das Wichtigste (und das Schwerste)] è calarsi con amore [liebevoll hineinzulegen] nell'antichità e sentire la differenza [die Differenz zu emp.finden]. Solo allora si può essere educati dal]'antichità>>20• La forza di questa differenza, lo 18. NF 1875, KGW IV/1, 3[62] (KSA 8, 3(62]). Cfr. anche EkP, KGW 11/J,

405. 19. NF 1875, KGW IV/1, 3[62] (KSA 8, 3[62]). 20. EkP, KGW 11/J, 368.

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stimolo che da essa proviene, è per Nietzsche una delle energie più produttive che possano collaborare alla crescita della consapevolez7.a e alla formazione del giovane. Al filologo, al]'educatore, resta il ruolo più difficile e importante in questo processo. Egli infatti è come un mediatore tra due mondi, il Caronte della modernità: [Il filologo] deve essere l'insegnante ideale [der ideal,e Lehrer] per le età più valide: insegnante e portatore del materiale educativo [Tragerder Bildungsstoffe], il mediatore [der Mittler] tra i grandi geni e i nuovi geni che verranno, tra il grande passato e il futuro. Enorme riproduttività [Reproduktivitiit ]21, un virtuoso geniale [genialer Virtuos] rispetto al genio produttivo. Questa è la sua tendenza per tutta la vita.22

E qui ci appare per la prima volta chiaramente la paradossalità della figura del filologo. Che cosa è un filologo? Qual è il suo posto nel mondo, quale il suo posto nella storia? Egli sta tra gli antichi e i moderni, ma a quale dei due mondi appartiene? Si è educato all'antichità per educare ad essa la gioventù, ma ha potuto farlo solo in quanto uomo moderno e con ciò irrimediabilmente estraneo al mondo antico: solo chi infatti è distante da quel mondo può percepire quella differen7~ che è l"essen7.a del classico. La condizione del filologo in quanto insegnante è dunque la condizione di coloro che sono sospesi tra due mondi, senza appartenere propriamente a nessuno dei due. Egli non appartiene all'antichità, innanzitutto, poiché ne è turbato come uomo moderno e proprio questo turbamento lo rende capace di apprendere da essa. Se il filologo fosse simile ai Greci, non sarebbe un filologo, non studierebbe gli

21. Il termine èdi ori~ne burckhardtiana. Burckhardt aveva parlato di "geni riproduttivi", nel caso dei grandi umanisti della sua Storia del Rinascimento in Italia. 22. EkP, KGW 11/J, 368.

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antichi, non sarebbero per lui un modello: nessun greco infatti è andato a scuola «dai Greci", poiché per essi la scuola era la vita, la cultura stessa nella quale vivevano. Ma è il filologo un uomo moderno a tutti gli effetti? Non lo frena, non Io trascina indietro questo suo amore per gli antichi? Sebbene il filologo guardi indietro al passato per rendere più vivo e significativo il presente e spingere i suoi allievi verso il futuro, ebbene a ben vedere anche questo futuro non gli appartiene. Come ogni maestro, come ogni medio di sapere, come ogni traghettatore, il filologo è destinato a fare continuamente la spola tra le due sponde senza approdare mai a nessuna. Egli è come il poeta-ponte di holderliniana memoria. Il futuro è dei giovani che ha formato, a loro appartiene l'azione nel mondo. Il filologo rimane prigioniero invece del suo ruolo di educatore: a lui non si confà l"azione, ma la riproduzione, il mettere continuamente in mostra la differen7~ della quale egli, vita natural durante, sarà il testimone. Per questo il filologo, un buon filologo, è un monito perenne per la società moderna: poiché non essendole mai integrato, resta sempre una voce fuori dal coro, con la sua persona e con il suo insegnamento. Cosl come l'antichità è irriducibilmente estranea e inquietante per l'uomo moderno e su questo si fonda il suo valore di modello eternamente esemplare, cosl il fìlologo rappresenta un elemento perenne di inattualità nella sua epoca. Egli è un maestro pericoloso, che insegna attraverso il più alto Bildungsmaterial,, che è capace di porre costantemente in crisi la fiducia nell'eccellenza del mondo presente.

Indice

Nota editoriale

p. 9

Introduzione

p. 13

Maria Cristina Fornari, Il geowgo dei fatti morali

p. 17

Carlo Gentili, Quid est veritas? Statuto ambif!fW di una nozione nel pensiero di Nietzsche

p. 31

Alice Giordano, La 4:4:ri,flessione radicale'' di Ni