Estetica
 8870787575,  9788870787573

Table of contents :
Indice......Page 361
Frontespizio......Page 2
Introduzione......Page 4
Platone - Mimesis e verità......Page 22
Aristotele - La rappresentazione del verosimile......Page 41
Pseudo-Longino - La retorica e il sublime......Page 56
Plotino - Il bello intelligibile......Page 71
Leonardo da Vinci - Arte e interpretazione della natura......Page 82
1. Se la pittura è scienza o no......Page 86
2. Esempio e differenza tra pittura e poesia......Page 87
4. Delle scienze imitabili, e come la pittura è inimitabile, però è scienza......Page 88
5. Come la pittura abbraccia tutte le superficie de’ corpi, ed in quelli si estende......Page 89
9. Come il pittore è signore d’ogni sorta di gente e di tutte le cose......Page 90
20. Dell’occhio......Page 91
29. Quale scienza è meccanica, e quale non è meccanica......Page 92
Giambattista Vico - La logica poetica......Page 94
Corollari d’intorno a’ tropi, mostri e trasformazioni poetiche......Page 98
Alexander Gottlieb Baumgarten - Estetica e conoscenza sensibile......Page 108
Introduzione......Page 113
I. La bellezza della conoscenza......Page 116
XXVII. La verità estetica......Page 118
Edmund Burke - Le idee del bello e del sublime......Page 126
Dolore e piacere......Page 131
Diletto e piacere come opposti l’uno all’altro......Page 133
Il sublime......Page 134
Ricapitolazione......Page 135
L’oscurità......Page 136
La bellezza......Page 137
La causa reale della bellezza......Page 138
Confronto tra il sublime e il bello......Page 139
Come si produce il sublime......Page 140
Charles Batteux - Le belle arti: imitazione ed espressione......Page 141
Dove si fonda la natura delle arti mediante quella del genio che le produce......Page 145
I. Divisione e origine delle arti......Page 146
II. Il genio non ha potuto produrre le arti che mediante l'imitazione: che cosa significa imitare......Page 148
III. Il genio non deve imitare la natura come essa è......Page 152
Dove si stabilisce il principio di imitazione mediante la natura e le leggi del gusto......Page 153
I. Che cosa è il gusto......Page 154
IV. Le leggi del gusto non hanno per oggetto che l’imitazione della bella natura......Page 156
I. Si deve conoscere la natura della musica e della danza mediante quella dei toni e dei gesti......Page 157
II. Tutta la musica e tutta la danza devono avere un significato, un senso......Page 159
Immanuel Kant - La critica del giudizio estetico......Page 160
Primo momento del giudizio di gusto1 secondo la qualità......Page 169
Secondo momento del giudizio di gusto, cioè secondo la sua quantità......Page 173
Terzo momento dei giudizi di gusto secondo la relazione degli scopi che in essi è presa in considerazione......Page 181
Definizione del bello derivata dal terzo momento......Page 186
Quarto momento del giudizio di gusto secondo la modalità del compiacimento per l’oggetto......Page 187
Nota generale alla prima sezione dell’analitica......Page 190
Friedrich Schlegel - La poesia e il romantico......Page 195
frammenti critici......Page 204
Frammenti dall'Athenaeum......Page 206
Georg Wilhelm Friedrich Hegel - L’arte e l’apparire sensibile dell’idea......Page 210
1. L’opera d’arte come prodotto dell’attività umana......Page 219
2. L'opera d’arte, in quanto prodotta per il senso dell'uomo, viene tratta dal sensibile......Page 225
Arthur Schopenhauer - L’arte e la volontà......Page 233
Charles Baudelaire - La bellezza nella modernità......Page 248
Il bello, la moda, la felicità......Page 255
Elogio del trucco......Page 257
Benedetto Croce - Arte, intuizione, espressione......Page 262
L'intuizione e l’espressione......Page 267
L’intuizione e l’arte......Page 275
Walter Benjamin - L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica......Page 281
Martin Heidegger - Opera d’arte e verità dell’essere......Page 304
Cosa e opera......Page 315
Maurice Merleau-Ponty - Pittura e ontologia della visione......Page 329
[...]......Page 345
Letture consigliate......Page 348
Indice dei nomi......Page 352

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Paolo D’Angelo, Elio Franzini, Gabriele Scaramuzza

Estetica

a cura di Elio Franzini e Antonio Somaini

Raffaello Cortina Editore

www.raffaellocortina.it

Copertina Studio CReE ISBN 88-7078-757-5 © 2002 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4

Prima edizione: 2002

Introduzione

1. La parola “estetica” nasce nel 1735, quando un filosofo di ascendenza leibniziana, Alexander Gottlieb Baumgarten, nelle sue Riflessioni sulla poesia, riprende l’aggettivo greco aesthetike, utilizzato sia da Platone sia da Aristotele, e derivato da aisthesis (sensazione), e lo “sostantivizza”, costruendo un termine come base per una nuova scienza. Scienza che Baumgarten stesso, pochi anni dopo, con la sua Aesthetica (1750), subito si preoccupa di definire: “L’estetica (teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare in modo bello, arte dell’analogo della ragione) è la scienza della conoscenza sensibile”.1 Questa definizione, pur contestata dai contemporanei di Baumgarten, e in primo luogo da Kant, non va tuttavia sottovalutata. Anche senza approfondire i contesti storici e filosofici in cui essa nasce, cioè quelli che si sviluppano nella Germania settecentesca sulla scia di Leibniz e Wolff,2 occorre riconoscerle un valore “riassuntivo”. Infatti, alla definizione vera e propria, in virtù della quale l’estetica si qualifica come scienza della conoscenza sensibile, Baumgarten antepone una parentesi in cui sembra ripercorrere alcuni essenziali momenti di quel che è stata l’estetica prima della sua definizione, prima che, mediante una “denominazione”, potesse entrare a pieno diritto in un territorio epistemologico e sistematico. L’estetica, infatti, è stata: “teoria delle arti” (sia pure, secondo la distinzione medievale, variamente ampliata nel Rinascimento, arti “liberali”, cioè non “meccaniche”: arti, dunque, che richiedono inventiva, espressività, cultura, destinate a produrre un piacere non meramente funzionalistico); forma di conoscenza “originaria”, che analizza un rapporto intuitivo con il mondo, non ancora ordinato attraverso apparati categoriali razionali; arte di un modo di pensare che mira alla bellezza, a una presentazione armonica dei

contenuti, e in questo senso la sua argomentazione ha nella retorica il più immediato antecedente; l’estetica è, infine, un analogon rationis, un analogo della ragione che la tradizione filosofica identifica con l’immaginazione, facendo di essa una facoltà conoscitiva dotata di un suo specifico campo di riferimento. La definizione baumgarteniana ha dunque il merito di segnalare che l’estetica non è una disciplina unitaria, che si sviluppa in modo finalistico intorno a un solo nucleo tematico: possiede invece, sia sul piano storico sia su quello teorico, una varietà di accezioni, che si riferiscono a orizzonti che abbracciano la teoria della conoscenza sensibile e la teoria delle arti, l’analisi della bellezza e quella relativa all’immaginazione, in costante confronto con le tradizionali problematiche del pensiero filosofico. Si può perciò sostenere, sin dall’avvio, che l’estetica non è una filosofia “speciale”, “è piuttosto una riflessione interna a un modo critico di pensare, e quindi una filosofia critica, e non separabile da essa”:3 e ciò non solo perché essa ha in Kant un referente privilegiato ma anche in quanto gli orizzonti tematici dell’estetica sono sempre un tentativo di comprendere l’esperienza posto all’interno dell’esperienza stessa. Si può dunque affermare che ciò che, nelle sue molteplici stratificazioni storiche e teoriche, chiamiamo “estetica” non è affatto in modo privilegiato una scienza del bello o dell’arte: è invece un uso critico del pensiero che ha nell’arte “non un oggetto epistemico, ma un referente privilegiato”. In un certo senso, “l’arte o il bello sono per l’estetica solo occasioni di riflessione, anche se si tratta di occasioni non solo rilevanti, ma anche ‘esemplari', nel senso forte kantiano”.4 Questo significa che, nella sua storia, l’estetica si è posta almeno su due orizzonti, che a volte si intrecciano, altre si differenziano, altre ancora si pongono sotto un comune sguardo scientifico: da un lato è scienza teoretica generale della sensibilità, dall’altro è scienza che indaga la “logica” intrinseca ai mondi possibili che l’arte esibisce.5 E, in questo secondo caso, proprio perché disciplina “critica” e “fenomenologica”, riconosce “l’inadeguatezza di ogni posizione teorica che la limiti e dogmatizzi a una sola delle sue dimensioni (esteticità, bellezza, intuizione, pensiero, forma, semanticità, praxis, ecc.)”.6 La definizione di Baumgarten, pur nata in un preciso contesto di pensiero, permette di comprendere la pluralità semantica dell’estetica, che

ha come suo elemento unitario l’individuazione di un territorio che, per oscurità intrinseca o per sue venature soggettivistiche, sembrava destinato ai margini del pensiero filosofico. Tale consapevolezza teorica è indubbiamente un’acquisizione moderna, di un’epoca in cui, non a caso, l’estetica trova non solo una (accidentale) definizione ma la determinazione sempre più precisa della sua funzione filosofica. È nel Settecento, infatti, anche grazie ad alcune illuminanti intuizioni del secolo precedente, che l’estetica acquisisce i profili che ancor oggi la caratterizzano, determinando quella pluricategorialità che è stata l’ossatura della sua storia teorica negli ultimi trecento anni. Le ricerche che il pensiero settecentesco organizza intorno a vari nuclei tematici (la sensibilità, il senso comune, l’immaginazione, il sentimento, il gusto, il genio, il bello, l’espressività dell’arte e della natura, le loro stesse specificità formali e teoriche), riprendendo e sviluppando le cognizioni poetiche e retoriche delle tradizioni antecedenti, sono ciò che viene raccolto nel generico, ma comune, nome di “estetica”, che è di conseguenza percorso “critico” attraverso apparati di sapere intuitivo in cerca di una loro teorizzazione, anche se a volte imprecisa e certo mai univoca. Nel Settecento stesso, dunque, l’estetica non si pone affatto come disciplina unitaria: al contrario, sono ancora presenti specificità “regionali” che ne condizionano la storia. Per esempio, il termine coniato da Baumgarten non solo non incontra alcun successo fuori dei confini tedeschi ma, anche all’interno di tale cultura, viene decisamente discusso. Kant, in una nota di quella parte della Critica della ragion pura che intitola “Estetica trascendentale”, sembrando così accettare la nuova parola baumgarteniana, ne contesta il campo applicativo. L’estetica, in quanto trascendentale, è “una scienza di tutti i principi a priori della sensibilità”, che si oppone alla logica trascendentale, scienza che contiene i principi del pensiero puro;7 di conseguenza si stigmatizza che i tedeschi usino tale termine “per indicare ciò che gli altri chiamano critica del gusto”. La ragione di tale uso improprio “sta nella fallita speranza dell’eccellente analista Baumgarten, il quale credette di ridurre a principi razionali il giudizio critico del bello, e di elevarne le regole a scienza”.8 Ma questo sforzo, aggiunge Kant, è vano perché le regole e i criteri del gusto sono empirici e “non possono mai servire a determinare leggi a priori, sulle quali dovrebbe appoggiarsi il

nostro giudizio del bello”.9 Kant, infatti, quando si rivolge in seguito ai problemi della critica del giudizio estetico, e arriva ad ammettere anche per il gusto la possibilità di un principio trascendentale, non scrive affatto una “Estetica”, bensì una critica della facoltà di giudicare, che ha come sua prima modalità il giudizio estetico; dove, quindi, il termine non viene reso autonomo “sostantivo” scientifico, come accade in Baumgarten, ma è invece aggettivo che qualifica una funzione giudicativa. Il contrasto tra Baumgarten e Kant, pur avendo un ruolo “epocale” nella storia dell’estetica, sia per lo spessore teorico dei personaggi sia perché è la prima disputa sul nome della disciplina, non è tuttavia l’unico che si sviluppa nella filosofia settecentesca, in cui le tradizioni cartesiane, che mirano a una definizione “oggettiva” della bellezza, si scontrano con i punti di vista “empiristici”, che tendono piuttosto a delineare una sorta di fenomenologia delle modalità con cui, attraverso i fenomeni artistici o naturali, la bellezza viene recepita. Ciò significa che l’estetica è, nel Settecento, sia parte di una visione metafisica, che ambisce a un proprio “sistema”, sia uno sguardo fenomenologico e critico sulla varietà dell’universo qualitativo, su tutto ciò che si rivolge al “sentire” e che permette di “pensare” o di indagare alcune funzioni conoscitive della natura umana senza tuttavia raggiungere una conoscenza perfetta e assoluta. D’altra parte - a sottolineare ancora come quel che chiamiamo “estetica” sia il risultato di molteplici meditazioni filosofiche, tra loro differenziate come in qualsiasi altro campo del sapere filosofico - sarebbe sbagliato pensare che questa generica, o almeno generale, distinzione orizzontale non sia attraversata da altre molteplici differenziazioni “verticali”, in virtù delle quali non esiste affatto né una sola estetica metafisica né una sola estetica dell’empirismo: le definizioni sul bello si incrociano, le poetiche e le retoriche variamente incidono sulla filosofia, le osservazioni sul gusto, sul genio, sul bello, sull’espressione, sul sentimento, sulla natura umana, sulla Natura, sullo stile o sulla forma suscitano dispute che a volte è impossibile dirimere, segno soltanto di una “varietà” che forse unicamente a posteriori si può vedere racchiusa nell’unitarietà, comunque artefatta, di un nome e di una disciplina. Questo nome, ultimo paradosso, viene “canonizzato” e tramandato in via definitiva alla posterità da un filosofo, Hegel, che molto ne sospetta, proprio per i retaggi confusi, di cattiva metafisica e di ingenuo

soggettivismo empiristico, che vi vede racchiusi. Per Hegel, infatti, meglio sarebbe stato il nome di “filosofia della bella arte”, o addirittura “callistica”, dal momento che “estetica indica più esattamente la scienza del senso, del sentire”.10 Se si accetta tale inadeguato termine è perché “come semplice nome è per noi indifferente”, e lo si assume soltanto perché è “entrato nel linguaggio comune”. La storia dell’estetica è quindi, dal Settecento a oggi, una lunga vicenda di dispute, sia nominalistiche sia più arditamente teoriche: ma anche coloro che hanno sostenuto, nel corso dei secoli, l’inadeguatezza del termine “estetica” a racchiudere temi a volte tra loro “oggettivamente” diversi, hanno finito poi, quasi seguendo inconsapevolmente la premessa hegeliana, per accettarlo, accettando al tempo stesso che al suo interno trovassero posto, nell’università come nella vita culturale in genere, ricerche sulla funzione gnoseologica della sensibilità, indagini sul giudizio critico, definizioni della bellezza e delle sue funzioni spirituali e sociali, unite tutte, forse, soltanto dall’originaria intuizione baumgarteniana, che a sua volta riprendeva parole aristoteliche: l’estetica si muove in domini che non sono soddisfatti dalla “ragione”, il suo percorso critico cerca di esplorare i territori in cui gli spettri del qualitativo sembrano eccedere le regole della conoscenza intellettuale, e il “senso comune” si confronta con un sapere che, pur non ancora organizzato in apparati categoriali, è tuttavia radicato in un “sentire” che può essere comunicato e indagato. 2. Le pagine che precedono si possono riassumere nell’affermazione che l’estetica è una disciplina “moderna”, che si situa nel percorso di alcuni temi della filosofia dal Seicento ai giorni nostri. Questa affermazione, a prima vista, è ineccepibile: il Settecento è in effetti il “secolo dell’estetica”, come sostiene Ernst Cassirer,11 e quel che noi oggi indichiamo con questa disciplina è radicato nelle tradizioni della filosofia moderna che tale secolo ha organizzato in apparati concettuali e tematici che, pur non essendo sistematici, hanno raggiunto un soddisfacente grado di unitarietà. La stessa distinzione tra l’estetica e la filosofia dell’arte, tra essa e le sue teorie, tra la critica del gusto e la critica del giudizio, è del tutto moderna o contemporanea e non se ne vede convincente traccia prima delle filosofie secentesche.

D’altra parte, la verosimiglianza di questa radicale affermazione, in virtù della quale è facile sostenere che l’estetica è una parte, o una serie di parti, delle tradizioni filosofiche del pensiero moderno e contemporaneo, non ha la pretesa dell’assoluta verità. È infatti evidente, proprio per la vastità dell’orizzonte tematico che nel Settecento si è raccolto in un solo nome, che esiste, per così dire, una “estetica prima dell’estetica”. Ed esiste, ancora una volta, su molteplici piani, che non possono essere arbitrariamente cancellati. In primo luogo, anche se si tratta di un’assoluta banalità, bisogna ricordare che il vocabolario (terminologico ma soprattutto tematico) assunto dall’estetica è quasi integralmente quello che le deriva dalle tradizioni della Grecia classica e della stessa latinità. In estrema sintesi: le dispute sulla funzione conoscitiva della sensibilità, e sui suoi oggetti tematici, sono “moderne” solo in quanto retaggio di quei contrasti che separano le tradizioni platoniche da quelle aristoteliche. Ed è questo legame originario a suggerire che l’estetica non è solo una parte eccedente e marginale della filosofia, ma un nucleo problematico che, pur partendo a volte da questioni eccedenti e marginali, e forse proprio per tale motivo, si pone, alle sue origini, come discorso sul senso stesso della conoscenza. La questione della mimesis, dell’imitazione, non è (soltanto) un discorso sul ruolo sociale dell’arte, sulle sue più o meno rilevanti funzioni “educative”, ma un’interrogazione sul rapporto tra la rappresentazione (estetica) e il pensiero (razionale), tra l’immagine (empirica) e il concetto (spirituale): l’arte, il bello, sono quei territori ambigui, di confine, che criticamente suscitano tali discorsi, venendo tuttavia da essi trascesi. Ma non è soltanto sul piano, pur fondamentale, della definizione del ruolo gnoseologico della sensibilità che le tradizioni “classiche” determinano un’estetica ancor prima del suo nome: vi sono (almeno) altri due orizzonti che non permettono all’estetica di autodefinirsi come esclusivamente “moderna”. In primo luogo, infatti, l’estetica non nasce già completa e formata, come Atena dalla testa di Zeus: le dispute sul padre moderno dell’estetica non possono far dimenticare che, se il padre è incerto, ben più certi sono gli originari momenti generativi, radicati in discipline, come la poetica o la retorica, inseparabili da tradizioni nate nell’Antichità classica: tradizioni che di queste discipline non hanno certo una ristretta visione precettistica, ma che le vedono impegnate in ricerche teoriche sul senso del possibile, della

verità, sui modi, apofantici o non apofantici, del discorso e delle sue argomentazioni, sillogistiche o persuasive. Il carattere filosofico della poesia, le funzioni conoscitive del linguaggio, il rapporto tra piacere e conoscenza, tra sentire e pensare sono retaggi che hanno in Platone, in Aristotele, nella Sofistica, e soprattutto nelle molteplici tradizioni antiche che a tali nomi si richiamano, i loro momenti fondativi, che gli autori dell’estetica settecentesca mai dimenticano, riportandone in attualità temi e problemi. Senza dubbio tali tradizioni vengono “trascese” - e tale trascendimento è un’indubbia funzione storica dell’estetica, forse, a volte, come nel caso di Baumgarten, una consapevole parte del suo programma filosofico - ma si riconosce in esse la prima organizzata meditazione teorica su quei temi che daranno avvio almeno a una parte della nuova disciplina. Infine, e in profonda connessione con gli altri due aspetti, quello gnoseologico e quello poetico-retorico, non bisogna dimenticare che tutte le principali “idee” cui l’estetica moderna e contemporanea si riferisce hanno una storia ben precisa nell’Antichità e nel Medioevo, storia che è il patrimonio originario della disciplina, sua prima fonte tematica. Uno studioso del Novecento, Wladyslaw Tatarkiewicz, ha parlato, con ardita sintesi, di sei “idee” intorno alle quali si articola l’intera storia dell’estetica,12 le idee di arte, bello, forma, creatività, imitazione ed esperienza estetica. Si possono forse contestare numero e scelta di tali “idee-guida”, ma non l’esistenza di una loro complessa definizione e articolazione ben prima dell’età moderna, nella quale spesso ci si è limitati soltanto a riprendere e ritematizzare, e a volte non in modo autenticamente originale, dibattiti antichi. In questi dibattiti, inoltre, non sempre, e comunque non soltanto, è protagonista la filosofia: bisogna cioè riconoscere che le teorie delle arti, che senza dubbio nella modernità tendono a distinguersi dalle argomentazioni specificamente filosofiche, sono un originario “bacino” del patrimonio terminologico e teorico di quella che oggi chiamiamo estetica. Dalle quattro parti nelle quali, da Aristotele a Quintiliano, si divide la retorica (inventio, dispositio, elocutio e actio) sino al vocabolario architettonico di Vitruvio, che diviene il patrimonio terminologico privilegiato delle successive definizioni della bellezza, i paradigmi categoriali che avvolgono queste “idee estetiche” sono i fili rossi che legano i vari periodi della multiforme vicenda dell’estetica.

3. Si può trarre, da ciò che precede, una sconfortante osservazione conclusiva: se ogni scelta antologica ha in sé una profonda arbitrarietà, la complessità storica, teorica e tematica dell’estetica accresce tali pericoli, se possibile enfatizzandoli. D’altra parte, pur nella sua estrema varietà, a differenza di altre aree del pensiero filosofico, l’estetica possiede una sua identità, dei fili conduttori seguendo i quali è possibile ricondurre tale varietà, pur senza alcuna teleologia, a una visione unitaria: le polemiche tra scuole, le differenti opinioni sulla rilevanza delle tradizioni storiche che costituiscono l’estetica non incidono, dunque, sulla sua possibilità di riconoscersi all’interno di alcuni comuni percorsi, entro i quali si può costruire un quadro, almeno tipologico, della disciplina e delle sue principali categorie teoriche. È del tutto evidente che i diciotto autori qui riportati non sono gli unici possibili: appunto, il percorso avrebbe potuto essere diverso e comunque soddisfare alcuni basilari criteri di “rappresentatività”. La scelta, tuttavia, non è affatto casuale ed episodica: si è data la preferenza a pensatori che, in virtù della rilevanza intrinseca del loro lavoro, o per il grande fascino o pubblico successo che esso ha suscitato, potessero venire considerati “paradigmi” o, per così dire, “simboli estetici” dell’estetica stessa. Se il simbolo è infatti, secondo la definizione di Kant, una esibizione intuitiva che, per la sua allusività, “fa pensare molto”, gli autori scelti hanno la funzione di permettere al lettore un’interrogazione produttiva sull’estetica e sul suo senso, all’interno sia del mondo della filosofia sia di quello delle arti, permettendo, al tempo stesso, l’individuazione, a partire da casi singoli, di più generali punti di vista storici sulle epoche e sulle posizioni che in esse si sono confrontate o scontrate. In questo quadro alcune scelte sono, anche sul piano didattico, del tutto inevitabili. Inevitabile è prendere avvio da Platone, e da quelle pagine del X libro della Repubblica, nelle quali il problema della mimesi, dell’imitazione artistica (e, di conseguenza, del rapporto tra immagine e idea) è esplicitamente condotto sul piano della teoria della conoscenza: la svalutazione platonica dell’arte in quanto “copia di copia”, se è funzionale a un preciso contesto gnoseologico, apre infatti anche altre questioni: dalla differenza tra la “poesia” e la “tecnica” al complesso ruolo rivestito dalla mimesis stessa, che è sia spunto per meditare sullo statuto oggettuale e

teorico dell’opera, sia tentativo di porre su piani diversi differenti tipi di “rappresentazione”, quella corporea e sensibile e quella ideale. Piani diversi che si ritroveranno in molteplici passaggi della tradizione filosofica: la distinzione tra aistheta e noeta è il segnale che l’estetica, prima ancora di definirsi come tale, non è una provincia separata ma un modo per entrare nel nodo principale che segna il tentativo greco di comprendere la differenza tra la doxa, l’opinione, e l’episteme, la scienza. Al tempo stesso si comprende una latente frattura, già operante in Platone: le considerazioni sul bello non sono necessariamente legate a una realtà cosale, sia essa frutto della natura o prodotto dell’arte, della techne, ma possono porsi su un piano del tutto metafisico, distante da quel territorio di “opinione”, fonte di errore e incertezza, che la sensibilità incarna. In questa linea “greca” l’altro grande protagonista è ovviamente Aristotele. Anche in tal caso la scelta è inevitabile: nella Poetica è evidente la volontà di “superare” la concezione platonica della mimesis artistica, applicandola alla poesia. L’imitazione non è più una “diminuzione” ontologica, un allontanarsi dalla verità, bensì un modo per cogliere la struttura profonda del reale, cioè le trame di possibilità che in esso vivono: la tragedia diviene per Aristotele l’emblema di un’imitazione che, nella sua capacità di suscitare passioni e sentimenti profondi ed espressivi, riesce a manifestare un senso che va al di là del “fatto”, che coglie a partire da esso significati universali. Ma Aristotele non si limita a tenere un discorso su un’arte particolare, qui riscattando il mondo della rappresentazione artistica e delle immagini “verosimili” che la costituiscono: non si limita, quindi, a una semplicistica contrapposizione a Platone. Infatti, in uno scritto sull’interpretazione che può essere considerato un embrionale manifesto di “nascita” dell’estetica, Aristotele sottolinea come, nell’ambito del sapere umano, non vi siano soltanto rotture “ontologiche” ma anche logicodimostrative: nell’ambito dei discorsi “significativi” non tutti mirano a determinare la verità logico-formale del proprio oggetto; non tutti sono cioè discorsi “dimostrativi” o “apofantici” Vi sono anche discorsi non apofantici, dove non ha senso porsi il problema del vero o del falso. I campi “scientifici” in cui dominano i discorsi non apofantici sono, per Aristotele, quelli della poetica e della retorica, che mirano appunto, come teorizza nella Poetica, al “verosimile”. L’orizzonte della poesia e della retorica organizza discorsi “propri”, irriducibili alla sillogistica e alle sue dimostrazioni: è qui, in questi

campi, che Aristotele definisce la poesia, la bellezza, il piacere secondo modalità che, diversamente da Platone, non toccano mai, rispetto alla “verità”, il problema di una differenza ontologica. D’altra parte, in Aristotele stesso il problema dell’arte non “copre” la totalità di quel che è oggi, per noi, l’estetica: nel De anima, e più in generale nei suoi scritti psicologici, torna sulla distinzione platonica tra aisthesis e noesis (in particolare come era stata presentata nel Teeteto), offrendo al sensibile spessori conoscitivi ignoti al platonismo e, in particolare, lasciando ai posteri la famosa sentenza - nulla è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi - che, anche al di là di rigidi discorsi filologici e interpretativi, è un altro momento essenziale della nascita dell’estetica. Nascita che ha in Aristotele un autentico progenitore: costruisce un legame diretto tra la teoria della poesia e la retorica, elabora per loro una “semiotica”, ne organizza le argomentazioni, struttura le discipline in organici quadri sistematici, costruisce un ruolo gnoseologico al sensibile contribuendo a ridisegnarne l’ontologia. Sarebbe del tutto banale sostenere, a questo punto, che l’intera storia dell’estetica postaristotelica sia la narrazione dello scontro, e dei momenti dialogici e sincretici, tra platonismo e aristotelismo o, meglio, fra le tradizioni che da questi orizzonti si ritengono generate: sarebbe banale perché, ancora una volta, l’estetica non si rivela diversa da altre parti fondamentali del pensiero filosofico, in cui sempre si ritrova tale originaria “frattura”. Sarebbe banale, inoltre, perché finirebbe per annullare i molteplici accrescimenti tematici che, su quest’asse generalissimo, si innestano, ignorando altresì che la disciplina che senza dubbio più ha inciso sulla nascita dell’estetica moderna, cioè la retorica, non ha nel solo Aristotele il suo “padre fondatore”. D’altra parte, vi è in tutte le banalità un fondo di verità: nell’estetica questa contrapposizione un poco semplicistica tra Platone e Aristotele è ben radicata, e spesso la si ritrova in modo esplicito sino agli inizi del Novecento. Inoltre, nell’Antichità classica, e nella stessa età medievale, indubbiamente il pensiero di questi due autori risulta indispensabile per la comprensione dei nuclei tematici che daranno avvio all’estetica. Ne sono prova le pagine che, nel III secolo d.C., Plotino dedica alla bellezza nelle Enneadi, in particolare nella prima e nella quinta. L’impostazione stessa del pensiero plotiniano è di evidente matrice

platonica, ma il rifiuto di ricondurre il bello alla simmetria o, comunque, al rapporto tra le parti compositive rende la sua voce tormentata e dissonante, ben più orientata, rispetto a Platone, verso l’aspetto terreno, o almeno materiale, dell’oggetto bello, senza per questo venir meno, del resto, alla convinzione che il bello sia essenzialmente una forma interiore, che sulle cose si riflette. È dunque attraverso Plotino che si comprende come, nell’Antichità in generale, sia sempre più difficile, e spesso arbitrario, separare il problema della bellezza (che tocca l’arte in modi del tutto occasionali) dalle costruzioni metafisiche in cui esso si inserisce: il Bello è un nome per un’idea che non necessariamente deve incarnarsi in “cose sensibili”. Il vocabolario che nasce intorno a questa bellezza “ideale”, facendolo coincidere con discorsi sul senso conoscitivo e metafisico della forma, sarà trasportato sul piano estetico solo in un secondo momento, e senz’altro nella modernità, quando lo si sottrae a una serie di opzioni metafisiche che ne renderebbero altrimenti impossibile un’autonoma storia. Inoltre, accanto a queste considerazioni, in virtù delle quali il bello è metafora di un assoluto, si costruisce progressivamente, e certo senza alcun implicito “fine”, un diverso orizzonte in cui, in particolare grazie alla trattatistica poetica e retorica, il bello o, meglio, i sentimenti a esso connessi, si accostano a una pluralità categoriale che non si lascia facilmente ricondurre nell’alveo della metafisica. L’esempio più illuminante sul ruolo delle discipline oratorie, retoriche e poetiche nella faticosa definizione di un vocabolario, storico e concettuale, per l’estetica è un’opera del I secolo d.C., lo scritto Sul sublime, di un anonimo retore che si usa chiamare Pseudo-Longino. Si vedrà in seguito l’importanza di questa categoria - il sublime, appunto - nella storia dell’estetica: importanza paragonabile, tra Seicento e Settecento, a quella della bellezza (cui finirà per opporsi). Ma è subito evidente in questo breve trattato che il sublime non è soltanto uno stile retorico, o meglio, in quanto stile è simbolo della passionalità, dell’energia “sensibile”, del vigore espressivo e costruttivo, irriducibile a una regolata formalità, che attraversa, o può attraversare, i discorsi non apofantici e che, dunque, caratterizza il senso simbolico della creatività artistica, in particolare poetica. Si comprende qui, al tempo stesso, al di là del ruolo specifico del sublime, che la teoria delle arti, e in particolare della poesia, segue una strada diversa rispetto alle tradizioni del pensiero filosofico; questa “differenza”, una volta

ricongiunta al suo asse teorico principale (quello, appunto, della filosofia) origina, pur nella diversità degli approcci, il nome unitario di “estetica”. Seguire questi fili ancora incerti nell’ambito della tarda Antichità e del Medioevo significherebbe scrivere la storia dei sistemi teologico-filosofici, da un lato, e quella delle poetiche e delle retoriche, dall’altro: nel primo caso il bello diviene simbolo metafisico dell’assoluto, nel secondo i percorsi, sia pragmatici sia teorici, mostrerebbero asservimento ai principi teologali, ma anche un’autonomia teorica ancora non pienamente consapevole di se stessa. Al di là di questi “limiti”, che rendono difficile cogliere una figura chiave in questi secoli, è tuttavia indubitabile che la mediazione del pensiero medievale è essenziale per il passaggio dei concetti dell’Antichità classica al mondo moderno: più che Platone, o lo stesso Plotino, la filosofia europea moderna e contemporanea assume le terminologie vagliate dallo PseudoDionigi, da Agostino, Boezio o Bonaventura; più che Aristotele si legge Dante o Tommaso d’Aquino, ignorando un testo come la Poetica, che, tradotta in latino una prima volta nel Trecento, entrerà però nel dibattito culturale solo a partire dalla fine del Quattrocento, acquistandovi rapidamente un ruolo centrale. Questo ruolo centrale, di vera e propria ermeneutica testuale, che crea, da comuni maestri, tradizioni ricche e differenziate, lo si coglie, per esempio, sottolineando come la distinzione medievale tra arti meccaniche e arti liberali divenga un luogo comune della teoria delle arti almeno sino al Settecento (pur in una modifica radicale dello schema medievale di partenza). Simile discorso vale per il periodo rinascimentale: infatti, ancor più che nei secoli precedenti, è forse improprio parlare qui di una “estetica”, anche perché le osservazioni, tra loro distinte, sul bello e sul significato conoscitivo della sensibilità tendono a ripetere schemi medievali, a volte con accenti di originalità (come in Marsilio Ficino), ma spesso nell’ambito di una non sempre efficace “trattatistica”. È tuttavia dal 700 al tardo 1500 che si afferma quell’insieme di studi che, su un piano di assoluta consapevolezza filosofica, origina la teoria dell’arte o, meglio, “delle” arti, inaugurando ricerche sulle loro differenze espressive, sulle loro specificità gnoseologiche, sul possibile ordine sistematico che ne organizza gli apparati pratici e teorici. Dalle battaglie tra iconofili e iconoclasti, risolte nel concilio di Nicea del 782 a favore dei primi, sino alle parole di Alcuino nei Libri carolini e, molto più tardi, alle lucide osservazioni sistematiche di Leon

Battista Alberti sulle arti spaziali, costruite all’interno di una perfetta griglia formale ispirata alla retorica, il valore simbolico, didascalico, narrativo dell’arte figurativa segna un percorso autenticamente filosofico - capace cioè di superare la contingenza per afferrare il nucleo teorico del discorso - nel quale si disegna il rapporto spirituale che la civiltà occidentale instaura con il mondo artistico e, più in generale, della creatività qualitativa. L’arte diviene quindi un autonomo oggetto di ricerche di pensiero, e non solo un’occasione contingente per meditare su problemi che la trascendano. L’arte, secondo l’affermazione di Leonardo, ripresa sia da Bacone sia da Diderot, è “interpretazione della natura”: capacità del soggetto di incidere, con le proprie mani, nel lavoro della mente, capacità di afferrare del mondo un senso qualitativo a esso intrinseco, che solo l’artista è però in grado di esibire, conducendolo a una visibilità - a una bellezza - che è al tempo stesso occhio fisico e vista interiore. Si discute allora, in particolare in relazione alla poesia o considerando comparativamente le arti, grazie anche alla “scoperta” della Poetica di Aristotele, sul senso generale della “classicità”, aprendo scenari nuovi che, ancora una volta, innestandosi sui temi “estetico-sensibili” tra Seicento e Settecento (dal significato conoscitivo del sentimento al valore gnoseologico della sensibilità), originano una trattatistica di grande ricchezza e complessità.13 Anche quando essa diviene ripetitiva e normativa, ha tuttavia la funzione storica di rendere il dibattito sulle arti uno degli essenziali protagonisti culturali di una modernità in via di definizione. 4. Si è giunti, attraverso linee generalissime, alle soglie del momento in cui l’estetica, per così dire, scopre se stessa14 (di conseguenza, la scelta antologica ha un particolare valore emblematico e simbolico). Si è prestato attenzione soprattutto a rappresentare le varie tradizioni “geografiche” dell’estetica; è indubitabile che nel Seicento e, in particolare, nel Settecento gli scambi culturali sono pronti ed efficaci, e autori come Cartesio, Malebranche, Locke, Leibniz, Pascal o Hume, per non parlare degli Enciclopedisti, vengono subito letti e commentati nell’intera Europa. Ma, in questo quadro sostanzialmente unitario, è per esempio giusto sottolineare che solo in Francia la “querelle tra antichi e moderni”15 raggiunge vertici di vera e propria consapevolezza teorica, divenendo una “palestra” da cui

nasce l’estetica in quanto disciplina. Allo stesso modo, il ruolo che la retorica ha in Italia e, su piani diversi, in Germania non è paragonabile allo scarso peso che possiede in Inghilterra, dove lo scontro tra Locke e i platonici costruisce tradizioni nelle quali, anche quando si parla di arte, o di arti, la vera questione filosofica è, come ben comprende Leibniz, il ruolo della sensibilità nei processi gnoseologici. Se per l’Italia, dunque, è obbligata la scelta di Vico e, per la Germania quella di Baumgarten (non solo padre del nome, ma autore rappresentativo della capacità delle tradizioni retoriche classiche di costruirsi un abito teorico utilizzando il pensiero di Leibniz), nei due paesi in cui davvero nasce l’estetica come disciplina moderna - Francia e isole britanniche - i percorsi sarebbero potuti essere differenziati: a Burke, che riprende il tema del sublime nel solco della tradizione lockiana, immortalandone la fortuna, si sarebbe potuto accostare Hume che, pur su simili basi empiristiche, offre soluzioni senza dubbio diverse, maggiormente orientate verso un classicismo di maniera. La scelta, però, come si è accennato, non mira alla esaustività, e ha invece lo scopo di avvicinare il lettore a nuclei di dibattito non autoreferenziali ma che hanno posseduto, e ancora possiedono, un ruolo essenziale nella definizione (dal gusto al genio, dal bello al sublime) dell’estetica stessa. Non è certo Batteux, oscuro retore nemico degli Enciclopedisti, la più fulgida intelligenza del Settecento francese, ma attraverso la sua opera (Le Belle Arti ricondotte a unico principio) si comprende in modo lineare come l’antico concetto di “imitazione”, che corre nell’estetica e nella teoria dell’arte da Platone in avanti, abbia bisogno di una nuova “interpretazione”, divenendo il segno, anche corporeo e gestuale, di una espressività che è al tempo stesso passione e conoscenza. E soprattutto, si viene a codificare quell’unità di tutte le arti “belle” (al punto che, dopo di lui, l’aggettivo diventerà rapidamente superfluo e si parlerà semplicemente di “arte” per indicare l’arte in senso estetico moderno) che era maturata attraverso i dibattiti sulle arti figurative e le poetiche a partire dal Quattrocento, e che costituisce uno dei grandi presupposti “di fatto” della nascita dell’estetica moderna. La complessità delle problematiche estetiche a partire da Kant, nel momento cioè del loro inserimento in quel quadro “critico” in cui, come si è detto, l’estetica stessa deve essere posta, rendono ormai davvero impossibile qualsivoglia tentativo di delineazione “generalista” L’estetica, peraltro, che

nel Settecento cerca di costruire un vocabolario unitario, perde, nel periodo che va dai Romantici alle soglie del Novecento, i suoi centri tematici. È indubitabile che in questo periodo (lo dimostrano con grande autorevolezza sia il Romanticismo sia Hegel) l’estetica non è in modo privilegiato filosofia della sensibilità e del gusto, bensì “filosofia dell’arte”. Nel Romanticismo, l’arte ritorna a essere metafora dell’Assoluto, in una decisa accentuazione del suo carattere conoscitivo, passando tuttavia attraverso la concretezza di uno spirito creatore di opere, ciascuna delle quali è simbolo di una “fondazione” storica originaria, e contribuendo perciò in modo determinante a fondare la critica e la storia dell’arte e della poesia così come sono state intese nei due secoli che ci stanno alle spalle. Anche in Hegel è fortissima la consapevolezza del carattere storico dell’arte, del legame di essa con forme mitiche, religiose e culturali determinate: così forte che egli non arretra nemmeno di fronte alla conseguenza di considerare l’arte, nell’epoca presente dominata dalla demitizzazione e dal conoscere filosofico-scientifico, come un relitto del passato. Arte che, come accade in Schopenhauer, e in modo ancor più evidente in Nietzsche, anche quando sfuma la propria pretesa assolutezza, diviene il simbolo di una relazione con la vita, con il suo fluire, a volte franto e incoerente, legato al dolore e al dissidio, dei quali può essere forma di riscatto o di emblematica rivelazione. Il bello, nel suo incontro con la vita, rivela i suoi aspetti relativistici e contingenti: la natura non è più il modello di una classicità, in quanto forma di un’eterna misura simmetrica e concordante ma, come ben sottolinea Baudelaire, la traccia di un’uniformità che è appunto compito dell’arte “truccare”, per donarle varietà, per permetterle di scendere nelle strade e di immergersi nella folla delle città contemporanee. Tema, questo, caratteristico del Novecento e che ha in Benjamin, proprio sulla scia di Baudelaire, il suo più originale esegeta; in questo modo si comprende anche che i temi e le categorie “classiche” dell’estetica, in alcuni autori ottocenteschi e novecenteschi, subiscono stravolgimenti che permettono all’estetica stessa una più stringente attenzione teorica per il brutto, il deforme, l’eccedente e, nel campo delle arti, per alcune sue forme “minori” o “impure”, in cui l’estetico sembra avere un’esistenza ontologicamente più debole, esposta a una fruizione distratta.

Il secolo scorso, ancora così vicino, ha visto inoltre le meditazioni critiche sull’arte e la sensibilità svilupparsi attraverso tutte quelle direttrici in cui la filosofia ha trovato sbocco: dal marxismo alla semiotica, dal freudismo all’esistenzialismo, dalle filosofie analitiche a quelle ermeneutiche, dalle ricerche scientifico-naturalistiche di ascendenza positivistica a quelle di orientamento fenomenologico, ogni settore del dibattito filosofico ha riservato un suo spazio, più o meno occasionale, a temi estetici, in realtà approfondendo o variamente interpretando problematiche non nuove rispetto a quelle di cui si sono tracciate qui le linee essenziali. Temi tutti che senza dubbio non ritrovano l’unitarietà concettuale e terminologica dei due secoli precedenti, che progressivamente ne abbandonano termini chiave - genio, gusto, espressione, creatività, bello, ecc. -, ma che non per questo perdono i contatti, storici e teorici, con le tradizioni che li hanno preceduti. Così, proprio per segnalare la continuità che vive nella varietà dell’estetica - continuità tematica e concettuale - tra le manifestazioni novecentesche si è dato spazio a quei pensatori a partire dai quali è più agevole, sul piano della storia delle idee, ricostruire le linee dell’estetica contemporanea: Croce è così colui che, rispondendo ai riduttivismi di certo positivismo, riprende in un grandioso quadro sistematico l’idea di una conoscenza intuitiva anteriore e indipendente da quella logica, saldandole però attraverso i concetti di “espressione” e di “liricità” ai problemi specifici del mondo dell’arte; Benjamin, ponendo radicalmente il problema dell’aura dell’opera d’arte, ripropone la questione del suo valore simbolico assoluto nel momento in cui la tecnica si presenta come strumento di possibile infinita ripetizione; Heidegger riprende, alla luce di un punto di vista di ontologia ermeneutica, il tema romantico di un’arte come fondazione della verità; per Merleau-Ponty, infine, erede della tradizione della fenomenologia husserliana, e senza dubbio legato anche all’ontologia heideggeriana, l’ontologia dell’arte si manifesta soltanto attraverso la sensibilità, i nessi carnali, e gli scambi, tra la carne dell’uomo e del mondo: il senso dell’arte si rivela analizzandone l’esteticità, le genesi estetiche attraverso le quali giunge alla nostra percezione corporea. Si è dunque costruito un percorso “essenziale”, in grado cioè di offrire non la totalità di una disciplina nelle sue sempre più variate vicende storiche, con il rischio di una confusione non dominabile, ma le basi per un

approfondimento di un vasto orizzonte tematico. Nella consapevolezza che l’arte “non sta per la realtà, non è mera strumentalità, ma essenza dinamica del reale, anzi l’unica realizzazione possibile del reale che tende a essere reale nel significato, cioè a trans-significarsi, non essendo mai il significato comunicativo qualcosa di dato una volta per sempre”.16 Questo volume di Bibliotheca è perciò uno sguardo unitario proprio perché rifiuta l’idea di un’enciclopedia “universale” di una disciplina come l’estetica, che in sé sempre di nuovo contiene, come i testi che seguono dimostreranno, la possibilità del pensiero di mettersi in questione su certe occasioni esemplari.17 E che forse con tale possibilità si identifica. Paolo D'Angelo, Elio Franzini, Gabriele Scaramuzza

NOTE 1 A.G. Baumgarten, Estetica, ed. it. a cura di S. Tedesco, Aesthetica, Palermo 2000, par. 1, p. 27. 2 Si veda oltre, pp. 105-108. 3 E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992, p. 7. 4 Ibidem, p. 25. 5 Si veda D. Formaggio, Problemi di estetica, Aesthetica, Palermo 1991, p. 136. 6 D. Formaggio, L'idea di artisticità, Ceschina, Milano 1962, p. 317. 7 I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. Laterza, Bari 1975, par. 1, p. 66. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 G.W.F. Hegel, Estetica, ed. it. a cura di N. Merker, Feltrinelli, Milano 1978, p. 5. 11 E. Cassirer, La filosofia dell'illuminismo, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 19772. 12 W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, tr. it. Aesthetica, Palermo 1997. 13 È all’interno di questo dibattito che, nel Settecento, si svilupperanno in Francia i discorsi di Du Bos, e in Germania di Winckelmann, Lessing, Herder. Se in Francia la questione è ricondatta nell’alveo della querelle tra antichi e moderni, in Germania si innesta su un asse filosofico dominato dalle scuole wolffiane: di conseguenza, in questi autori, anche

se non sempre in modo organico e sistematico, le questioni teoriche sull’arte incontrano i problemi conoscitivi generali affrontati da Baumgarten. 14 A tale proposito, le schede che introducono i vari brani antologizzati disegneranno anche un percorso all’interno delle epoche in cui i vari autori hanno vissuto. 15 Disputa che si apre nel 1687 e vede protagonisti Perrault e il padre del classicismo francese Boileau, partigiano, quest’ultimo, degli antichi: tra alterne vicende, la querelle proseguirà sino agli anni Venti del Settecento. La sua importanza storica è centrale per la nascita dell’estetica in Francia: le questioni del gusto, del sentimento in relazione all’arte e alla classicità divengono infatti protagoniste di un dibattito che coinvolge l’intero panorama culturale, non solo francese. 16 D. Formaggio, L'idea di artisticità, cit., p. 228. 17 E. Garroni, op. cit., p. 231.

Platone Mimesis e verità

Scritta tra il 386 e il 370 a.C., la Repubblica di Platone (427-347 a.C.) appartiene ai dialoghi della maturità, insieme a testi come il Gorgia, il Menone, il Cratilo, il Fedone, il Simposio e il Fedro. Quello proposto dalla Repubblica non è un trattato di politica in senso stretto, né una mera utopia, bensì un complesso affresco in cui la teoria dello Stato ideale viene edificata a partire da una serie di tesi riguardanti la natura dell’anima umana, della conoscenza, della virtù, dell’educazione. Inserendosi nel vivo della cultura del suo tempo e rimettendone in discussione i principi fondanti, Platone presenta un modello di come potrebbe strutturarsi una giusta convivenza sociale all’interno di una società guidata dalla filosofia. La tesi fondamentale attorno alla quale si articolano i temi del dialogo è quella del parallelismo tra anima umana e Stato. Le tre classi in cui dovrebbero suddividersi gli abitanti della città ideale - artigiani, guerrieri e governanti-filosofi - corrispondono infatti alle tre parti dell’anima (psyche) umana: l’istinto, l’emotività e la ragione (ossia l’anima concupiscibile, irascibile e razionale). Questa tripartizione dell’anima si trova anche nel Fedro, dove Platone paragona l’anima a una biga alata tirata da due cavalli, uno bianco (anima irascibile o emotività) e uno nero (anima concupiscibile o istinto), e guidata da un auriga (anima razionale). A partire da questa tripartizione, nella Repubblica Platone espone la tesi secondo cui l’equilibrio e la giustizia da realizzarsi all’interno dello Stato trovano il loro fondamento nell’equilibrio e nella giustizia all’interno dell’anima individuale, i cui tre diversi elementi devono poter convivere armonicamente in modo che quello razionale, sostenuto dall’emotività, possa dirigere l’istinto. A ognuna delle tre classi dello Stato e alle relative parti dell’anima umana corrisponde poi una virtù: ai governanti-filosofi e all’anima razionale pertiene la virtù

del sapere, ai guerrieri e all’anima irascibile il coraggio, agli artigiani e all’anima concupiscibile la temperanza. Il problema di come realizzare uno Stato, e quindi un’anima, giusti, è però anche un problema gnoseologico, ossia riguardante la natura della conoscenza. Secondo Platone, l’edificazione della società ideale non può prescindere dall’individuazione delle condizioni che permettono di attingere una retta conoscenza e un retto sapere. Di qui la necessità di prendere in considerazione il problema dell'educazione (paideia) dei cittadini, ossia il modo in cui ciascun individuo e ciascun gruppo di individui viene avviato verso il perfetto svolgimento del proprio ruolo all’interno della società. Nucleo della teoria platonica della conoscenza è la tesi secondo cui la filosofia deve condurre al di là dell’apparenza sensibile in direzione di quel mondo delle idee dove risiedono i modelli intelligibili del mondo sensibile stesso. In base a questo assunto, compito del filosofo sarà sollevarsi dalle cose sensibili alle idee per poi volgersi di nuovo al mondo concretamente esistente e governarlo nel modo migliore. Nel celebre “mito della caverna” esposto all’inizio del VII libro della Repubblica, Platone paragona la condizione umana a quella di “uomini chiusi in una specie di dimora sotterranea a mo’ di caverna, avente l’ingresso aperto alla luce e lungo per tutta la lunghezza dell’antro, e quivi essi racchiusi sin da fanciulli con le gambe e il collo in catene, sì da dover star fermi e guardare solo dinanzi a sé, ma impossibilitati per i vincoli a muovere in giro la testa”. Dietro questi uomini, che hanno lo sguardo rivolto alla parete della caverna, arde un fuoco, e tra essi e il fuoco scorre un muro, dietro il quale passano altri uomini che trasportano “utensili di ogni genere, sporgenti oltre il muro, e statue e altre immagini animali di pietra e di legno, e ogni sorta di oggetti”. Fintantoché rimangono legati, l’unica forma di conoscenza accessibile agli uomini costretti a guardare verso la parete è una conoscenza che ha per oggetto immagini sbiadite, “ombre riflesse”, ma una volta che fosse consentito loro di alzarsi e di incamminarsi verso l’uscita della caverna, essi potrebbero vedere dapprima gli oggetti che proiettavano le ombre al di là del muro e poi, via via, la luce del sole, gli oggetti da essa resi visibili e, infine, il sole stesso. Il mito raccontato da Platone non è altro che "l’immagine dell’ascesa dell’anima al mondo intelligibile”, il mondo delle idee, su cui regna “come suprema l’idea del Bene, che a fatica si vede, ma che una volta vista

va considerata essa come causa a tutti di tutte le cose rette e belle, generatrice nel visibile della luce e del suo signore, e nell’intelligibile essa stessa legittima largitrice di verità e di ragione”. Del Bene, però, si può parlare solo per analogia: così come il sole rende visibili, attraverso il gioco delle luci e delle ombre, gli oggetti sensibili, e dà vita e nutrimento alle cose senza però identificarsi con esse, allo stesso modo l’idea del Bene fa sì che vengano conosciuti gli oggetti intelligibili, ossia le idee, i modelli e gli archetipi delle cose esistenti nel mondo sensibile. Nell’ascesa verso il mondo delle idee descritta nel mito della caverna, Platone individua quattro gradi della conoscenza: l’immaginazione (eikasia), che coglie immagini sensibili isolate; la credenza (pistis), che coglie gli oggetti che a tali immagini danno luogo; la ragione discorsiva (dianoia), che è conoscenza degli oggetti matematici; e infine l’intelletto (nous), che coglie le idee. Il passaggio dai primi due gradi della conoscenza, che costituiscono l’opinione (doxa), agli altri due, che costituiscono la scienza (episteme), è presentato come passaggio dalla visione del mondo sensibile a quella delle idee, ed è reso possibile dalla filosofia. La teoria platonica della conoscenza e la tesi del primato della filosofia nella costituzione dello Stato ideale comportano alcune importanti conseguenze per quanto riguarda il problema dell’educazione. Questa deve condurre ogni individuo al pieno esercizio della propria funzione nel complesso dell’ordine sociale, riconoscendo tale ordine come conforme alla natura dell’essere e della conoscenza, ossia al primato delle idee sul sensibile e della filosofia sulla doxa. Di qui le affermazioni platoniche circa il ruolo educativo delle scienze (matematica, geometria, astronomia, armonia e teoria musicale) e la condanna di quelle arti imitative, come la pittura e la poesia, che non rispettano il primato dell’idea e si volgono alla rappresentazione del mondo sensibile, portando disordine e disarmonia nell’animo umano. La celebre condanna della pittura e della poesia come arti imitative presentata da Platone nel X libro della Repubblica ha precise motivazioni pedagogiche, gnoseologiche e ontologiche che rimandano a un’opposizione tra filosofia e poesia già formulata in alcuni dialoghi giovanili come lo Ione. In questo dialogo Platone, nel confrontarsi con la poesia, si misurava con il prestigio che la tradizione poetica aveva acquisito nella società a lui contemporanea e con il primato ad essa attribuito dalla sofistica.

Presentandosi in veste di educatori e maestri di sapienza, sofisti del V secolo a.C. come Protagora di Abdera, Gorgia da Lentini, Prodico di Ceo o Ippia di Elide, attivi già prima della nascita di Platone, avevano attinto a piene mani alla tradizione sedimentatasi nella cultura dei poemi omerici. Al mondo della poesia e della tradizione, alla cultura orale formatasi grazie all’insegnamento e alla recitazione dei rapsodi, Platone oppone invece una nuova forma di sapere, il sapere filosofico fondato sulla dialettica. Termine che rimanda alla viva dimensione del dialogo orale, la dialettica (dialektike) è per Platone la vera e propria essenza della ricerca filosofica: ricerca che avviene in una dimensione comunitaria e discorsiva - che la forma letteraria del dialogo intende riflettere - e ha per obiettivo condurre chi vi partecipa al di là del mondo sensibile in direzione del mondo delle idee, attraverso i due momenti della riconduzione del molteplice sensibile all’unità dell’idea (synagoghe) e della divisione dell’idea stessa nelle sue articolazioni interne (diairesis). Rispetto alla dimensione viva e dialogica del metodo dialettico, la fissazione dei contenuti attraverso la scrittura non può che avere un valore unicamente mnemonico, ma di una memoria esteriore, ben diversa dall'anamnesi con cui l’anima ritrova in sé il proprio sapere occultato dall’eccessiva attenzione al sensibile. L’attacco platonico contro la poesia viene formulato nello Ione mediante la tesi secondo cui l’attività del rapsodo e del poeta non è un'arte (techne) ossia un’attività guidata da regole e conoscenza (episteme) - bensì una forma di “ispirazione divina”, di “estasi” e di “invasamento”: “E, certo, tutti i buoni poeti epici non per possesso di arte, ma perché sono ispirati e posseduti dal dio compongono tutti questi bei poemi, e, così, anche i buoni poeti melici: e come i coribanti danzano fuori di senno, così, fuori di senno, i poeti melici compongono i loro bei carmi, e quando entrano nell’armonia e nel ritmo, sono invasati e squassati da furore bacchico. E come le baccanti, allorché sono invasate, attingono ai fiumi miele e latte e invece quando sono in senno non lo sanno fare, così si comporta anche l’animo dei poeti melici, come essi stessi dicono. Infatti, proprio i poeti ci dicono che attingono! loro canti da fonti che versano miele e da giardini e da boschetti che sono sacri alle Muse, e che a noi li portano come fanno le api, anch’essi volando come le api. E dicono il vero! Infatti, cosa lieve, alata e sacra è il poeta, e incapace di poetare, se prima non sia ispirato dal dio e non sia fuori di senno, e se la mente non sia interamente rapita. Finché rimane in possesso delle sue

facoltà, nessun uomo sa poetare o vaticinare”. Il concetto di “mania” come “forza divina”, “ispirazione” poetica proveniente dal dio, entusiasmo, ritorna nel Fedro all’interno di un tentativo di delineare un quadro sistematico delle forme di “divina ispirazione”, fra cui rientra anche la poesia. Quattro sarebbero secondo questo dialogo le forme di “mania” di provenienza divina: quella “profetica”, quella “ritualetelestica” - propria di coloro che, invasati dal dio, espongono le preghiere e gli atti da compiere al fine di liberare famiglie o stirpi dai mali che li affliggevano -, quella “erotica” e quella "poetica”. Quest’ultima è poi descritta come “l’invasamento e la mania che provengono dalle Muse, che, impossessatesi di un’anima tenera e pura, la destano e la traggono fuori di sé nella ispirazione bacchica in canti e in altre poesie, e, rendendo onore a innumerevoli opere degli antichi, istruiscono i posteri. Ma colui che giunge alle porte della poesia senza la mania delle Muse, pensando che potrà essere valido poeta in conseguenza dell’arte, rimane incompleto, e la poesia di chi rimane in senno viene oscurata da quella di coloro che sono posseduti da mania”. Nel II libro della Repubblica la poesia è condannata in relazione all’educazione dei guerrieri o custodi della città ideale, in quanto contenente raffigurazioni errate e moralmente fuorviami della natura degli eroi e degli dèi che possono diventare fonte di comportamenti non valorosi e non ispirati alla moderazione. Le ragioni pedagogiche della condanna della poesia sono poi ribadite nel X libro a partire da un quadro complessivo che segna la profonda svalutazione gnoseologica della poesia e della pittura in quanto arti imitative. In questo testo, Platone comincia con l’interrogarsi sul senso dell’imitazione (mimesis), e lo fa a partire da un celebre esempio in cui prende in considerazione un oggetto banale e ordinario, un “letto”. Se ci chiediamo quanti tipi di letti possano esistere, siamo condotti secondo Platone a riconoscere che è possibile parlare di tre tipi di letti diversi: l’idea di letto, che deve essere considerata come ciò che “è” più propriamente il letto, quello “veramente esistente”; il letto fabbricato da un artigiano sul modello dell’idea; il letto dipinto da un pittore dedito alla rappresentazione della realtà sensibile (zographos). Ai tre tipi di letto possibili corrispondono tre artefici: l’idea del letto è creata da un dio che crea le idee secondo natura (phytourgos), il letto fabbricato dall’artigiano è creato da un artefice (demiourgos) che rivolge il proprio sguardo

all’idea sovrasensibile, mentre quello dipinto è creato da un pittore che non si rivolge all’idea bensì al letto sensibile fabbricato dall’artigiano, e che quindi non può essere definito propriamente un artefice bensì soltanto un “imitatore” (mimetes). Il pittore non imita la realtà e la verità delle idee, ma l’apparenza delle cose sensibili, che a loro volta non sono che imitazioni delle idee: la sua è perciò copia di una copia, imitazione di un’imitazione, e dunque è “imitazione dell’apparenza” (mimesis tou phantasmatou) e non “imitazione della verità” (mimesis tes aletheias). In questo senso, in quanto lontana dall’idea, la pittura come arte mimetica è “ben lontana dal vero”, e lo stesso vale per la poesia. Pittori e poeti “distano tre distanze dalla vera realtà” e le loro produzioni danno vita a “pure parvenze (phantasmata) e non a enti reali (onta)”. Per questo non sono altro che “artefici di pura parvenza”, creatori di eidola, ossia di immagini ingannevoli perché non conformi all’idea. La svalutazione delle pretese pedagogiche della pittura e della poesia prosegue con la classificazione delle tre forme di arte - saper usare, saper costruire e saper imitare - a proposito delle quali Platone sostiene che la forma più alta è il saper usare, mentre l’imitazione non è altro che “un gioco, e non una cosa seria”. Le rappresentazioni pittoriche ottenute attraverso la prospettiva (skiagraphia), così come le rappresentazioni poetiche, sono rappresentazioni ingannevoli, fuorviami, inadatte all’edificazione di una città ideale che si proponga l’educazione dei propri membri in funzione del ruolo che saranno destinati a ricoprire nella società e la realizzazione di armonia ed equilibrio all’interno dell’anima umana: "Giustamente quindi noi ormai attacchiamo [il poeta] e lo poniamo a riscontro del pittore: giacché ad esso ei somiglia sia per il produrre cose scadenti rispetto alla verità, sia anche per l’aver egli rapporto con quella parte scadente dell’anima e non già con la migliore. E così giustamente non lo ammetteremo in una città destinata a buon governo, perché suscita e alimenta questa parte dell’anima, e fattala gagliarda uccide quella razionale [loghistikon], così come quando uno in una città, fatti potenti dei malvagi, dia loro in mano lo Stato, e distrugga i migliori. Allo stesso modo diremo che il poeta imitatore instauri privatamente nell’anima di ciascuno un cattivo governo, compiacendo all’elemento irrazionale [to anoeto] di lei, che non sa distinguere le cose maggiori e le minori, ma ritiene le stesse cose ora grandi ora piccole, e foggiando delle parvenze illusorie, restando invece ben

lontano dal vero”. La condanna platonica della poesia e della pittura come arti imitative lontane dal vero non si traduce però in una condanna in toto dell’imitazione, né, tanto meno, in una svalutazione del ruolo della bellezza. Il tipo di imitazione che, nella Repubblica, viene condannato nella pittura e nella poesia è analogo a quello dei sofisti che, come specchi, sono capaci di imitare qualsiasi cosa in mancanza di un sapere vero. A fronte di questa forma di imitazione ingannevole, Platone propone però un’altra forma di imitazione che si attiene al primato dell’idea. In uno degli ultimi dialoghi - intitolato, per l’appunto, Sofista - egli presenta la distinzione tra una mimesis icastica, che produce un’immagine fedele al proprio modello (eikon), e una mimesis dell’apparenza, che produce invece un tipo di immagine che si distacca dal modello di riferimento (eidolon, phantasma), e asserisce che la sofistica, con la sua tendenza a dar vita a rappresentazioni illusorie, appartiene proprio a questo secondo tipo di attività mimetica. In un altro dialogo dell’ultima fase della speculazione platonica, il Timeo, ci viene presentata la descrizione della creazione del cosmo, degli uomini e di tutti gli esseri viventi. Anche in questo caso, come nella mimesis icastica del Sofista, ci troviamo di fronte a un tipo di imitazione che rispetta il primato del modello intelligibile: il dio che dà vita al mondo sensibile tenendo lo sguardo rivolto al mondo delle idee è infatti un Demiurgo che crea un mondo che è immagine fedele (eikon) dell’archetipo o paradigma (paradeigma) ideale e immutabile. Tale immagine è creata secondo somiglianza (omoiosis) e in quanto tale è sommamente bella. L’imitazione, in Platone, può dunque avere un ruolo duplice, a seconda che rispetti o meno il primato dell’idea, dell'eidos, la cui visibilità sovrasensibile deve guidare l’attività poietica del demiurgo. Nel primo caso l’imitazione dà vita a un’immagine fedele (eikon) e testimonia del rapporto di somiglianza e partecipazione (methexis) che lega il mondo sensibile a quello intelligibile; nel secondo caso, invece, produce un’immagine ingannevole (eidolon) che dimentica il riferimento all’idea e si perde nell’imitazione del mondo sensibile, finendo per essere copia di una copia. Così come l’imitazione, anche la bellezza può avere un ruolo duplice, in quanto l’amore per essa può condurre l’anima a sprofondare ulteriormente nel sensibile oppure può assumere una funzione anagogica

nel ricondurla verso il mondo delle idee, secondo un itinerario - descritto da Platone nel Fedro e nel Simposio - di graduale emancipazione dalla bellezza sensibile in direzione delle idee del Bello e del Bene. Le pagine che seguono sono tratte da Platone, La Repubblica, tr. it. a cura di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 1984: libro X, 595 a - 603 b, pp. 315325. Di Platone si vedano anche: Fedro, tr. it. a cura di M. Tondelli, Mondadori, Milano 1998; Ione, tr. it. a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2001; La Repubblica, cit., libri il, VII, X; Protagora, in Opere complete, vol. 5, tr. it. a cura di F. Adorno, Laterza, Roma-Bari 1982; Simposio, introduzione di V. Di Benedetto, tr. it. e note a cura di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 1997; Sofista, tr. it. a cura di M. Vitali, Rizzoli, Milano 1992; Timeo, tr. it. a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1994. Per approfondire: E. Cassirer, Eidos ed eidolon. Il problema del bello e dell'arte nei dialoghi di Platone, con postille di M. Carbone, R. Pettoello e E Trabattoni, tr. it. Libreria Cortina, Milano 1998; P. Friedländer, Platone: eidos, paideia, dialogos, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 20022; H.-G. Gadamer, Studi platonici, tr. it. Marietti, Genova 19982; B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Laterza, Roma-Bari 1984; E.A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, introduzione di B. Gentili, tr. it. Laterza, Roma-Bari 1983; W. Jaeger, Paideia. La formazione dell'uomo greco, 3 voli., tr. it. La Nuova Italia, Firenze 19992; Ch. Janaway, Images of Excellence: Plato’s Critique of the Arts, Clarendon Press, Oxford 1995; K. Kerényi, “Agalma, eikon, eidolon”, in Archivio di Filosofia, 1962; E. Mattioli (a cura di), “Mimesis”, in Studi di estetica, 7-8 (1993); E. Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1996; L. Robin, Platone, tr. it. Cisalpino, Milano 1988; S. Rosen, Plato's 'Sophist': the drama of original and image, Yale University Press, New Haven and London 1983; P.M. Schuhl, Platone e le arti figurative, tr. it. Book Editore, Bologna 1994; F. Trabattoni, Oralità e scrittura in Platone, Cuem, Milano 1999; Id., Platone, Carocci, Roma 1998; Id., Scrivere nell’anima: verità, dialettica e persuasione in Platone, La Nuova Italia, Firenze 1994; M. Villela-Petit, “La question de l’image artistique dans le Sophiste”, in P. Aubenque (a cura di),

Études sur le Sophiste de Platon, Bibliopolis, Roma 1991, pp. 55-90.

I. - Certo, - ripresi - molte altre riflessioni sul nostro stato mi fanno concludere che l’abbiamo fondato nel miglior modo possibile. Ma lo dico soprattutto se penso alla poesia. - Che cosa pensi? - chiese. - Di non accoglierne in nessun modo la parte imitativa. Che non si debba assolutamente accoglierla, appare ora e con più evidenza, come a me sembra, poiché sono distinti, ciascuno per conto proprio, gli aspetti dell’anima. - Come dici? - A voi posso ben dirlo, ché certo non mi denuncerete agli autori tragici e a tutti gli altri che usano l’imitazione. Tutte le opere di questo genere costituiscono, sembra, grave danno per lo spirito degli ascoltatori che non dispongono del farmaco, ossia che non le conoscono quali sono effettivamente. - A che cosa pensi - chiese - per parlare così? - Si deve dirlo - risposi. - Eppure un senso di affetto e di reverenza che fin da fanciullo nutro per Omero mi fa riluttante a parlare. Perché, a mio parere, il primo maestro e guida di tutti codesti bravi tragediografi è stato lui. Ma d’altra parte non si deve onorare un uomo più della verità e, come dico, si deve parlare. - Senza dubbio. - Ebbene ascolta, anzi rispondi. - Chiedi pure. - Sapresti dirmi che cosa è mai, in generale, l’imitazione? Perché nemmeno io capisco troppo cosa vuole essere. - Figurati allora - rispose - se lo capirò io! - Non c’è nulla di strano - ripresi; - persone più deboli di vista hanno veduto molte cose prima di persone dallo sguardo più acuto. - È così - ammise. - Però, quando tu sei presente, non mi sentirei

nemmeno voglia di parlare, anche se una cosa mi fosse evidente. Vedi piuttosto tu stesso. - Ebbene, vuoi che, fedeli al nostro solito metodo, incominciamo di qui a esaminare la questione? Siamo soliti, non è vero?, porre un’unica singola specie per ciascun gruppo di molti oggetti ai quali attribuiamo l’identico nome. Forse non comprendi? - Comprendo. - Consideriamo anche adesso uno qualunque di questi numerosi oggetti, quello che vuoi. Per esempio, se sei d’accordo, esistono molti letti e tavoli, non è vero? - Come no? - Però le idee relative a questi mobili sono soltanto due, una del letto e una del tavolo. - Sì. - E non siamo anche soliti dire che l’artigiano dell’uno e dell’altro di questi mobili guarda all’idea per fare così l’uno i letti, l’altro i tavoli che noi usiamo? e non è allo stesso modo per gli altri oggetti? Ma l’idea stessa non la costruisce nessun artigiano. Come potrebbe? - In nessuna maniera. - Ma vedi anche come chiami questo artigiano. - Quale? - Quello che fa tutti quegli oggetti che ogni singolo operaio fa, ciascuno nel proprio campo specifico. - Tu parli di un uomo bravo e meraviglioso. - Non ancora, ma presto potrai affermarlo meglio. Questo medesimo operaio non solo è capace di fare ogni sorta di mobili, ma anche tutti i prodotti della terra, e crea tutti gli esseri viventi e per di più se stesso; e poi crea terra, cielo, dèi e tutto il mondo celeste e sotterraneo dell’Ade. - Tu parli - rispose - di un sofista ben meraviglioso. - Non ci credi? - replicai. Dimmi: pensi che un simile artigiano non ci sia affatto? O credi che un autore di tutto questo possa in certo modo esistere e in certo modo no? Non t’accorgi che anche tu stesso saresti capace di fare tutte queste cose, almeno in un certo modo? - E qual è - chiese - questo modo? - Un modo non difficile, - risposi - anzi attuabile in maniere diverse e rapide, rapidissime addirittura. Basta che tu voglia prendere uno specchio e

farlo girare da ogni lato. Rapidamente farai il sole e gli astri celesti, rapidamente la terra e poi te stesso e gli altri esseri viventi, i mobili, le piante e tutti gli oggetti che si dicevano or ora. - Sì, - rispose - oggetti apparenti, ma senza effettiva realtà. - Bene, - dissi - vieni a proposito per il nostro discorso. A simili artigiani, secondo me, appartiene anche il pittore. Non è vero? - Come no? - Ma dirai, credo, che gli oggetti fatti da lui non sono veri. Eppure, in un certo modo almeno, anche il pittore fa un letto. O no? - Sì, - rispose - però anche il suo è un letto apparente. II. - E il fabbricante di letti? Non dicevi poco fa che non costruisce la specie in cui diciamo consistere “ciò che è” letto, ma costruisce un determinato letto? - Lo dicevo, sì. - Se dunque non fa “quello che è” letto, non farà ciò che è, ma un oggetto che è esattamente come ciò che è, ma che non è. E chi asserisse che l’opera del costruttore di letti o di un altro operaio è cosa perfettamente reale, non rischierebbe di dire cose non vere? - Non vere, certamente - rispose; - così almeno potrà credere chi si occupa di simili argomenti. - Allora non meravigliamoci affatto se anche questa opera è, rispetto alla verità, qualcosa di vago. - No, certo. - Ebbene, - ripresi - vuoi che, servendoci di questi medesimi esempi, ricerchiamo chi mai è questo imitatore? - Se vuoi... - disse. - Questi nostri letti si presentano sotto tre specie. Uno è quello che è nella natura: potremmo dirlo, credo, creato dal dio. O da qualcun altro? - Da nessun altro, credo. - Uno poi è quello costruito dal falegname. - Sì - disse. - E uno quello foggiato dal pittore. Non è vero? - Va bene. - Ora, pittore, costruttore di letti, dio sono tre e sovrintendono a tre specie di letti. - Sì, tre.

- Ebbene, il dio, sia che non l’abbia voluto sia che qualche necessità l’abbia costretto a non creare nella natura più di un solo e unico letto, si è limitato comunque a fare, in unico esemplare, quel letto in sé, ossia “ciò che è” letto. Ma due o più letti di tal genere il dio non li ha prodotti, e non c’è pericolo che li produca mai. - Come? - chiese. - Perché - ripresi - se ne facesse anche due soli, ne riapparirebbe uno di cui ambedue quelli, a loro volta, ripeterebbero la specie. E “ciò che è” letto sarebbe quest’ultimo, anziché quei due. - Giusto - rispose. - Conscio di questo, credo, il dio ha voluto essere realmente autore di un letto che realmente è, non di un letto qualsiasi; né ha voluto essere un qualunque fabbricante di letti. E perciò ha prodotto un letto che fosse unico in natura. - Può darsi. - Vuoi dunque che lo chiamiamo naturale creatore di questa cosa, o con un titolo consimile? - È proprio giusto - rispose; - perché sia questa sia tutto il resto l’ha fatto in natura. - E il falegname? Non dobbiamo chiamarlo artigiano del letto? - Sì. - E anche il pittore artigiano e autore di questo oggetto? - No, assolutamente. - Ma come lo definirai rispetto al letto? - Secondo me, - disse - l’appellativo che più gli si addice potrebbe essere “imitatore dell’oggetto di cui quegli altri sono stati artigiani” - Bene - risposi. - Allora chiami tu imitatore chi è artefice della terza generazione di cose a partire dalla natura? - Senza dubbio - rispose. - Tale sarà dunque anche l’autore tragico, se è vero che è un imitatore. Per natura egli è terzo a partire dal re e dalla verità. E tali saranno tutti gli altri imitatori. - Può essere. - Eccoci dunque d’accordo sull’imitatore. Ora veniamo al pittore. Dimmi: ti sembra che egli cerchi di imitare il singolo oggetto in sé che è nella natura, oppure le opere degli artigiani?

- Le opere degli artigiani - rispose. - Quali sono o quali appaiono? Fa ancora questa distinzione. - Come dici? - chiese. - Così: un letto, che tu lo guardi di lato o di fronte o in un modo qualsiasi, differisce forse da se stesso? O non c’è nessuna differenza, anche se appare diverso? E analogamente gli altri oggetti? - È così - rispose; - appare diverso, ma non c’è alcuna differenza. - Esamina ora quest’altro punto. A quale di questi due fini è conformata l’arte pittorica per ciascun oggetto? A imitare ciò che è così come è, o a imitare ciò che appare così come appare? È imitazione di apparenza o di verità? - Di apparenza - rispose. - Allora l’arte imitativa è lungi dal vero e, come sembra, per questo eseguisce ogni cosa, per il fatto di cogliere una piccola parte di ciascun oggetto, una parte che è una copia. Per esempio, il pittore, diciamo, ci dipingerà un calzolaio, un falegname, gli altri artigiani senza intendersi di alcuna delle loro arti. Tuttavia, se fosse un buon pittore, dipingendo un falegname e facendolo vedere da lontano, potrebbe turlupinare bambini e gente sciocca, illudendoli che si tratti di un vero falegname. - Perché no? - Ma, mio caro, di tutti costoro si deve, credo, pensare così. Quando, a proposito di un certo individuo, uno venga ad annunziarci di avere incontrato un uomo che conosce tutti i mestieri e ogni altra nozione propria dei singoli specialisti, e tutto conosce più esattamente di chiunque altro, a tale persona dovremo replicare che è un sempliciotto e che con ogni probabilità ha incontrato un ciarlatano, un imitatore, da cui è stato turlupinato; e così gli è sembrato onnisciente, ma solo perché è lui incapace di vagliare scienza, ignoranza e imitazione. - Verissimo - disse. III. - Dopo di che - feci io - dobbiamo esaminare la tragedia e il suo caposcuola Omero, perché sentiamo dire da taluni che costoro conoscono tutte le arti e tutte le cose umane pertinenti alla virtù e al vizio, e perfino le divine. Infatti, dicono, il buon poeta, se deve comporre bene sugli argomenti che vuole trattare, è costretto a comporre avendone conoscenza; altrimenti non può comporre. Occorre dunque esaminare se questa gente, per avere incontrato questi imitatori, si è fatta turlupinare e se, vedendone le

opere, non si accorge che sono lontane di tre gradi dall’essere e facilmente eseguibili da chi ignori la verità (perché quegli imitatori producono apparenze, non cose reali); oppure se le sue parole hanno senso e realmente i buoni poeti conoscono gli argomenti che, secondo i più, trattano con bravura. - Sì, è un’indagine senza dubbio da fare - rispose. - Ebbene, se uno potesse fare ambedue le cose, cioè l’oggetto da imitare e la copia, credi che si lascerebbe andare seriamente a costruire delle copie e che di questo farebbe l’ideale supremo della propria vita? - Io no davvero. - In ogni caso, credo, se possedesse vera scienza di ciò che imita, attenderebbe seriamente alle opere assai più che alle imitazioni, cercherebbe di lasciare a ricordo di sé numerose e belle opere e preferirebbe essere la persona encomiata che l’encomiatore. - Credo di sì - rispose; - ché non sono pari l’onore e l’utile. - Di tutto il resto dunque non chiediamo conto a Omero o a qualsivoglia altro poeta. Non domandiamo a chi di loro era medico, e non soltanto imitatore di discorsi medici, quali persone si possano citare come guarite da un poeta antico o moderno, come le ha guarite Asclepio; o quali discepoli nell’arte medica egli abbia lasciati, così come Asclepio ha lasciato i suoi discendenti. Non interroghiamoli poi sulle altre arti, ma lasciamo perdere. Ma non è giusto interrogarli su quegli argomenti molto importanti e attraenti di cui Omero prende a parlare, ossia guerre, comandi militari, governi di stati e infine educazione dell’uomo? Gli chiederemo: “Caro Omero, se è vero che in quanto a virtù non sei terzo a partire dalla verità, se cioè non sei quell’artigiano di una copia che abbiamo definito imitatore, e se è vero invece che vieni al secondo posto e che sei riuscito a conoscere quali occupazioni rendono migliori o peggiori gli uomini in privato e in pubblico, dicci quale stato per merito tuo ha ottenuto un governo migliore, come Lacedemone per merito di Licurgo e molti stati grandi e piccoli per merito di varie altre persone; dì quale stato ti riconosce il merito di avere agito da buon legislatore e fatto l’utile dei suoi cittadini. Italia e Sicilia lo riconoscono a Caronda e noi a Solone; ma a te chi?”. Potrà citarne qualcuno? - Non credo - rispose Glaucone; - certo che non lo dicono nemmeno gli

Omeridi stessi. - Ma si ricorda qualche guerra dell’età di Omero che sia stata ben condotta sotto il suo comando o consiglio? - Nessuna. - Ma si citano forse molte e ingegnose sue invenzioni nelle arti o in altri campi d’azione, come di un uomo di sapienza pratica? Così come se ne citano invece per Talete milesio e Anacarsi scita? - Non si cita assolutamente nulla di simile. - Ma, se non nell’ambito pubblico, si dice che in quello privato Omero ha diretto lui stesso da vivo l’educazione di certuni che lo amavano per la sua scuola e che hanno tramandato ai posteri un metodo di vita detto appunto omerico? Così per questo motivo fu particolarmente amato Pitagora, e ancor oggi i suoi seguaci, denominando pitagorico il loro modo di vita, sembrano in un certo senso distinguersi dagli altri. - Non si dice neppure nulla di simile - rispose. - Creofilo, il compagno di Omero, forse apparirebbe, Socrate, ancora più ridicolo per l’educazione che per il nome che porta, se è vero ciò che si racconta su Omero. Si narra che da vivo questi fu da lui assai trascurato. IV. - Lo si racconta proprio - ripresi. - Ma, Glaucone, se Omero fosse stato realmente in grado di educare gli uomini e di renderli migliori in quanto capace, in questo ambito, non di imitare, ma di conoscere, non credi che si sarebbe fatti molti compagni e ne sarebbe stato onorato e amato? Eppure Protagora di Abdera e Prodico di Ceo e moltissimi altri possono convincere i loro contemporanei, in privati incontri, che non riusciranno ad amministrare né la propria casa né il proprio stato a meno che non si facciano dirigere da loro nella propria educazione. E per questa loro sapienza sono tanto amati che ai loro compagni manca solamente di portarli in giro in trionfo. E invece Omero oppure Esiodo, se è vero che erano in grado di giovare agli uomini per la virtù, i contemporanei lì avrebbero lasciati andare in giro a fare i rapsòdi? Non si sarebbero dovuti attaccare a questi poeti più che all’oro e non avrebbero dovuto costringerli a starsene con loro in patria? O, se non fossero riusciti a convincerli, non avrebbero dovuto scortarli dove fossero andati, finché non ne avessero ottenuto un sufficiente grado di educazione? - Mi sembra, Socrate, - rispose - che sia assolutamente vero quello che dici.

- Ammettiamo dunque che, a cominciar da Omero, tutti i poeti sono imitatori di copie della virtù e delle altre cose di cui trattano e che non attingono la verità? ma, come or ora dicevamo, il pittore, pur senza intendersi di persona della fabbricazione delle scarpe, farà un calzolaio che sembrerà un vero calzolaio a chi non se ne intende e giudica invece in base ai colori e alle figure? - Senza dubbio. - Così, credo, diremo che anche il poeta applica certi colori alle singole arti mediante i nomi e le frasi, senza intendersi d’altro che dell’imitazione. E così altre persone simili a lui, che giudicano in base alle parole, credono che, quando uno parla o della fabbricazione delle scarpe o del comando di truppe o di qualunque altro argomento rispettando il metro, il ritmo e l’armonia, parli molto bene. Tanto è grande il fascino che esercitano naturalmente questi mezzi espressivi! Credo tu sappia quali si rivelano le opere dei poeti se, spogliate dei colori della musica, si recitano ridotte al puro testo. Forse l’hai già osservato. - Io sì - rispose. - Non ricordano - feci io - l’aspetto che assumono i volti delle persone fresche d’età, ma non belle, quando venga loro meno il fiore della giovinezza? - Senz’altro - ammise. - Su, rifletti a questo: l’autore della copia, l’imitatore, diciamo che non s’intende per nulla di ciò che è, ma di ciò che appare. Non è così? - Sì. - Ebbene, non lasciamo la cosa detta a metà, ma vediamola completamente. - Parla - disse. - Il pittore, diciamo, dipingerà briglie e morso? - Sì. - Ma li fabbricheranno il cuoiaio e il fabbro? - Senza dubbio. - E il pittore s’intende di come devono essere le briglie o il morso? O non se ne intende nemmeno chi li fabbrica, il fabbro e il cuoiaio, ma chi sa usarli, il solo cavaliere? - È verissimo. - E non diremo che è così per ogni altra cosa?

- Come? - Che per ciascuna esistono, in certo modo, queste tre arti: quella che la userà, quella che la fabbricherà, quella che la imiterà? - Sì. - Ora, virtù bellezza regolarità di ciascun oggetto, di ciascun animale e di ciascuna azione non esistono se non in funzione dell’uso per cui ciascuno è fabbricato o ha naturale costituzione? - È così. - Allora chi usa ciascun oggetto, deve per forza averne esperienza e comunicare al fabbricante quali siano gli effetti, buoni o cattivi, che l’oggetto da lui usato produce nell’atto dell’uso. Per esempio un auleta comunica al fabbricante di auloi i dati relativi agli auloi che gli servono quando suona. Gli darà le direttive sui vari requisiti da tenere presenti nella fabbricazione, e quegli le attuerà. - E come no? - Ora, se il primo segnala qualità e difetti degli auloi, non lo fa perché sa? e il secondo non li fabbricherà perché gli crede? - Sì. - Quindi il fabbricante sarà sempre in buona fede sulla perfezione o sull’imperfezione di un utensile, si tratti pure del medesimo: ciò perché frequenta chi sa e ha l’obbligo di ascoltarlo. Invece chi usa quell’utensile, ne avrà scienza. - Senza dubbio. - E delle cose che dipinge, siano o no belle e rette, l’imitatore avrà scienza derivante dall’uso? o ne avrà retta opinione perché è obbligato a frequentare chi sa e a riceverne le direttive sui soggetti da dipingere? - Né questo né quello. - E allora sulle cose che imita, considerate in rapporto alla loro perfezione o imperfezione, l’imitatore non avrà né scienza né rette opinioni. - Sembra di no. - Carino davvero sarebbe l’imitatore della poesia, se si considera quanta è la sua sapienza negli argomenti trattati! - Non troppo. - Eppure imiterà, senza sapere quali siano i difetti o i pregi di ciascun argomento. A quanto sembra, imiterà ciò che appare bello ai più, che non sanno nulla.

- E che altro dovrebbe fare? - Su questo punto, almeno a quello che sembra, siamo abbastanza d’accordo: l’imitatore conosce solo un poco le cose che imita, e l’imitazione è uno scherzo e non una cosa seria; e coloro che si dedicano alla poesia tragica, in giambi o in versi epici, sono tutti imitatori nel più alto grado possibile. - Senza dubbio. V. - Per Zeus! - ripresi - ma questo atto d’imitare non è cosa che viene terza a partire dalla verità? No? - Sì. - E quale tra gli elementi dell’uomo è soggetto al suo potere? - Di che cosa vuoi parlare? - Di questo: l’identica grandezza, secondo che si vede da vicino e da lontano, non ci appare eguale. - No, certo. - E gli identici oggetti, a seconda che si contemplano dentro o fuori dell’acqua, appaiono piegati o diritti, e cavi o prominenti. Questo perché nella vista si produce un disorientamento cromatico. È chiaro che tutto questo scompiglio esiste nell’anima nostra. Ora, facendo leva su questa condizione della nostra natura, la pittura a chiaroscuro non tralascia alcuna stregoneria. E così fanno la prestidigitazione e i molti altri trucchi del genere. - È vero. - Ebbene, contro questi inganni non si sono rivelati ausilii ingegnosissimi la misurazione, la numerazione e la pesatura, sì che in noi non governa ciò che appare maggiore o minore o più numeroso o più pesante, ma ciò che calcola e misura e pesa? - Come no? - Ma tutte queste operazioni spetteranno all’elemento razionale dell’anima. - A questo, certo. - Però a questo elemento che misura e segnala che certe cose sono tra loro maggiori o minori o eguali, spesso risulta che per le identiche cose si hanno apparenze contemporaneamente opposte. - Sì. - Ora, non abbiamo affermato che l’identico soggetto non può avere

contemporaneamente opposte opinioni sulle identiche cose? - Sì, e l’abbiamo affermato con ragione. - Quindi l’elemento dell’anima che giudica indipendentemente da ogni misura non potrà essere identico a quello che giudica secondo misura. - No, certo. - Ma l’elemento che s’affida alla misura e al calcolo sarà il migliore dell’anima. - Sicuramente. - Allora quello che gli si oppone sarà uno di quelli che in noi hanno scarso pregio. - Per forza. - Appunto perché volevo arrivare a questa ammissione dicevo che la pittura (e, in genere, l’arte imitativa) elabora la propria opera lontano dalla verità. Essa è in intima relazione, compagna e amica di quel nostro interiore elemento che sta lontano dall’intelligenza, senza alcuna meta sana né vera. - Assolutamente - rispose. - Allora l’arte imitativa, che ha scarso pregio, trovandosi insieme con un elemento pure poco pregevole, dà luogo a prodotti che valgono poco. - Può darsi. - Si tratta - continuai - soltanto dell’arte che riguarda la vista o anche di quella che concerne l’udito e che denominiamo appunto poesia? - È naturale - rispose - anche di questa.

Aristotele La rappresentazione del verosimile

“Trattiamo dunque della poetica in sé e delle sue forme, quale potenzialità ciascuna possegga e come debbano comporsi i racconti perché la poesia riesca ben fatta, e inoltre di quante e quali parti consista, e anche, in modo simile, di tutti gli altri argomenti che pertengono alla medesima disciplina, incominciando secondo natura dapprincipio dai principi.” Sin dall'incipit la Poetica di Aristotele (384-322 a.C.) - opera che comprendeva due libri di cui ci è pervenuto solo il primo - mostra il suo duplice intento, descrittivo e prescrittivo: scopo della poetica deve essere quello di analizzare i principi della poesia, i suoi generi, le sue parti costitutive, i mezzi impiegati e le modalità della sua produzione, al fine di individuare le procedure creative di ogni opera e i parametri secondo cui può essere valutata la sua maggiore o minore perfezione all’interno del genere a cui appartiene. Presupposto della riflessione aristotelica è l’identificazione della poesia con una forma di techne, ossia un’attività controllata dalla ragione, governata da un sistema di regole e riconducibile al principio generale imitazione (mimesis): l’epica, la tragedia, la commedia, la poesia ditirambica (per citare alcuni dei generi letterari analizzati da Aristotele) sono composizione di fatti all’interno di un racconto (muthos) che a sua volta è concepito come “imitazione di un’azione”. L’analisi aristotelica della techne imitativa non si limita però alle forme della poesia, a cui è comunque dedicata gran parte della Poetica: dopo aver stabilito che le diverse arti imitative si distinguono fra di loro a seconda dei mezzi di cui si avvalgono, dell'oggetto e dei modi dell’imitazione, Aristotele menziona infatti arti che impiegano come mezzi la musica e il ritmo (come l’auletica e la citaristica), il ritmo senza musica (la danza), oppure colori e figure (pittura e scultura).

Il principio di imitazione a partire dal quale si sviluppa la riflessione aristotelica sull’arte poetica segna un importante momento di distacco da Platone, che X nel libro della Repubblica, come abbiamo visto, pronuncia una celebre condanna di quelle arti che, come la pittura e la poesia, si dedicano esclusivamente all’imitazione del mondo sensibile. Tale condanna ha una precisa motivazione di ordine ontologico e metafisico, che risiede nel primato della sfera delle idee rispetto alla dimensione del sensibile: per ogni cosa concretamente esistente vi è un'idea, un modello intelligibile, che deve essere imitata con un’immagine fedele (eikon) tenendo lo sguardo fisso sul modello; se invece l’attività poietico-imitativa dell’artefice prende per riferimento non il modello ma le cose sensibili, semplici copie degradate delle idee, il risultato sarà un’immagine ingannevole (eidolon), copia di una copia, doppiamente lontana dal vero e produttrice di “pura parvenza” Nell’analisi platonica le arti imitative, squalificate sul piano ontologico, sono condannate anche sul piano eticopolitico ed educativo, in quanto produttrici di false opinioni e atteggiamenti devianti difficilmente riconducibili al progetto politico-conoscitivo di una città retta dai principi della filosofia. La concezione aristotelica dell’imitazione è profondamente diversa da quella platonica: l’imitazione è qualcosa di naturale, “connaturato agli uomini fin dalla puerizia”, e fonte di piacere, tanto che, come scrive Aristotele nella Poetica, “le immagini particolarmente esatte di quello che in sé ci dà fastidio vedere, come per esempio le figure degli animali più spregevoli e dei cadaveri, ci procurano piacere allo sguardo, [e] il motivo di ciò è che l’imparare è molto piacevole non solo ai filosofi ma anche a tutti gli altri, soltanto che questi ne partecipano per breve tempo”. Da questa affermazione del ruolo conoscitivo dell’imitazione - che riecheggia il celebre inizio della Metafisica, là dove Aristotele sottolinea la naturale tendenza degli uomini verso il sapere, fondata sull’“amore per le sensazioni”, in particolare quella della vista - deriva quindi la rivalutazione dello statuto conoscitivo e politico-sociale della poesia, e in particolare della tragedia. La poesia non è più riconducibile a un’ispirazione (mania) di origine divina, come sosteneva Platone nello Ione. In Aristotele essa è considerata un’attività dotata di una sua precisa funzione conoscitiva: a differenza della storia, che racconta le cose così come sono avvenute e si limita alla dimensione del particolare, la poesia ha per oggetto le

cose “quali possono avvenire”, secondo verosimiglianza o necessità, e tende piuttosto a rappresentare l’universale. La capacità della poesia di rivolgersi alla dimensione del possibile e del verosimile (eikos), articolandolo in forma di racconto, esprime quindi una diversa concezione dell’imitazione, non più subordinata al primato del modello rispetto alla copia, ma aperta alle potenzialità espressive della verosimiglianza, purché ciò che viene rappresentato abbia un valore universale e tipico. Di qui deriva anche l’importante funzione sociale attribuita da Aristotele alla tragedia, “imitazione di un’azione seria e compiuta [...] la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione [katharsis] di siffatte emozioni”. Riprendendo un termine medico che già i pitagorici avevano riferito agli effetti emotivi della musica, Aristotele conferisce alla tragedia il potere di operare una “catarsi”, ossia una purificazione delle passioni nell’animo dello spettatore; il tema susciterà un incessante dibattito nell’età moderna (la Poetica rimase infatti sconosciuta al Medioevo) sulla questione se tale purificazione sia da interpretarsi come liberazione dalle passioni o come indebolimento delle potenzialità nocive delle passioni stesse. La distinzione tra storia e poesia esposta nella Poetica, dove la poesia si rivela dotata di una funzione conoscitiva legata alla rappresentazione del verosimile, richiama la distinzione tra discorsi apofantici e discorsi non apofantici introdotta da Aristotele nel Dell'interpretazione (Peri ermeneias). All’inizio di quest’opera Aristotele espone una celebre teoria circa il rapporto tra linguaggio, pensiero e realtà, secondo la quale le “voci” di cui è costituito il linguaggio sono simboli delle “affezioni che si producono nell’anima”, cioè dei pensieri, che a loro volta sono immagini delle “cose” Tra linguaggio, pensiero e realtà ci sarebbe dunque un rapporto di corrispondenza, in base al quale il linguaggio non è che l’espressione, convenzionale e quindi diversa per i diversi uomini, del pensiero, che a sua volta è la rappresentazione, non convenzionale e dunque identica per tutti gli uomini, della realtà: “Ora, i suoni che sono nella voce sono simboli delle affezioni che sono nell’anima, e i segni scritti lo sono dei suoni che sono nella voce. E come neppure le lettere dell’alfabeto sono identiche per tutti, neppure le voci sono identiche. Tuttavia ciò di cui queste cose sono segni, come di termini primi, sono affezioni dell’anima identiche per tutti, e ciò di cui queste sono immagini sono le cose, già identiche”.

Le “voci” più importanti, secondo Aristotele, sono i nomi e i verbi, i quali, presi separatamente, non sono né veri né falsi, mentre, quando sono presi in congiunzione o disgiunzione reciproca, danno luogo a una proposizione, rispettivamente affermativa o negativa, che può essere vera o falsa: vera quando le cose che essa indica come unite o divise sono effettivamente unite o divise nella realtà, falsa quando invece non lo sono. Non tutte le proposizioni, tuttavia, sono vere o false, in quanto alcune, come per esempio una preghiera, pur essendo significanti non dicono come stanno le cose, bensì si limitano a formulare desideri o a esprimere sentimenti. Le proposizioni che non sono qualificabili né come vere né come false sono chiamate da Aristotele “discorsi semantici”, cioè genericamente “significanti”, mentre quelle che possono essere vere o false, sono chiamate “discorsi apofantici”, cioè manifestativi, enunciativi (da apophansis = enunciazione). Come leggiamo nel Dell'interpretazione, “ogni discorso è capace di significare (semantikos) [...] ma non ogni discorso è enunciativo (apophantikos), bensì quello nel quale sussiste il dire il vero o il dire il falso. E non in tutù quanti i discorsi sussiste: per esempio, la preghiera è sì un discorso, ma non è né vera né falsa”. Esistono dunque diversi tipi di argomentazione: apodittiche o dimostrative (da apodeixis = dimostrazione) - come quelle analizzate negli Analitici primi e secondi, che hanno come presupposto la dottrina del sillogismo dimostrativo nelle sue varie forme - e non dimostrative, che sono studiate dalla dialettica, dalla retorica e dalla poetica. La dialettica era considerata da Aristotele un metodo, cioè una tecnica, un’arte, per argomentare su qualsiasi problema proposto nell’ambito di una discussione con un avversario, riuscendo a confutare la tesi da lui sostenuta, qualora egli ne difenda una, o a impedire che confuti la nostra, qualora ne difendiamo una noi. Derivante dal significato comune del verbo dialeghesthai, “discutere”, il termine dialektike alludeva a una prassi discorsiva elevata appunto a procedimento tecnico dai sofisti e da Socrate, mediante l’alterna successione di domande e risposte tra due interlocutori. Platone, nel quale la dialettica si identifica con l’essenza stessa della filosofia, aveva visto in essa il modo di indagare i nessi tra i concetti, tra le idee, e la loro relazione con il mondo sensibile. In Aristotele, invece, la dialettica è ricondotta all’ambito più specifico dello studio dell’argomentazione dialogica, distinguendone le forme e gli scopi, e il suo

studio viene elaborato all’interno di opere come i Topici e gli Elenchi sofistici. La retorica, a sua volta, era definita da Aristotele come la capacità di trattare tecnicamente ciò che è persuasivo (to pithanon) riguardo a ciascun argomento. Il suo compito non era dunque direttamente di persuadere, ma di scoprire e insegnare quali sono le cose persuasive, non riguardo a un genere determinato, ma in qualsiasi campo. I mezzi di persuasione utilizzati dalla retorica si possono riferire al carattere morale di chi parla o alla disposizione di chi ascolta - e allora sono studiati dall’etica e dalla politica, che prendono in considerazione le passioni degli uomini e il loro ruolo nella vita sociale - oppure hanno a che vedere con il valore intrinseco del discorso stesso in quanto esso riesce a dimostrare o ad avere l’apparenza di dimostrare, e in tal caso sono di stretta competenza della dialettica. In questo modo la retorica si viene a trovare al crocevia tra etica, politica e dialettica, dato che il suo oggetto di studio non deve contemplare soltanto il modo di suscitare le passioni negli ascoltatori, bensì l’individuazione delle regole secondo cui bisogna costruire le argomentazioni, indipendentemente dalla loro verità o falsità e dalle intenzioni, buone o cattive, con cui vengono utilizzate. A differenza della dialettica, però, la retorica non ha a che vedere con tutti i tipi di problemi in generale, bensì con quelle argomentazioni che vertono quanto è oggetto di deliberazione, di scelta, e si rivolgono ad ascoltatori qualsiasi e non a professionisti dell’argomentazione, scegliendo forme abbreviate di dimostrazione, meno rigorose forse dei veri e propri sillogismi dimostrativi, ma più persuasive ed efficaci nel contesto della discussione pubblica. Pressoché trascurata dalla cultura medioevale, per la quale gli argomenti trattati erano eccessivamente mondani e futili, e comunque relativi a una forma di vita politica e sociale troppo diversa, la Retorica fu significativamente apprezzata dalla cultura rinascimentale, a causa dell'umanesimo che rivela nel conciliare analisi argomentativa e indagine psicologica sulle passioni dell’uomo, ed è stata poi di recente riscoperta come modello di un argomentare non rigorosamente esatto, ma tuttavia fornito di una sua razionalità e di una sua efficacia nel contesto della vita sociale e dell’agire comunicativo delle persone. Le pagine che seguono sono tratte da Aristotele, Poetica, tr. it. a cura di

D. Lanza, Rizzoli, Milano 1987: parr. 1-10 (47a - 52a), pp. 116-151. Di Aristotele si vedano anche: Dell’interpretazione, tr. it. a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1992; Metafisica, tr. it. a cura di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1993; Retorica, introduzione di F. Montanari, testo critico, tr. it. e note a cura di M. Dorati, Mondadori, Milano 1996. Per approfondire: E.S. Belfiore, Tragic Pleasures. Aristotle on Plot and Emotion, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1992; E. Berti, Profilo di Aristotele, Studium, Roma 1985; P.L. Donini, La filosofia di Aristotele, Loescher, Torino 1982; R. Dupont Roc e J. Lallot, La Poétique. Texte, traduction et notes, Seuil, Paris 1980; G.F. Else, Aristotle’s Poetics; The Argument, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1957; D. Guastini, Come si diventava uomini. Etica e poetica nella tragedia greca, Jouvence, Roma 1999, pp. 151-313; L. Pareyson, Il verisimile nella poetica di Aristotele, La Salute, Torino 1950; A.O. Rorty (a cura di), Essays on Aristotle’s Poetics, Princeton University Press, Princeton (N J.) 1992; A. Rostagni, Aristotele, Poetica. Introduzione, testo e commento, Loescher, Torino 1945; P. Somville, Essai sur la Poétique d’Aristote et sur quelques aspects de sa postérité, Vrin, Paris 1975; G. Vattimo, Il concetto di "fare” in Aristotele, Giappichelli, Torino 1961; WJ. Verdenius, Katharsis tonpathematon, in AA.VV., Autour d’Aristote, Publications universitaires de Louvain, Louvain 1955.

1. Trattiamo dunque della poetica in sé e delle sue forme, quale potenzialità ciascuna possegga e come debbano comporsi i racconti perché la poesia riesca ben fatta, e inoltre di quante e quali parti consista, e anche, in modo simile, di tutti gli altri argomenti che pertengono alla medesima disciplina, incominciando secondo natura dapprincipio dai principi. L’epica, così come la poesia tragica, nonché la commedia, la composizione di ditirambi e la maggior parte dell’auletica e della citaristica nel complesso sono tutte imitazioni, ma si distinguono l’una dall’altra sotto tre aspetti:

nell’imitare o con mezzi diversi, o oggetti diversi, o diversamente e non nello stesso modo. Come alcuni imitano riproducendo molti oggetti con colori e figure (chi per arte, chi per pratica) e altri usando la voce, così tutte le dette arti compiono l’imitazione con il ritmo, la parola e la musica, separatamente oppure in combinazione. Usano per esempio soltanto musica e ritmo l’auletica, la citaristica e tutte le altre arti funzionalmente simili, come ad esempio quella della siringa; di solo ritmo senza musica è l’arte dei danzatori, anche costoro infatti per mezzo di ritmi figurati imitano caratteri, emozioni e azioni. L’arte che adopera le nude parole e quella che adopera i versi, o in combinazione gli uni con gli altri o usandone di un solo genere, si trovano ad essere fino ad oggi senza nome. Non possediamo infatti alcuna denominazione comune per i mimi di Sofrone e di Senarco e per i discorsi socratici, e neppure se si compisse l’imitazione con trimetri, versi elegiaci o altri di tipo analogo; tranne che la gente, unendo al verso il “comporre”, denomina gli uni compositori elegiaci, gli altri compositori epici, non definendoli poeti per l’imitazione ma comunemente per il verso. Si è soliti in effetti chiamare così anche coloro che espongono in versi qualcosa che riguarda la medicina o la natura, mentre, a parte il verso, non vi è nulla di comune tra Omero ed Empedocle. Sarebbe perciò giusto chiamare l’uno poeta, l’altro studioso della natura piuttosto che poeta. In modo simile anche chi compisse l’imitazione combinando tutti i versi come Cheremone ha composto il Centauro, rapsodia mista di tutti i versi, dovrebbe essere chiamato poeta. Ciò resti dunque così definito. Ce ne sono poi che usano tutti i mezzi citati, voglio dire il ritmo, il canto e il verso, come la poesia ditirambica, quella nomica, la tragedia e la commedia. Differiscono però nell’usarli, alcune tutti insieme, altre a seconda delle parti. Queste sono dunque le differenze tra le arti rispetto ai mezzi con i quali si compie l’imitazione. 2. Dal momento che coloro che imitano imitano persone che agiscono, e queste di necessità sono o serie o dappoco (i caratteri si conformano in effetti quasi sempre a questi soli tipi, perché tutti differiscono per quanto riguarda il carattere in vizio o in virtù) o dunque migliori di noi o peggiori o anche quali noi siamo (come i pittori: Poiignoto li raffigurava migliori, Pausone peggiori, Dionisio simili), è chiaro che anche ciascuna delle dette imitazioni presenterà queste differenze e si distinguerà per avere distinti nel

modo indicato gli oggetti dell’imitazione. Anche nella danza, nell’auletica e nella citaristica è possibile avere queste differenze, e nella prosa o nella poesia senza canto: Omero per esempio migliori, Cleofonte simili, Egemone di Taso, che per primo compose parodie, e Nicocare, l’autore della Viliade, peggiori. In modo simile si può compiere l’imitazione nel caso dei ditirambi e dei nomi, come Timoteo i Ciclopi e Filosseno. Secondo la stessa differenza la tragedia si distingue dalla commedia; questa infatti si propone di rappresentare persone peggiori, quella migliori che nella realtà. 3. La terza poi di queste differenze è il come si può compiere l’imitazione di ciascuna di queste cose. È possibile infatti imitare gli stessi oggetti con gli stessi mezzi, sia narrando, diventando qualcun altro come fa Omero o rimanendo se stesso e non trasformandosi, sia che quelli che imitano siano tutti quanti come agenti operatori. L’imitazione dunque, come si è detto al principio, sta in queste tre differenze: nel con che cosa, nel che cosa e nel come. [...] 4. Due cause appaiono in generale aver dato vita all’arte poetica, entrambe naturali: da una parte il fatto che l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri animali, nell’essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell’imitazione le nozioni fondamentali), dall’altra il fatto che tutti traggono piacere dalle imitazioni. Ne è segno quel che avviene nei fatti: le immagini particolarmente esatte di quello che in sé ci dà fastidio vedere, come per esempio le figure degli animali più spregevoli e dei cadaveri, ci procurano piacere allo sguardo. Il motivo di ciò è che l’imparare è molto piacevole non solo ai filosofi ma anche ugualmente a tutti gli altri, soltanto che questi ne partecipano per breve tempo. Perciò vedendo le immagini si prova piacere, perché accade che guardando si impari e si consideri che cosa sia ogni cosa, come per esempio che questo è quello. Qualora poi capiti di non averlo già visto prima, non procurerà piacere in quanto imitazione, ma per la sua fattura, il colore o un’altra ragione simile. Poiché dunque noi siamo naturalmente in possesso della capacità di imitare, della musica e del ritmo (i versi, è chiaro, fanno parte del ritmo), dapprincipio coloro che per natura erano più portati a questo genere di cose, con un processo graduale dalle improvvisazioni dettero vita alla poesia. La poesia poi si distinse secondo la proprietà dei caratteri: i più

severi imitarono le azioni apprezzabili e di gente apprezzabile, quelli di gusti più facili quelle della gente dappoco, dapprincipio componendo motteggi come gli altri inni ed encomi. [...] Indagare se la tragedia in rapporto ai suoi elementi sia già compiuta o no, e giudicare questo sia in sé sia in rapporto al pubblico, è un altro discorso. Sorta dunque da un principio di improvvisazione - sia essa sia la commedia, l’una da coloro che guidavano il ditirambo, l’altra da coloro che guidavano i cortei fallici che ancora oggi rimangono in uso in molte città - a poco a poco crebbe perché i poeti sviluppavano quanto in essa veniva manifestandosi, ed essendo passata per molti mutamenti la tragedia smise di mutare quando ebbe conseguito la propria natura. Eschilo fu il primo a portare il numero degli attori da uno a due, a ridurre la parte del coro e a conferire un ruolo rilevante alla parola; di Sofocle sono i tre attori e la pittura degli scenari. Per quanto poi riguarda la grandezza: da racconti piccoli e un linguaggio scherzoso, poiché il suo processo di trasformazione muoveva dal satiresco, assunse tardi toni solenni, e il verso di tetrametro si fece giambo. [...] 5. La commedia è, come si è detto, imitazione di persone che valgono meno, non però per un vizio qualsiasi, ma del brutto è parte il ridicolo. Il ridicolo è infatti un errore e una bruttezza indolore e che non reca danno, proprio come la maschera comica è qualcosa di brutto e di stravolto senza sofferenza. Mentre dunque le trasformazioni della tragedia e le circostanze che le hanno permesse non ci sono ignote, la commedia ci sfugge, perché non ha avuto dal principio un adeguato riconoscimento. L’arconte concesse soltanto tardi il coro dei comici, essi erano dunque volontari. Quelli poi che sono chiamati suoi poeti sono ricordati quando essa dispone già di forme definite; resta perciò ignoto chi definì maschere, prologhi, numero degli attori ecc. Quanto alla composizione dei racconti, essa venne in principio dalla Sicilia; tra quelli in Atene Cratete fu il primo che, lasciando perdere la forma del giambo, cominciò a comporre racconti e storie di valore generale. L’epica dunque si conforma alla tragedia fino ad essere imitazione con parole in versi di caratteri seri; in ciò invece differisce: nell’usare un verso solo e nell’essere una narrazione. E ancora per la durata: l’una cerca quanto più può di essere compresa in una sola giornata o di eccederne poco, l’epica è invece indefinita per il tempo, e in questo si distingue; dapprincipio

tuttavia sotto questo aspetto nelle tragedie si faceva lo stesso che nei canti epici. Quanto alle parti poi, alcune sono uguali, altre proprie della tragedia. Perciò chi sa distinguere la tragedia che vale da quella che non vale, sa distinguere anche i canti epici, perché ciò che è proprio dell’epica appartiene alla tragedia, mentre non tutto ciò che è proprio di questa è compreso nell’epica. 6. Dell’arte imitativa in esametri e della commedia parleremo in seguito, parliamo ora della tragedia, ricavando da ciò che si è detto quella che risulta la sua definizione d’essenza. Tragedia è dunque imitazione di un’azione seria e compiuta, avente una propria grandezza, con parola ornata, distintamente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni. Intendo per parola ornata quella fornita di ritmo e di musica; distintamente per gli elementi il comporre alcuni solo con versi, altri invece col canto. Poiché è agendo che si realizza l’imitazione, anzitutto di necessità una parte della tragedia sarà l’ordine di ciò che si vede, un’altra la composizione dei canti, e quindi il linguaggio. È con questi mezzi che si realizza l’imitazione. Intendo per linguaggio la stessa composizione dei versi e per composizione dei canti ciò la cui funzione è perfettamente chiara. Poiché è imitazione di un’azione, ed è agita da alcuni che agiscono, i quali necessariamente sono di una certa qualità per il carattere e il pensiero (grazie a questi noi diciamo che le azioni sono dotate di una certa qualità, ed è in seguito ad esse che tutti hanno successo o falliscono), imitazione dell’azione è il racconto. Per racconto qui intendo la composizione dei fatti, per caratteri ciò secondo cui diciamo che chi agisce ha una propria qualità, e per pensiero tutto ciò con cui, parlando, si dimostra qualcosa o si esprime un giudizio. È dunque necessario che di tutta quanta la tragedia ci siano sei parti, grazie a cui la tragedia ha una propria qualità; esse sono racconto, caratteri, linguaggio, pensiero, vista e musica. Il con cui si imita sono infatti due parti, il come si imita una, il che cosa si imita tre, e oltre a queste non ve ne sono altre. Non pochi di loro in generale hanno adoperato questi elementi, la vista infatti domina su ogni cosa: sul personaggio, sul racconto, sul linguaggio, sul canto e sul pensiero allo stesso modo; tuttavia il più importante di questi elementi è la

composizione dei fatti. La tragedia è infatti imitazione non di uomini ma di azioni e di modo di vita; non si agisce dunque per imitare i caratteri, ma si assumono i caratteri a motivo delle azioni; pertanto i fatti, cioè il racconto, sono il fine della tragedia, e il fine è la cosa più importante di tutte. Inoltre senza azione non può esserci tragedia, senza caratteri può esserci; le tragedie della maggior parte dei moderni sono in effetti prive di caratteri, e in generale sono molti i poeti di questo genere, come anche tra i pittori Zeusi si trova così in rapporto a Polignoto: Polignoto è un buon pittore di caratteri, mentre la pittura di Zeusi non ne presenta alcuno. Inoltre, se si dispongono di seguito discorsi morali ben costruiti per linguaggio e pensiero, non si realizzerà quello che è l’effetto della tragedia, mentre lo realizzerà molto di più la tragedia che ne adoperi di più scadenti ma sia fornita di racconto, cioè di composizione di fatti. Oltre a ciò, quello con cui la tragedia seduce maggiormente sono parti del racconto: i rovesciamenti e i riconoscimenti. Inoltre, un segno è che chi comincia a fare sa mettere a punto linguaggio e caratteri prima che comporre i fatti, come anche quasi tutti i più antichi poeti. Principio dunque e quasi anima della tragedia è il racconto, al secondo posto i caratteri (e all’incirca è lo stesso nella pittura: se si buttano giù i più bei colori alla rinfusa non si ottiene lo stesso effetto che se si disegna in bianco e nero un'immagine), ed è imitazione di un’azione e soprattutto a motivo di questa di quelli che agiscono. Terzo poi è il pensiero, e questo è il saper dire le cose pertinenti e convenienti, che è il compito dei discorsi della politica e della retorica. Gli antichi rappresentavano infatti personaggi che parlavano alla maniera dei politici, i moderni alla maniera dei retori. Carattere è ciò che può rivelare quale sia il proponimento (perciò non hanno carattere quei discorsi nei quali manca ciò che si propone o vuol evitare colui che parla), pensiero ciò con cui si dimostra che una cosa è o non è, oppure si esprime un’idea universale. Quarto il linguaggio, e, come prima si è detto, chiamo linguaggio l’espressione che si realizza con l’uso delle parole, e ha le stesse potenzialità nel verso e nella prosa. Dei rimanenti la musica è l’ornamento maggiore, la vista è sì di grande seduzione, ma la più estranea all’arte e la meno propria della poetica; l’efficacia della tragedia sussiste infatti anche senza rappresentazione e

senza attori; inoltre per la realizzazione degli elementi visivi è più importante l’arte dell’arredatore scenico che dei poeti. 7. Definiti questi punti diciamo quale debba essere la composizione dei fatti, dal momento che si tratta del primo e più importante elemento della tragedia. Abbiamo stabilito che la tragedia è l’imitazione di un’azione compiuta e intera, dotata di una certa grandezza; è possibile in effetti un intero privo di grandezza. Intero è poi ciò che ha un principio, un mezzo e una fine. Principio è ciò che esiste senza venire necessariamente dopo qualcosa d’altro, ma dopo cui qualcosa d’altro necessariamente o per lo più c’è o si produce. Fine, al contrario, ciò che esiste necessariamente o per lo più dopo qualcosa d’altro, e dopo cui non c’è null’altro. Mezzo è ciò che viene dopo altro ed è seguito da altro. Occorre dunque che i racconti ben composti non incomincino a caso né finiscano a caso, ma usino delle forme dette. Inoltre, ciò che è bello, sia animale sia ogni cosa composta di alcune parti, non soltanto deve averle ordinate, ma anche essere di grandezza non casuale, ciò che è bello lo è infatti in grandezza e in disposizione, perciò un bell’animale non può essere estremamente piccolo, perché la visione si confonde avvicinandosi a tempi impercettibili, né estremamente grande, come se per esempio fosse un animale di diecimila stadi, perché non si può averne una visione simultanea, ma chi guarda perde di vista l’unità e l’interezza. Pertanto, come per i corpi e gli animali ci deve essere una grandezza e questa deve essere facilmente abbracciabile con uno sguardo, così anche per i racconti ci deve essere una durata e questa deve consentire una facile memorizzazione. Non è però proprio dell’arte il limite della durata dipendente dalle rappresentazioni e dalla ricezione: se si dovessero rappresentare cento tragedie sarebbero rappresentate con la clessidra. Il limite conforme alla natura del fatto è che è sempre più bello per quel che riguarda la grandezza, ciò che è più grande finché si mantiene perspicuo nel suo insieme, o, per dare una definizione generale, una grandezza tale che in un seguito continuo di avvenimenti secondo verosimiglianza o necessità, possa aversi il passaggio alla buona dalla cattiva sorte o dalla buona alla cattiva. Questa è una definizione soddisfacente della grandezza. 8. Il racconto è unitario, non come alcuni pensano, quando ha per argomento una sola persona, perché a uno solo accadono molti, innumerevoli fatti, da alcuni dei quali non scaturisce alcuna unità. Cosi

anche vi sono molte azioni di una sola persona dalle quali non si produce alcuna azione unitaria. Perciò hanno evidentemente sbagliato tutti quei poeti che hanno fatto una Eracleide, una Teseide o altri componimenti di questo genere. Pensano che, poiché Eracle era uno solo, ne segua che anche il racconto sia unitario. Omero invece, come si distingue in tutto il resto, anche in questo appare aver visto bene, vuoi per arte vuoi per natura: facendo l’Odissea non ha rappresentato tutto quel che accadde ad Ulisse, come per esempio che fu ferito sul Parnaso o che si finse pazzo al tempo dell’adunata, perché non era necessario o verisimile che accadesse alcuno di questi due fatti; compose invece l’Odissea intorno ad un’azione unica nel senso che si è detto, e in modo simile costruì anche l’Iliade. Come dunque nelle altre pratiche imitative l’imitazione unitaria è quella di un unico oggetto, così anche è necessario che il racconto, poiché è imitazione di un’azione, lo sia di un’unica e insieme intera, e che le parti dei fatti siano così connesse che, trasposta o sottratta una parte, l’intero ne risulti mutato e alterato, perché quel che, aggiunto o non aggiunto, non produce nulla di evidente, non è parte dell’intero. 9. Da ciò che si è detto è chiaro che compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verosimiglianza o necessità. Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi (si potrebbero mettere in versi gli scritti di Erodoto e nondimeno sarebbe sempre una storia, con versi o senza versi); si distinguono invece in questo: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire. Perciò la poesia è cosa di maggiore fondamento teorico e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari. È universale il fatto che a una persona di una certa qualità capiti di dire o di fare cose di una certa qualità, secondo verosimiglianza o necessità, il che persegue la poesia, imponendo poi i nomi. Il particolare invece è che cosa fece o subì Alcibiade. Ciò è divenuto chiaro nel caso della commedia: i poeti comici, dopo aver composto il racconto sulla base di personaggi verisimili, impongono loro dei nomi qualsiasi e non fanno come i compositori di giambi che compongono su un uomo in particolare. Nel caso della tragedia invece si mantengono i nomi già esistenti. Il motivo è che credibile è il possibile, e noi non crediamo sempre possibile quel che non è avvenuto, mentre ciò che è avvenuto è chiaro che era possibile, perché se fosse stato impossibile non sarebbe

avvenuto. Tuttavia anche in alcune tragedie ci sono uno o due nomi noti, mentre gli altri sono inventati; in altre poi non ve n’è alcuno, come per esempio nell’Anthos di Agatone, nel quale sono ugualmente inventati fatti e nomi, e nondimeno piace. Non si deve pertanto cercar di mantenere ad ogni costo i racconti tramandati, assunti ad argomento delle tragedie; sarebbe anche ridicolo cercare questo, dal momento che quel che è noto è noto a pochi, ma ugualmente piace a tutti. È chiaro da ciò che il poeta deve essere compositore piuttosto di racconti che di versi, in quanto è poeta sulla base dell’imitazione, e si imitano le azioni. Anche se gli capita di rappresentare cose avvenute, nondimeno è poeta, perché nulla impedisce che tra le cose avvenute ve ne siano alcune quali è verisimile che siano, e secondo questa verosimiglianza egli ne è compositore. Dei racconti e delle azioni semplici quelli a episodi sono i peggiori; chiamo a episodi un racconto nel quale gli episodi si susseguono l’uno all’altro senza verosimiglianza o necessità. Son fatti a questo modo dai poeti incapaci per colpa loro, da quelli valenti per colpa degli attori: componendo per le rappresentazioni e trascinando il racconto oltre le sue possibilità, sono costretti a stravolgere la successione degli eventi. Dal momento poi che l’imitazione non è solo di un’azione compiuta, ma anche di fatti paurosi e pietosi, e questi si producono soprattutto quando si producono contro le aspettative, l’uno a causa dell’altro, in questo modo si realizzerà meglio il meraviglioso che da sé o per caso, perché anche di quel che avviene per caso appare più meraviglioso tutto ciò che sembra prodursi secondo un disegno, come per esempio che la statua di Miti in Argo uccise il colpevole della morte di Miti rovinandogli addosso mentre la stava guardando. Fatti di questo genere non sembrano prodursi casualmente; è perciò inevitabile che i racconti di questo genere siano i migliori. 10. I racconti sono alcuni semplici altri complessi, perché tali sono anche le azioni di cui i racconti sono imitazioni. Chiamo semplice un’azione nel cui svolgimento, come si è definito, continuo e unitario, ha luogo il mutamento senza rovesciamento o riconoscimento; complessa invece quella dalla quale il mutamento ha luogo insieme con riconoscimento, rovesciamento o entrambi. Questi devono prodursi dalla stessa composizione del racconto, sì che dai fatti precedentemente avvenuti accada

che essi sorgano di necessità o secondo verosimiglianza, perché c’è molta differenza che una cosa si produca a causa di un’altra o dopo un’altra.

Pseudo-Longino La retorica e il sublime

Gli undici manoscritti che ci hanno tramandato il trattato intitolato Sul sublime (Peri hypsous) non forniscono alcuna indicazione sicura circa l’identità del suo autore, che è stata oggetto, sin dall’inizio dell’Ottocento, di una complessa disputa filologica rimasta tuttora irrisolta. I due nomi Dionisio e Longino riportati su alcuni manoscritti hanno fatto sì che il trattato sia stato attribuito sia a Cassio Longino - retore condannato a morte nel III secolo d.C. dall’imperatore Aureliano per la politica antiromana che svolse come ministro di Zenobia, regina di Palmira - sia al noto retore Dionigi di Alicarnasso, vissuto nel I secolo a.C. e autorevole esponente della corrente atticista. Sebbene un’attribuzione certa non sia stata ancora stabilita, tanto che all’autore anonimo si assegna ormai per comodità il nome di Pseudo-Longino, oggi prevale l’opinione secondo cui lo scritto dovrebbe essere collocato cronologicamente nell’età augustea, e comunque non oltre la prima metà del I secolo d.C. Sullo sfondo del trattato si collocano le grandi polemiche che attraversavano la retorica tardo-ellenistica, come l’opposizione tra gli stili atticista e asiano, ossia tra uno stile semplice, chiaro e ordinato, modellato sulla prosa attica del IV secolo a.C., e uno irregolare, basato su frasi brevi e spezzate, ricco di figure retoriche e di ricercati effetti ritmici e fonetici. La contrapposizione fra atticismo e asianesimo si ripropone, tra la seconda metà del I secolo a.C. e la prima metà del I secolo d.C., nella polemica tra apollodorei e teodorei, due tendenze che prendevano il nome dai rispettivi capiscuola: Apollodoro di Pergamo, maestro di Augusto e sostenitore dell’ideale di un’oratoria “scientifica” fedele a un canone attico e puristico, e Teodoro di Gadara, maestro di Tiberio, che difese invece l’opposto ideale di un’oratoria “poetica”, indocile alle regole e incline alle esuberanze asiane

dell’estro artistico. Punti di riferimento delle due tendenze erano Aristotele e Platone: dal primo discendevano il razionalismo e la vocazione sistematica degli apollodorei, dal secondo invece l’irrazionalismo e la libertà espressiva dei teodorei. Oltre a collocarsi nel quadro delle distinzioni stilistiche allora vigenti, l’autore del trattato Sul sublime riprende alcune riflessioni stoiche sulla bellezza, sottolineando, in particolare, l’importanza delle motivazioni morali ed esistenziali nella genesi della grandezza di un testo letterario. Lo Pseudo-Longino eredita dalla tradizione retorica il concetto di “sublime” (hypsos) come categoria esclusivamente formale e indicante uno stile oratorio elevato e magniloquente. Già da tempo si era consolidata, negli studi di retorica, la distinzione fra tre stili dell’oratoria, i cosiddetti tria genera dicendi che Cicerone, riprendendo la terminologia della Rhetorica ad Herennium, aveva classificato nell'Orator con i nomi di grave, medium e tenue. Nello Pseudo-Longino la categoria del sublime, proveniente dalle riflessioni sullo stile grave, viene reinterpretata e se ne sottolinea la dimensione non solo stilistica ma morale: “il sublime è l’eco di una grande anima”, e deve essere concepito come segno di un’intensa vita interiore e di una tensione emotiva che, per essere comprese, richiedono dal lettore o dall’uditore un atteggiamento ricettivo altrettanto magnanimo e intenso. Il sublime, inoltre, non deve essere semplicemente descritto, come aveva fatto nel suo trattato omonimo il retore Cecilio di Calatte - obiettivo polemico dello Pseudo-Longino -, bensì riconosciuto e praticato, valorizzando un ingenium innato che deve essere presente nell’animo dell’oratore e che occorre sviluppare attraverso un uso consapevole dell'ars retorica. La necessità di una conciliazione di ars e ingenium, di tecnica oratoria e pathos, è una delle tesi fortemente sostenute dal trattato, nel quale la concezione platonica della poesia, fondata sul carattere divino e irrazionale dell’ispirazione (mania), convive con il rispetto della tradizione e l’emulazione degli antichi, da cui devono provenire gli strumenti capaci di forgiare l’espressione dei pensieri e delle emozioni sublimi. Nel trattato, dopo aver denunciato i difetti di un falso sublime fatto di una grandezza solo esteriore, vuota, e di false passioni che sono il segno di una generale decadenza dei costumi, lo Pseudo-Longino elenca nell’ottavo capitolo le cinque fonti del “vero” sublime. Due sono innate (“lo slancio esuberante dei pensieri” e “il pathos trascinante e ispirato”), mentre le altre tre devono essere acquisite con la tecnica e consistono nell’uso sapiente e

dissimulato del linguaggio figurato e delle forme argomentative, nella personalità stilistica che si manifesta in particolare nella scelta lessicale, e infine nella composizione (synthesis) delle parti del discorso. Nel corso del trattato, il sublime si delinea come uno stile oratorio caratterizzato dall’altezza del discorso e dalla ricerca di effetti di meraviglia, stupore e sbigottimento capaci di produrre nell’ascoltatore - attraverso la forza icastica delle parole, trasformando in visione quel che si ascolta (“Ti accorgi, amico mio, di come catturi la tua anima e la conduca attraverso quei luoghi, sì da farti vedere ciò che tu sentii") - uno stato di annichilimento e immedesimazione che va ben al di là della semplice persuasione: “Il sublime non porta gli ascoltatori alla persuasione ma all’esaltazione: perché lo scarto imprevedibile che provoca prevale sempre su tutto dò che convince o che piace. E se dipende per lo più da noi il lasciarci convincere, il sublime invece, imponendo l’irresistibile signoria del suo empito, sovrasta qualunque ascoltatore”, in modo che questi sia “tutt’affatto immedesimato con la passione di chi parla” Con accenti che avranno una grande risonanza nell’estetica settecentesca, quando si assiste a un’importante ripresa del tema del sublime, lo Pseudo-Longino esalta la naturale tendenza dell’uomo verso tutto ciò che è grande e potente: “la natura non ha giudicato l’uomo una creatura ignobile e di poco conto, ma, introducendoci nella grande e festosa adunanza della vita e dell’ordine cosmico affinché, allo spettacolo dei suoi cimenti, potessimo ambire a competervi, ha subito infuso nelle nostre anime il desiderio irresistibile di ciò che è sempre grande e che ci sovrasta con la sua divinità. Perciò agli slanci dell’osservazione e del pensiero umano l’universo intero è insufficiente, perché anzi la nostra mente spesso eccede i limiti del creato”. La fortuna delle tesi dello Pseudo-Longino è tutta moderna: né dall’Antichità classica né dalla tradizione medioevale ci pervengono riferimenti al trattato, sebbene nell’opera siano presenti temi (come la crisi dell’eloquenza e dei costumi esposta nel capitolo finale) che erano comuni in autori come Seneca, Tacito, Petronio, Plinio il Giovane e in generale nella cultura letteraria romana del I secolo d.C. A partire dalla traduzione inglese di John Hall (1652) e da quella francese di Nicolas Boileau (1674), la fama dello Pseudo-Longino si diffonde nella cultura dell’Europa moderna, e il concetto di sublime si impone come tema centrale della riflessione estetologica, superando l’originaria connotazione stilistica e retorica e

presentandosi come fulcro di una riflessione sulla varietà delle forme del bello e del piacere. Se Boileau inquadra lo Pseudo-Longino nella querelle des anciens et des modernes e vede in lui un paladino dei classici, nel Settecento inglese l’autore è visto come teorico delle motivazioni irrazionali ed emotive dell’arte, e le sue idee diventano non solo il punto di riferimento delle discussioni critico-letterarie in autori come John Dennis, Joseph Addison, Alexander Pope e Joshua Reynolds, ma anche il punto di partenza per una più ampia riflessione filosofica, come vedremo parlando di Burke e di Kant. Le pagine che seguono sono tratte da Pseudo-Longino, Il Sublime, tr. it. a cura di G. Lombardo, postfazione di H. Bloom, Aesthetica, Palermo 1987: parr. 7-9 (pp. 33-36); parr. 16-17 (pp. 46-48); parr. 30-32 (pp. 55-58); parr. 3943 (pp. 63-67). Per approfondire: G. Carchia, Retorica del sublime, Laterza, Roma-Bari 1990; Il sublime, numero monografico della Rivista di Estetica, 26 (1988); Cicerone, L'oratore, tr. it. Mondadori, Milano 1998; Id., La retorica a Gaio Erennio, tr. it. Mondadori, Milano 1998; G. Lombardo e F. Finocchiaro, Sublime antico e moderno. Una bibliografia, Aesthetica, Palermo 1993; E. Mattioli, Interpretazioni dello Pseudo-Longino, Mucchi, Modena 1988; O. Reboul, Introduzione alla retorica, tr. it. il Mulino, Bologna 1996; L. Russo (a cura di), Da Longino a Longino: i luoghi del sublime, Aesthetica, Palermo 1987; B. Vickers, Storia della retorica, tr. it. il Mulino, Bologna 1994.

7. Devi sapere, mio caro, che, come, nella vita comune, non riesce grande nessuna di quelle cose di cui proprio il disprezzo è segno di grandezza - dico la ricchezza, gli onori, la gloria, il potere e tutte le altre cose molto appariscenti che però agli occhi di un saggio non potrebbero sembrare beni eccezionali se proprio il trascurarli costituisce un bene non irrilevante (più di coloro che li posseggono noi ammiriamo infatti quelli che, pur potendoli acquisire, per magnanimità, li disprezzano) - così anche di ciò

che, in poesia o in prosa, mostra un certo scatto formale bisogna osservare se invece non abbia soltanto l’ostentazione di una grandezza costruita arbitrariamente e in modo tale che, togliendo lo smalto, tutto risulti inconsistente e degno piuttosto di disprezzo che di ammirazione. Infatti quasi per natura la nostra anima, davanti a ciò che è veramente sublime, si solleva e, presa da un’orgogliosa esaltazione, si riempie di una gioia superba, come se essa stessa avesse generato ciò che ha ascoltato. Giacché quando un lettore colto ed esperto, leggendo o ascoltando più volte qualcosa, non prova dentro nulla di grande, nessuna riflessione più ricca della percezione letterale del discorso, ma anzi si accorge che, leggendo e rileggendo, quell’opera scade di senso; allora egli non si trova davanti al vero sublime, ma davanti a qualcosa che dura solo lo spazio della lettura o dell’ascolto. Perché la vera grandezza è quella che arricchisce i pensieri, quella che è difficile anzi impossibile contestare, quella che ci lascia un ricordo duraturo e indelebile. Insomma la bellezza autenticamente sublime è quella che piace sempre a tutti. Infatti quando uomini diversi per condizione, per gusti, per età, per linguaggio, hanno tutti su uno stesso oggetto sempre il medesimo parere, allora il fatto che da esperienze dissonanti venga tuttavia un giudizio unanime, procura all’oggetto ammirato un credito sicuro e incontestabile. 8. Giacché cinque sono quelle che potremmo dire le fonti più produttive del sublime; cinque categorie che hanno come presupposto comune e fondamentale il talento linguistico, senza il quale non si può fare proprio nulla. La prima e la più potente è lo slancio esuberante dei pensieri, come l’ho definita anche nel mio libro su Senofonte; la seconda è il pathos trascinante e ispirato. Ma questi due primi tratti costitutivi del sublime sono per lo più congeniti. Le altre tre fonti si attingono invece mediante l’arte. E sono: la modalità formale delle figure (distinte in figure di pensiero e figure di parola), l’ingegno espressivo (che consta di due parti: la selezione lessicale e l’elaborazione tropica dello stile) e infine - quinta causa di grandezza e compendio di tutte quelle che la precedono - il decoro e lo scarto della composizione. Prima di analizzare i contenuti di ciascuna categoria vorrei notare che Cecilio trascura alcune di queste cinque parti, tra cui il pathos. Se lo fa perché crede che il sublime e il pathos siano due cose identiche e abbiano origine comune ed esistenza reciproca, si sbaglia. Infatti si trovano anche

passioni basse, distanti dal sublime, come certi lamenti, certi dolori, certe paure. E, d’altra parte, si danno molte cose sublimi prive di pathos, qual è scelta tra mille altri esempi - l’ardita immagine di Omero a proposito degli Aloadi: E l'Ossa sull’Olimpo vollero collocare; e sull’Ossa il Pelio frondoso, affinché il cielo fosse accessibile.

Cui s’aggiunge, ancora più grande, la conclusione: E lo avrebbero anche compiuto.

Tra i generi oratori, gli encomi e i discorsi di cerimonia o d’occasione sono gravi e sublimi sotto ogni riguardo ma mancano, per lo più, di pathos: perciò è raro che un oratore pieno di pathos riesca bene negli elogi o che, viceversa, chi è bravo negli elogi sappia essere appassionato. Se invece Cecilio ha creduto che ciò che è appassionato non possa assolutamente dare luogo al sublime, e per questo non lo ha ritenuto degno di menzione, si è completamente ingannato. Io infatti oso dichiarare che nulla sa produrre, ove occorra, la grandezza espressiva come una passione geniale: perché allora si parla quasi per una divina ispirazione, come se Febo stesso soffiasse dentro al linguaggio. 9. Poiché il posto più importante tra tutte le fonti lo occupa la prima, dico la grandezza della mente, anche qui, pur trattandosi d’un dono naturale piuttosto che di un’abilità acquisita, occorre, per quanto è possibile, allevare le nostre anime alla grandezza e, per così dire, farle continuamente gravide di impulsi geniali. In che modo? mi chiederai. L’ho già scritto altrove: il sublime è l’eco di una grande anima. Donde talvolta un pensiero spoglio, privo di voce, è ammirato per sé stesso, proprio per la sua grandezza: tale è il grande silenzio di Aiace nella Nekyia, più sublime di qualunque discorso. Pertanto la questione dell’origine del sublime è il fondamento irrinunciabile della nostra trattazione: il vero oratore non può nutrire pensieri bassi e ignobili. Infatti non è possibile che coloro i quali, per tutta la vita, si prendono cura e pensiero di piccolezze e servilismi esprimano cose meravigliose o degne di passare ai posteri. Grandi invece sono, com’è ovvio, i discorsi di coloro i cui pensieri fremono di grandezza. Perciò il sublime s’incontra sempre negli spiriti magni.

[...] 16. Ora, proseguendo, è il momento di dare luogo al sistema delle figure che, adoperate come si conviene, dànno un contributo non casuale alla grandezza. Lungo e anzi interminabile sarebbe qui un loro esame completo: perciò, giusto per dare credito al nostro proposito, ne percorreremo solo alcune tra quante producono la grandezza del linguaggio. Demostene riferisce sulla sua politica. Il suo discorso più naturale dovrebbe essere: “Non avete sbagliato, voi che avete assunto la difesa della libertà dei Greci: di ciò avete esempi nazionali. Infatti non avevano sbagliato quelli di Maratona, né quelli di Salamina, né quelli di Platea”. E invece, quasi preda di Febo, quasi che un dio gli soffiasse improvvisamente dentro, giura a gran voce sui grandi di Grecia: “In nome di quelli che rischiarono la vita a Maratona, non è possibile che abbiate sbagliato!” Dov’è evidente che egli, attraverso la sola figura del giuramento - che qui io chiamo apostrofe ottiene l’apoteosi degli antenati, dimostrando che sulla gloria dei caduti si deve giurare come sugli dèi; immedesima i giudici nello stato d’animo di quei valorosi, trasportando il tono di una normale relazione alle vette del sublime e della passione, dove anche i giuramenti più straordinari sono degni di fede; e intanto le sue parole, come un rimedio o un antidoto, toccano il cuore di quelli che ascoltano in modo da accenderli alla battaglia contro Filippo con sentimenti all’altezza delle vittorie di Maratona e di Salamina. A tutti questi effetti egli mirava trascinando l’uditorio con quell’unica figura. Vero è che lo spunto di questo giuramento si troverebbe, dicono, in Eupoli: No, per la mia battaglia a Maratona: nessuno si vanterà di tormentarmi il cuore.

Ma ciò che è grande non è l’atto, come che sia, del giuramento: è il luogo, è il modo, sono le sue circostanze e le sue cause. Qui, come si conveniva a un’Atene felice che non aveva bisogno di parole incoraggianti, non c’è altro che un giuramento. Il poeta non giura su eroi che ha divinizzato per generare negli ascoltatori un giudizio degno del valore di quei caduti, ma anzi, al posto dei combattenti, nomina una cosa inanimata: la battaglia. In Demostene, invece, il giuramento è reso davanti agli Ateniesi sconfitti, in modo che Cheronea non sembri loro ancora un insuccesso e in

modo che, nel contempo, da quell’esempio che ridà fiducia, da quell’elogio che infonde coraggio essi, come dicevo, abbiano la dimostrazione di non avere sbagliato. E poiché avrebbero potuto obiettare all’oratore: “Parli di una sconfitta della tua politica e poi giuri sulle vittorie”, egli regola e controlla accuratamente, una dopo l’altra, le parole e c’insegna come anche nei baccanali dello stile ci si debba mantenere sobri. Giura infatti su “coloro che hanno rischiato la vita a Maratona o nel mare di Salamina e dell’Artemisio o sul campo di Platea”. Non dice mai “che hanno vinto” ma evita sempre la parola che indica l’esito perché, fortunato in quelle battaglie, esso era stato tutto l’opposto a Cheronea. Perciò, prevenendo chi lo ascolta, aggiunge: “e tutti, o Eschine, hanno avuto i funerali di Stato, non solamente quelli che furono più fortunati” 17. A questo punto, mio caro, non sarebbe giusto trascurare una teoria da noi già enunciata. Basterà qualche accenno. La teoria è questa: quasi per natura le figure cooperano col sublime e ne sono mirabilmente ricambiate. Ora dirò dove e come. Propriamente, l’accortezza delle figure è sospetta e genera il dubbio di un agguato, di un’insidia, di un raggiro, soprattutto quando si parla a un’autorità giudiziaria o addirittura davanti a un tiranno, a un re, a un comandante o, insomma, davanti a un personaggio cospicuo. Infatti chi ascolta si indispone subito se si sente giocato, come un bambino che non ragiona, dagli illusionismi di un virtuoso della parola e, prendendo quegli artifizi come un oltraggio personale, talvolta va su tutte le furie e, anche se riesce a dominare la collera, non intende assolutamente farsi convincere da quei discorsi. Eccellente pertanto riesce la figura che sa nascondere d’essere quella che è. Ora proprio il sublime e il pathos costituiscono un rimedio e un aiuto meraviglioso contro i pregiudizi sul linguaggio figurato: e l’abilità tecnica, circondata dalla bellezza e dalla grandezza, pervade tutto il resto e si sottrae a ogni sospetto. A provarlo è adatta la citazione di prima: “per quelli di Maratona”. In che modo, infatti, qui l’oratore ha nascosto la figura? È chiaro: con la stessa luce della figura. Come infatti, irradiato dal sole, un fioco bagliore vanisce, così anche le sottigliezze retoriche non si vedono più se da ogni parte le ricopre la grandezza. Non lontano da ciò è quello che succede in pittura: i colori dell’ombra e della luce giacciono su una stessa superficie, ma la luce colpisce lo sguardo per prima, spicca di più e sembra

perfino più vicina. Del pari, il pathos e il sublime del linguaggio, essendo più prossimi alle nostre anime, sia per una certa congenialità naturale, sia per la loro lucentezza, prevalgono sempre sulle figure, ne adombrano l’artificio e, in un certo modo, badano a tenerle nascoste. [...] 30. Ma, poiché il pensiero e lo stile di un discorso si dispiegano vicendevolmente, mettiamoci piuttosto a esaminare se rimanga ancora qualcosa da aggiungere dal punto di vista della espressione. Ebbene: che la scelta di parole grandi e appropriate scuota e affascini mirabilmente gli ascoltatori; che essa sia cura precipua di tutti gli oratori e gli scrittori; che essa sappia far fiorire sui discorsi, come nelle statue più belle, la grandezza, la bellezza, la posa nobile e vetusta, la solidità, la potenza e, insomma, quella lucentezza speciale che fa quasi parlare l’anima delle cose: tutto ciò sarebbe superfluo spiegarlo a chi già lo sa. Sta di fatto che le belle parole sono proprio la luce del pensiero. E tuttavia il loro fasto non è sempre utile: giacché aggiungere a piccole cose parole nobili e grandi farebbe la stessa impressione d’una maschera tragica applicata a un bimbo che appena balbetti. Sennonché nella poesia e nella storia... [lacuna nel testo] 31. ... quell’uscita così genuina di Anacreonte: “Di quella puledra trace non me ne frega niente”. Così a me sembrano efficacissime anche queste parole di Teopompo che - disprezzate, non so come, da Cecilio - si fanno invece apprezzare per il loro giuoco analogico: “Filippo sarebbe capace di ingozzare ogni cosa”. Talvolta il linguaggio popolare riesce molto più espressivo del linguaggio forbito: nascendo dalla vita comune viene afferrato immediatamente e, sonando più familiare, risulta anche più credibile. Dato che qui c’è uno che, per ambizione, sopporta pazientemente e addirittura con piacere le più disgustose ignominie, quell’“ingozzare ogni cosa” ci fa proprio vedere il tipo descritto. Lo stesso dicasi per questi luoghi di Erodoto: “Cleomene impazzito trinciò con un coltello le proprie carni finché, ridottosi tutto una salsiccia, morì” Oppure: “Pite combattè sulla nave fino a quando non fu completamente tagliato a fette”. In effetti così parla l’uomo comune; eppure questi modi di dire sono così espressivi da non sembrare popolari. 32. Sulla quantità delle metafore Cecilio sembra convenire con quelli che

ne prescrivono due o tre al massimo su un medesimo argomento. Il termine è infatti, anche qui, suggerito da Demostene, mentre l’uso dipende dai momenti: quando la piena delle passioni incalza, trascina necessariamente con sé moltissime metafore: “Uomini turpi e adulatori hanno tutti tagliato le gambe alla loro patria, si sono bevuta la libertà prima per Filippo e ora per Alessandro e, misurando la felicità col ventre e con i piaceri più vergognosi, hanno rovesciato i canoni che, per gli antichi greci, definivano il bene: essere liberi e non avere padroni” Qui l’indignazione dell’oratore contro i traditori fa da schermo al proliferare dei tropi. Per Aristotele e Teofrasto l’ardire delle metafore va frenato con attenuazioni del tipo: “per così dire”, “come se”, “se occorre dire in questo modo”, “se si può azzardare l’ipotesi”. Infatti, essi dicono, l’autogiustificazione modera l’audacia. Io, da parte mia, accetto queste opinioni e tuttavia - come ho già detto a proposito delle figure - ritengo che l’antidoto specifico contro un’ardita pletora di metafore siano la tempestiva esplosione del pathos e un sublime geniale perché, coll’impeto naturale del loro incedere, portano con sé e sollecitano tutto il resto e, quel che più conta, esigono, come assolutamente indispensabili, gli ardiri dello stile, senza lasciare all’ascoltatore, tutt’affatto immedesimato con la passione di chi parla, il tempo di controllarne la quantità. Comunque, quando si opera con i topoi o con le descrizioni, nulla riesce tanto espressivo quanto l’intreccio frequente dei tropi. Con i tropi Senofonte ha sontuosamente raffigurato la struttura anatomica dell’uomo; e ancora più divinamente l’ha rappresentata Platone. La testa, egli dice, è l’acropoli; fra la testa e il petto si trova un istmo: il collo; sotto ci sono, come perni, le vertebre. Il piacere è l’esca del male e la lingua è il banco di prova del gusto; il cuore viluppo incandescente delle vene e sorgiva e sentinella della circolazione sanguigna; le vene e le arterie le chiama viuzze. “Contro le palpitazioni cardiache nell’ansia dei pericoli e negli eccessi della collera che bruciano come il fuoco - gli dei, approntando un soccorso, piantarono nel petto la forma del polmone, molle, esangue e porosa come un impacco; affinché, quando la collera prende vigore, incontrando un organo cedevole, non procuri danni al cuore.” E chiama la sede dei desideri stanza delle donne, la sede della collera stanza degli uomini; la milza è la spugna delle interiora perché, riempiendosi delle impurità, s’ingrossa e si gonfia. “Dopo di ciò” dice “coprirono tutto con la carne ponendola come un feltro a

protezione delle parti esterne.” E chiama il sangue alimento della carne. “Per nutrirlo, irrigarono il corpo, praticandovi dei canali come nei giardini, affinché, come da una fonte inestinguibile, essendo il corpo una fitta rete idrica, vi possano scorrere i condotti venosi.” E quando si avvicina la morte dice che, come in una nave, si sciolgono i cordami dell’anima ed essa è lasciata libera. Queste e moltissime altre metafore simili a queste si succedono continuamente: gli esempi appena mostrati bastano a confermare la naturale grandezza dei tropi e le sublimi virtualità delle metafore, delle quali, per lo più, godono i luoghi più patetici e descrittivi. Che tuttavia l’uso dei tropi, come di tutti gli altri abbellimenti formali, spinga sempre a eccedere la misura è cosa di per sé evidente e non occorre che io mi soffermi a spiegarla. Per queste ragioni, alcuni dileggiano senza risparmio anche Platone perché, quasi baccheggiando con le parole, s’inventa metafore aspre ed esagerate e si riempie la bocca di allegorie. Un esempio: “Non è facile immaginare che una città debba essere rimescolata come una coppa nella quale il vino appena versato ribolle ebbro finché, corretto da un altro dio sobrio col quale stringe una bella alleanza, diventa una bevanda buona e temperata”. Chiamare l’acqua il dio sobrio, chiamare la mescolanza correzione è cosa, obiettano, da poeta davvero poco sobrio. Appuntandosi proprio a questi difetti, Cecilio, nei suoi scritti su Lisia, ha osato definire Lisia assolutamente superiore a Platone. A ciò era spinto da due stati d’animo poco giudiziosi: ama Lisia più di sé stesso e odia Platone più di quanto ami Lisia. Ma, anche senza contare la sua tendenziosità, i suoi criteri non hanno quel riconoscimento generale che egli credeva. Infatti egli preferisce l’oratore impeccabile e puro a un Platone spesso negligente. Ma le cose sono molto diverse da come egli crede che siano. [...] 39. Ci resta ancora da esaminare, carissimo, la quinta fonte del sublime, secondo la classificazione che abbiamo proposto inizialmente: le qualità specifiche della composizione verbale. Al riguardo sono sufficienti le teorie a cui sono pervenuto in una mia precedente esposizione in due libri. Qui vorrei aggiungere solo quel tanto che è necessario al nostro tema: nell’uomo l’armonia è un mirabile strumento naturale non solo di

persuasione e di piacere ma anche di grandezza espressiva e di pathos. E infatti: il flauto non sa forse infondere nell’ascoltatore sensazioni che lo fanno smemorare e delirare come un coribante e, imponendo la sua cadenza ritmica, non sa forse costringere “anche chi non conosca affatto la musica” ad andare a tempo e a immedesimarsi con la melodia? O ancora: i suoni della cetra, che presi singolarmente non dicono nulla, non sanno spesso suscitare, col variare delle intonazioni e degli accordi, quell’incanto meraviglioso che tu sai bene? (Eppure si tratta di immagini e riproduzioni artificiose della persuasione; operazioni legittime essendo, come ho detto, quelle a cui l’uomo si sente portato per natura.) Ebbene: la composizione, che è come l’innata armonia verbale dell’uomo, che cattura con l’orecchio anche l’anima, che mobilita gli aspetti più vari dei nomi, dei pensieri, dei fatti, della bellezza, della melodia e, insomma, di tutto ciò che nasce e cresce con noi; la composizione, che, col multiforme intreccio dei suoi suoni, immette il pathos incalzante di chi sta parlando nell’anima di quanti, standogli vicini, lo ascoltano con sempre crescente partecipazione; la composizione che, con le sue sopraelevazioni espressive, allestisce la grandezza: non dovremo ritenere che, grazie a queste sue risorse, ci seduca disponendoci, volta per volta, a ciò che ha un suo peso, un suo valore e che è sublime ovvero a tutto ciò che essa, sovrana assoluta dei nostri pensieri, può abbracciare? Anche se può sembrare un po’ ossessivo ripetere cose universalmente riconosciute e, del resto, più che comprovate dall’esperienza, sembra essere sublime - e, in realtà, è stupendo - questo concetto che Demostene aggiunge al suo decreto: “Questo decreto dissolse il rischio che allora incombeva come una nube al di sopra di questa nostra città”. Qui, non meno dello stesso concetto, si sente risonare l’armonia sintattica. L’intera frase è espressa in ritmi dattilici, i più nobili e i più altisonanti: non per niente il metro dell’epica, il più bello che conosciamo, è il dattilo. Prova a spostare a tuo piacimento dalla sua propria sede quel “come una nube”, per esempio così: “Questo decreto come una nube fece sparire il rischio”; oppure prova a sopprimere anche una sola sillaba, così: “fece sparire come nube”, e saprai quanta armonia consuoni col sublime. Infatti la cadenza dattilica di quel “come una nube” richiede una struttura pentasillabica con la prima sede tonica: ma se sopprimi una sillaba ottieni “come nube” e, con questo taglio, mutili la grandezza. Se viceversa aggiungi qualche sillaba ottenendo

“fece sparire siccome una nuvola”, dici la stessa cosa ma non hai la stessa cadenza ritmica, perché con un tale allungamento delle sillabe estreme si scioglie e si allenta lo scatto del sublime. 40. Come nel corpo, anche nel discorso ciò che crea la grandezza è l’armonica composizione delle parti: ciascuna delle quali, discissa dalle altre, non ha in sé stessa alcun valore, ma tutte insieme, reciprocamente, compongono una struttura finita. Del pari, le qualità formali, quando sono separate le une dalle altre per essere disperse qua e là, guastano anche il sublime, invece, accomunate in un sistema organico dal legame dell’armonia e chiuse in un circuito di bei suoni, diventano più espressive: ed è, per così dire, una festa di motivi che dà luogo alla grandezza sintattica. D’altra parte, ho già sufficientemente chiarito come molti poeti e prosatori che per loro natura sono refrattari al sublime e talvolta affatto ignari di grandezza, tuttavia, anche servendosi di quel linguaggio così comune e popolare che è incapace di qualunque impennata stilistica, solamente in grazia dell’armonia sintattica riescono tanto gravi ed elevati da non sembrare scrittori modesti. È il caso, tra molti altri, di Filisto, talvolta di Aristofane, quasi sempre di Euripide. Dopo avere ucciso i suoi figli, Eracle dice: Sono pieno di guai e non so più dove metterli.

Espressione veramente ordinaria, che tuttavia diventa sublime per il modo in cui è costruita: se provi a disporre le parole diversamente, ti sarà chiaro che Euripide è poeta per la sua synthesis più che per il suo pensiero. E quando Dirce è trascinata via dal toro: Dove capitava, girando intorno trascinava, afferrandole, la donna, la rupe, la quercia, sempre cambiando direzione.

Qui, per la verità, è nobile anche il soggetto. E tuttavia gli conferisce maggiore forza l’armonia sintattica, che non viene giù precipitosa come su uno scivolo ma, appoggiandosi alle parole e al metro, consegue un effetto di sicura grandezza. 41. Nulla sminuisce il sublime quanto un ritmo verbale spezzato e affrettato come quello dei pirrichi, dei trochei o dei dicorei, cadenze proprie della danza. Infatti tutti questi ritmi iniziali o finali rivelano subito la loro

grazia artificiosa e si ripetono con monotonia, incapaci di qualunque pathos. Ma il danno peggiore è che, come le canzonette distolgono l’ascoltatore dalle parole e lo attraggono al motivo, così i discorsi troppo orecchiabili trasmettono a chi ascolta non già il pathos dell’argomento ma la tensione del ritmo. Sicché talvolta, prevedendo le dovute clausole, gli stessi ascoltatori anticipano la battuta seguente e, come in un coro, accompagnano la voce dell’oratore. Ugualmente prive di grandezza riescono le espressioni troppo composte, ritagliate da frasette corte e da parole brevi e appuntate le une sulle altre come si fa con i chiodini lungo le lesioni o le incrostazioni del legno. 42. Fa diminuire ancora di più il sublime l’estrema compressione della frase. Infatti, costretta entro una brevità eccessiva, la grandezza si guasta. S’intenda: non già quella compattezza che viene realizzata come si deve, ma tutto ciò che, per partito preso, vuole riuscire breve e succinto. Infatti la compressione mutila il pensiero, mentre la concisione lo guida. Lo stesso dicasi, chiaramente, anche per il caso opposto: le frasi prolisse. Giacché una lunghezza inopportuna è soffocante. 43. Un vero insulto alla grandezza è poi la trivialità del lessico. Per esempio, in Erodoto c’è una tempesta che, pur essendo descritta con immagini molto efficaci, accoglie tuttavia qualche espressione indegna di un tale soggetto. Come questa: “Poiché il mare cominciò a bollire”; quel “cominciò a bollire” suona così brutto che fa sparire tutto il sublime. O ancora: “il vento era stanco morto”. E poi; i naufraghi in preda ai gorghi “fecero una brutta fine”. Infatti “stanco morto” è voce familiare, poco elegante; e quel “fare una brutta fine” è proprio fuori posto in un naufragio così drammatico. Parimenti Teopompo presenta superbamente la discesa in Egitto del re di Persia e poi tira fuori certe paroline che guastano tutto: “Quale città o quale popolo dell’Asia non mandava i suoi ambasciatori al Gran Re? Quale frutto della terra, quale opera d’arte bella e preziosa non gli furono portati in dono? Molti sontuosi tappeti e mantelli (alcuni di porpora, altri multicolori, altri bianchi), molte tende dorate provviste di tutti gli accessori, molte vesti e molti sontuosi letti. E ancora: vasellame d’argento e oro lavorato, coppe e crateri, in alcuni dei quali avresti visto l’intarsio delle gemme, in altri l’arte e la ricchezza del cesello. Inoltre innumerevoli quantità di armi greche e barbariche e una moltitudine stragrande di

animali da soma o ingrassati per il macello e molti moggi di spezie; e molti otri e sacchi e pentoloni pieni di libri e di ogni altra cosa di cui si può avere bisogno; e tante carni salate di ogni tipo d’animale, a formare mucchi così alti che, a chi sopraggiungeva da lontano, sembravano alture e colline l’una a ridosso dell’altra”. Dalle cose sublimi scivola verso le cose più vili, mentre bisognava operare una amplificazione in senso opposto. Ma, avendo mescolato alla mirabile proclamazione di tutto quel fasto gli otri, le spezie e i sacchi, sembra che abbia descritto una cucina. Infatti se qualcuno portasse otri e sacchi nel bel mezzo di quello scenario di ori, di crateri gemmati, di vasi d’argento, di tende dorate e di coppe, ne verrebbe fuori una cosa inguardabile. Allo stesso modo una terminologia siffatta, introdotta intempestivamente, vizia e quasi macchia l’espressione. D’altra parte, egli avrebbe potuto trattare sommariamente, in una rapida rassegna, quelle che chiama “montagne di viveri” e, per il restante apparato, avrebbe potuto così modificare il suo racconto: cammelli e moltissimi animali da soma che portavano tutte le provviste necessarie al lusso e ai piaceri della tavola. Oppure avrebbe potuto dire: mucchi di semenza d’ogni tipo e di tutto ciò che occorre alla cucina raffinata dei buongustai. Oppure, volendo spiegarsi con poche parole essenziali: e tutti i condimenti che servono ai cuochi e ai vivandieri. Infatti nelle cose sublimi non bisogna mai incontrare parole sporche o oscene, a meno che non lo imponga l’argomento che stiamo trattando; conviene anzi che il lessico sia degno della materia e faccia come ha fatto la natura quando ha creato l’uomo: le parti ch’è meglio tacere e il superfluo peso del ventre non ce li ha messi sulla fronte ma, per quanto poteva, come dice Senofonte, deviò il più lontano possibile i condotti escrementizi, per non guastare assolutamente la bellezza di tutto quanto l’essere vivente. Ma non è necessario enumerare punto per punto tutto ciò che diminuisce la grandezza. Avendo già indicato le cose che fanno nobili e sublimi i discorsi, è chiaro che le cose contrarie li renderanno, per lo più, brutti e senza valore.

Plotino Il bello intelligibile

Gli scritti di Plotino (205-270 ca. d.C.) furono sistemati in sei gruppi di nove trattati con il titolo complessivo di Enneadi dall’allievo Porfirio, autore anche di una Vita di Plotino alla quale dobbiamo tutte le informazioni in nostro possesso sulla vita del filosofo. All’interno dei 54 trattati componenti le Enneadi si trovano scritti di argomento diverso, disposti secondo un ordine tematico che non riflette la sequenza cronologica in cui furono redatti e nei quali compaiono integrazioni e cesure introdotte probabilmente dallo stesso Porfirio. Due sono i testi espressamente dedicati alla tematica del bello: il trattato Sul bello (Peri tou kalou) (l,6), considerato come uno dei primi scritti di Plotino, e quello intitolato Sul bello intelligibile (Peri tou noetou kallous) (v,8), appartenente a una fase successiva della speculazione plotiniana. Il pensiero di Plotino presuppone un sistema che è andato gradualmente delineandosi all’interno di una tradizione secolare, quella del platonismo, nella quale ricorrono temi come la distinzione tra mondo sensibile e mondo intelligibile, la gradazione dell’essere a partire dal principio o dai principi supremi, l’intelligenza demiurgica come capacità di infondere nella realtà sensibile i modelli intelligibili costituiti dalle idee, o, ancora, l’anima del mondo come principio vivificante del mondo sensibile. Plotino lavora dunque sulla base di una tradizione consolidata, che egli innova, critica, modifica, traduce in un nuovo linguaggio, ma dalle cui linee essenziali non si discosta e dalla quale costantemente dipende. Il pensiero di Platone, in questa tradizione, rimane un imprescindibile punto di riferimento e una fonte di legittimazione. L’innovazione sostanziale della speculazione plotiniana rispetto alla tradizione filosofica del platonismo, risiede nella concezione di

un’unità suprema e ineffabile, l’Uno, posta alla fonte stessa dell’essere, ma di cui l’essere non può essere predicato. L’Uno può infatti essere menzionato solo in termini negativi: al di sopra dell’essere e della conoscenza, esso è infinito, illimitato, informe (in quanto al di là di ogni forma e figura), assolutamente trascendente rispetto a ogni molteplicità e misura. Nello sviluppare la propria concezione dell’Uno, Plotino riprende sia l’ipotesi di un’unità del tutto separata rispetto al molteplice, avanzata da Platone nel Parmenide, che la concezione dell’idea del Bene come fonte trascendente della realtà e dell’intelligibilità delle idee, esposta nella Repubblica. In questo secondo dialogo, inaugurando una metafisica della luce poi ampiamente ripresa da Plotino, Platone sosteneva che l’idea del Bene è per gli oggetti della conoscenza (le idee) e per il conoscere stesso ciò che il sole è per gli oggetti visibili e per la vista: così come il sole produce i colori che noi vediamo e fornisce nello stesso tempo all’occhio la facoltà di vedere (l’occhio è infatti a sua volta fonte di luce), alla stessa maniera il Bene dà agli oggetti della conoscenza dialettica il loro essere (ousia) e li rende conoscibili pur distanziandosi da essi. Infatti, come il sole non è né i colori che vediamo né l’occhio che li vede, così il Bene è qualcosa di ancora più alto dell’essere delle idee: la sua “irresistibile bellezza” si colloca al di là dell’essere stesso, “dall’altra parte dell’essere” (epekeina tes ousias). Riprendendo questi temi platonici, Plotino concepisce l’Uno come identico al Bene e come infinita fonte di luce che si irradia sulla realtà che da esso procede per emanazione. Esso è al tempo stesso al di là dell’essere e “sorgente dell’essere”, e in quanto tale fonte inesauribile di vita, potenza attiva che trabocca spontaneamente al di fuori di sé dando luogo alla processione gerarchica discendente degli esseri. La generazione della realtà da parte dell’Uno è descritta da Plotino come un processo di sovrabbondanza e donazione che dà luogo progressivamente all’Intelligenza (Nous), alle idee in cui essa si articola - modelli intelligibili e archetipi eterni della realtà sensibile - e infine all’anima, che come “Anima del mondo” pervade il cosmo ed esplica la propria attività demiurgica dando vita alla materia e imprimendovi le forme intelligibili. All’estremo opposto dell’UnoBene, all’altro capo della gerarchia ontologica emanativa, si colloca la materia (byle), concepita come negatività pura, “privazione”, massa informe, ossia ciò che rimane del reale una volta sottratta da esso ogni forma. Trascinato verso il basso dalle passioni corporee e verso l’alto da

un’anima che tende a ricongiungersi alla dimensione intelligibile e immateriale da cui proviene, l’uomo deve fuggire il male insito nella corporeità e nel sensibile e cercare di favorire il ritorno dell’anima verso il bene e la luce. Compito della filosofia è quindi quello di condurre l’uomo a rientrare nella propria interiorità, purificarsi e ascendere gradualmente verso l’intelligibile in modo da avvicinarsi progressivamente a quella forma suprema di conoscenza che è l'estasi, “uscita da sé” (ek-stasis), pensiero al di là del pensiero, caratterizzato da un’unione assoluta con il proprio oggetto e da un assoluto appagamento. A partire da questo complesso quadro ontologico, la speculazione plotiniana sulla bellezza e sull’arte assume un’irriducibile valenza etica e metafisica. Nel trattato Sul bello (1,6) Plotino comincia con il rifiutare la tradizionale concezione della bellezza come armonia e proporzione, sostenendo che questa sembra riferirsi esclusivamente a oggetti composti in cui possa esservi simmetria tra le parti: al contrario, la bellezza risiede innanzitutto negli oggetti e nelle qualità semplici, in quanto ogni allontanamento dall’unità verso la molteplicità equivale a una perdita di perfezione. Causa della bellezza è l’imprimersi di una forma nella materia, che fa sì che questa partecipi dell’intelligibilità dell’idea e sia pervasa da una luce spirituale e sovrasensibile. In questo primo trattato Plotino riprende poi il tema della funzione anagogica della bellezza esposto da Platone nel Simposio e nel Fedro, dove il progressivo ritorno dell’anima verso la sfera delle idee avveniva tramite la contemplazione e l’amore rivolto a forme di bellezza via via più spirituali e immateriali. Al culmine del celebre discorso di Diotima nel Simposio di Platone si situa infatti la contemplazione di un “bello in sé”, “divino e uniforme”, rispetto al quale ogni altra forma di bellezza non è che un mero riflesso. Anche nel trattato Sul Bello di Plotino (Enneadi, 1,6) la visione della bellezza sensibile è un momento fondamentale del cammino di ascesi e purificazione che deve ricondurla all’Uno: “L’anima purificata diventa dunque una forma, una ragione, si fa tutta incorporea, intellettuale ed appartiene interamente al divino, ov'è la fonte della bellezza e donde ci vengono tutte le cose dello stesso genere [...] il bene e la bellezza dell’anima consistono nel rassomigliare a dio, poiché da lui derivano il bello e la natura essenziale degli esseri [...] Bisogna dunque risalire verso il Bene, cui ogni anima aspira”. Compito dell’anima è perciò quello di distogliere gradualmente la propria visione da quei corpi che non sono altro che

“immagini e tracce e ombre” della vera fonte della bellezza, e, rientrando in sé, risalire verso quell’Uno concepito come coincidente con il Bene e circondato da ogni parte dal Bello, un “Bello che dispensa la bellezza a tutte le cose e la dà rimanendo in sé senza ricevere nulla in sé”. Nel successivo trattato Sul bello intelligibile (Enneadi v,8) troviamo un’importante riformulazione della posizione platonica riguardo al tema della mimesis. Nella Repubblica Platone non aveva condannato in blocco l’arte mimetica (mimetike techne), ma solo quella che si esplica come imitazione del sensibile e non del modello intelligibile, l’idea. Riprendendo una tesi già sostenuta da Cicerone nell'Orator e gravida di conseguenze per il futuro della riflessione sullo statuto dell’arte, Plotino sostiene che l’attività artistica si sviluppa a partire da un’idea che non è più un archetipo intelligibile sovraindividuale, bensì un’idea presente nella mente dell’artefice, il quale è capace di imprimerne la forma nella materia: “È evidente che il marmo, che ha accolto in sé, per opera dell’arte, la bellezza della forma, è bello non perché è pietra [... ] ma a causa della forma, di cui l’arte lo rivestì; questa forma non c’era, prima, nella materia, ma era nella mente dell’artista ancor prima di entrare nel marmo; ed era nell’artista non perché questi possieda mani e occhi, ma perché è partecipe dell’arte. [...] Se qualcuno disprezzerà le arti perché le loro creazioni sono imitazioni della natura, diremo anzitutto che anche la natura imita un’altra cosa. E poi bisogna sapere che le arti non imitano semplicemente le cose che si vedono, ma si elevano alle forme ideali, dalle quali deriva la natura. E si dica inoltre che esse producono molte cose di per se stesse, in quanto aggiungono alla natura qualcosa che ad essa manchi, poiché possiedono in se stesse la bellezza. Così Fidia creò il suo Zeus senza guardare a un modello sensibile, ma lo colse quale sarebbe apparso, qualora Zeus stesso consentisse ad apparire ai nostri occhi”. In questo modo l’artista non è più concepito come vano imitatore dell’ingannevole mondo delle apparenze sensibili, né come rigidamente subordinato alla contemplazione di un’essenza metafisica e sovraindividuale, bensì come colui che reca nel suo spirito un’idea di bellezza ed è in grado di trasferirla nella materia, partecipando così della stessa attività di imitazione demiurgica che pervade l’intera natura: una tesi, quella di Plotino, destinata ad aprire la strada verso una radicale rivalutazione dello statuto dell’artista e delle arti mimetiche che sarà sviluppata nelle poetiche del neoplatonismo rinascimentale.

Le pagine che seguono sono tratte da Plotino, Enneadi, tr. it. a cura di M. Casaglia, C. Guidelli, A. Linguiti e F. Moriani, UTET, Torino 1997: V,8 (Sul bello intelligibile), parr. 1-5, pp. 800-809. Di Plotino si veda anche: Enneadi, 1,6 (Sul bello). Per approfondire: W. Beierwaltes, Identità e differenza, Vita e Pensiero, Milano 1989; F. Bourbon di Petrella, Il problema dell’arte e della bellezza in Plotino, tr. it. Le Monnier, Firenze 1956; E. De Keyser, La signification de l’art dans les Ennéades de Plotin, Publications universitaires de Louvain, Louvain 1955; A. Grabar, “Plotin et les origines de l’esthétique médiévale”, in Cahiers archéologiques, Paris 1945; P. Hadot, Plotin ou la simplicité du regard, Etudes Augustiniennes, Paris 1973 ; M. Isnardi Parente, Introduzione a Plotino, Laterza, Roma-Bari 1984; E. Krakowski, Une philosophie de l’amour et de la beauté. Inesthétique de Plotin et son influence, E. de Boccard, Paris 1929; P.-A. Michelis, Esthétique de l’art byzantin, Flammarion, Paris 1959; E. Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1996.

1. Dal momento che affermiamo che chi è giunto alla contemplazione del cosmo intelligibile ed ha compreso la bellezza dell’Intelletto vero, questi sarà anche in grado di concepire il padre dell’Intelletto che è al di là di esso, tentiamo di vedere ed esprimere a noi stessi, per quanto sia possibile esprimere cose di questa natura, come si possa contemplare la bellezza dell'Intelletto e del cosmo intelligibile. Pertanto prendiamo, ad esempio, due blocchi di pietra posti l’uno accanto all’altro: il primo allo stato grezzo e privo di lavorazione, il secondo già sottomesso dall’arte e trasformato nella statua di un dio o di un uomo, di un dio come una Grazia o una Musa, oppure di un uomo non qualsiasi, ma come l’arte ha saputo farlo radunando tutti i tratti della bellezza; bella potrà apparire la pietra che è stata condotta dall’arte alla bellezza della forma, e

sarà tale non grazie al suo essere pietra - poiché altrimenti anche l’altra sarebbe ugualmente bella, bensì grazie alla forma che l’arte le ha infuso. Certo la materia non possedeva questa forma, ma essa esisteva in chi la pensava anche prima di raggiungere la pietra; ed esisteva d’altra parte nella mente dell’artefice, non perché egli fosse dotato di occhi o di mani, ma in quanto partecipava dell’arte. Nell’arte risiedeva dunque una simile bellezza, ben più pregevole. Non fu infatti la bellezza che è propria dell’arte a discendere nella pietra, ma essa resta lassù, mentre un’altra, inferiore, ne deriva; e quest’ultima né ha conservato la sua purezza nella pietra, né vi è restata come desiderava, ma solo nella misura in cui la pietra ha ceduto all’arte. Se poi l’arte crea in modo conforme a ciò che è e possiede - crea quindi il bello esprimendo il principio razionale della cosa che crea, essa stessa è bella in un senso più alto e vero, poiché possiede la bellezza che è propria dell’arte e che è certamente più grande e bella di quella che si trova nelle cose esteriori; la bellezza, infatti, quanto più si estende andando verso la materia tanto più perde vigore rispetto alla sua condizione di unità originaria. Infatti si allontana da sé tutto ciò che si estende: nella forza, se si tratta di forza, nel calore, se si tratta di calore, nella potenza, se si tratta in generale di potenza, nella bellezza, se si tratta di bellezza. Inoltre, tutto ciò che crea originariamente deve essere di per sé superiore alla cosa creata; non è la non musica ma la musica a fare il musicista, e autrice della musica nel sensibile è quella anteriore a questo. Se poi qualcuno disprezza le arti in quanto creano imitando la natura, occorre innanzi tutto dire che anche la natura imita qualcos’altro. È poi necessario sapere che le arti non imitano semplicemente ciò che si vede, ma risalgono ai principi razionali da cui deriva la natura; e inoltre creano da sé molte cose e completano ciò che per qualche aspetto è manchevole, possedendo la bellezza. Così anche Fidia creò Giove, senza seguire alcun modello sensibile ma cogliendolo quale sarebbe stato se avesse voluto apparirci alla vista. 2. Ma lasciamo da parte le arti. Consideriamo ciò la cui opera, si dice, esse imitano, le cose che per natura sono nate e vengono dette belle, tutti gli esseri viventi, razionali e irrazionali, e soprattutto quelli che sono riusciti bene, in quanto colui che li ha plasmati e prodotti ha imposto il suo dominio sulla materia e le ha dato la forma che desiderava. Che cosa è dunque il

bello in queste cose? Non è certo il sangue né il fluido mestruale. Ma anche il colore di queste sostanze è diverso dal bello, e la loro forma o è nulla oppure è qualcosa di informe o simile a ciò che circonda una natura semplice. Da dove irraggiò la bellezza di Elena, per la quale si combattè, o di quelle donne che furono simili ad Afrodite in bellezza? E da dove deriva poi la bellezza della stessa Afrodite, o di un essere umano assolutamente bello, o di un dio, sia tra quelli che si sono manifestati alla nostra vista sia tra quelli che non appaiono, ma hanno in sé una bellezza che può essersi resa visibile? Non è forse ciò ovunque una forma, che dal creatore perviene a ciò che è generato, come si diceva nel caso delle arti, in cui la forma passava dalle arti ai loro prodotti? E allora? Forse sono belle le cose create e il principio razionale che è presso la materia, mentre quello che non è nella materia ma in colui che crea non è bello, lui che è il principio primo e immateriale? Ma se la massa fosse bella come massa, ne seguirebbe che il principio razionale, in quanto non è massa, il principio creatore dico, non sarebbe bello. Se invece la medesima forma, in un corpo piccolo o grande che sia, con la sua potenza muove e dispone l’anima di chi vede, nel medesimo modo, allora la bellezza non è da attribuire alla grandezza della massa. Testimonianza di ciò è anche il fatto che noi non vediamo il bello finché ci resta esterno, ma ci influenza quando è entrato in noi stessi. Esso penetra dunque attraverso gli occhi come pura forma; come potrebbe altrimenti, attraverso un’apertura così piccola? Anche la grandezza vi è poi introdotta, quella che non è grande nella massa, ma che è divenuta tale per la forma. Inoltre, ciò che crea deve essere o brutto, o indifferente, o bello. Se fosse brutto non potrebbe creare l’opposto, mentre se fosse indifferente, quale ragione avrebbe per creare il bello piuttosto che il brutto? Ma certo anche la natura, che produce cose così belle, è in se stessa bella, molto prima dei suoi prodotti; tuttavia noi, che non siamo abituati a scorgere l’interno delle cose e non lo conosciamo, inseguiamo l’esteriore ignorando che l’interno è la causa del movimento come se qualcuno, vedendo la sua immagine, la inseguisse non sapendo da dove proviene. Che ciò che cerchiamo sia altro, e che il bello non risieda nella grandezza, ce lo rivela anche la bellezza delle scienze, delle occupazioni umane e in generale delle anime. Rispetto a quello della grandezza pertanto, e in verità assai più pregevole, il bello si ha quando scorgi in un uomo la

saggezza e ne resti affascinato, senza considerare il volto - potrebbe infatti essere brutto; anzi, quando, trascurando ogni forma esteriore, insegui la sua bellezza interiore. Se poi la sua bellezza non ti commuove ancora al punto che tu lo possa chiamare bello, guardando nel tuo intimo non potrai godere neppure di te stesso per la tua bellezza. Invano allora, in questa condizione, cercheresti il bello; cercheresti infatti mediante un atteggiamento brutto e impuro. Perciò i discorsi intorno a questi argomenti non sono per tutti; se però anche tu ti sei visto bello, ricordatene. 3. Ce dunque anche nella natura un principio razionale della bellezza, archetipo della bellezza corporea, ma rispetto al principio che è nella natura il principio che risiede nell’anima è più bello, e da questo deriva anche quello nella natura. Certo un simile principio risplende soprattutto nell’anima nobile, in cui procede ancora in bellezza; ornando infatti l’anima e donandole una luce proveniente da una luce più grande, dal bello originario, ci induce a pensare, finché è presente nell’anima, quale sia la natura di ciò che lo precede, e che non diviene più né si trova in altro, ma è in se stesso. Per queste caratteristiche non si tratta neppure di un principio razionale, piuttosto del creatore del principio razionale del bello, che come principio primo si trova nella materia costituita dall’anima. Tale realtà è l’Intelletto, Intelletto che è sempre e non di quando in quando, poiché non è rispetto a se stesso qualcosa di avventizio. Quale immagine pertanto potremo cogliere di lui? Tutte infatti derivano da realtà inferiori. In effetti l’immagine deve piuttosto derivare dall’Intelletto, così da coglierlo non attraverso un’immagine, ma come se si prendesse un pezzo d’oro quale campione di tutto l’oro; e se il pezzo scelto presenta delle impurità, occorre purificarlo mostrando nei fatti o mediante i discorsi che esso non corrisponde tutto all’oro, ma solo per una piccola parte della sua massa. Perciò nel nostro mondo occorre prendere le mosse dall’intelletto che in noi è stato purificato, o se si vuole dagli dèi, dalla natura del loro intelletto. Venerabili infatti sono tutti gli dèi, e belli, di una “bellezza straordinaria”; ma che cosa è che li rende tali? Ebbene, l’intelletto, e il fatto che l’intelletto in loro è molto più attivo, così da essere visibile. Certo, gli dèi non sono belli perché hanno corpi belli: anche quelli che hanno un corpo non per questo sono dèi, ma sono dèi anch’essi in virtù dell’intelletto. E come dèi sono certamente belli. Essi non sono ora saggi ora dissennati, ma sono sempre saggi, nel loro intelletto impassibile, stabile e puro. Sanno tutte

le cose e conoscono non già le cose umane bensì le proprie, quelle divine, nonché tutto ciò che l’intelletto vede. Tra gli dèi, quelli che dimorano nel cielo contemplano senza interruzione - ne hanno infatti l’agio, ma come da lontano, ciò che si trova in quell’altro cielo, sollevando il capo verso di esso. Gli dèi che invece sono in quell’altro cielo, che abitano presso di esso e in esso, e risiedono ovunque lassù - là infatti tutto è cielo, la terra è cielo, il mare, gli animali, le piante, gli uomini, tutto ciò che appartiene a quel cielo è celeste; quegli dèi lassù non disprezzano gli uomini né nessun’altra delle cose che sono lassù, appunto perché sono lassù; essi percorrono tutta quella regione e ogni luogo restando in riposo. 4. Lassù infatti è “la vita senza affanni” e la verità è per loro madre e nutrice, essere e nutrimento. Gli dèi inoltre vedono tutte le cose, “non ciò cui appartiene il divenire” ma ciò che possiede l’essere, e vedono se stessi negli altri. Tutto infatti è trasparente, nulla è oscuro né resistente, ognuno è manifesto all’altro fin nell’intimo e tali sono tutte le cose; la luce infatti è manifesta alla luce. Così ognuno possiede tutte le cose in se stesso e inoltre vede ogni cosa nell’altro, in modo che tutto è dappertutto, tutto è tutto, ogni singola cosa è tutto e lo splendore è infinito. Ogni cosa infatti è grande, poiché anche il piccolo è grande; e il sole là è tutti gli astri, e ognuno a sua volta è il sole e tutti gli altri. Prevale in ogni singola cosa un particolare, ma in essa si riflette anche tutto il resto. Il movimento inoltre là è puro, dal momento che non è turbato nel suo procedere dalla causa del movimento, come se questa fosse qualcosa di diverso dal movimento stesso. Né la quiete è interrotta, in quanto non si mescola con ciò che non è stabile; e il bello è bello in quanto non dimora nel non bello. Ognuno cammina là non come su un suolo straniero, ma per ognuno il luogo in cui si trova coincide con lui stesso, e quando si dirige, per così dire, verso l’alto il punto da cui proviene l’accompagna, così che egli non è una cosa, e il suo luogo un’altra. Il sostrato infatti è l’Intelletto, e lui stesso è Intelletto; come se si pensasse, in questo cielo visibile e luminoso, che la luce da esso emanata generi in se stessa gli astri. Qui dunque, nel mondo sensibile, non è possibile derivare una parte da un’altra, e ogni singola cosa è solo una parte, mentre lassù ogni cosa deriva sempre dal tutto ed è contemporaneamente una cosa determinata e il tutto: si presenta come parte, ma chi ha la vista acuta vi osserva il tutto, come se avesse una vista tale quale si diceva avesse Linceo, che vedeva fin dentro la

terra; il mito, infatti, allude alla vista che si ha lassù. Lassù, inoltre, non c’è fatica nella contemplazione, né una pienezza tale da far cessare chi contempli; non c’è infatti alcun vuoto, così che chi giunga a riempirlo raggiunga, allo stesso tempo, il suo scopo. Né, infine, una cosa è diversa dall’altra, così che tra gli esseri di lassù ciò che è proprio di uno non riesca gradito all’altro. Tutto lassù è inesauribile. C’è però insoddisfazione, nel senso che la pienezza non genera disprezzo per chi l’ha prodotta: infatti colui che vede, vede sempre di più, e continuando senza un limite ad esaminare se stesso e le cose visibili non fa che seguire la sua natura. La vita certo non è fatica per nessuno quando è pura; ma come potrebbe affaticarsi ciò che vive nel modo migliore? Questa vita invero è sapienza, una sapienza però che non è acquisita tramite ragionamenti, poiché è perfetta da sempre e non le manca nulla, che richieda una ricerca; essa è la sapienza prima e non è derivata da un’altra; il suo stesso essere è sapienza, non è prima un essere che poi diventa sapiente. Perciò non c’è una sapienza più grande, e la scienza in sé qui siede accanto all’Intelletto insieme a cui si rivela, o come dicono servendosi di un paragone, la Giustizia siede accanto a Giove. Tutte queste realtà infatti sono lassù come figure visibili per se stesse, così da essere “spettacolo di spettatori più che beati” Se si vuole esaminare la grandezza e la potenza di tale sapienza, si consideri che essa reca in sé ed ha creato gli esseri, che essi sono tutti derivati da lei, che la sapienza stessa è questi esseri i quali sono nati con lei, e le due cose sono una sola, l’essere è la sapienza lassù. Noi tuttavia non arriviamo a comprendere queste cose, poiché abbiamo sempre pensato che anche le scienze siano costituite da teoremi e da un cumulo di premesse; ma questo non è vero neppure delle scienze di quaggiù - se poi qualcuno vuole ribattere, occorre per il momento lasciare perdere. Ma riguardo alla scienza di lassù, che anche Platone prende in esame e cita come “quella che non è altra in altro” - come tuttavia sia così, egli lo lasciò alla nostra ricerca e alla nostra scoperta, se diciamo di essere degni del nostro nome -, forse dunque sarà meglio cominciare da questo punto. 5. Tutte le cose generate, siano esse prodotto dell’arte o della natura, sono opera di una sapienza, e la sapienza presiede ovunque all’attività creatrice. Ma se qualcuno creasse secondo la sapienza stessa, le arti sarebbero identiche alla sapienza. L’artista, invece, a sua volta, risale ancora alla sapienza della natura, secondo la quale è stato generato; una sapienza

che non è più composta di teoremi ma è un tutto unitario, e non è costituita da un molteplice raccolto in unità quanto piuttosto si risolve nel molteplice partendo dall’uno. Se pertanto si porrà come originaria questa sapienza, ciò basta: essa non deriva più da qualcos’altro né si trova in altro. Se invece si dice che il principio razionale è nella natura, ma che la natura è origine di questo, dovremo dire da dove essa lo riceve e se lo riceve da quell’altra realtà. Se tale realtà lo trae da se stessa ci fermeremo nella ricerca; ma se si risale all'Intelletto, occorre a questo punto esaminare se l’Intelletto ha generato la sapienza; in caso affermativo, da dove l’ha tratta? Se da se stesso, allora non può che essere una cosa sola con la sapienza. Così la vera sapienza è essere e il vero essere è sapienza, il valore anche per l’essere proviene dalla sapienza, e poiché proviene dalla sapienza è vero essere. Perciò ancora, tutte le sostanze che non possiedono sapienza, in quanto sono divenute sostanze mediante qualche sapienza, ma non la possiedono esse stesse, non sono vere sostanze. Non bisogna dunque credere che lassù gli dèi e coloro che là sono più che beati vedano delle proposizioni poiché, anzi, tutto ciò che è stato detto si trova lassù come un insieme di belle figure, come qualcuno si rappresentò che fossero nell’anima dell’uomo saggio, figure non disegnate ma reali. Perciò gli antichi dicevano che anche le idee erano esseri e sostanze.

Leonardo da Vinci Arte e interpretazione della natura

Gli scritti di teoria dell’arte di Leonardo da Vinci (1452-1519) - note sparse, aforismi, osservazioni su temi diversi, dalla teoria della prospettiva e della rappresentazione di luci e ombre a indicazioni dettagliate sulla pratica quotidiana del dipingere - non furono pubblicati durante la sua vita. Il Trattato della pittura, inoltre, che è la fonte principale per conoscere le sue idee sull’arte, non fu redatto di suo pugno ma è una compilazione dovuta ai suoi allievi. Scritto probabilmente a partire dalla fine del Quattrocento, la prima edizione parziale apparve nel 1651 a Parigi, mentre l’edizione integrale, che si basa sul manoscritto 1270 di Urbino, uscì soltanto nel 1817 a cura di G. Manzi. Pur nella sua assoluta peculiarità, che riflette lo spirito sperimentale e perennemente in fieri della ricerca condotta da Leonardo, il Trattato appartiene a pieno titolo a un insieme di testi di teoria dell’arte scritti da artisti, architetti e umanisti che hanno segnato profondamente la cultura rinascimentale: tra questi possiamo menzionare i tre trattati di Leon Battista Alberti (1406-1472) intitolati rispettivamente De pictura (1435), De re aedificatoria (1450-52) e De statua (1464), i Commentarii (1447) di Lorenzo Ghiberti (1378-1455), il De prospectiva pingendi di Piero della Francesca (1415/1420-1492) e il De divina proportene (1497) di Luca Pacioli (1445-1517) per quanto riguarda la teoria della prospettiva, i trattati di architettura del Filarete (1400-1469) e di Francesco di Giorgio Martini (1439-1502) o, ancora, l’affascinante Hypnerotomachia Poliphili (1467) del domenicano Francesco Colonna. Attraverso la riflessione teorica sui principi delle arti visive e della rappresentazione, gli artisti rinascimentali aspiravano al riconoscimento delle loro attività come arti liberali e non più come mere arti meccaniche. Riprendendo categorie concettuali tratte dalla filosofia e dalla retorica, ed elaborando paradigmi storiografici miranti a esaltare il proprio ruolo di

artisti, come quello presentato dal Vasari (1511-1574) nelle Vite de' più eccellenti architetti, scultori e pittori (1550, 1568), sostenevano la necessità di attribuire alle arti visive uno statuto pari se non superiore a quello della poesia, di cui da tempo era stata riconosciuta la dimensione intellettuale. Leon Battista Alberti è il primo umanista a sviluppare una teoria complessiva dell’arte nei tre trattati da lui dedicati alla pittura, all’architettura e alla scultura. Il De pictura, in particolare, costituisce un importante precedente e termine di confronto per la comprensione del Trattato di Leonardo. Qui l’Alberti comincia con la tesi secondo cui la pittura ha come oggetto solo ed esclusivamente il visibile (“Delle cose quali non possiamo vedere, neuno nega nulla apartenersene al pittore. Solo studia il pittore fingere quello che si vede”) e prosegue sostenendo che la rappresentazione pittorica deve essere concepita come “intersezione della piramide visiva”, ossia come “finestra” aperta e delimitata all’interno del campo visivo: “Principio, dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto” Tale spazio della rappresentazione deve poi essere costruito seguendo rigorosamente le leggi della rappresentazione prospettica, elaborate di recente dal Brunelleschi, che si pensava riflettessero esattamente le leggi della visione. Sulla base di questa analogia tra visione empirica e rappresentazione pittorica si fondava, secondo l’Alberti, la “forza divina” della pittura, capace, “comel’amicizia”, di “fargli uomini assenti essere presenti, [e] i morti dopo molti secoli essere quasi vivi”. Dopo aver richiamato alcuni temi ripresi dalla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), secondo il quale all’origine della pittura ci sarebbe stato il fascino di Narciso per la propria immagine riflessa e il tratto con cui furono delineati per la prima volta i contorni dell’ombra di un volto amato, l’Alberti riprende l’argomentazione sistematica e suddivide la pittura in tre parti o momenti: la circoscrizione dello spazio della rappresentazione, la composizione degli elementi rappresentati, la ricezione delle luci e delle ombre. Nel suo insieme, la riflessione dell’Alberti sulle arti si caratterizza come un complesso tentativo di rifondare la pratica pittorica, architettonica e scultorea su basi razionali che avessero al tempo stesso precisi riferimenti nell’Antichità e una solida impostazione scientifica. Nel De re aedificatoria, la razionalità delle arti si fonda sul fatto che esse traggono

origine dal disegno, inteso come “preordinazione concepita dall’anima” e come “prodotto dell’ingegno’’ prima ancora che come tracciato materiale di linee e di angoli. Il riferimento all’Antichità classica veniva individuato da un lato nella ripresa di termini tratti dalla teoria della retorica (inventio, compositio, ecc.) - che del resto già costituivano l’impalcatura concettuale del De arcbitectura di Vitruvio (I secolo a.C.), testo che ebbe un influsso fondamentale su tutta la teoria dell’arte rinascimentale - e dall’altro nella formulazione della teoria del bello come concinnitas, un termine che riprendeva il tema ormai tradizionale della simmetria e della proporzione caricandolo di specifiche valenze morali. La scientificità dell’arte, infine, risiedeva nel riferimento alla teoria della prospettiva, argomento che durante il Rinascimento avrebbe occupato non soltanto artisti con spiccati interessi scientifici (Piero della Francesca, Leonardo), ma anche matematici (Luca Pacioli), architetti (Brunelleschi, Bramante), scultori (Ghiberti, Donatello). Fondare la teoria della rappresentazione pittorica sulla teoria della costruzione prospettica significava, come abbiamo visto, da un lato conferire un fondamento “naturale” alla pittura rendendola analoga alla visione, e dall’altro trovare un metodo il più possibile univoco e stabile per la rappresentazione sul piano dello spazio tridimensionale e per la misurazione del decrescere delle grandezze rappresentate con l’aumentare della distanza. Nel Trattato della pittura di Leonardo ritroviamo gran parte di questi temi, con alcune importanti differenze. Insieme al rapporto tra pittura e visione e alla costruzione prospettica della rappresentazione, troviamo infatti una grande varietà di osservazioni su temi diversi - la formazione del pittore, la vita quotidiana nello studio, i piaceri della pittura - oltre a indicazioni precise sulla rappresentazione del corpo umano, del paesaggio, dei corpi trasparenti o opachi, delle emozioni, delle storie. La problematica della luce e dell’ombra ricorre come parte essenziale di un approccio che, al culto della classicità che pervade gli scritti dell’Alberti, sostituisce un tentativo di legittimazione dello statuto scientifico della pittura a partire da un’incessante attività di ricerca e di sperimentazione sul mondo delle forme naturali. Lo statuto scientifico della pittura deriva, secondo Leonardo, dalla superiorità della vista rispetto a tutti gli altri sensi quale strumento di investigazione della natura: “L’occhio, che si dice finestra dell’anima, è la principale via donde il comune senso può più

copiosamente e magnificamente considerare le infinite opere di natura”. La pittura, “partorita dalla stessa natura” e intesa come capacità di riprodurre le realtà visibili, “evidenti”, sulla superficie piana, ha uno statuto propriamente filosofico: “la pittura è filosofia [...]; sola imitatrice di tutte le opere evidenti di natura [...] è una sottile invenzione la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme: mare, siti, piante, animali, erbe, fiori, le quali sono cinte di ombra e di lume”. Oggetto di conoscenza della pittura è dunque il visibile, la superficie visibile delle cose, che essa imita in modo che l’imitazione non si riduce a mera riproduzione ma costituisce un vero e proprio processo euristico, sperimentale, osservativo. L’atteggiamento di Leonardo nei confronti della natura è empirico e razionale al tempo stesso. Come ogni scienza degna di tale nome, la pittura deve avvalersi di “matematiche dimostrazioni” e di “esperienza”: essa “è prima nella mente del suo speculatore, e non può pervenire alla sua perfezione senza la manuale operazione”. Delle dieci qualità del visibile (“luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito, remozione, propinquità, moto e quiete”) la pittura è in grado di coglierne sette, in quanto non riesce a rappresentare l’interno dei corpi al di là della loro superficie opaca, né il moto e la quiete. Lo studio della natura è dunque filtrato dalla pittura come capacità rappresentativa che tratta la disposizione delle luci e delle ombre come un fenomeno naturale e la costruzione prospettica come una struttura geometrica che conferisce scientificità alla rappresentazione. La prospettiva, infine, è studiata da Leonardo non solo come prospettiva lineare, che costruisce geometricamente il decrescere della grandezza degli oggetti con l’aumentare della distanza, ma anche come “prospettiva aerea” in cui la distanza stessa viene resa attraverso il colore e lo sfumato. Da questa analisi della pittura quale strumento privilegiato di indagine del visibile deriva nel Trattato l’esaltazione del ruolo del pittore, “padrone di tutte le cose che possono cadere in pensiero all’uomo”, e la celebre tesi della superiorità della pittura rispetto alla poesia, una ripresa da parte di Leonardo del tema ormai tradizionale del paragone fra le arti. Il primato della pittura, secondo lui, deriva da un lato dalla superiorità della vista rispetto all’udito e dell’immagine rispetto alla parola (che sta all’immagine come l’ombra al corpo vero e proprio), e dall’altro dalla capacità dell’immagine di rappresentare simultaneamente il proprio

contenuto, anziché successivamente come è costretta a fare la poesia, composta di parole che si susseguono l’un l’altra. Una distinzione, questa, tra simultaneità della rappresentazione pittorica e sequenzialità del discorso poetico, che sarà ripresa e approfondita nel Settecento dal Laocoonte (1766) di Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781). Le pagine che seguono sono tratte da Leonardo, Trattato della pittura, Unione cooperativa editrice, Roma 1980 (edizione basata sul codice Vaticano Urbinate 1270): parr. 1-6 (pp. 3-6); parr. 8-9 (p. 7); parr. 14-15 (p. 10); par. 20 (p. 15); par. 29 (pp. 21-22). Per approfondire: L.B. Alberti, L!architettura (tr. it. del De re aedificatoria), introduzione e note di P. Portoghesi, Il Polifilo, Milano 1989; Id., De pictura, in Opere volgari, vol. III, a cura di C. Grayson, Laterza, Bari 1973; Id., De statua, a cura di M. Collareta, Sillabe, Livorno 1998; E. Franzini, Il mito di Leonardo. Sulla fenomenologia della creazione artistica, Unicopli, Milano 1987; M. Kemp, Leonardo da Vinci. Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, tr. it. Mondadori, Milano 1982; P.O. Kristeller, Il pensiero e le arti nel Rinascimento, tr. it. Donzelli, Roma 1998; C. Luporini, La mente di Leonardo, Sansoni, Firenze 1953; E. Panofsky, La prospettiva come "forma simbolica” e altri scritti, tr. it. Feltrinelli, Milano 1976; P. Panza, Leon Battista Alberti. Filosofia e teoria dell’arte, Guerini, Milano 1994; J. Schlosser Magnino, La letteratura artistica, La Nuova Italia, Firenze 1996; P. Spinicci, Il Palazzo di Atlante. Contributi per una fenomenologia della rappresentazione prospettica, Guerini, Milano 1997; G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, a cura di L. Beliosi e A. Rossi, presentazione di G. Previtali, Einaudi, Torino 1991; L. Venturi, La critica e l’arte di Leonardo da Vinci, Zanichelli, Bologna 1919.

1. Se la pittura è scienza o no

Scienza è detto quel discorso mentale il quale ha origine da’ suoi ultimi principi, de’ quali in natura null’altra cosa si può trovare che sia parte di essa scienza, come nella quantità continua, cioè la scienza di geometria, la quale, cominciando dalla superficie de’ corpi, si trova avere origine nella linea, termine di essa superficie; ed in questo non restiamo satisfatti, perché noi conosciamo la linea aver termine nel punto, ed il punto esser quello del quale null’altra cosa può esser minore. Adunque il punto è il primo princìpio della geometria; e niuna altra cosa può essere né in natura, né in mente umana, che possa dare principio al punto. Perché se tu dirai nel contatto fatto sopra una superficie da un’ultima acuità della punta dello stile, quello essere creazione del punto, questo non circonda il suo mezzo, ed in esso mezzo è la residenza del punto, e tal punto non è della materia di essa superficie, né lui, né tutti i punti dell’universo sono in potenza ancorché sieno uniti, né, dato che si potessero unire, comporrebbero parte alcuna d’una superficie. E dato che tu t’immaginassi un tutto essere composto da mille punti, qui dividendo alcuna parte da essa quantità di mille, si può dire molto bene che tal parte sia eguale al suo tutto. E questo si prova con lo zero ovver nulla, cioè la decima figura dell’aritmetica, per la quale si figura un 0 per esso nullo; il quale, posto dopo la unità, le farà dire dieci, e se ne porrai due dopo tale unità, dirà cento, e così infinitamente crescerà sempre dieci volte il numero dov’esso si aggiunge; e lui in sé non vale altro che nulla, e tutti i nulli dell’universo sono eguali ad un sol nulla in quanto alla loro sostanza e valore. Nessuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, se essa non passa per le matematiche dimostrazioni; e se tu dirai che le scienze, che principiano e finiscono nella mente, abbiano verità, questo non si concede, ma si nega per molte ragioni; e prima, che in tali discorsi mentali non accade esperienza, senza la quale nulla dà di sé certezza. 2. Esempio e differenza tra pittura e poesia

Tal proporzione è dalla immaginazione all’effetto, qual è dall’ombra al corpo ombroso, e la medesima proporzione è dalla poesia alla pittura, perché la poesia pone le sue cose nella immaginazione di lettere, e la pittura le dà realmente fuori dell’occhio, dal quale occhio riceve le similitudini, non altrimenti che s’elle fossero naturali, e la poesia le dà senza essa

similitudine, e non passano all’impressiva per la via della virtù visiva come la pittura. 3. Quale scienza è più utile, ed in che consiste la sua utilità

Quella scienza è più utile della quale il frutto è più comunicabile, e così per contrario è meno utile quella ch’è meno comunicabile. La pittura ha il suo fine comunicabile a tutte le generazioni dell’universo, perché il suo fine è subietto della virtù visiva, e non passa per l’orecchio al senso comune col medesimo modo che vi passa per il vedere. Adunque questa non ha bisogno d’interpreti di diverse lingue, come hanno le lettere, e subito ha satisfatto all’umana specie, non altrimenti che si facciano le cose prodotte dalla natura. E non che alla specie umana, ma agli altri animali, come si è manifestato in una pittura imitata da un padre di famiglia, alla quale facean carezze i piccioli figliuoli, che ancora erano nelle fasce, e similmente il cane e la gatta della medesima casa, ch’era cosa maravigliosa a considerare tale spettacolo. La pittura rappresenta al senso con più verità e certezza le opere di natura, che non fanno le parole o le lettere, ma le lettere rappresentano con più verità le parole al senso, che non fa la pittura. Ma dicemmo essere più mirabile quella scienza che rappresenta le opere di natura, che quella che rappresenta le opere dell’operatore, cioè le opere degli uomini, che sono le parole, com’è la poesia, e simili, che passano per la umana lingua. 4. Delle scienze imitabili, e come la pittura è inimitabile, però è scienza

Le scienze che sono imitabili sono in tal modo, che con quelle il discepolo si fa eguale all’autore, e similmente fa il suo frutto; queste sono utili all’imitatore, ma non sono di tanta eccellenza, quanto sono quelle che non si possono lasciare per eredità, come le altre sostanze. Infra le quali la pittura è la prima; questa non s’insegna a chi natura noi concede, come fan le matematiche, delle quali tanto ne piglia il discepolo, quanto il maestro gliene legge. Questa non si copia, come si fa le lettere, che tanto vale la copia quanto l’origine. Questa non s’impronta, come si fa la scultura, della quale tal è la impressa qual è l’origine in quanto alla virtù dell’opera. Questa non fa infiniti figliuoli come fa i libri stampati; questa sola si resta nobile, questa sola onora il suo autore, e resta

preziosa e unica, e non partorisce mai figliuoli eguali a sé. E tal singolarità la fa più eccellente che quelle che per tutto sono pubblicate. Ora, non vediamo noi i grandissimi re dell’Oriente andare velati e coperti, credendo diminuire la fama loro col pubblicare e divulgare le loro presenze? Or, non si vede le pitture rappresentatrici le immagini delle divine deità essere al continuo tenute coperte con copriture di grandissimi prezzi? E quando si scoprono, prima si fanno grandi solennità ecclesiastiche di vari canti con diversi suoni. E nello scoprire, la gran moltitudine de’ popoli che quivi concorrono, immediate si gittano a terra, quelle adorando e pregando per cui tale pittura è figurata, dell’acquisto della perduta sanità e della eterna salute, non altrimenti che se tale idea fosse lì presente ed in vita. Questo non accade in nessuna altra scienza od altra umana opera, e se tu dirai questa non esser virtù del pittore, ma propria virtù della cosa imitata, si risponderà che in questo caso la mente degli uomini può satisfare standosi nel letto, e non andare ne’ luoghi faticosi e pericolosi, ne’ pellegrinaggi, come al continuo far si vede. Ma se pure tali pellegrinaggi al continuo sono in essere, chi li muove senza necessità? Certo tu confesserai essere tale simulacro, il quale far non può tutte le scritture che figurar potessero in effigie e in virtù tale idea. Adunque pare ch’essa idea ami tal pittura, ed ami chi l’ama e riverisce, e si diletti di essere adorata più in quella che in altra figura di lei imitata, e per quella faccia grazie e doni di salute, secondo il credere di quelli che in tal luogo concorrono. 5. Come la pittura abbraccia tutte le superficie de’ corpi, ed in quelli si estende

La pittura sol si estende nella superficie de’ corpi, e la sua prospettiva si estende nell’accrescimento e decrescimento de’ corpi e de’ lor colori; perché la cosa che si rimuove dall’occhio perde tanto di grandezza e di colore quanto ne acquista di remozione. Adunque la pittura è filosofia, perché la filosofia tratta del moto aumentativo e diminutivo, il quale si trova nella sopradetta proposizione; della quale faremo il converso, e diremo: la cosa veduta dall’occhio acquista tanto di grandezza e notizia e colore, quanto ella diminuisce lo spazio interposto infra essa e l’occhio che la vede. Chi biasima la pittura, biasima la natura, perché le opere del pittore rappresentano le opere di essa natura, e per questo il detto biasimatore ha carestia di sentimento.

Si prova la pittura esser filosofia perché essa tratta del moto de’ corpi nella prontitudine delle loro azioni, e la filosofia ancora lei si estende nel moto. Tutte le scienze che finiscono in parole hanno sì presto morte come vita, eccetto la sua parte manuale, cioè lo scrivere, ch’è parte meccanica. 6. Come la pittura abbraccia le superficie, figure e colori de’ corpi naturali, e la filosofila sol s’estende nelle lor virtù naturali

La pittura si estende nelle superficie, colori e figure di qualunque cosa creata dalla natura, e la filosofia penetra dentro ai medesimi corpi, considerando in quelli le lor proprie virtù, ma non rimane satisfatta con quella verità che fa il pittore, che abbraccia in sé la prima verità di tali corpi, perché l’occhio meno s’inganna. [...] 8. Come chi sprezza la pittura non ama la filosofia, né la natura

Se tu sprezzerai la pittura, la quale è sola imitatrice di tutte le opere evidenti di natura, per certo tu sprezzerai una sottile invenzione, la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme: mare, siti, piante, animali, erbe, fiori, le quali sono cinte di ombra e lume. E veramente questa è scienza e legittima figlia di natura, perché la pittura è partorita da essa natura; ma per dir più corretto, diremo nipote di natura, perché tutte le cose evidenti sono state partorite dalla natura, dalle quali cose è nata la pittura. Adunque rettamente la chiameremo nipote di essa natura e parente d’iddio. 9. Come il pittore è signore d’ogni sorta di gente e di tutte le cose

Il pittore è padrone di tutte le cose che possono cadere in pensiero all’uomo, perciocché s’egli ha desiderio di vedere bellezze che lo innamorino, egli è signore di generarle, e se vuol vedere cose mostruose che spaventino, o che sieno buffonesche e risibili, o veramente compassionevoli, ei n’è signore e creatore. E se vuol generare siti deserti, luoghi ombrosi o freschi ne’ tempi caldi, esso li figura, e così luoghi caldi ne’ tempi freddi. Se vuol valli, il simile; se vuole dalle alte cime di monti scoprire gran campagna, e se vuole dopo quelle vedere l’orizzonte del mare, egli n’è

signore; e così pure se dalle basse valli vuol vedere gli alti monti, o dagli alti monti le basse valli e spiaggie. Ed in effetto ciò che è nell’universo per essenza, presenza o immaginazione, esso lo ha prima nella mente, e poi nelle mani, e quelle sono di tanta eccellenza, che in pari tempo generano una proporzionata armonia in un solo sguardo qual fanno le cose. [...] 14. Pittore che disputa col poeta

Qual poeta con parole ti metterà innanzi, o amante, la vera effigie della tua idea con tanta verità, qual farà il pittore? Quale sarà quello che ti dimostrerà i siti de’ fiumi, boschi, valli e campagne, dove si rappresentino i tuoi passati piaceri, con più verità del pittore? E se tu dici che la pittura è una poesia muta per sé, se non vi è chi dica o parli per lei quello che la rappresenta, or non t’avvedi tu che il tuo libro si trova in peggior grado? perché ancora ch’egli abbia un uomo che parli per lui, non si vede niente della cosa di che si parla, come si vedrà di quello che parla per le pitture; le quali pitture, se saranno ben proporzionati gli atti con i loro accidenti mentali, saranno intese, come se parlassero. 15. Come la pittura avanza tutte le opere umane per sottili speculazioni appartenenti a quella

L’occhio, che si dice finestra dell’anima, è la principale via donde il comune senso può più copiosamente e magnificamente considerare le infinite opere di natura, e l’orecchio è il secondo, il quale si fa nobile per le cose racconte, le quali ha veduto l’occhio. [...] 20. Dell’occhio

L’occhio, dal quale la bellezza dell’universo è specchiata dai contemplanti, è di tanta eccellenza, che chi consente alla sua perdita, si priva della rappresentazione di tutte le opere della natura, per la veduta delle quali l’anima sta contenta nelle umane carceri, mediante gli occhi, per i quali essa anima si rappresenta tutte le varie cose di natura. Ma chi li perde lascia essa anima in una oscura prigione, dove si perde ogni speranza di

rivedere il sole, luce di tutto il mondo. E quanti son quelli a cui le tenebre notturne sono in sommo odio, ancora ch’elle sieno di breve vita! O che farebbero questi quando tali tenebre fossero compagne della vita loro? Certo, non è nessuno che non volesse piuttosto perdere l’udito e l’odorato che l’occhio, la perdita del quale udire consente la perdita di tutte le scienze che hanno termine nelle parole, e sol fa questo per non perdere la bellezza del mondo, la quale consiste nella superficie de’ corpi sì accidentali come naturali, i quali si riflettono nell’occhio umano. [...] 29. Quale scienza è meccanica, e quale non è meccanica

Dicono quella cognizione esser meccanica la quale è partorita dall’esperienza, e quella esser scientifica che nasce e finisce nella mente, e quella essere semimeccanica che nasce dalla scienza e finisce nella operazione manuale. Ma a me pare che quelle scienze sieno vane e piene di errori le quali non sono nate dall’esperienza, madre di ogni certezza, e che non terminano in nota esperienza, cioè che la loro origine, o mezzo, o fine, non passa per nessuno de’ cinque sensi. E se noi dubitiamo della certezza di ciascuna cosa che passa per i sensi, quanto maggiormente dobbiamo noi dubitare delle cose ribelli ad essi sensi, come dell’assenza di Dio e dell’anima e simili, per le quali sempre si disputa e contende. E veramente accade che sempre dove manca la ragione suppliscono le grida, la qual cosa non accade nelle cose certe. Per questo diremo che dove si grida non è vera scienza, perché la verità ha un sol termine, il quale essendo pubblicato, il litigio resta in eterno distrutto, e s’esso litigio resurge, ella è bugiarda e confusa scienza, e non certezza rinata. Ma le vere scienze son quelle che la speranza ha fatto penetrare per i sensi, e posto silenzio alla lingua de’ litiganti, e che non pasce di sogni i suoi investigatori, ma sempre sopra i primi veri e noti principi procede successivamente e con vere seguenze insino al fine, come si dinota nelle prime matematiche, cioè numero e misura, dette aritmetica e geometria, che trattano con somma verità della quantità discontinua e continua. Qui non si arguirà che due tre facciano più o men che sei, né che un triangolo abbia i suoi angoli minori di due angoli retti, ma con eterno silenzio resta distrutta ogni arguizione, e con pace sono fruite dai loro

devoti, il che far non possono le bugiarde scienze mentali. E se tu dirai tali scienze vere e note essere di specie di meccaniche, imperocché non si possono finire se non manualmente, io dirò il medesimo di tutte le arti che passano per le mani degli scrittori, le quali sono di specie di disegno, membro della pittura; e l'astrologia e le altre passano per le manuali operazioni, ma prima sono mentali com’è la pittura, la quale è prima nella mente del suo speculatore, e non può pervenire alla sua perfezione senza la manuale operazione; della qual pittura i suoi scientifici e veri principi prima ponendo che cosa è corpo ombroso, e che cosa è ombra primitiva ed ombra derivativa, e che cosa è lume, cioè tenebre, luce, colore, corpo, figura, sito, remozione, propinquità, moto e quiete, le quali solo colla mente si comprendono senza opera manuale; e questa sarà la scienza della pittura, che resta nella mente de’ suoi contemplanti, dalla quale nasce poi l’operazione, assai più degna della predetta contemplazione o scienza. Dopo questa viene la scultura, arte degnissima, ma non di tanta eccellenza d’ingegno operata, conciossiaché in due casi principali sia difficilissima, co’ quali il pittore procede nella sua. Questa è aiutata dalla natura, cioè prospettiva, ombra e lumi. Questa ancora non è imitatrice de’ colori, per i quali il pittore si affatica a trovare che le ombre sieno compagne de’ lumi.

Giambattista Vico La logica poetica Nel capitolo della sezione storica dell'Estetica dedicato a Vico, Benedetto Croce scrive: “Il rivoluzionario, che, mettendo da parte il concetto del verisimile e intendendo in modo nuovo la fantasia, penetrò la vera natura della poesia e dell’arte, e scoperse, per così dire, la scienza estetica, fu l’italiano Giambattista Vico”, e lo fece “dieci anni innanzi che si pubblicasse in Germania il primo opuscolo del Baumgarten” con la Scienza nuova prima del 1725. Le due sezioni presenti nella Scienza nuova seconda del 1730, intitolate rispettivamente “Della sapienza poetica” e “Della discoperta del vero Omero”, avrebbero poi, secondo Croce, dato ulteriore fondamento al primato di Vico quale vero e proprio iniziatore dell’estetica, in anticipo rispetto ad Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762), che pubblica le Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus nel 1735 e l'Aesthetica nel 1750. Nell’interpretazione di Croce, l’originalità e il valore fondativo del pensiero di Vico consisterebbero nell’aver ricondotto la poesia a “un periodo della storia dell’umanità” che deve essere inteso più in generale come “un momento della storia ideale dello spirito, una forma della coscienza”. Nella concezione vichiana della storia, la fantasia all’origine dell’espressione poetica è dotata di una sua autonomia espressiva e conoscitiva, tanto che si può dire che “il grado fantastico è affatto indipendente e autonomo rispetto a quello intellettivo, che non solo non gli può aggiungere alcuna perfezione, ma riesce solamente a distruggerlo”. Arte e scienza, fondate rispettivamente su fantasia e intelletto, sarebbero dunque attività contrapposte e inconfondibili, e merito di Vico sarebbe l’aver chiarito il ruolo e l’autonomia della “fantasia creatrice” nello sviluppo storico delle istituzioni e delle forme di conoscenza, del linguaggio, della mitologia, delle figurazioni simboliche, sicché, a ben vedere, “la vera Scienza nuova del Vico è l’Estetica” L’interpretazione crociana del ruolo dell’“italiano” Vico e la tesi del suo primato rispetto a Baumgarten nella fondazione dell’estetica come disciplina filosofica manifestano, almeno in parte, il tentativo di esaltare la tradizione filosofica nazionale. Al tempo stesso, però, la lettura di Croce coglie alcuni aspetti cruciali dell’importanza del pensiero di Vico per la storia dell’estetica: il

ruolo centrale, espressivo e conoscitivo attribuito alla fantasia, la produttività dell’immaginazione, il radicamento sensibile e sentimentale delle forme espressive. Il tema della rivendicazione dello statuto di verità del poetico e dell’autonomia della poesia rispetto ad altre forme conoscitive e ad altre regioni della cultura era già stato al centro della riflessione di autori del primo Settecento italiano come Gian Vincenzo Gravina (1664-1718) (Della ragion poetica, 1708) e Ludovico Muratori (1672-1750) (Della perfetta poesia italiana, 1706; Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, 1708) e le loro opere costituiscono il contesto entro cui si sviluppa il pensiero vichiano. Nel nuovo approccio alla storia presentato da Vico nelle tre edizioni della Scienza nuova (1725, 1730, 1744), l’evoluzione delle istituzioni sociali dell’umanità dopo il diluvio procede in parallelo con lo sviluppo delle forme della conoscenza e del linguaggio. In un celebre passo della Scienza nuova seconda (la “degnità” o assioma LIII della sezione “Degli elementi”), Vico scrive: “Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”. Allo sviluppo delle forme di conoscenza dalla sensazione al sentimento, alla fantasia e alla ragione corrisponde la suddivisione della storia in tre età e in tre forme linguistiche: “Ci sono pur giunti due gran rottami dell’egiziache antichità, che si sono sopra osservati. De’ quali uno è che gli egizi riducevano tutto il tempo del mondo scorso loro dinanzi a tre età, che furono: età degli dei, età degli eroi ed età degli uomini. L’altro, che per tutte queste tre età si fussero parlate tre lingue, nell’ordine corrispondenti a dette tre età, che furono: la lingua geroglifica, ovvero sagra, la lingua simbolica o per somiglianze, qual è l’eroica, e la pistolare o sia Volgare degli uomini, per segni convenuti da comunicare le volgari bisogne della lor vita”. All'età degli dei (ossia dei miti religiosi primitivi), fanno dunque seguito l’età degli eroi (o del dominio signorile, così come è descritto nei poemi omerici) e infine l’età degli uomini (caratterizzata dalla comparsa del pensiero filosofico e delle codificazioni legislative). Le forme espressive delle prime due età, la “lingua geroglifica” e la “lingua simbolica o per somiglianze”, devono, secondo Vico, essere ricondotte alle forme conoscitive che le hanno generate: sono espressione di una fantasia sponeaneamente animistica e antropomorfica, manifestano una “sapienza poetica” che deve essere compresa filologicamente, evitando due forme opposte di pregiudizio quali il disprezzo

razionalistico nei confonti delle superstizioni arcaiche - come se queste fossero prive di senso - e l’atteggiamento esoterico che vede in esse forme di sapere occulto. I miti non sono dunque né invenzioni arbitrarie né travestimenti allegorici di verità filosofiche, bensì narrazioni in cui trova espressione la natura mitico-fantastica dell’umanità primitiva, l’immaginazione collettiva dei popoli: il mito è poesia, è l’esplicitarsi di una “sapienza poetica” che caratterizza le fasi iniziali dell’umanità, quando dominano facoltà come il senso, la fantasia, la memoria, che “mettono le loro radici nel corpo e prendono vigore dal corpo”. Nelle lingue geroglifiche e simboliche Vico rintraccia i “caratteri poetici” e gli “universali fantastici” di lingue che si sono formate a partire dai gesti e dal canto sulla base dell’esigenza di rapportarsi mimeticamente alla natura e di esprimere con vivacità le passioni. Le prime lingue articolate, che erano lingue “poetiche", ricorrevano infatti a immagini, somiglianze, comparazioni, metafore. Figure retoriche come la metafora e la sineddoche non erano mere decorazioni esteriori che si aggiungevano a un linguaggio già organizzato, bensì forme espressive che riflettevano forme di conoscenza proprie di quell’“infanzia” dell’umanità nella quale la comprensione del mondo esterno avviene cogliendo somiglianze e analogie tra cose animate e cose inanimate: “Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è propietà de’ fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti”. La “ragion poetica” che caratterizza la mentalità dei popoli nelle prime fasi del loro sviluppo è dunque pervasa dalla tendenza a comprendere il mondo secondo categorie mitiche, riconducibili a determinati “caratteri poetici” che devono essere intesi come forme embrionali di concetti nei quali la somiglianza metaforica supplisce alla mancanza di astrazione: “i primi uomini, come fanciulli del genere umano, non essendo capaci di formar i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi o universali fantastici, da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie particolari a ciascuno suo genere simigliami”. La riflessione di Vico sulla “sapienza poetica” e sul ruolo conoscitivo ed espressivo della fantasia si colloca pertanto nel quadro di un progetto di

ricerca sull’origine dei miti, del linguaggio, dell’evoluzione delle società primitive. Il mondo storico studiato da Vico non è costituito di oggetti materiali ed esterni (come il mondo naturale), né di enti fittizi (come quello della matematica), bensì è un universo composto da motivi, propositi, azioni, passioni, speranze, linguaggi, miti, leggi, istituzioni civili che l’uomo può conoscere in quanto ne è il protagonista. La “scienza nuova” delineata da Vico deve essere al tempo stesso storia, filologia e filosofia, dove lo studio dei fatti si fonde con quello dell’evoluzione delle forme linguistiche e conoscitive. In aperta polemica con il razionalismo e il metodo deduttivo sviluppato dai cartesiani, caratterizzato dalla ricerca di un’evidenza razionale che respingeva qualsiasi contaminazione emotiva e da un ideale di austerità e sobrietà scientifica dello stile, Vico ribadisce l’importanza storica e gnoseologica dell’eloquenza che sa muovere gli affetti, della retorica, della poesia, della fantasia, dell’ingegno quale facoltà produttrice di metafore. Il “vero” che è oggetto della scienza non risiede tanto in rappresentazioni chiare e distinte che si offrono a una coscienza autonoma rispetto alla storia, bensì nei fatti e nelle concrezioni linguistico-espressive che la storia stessa ci propone; come scrive Vico, il vero coincide con ciò che è stato fatto, “verum ipsum factum”. Radicata nello sviluppo storico dell’umanità, la fantasia possiede un potenziale espressivo diverso e autonomo rispetto alla ragione, quasi opposto ad essa: “La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio” Sottolineando un’opposizione tra conoscenza razionale e conoscenza poetica presente anche in Baumgarten, Vico sostiene che se le “sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocinii [...] più s’appressano al vero quanto più s’innalzano agli universali”, le “sentenze poetiche”, espressione di affetti e passioni, sono tanto più vere quanto più danno a conoscere il particolare. A fronte di questa opposizione al razionalismo cartesiano, Vico sviluppa delle tesi - come quella della radicale storicità del linguaggio, che non deve essere inteso come una creazione arbitraria e convenzionale ma come un’istituzione radicata antropologicamente nell’evoluzione delle forme di vita e di conoscenza dei popoli - che rimarranno al centro della riflessione settecentesca sul linguaggio, in particolare in autori come Étienne Condillac (1715-1780), Pierre-Louis Maupertuis (1698-1759), Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) e Johann Gottfried Herder (1744-1803).

Le pagine che seguono sono tratte da G. Vico, La scienza nuova, a cura di P. Rossi, Rizzoli, Milano 1998: Libro secondo, Della sapienza poetica, cap. II (“Della logica poetica”), par. 2, pp. 283-287; par. 4, pp. 298-299, 301-302, 307312, 314-315. Per approfondire: L. Amoroso, Lettura della “Scienza nuova” di Vico, UTET, Torino 1998; Id., Nastri Vichiani, ETS, Pisa 1997; I. Berlin, Vico e Herder, tr. it. Armando, Roma 1978; B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria e storia, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1990, parte II, Storia, cap. V, “Giambattista Vico”, pp. 277-295; Id., La filosofia di Giambattista Vico, Laterza, Bari 1911; E. Franzini, Inestetica del Settecento, il Mulino, Bologna 20022; G.V. Gravina, Della ragion poetica, a cura di G. Izzi, Archivio Guido Izzi, Roma 1991; E Lanza, Saggi di poetica vichiana, Magenta, Varese 1961; G. Mazzotta, La nuova mappa del mondo: la filosofia poetica di Giambattista Vico, Einaudi, Torino 1999; G. Morpurgo Tagliabue, Il concetto di gusto nell’Italia del Settecento, La Nuova Italia, Firenze 1962; L.A. Muratori, Della forza della fantasia umana e Della perfetta poesia italiana, in Opere, a cura di G. Falco e F. Forti, Ricciardi, Milano-Napoli 1964; E. Paci, Ingens Sylva, Bompiani, Milano 1991; P. Rossi, Le sterminate antichità e nuovi saggi vichiani, La Nuova Italia, Firenze 1999; G. Spalletti, Saggio sopra la bellezza, a cura di P. D’Angelo, Aesthetica, Palermo 1992; S. Velotti, Sapienti e bestioni. Saggio sull’ignoranza, il sapere e la poesia in Giambattista Vico, Pratiche, Parma 1995; D.H. Verene, La scienza della fantasia, tr. it. Armando, Roma 1984.

Corollari d’intorno a’ tropi, mostri e trasformazioni poetiche

I. Di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa e, perché più luminosa, più necessaria e più spessa è la metafora, ch’allora è vieppiù lodata quando alle cose insensate ella dà senso

e passione, per la metafisica sopra qui ragionata: ch’i primi poeti dieder a’ corpi l’essere di sostanze animate, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e di passione, e sì ne fecero le favole; talché ogni metafora sì fatta vien ad essere una picciola favoletta. Quindi se ne dà questa critica d’intorno al tempo che nacquero nelle lingue: che tutte le metafore portate con simiglianze prese da’ corpi a significare lavori di menti astratte debbon essere de’ tempi ne’ quali s’eran incominciate a dirozzar le filosofie. Lo che si dimostra da ciò: ch’in ogni lingua le voci ch’abbisognano all’arti colte ed alle scienze riposte hanno contadinesche le lor origini. Quello è degno d’osservazione: che ’n tutte le lingue la maggior parte dell’espressioni d’intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e dell’umane passioni. Come “capo”, per cima o principio; “fronte”, “spalle”, avanti e dietro; “occhi” delle viti e quelli che si dicono “lumi” ingredienti delle case; “bocca”, ogni apertura; “labro”, orlo di vaso o d’altro; “dente” d’aratro, di rastello, di serra, di pettine; “barbe”, le radici; “lingua” di mare; “fauce” o “foce” di fiumi o monti; “collo” di terra; “braccio” di fiume; “mano”, per picciol numero; “seno” di mare, il golfo; “fianchi” e “lati”, i canti; “costiera” di mare; “cuore”, per lo mezzo (ch’“umbilicus” dicesi da’ latini); “gamba” o “piede” di paesi, e “piede” per fine; “pianta” per base o sia fondamento; “carne”, “ossa” di frutte; “vena” d’acqua, pietra, miniera; “sangue” della vite, il vino; “viscere” della terra; “ride” il cielo, il mare; “fischia” il vento; “mormora” l’onda; “geme” un corpo sotto un gran peso; e i contadini del Lazio dicevano “sitire agros”, “laborare fructus”, “luxuriari segetes”; e i nostri contadini “andar in amore le piante”, “andar in pazzia le viti”, “lagrimare gli orni”; ed altre che si possono raccogliere innumerabili in tutte le lingue. Lo che tutto va di séguito a quella degnità: che “l’uomo ignorante si fa regola dell’universo”, siccome negli esempli arrecati egli di se stesso ha fatto un intiero mondo. Perché come la metafisica ragionata insegna che “homo intelligendo fit omnia”, così questa metafisica fantasticata dimostra che “homo non intelligendo fit omnia” ; e forse con più di verità detto questo che quello, perché l’uomo con l’intendere spiega la sua mente e comprende esse cose, ma col non intendere egli di sé fa esse cose e, col transformandovisi, lo diventa. II. Per cotal medesima logica, parto di tal metafisica, dovettero i primi poeti dar i nomi alle cose dall’idee più particolari e sensibili; che sono i due

fonti, questo della metonimia e quello della sineddoche. Perocché la metonimia degli autori per l’opere nacque perché gli autori erano più nominati che l’opere; quella de’ subbietti per le loro forme ed aggiunti nacque perché, come nelle Degnità abbiamo detto, non sapevano astrarre le forme e la qualità da’ subbietti; certamente quella delle cagioni per gli di lor effetti sono tante picciole favole, con le quali le cagioni s’immaginarono esser donne vestite de’ lor effetti, come sono la Povertà brutta, la Vecchiezza trista, la Morte pallida. III. La sineddoche passò in trasporto poi con l’alzarsi i particolari agli universali o comporsi le parti con le altre con le quali facessero i lor intieri. Così “mortali” furono prima propiamente detti i soli uomini, che soli dovettero farsi sentire mortali. Il “capo”, per l’“uomo” o per la “persona”, ch’è tanto frequente in volgar latino, perché dentro le boscaglie vedevano di lontano il solo capo dell’uomo: la qual voce “uomo” è voce astratta, che comprende, come in un genere filosofico, il corpo e tutte le parti del corpo, la mente e tutte le facilità della mente, l’animo e tutti gli abiti dell’animo. [...] IV. L’ironia certamente non potè cominciare che da’ tempi della riflessione, perch’ella è formata dal falso in forza d’una riflessione che prende maschera di verità. E qui esce un gran principio di cose umane, che conferma l’origine della poesia qui scoverta: che i primi uomini della gentilità essendo stati semplicissimi quanto i fanciulli, i quali per natura son veritieri, le prime favole non poterono fingere nulla di falso; per lo che dovettero necessariamente essere, quali sopra ci vennero diffinite, vere narrazioni. V. Per tutto ciò si è dimostrato che tutti i tropi (che tutti si riducono a questi quattro), i quali si sono finora creduti ingegnosi ritruovati degli scrittori, sono stati necessari modi di spiegarsi [di] tutte le prime nazioni poetiche, e nella lor origine aver avuto tutta la loro natia propietà: ma, poi che, col più spiegarsi la mente umana, si ritruovarono le voci che significano forme astratte, o generi comprendenti le loro spezie, o componenti le parti co’ loro intieri, tai parlari delle prime nazioni sono divenuti trasporti. E quindi s’incomincian a convellere que’ due comuni errori de’ gramatici: che ’l parlare de’ prosatori è propio, impropio quel de’ poeti; e che prima fu il parlare da prosa, dopoi del verso. VI. I mostri e le trasformazioni poetiche provennero per necessità di tal

prima natura umana, qual abbiamo dimostrato nelle Degnità che non potevan astrarre le forme o le propietà da’ subbietti; onde con la lor logica dovettero comporre i subbietti per comporre esse forme, o distrugger un subbietto per dividere la di lui forma primiera dalla forma contraria introduttavi. Tal composizione d’idee fece i mostri poetici: come in ragion romana, all’osservare di Antonio Fabro nella Giurisprudenza papinianea, si dicon “mostri” i parti nati da meretrice, perc’hanno natura d’uomini, insieme, e propietà di bestie d’esser nati da’ vagabondi o sieno incerti concubiti; i quali truoveremo esser i mostri i quali la legge delle XII Tavole (nati da donna onesta senza la solennità delle nozze) comandava che si gittassero in Tevere. VII. La distinzione dell’idee fece la metamorfosi: come, fralle altre conservateci dalla giurisprudenza antica, anco i romani nelle loro frasi eroiche ne lasciarono quella “fundum fieri” per “autorem fieri”, perché, come il fondo sostiene il podere o il suolo e ciò ch’è quivi seminato o piantato o edificato, così l’appruovatore sostiene l’atto, il quale senza la di lui appruovagione rovinerebbe, perché l’appruovatore, da semovente ch’egli è, prende forma contraria di cosa stabile. [...] Corollari d’intorno all’origini delle lingue e delle lettere; e, quivi dentro, l’origini de’ geroglifici, delle leggi, de’ nomi, dell’insegne gentilizie, delle medaglie, delle monete; e quindi della prima lingua e letteratura del diritto naturai delle genti

Ora dalla teologia de’ poeti o sia dalla metafisica poetica, per mezzo della indi nata poetica logica, andiamo a scuoprire l’origine delle lingue e delle lettere, d’intorno alle quali sono tante l’oppenioni quanti sono i dotti che n’hanno scritto. Talché Gerardo Giovanni Vossio nella Gramatica dice: “De literarum inventione multi multa congerunt, et fuse et confuse, ut ab iis incertus magis abeas quam veneras dudum”. Ed Ermanno Ugone, De origine scribendi, osserva: “Nulla alia res est, in qua plures magisque pugnantes sententiae reperiantur atque haec tractatio de literarum et scriptionis origine. Quantae sententiarum pugnae! Quid credas? quid non credas?”. Onde Bernardo da Melinckrot, De arte typographica, seguito in ciò da Ingewaldo Elingio, De historia linguae graecae, per l’incomprendevolità della guisa,

disse essere ritruovato divino. Ma la difficultà della guisa fu fatta da tutti i dotti per ciò: ch’essi stimarono cose separate l’origini delle lettere dall’origini delle lingue, le quali erano per natura congionte; e ’l dovevan pur avvertire dalle voci “gramatica” e “caratteri”. Dalla prima, ché “gramatica” si diffinisce “arte di parlare” e γράμματα (grammata) sono le lettere, talché sarebbe a diffinirsi “arte di scrivere”, qual Aristotile la diffinì e qual infatti ella dapprima nacque, come qui si dimostrerà che tutte le nazioni prima parlarono scrivendo, come quelle che furon dapprima mutole. Dipoi “caratteri” voglion dire “idee”, “forme”, “modelli”, e certamente furono innanzi que’ de’ poeti che quelli de’ suoni articolati, come Giuseffo vigorosamente sostiene, contro Appione greco gramatico, che a’ tempi d’Omero non si erano ancor truovate le lettere dette “volgari” Oltracciò, se tali lettere fussero forme de’ suoni articolati e non segni a placito, dovrebbero appo tutte le nazioni esser uniformi, com’essi suoni articolati son uniformi appo tutte. Per tal guisa disperata a sapersi non si è saputo il pensare delle prime nazioni per caratteri poetici né ’l parlare per favole né lo scrivere per geroglifici: che dovevan esser i princìpi, che di lor natura han da esser certissimi, così della filosofia per l’umane idee, come della filologia per l’umane voci. [... ] Perché da questi princìpi: di concepir i primi uomini della gentilità l’idee delle cose per caratteri fantastici di sostanze animate, e, mutoli, di spiegarsi con atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee (quanto, per esemplo, lo hanno l’atto di tre volte falciare o tre spighe per significare “tre anni”), e sì spiegarsi con lingua che naturalmente significasse, che Platone e Giamblico dicevano essersi una volta parlata nel mondo (che deve essere stata l’antichissima lingua atlantica, la quale eruditi vogliono che spiegasse l’idee per la natura delle cose, o sia per le loro naturali propietà): da questi princìpi, diciamo, tutti i filosofi e tutti i filologi dovevan incominciar a trattare dell’origini delle lingue e delle lettere. Delle quali due cose, per natura, com’abbiam detto, congionte, han trattato divisamente, onde loro è riuscita tanto difficile la ricerca dell’origini delle lettere, ch’involgeva egual difficultà quanto quella delle lingue, delle quali essi o nulla o assai poco han curato. Sul cominciarne adunque il ragionamento, poniamo per primo principio quella filologica degnità: che gli egizi narravano, per tutta la scorsa del loro mondo innanzi, essersi parlate tre lingue, corrispondenti nel numero e

nell’ordine alle tre età scorse pur innanzi nel loro mondo: degli dèi, degli eroi e degli uomini; e dicevano la prima lingua essere stata geroglifica o sia sagra ovvero divina; la seconda, simbolica o per segni o sia per imprese eroiche; la terza pistolare per comunicare i lontani tra loro i presenti bisogni della lor vita. Delle quali tre lingue v’hanno due luoghi d’oro appo Omero nell’Iliade, per gli quali apertamente si veggono i greci convenir in ciò con gli egizi. De’ quali uno è dove narra che Nestore visse tre vite d’uomini diversilingui: talché Nestore dee essere stato un carattere eroico della cronologia stabilita per le tre lingue corrispondenti alle tre età degli egizi; onde tanto dovette significare quel motto: “vivere gli anni di Nestore” quanto “vivere gli anni del mondo”. L’altro è dove Enea racconta ad Achille che uomini diversilingui cominciaron ad abitar Ilio, dopoché Troia fu portata a’ lidi del mare e Pergamo ne divenne la rocca. Con tal primo principio congiungiamo quella tradizione, pur degli egizi, che ’l loro Theut o Mercurio ritruovò e le leggi e le lettere. [...] Posti tali princìpi di logica poetica e dileguata tal boria de’ dotti, ritorniamo alle tre lingue degli egizi. Nella prima delle quali, ch’è quella degli dei, come si è avvisato nelle Degnità, per gli greci vi conviene Omero, che in cinque luoghi di tutti e due i suoi poemi fa menzione d’una lingua più antica della sua, la qual è certamente lingua eroica, e la chiama “lingua degli dei” [...] D’intorno a’ quali luoghi Platone dice molte cose, ma vanamente; talché poi Dion Crisostomo ne calogna Omero d’impostura, ch’esso intendesse la lingua degli dei, ch’è naturalmente niegato agli uomini. Ma dubitiamo che non forse in questi luoghi d’Omero si debbano gli “dei” intendere per gli “eroi”, i quali, come poco appresso si mostrerà, si presero il nome di “dei” sopra i plebei delle loro città, ch’essi chiamavan “uomini” (come a’ tempi barbari ritornati i vassalli si dissero “homines”, che osserva con maraviglia Ottomano), e i grandi signori (come nella barbarie ricorsa) facevano gloria di avere maravigliosi segreti di medicina; e così queste non sien altro che differenze di parlari nobili e di parlari volgari. Però, senza alcun dubbio, per gli latini vi si adoperò Varrone, il quale, come nelle Degnità si è avvisato, ebbe la diligenza di raccogliere trentamila dei, che dovettero bastare per un copioso vocabolario divino, da spiegare le genti del Lazio tutte le lor bisogne umane, ch’in que’ tempi semplici e parchi dovetter esser pochissime, perch’erano le sole necessarie alla vita. Anco i greci ne numerarono trentamila, come nelle Degnità pur si è detto, i quali d’ogni

sasso, d’ogni fonte o ruscello, d’ogni pianta, d’ogni scoglio fecero deitadi, nel qual numero sono le driadi, l’amadriadi, l’oreadi, le napee; appunto come gli americani ogni cosa che supera la loro picciola capacità fanno dei. Talché le favole divine de’ latini e de’ greci dovetter essere i veri primi geroglifici, o caratteri sagri o divini, degli egizi. Il secondo parlare, che risponde all’età degli eroi, dissero gli egizi essersi parlato per simboli, a’ quali sono da ridursi l’imprese eroiche, che dovetter essere le somiglianze mute che da Omero si dicono σήματα (semata; i segni co’ quali scrivevan gli eroi); e ’n conseguenza dovetter essere metafore o immagini o simiglianze o comparazioni, che poi, con lingua articolata, fanno tutta la suppellettile della favella poetica. Perché certamente Omero, per una risoluta niegazione di Giuseffo ebreo che non ci sia venuto scrittore più antico di lui, egli vien ad essere il primo autor della lingua greca, e, avendo noi da’ greci tutto ciò che di essa n’è giunto, fu il primo autore di tutta la gentilità. Appo i latini le prime memorie della loro lingua son i frammenti de’ Carmi saliari, e ’l primo scrittore che ce n’è stato narrato è Livio Andronico poeta. E dal ricorso della barbarie d’Europa, essendovi rinnate altre lingue, la prima lingua degli spagnuoli fu quella che dicono “di romanzo” e, ’n conseguenza, di poesia eroica (perché i romanzieri furon i poeti eroici de’ tempi barbari ritornati); in Francia, il primo scrittore in volgar francese fu Arnaldo Daniel Pacca, il primo di tutti i provenzali poeti, che fiorì nell’undecimo secolo; e finalmente i primi scrittori in Italia furon rimatori fiorentini e siciliani. Il parlare pistolare degli egizi, convenuto a spiegare le bisogne della presente comun vita tra gli lontani, dee esser nato dal volgo d’un popolo principe dell’Egitto, che dovett’esser quello di Tebe (il cui re, Ramse, come si è sopra detto, distese l’imperio sopra tutta quella gran nazione), perché per gli egizi corrisponda questa lingua all’età degli “uomini”, quali si dicevano le plebi de’ popoli eroici a differenza de’ lor eroi, come si è sopra detto. E dee concepirsi esser provenuto da libera loro convenzione, per questa eterna propietà: ch’è diritto de’ popoli il parlare e lo scriver volgare; onde Claudio imperadore avendo ritruovato tre altre lettere ch’abbisognavano alla lingua latina, il popolo romano non le volle ricevere, come gl’italiani non han ricevuto le ritruovate da Giorgio Trissino, che si sentono mancare all’italiana favella. Tali parlari pistolari, o sieno volgari, degli egizi si dovettero scrivere con

lettere parimente volgari, le quali si truovano somiglianti alle volgari fenicie; ond’è necessario che gli uni l’avessero ricevute dagli altri. Coloro che oppinano gli egizi essere stati i primi ritruovatori di tutte le cose necessarie o utili all’umana società, in conseguenza di ciò debbon dire che gli egizi l’avessero insegnate a’ fenici. Ma Clemente alessandrino, il quale dovett’esser informato meglio ch’ogni altro qualunque autore delle cose di Egitto, narra che Sancunazione o Sancuniate fenice (il quale nella Tavola cronologica sta allogato nell’età degli eroi di Grecia) avesse scritto in lettere volgari la storia fenicia, e sì il propone come primo autore della gentilità ch’abbia scritto in volgari caratteri; per lo qual luogo hassi a dire ch’i fenici, i quali certamente furono il primo popolo mercatante del mondo, per cagione di traffichi entrati in Egitto, v’abbiano portato le lettere loro volgari. Ma, senza alcun uopo d’argomenti e di congetture, la volgare tradizione ci accerta ch'essi fenici portarono le lettere in Grecia; sulla qual tradizione riflette Cornelio Tacito che le vi portarono come ritruovate da sé le lettere ritruovate da altri, che intende le geroglifiche egizie. Ma, perché la volgar tradizione abbia alcun fondamento di vero (come abbiamo universalmente pruovato tutte doverlo avere), diciamo che vi portarono le geroglifiche ricevute d^altri, che non poteron essere ch’i caratteri mattematici o figure geometriche ch'essi ricevute avevano da’ caldei (i quali senza contrasto furono i primi mattematici e spezialmente i primi astronomi delle nazioni; onde Zoroaste caldeo, detto così perché “osservatore degli astri”, come vuole il Bocharto, fu il primo sappiente del gentilesimo), e se ne servirono per forme di numeri nelle loro mercatanzie, per cagion delle quali molto innanzi d’Omero praticavano nelle marine di Grecia. Lo che ad evidenza si pruova da essi poemi d’Omero, e spezialmente dall'Odissea, perché a’ tempi d’Omero Gioseffo vigorosamente sostiene contro Appione greco gramatico che le lettere volgari non si erano ancor truovate tra’ greci. I quali, con sommo pregio d’ingegno, nel quale certamente avvanzarono tutte le nazioni, trasportarono poi tal forme geometriche alle forme de’ suoni articolati diversi, e con somma bellezza ne formarono i volgari caratteri delle lettere; le quali poscia si presero da’ latini, ch’il medesimo Tacito osserva essere state somiglianti all’antichissime greche. Di che gravissima pruova è quella ch’i greci per lunga età, e fin agli ultimi loro tempi i latini, usarono lettere maiuscole per scriver numeri; che dev’esser ciò che Demarato corintio e Carmenta, moglie d’Evandro arcade, abbiano

insegnato le lettere alli latini, come spiegheremo appresso che furono colonie greche, oltramarine e mediterranee, dedotte anticamente nel Lazio. Né punto vale ciò che molti eruditi contendono: - le lettere volgari dagli ebrei esser venute a’ greci, perocché l’appellazione di esse lettere si osserva quasi la stessa appo degli uni e degli altri, - essendo più ragionevole che gli ebrei avessero imitata tal appellagione da’ greci che questi da quelli. Perché dal tempo ch’Alessandro magno conquistò l’imperio dell’Oriente (che dopo la di lui morte si divisero i di lui capitani) tutti convengono che ’l sermon greco si sparse per tutto l’Oriente e l’Egitto; e, convenendo ancor tutti che la gramatica s’introdusse assai tardi tra essi ebrei, necessaria cosa è ch’i letterati ebrei appellassero le lettere ebraiche con l’appellazione de’ greci. Oltrecché, essendo gli elementi semplicissimi per natura, dovettero dapprima i greci battere semplicissimi i suoni delle lettere, che per quest’aspetto si dovettero dire “elementi”; siccome seguitarono a batterle i latini colla stessa gravità (con che conservarono le forme delle lettere simigliami all’antichissime greche): laonde fa d’uopo dire che tal appellazione di lettere con voci composte fussesi tardi introdotta tra essi greci, e più tardi da’ greci si fusse in Oriente portata agli ebrei. [...] Or, siccome la lingua eroica ovvero poetica si fondò dagli eroi, così le lingue volgari sono state introdutte dal volgo, che noi dentro ritruoveremo essere state le plebi de’ popoli eroici: le quali lingue propiamente da’ latini furono dette “vernaculae”, che non potevan introdurre quelli “vernae” che i gramatici diffiniscono “servi nati in casa dagli schiavi che si facevano in guerra”, i quali naturalmente apprendono le lingue de’ popoli dov’essi nascono. Ma dentro si truoverà ch’i primi e propiamente detti “vernae” furon i famoli degli eroi nello stato delle famiglie, da’ quali poi si compose il volgo delle prime plebi dell’eroiche città, e furono gli abbozzi degli schiavi, che finalmente dalle città si fecero con le guerre. E tutto ciò si conferma con le due lingue che dice Omero: una degli dei, altra degli uomini, che noi qui sopra spiegammo “lingua eroica” e “lingua volgare”, e quindi a poco lo spiegheremo vieppiù. Ma delle lingue volgari egli è stato ricevuto con troppo di buona fede da tutti i filologi ch’elleno significassero a placito, perch’esse, per queste lor origini naturali, debbon aver significato naturalmente. Lo che è facile osservare nella lingua volgar latina (la qual è più eroica della greca volgare, e perciò più robusta quanto quella è più dilicata), che quasi tutte le voci ha

formate per trasporti di nature o per propietà naturali o per effetti sensibili; e generalmente la metafora fa il maggior corpo delle lingue appo tutte le nazioni. Ma i gramatici, abbattutisi in gran numero di vocaboli che danno idee confuse e indistinte di cose, non sappiendone le origini, che le dovettero dapprima formare luminose e distinte, per dar pace alla loro ignoranza, stabilirono universalmente la massima che le voci umane articolate significano a placito, e vi trassero Aristotile con Galeno ed altri filosofi, e gli armarono contro Platone e Giamblico come abbiam detto.

Alexander Gottlieb Baumgarten Estetica e conoscenza sensibile

Con le Riflessioni sul testo poetico (Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus, 1735) e l’Estetica (Aesthetica, 1750) di Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762) l’estetica si costituisce come disciplina autonoma e specificamente filosofica, dotata di una precisa collocazione nell’ambito del sapere e dell’insegnamento accademico, di un proprio oggetto e di un proprio fine. Coniando il neologismo di derivazione greca aesthetica, che conferisce valore di sostantivo all’aggettivo aisthetike (sensibile), Baumgarten attribuisce un nome comune a un complesso di temi che per la prima volta si trovano riuniti in uno stesso ambito disciplinare: teoria della conoscenza, psicologia e antropologia empiriche, poetica e retorica. Se è senz’altro legittimo attribuire a Baumgarten il ruolo di “fondatore” dell’estetica filosofica, bisogna però ricordare che la sua estetica non si propone in primo luogo come una scienza dell’arte, né come una filosofia del bello artistico, bensì trae origine dal tentativo di condurre una riflessione metodica, a partire da una serie di distinzioni relative alla teoria della conoscenza, su ambiti del sapere, come la poetica e la retorica, fino ad allora considerati extrafilosofìci. Sullo sfondo della riflessione baumgarteniana si colloca la teoria leibniziana della conoscenza e la sistematizzazione che ne era stata data, a inizio Settecento, da Christian Wolff (1679-1754), la cui produzione filosofica configura quello spazio enciclopedico nel quale l’estetica viene a collocarsi come disciplina autonoma nell’ambito della teoria della conoscenza. In diversi scritti - tra cui le Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, il Discorso di metafisica e i Nuovi saggi sull’intelletto umano - Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) propone una classificazione delle percezioni o conoscenze secondo la loro maggiore o minore chiarezza e

distinzione, e questa classificazione costituisce un motivo di sostanziale distanziamento da Cartesio, che considerava chiarezza e distinzione nozioni equivalenti e designanti l'evidenza con cui le idee vere si presentano alla mente. Leibniz, invece, distingue nettamente tra chiarezza e distinzione, all’interno di una classificazione delle conoscenze che, pur mantenendo un rigoroso continuismo e gradualismo che esclude ogni soluzione di continuità, le suddivide in oscure e chiare, le chiare in confuse e distinte, le distinte in adeguate e inadeguate, e, infine, tutte le conoscenze in generale in simboliche e intuitive. Nella classificazione leibniziana, oscure sono le conoscenze che non rendono possibile nemmeno l’identificazione del contenuto percepito, mentre chiare sono quelle che la rendono possibile. Le conoscenze chiare, a loro volta, possono essere confuse, quando del contenuto percepito non siamo in grado di isolare le singole componenti, o distinte quando possiamo individuarne un certo numero. Se l’individuazione delle componenti del contenuto percepito è esaustiva ed enumera tutte quelle semplici non ulteriormente scomponibili, abbiamo una conoscenza adeguata, se invece questo processo di analisi non arriva agli elementi primi, abbiamo una conoscenza chiara e distinta ma inadeguata. Infine, una conoscenza è simbolica se mediata da simboli o segni, intuitiva se il suo contenuto è colto direttamente e senza mediazioni. La conoscenza perfetta, che è propria solo di Dio e costituisce l’ideale verso cui deve orientarsi la conoscenza umana sempre perfettibile, è, secondo Leibniz, quella al contempo chiara, distinta, adeguata e intuitiva. La conoscenza umana, invece, solo raramente è intuitiva e adeguata: per lo più è invece simbolica e inadeguata, nel senso che non può fare a meno della mediazione offerta da caratteri e immagini, e di rado riesce a cogliere, in una rappresentazione, in un’idea o in un concetto, tutte le unità concettuali semplici non ulteriormente scomponibili. La conoscenza chiara e confusa, infine - che Baumgarten considererà dominio specifico dell’estetica - è una conoscenza fondata su percezioni che, come sostiene Leibniz nelle Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, non ci permettono di “enumerare separatamente delle caratteristiche sufficienti a distinguere quella cosa dalle altre, sebbene la cosa possieda veramente tali caratteristiche e requisiti, nei quali si possa risolvere la sua nozione”. Se in Leibniz la classificazione delle conoscenze rimanda comunque a un

gradualismo conoscitivo privo di soluzioni di continuità, il problema che occuperà tutta la gnoseologia successiva, e in particolare Wolff e Baumgarten, sarà quello dei limiti delle varie forme di conoscenza, o, meglio, del suddividersi del continuum della conoscenza umana in ambiti differenti e diversamente caratterizzati quanto alla loro perfezione e perfettibilità. In particolare, quella che viene progressivamente delineandosi è una divisione tra conoscenza sensibile, fatta di rappresentazioni chiare e confuse, e conoscenza razionale, fatta di rappresentazioni chiare e distinte. La distinzione, stabilita da Wolff nei paragrafi 54 e 55 della sua Psychologia empirica, tra “parte inferiore” e “parte superiore della facoltà di conoscere”, aventi per oggetto rispettivamente “idee e nozioni oscure e confuse” e “idee e nozioni distinte”, è ripresa da Baumgarten, che nella Metaphysica considera come pertinente alla psicologia empirica lo studio delle facoltà conoscitive superiori (intellectus, ratio) e inferiori (tra cui sensus, phantasia, memoria, facultas fingendi). Al centro della riflessione che conduce Baumgarten a definire l’estetica come disciplina autonoma nel complesso enciclopedico del sapere c’è dunque un problema di tipo prettamente gnoseologico: distinguere con esattezza le diverse facoltà conoscitive, i vari livelli della conoscenza e le specifiche forme di perfezione che ciascun livello può attingere. A questo orizzonte di problemi si somma poi il tentativo di elevare a uno statuto filosofico la riflessione sulla poetica e la retorica, che opponeva, negli stessi anni in cui scrive Baumgarten, il classicismo razionale e prescrittivo di Johann Christoph Gottsched (17001766) e le tesi di Johann Jakob Bodmer (1698-1783) e Johann Jakob Breitinger (1701-1776), volte a esaltare la parola poetica come capacità di comunicare immagini fantastiche e muovere l’animo, rendendo visibile l’invisibile e reale il possibile. Nella prima opera pubblicata da Baumgarten, le Riflessioni sul testo poetico, i contenuti della poetica e della retorica classiche sono reinterpretati a partire dal vocabolario teoretico della dottrina della conoscenza wolffiana: “le rappresentazioni procurate dalla parte inferiore della facoltà conoscitiva sono sensitive”, un’orazione composta da parole che significano rappresentazioni sensitive è un’“orazione sensitiva”, e “un’orazione sensitiva perfetta è quella le cui varie parti tendono alla conoscenza di rappresentazioni sensitive”. Tale “orazione sensitiva perfetta” è, secondo Baumgarten, il “poema”, il cui studio deve essere condotto da parte di una

disciplina filosoficamente fondata, la “poetica”, capace di difendere l’autonomia e la poeticità della conoscenza sensibile rispetto alla conoscenza intellettuale, fatta di rappresentazioni chiare e distinte. In quello che è a tutti gli effetti un tentativo di ridefinire l’antico problema dei rapporti tra poesia, retorica e filosofia, riformulando all’interno della teoria della conoscenza leibniziana il tema dell’emancipazione creativopoetica dell’immaginazione, Baumgarten sostiene l’autonomia della conoscenza sensibile e la legittimità filosofica della disciplina che ne studia il possibile perfezionamento. Il sensibile, che nella tradizione leibniziana era il territorio dell’oscuro e del confuso, non deve essere condannato bensì indagato nella sua specificità per coglierne le potenzialità conoscitive, come già aveva fatto lo stesso Leibniz considerando il piacere alla stregua di un sentimento con cui viene conosciuta, sebbene in modo oscuro e confuso, una certa qual forma di perfezione. Occorre ridefinire i rapporti tra sensibile e intelligibile, l’ambito delle rappresentazioni chiare e confuse non deve essere considerato meramente propedeutico rispetto alla conoscenza chiara e distinta, e la disciplina che lo studia deve trarre dalla psicologia i propri principi e il proprio statuto filosofico: “Filosofia poetica è la scienza che dirige verso la perfezione l’orazione sensitiva”; essa deve occuparsi “di quegli artifizi grazie ai quali le facoltà inferiori del conoscere potrebbero essere affinate, acuite, più felicemente impiegate a vantaggio del genere umano. Poiché la psicologia conferisce saldi principi, non dubitiamo affatto che si possa dare una scienza la quale diriga la facoltà conoscitiva inferiore: o scienza del conoscere sensitivo”. La definizione dell’estetica quale scientia sensitive quid cognoscendi si ritrova nel primo paragrafo dell’introduzione all'Estetica, un breve testo che contiene in nuce tutto il programma baumgarteniano: “L'estetica (teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare in modo bello, arte dell’analogo della ragione) è la scienza della conoscenza sensibile”. In questo passo l’estetica è presentata come teoria delle arti liberali e come poetica, entrambe riconducibili a una forma di gnoseologia autonoma rispetto alla logica, anche se ad essa analoga, in quanto dotata di una propria specifica perfezione. Tale perfezione consiste non tanto nell’elaborazione di rappresentazioni chiare e distinte come quelle della logica, quanto nel perseguimento di una “chiarezza estensiva”, intesa come capacità di abbracciare la varietà e la diversità con uno sguardo complessivo e con

rappresentazioni vivaci e concrete. L'orizzonte conoscitivo studiato dall’estetica si colloca al di sopra delle rappresentazioni oscure e indistinguibili, ma al di sotto della distinzione peculiare delle rappresentazioni colte dalle facoltà conoscitive superiori: si tratta di un orizzonte fatto non di astrazione ma di concretezza, varietà, individualità, un dominio dotato di una propria verità estetica conosciuta con i sensi e l’immaginazione e di una propria bellezza, che consiste appunto nella “perfezione della conoscenza sensibile” Una verità estetica e una bellezza che vengono perse nel momento in cui la chiarezza e la confusione sono oltrepassate in direzione della chiarezza e della distinzione. Le pagine che seguono sono tratte da A.G. Baumgarten, L'Estetica, a cura di S. Tedesco, tr. it. a cura di F. Caparrota, A. Li Vigni e S. Tedesco, consulenza scientifica e revisione di E. Romano, Aesthetica, Palermo 2000: pp. 27-31,151-158. Di Baumgarten si vedano anche: Lezioni di estetica, introduzione di L. Amoroso, tr. it. a cura di S. Tedesco, Aesthetica, Palermo 1998; Meditazioni filosofiche su alcuni aspetti del poema, tr. it. a cura di F. Piselli, Vita e Pensiero, Milano 1992; Riflessioni sulla poesia, tr. it. a cura di P. Pimpinella e S. Tedesco, Aesthetica, Palermo 1999. Per approfondire: L. Amoroso, Ratio & aesthetica. Baumgarten e la filosofia moderna, ETS, Pisa 2000; M. Ferraris, “Analogon rationis”, in Pratica filosofica (6), Cuem, Milano 1994, pp. 5-126; E. Franzini, Arte e mondi possibili. Estetica e interpretazione da Leibniz a Klee, Guerini, Milano 1994; Id., L’estetica del Settecento, il Mulino, Bologna 20022; P. Kobau, “Baumgarten, l’estetica dei tropi”, in Rivista di Estetica, 42 (1994), pp. 91-110; Id., “La fondazione dell’estetica filosofica”, in Pratica filosofica (6), Cuem, Milano 1994, pp. 127-173; Laocoonte 2000, a cura di L. Russo, Aesthetica, Palermo 1992; G.W. Leibniz, Discorso di metafisica, in Scritti filosofia, tr. it. UTET, Torino 2000, vol. I, pp. 262-302; Id., Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, in op. cit., vol. I, pp. 252-257; Id., Nuovi saggi sull’intelletto umano, in op. cit., vol. Il, in particolare la prefazione e i libri I-II, pp. 21-247; G.E. Lessing, Drammaturgia di Amburgo, tr. it. Bulzoni, Roma 1975; Id., Laocoonte, tr. it. Aesthetica, Palermo 2000; M.

Mendelssohn, I principi fondamentali delle Belle Arti, tr. it. Aesthetica, Palermo 1989; N. Merker, L'illuminismo tedesco. L’età di Lessing, Laterza, Bari 1974; A. Nivelle, Les théories esthétiques en Allemagne de Baumgarten à Kant, Les Beiles Lettres, Paris 1955; P. Pimpinella, “L'Aesthetica di Baumgarten. Gnoseologia leibniziana e retorica antica”, in Lexicon Philosophicum, 4 (1989), pp. 101-112; F. Piselli, Alle origini dell'estetica moderna. Il pensiero di Baumgarten, Vita e Pensiero, Milano 1991; L. Russo (a cura di), Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica, Centro internazionale studi di estetica, Palermo 1998; A. Somaini, “Espressione, analogia e somiglianza nella concezione leibniziana della rappresentazione”, in M. Mazzocut-Mis (a cura di), Immagine, forma e stile. Percorsi estetici tra pittura, architettura e musica, Mimesis, Milano 2001; S. Tedesco, Alla vigilia dell’Aesthetica, Aesthetica, Palermo 1996; Id., Breitinger e l’estetica dell’Illuminismo tedesco, Centro internazionale studi di estetica, Palermo 1998; Id., L'estetica di Baumgarten, Centro internazionale studi di estetica, Palermo 2000; J.J. Winckelmann, Pensieri sull’imitazione, tr. it. Aesthetica, Palermo 1992; Id., Storia dell’arte nell’antichità, tr. it. Boringhieri, Torino 1961.

Introduzione

§ 1. L'estetica (teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare in modo bello, arte dell’analogo della ragione) è la scienza della conoscenza sensibile. § 2. Il grado naturale delle facoltà conoscitive inferiori, sviluppato con la sola pratica senza alcuna conoscenza disciplinare, può essere detto estetica naturale, ed esser distinto, come è d’uso anche per la logica, in estetica innata (l’ingegno bello innato) e acquisita; questa a sua volta la si può distinguere in dottrinale e applicata. § 3. Fra le applicazioni principali dell’estetica artificiale (cfr. § 1), che si aggiunge a quella naturale, ci sarà: (1) preparare la materia adatta per le

scienze che devono essere conosciute in modo preminente con l’intelletto, (2) adattare alla comprensione comune le conoscenze scientifiche, (3) estendere l’affinamento della conoscenza anche al di là dei limiti di ciò che possiamo conoscere in modo distinto, (4) fornire buoni principi a tutti gli studi più gentili e alle arti liberali, (5) nella vita comune, a parità di condizioni, eccellere nella condotta. § 4. Da ciò le applicazioni speciali: (1) filologica, (2) ermeneutica, (3) esegetica, (4) retorica, (5) omiletica, (6) poetica, (7) musicale, eccetera. § 5. Alla nostra scienza (cfr. § 1) si potrebbe obiettare: (1) che essa sia troppo ampia perché la si possa esaurire in un solo libretto, in un unico compendio accademico. Rispondo ammettendolo, ma è meglio qualcosa che nulla; (2) che coincida con la retorica e la poetica. Rispondo: (a) è qualcosa di più ampio, (b) comprende cose fra loro simili e comuni a queste e altre arti. Ogni arte, una volta considerati tali elementi in questa appropriata sede estetica, potrà coltivare più felicemente il proprio campo senza inutili ripetizioni; (3) che coincida con la critica. Rispondo: (a) esiste anche una critica logica, (b) una certa specie della critica fa parte dell’estetica, (c) a questa specie è quasi indispensabile una qualche precognizione del resto dell’estetica, se essa non vuole limitarsi a disputare sui meri gusti nel giudicare di ciò che è stato pensato, detto e scritto in modo bello. § 6. Alla nostra scienza si potrebbe obiettare: (4) che le cose sensibili, le immagini fantastiche, le favole, le passioni e così via, siano indegne dei filosofi e poste al di sotto del loro orizzonte. Rispondo: (a) il filosofo è uomo fra gli uomini, e non fa bene se ritiene estranea a sé una parte tanto grande della conoscenza umana, (b) si confonde la teoria generale di ciò che è pensato in modo bello con la prassi e con l’esecuzione singola. § 7. Obiezione: (5) la confusione è madre dell’errore. Rispondo: (a) ma è condizione indispensabile per la scoperta della verità, dal momento che la natura non fa un salto dall’oscurità alla distinzione. Dalla notte, attraverso l’aurora, si arriva al pieno mezzogiorno; (b) bisogna aver cura della confusione appunto perché non ne nascano i tanti e tanto grandi errori che sono abituali in chi non se ne cura; (c) non si raccomanda la confusione, ma si corregge la conoscenza, nella misura in cui una qualche confusione è necessariamente mescolata ad essa. § 8. Obiezione: (6) la conoscenza distinta è superiore. Rispondo: (a) presso uno spirito finito lo è solo negli affari più importanti; (b) porre una

cosa non esclude l’altra; (c) proprio per questo innanzitutto procediamo a dirigere secondo regole conosciute distintamente ciò che deve essere conosciuto in modo bello, augurandoci che da questa possa sorgere in futuro una distinzione tanto più perfetta (cfr. §§ 3, 7). § 9. Obiezione: (7) c’è da temere che, coltivando l’analogo della ragione, il territorio della solidità razionale riceva un qualche danno. Rispondo: (a) questo argomento è una prova a maggior ragione, perché lo stesso pericolo, presente tutte le volte che si ricerca una perfezione composta, incita alla cautela, non persuade certo a trascurare la vera perfezione; (b) un analogo della ragione non coltivato e piuttosto corrotto non nuoce di meno alla solidità razionale più rigorosa. § 10. Obiezione: (8) l’estetica è arte, non scienza. Rispondo: (a) queste non sono attitudini contrapposte. Quante di quelle che un tempo erano solo arti non sono ora anche scienze? (b) Che la nostra arte possa essere oggetto di dimostrazione lo proverà l’esperienza, ed è evidente a priori, perché la psicologia e altre scienze filosofiche forniscono principi certi; che meriti di essere elevata a scienza lo insegnano alcune delle applicazioni dell’estetica ricordate, fra le altre, nei §§ 3-4. § 11. Obiezione: (9) estetici, così come poeti, si nasce, non si diventa. Rispondono Orazio,1 Cicerone,2 Bilfinger,3 Breitinger.4 A un estetico nato giova una teoria più completa, più raccomandabile per l’autorità della ragione, più esatta, meno confusa, più certa, meno traballante (cfr. § 3). § 12. Obiezione: (10) le facoltà inferiori, la carne, devono piuttosto esser debellate che eccitate e rafforzate. Rispondo: (a) si richiede dominio, non tirannide, sulle facoltà inferiori; (b) a tale scopo, fino a quel punto che è possibile ottenere per via naturale, l’estetica condurrà quasi per mano; (c) le facoltà inferiori, nella misura in cui sono corrotte, non devono essere eccitate e rafforzate dagli estetici, ma piuttosto da essi guidate perché non si corrompano ancor di più con attività sbagliate oppure, col pigro pretesto di evitarne l’abuso, non ci si privi dell’uso di un talento concesso da Dio. § 13. La nostra estetica (cfr. § 1), come la logica, sua sorella maggiore, si divide in (I) teoretica, dottrinale, generale (Parte prima), e dà insegnamenti: (1) in maniera euristica sulle cose e su ciò che è da pensare (Capitolo I); (2) sull’ordine lucente, ossia la metodologia (Capitolo II); (3) sui segni propri di ciò che è stato pensato e disposto in modo bello, ossia la semiotica (Capitolo

III); (II) pratica, applicata, particolare (Parte seconda). Per entrambe: a chi avrà scelto un oggetto secondo le proprie capacità non verranno mai meno né l’abbondanza dell’eloquio né l’ordine lucente5 L’oggetto sia la tua prima cura, la seconda sia l'ordine lucente, e infine la terza i segni. I. La bellezza della conoscenza

§ 14. Fine dell’estetica è la perfezione della conoscenza sensibile, in quanto tale (cfr. § 1). E questa è la bellezza. Occorre invece guardarsi dall’imperfezione di questa conoscenza, in quanto tale (cfr. § 1). E questa è la bruttezza. § 15. L’estetico, in quanto tale (cfr. § 14), non si occupa degli elementi di perfezione della conoscenza sensibile tanto nascosti da restarci del tutto oscuri o da poter essere conosciuti soltanto per via dell’intelletto. § 16. L’estetico, in quanto tale (cfr. § 14), non si occupa degli elementi di imperfezione della conoscenza sensibile tanto nascosti da restarci del tutto oscuri o da poter essere svelati solo per mezzo del giudizio intellettuale. § 17. Conoscenza sensibile è, secondo la denominazione presupposta, il complesso delle rappresentazioni che restano al di sotto della distinzione. Se ora, presupposto che esista questa conoscenza sensibile, volessimo, servendoci dell’intelletto, considerarne nel suo complesso anche la sola bellezza ed eleganza o la sola bruttezza (cfr. §§ 15,16), così come talvolta le coglie un osservatore dal gusto raffinato, allora la distinzione necessaria alla scienza (cfr. § 1) crollerebbe come distrutta sotto il peso delle bellezze e delle macchie che in generale si trovano nelle sue diverse classi, cioè di quelle specifiche e di quelle numeriche. A questo riguardo in primo luogo ci occuperemo di spiegare la bellezza in quanto comune a quasi tutta la bella conoscenza sensibile, cioè la bellezza universale e generale con il suo opposto (cfr. § 14). § 18. La bellezza della conoscenza sensibile (cfr. § 14) sarà universale in quanto (1) accordo fra di loro dei pensieri verso uno solo, l’oggetto fenomenico (cfr. § 14), astraendo per ora dal loro ordine e dai segni: è questa la bellezza delle cose e dei pensieri, che deve essere distinta dalla bellezza della conoscenza, di cui è la prima e più importante parte (cfr. § 13), e dalla bellezza degli oggetti e della materia, con cui spesso ma a torto, per il senso vulgato del termine cosa, viene confusa. Oggetti brutti, in quanto tali,

possono esser pensati in modo bello, e oggetti belli in modo brutto. § 19. La bellezza della conoscenza sensibile (cfr. § 14), dal momento che non si dà perfezione senza ordine, è universale in quanto (2) accordo fenomenico (cfr. § 14) dell’ordine con cui riflettiamo su ciò che si è pensato in modo bello: accordo sia interno che con le cose. Lo si definisce bellezza dell’ordine e della disposizione. § 20. La bellezza della conoscenza sensibile (cfr. § 14), dal momento che non percepiamo le cose designate senza i segni, è universale in quanto accordo fenomenico (cfr. § 14) interno ai segni, quello con l’ordine e quello con le cose. Lo si definisce bellezza della designazione, intendendo la dizione e l'elocuzione, quando il segno è il discorso ossia l’articolazione verbale, e insieme l’azione, quando il discorso si pronuncia verbalmente. Ecco le tre bellezze universali della conoscenza (cfr. §§ 18, 19). § 21. Vi possono essere, e occorre guardarsene, altrettante bruttezze, vizi, macchie della conoscenza sensibile, nell’ordine prima enumerato (cfr. § 13), sia nei pensieri e nelle cose (cfr. § 18), sia nella congiunzione di più cose pensate (cfr. § 19) sia nella designazione (cfr. § 20). § 22. Ricchezza, grandezza, verità, chiarezza, certezza e vita della conoscenza, secondo il grado di accordo in una sola percezione e fra di loro - ad esempio ricchezza e grandezza nella chiarezza, verità e chiarezza nella certezza, tutte le altre nella vita - ed in quanto vari altri elementi della conoscenza (cfr. §§ 18-20) si accordino con esse, danno la perfezione di ogni conoscenza. In quanto oggetti fenomenici, danno la bellezza (cfr. § 14) universale (cfr. § 17) della conoscenza sensibile, e specialmente quella delle cose e dei pensieri (cfr. § 18) per i quali è di aiuto il verso: l’abbondanza, la nobiltà, la luce certa di un vero in grado di commuovere. § 23. Povertà, viltà, falsità, oscurità incomprensibile, dubbiosa fluttuazione, inerzia, costituiscono gli elementi di imperfezione di ogni conoscenza. In quanto oggetti fenomenici, imbruttiscono (cfr. § 14) la conoscenza sensibile in generale (cfr. § 17) e sono i vizi principali delle cose e dei pensieri (cfr. § 21). § 24. La bellezza della conoscenza sensibile (cfr. § 14) e la stessa eleganza delle cose (cfr. § 18) sono perfezioni composte (cfr. §§ 18-20, 22) sebbene universali (cfr. § 17). Il che risulta evidente dal fatto che nessuna perfezione semplice è per noi un oggetto fenomenico. Proprio perciò ammettono moltissime eccezioni, che non sono da ritenere vizi nemmeno se divengono

oggetti fenomenici, purché non tolgano il maggior accordo fenomenico che può aver luogo e siano dunque le meno numerose e più piccole che sia possibile. § 25. Ciò premesso viene posta la bellezza, se con essa intendiamo l'eleganza. Le eccezioni che abbiamo descritto (cfr. § 24) - quando ad esempio una regola di bellezza più debole cede ad una più forte, una meno feconda ad una più feconda, una più vicina ad una più lontana cui è subordinata e così via - si diranno non in eleganti. Dunque nello stabilire le regole della bellezza nel conoscere, è bene essere attenti al tempo stesso alla loro forza. § 26. La percezione, in quanto è ragione, si chiama argomento. Dunque ci sono argomenti che arricchiscono, che nobilitano, che provano, che illustrano, che persuadono, che commuovono (cfr. § 22) e l’estetica non solo richiede che essi abbiano forza ed efficacia, ma anche eleganza (cfr. § 25). Quell’elemento della conoscenza che rivela una peculiare eleganza è la figura (schema). Esistono allora figure (1) delle cose e dei pensieri (cfr. § 18) ossia di pensiero, (2) dell’ordine (cfr. § 19), (3) della designazione, in cui rientrano le figure di parola (cfr. § 20). Esistono tanti tipi di figure di pensiero quanti sono i tipi di argomenti. § 27. Essendo la bellezza della conoscenza (cfr. § 14) un effetto prodotto da colui che pensa in modo bello, né più grande né più nobile delle forze vive di cui questi dispone, tracciamo innanzitutto una qualche genesi e rappresentazione di colui che si propone di pensare in modo bello, ossia il carattere dell'estetico dotato, l’enumerazione cioè di quelle doti che in un’anima costituiscono per natura le cause più prossime della conoscenza bella. Ma per le ragioni addotte (cfr. § 17) fermiamoci adesso al carattere generale e per così dire universale, quale richiedono bei pensieri di ogni genere, senza scendere ad un qualche carattere particolare, complemento di quello generale per realizzare una data e definita conoscenza bella di una specie determinata. [...] XXVII. La verità estetica

§ 423. Terza cura nel pensare le cose in modo elegante (cfr. §§ 115,177) sia la verità, s’intende quella estetica (cfr. § 22), ossia la verità, nella misura

in cui sia da conoscere in modo sensibile. Sappiamo che la verità metafisica degli oggetti è il loro accordo con i principi massimamente universali, per cui comprendiamo Leibniz che nella Teodicea dice: Si può dire con qualche ragione che i principi di contraddizione e di ragion sufficiente siano contenuti nella definizione di vero e di falso.6 Infatti la rappresentazione del vero metafisico in un qualche oggetto, in quanto si compie nell’anima di un determinato soggetto, è quell’accordo delle rappresentazioni con gli oggetti che i più chiamano verità logica, altri mentale, di relazione, corrispondenza e conformità, mentre chiamano materiale la verità metafisica. § 424. La verità metafisica oggettiva potrebbe essere detta verità soggettiva in quanto rappresentazione in una data anima di cose oggettivamente vere, o anche, per esprimerci con facilità, possiamo dirla logica seguendo i più, o meglio, logica in senso lato, per intenderci sulla cosa, che è il motivo principale per cui stiamo ritornando un po’ diffusamente su questi problemi. Credo infatti che sia già chiaro che la verità metafisica, o se si preferisce oggettiva - rappresentata in una data anima in modo tale da produrre in essa la verità logica in senso lato, o mentale e soggettiva possa stare innanzi principalmente all’intelletto, in uno spirito, sino a far parte di ciò che esso percepisce in modo distinto, dando luogo alla verità logica in senso stretto, oppure possa stare unicamente o principalmente innanzi all’analogo della ragione e alle facoltà conoscitive inferiori, dando luogo alla verità estetica (cfr. § 423). [...] § 426. È comune alle riflessioni logiche e a quelle estetiche quella virtù che Cicerone7 descrive definendone l’origine, e che consiste nel vedere ciò che in ogni cosa è vero e genuino, ciò che le si addice (l’accordo con il principio di contraddizione), ciò che ne segue (l’accordo con il principio del rationatum), ciò da cui ogni cosa viene prodotta e quale ne sia la causa (l’accordo col principio di ragione e di ragion sufficiente). Ma mentre le riflessioni logiche mirano ad una visione distinta ed intellettuale di quelle cose, le riflessioni estetiche, rimanendo all’interno del loro orizzonte, si occupano di intuire in modo elegante le stesse cose con i sensi e l’analogo della ragione (cfr. § 424). § 427. Chiamiamo verità estetico-logica quella mentale e soggettiva, la verità delle rappresentazioni nel suo complesso, che sinora è stata soltanto chiamata logica. Non adottiamo questa definizione nel senso che (1) si

diano, e persino numerose, cose esteticamente vere che non siano anche logicamente vere, cosa che ammettiamo volentieri. Quasi tutto è vero anche logicamente in quell’esortazione della Natura a disprezzare la morte, che Lucrezio inventa in modo abbastanza rispondente al vero ed alla quale fa seguire le parole: Che cosa rispondiamo, se non che la natura rivolge / un’accusa legittima ed espone una causa fondata?8 § 428. Non neghiamo né ignoriamo, inoltre, (2) che la verità estetica, nel dipingere in modo bello le parti, spesso dà la verità logica del tutto, e difficilmente potrebbe essere altrimenti, qualora si compia e si conduca a termine l’enumerazione delle parti. Osserviamo solo che l’estetico non mira direttamente alla verità in quanto essa sia intellettuale, ma che se ne rallegra l’estetico razionale (cfr. § 38), benché non sia ciò quello che principalmente si ricercava (cfr. § 423), se essa, in modo indiretto, emerge al contempo dalle molte verità estetiche o coincide con ciò che è esteticamente vero. § 429. Poniamo che vi sia una verità logica in senso stretto (cfr. S 424) che non può essere pensata se non per mezzo dell’intelletto, da parte o di quel soggetto che, si suppone, si propone di pensare in modo bello, o di quei destinatari in vista dei quali prevalentemente si pensa, nell’uno e nell’altro caso, e ciò sempre oppure in determinate circostanze. Una tale verità è posta al di sopra dell’orizzonte estetico, ed è bene, almeno al presente, tralasciarla (cfr. §§ 15, 121). Rifletti da astronomo o con astronomi sull’eclissi anulare dell’anno scorso, non solo in termini fisici, ma anche matematici. Pensane poi da pastore, o con gli amici o con la tua Neera: oh, quante verità pensate in precedenza si dovranno tralasciare ora del tutto! S 430. Alcune verità sono così piccole che seguirle o farne menzione rimane sotto l’orizzonte estetico, o almeno sotto la bella grandezza, ora in senso assoluto ora certamente in senso relativo (cfr. §§ 120, 178). L’estetico non si cura di queste verità infinitamente piccole (cfr. S§ 191, 221). Nemmeno lo storico ritiene che sia senza eccezione quella severa legge che dice: Non omettere alcunché di vero. Leggendo: Una schiera di giovani balza / focosa sul lido d’Esperia /... Ma Enea s’incammina devoto verso la vetta / cui presiede dall'alto il tempio d‘Apollo / e al solingo recesso, immane antro nell’ombra, / della Sibilla che d’orror sacro fa pallido chi a lei s’avvicina9 egli non cura né sta a pensare con quale piede per primo Enea, secondo la verità più esatta, abbia toccato l’Italia, se col sinistro, col destro, o addirittura con

entrambi, il che sarebbe meno dignitoso. § 431. La verità estetica richiede (I) la possibilità (cfr. § 426) degli oggetti che si devono pensare in modo elegante. Tale possibilità è (1) assoluta, in quanto la si può conoscere in maniera sensibile (cfr. § 423), e ciò comporta che nell’oggetto considerato in sé o dai sensi e dall’analogo della ragione non si osservi alcuna contraddizione fra le sue note caratteristiche. La tesi dell’ineguaglianza dei peccati ha tale possibilità ed è dunque anche esteticamente vera. Al contrario, chi afferma che i peccati / sono uguali si trova poi confuso / davanti alla realtà: senso e costume / protestano e la stessa utilità, / quasi madre del giusto e retto ed equo.10 § 432. La verità estetica richiede (2) la possibilità ipotetica (cfr. § 426) dei propri oggetti (cfr. § 431), e questa a sua volta potrà essere (A) naturale, in quanto non si connetta in modo prossimo con una determinata libertà, e possa essere giudicata dall’analogo della ragione (cfr. § 423). La ritrovo ad esempio nell’Eneide: Allora il Padre, che ha il sommo potere / del mondo, comincia a parlare. Mentre egli parla nell’alta / reggia è silenzio, tace la terra, tace l’etere immenso.11 § 433. La verità estetica richiede nei suoi oggetti la possibilità (B) morale (a) in senso lato, cioè quella per cui tali oggetti, non derivabili che dalla libertà, siano tali e tanto grandi, quali e quanto grandi appaiano all’analogo della ragione derivare da una data libertà, da una data persona e carattere, ad esempio dal carattere morale di un determinato uomo. Qui rientra il celebre “accostarsi alla verità della vita”, secondo il quale non è affatto lo stesso se a parlare sia un vecchio o un giovane nel fiore del tempo, una matrona autorevole o una nutrice sollecita, un mercante girovago o un coltivatore di un fondo campicello, un Coleo o un Assiro, uno cresciuto a Tebe o in Argo, 12 o se sia l’oggetto di cui ci si occupa o infine sia il destinatario. [...] § 435. La verità estetica richiede la possibilità morale (b) in senso stretto, non solo in colui che pensa (cfr. sezioni XXIV-XXVl) ma anche negli oggetti che egli deve esplicitamente o implicitamente approvare, ovvero, in breve, nei bei pensieri, dovesse pure trattarsi della descrizione dell’Acheronte (cfr. § 422); ma si tratterà solo di quel tanto di possibilità che cade sotto i sensi e rientra nella bilancia dell’analogo della ragione (cfr. § 211). Qui rientra la verità morale, in base alla quale, secondo Orazio il vero sta nel misurar se stessi / con la misura della propria gamba.13 Allo stesso modo in cui quella

richiesta ai §§ 433-434 la chiamerei verità morale in senso lato, così chiamerei questa tanto più volentieri verità morale in senso stretto, mentre chiamerei verità morale in senso strettissimo l’accordo dei segni con ciò che realmente intendiamo. E questa, posto che sia una virtù, ha già il titolo di sincerità, posto che sia un vizio, ha già l’ignominiosa definizione di chiacchiera. [...] § 437. La verità estetica richiede (II) la connessione degli oggetti che si devono pensare in modo bello con le loro ragioni e le loro conseguenze (cfr. §§ 426, 431) perché essa sia conoscibile in modo sensibile (cfr. § 423) per mezzo dell’analogo della ragione. Valga come esempio il Coriolano di Livio. 14 Si rende ragione del suo nome e della sua originaria autorevolezza, quindi l’arroganza contro il potere dei tribuni, da cui deriva l’ira della plebe, da questa l’esilio di Coriolano e l’animo, ostile non senza una ragione, che appare chiara dall’antefatto, che lo trascina presso i Volsci; da qui le decisioni prese in comune con Tullio, che lo ospita, di far guerra ai Romani; e come conseguenza di queste premesse, l’astuto artificio di Tullio e la straordinaria indignazione del popolo dei Volsci contro i Romani. [...] § 439. La verità estetica richiede la possibilità assoluta e ipotetica degli oggetti, in quanto la si colga in modo sensibile (cfr. §§ 431-436). Ogni possibilità richiede l’unità; quella assoluta l’assoluta, quella ipotetica l’ipotetica. Quindi anche la verità estetica richiede, nelle cose che deve pensare, l’una e l’altra forma di unità, in quanto la si possa cogliere in modo sensibile, e l’inseparabilità delle determinazioni, nel rispetto della bellezza della percezione totale (cfr. § 73). Tale unità degli oggetti sarà estetica in quanto sia oggetto fenomenico, e riguarderà le determinazioni interne, in quanto unità di azione, se l’oggetto della bella riflessione è l’azione, oppure le determinazioni esterne, le relazioni e le circostanze, in quanto unità di luogo e di tempo. L'argomento sia quale tu vuoi, purché semplice ed uno, ed otterrai insieme quella piacevole armoniosa brevità (cfr. sezioni XIIIXIV) e la bella coerenza (cfr. § 437). Per questo l’unità piacque tanto ad Agostino da indurlo a chiamarla forma di ogni bellezza. 15 § 440. La verità estetico-logica è quella degli universali, dei concetti e dei giudizi generali, oppure quella degli enti singolari e delle idee. Si definirà quella generale, questa singolare. Nell’oggetto di una verità generale non si scopre mai - soprattutto in modo sensibile - tanta verità metafisica quanto

nell’oggetto di una verità singolare. E quanto più generale è una verità estetico-logica, tanto minore verità metafisica è rappresentata nel suo oggetto, sia in assoluto, sia soprattutto per l’analogo della ragione, Ecco dunque il motivo principale per cui l’estetico, che si interessa soprattutto della verità che si possa osservare (cfr. § 22), preferisce, per quanto possibile, le verità più determinate, meno generali, meno astratte, alle verità più generali, astrattissime e massimamente universali, e quelle singolari a tutte quelle generali. Convince di ciò anche il criterio della ricchezza (cfr. § 115) perché, quanto più hai un oggetto determinato, tanto più numerose saranno le differenze, e dunque tanto più sarà possibile pensare su di esso in modo bello. Impone lo stesso anche il criterio della grandezza - sia quella naturale che la dignità estetica - se aggiungi alla grandezza dell’universale, quale che sia, il peso, la rilevanza, la fecondità che si aggiungono alle sue differenziazioni ulteriori (cfr. § 177). § 441. La verità estetico-logica del genere è percezione di una verità metafisica grande; la verità estetico-logica della specie è percezione di una verità metafisica maggiore; la verità esteticologica dell’individuo, ossia quella singolare, è percezione di una verità metafisica massima, per quanto si estende al genere. La prima è percezione del vero, la seconda del più vero, la terza del verissimo (cfr. § 440). La verità singolare è quella delle determinazioni interne dell’ente supremo oppure di quegli enti assolutamente contingenti. Gli enti contingenti non sono rappresentati, in quanto singolari, se non come possibili di un qualche universo nel suo complesso. Per cui la verità singolare degli enti contingenti li pone o come possibili e parti di questo universo - e questa verità, insieme con quella massima degli assolutamente necessari è detta verità in senso strettissimo o, secondo l’espressione comune, semplicemente verità - oppure, in quanto possibili di un altro universo, e parti di esso, secondo la scienza media degli uomini, [è detta] verità eterocosmica. [...] § 443. Delle verità estetico-logiche generali sono estetiche soltanto quelle che, nel rispetto della bellezza, possono essere rappresentate dall’analogo della ragione (cfr. §§ 440, 423), e nella misura in cui ciò è possibile. Ciò avverrà in modo manifesto ed esplicito, oppure in modo nascosto, grazie agli enunciati omessi negli entimemi, o con esempi che, con la loro concretezza, permettano di cogliere questi principi astratti. Così persino il principio d’identità - e chi lo crederebbe? - si può ritrovare nel

prologo dei Captivi di Plauto: Questi due prigionieri che vedete qui in piedi, sì che vi si presentano in iscena, questi due sono in piedi; non sono seduti. Voi stessi potete essermi testimoni che sto dicendo la verità. 16 § 444. Intanto è estetica la verità di quelle cose che sono strettissimamente vere, in quanto esse siano percepite in modo sensibile, per mezzo di sensazioni o atti immaginativi, o anche con previsioni accompagnate da presagio, e non lo è più di così. Sotto la stessa ipotesi, le verità eterocosmiche sono verità estetiche né più né meno che per quel che possano essere percepite dall’analogo della ragione (cfr. § 441). Pensa che questa distinzione, operata da Leibniz, c’è già in Tibullo, che, narrate molte cose a proposito delle peregrinazioni di Ulisse, le conclude così: Ora o codeste regioni furono fra le nostre terre conosciute (cose vere in senso strettissimo cfr. § 442) o la leggenda codesti errori a un mondo ignoto assegnò (cose vere in senso eterocosmico, cfr. § 441). 17 NOTE 1 Orazio, Arte poetica, v. 408 [nota di Baumgarten. D’ora in poi: B], Si vedano i vv. 408411: “Si è fatta questione se una Poesia sia lodevole per l’ingegno nativo o per l’arte. Io non vedo a che giovi Io studio senza vena né l’ingegno senza cultura: l’una cosa ha bisogno dell’altra e vanno insieme concordi”. Cfr. da ora in poi Orazio, Tutte le opere, tr. di E. Cetrangolo, Sansoni, Firenze 1993. 2 Cicerone, Dell’oratore, II, 60 [B]. Specie II, 60, 247: “Magari ci fosse un’arte che insegnasse delle regole in proposito” [siamo nell’excursus de ridiculis]. Cfr. da ora in poi Cicerone, Dell’oratore, tr. it. Mondadori, Milano 1994. 3 Nelle Dilucidationes [B], G.B. Bilfinger, Dilucidationes philosophicae de Deo, anima humana mundo, et generalibus rerum affectionibus, Tübingen 1725, ristampa anastatica Hildesheim 1982, § 268: “Vorrei che esistessero persone in grado di fare, per quel che riguarda la facoltà di sentire, d’immaginare, di far attenzione, di astrarre, e la memoria, ciò che quel valente Aristotele, oggi così inviso a tutti, fece per quel che riguarda l’intelletto: ovvero di ricondurre a sistema tutto ciò che riguarda ed è pertinente per dirigerle ed aiutarle nel loro uso, così come Aristotele nell'Organon ordinò la logica, ossia la facoltà di dimostrare” 4 J.J. Breitinger, Von den Gleichnissen, p. 6 [B]. Id., Critische Abhandlung von der Natur, den Absichten und dem Gebrauche der Gleichnisse, Zürich 1740, ristampa anastatica Stuttgart

1967. 5 Orazio, Arte poetica, vv. 40-41. 6 G.W. Leibniz, Essais de Théodicée, t. II, p.m. 312 [B], in Id., Die philosophischen Schriften, VI, Berlin 1885, ristampa anastatica Hildesheim 1978, pp. 413-414. 7 Cicerone, I doveri, II, 18 [B], 8 Lucrezio, La natura delle cose, III, vv. 940-957 [B], I versi citati sono 950-951. 9 Virgilio, Eneide, VI, vv. 5-10. 10 Orazio, Satire, 1,3 [B], vv. 96-98. 11 Virgilio, Eneide, IX, 100 [B], Il passo è X, vv. 100-102. 12 Orazio, Arte poetica, vv. 115-118. 13 Orazio, Epistole, I, 7, v. 98. 14 Livio, Dalla fondazione di Roma, II, [B], 15 Agostino, Epistulae, 18, 2. 16 Plauto, I prigionieri, XV, 1-3. 17 Tibullo, Elegie, III, 7, vv. 79-80.

Edmund Burke Le idee del bello e del sublime

La diffusione delle traduzioni seicentesche del trattato Sul sublime dello Pseudo-Longino alimenta un intenso dibattito nelle isole britanniche del Settecento sulle diverse forme del bello e del piacere, nel corso del quale la concezione retorica del sublime sviluppata dallo Pseudo-Longino viene riconsiderata a partire da un approccio empirico allo studio della mente e delle passioni. Già Nicolas Boileau (1636-1711), nella Prefazione alla sua traduzione del trattato longiniano e nelle Réflexions critiques sur quelquespassages du rhéteur Longin (pubblicate postume nel 1713), aveva distinto tra stile sublime ed effetto sublime: se il primo non è altro che uno dei generi dell’oratoria individuati dalla retorica antica - uno stile magniloquente, appropriato ad argomenti eroici e costituito da un linguaggio elevato ed ornato -, il secondo consiste nello “straordinario” e nel “meraviglioso" che ci colpiscono nel discorso. Si tratta di due componenti che non figurano necessariamente in composizioni letterarie scritte secondo lo stile sublime, ma possono trovarsi anche “in un solo pensiero, in una sola figura, in un solo giro di parole”. Riprendendo un’ambivalenza già presente nel testo dello Pseudo-Longino, Boileau presentava dunque il sublime come un fatto al tempo stesso stilistico e psicologico, vale a dire come una precisa strategia retorica mirante a produrre un effetto di ammirazione, sorpresa e rapimento nel lettore o nell’ascoltatore. Nonostante il tentativo da parte di Boileau di ricondurre il sublime, mediante un elogio della semplicità e della nettezza, all’interno di una poetica classicistica, il suo insistere sul tema degli effetti del sublime finì per spingere il dibattito settecentesco in una direzione nettamente anticlassicistica, dando luogo a una concezione della poesia come esaltazione, entusiasmo, rapimento, trasmissione empatica dei sentimenti. In

un clima culturale attraversato dall’ammirazione per poeti come Pindaro e Dante, Shakespeare e Milton, la tematica del sublime viene affrontata da autori come John Dennis, Robert Lowth, John Baillie, e i loro scritti costituiscono il contesto a cui si riferisce l'Inchiesta sul Bello e il Sublime (A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and the Beautiful, 1756) di Edmund Burke (1729-1797). In Dennis e Lowth, in particolare, veniva esaltata la dimensione sublime, magniloquente e terribile della poesia di argomento religioso, mentre autori come Thomas Burnet (1635-1715), Joseph Addison (1672-1719) o il conte di Shaftesbury (1671-1713) mettevano in primo piano l’esaltazione dell’infinità e della potenza della natura e il fascino per l’immenso, l’illimitato, l’informe. Sin dal titolo del trattato di Burke si comprende quali saranno le linee guida del suo approccio al tema del sublime: quella proposta non è infatti un’analisi stilistica, poetica e retorica dei luoghi del sublime nella letteratura, bensì una ricerca filosofica sull'idea del sublime condotta a partire da una psicologia empirica delle passioni e da una teoria empirica della conoscenza di stampo lockiano, secondo cui le idee e i sentimenti traggono origine dalle sensazioni. Il sublime, per Burke, è un’idea che deve essere nettamente distinta dall’idea del bello e di cui bisogna cercare l'origine in determinate qualità sensibili o dinamiche esperienziali, e gli effetti in determinate passioni e determinati sentimenti provati dal soggetto. Il trattato si apre con un’introduzione intitolata “Sul gusto” nella quale Burke, - intervenendo su un tema assai dibattuto nell’estetica di lingua inglese del Settecento, per esempio in La regola del gusto di Hume - si pronuncia a favore dell’esistenza di una regolarità e di una uniformità del giudizio di gusto in virtù del suo radicamento empirico-fisiologico, che è necessariamente intersoggettivo in quanto relativo alla natura umana in generale. Del gusto - ossia del giudizio relativo alle “opere dell’immaginazione e delle belle arti” -, così come della facoltà razionale di giudicare del vero e del falso, deve esistere una certa regolarità, altrimenti verrebbe minata la stessa natura sociale della vita umana. Come scrive Burke, “è probabile che la regola sia della ragione che del gusto abbia in tutte le creature umane le stesse caratteristiche. Poiché, se non vi fossero principi di giudizio, così come di sentimento, comuni a tutti gli uomini, non si potrebbe fare nessun affidamento sulla loro ragione o sulle loro passioni,

tale da permettere l’ordinario rapporto di vita”. L’analisi delle idee del bello e del sublime condotta da Burke deve dunque prendere le mosse da un attento esame delle passioni umane, della loro origine e delle loro trasformazioni all’interno della dinamica conoscitiva della mente, in cui operano facoltà come l’ingegno (wit) e il giudizio (judgement) che, rispettivamente, colgono somiglianze e dissomiglianze tra i contenuti sensibili derivanti dalla sensazione. Per arrivare a definire lo statuto dell’idea del sublime, Burke comincia affermando che esistono due specie di piaceri e di dolori: piaceri e dolori “di una natura positiva e indipendente”, e quelli che nascono dalla cessazione della sensazione a loro opposta. In particolare, oltre al piacere “positivo” detto pleasure, esiste un piacere “negativo” detto diletto (delight), che è “negativo” o “relativo” in quanto nasce dalla “scomparsa di un dolore o di un pericolo” e consiste in “una specie di tranquillità adombrata dall’orrore [...] una specie di passione mista di terrore e sorpresa”. Il tema del terrore quale componente ineliminabile del piacere prodotto dall’idea del sublime, assente dal trattato dello Pseudo-Longino e dagli scritti di Boileau, diventa un elemento chiave della concezione burkiana del sublime: “Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire”. Il sublime è, secondo Burke, un’idea capace di provocare una sensazione di diletto e sentimenti come lo stupore, “effetto del sublime nel suo più alto grado”, l’ammirazione, la riverenza e il rispetto. Presupposto perché si possa parlare di sublime è che il soggetto che prova questi sentimenti di stupore e terrore si trovi a una certa distanza dal pericolo, senza che sia messa concretamente a repentaglio la sua incolumità: “Quando il pericolo o il dolore incalzano troppo da vicino, non sono in grado di offrire alcun diletto e sono soltanto terribili; ma considerati a una certa distanza, e con alcune modificazioni, possono essere e sono dilettevoli” Il sublime, perché si possa considerarlo tale, deve quindi essere contemplato come uno spettacolo (“uno spettacolo di terrore o di dolore è sempre causa di sublime”) da un soggetto posto a una certa distanza ma capace di lasciarsi coinvolgere empaticamente nello spettacolo osservato: “proviamo un certo diletto, e non piccolo, nelle reali disgrazie e nei dolori degli altri”.

Antitetica rispetto all’idea del sublime è l’idea del bello, che secondo Burke non può essere definito, classicamente, come proporzione e armonia: l’ordine e la convenienza tra le parti sono infatti qualità colte dall’intelletto, là dove l’effetto della bellezza è molto più immediato e sensibile. La contemplazione di una proporzionalità armonica e funzionale suscita un’approvazione ben diversa dal piacere positivo provocato dalla visione della bellezza, la quale ha dunque un’origine sensibile. Se le passioni suscitate dal sublime erano il terrore, lo stupore e il rispetto - passioni relative alla tendenza di ogni individuo alla propria autopreservazione , quella suscitata dalla bellezza è invece l’amore, una passione eminentemente sociale, intersoggettiva, che nelle sue forme più intense diventa lussuria e ha per fine la procreazione, ma che può anche essere rivolta alla bellezza in generale. La scelta di un approccio empiristico allo studio delle idee del bello e del sublime conduce Burke, da un lato, a tentare di individuare con precisione tutte le qualità sensibili capaci di determinarle, e dall’altro a descrivere le modificazioni fisiologiche e fisiognomiche che esse determinano nel soggetto che le esperisce. All’origine dell’idea del sublime ci sarebbero quindi la contemplazione di spazi di ampie dimensioni (montagne, distese oceaniche, vaste pianure) e di una potenza “dove la nostra immaginazione si perde”, il sentimento dell’infinito, la privazione nelle sue diverse forme (il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio), il grandioso e l’eccessivo, così come determinati colori, sapori e suoni: la concezione burkiana del sublime non è infatti caratterizzata da un primato della visione, bensì si apre a considerazioni molto interessanti sulle altre dimensioni del senso, dal tatto all’udito e al gusto. Il bello, al contrario, nasce dalla visione di cose piccole e delicate, e dal contatto con tutto ciò che è liscio, levigato, sinuoso. Nel delineare i tratti fisiognomia che si accompagnano alle idee del bello e del sublime, infine, Burke si rifà a tutta una tradizione che alla riflessione psicologica sull’origine e sulla natura delle passioni aveva accostato osservazioni di carattere fisiologico e fisiognomia); l’esempio più noto è il trattato di Charles Le Brun (1619-1690) Sur l’expression générale et particulière (tradotto in inglese nel 1734 con il titolo A Method of Designing the Passions). In questo testo Le Brun, celebre pittore alla corte di Luigi XIV, riprendeva la classificazione delle passioni esposta da Cartesio nel trattato

Le passioni dell’anima per dare vita a una vera e propria tassonomia espressiva delle passioni così come esse si manifestano alterando il volto umano. Ricollegandosi a questa tradizione, Burke parla a sua volta delle manifestazioni somatiche che si accompagnano alle esperienze del sublime e del bello: “Un uomo che soffre un violento dolore fisico [...] ha i denti stretti, le sopracciglia fortemente contratte, la fronte corrugata, gli occhi incavati e roteanti affannosamente, i capelli irti; la voce è emessa a fatica in brevi grida e gemiti, tutto l’organismo è scosso. La paura o il terrore, che è un’apprensione del dolore o della morte, produce esattamente gli stessi effetti, che per violenza si avvicinano a quelli sopra menzionati, in proporzione alla vicinanza della causa e alla debolezza del soggetto [...]. Quando abbiamo dinnanzi oggetti capaci di suscitare amore e diletto, il corpo è impressionato, per quanto potei osservare, circa nel seguente modo: il capo si piega un po’ da un lato, le palpebre sono più socchiuse del solito, e gli occhi si muovono languidamente volgendosi all’oggetto; la bocca è semiaperta e il respiro è lento, inframmezzato di quando in quando da un profondo sospiro; tutto il corpo è rilassato, e le mani scendono inerti lungo i fianchi. Il tutto è accompagnato da un intimo senso di intenerimento e di languore”. Le pagine che seguono sono tratte da E. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, tr. it. a cura di G. Sertoli e G. Miglietta, Aesthetica, Palermo 1998 (sesta edizione riveduta): Parte prima, par. II, pp. 66-67; par. IV, pp. 6869; parr. VI-VII, pp. 71-72; par. XVIII, pp. 80-81; Parte seconda, par. I, p. 85; par. III, pp. 86-87; Parte terza, par. I, pp. 111-112; par. XII, p. 129; par. XVIII, p. 133; par. XXVII, p. 139; Parte quarta, par. V, p. 145. Per approfondire: AA.VV., Aesthetica Bina: Baumgarten e Burke, Aesthetica, Palermo 1986; J. Addison, I piaceri dell’immaginazione, tr. it. Aesthetica, Palermo 2002; Id., The Pleasures of the Imagination, a cura di G. Smith, London 1907; F. Binni, Gusto e invenzione nel Settecento inglese, Argalia, Urbino 1970; F. Caroli, Storia della fisiognomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud, Leonardo, Milano 1995; Cartesio, Le passioni dell’anima, in Opere filosofiche, tr. it. Laterza, Roma-Bari 19943 vol. IV, pp. 1121; A.A. Cooper, Earl of Shaftesbury, Saggi morali, tr. it. Laterza, Bari 1962;

J.-J. Courtine e C. Haroche, Storia del viso. Esprimere e tacere le emozioni (XVI-XIX secolo), tr. it. e nota di G. Marrone, Sellerio, Palermo 1992; G. Dickie, The Century of Taste: The Philosophical Odyssey of Taste in the Eighteenth Century, Oxford University Press, New York-Oxford 1996; L. Formigari, L'estetica del gusto nel Settecento inglese, Sansoni, Firenze 1962; Id., Studi sull’estetica dell’empirismo inglese, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1971; E. Franzini, L'estetica del Settecento, il Mulino, Bologna 20022; A. Gerard, Essay on Genius, a cura di B. Fabian, München 1966; Id., Essay on Taste, a cura di W.J. Hippie, Scholars Facsimiles & Reprints, Gainesville (Fla.) 1963; W.J. Hippie, The Beautiful, the Sublime and the Pictoresque in 18th Century British Aesthetic Theory, Southern Illinois University Press, 1957; D. Hume, La regola del gusto, tr. it. Minuziano, Milano 1946; Id., Saggi di estetica, tr. it. Pratiche, Parma 1994; E. Hutcheson, L'origine della bellezza, tr. it. Aesthetica, Palermo 1988; R.W. Jones, Gender and the Formation of Taste in Eighteenth Century Britain, Cambridge University Press, Cambridge 1998; Charles Le Brun, Le figure delle passioni. Conferenze sull’espressione e la fisionomia, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1992; G. Lombardo e F. Finocchiaro, Sublime antico e moderno. Una bibliografia, Aesthetica, Palermo 1993; P. Magli, Il volto e l’anima. Fisiognomica e passioni, Bompiani, Milano 1995; S.H. Monk, The Sublime. A Study of Critical Theories in the 18th Century, University of Michigan Press, Ann Arbor 1960; M.M. Rossi (a cura di), L'estetica dell’empirismo inglese, Sansoni, Firenze 1944.

Dolore e piacere

Sembra quindi necessario che, per eccitare le passioni delle persone già adulte, gli oggetti destinati a tale scopo, oltre ad essere in certo grado nuovi, debbano essere capaci di suscitare dolore o piacere per altre cause. Il dolore e il piacere sono idee semplici, non suscettibili di definizione. La gente non è soggetta a sbagliarsi nei suoi sentimenti, ma sbaglia molto spesso nei nomi che dà loro e nel ragionare intorno ad essi. Molti sonò dell’opinione che il

dolore nasca di necessità dall’allontanamento di un piacere, poiché ritengono che il piacere sorga dalla cessazione o diminuzione di un dolore. Da parte mia, sono piuttosto propenso a ritenere che il dolore e il piacere, nel loro più semplice e naturale modo di impressionare, abbiano ciascuno una natura positiva, e non debbano affatto dipendere l’uno dall’altro. La mente umana è spesso, e credo che lo sia per la maggior parte del tempo, in uno stato non di dolore e non di piacere, che chiamo stato di indifferenza. Quando passo da questo stato di indifferenza a uno stato di piacere effettivo, non sembra necessario che debba passare attraverso uno stato intermedio di dolore. Se in tale stato di indifferenza, di quiete, di tranquillità, chiamatela come volete, voi doveste essere improvvisamente rallegrati da un concerto di musica, o supponiamo che un oggetto di belle forme o di colori vivamente brillanti dovesse apparirvi dinnanzi, o immaginate che il vostro odorato fosse deliziato dalla fragranza di una rosa, o che, senza aver sete, voi doveste assaggiare un buon vino, o gustare dei dolci senza essere affamati, in tutti i diversi sensi dell’udito, dell’odorato e del gusto senza dubbio trovereste un piacere. Pure se indagassi in che stato fosse la vostra mente prima di questi piaceri, ben difficilmente mi direste che si trovava in uno stato di dolore; o, dopo aver soddisfatto questi diversi sensi con diversi piaceri, direste che sia poi subentrato un dolore, sebbene il piacere sia del tutto finito? Supponete d’altro canto che qualcuno, trovandosi in questo stato di indifferenza, riceva un colpo violento o beva una bevanda amara o che il suo orecchio venga colpito da un suono aspro e stridente; in tutti questi casi non v’è una scomparsa di piacere, eppure si avverte, in ogni senso colpito, un dolore molto ben riconoscibile. Si potrebbe forse dire che il dolore in tal caso traeva la sua origine dalla scomparsa del piacere, di cui prima si godeva, sebbene questo piacere fosse così poco vivo da essere percepito solo nel momento in cui è scomparso. Ma tale sottigliezza non mi sembra riscontrabile in natura. Poiché, se prima del dolore io non sento alcun piacere effettivo, non ho ragione di ritenere che tale piacere esista, dal momento che il piacere è tale solo quando è percepito. Analogamente, e con ragione, si può dire avvenga del dolore. Non posso convincermi che piacere e dolore siano semplici relazioni che possono esistere solo come contrari, ma ritengo di poter chiaramente distinguere l’esistenza di dolori e piaceri positivi, del tutto indipendenti l’uno dall’altro. Nessuna percezione è per me più certa di questa. Non v’è

nulla che appaia al mio pensiero più chiaro dei tre stati di indifferenza, di piacere e di dolore. Posso percepirne ciascuno senza avere alcuna idea della sua relazione con gli altri due. Se uno, dolorante per una colica, per cui prova un dolore reale, viene steso sulla ruota di tortura, sentirà un dolore molto maggiore; ma questo dolore determinato dalla ruota deriva forse dalla scomparsa di un piacere? L’attacco di colica può essere un piacere o un dolore, a seconda di come ci piace considerarlo? [...] Diletto e piacere come opposti l’uno all’altro

Ma diremo allora che la scomparsa del dolore o la sua diminuzione sia sempre semplicemente dolorosa? O affermeremo che la cessazione o la diminuzione del piacere sia sempre accompagnata da un piacere? Niente affatto. Ciò che intendo stabilire non è altro che questo: in primo luogo, che vi sono piaceri e dolori di una natura positiva e indipendente; in secondo luogo, che il sentimento proveniente dalla cessazione o diminuzione del dolore non rassomiglia a un piacere positivo abbastanza da essere considerato della medesima natura o indicato col medesimo nome; in terzo luogo, che in base allo stesso principio la scomparsa o l’interruzione di un piacere non ha somiglianza alcuna con un dolore positivo. È certo che la prima sensazione (la scomparsa o la diminuzione del dolore) ha in sé qualcosa che è lontano dall’essere penoso o sgradevole per sua natura. Questa sensazione, sovente così diversa da un piacere positivo, non ha nome, ch’io sappia; ma ciò non vieta che sia veramente reale e molto diversa da tutte le altre. (È certo che ogni specie di soddisfazione o di piacere, per quanto diversi siano nel loro modo di impressionare, è di natura positiva nell’animo di chi la prova. L’affezione è senza dubbio positiva; ma la causa può essere, come in questo caso è senz’altro, una specie di privazione. Ed è logico che distinguiamo con termini diversi due cose così distinte in natura, come un piacere che sia semplicemente tale, senza relazione alcuna, e quel piacere che non può esistere senza una relazione, e, tanto più, senza la relazione col dolore. Sarebbe molto strano che queste impressioni, così diverse nelle loro cause e nei loro effetti, dovessero essere confuse l’una con l’altra, perché l’uso comune le ha riunite sotto la stessa denominazione generica.) Ogni volta che ho occasione di parlare di questa specie di piacere relativo, lo chiamo diletto (delight); e cercherò con

la massima attenzione di non usare questa parola in altri significati. Riconosco che tale parola non è comunemente usata in questo senso; ma ho ritenuto preferibile adottare una parola ben nota e limitare il suo significato piuttosto che introdurne una nuova, che forse non potrebbe entrare con altrettanta facilità nella lingua. Non avrei mai osato fare la benché minima alterazione nelle nostre parole, se la natura della lingua, creata per l’uso degli affari piuttosto che per l’uso della filosofia, e la natura del mio soggetto, che mi trae fuori dalla comune direttiva del discorso, non mi vi obbligasse, in un certo senso. Farò uso di questa libertà con la massima prudenza possibile. Come uso la parola diletto per esprimere la sensazione che accompagna la scomparsa del dolore o del pericolo, così quando parlerò di un piacere positivo lo chiamerò per lo più semplicemente piacere. Le passioni che appartengono all’autopreservazione

La maggior parte delle idee capaci di produrre una forte impressione sulla mente, siano esse semplicemente idee di dolore o di piacere, o idee delle modificazioni di questi, può essere ridotta con una certa approssimazione a questi due punti principali, l’autopreservazione e la società; ai fini dell’una o dell’altra delle quali si calcola rispondano tutte le nostre passioni. Le passioni che riguardano l’autopreservazione si riferiscono per lo più al dolore o al pericolo. Le idee di dolore, malattia, morte, riempiono la mente di forti emozioni di orrore; ma le idee di vita e di salute, sebbene ci mettano in grado di provare piacere, non producono col semplice godimento altrettanta impressione. Le passioni quindi che riguardano la preservazione dell’individuo si riferiscono principalmente al dolore o al pericolo e sono le più forti di tutte le passioni. Il sublime

Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. (Dico l’emozione più forte, perché sono convinto che le idee di dolore sono molto più forti di quelle che riguardano il piacere. Senza dubbio i tormenti che siamo capaci di

sopportare sono molto più forti, nei loro effetti sul corpo e sulla mente, che non qualsiasi piacere che il più raffinato epicureo possa suggerire, o che la più viva immaginazione e il corpo più sano e più squisitamente sensibile possa godere. Anzi, io dubito assai che si possa trovare un uomo disposto ad accettare una vita piena di ogni soddisfazione al prezzo di terminarla poi nei tormenti che la giustizia inflisse in poche ore all’ultimo sfortunato regicida in Francia.1 Ma come il dolore, nella sua azione, è più forte del piacere, così la morte è in generale un’idea molto più impressionante del dolore; poiché vi sono pochissimi dolori, per quanto intensi, che non siano preferibili alla morte; anzi ciò che rende lo stesso dolore più doloroso, se così posso esprimermi, è il fatto che esso venga considerato come un emissario di questa regina dei terrori.) Quando il pericolo o il dolore incalzano troppo da vicino, non sono in grado di offrire alcun diletto e sono soltanto terribili; ma considerati a una certa distanza, e con alcune modificazioni, possono essere e sono dilettevoli, come riscontriamo ogni giorno. In seguito mi proverò a ricercare la causa di tale fatto. [...] Ricapitolazione

Per riassumere ciò che è stato detto in pochi punti distinti, le passioni pertinenti all’autopreservazione riguardano il dolore e il pericolo; esse sono penose quando le loro cause ci colpiscono direttamente; sono invece dilettevoli quando abbiamo un’idea del dolore e del pericolo senza trovarci a contatto con essi; questo diletto non l’ho chiamato piacere perché attiene al dolore e perché è abbastanza diverso da un’idea di piacere positivo. Tutto ciò che suscita tale diletto lo chiamo sublime. Le passioni che appartengono all’autopreservazione sono le più forti di tutte. Il secondo punto al quale le passioni si riferiscono in relazione alla loro causa finale è la società. Vi sono due tipi di società: la prima è la società del sesso. La passione che la riguarda si chiama amore e ha in sé un elemento di lussuria; il suo oggetto è la bellezza femminile. L’altra è la vasta società fra l’uomo e tutti gli altri animali: la passione di cui essa si serve si chiama ugualmente amore, ma non è mista di lussuria e il suo oggetto è la bellezza; questo è il nome che io applicherò a tutte quelle qualità nelle cose tali

da destare in noi un senso di affetto e di tenerezza o qualche altra passione che a queste si avvicini. La passione dell’amore ha la sua origine nel piacere positivo; essa è, come tutte le cose che nascono dal piacere, soggetta ad essere unita ad una forma di inquietudine, il che si verifica quando un’idea del suo oggetto è eccitata nella mente contemporaneamente all’idea di averlo irrimediabilmente perduto. Questo sentimento misto di piacere non l’ho chiamato dolore, perché riguarda il piacere reale, e perché è, sia nelle sue cause che nella maggior parte dei suoi effetti, di una natura affatto diversa. Subito dopo il sentimento comune che proviamo nell’unione con l’oggetto, alla cui scelta siamo guidati dal piacere, il posto più importante è occupato da quella passione particolare chiamata simpatia. La natura di questa passione è tale che noi ci mettiamo al posto di un altro in qualunque circostanza egli si trovi e proviamo le sue stesse emozioni. Cosicché una tal passione può, secondo richiede l’occasione, riguardare il dolore o il piacere, con le modificazioni però ricordate nella sezione XI. Riguardo all’imitazione e alla preferenza, non occorre dire nulla di più. [...] La passione causata dal sublime

La passione causata da ciò che è grande e sublime in natura, quando le cause operano con il loro maggiore potere, è lo stupore; e lo stupore è quello stato d’animo in cui, ogni moto sospeso, regna un certo grado di orrore. In questo caso la mente è così assorta nel suo oggetto che non può pensarne un altro, e per conseguenza non può ragionare sull’oggetto che la occupa. Di qui nasce il grande potere del sublime, che, lungi dall’essere prodotto dai nostri ragionamenti, li previene e ci spinge innanzi con una forza irresistibile. Lo stupore, come ho detto, è l’effetto del sublime nel suo più alto grado; gli effetti inferiori sono l’ammirazione, la riverenza e il rispetto. L’oscurità

Per rendere un oggetto molto terribile, sembra in generale necessaria l’oscurità. Quando conosciamo l’intera estensione di un pericolo, quando possiamo ad essa abituare il nostro sguardo, gran parte del timore svanisce.

Comprenderà ciò chi consideri quanto la notte aumenti il nostro terrore in tutti i casi di pericolo, e come le nozioni di fantasmi e folletti, sui quali nessuno può formulare idee chiare, impressionino gli animi che credono alle favole popolari circa tali specie di esseri. Quei governi dispotici che si basano sulle passioni degli uomini, e principalmente sulla paura, sottraggono il più possibile i loro capi alla vista della moltitudine. La linea di condotta è stata la stessa in molti casi in cui si trattava di religione. Quasi tutti i templi pagani erano oscuri; anche nei templi barbari degli Americani del giorno d’oggi si conserva l’idolo in una parte oscura della capanna, consacrata al culto. Per tale motivo anche i Druidi compivano tutte le loro cerimonie nel cuore di oscurissimi boschi e all’ombra delle querce più annose e più maestose per ampiezza. Nessuno meglio di Milton sembra aver compreso il segreto di dar risalto a cose terribili o di porle, se così posso esprimermi, nella luce più viva, circondandole con una sapiente oscurità. La sua descrizione della Morte, nel secondo libro, è studiata in modo ammirevole, ed è sorprendente con quale tetro fasto, con quale significativa ed espressiva incertezza di tocchi e di colori egli abbia delineato il ritratto del re del terrore: The other shape, If shape it might be called that shape had none Distinguishable, in member, joint, or limb; Or substance might be called that shadow seemed, For each seemed either, black he stood as night; Fierce as ten furies, terrible as hell; And shook a deadly dart. What seemed his head The likeness of a kingly crown had on.2

In questa descrizione tutto è oscuro, incerto, confuso, terribile e sublime al massimo grado. [...] La bellezza

È mia intenzione considerare la bellezza distinta dal sublime ed esaminare nel corso della ricerca quale connessione abbia con esso. Ma prima di ciò dobbiamo fare una breve rassegna delle opinioni comuni riguardo a questa qualità; opinioni che penso possano difficilmente essere

ridotte a princìpi fissi, poiché gli uomini sono abituati a parlare della bellezza in un modo figurato, cioè in un modo estremamente incerto e indeterminato. Per bellezza intendo quella qualità o quelle qualità dei corpi, per cui essi destano amore o qualche passione simile ad esso. (Limito questa definizione alle qualità puramente sensibili delle cose, allo scopo di conservare la massima semplicità in un soggetto che può sempre distrarci ogniqualvolta prendiamo in esame quelle varie cause di simpatia che ci legano ad alcune persone o cose, in base a considerazioni secondarie e non per la forza diretta che esse esercitano semplicemente quando sono viste. Parimenti distinguo l’amore, col quale intendo quella soddisfazione che deriva all’animo dal contemplare qualcosa di bello, di qualsiasi natura esso sia, dal desiderio o dalla lussuria; la quale è un’attività dello spirito che ci spinge al possesso di certi oggetti, che non ci colpiscono perché sono belli, ma con mezzi del tutto diversi. Avremo un forte desiderio per una donna di scarsa bellezza, mentre una grandissima bellezza sia negli uomini, sia in altri animali, sebbene generi amore, non suscita affatto alcun desiderio. Il che mostra che la bellezza e la passione causata dalla bellezza, che chiamo amore, è diversa dal desiderio, sebbene il desiderio possa talvolta operare accanto ad essa. Ma è a quest’ultimo che dobbiamo attribuire quelle violente e tempestose passioni e le conseguenti emozioni del corpo che accompagnano quello che è chiamato amore nel suo significato comune, e non agli effetti della bellezza puramente come tale.) [...] La causa reale della bellezza

Dopo aver cercato di mostrare quello che la bellezza non è, ci rimane da esaminare, almeno con la stessa attenzione, in che cosa essa realmente consista. La bellezza è una cosa troppo impressionante per non dipendere da qualità positive. E poiché essa non è un prodotto della nostra ragione, poiché ci colpisce senza alcun riferimento all’utilità ed anche quando nessuna utilità è visibile, dal momento che la legge e il metodo della natura sono generalmente molto diversi dalle nostre misure e proporzioni, dobbiamo concludere che la bellezza è, per la maggior parte, una qualità dei corpi che agisce meccanicamente sulla mente umana attraverso i sensi.

Dobbiamo perciò considerare attentamente in qual modo queste qualità sensibili siano disposte in cose che per esperienza troviamo belle, o che suscitano in noi il sentimento dell’amore o un altro corrispondente affetto. [...] Ricapitolazione

In complesso le qualità della bellezza, come quelle che sono qualità puramente sensibili, sono le seguenti: la prima, l’essere relativamente piccoli; la seconda, l’essere lisci; la terza, l’avere una varietà nella direzione delle parti; ma, in quarto luogo, l’avere quelle parti non angolose, bensì fuse per così dire l’una nell’altra. In quinto luogo, l’essere di forma delicata, senza notevole apparenza di forza. In sesto luogo, avere colori chiari e luminosi, ma non troppo forti e squillanti. In settimo luogo, qualora dovesse esserci un colore squillante, smorzarlo mediante l’accostamento d’altri colori. Queste sono, credo, le proprietà dalle quali dipende la bellezza; proprietà che operano per natura, e sono meno soggette d’ogni altra ad essere alterate dal capriccio o confuse dalla diversità dei gusti. [...] Confronto tra il sublime e il bello

Nel chiudere questa visione d’insieme della bellezza sorge naturale l’idea di paragonarla col sublime, e in questo paragone appare notevole il contrasto. Gli oggetti sublimi sono infatti vasti nelle loro dimensioni, e quelli belli al confronto sono piccoli; se la bellezza deve essere liscia e levigata, la grandiosità è ruvida e trascurata; la bellezza deve evitare la linea retta, ma deviare da essa insensibilmente; la grandiosità in molti casi ama la linea retta, e quando se ne allontana compie spesso una forte deviazione; la bellezza non deve essere oscura, la grandiosità deve essere tetra e tenebrosa; la bellezza deve essere leggera e delicata, la grandiosità solida e perfino massiccia. Il bello e il sublime sono davvero idee di natura diversa, essendo l’uno fondato sul dolore e l’altro sul piacere, e per quanto possano scostarsi in seguito dalla diretta natura delle loro cause, pure queste cause sono sempre distinte fra loro, distinzione che non

deve mai dimenticare chi si proponga di suscitare passioni. [...] Come si produce il sublime

Dopo aver considerato il terrore come la causa di una tensione anormale e di violente emozioni dei nervi, segue facilmente, da ciò che ora abbiamo detto, che tutto ciò che è atto a produrre una tale tensione, deve produrre una passione simile al terrore, e per conseguenza deve essere una fonte di sublime, pur non essendo connesso con alcuna idea di pericolo. Cosicché rimane ben poco per mettere in evidenza la causa del sublime, tranne che mostrare che gli esempi che di esso abbiamo dato nella seconda parte si riferiscono a cose per natura adatte a produrre questa specie di tensione, per un influsso immediato sull’animo o sul corpo. Riguardo alle cose che impressionano per essere connesse con un’idea di pericolo, non c’è dubbio che esse producono terrore e agiscono modificando quella passione; e non si può neppure dubitare che il terrore, quando sia sufficientemente violento, desti le suddette emozioni del corpo. Ma se il sublime si basa sul terrore, o su qualche passione simile che causa dolore per il suo oggetto, bisogna innanzi tutto indagare come una qualunque specie di diletto possa derivare da una causa così apparentemente ad esso contraria. Dico diletto perché, come sovente ho notato, esso è evidentemente molto diverso, sia nella sua causa, sia nella sua natura, dal piacere reale e positivo.

NOTE 1 Robert Francis Damiens (1714-1757) attentò alla vita di Luigi XV il 5 gennaio 1757 e fu squartato, dopo atroci torture, il 28 marzo. 2 John Milton, Paradise lost, il, 666-673. Citazione alterata.

Charles Batteux Le belle arti: imitazione ed espressione

Con il trattato Le Belle Arti ricondotte ad un unico principio (Les BeauxArts réduits à un même principe, 1746) Charles Batteux (1713-1780) propone un’ipotesi di sistemazione del campo delle arti e delle facoltà soggettive a esse connesse, il genio e il gusto, destinato ad avere notevoli ripercussioni sull’estetica settecentesca. Sebbene il testo di Batteux costituisca uno dei primi tentativi di delineare un vero e proprio “sistema delle arti”, il problema della definizione di ciò che è “arte” e della classificazione delle diverse arti in base ai loro princìpi e ai loro mezzi specifici non nasce nel Settecento. Nell’Antichità con i termini techne e ars si designava un’abilità produttiva, una capacità tecnica riconducibile a regole dettate dallo studio e dall’esperienza, in modo tale che l’insieme delle arti comprendeva una sfera assai ampia di attività poietico-imitative, di cui facevano parte la pittura e la scultura ma anche le diverse forme della produzione artigianale. La distinzione tra “arti meccaniche” e “arti liberali” si afferma solo successivamente: nel De nuptiis Philologiae et Mercurii, Marziano Capella (V secolo d.C.) individua sette arti liberali, che saranno in seguito suddivise nei due gruppi del trivium (grammatica, retorica, dialettica) e del quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica). Durante il Rinascimento, i frequenti scritti sul tema del paragone delle arti nei quali, come nel Trattato della pittura di Leonardo, vengono messe a confronto pittura, poesia e scultura - sono l’indice del tentativo di elevare arti ritenute prevalentemente manuali, come pittura e scultura, al rango di arti intellettuali come la poesia. Solo con l’estetica settecentesca, però, si afferma la distinzione netta fra arti pratiche e “belle arti”, e la riflessione su queste ultime si sviluppa all’interno di un campo teorico in cui confluiscono i temi della bellezza e del piacere, della sensibilità e dell’immaginazione, del

genio e del gusto. Il punto d’avvio della riflessione di Batteux è la constatazione della necessità di una semplificazione e di una sistematizzazione del discorso relativo alle belle arti, al fine di comprenderne più chiaramente la posizione autonoma e il valore conoscitivo all’interno del complesso della cultura. Le arti, secondo Batteux, possono essere suddivise in arti meccaniche, che hanno per oggetto “i bisogni dell’uomo”, arti belle, che hanno per oggetto “il piacere” e sono nate “in seno alla gioia e ai sentimenti che producono l’abbondanza e la tranquillità”, e infine arti “che hanno per oggetto l’utilità e la piacevolezza insieme”; al primo gruppo appartengono tutte le attività meccaniche e artigianali, al secondo, quello delle belle arti, appartengono musica, poesia, pittura, scultura e danza, mentre al terzo gruppo appartengono l’eloquenza e l’architettura. Il principio a cui può essere ricondotto l’insieme delle belle arti è quello dell'imitazione, intesa aristotelicamente come produzione di verosimiglianza, anche se poi nel testo di Batteux il concetto di imitazione viene via via assumendo un significato originale. Inizialmente, Batteux sostiene che l’arte è imitazione nel senso di copia di un modello: “Imitare è copiare un modello. Questo termine contiene due idee. 1) Il prototipo che porta i tratti che si vogliono imitare. 2) La copia che li rappresenta”. Ciò che deve essere imitato non è però solo ciò che in effetti è, ma anche ciò che “noi concepiamo agevolmente come possibile”, in modo tale che le arti “non sono che imitazioni, rassomiglianze che non sono la natura ma che sembrano esserlo; e così la materia delle belle arti non è il vero, ma soltanto il verosimile”. L’imitazione della natura operata dall’arte deve dunque essere un’imitazione selettiva e idealizzante, tale che ciò che viene rappresentato è “la natura non come essa è in se stessa, ma quale potrebbe essere concepita mediante lo spirito”, così come fece il pittore antico Zeusi il quale, dopo aver radunato “i tratti separati di molte bellezze esistenti, si formò nello spirito un’idea artificiale che risultava da tutti quei tratti riuniti: e questa idea fu il prototipo o il modello del suo quadro, che fu verosimile e poetico nella sua totalità e non fu vero e storico che nelle sue parti prese separatamente”. L’imitazione proposta da Batteux come principio unificante del campo delle belle arti non deve dunque essere intesa come copia statica e passiva di un modello, bensì come invenzione verosimile di una natura ideale: essa è “imitazione della bella natura", la

quale “non è il vero che è, ma il vero che potrebbe essere, il bel vero, che è rappresentato come se esistesse realmente e con tutte le perfezioni che può ricevere”. Nel trattato di Batteux il concetto di “imitazione della bella natura” si precisa gradualmente attraverso un altro termine che assumerà un’importanza centrale nell’estetica settecentesca: il concetto di espressione. Dopo aver distinto i diversi mezzi impiegati dalle varie arti per imitare la natura, Batteux fa un passo indietro ed elenca i tre mezzi di cui gli uomini dispongono “per esprimere le loro idee e i loro sentimenti: la parola, il tono della voce, il gesto”, forme espressive di cui la natura ha dotato l’uomo e di cui l’arte deve avvalersi plasmandole e indirizzandole verso i propri fini: “Le espressioni, in generale, non sono in se stesse né naturali, né artificiali: non sono che dei segni. Che le impieghi l’arte o la natura, che siano legate alla realtà o alla finzione, alla verità o alla menzogna, esse cambiano di qualità, ma senza cambiare di natura né di stato. Le parole sono le stesse nella conversazione e nella poesia, i tratti e i colori negli oggetti naturali e nei quadri: di conseguenza i toni e i gesti devono essere gli stessi nelle passioni, sia reali, sia favolose. L’arte non crea le espressioni né le distrugge: le regola solamente, le fortifica e le raffina. E come non può uscire dalla natura per creare le cose, non può maggiormente uscirne per esprimerle”. Nel corso della storia della riflessione sulle arti, il concetto di “imitazione” ha subito diverse interpretazioni: da riproduzione irriflessa della natura a rappresentazione del possibile e dell’universale, da imitazione di modelli antichi a composizione idealizzante di elementi scelti, sottolineandone di volta in volta le potenzialità veritative o illusorie. In questo contesto, il concetto di imitazione della bella natura proposto da Batteux quale principio unificatore delle belle arti deve essere inteso come espressione di passioni e sentimenti da parte di un soggetto la cui attività è riconducibile a due facoltà correlate: il genio, inteso come capacità di creare plasmando le espressioni naturali e conoscendone le specificità linguisticoespressive, e il gusto, facoltà di giudicare i prodotti del genio. L’esercizio del gusto, “facilità di sentire il buono, il cattivo, il mediocre, e di distinguerli con certezza”, si fonda su basi naturali: si tratta infatti di un “sentimento” capace di cogliere quella “proporzione naturale” che vige tra la nostra anima e gli oggetti in cui si manifestano bellezza e bontà. Inizialmente destinato a giudicare delle cose naturali in rapporto ai nostri piaceri e ai nostri bisogni,

il gusto è poi diventato giudice di quel “secondo ordine di bisogni” che sono il diletto e il piacere suscitati dalle arti imitative. Così come il genio, esso è “una facoltà naturale che non può avere per soggetto legittimo che la natura stessa o ciò che le assomiglia”. L’originalità del trattato di Batteux risiede, da un lato, nell’aver ordinato in un unico quadro teoricamente autonomo arti diverse quali musica, poesia, pittura, scultura e danza; e dall’altro, nell’aver individuato nell'espressione la funzione dell’arte in quanto capacità del soggetto di oggettivare in opere sentimenti e passioni, secondo i dettami naturali del gusto e del genio. Un’analoga concezione del potere espressivo dell’arte si ritrova in Denis Diderot (1713-1784), che nella Lettera sui sordomuti paragona i prodotti di arti come poesia, musica e pittura a “geroglifici” espressivi con cui il genio dà forma alla propria capacità sintetica di penetrare nella dimensione dinamica e organica della natura. In entrambi gli autori l’imitazione è dunque espressione e interpretazione, e non mera riproduzione del dato naturale. L’obiettivo di Diderot individuare i “geroglifici particolari” di “ogni arte d’imitazione” - sarà poi ripreso da Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) nel Laocoonte (1766), dove si contesta apertamente il tentativo di Batteux di ricondurre tutte le belle arti a un solo principio. Secondo Lessing, anziché sottolineare l’unità delle arti riconfermando così l’antica tesi dell’analogia tra pittura e poesia (l’oraziano ut pictura poesis), è necessario distinguere nettamente le diverse modalità espressive e i diversi oggetti a cui le arti si riferiscono. Nel caso della pittura e della poesia questa distinzione assume la forma di una vera e propria opposizione; come scrive Lessing, “oggetti che esistono l’uno accanto all’altro, o le cui parti esistono l’una accanto all’altra, si chiamano corpi. Di conseguenza, sono i corpi, con le loro qualità visibili, i vari oggetti della pittura. Oggetti che si susseguono l’un l’altro, o le cui parti si susseguono, si chiamano in generale azioni. Di conseguenza le azioni sono i veri oggetti della poesia”. Al di sotto del comune riferimento al principio dell’espressione, si delinea così in Lessing una separazione tra arti spaziali e arti temporali, arti della simultaneità e arti della sequenzialità, che avrà una lunga risonanza nella successiva storia dell’estetica. Le pagine che seguono sono tratte da Ch. Batteux, Le Belle Arti ricondotte a unico principio, tr. it. a cura di E. Migliorini, Aesthetica, Palermo

1992: Parte prima, parr. I-III (pp. 35-42); Parte seconda, par. I (pp. 51-53), par. IV (p. 59); Parte terza, Sezione terza, parr. I-II (pp. 119-121). Di Batteux si veda anche: Lettere sulla frase francese paragonata con la frase latina, introduzione, tr. it. e note a cura di E Bollino, Mucchi, Modena 1984. Per approfondire: A. Becq, Genèse de l’esthétique française moderne. De la raison classique à l’imagination créatrice, A. Michel, Paris 1994; F. Bollino, “Teoria e sistema delle Belle Arti. Batteux e gli esthéticiens del sec. XVIII”, in Studi di estetica, 1976; J. Chouillet, L'esthétique des Lumières, PUF, Paris 1974; D. Diderot, Lettera sui sordomuti e altri scritti sulla natura e sul bello, con un saggio di M. Butor, tr. it. Guanda, Milano 1984; Id., Pensieri sparsi sulla pittura, la scultura e la poesia, tr. it. Centro internazionale studi di estetica, Palermo 1992; Id., Scritti di estetica, tr. it. Feltrinelli, Milano 1957; Id., Trattato sul hello, tr. it. SE, Milano 1995; J.-B. Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e la pittura, tr. it. Guerini, Milano 1990; E. Fubini, Gli Enciclopedisti e la musica, Principato, Torino 1969; P.O. Kristeller, Il sistema moderno delle arti, tr. it. Alinea, Firenze 1977; L'estetica dell’Encyclopédie. Guida alla lettura, a cura di M. Modica, Editori Riuniti, Roma 1988; E. Migliorini, Studi sul pensiero estetico del Settecento. Crousaz, Du Bos, André, Batteux, Diderot, Il Fiorino, Firenze 1966; M, Modica, Il sistema delle arti. Batteux e Diderot, Aesthetica, Palermo 1987; J.-J. Rousseau, Lettera sugli spettacoli, tr. it. Aesthetica, Palermo 1995; I. Torrigiani, Lo specchio dei sistemi. Batteux e Condillac, Aesthetica, Palermo 1984.

Dove si fonda la natura delle arti mediante quella del genio che le produce

C’è poco ordine nel modo di trattare le belle arti. Giudichiamone attraverso la poesia. Si crede di darne delle idee giuste dicendo che essa abbraccia tutte le arti: è, si dice, un composto di pittura, di musica e di eloquenza. Come l’eloquenza, essa parla: reca prove, racconta. Come la musica ha una andatura regolata, dei toni, delle cadenze la cui mescolanza forma una specie di concerto. Come la pittura, disegna gli oggetti: vi sparge i colori, vi

diffonde tutte le sfumature della natura; in breve, essa fa uso dei colori e del pennello, impiega la melodia e gli accordi, mostra la verità e la fa amare. La poesia abbraccia ogni specie di materia: si impossessa di ciò che di più brillante v’è nella storia, entra nei campi della filosofia, si slancia nei cieli per ammirarvi il cammino degli astri, si sprofonda negli abissi per esaminarvi i segreti della natura, penetra fin presso i morti per vedere le ricompense dei giusti e i supplizi degli empi: comprende tutto l’universo. Se questo mondo non le basta, crea dei mondi nuovi che abbellisce di dimore incantate e popola di mille abitanti diversi. Lì, essa forma gli esseri a suo piacimento: non genera niente che sia perfetto, arricchisce tutti i prodotti della natura: è una specie di magia, illude gli occhi, l’immaginazione, lo spirito stesso, allo scopo di procurare agli uomini dei piaceri reali, per mezzo di invenzioni chimeriche. È così che la maggior parte degli autori ha parlato della poesia. Essi hanno parlato pressapoco nella stessa maniera intorno alle altre arti. Pieni del merito di coloro ai quali si erano affidati, ci hanno dato delle descrizioni pompose, in luogo di una sola definizione precisa che si chiedeva loro. Dove si sono adoperati per definirla, poiché la natura ne è per se stessa molto complicata, hanno preso qualche volta l’accessorio per l’essenziale e l’essenziale per l’accessorio. Talvolta, trascinati da un certo loro interesse di autori, hanno approfittato dell’oscurità della materia e ci hanno dato delle idee formate sul modello delle proprie opere. Non ci soffermeremo qui a confutare le differenti opinioni sull’essenza delle arti, e soprattutto della poesia: cominceremo con lo stabilire il nostro principio e quando esso risulterà ben fondato, le prove che l’avranno stabilito diventeranno la confutazione delle altre opinioni. I. Divisione e origine delle arti

Non è necessario qui cominciare con l’elogio delle arti in generale. Le loro opere si annunciano bene da sole: tutto l’universo ne è ricco. Sono esse che hanno costruito le città, che hanno congiunto gli uomini separati, che li hanno civilizzati, addolciti, resi capaci di vivere in società. Destinate le une a servirci, le altre a incantarci, alcune a fare l’uno e l’altro insieme, sono divenute per noi, in qualche maniera, un secondo ordine di elementi, di cui la Natura aveva riservato la creazione alla nostra industriosità.

Si può dividerle in tre specie in rapporto ai fini che si propongono. Le une hanno per oggetto i bisogni dell’uomo, che la natura sembra abbandonare a se stesso dal momento in cui nasce: esposto al freddo, alla fame, a mille mali, essa ha voluto che i rimedi e le protezioni che gli sono necessari fossero il premio della sua industriosità e del suo lavoro. Da ciò sono nate le arti meccaniche. Le altre hanno per oggetto il piacere. Queste non sono potute nascere che in seno alla gioia e ai sentimenti che producono l’abbondanza e la tranquillità: si chiamano le belle arti per eccellenza. Tali sono la musica, la poesia, la pittura, la scultura e l’arte del gesto o danza. La terza specie contiene le arti che hanno per oggetto l’utilità e la piacevolezza insieme: sono l’eloquenza e l’architettura. Il bisogno le ha fatte fiorire e il gusto le ha perfezionate, esse stanno, in qualche modo, in mezzo alle altre due specie, spartendone la piacevolezza e l’utilità. Le arti della prima specie impiegano la natura così com’è unicamente per l’uso. Quelle della terza la impiegano ingentilendola per l’uso e per il diletto. Le belle arti non la impiegano affatto, non fanno che imitarla, ciascuna alla sua maniera (questo ha bisogno di essere spiegato; lo sarà nel capitolo seguente). Così, soltanto la natura è l’oggetto di tutte le arti. Comprende tutti i nostri bisogni e tutti i nostri piaceri; e le arti meccaniche e liberali non sono fatte che per trarli da essa. Qui non parleremo che delle belle arti, vale a dire, di quelle il cui primo compito è piacere; e per conoscerle meglio risaliamo alla causa che le ha prodotte. Sono gli uomini che hanno fatto le arti; ed è per se stessi che le hanno fatte. Annoiati da una contentezza troppo uniforme per gli oggetti che offriva loro la natura, semplicemente, trovandosi in una situazione atta a ricevere il piacere, ricorsero al proprio genio per procurarsi un nuovo ordine di idee e di sentimenti che risvegliasse il loro spirito e rianimasse il loro gusto. Ma che poteva fare questo genio limitato nella sua fecondità e nelle sue prospettive che non poteva condurre oltre nei confronti della natura? E avendo d’altra parte da lavorare per degli uomini le cui facoltà erano racchiuse negli stessi confini? Tutti i suoi sforzi dovettero necessariamente ridursi a fare una scelta delle più belle parti della natura per formarne un tutto squisito, che fosse più perfetto della natura stessa, senza tuttavia cessare di essere naturale. Ecco il principio sul quale si è

dovuto necessariamente appoggiare il piano fondamentale delle arti, che i grandi artisti hanno seguito in tutti i secoli. Da qui concludo. In primo luogo, che il genio, che è il padre delle arti, deve imitare la natura. Secondariamente, che egli non deve affatto imitarla tale e quale essa è. Terzo, che il gusto, per il quale le arti sono fatte e che ne è il giudice, deve essere soddisfatto quando la natura è ben scelta e ben imitata dalle arti. Così, tutte le nostre prove devono tendere a stabilire l’imitazione della bella natura 1) mediante la natura e la condotta del genio che le produce, 2) mediante quella del gusto che ne è l’arbitro. Questa è la materia delle due prime parti. Ne aggiungeremo una terza dove si applicherà il principio alle differenti specie delle arti, alla poesia, alla pittura, alla musica e alla danza. II. Il genio non ha potuto produrre le arti che mediante l'imitazione: che cosa significa imitare

Lo spirito umano non può creare che in maniera impropria: tutte le sue produzioni portano l’impronta di un modello. Gli stessi mostri che un’immaginazione sregolata si figura nei suoi deliri, possono essere composti soltanto di parti prese dalla natura. E se il genio, per capriccio, fa di queste parti un insieme contrario alle leggi naturali, degradando così la natura, egli degrada se stesso e si muta in una specie di folle. I limiti sono segnati, quando li si sorpassa ci si perde. Si produce un caos in luogo di un mondo, si induce orrore in luogo di piacere. Il genio lavora per il piacere, e dunque non deve e non può uscire dai limiti della natura stessa. La sua funzione non consiste nell’immaginare ciò che non può essere, ma nel ritrovare ciò che è. Per quanto concerne le arti, inventare non significa dare l’essere a un oggetto, ma riconoscere dove è e come è. E gli uomini di genio più profondi non scoprono che ciò che già esisteva. Sono dei creatori solo per aver osservato e, reciprocamente, sono degli osservatori perché sono in condizione di creare. I minimi oggetti li richiamano. Essi vi si abbandonano, in quanto ne riportano sempre nuove conoscenze che estendono il fondamento del loro spirito e ne apprestano la fecondità. Il genio è come la terra che non produce niente di cui non abbia ricevuto il seme. Questo paragone, lungi dall’impoverire gli artisti, non serve che a far loro conoscere la fonte e l’estensione delle loro vere ricchezze che per questo sono immense; poiché tutte le conoscenze che lo spirito può acquisire nella natura divengono il germe delle sue produzioni nelle arti;

così il genio non ha altri limiti, per quanto concerne il suo oggetto, che quelli dell’universo. Il genio deve dunque avere un appoggio per elevarsi e sostenersi e questo appoggio è la natura. Egli non può crearla e non deve distruggerla. Dunque non può che seguirla e imitarla: perciò tutto quello che produce non può essere che imitazione. Imitare è copiare un modello. Questo termine contiene due idee. 1) Il prototipo che porta i tratti che si vogliono imitare. 2) La copia che li rappresenta. La natura, cioè tutto quello che è, o che noi concepiamo agevolmente come possibile: ecco il prototipo o il modello delle arti. Bisogna, come si è ora detto, che l’industrioso imitatore abbia sempre gli occhi fissi su di essa, che la contempli senza cessa. Perché? Perché essa racchiude tutti i piani delle opere regolari e i disegni di tutti gli ornamenti che ci possono piacere. Le arti non creano le loro regole: esse sono indipendenti dal capriccio e invariabilmente tracciate sull’esempio della natura. Qual è, dunque, la funzione delle arti? È quella di trasportare i tratti che sono della natura e di presentarli in oggetti a cui essi non sono naturali. Così lo scalpello dello scultore mostra un eroe in un blocco di marmo. Il pittore, coi suoi colori, fa uscire dalla tela tutti gli oggetti visibili. Il musicista con suoni artificiali fa scrosciare l’uragano mentre tutto è calmo; e il poeta, infine, mediante la sua invenzione e l’armonia dei suoi versi, riempie il nostro spirito di immagini finte e il nostro cuore di sentimenti fattizi, spesso più incantevoli che se fossero veri e naturali. Da questo, concludo che le arti, in quanto propriamente arte, non sono che imitazioni, rassomiglianze che non sono la natura ma che sembrano esserlo; e che così la materia delle belle arti non è il vero, ma soltanto il verosimile. Questa conseguenza è abbastanza importante da essere sviluppata e provata sul campo mediante l’applicazione. Che cos’è la pittura? Un’imitazione degli oggetti visibili. Non ha niente di reale, niente di vero, tutto in essa è fantasma, e la sua perfezione non dipende che dalla sua rassomiglianza con la realtà. La musica e la danza possono bene regolare i toni e i gesti dell’oratore in cattedra e del cittadino che racconta in conversazione, ma non siamo ancora al punto da chiamarle propriamente delle arti. Esse possono anche smarrirsi, l’una nei capricci, dove i suoni si scontrano senza disegno, l’altra nelle

scosse e nei salti della fantasia: ma né l’una né l’altra sono più nei loro limiti legittimi. Bisogna dunque, perché siano quello che debbono essere, che esse ritornino all’imitazione, che esse siano il ritratto artificiale delle passioni umane. Ed è allora che le si riconosce con piacere e che ci offrono la specie e il grado di sentimento che ci soddisfa. La poesia, infine, non vive che di finzione. In essa, il lupo presenta i tratti dell’uomo potente e ingiusto, l’agnello quelli dell’innocente oppresso. L’egloga ci offre dei pastori poetici che non sono che somiglianze, immagini. La commedia fa il ritratto di un Arpagone ideale che ha solo preso in prestito i tratti di un’avarizia reale. La tragedia è poesia solo in ciò ch’essa finge per imitazione. Cesare ebbe una contesa con Pompeo: e questa non è poesia, è storia. Ma si provino a inventare dei discorsi, dei moventi, degli intrighi, tutto secondo le idee offerte dalla storia dei caratteri e della fortuna di Cesare e di Pompeo: questo è ciò che si chiama poesia, perché soltanto questo è opera del genio e dell’arte. L’epopea, infine, non è che un racconto di azioni possibili, presentate con tutti i caratteri dell’esistenza. Giunone e Enea non hanno mai detto né fatto ciò che Virgilio loro attribuisce; ma avrebbero potuto farlo e dirlo, e per la poesia basta. È una menzogna continua che ha tutti i caratteri della verità. Così tutte le arti, in tutto ciò che hanno di veramente artificiale, non sono che delle cose immaginarie, degli enti finti, copiati e imitati secondo quelli veri. È per questo che le arti sono poste senza cessa in opposizione alla natura, che non si ode che questo appello: che bisogna imitare la natura, che l’arte è perfetta quando la rappresenta perfettamente e, finalmente, che i capolavori dell’arte sono quelli che imitano la natura così bene che li si prende per la natura stessa. E questa imitazione per la quale abbiamo una disposizione così naturale, perché è l’esempio che istruisce e regola il genere umano, vivimus ad exempla, questa imitazione, ripeto, è una delle principali fonti del piacere che causano le arti. Lo spirito si esercita nella comparazione del modello con il ritratto, e il giudizio che ne dà fa su di esso un’impressione tanto più gradevole quanto più gli è testimonianza della sua penetrazione e della sua intelligenza. Questa dottrina non è per niente nuova. La si trova in ogni parte, presso gli antichi. Aristotele comincia la sua Poetica con questo principio: la

musica, la danza, la poesia, la pittura sono arti d’imitazione. A questo si riferiscono tutte le regole della sua Poetica. Secondo Platone, per essere poeta non basta raccontare, bisogna fingere e creare l’azione che si racconta. E nella sua Repubblica condanna la poesia, perché, essendo essenzialmente un’imitazione, gli oggetti che essa imita possono influire sui costumi. Orazio sostiene lo stesso principio nella sua Arte poetica: Si plosoris eges aulaea manentis... Aetatis cuiusque notandi sunt tibi mores, Mobilibusque decor naturis, dandus et anni. (vv. 154-157)

Perché osservare i costumi, studiarli? Non forse per copiarli? Respicere exemplar vitae morumque jubebo Doctum imitatorem, et vivas hinc ducere voces. (vv. 317-318)

Vivas voces ducere, è ciò che noi chiamiamo dipingere dal vero. E tutto è detto in una sola frase: ex noto fictum carmen sequar (v. 240). Fingerò, immaginerò secondo ciò che è conosciuto degli uomini. Ci si ingannerà, si crederà di vedere la natura stessa, e che non vi sia niente di più facile che dipingerla in questo modo: ma sarà una finzione, un’opera del genio, al di sopra delle forze di ogni spirito mediocre: sudet multum frustraque laboret (v. 241). I termini stessi di cui gli antichi si sono serviti, parlando di poesia, provano che essi la consideravano come un’imitazione. I greci dicevano poiein e mimeisthai. I latini traducevano il primo termine con facere, i buoni autori dicono facere poema, cioè forgiare, fabbricare, creare; e il secondo lo hanno reso sia con fingere sia con imitari, che significa tanto un’imitazione artificiale, come avviene nelle arti, quanto una imitazione reale e morale, così come accade nella società. Ma poiché il significato di queste parole è stato, attraverso i tempi, esteso, deviato, ristretto, esso ha dato luogo a equivoci e reso oscuri princìpi che erano chiari per se stessi nei primi autori che li hanno stabiliti. Per finzione ci si è riferiti alle favole che fanno intervenire il ministero degli dei e li fanno agire in un’azione, per il fatto che questa parte della finzione è la più nobile. Per imitazione si è intesa non una copia artificiale della natura, che consiste precisamente nel rappresentarla, nel contraffarla, hypokrinein; ma ogni sorta d’imitazione in

generale. Così che questi termini, non avendo più lo stesso significato di prima, hanno cessato di essere propri a caratterizzare la poesia, e hanno reso il linguaggio degli antichi inintelligibile alla maggior parte dei lettori. Da tutto ciò che abbiamo detto risulta che la poesia non sussiste che mediante l’imitazione. Lo stesso è della pittura, della danza, della musica: nulla è reale nelle loro opere, tutto vi è immaginato, finto, copiato, artificiale. Questo è il loro carattere essenziale, in opposizione alla natura. III. Il genio non deve imitare la natura come essa è

Il genio e il gusto hanno una connessione così intima nelle arti che vi sono dei casi in cui non si può unirli senza che sembrino confondersi, né separarli senza quasi toglier loro le proprie funzioni. E se ne dà prova qui, dove non è possibile dire ciò che deve fare il genio, imitando la natura, senza supporre il gusto che lo guida. Siamo stati obbligati a sfiorare questo argomento per preparare ciò che segue, ma ci riserviamo di parlarne più a lungo nella seconda parte. Aristotele paragona la poesia alla storia: la loro differenza, secondo lui, non è nella forma né nello stile, bensì nel fondamento delle cose. Ma come avviene ciò? La storia dipinge quello che è accaduto. La poesia ciò che sarebbe potuto accadere. L’una è legata al vero, non crea né azioni né attori. L’altra non è tenuta che al verosimile, essa inventa, immagina a suo piacere: dipinge di testa. Lo storico porge gli esempi come sono, spesso imperfetti. Il poeta li porge come dovrebbero essere. Ed è per questo che, secondo lo stesso Filosofo, la poesia è una lezione molto più istruttiva che non la storia. Da questo principio, bisogna concludere che, se le arti sono imitatrici della natura, l’imitazione deve essere saggia e illuminante, tale che non copi servilmente, ma che scegliendo gli oggetti e i tratti, li presenti con tutta la perfezione di cui sono suscettibili. In breve, un’imitazione in cui si veda la natura non come essa è in se stessa, ma quale potrebbe essere, come potrebbe essere concepita mediante lo spirito. Cosa fece Zeusi quando volle dipingere una bellezza perfetta? Fece il ritratto di qualche bellezza particolare, di cui la sua pittura fosse la storia? No: egli radunò i tratti separati di molte bellezze esistenti. Si formò nello spirito un’idea artificiale che risultò da tutti quei tratti riuniti: e questa idea fu il prototipo o il modello del suo quadro, che fu verosimile e poetico nella

sua totalità e non fu vero e storico che nelle sue parti prese separatamente. Ecco l’esempio dato a tutti gli artisti, ecco la strada che essi devono seguire, ed è la pratica di tutti i grandi maestri senza eccezione. Quando Molière volle dipingere la misantropia, non cercò a Parigi un originale, di cui la sua opera teatrale fosse una copia esatta: egli ne avrebbe fatto solo una storia, un ritratto; avrebbe istruito solo a metà. Ma egli raccolse tutti i tratti di umore nero che poteva aver riscontrato negli uomini, vi aggiunse tutto quello che la forza del suo genio poteva fornirgli nello stesso genere, e da tutti quei tratti riuniti e assortiti figurò un carattere unico, che non fu la rappresentazione del vero, bensì quella del verosimile. La sua commedia non fu affatto la storia di Alceste ma la pittura di Alceste fu la storia della misantropia presa in generale. E così egli ha istruito molto di più di quanto avrebbe fatto uno storico scrupoloso che avesse raccontato alcuni tratti veri di un misantropo reale. Questi due esempi bastano per dare, nel frattempo, un’idea chiara e distinta di ciò che si chiama la bella natura. Non è il vero che è, ma il vero che potrebbe essere, il bel vero, che è rappresentato come se esistesse realmente e con tutte le perfezioni che può ricevere. Ciò non impedisce che il vero e il reale non possano essere materia delle arti. [...] Dove si stabilisce il principio di imitazione mediante la natura e le leggi del gusto

Se tutto è congiunto nella natura, perché tutto vi è in ordine, deve essere allo stesso modo nelle arti, perché esse sono imitatrici della natura. Deve esserci un punto d’unione, a cui si richiamano le parti più lontane in modo che una sola parte, una volta ben conosciuta, deve farci almeno intravedere le altre. Il genio e il gusto hanno lo stesso oggetto nelle arti. L’uno lo crea, l’altro lo giudica. Così, se è vero che il genio produce le opere d’arte mediante l’imitazione della bella natura, come si è provato testé, il gusto, che giudica i prodotti del genio, non deve essere soddisfatto che quando la natura bella è ben imitata. Si avverte la giustezza e la verità di questa conseguenza, ma occorre svilupparla e metterla in una luce migliore. È ciò che ci si propone in questa parte, dove si vedrà ciò che è il gusto, quali leggi può prescrivere

alle arti e che queste leggi si limitano tutte all’imitazione, come l’abbiamo caratterizzata ora nella prima parte. I. Che cosa è il gusto

È un buon Gusto. Questa proposizione non è affatto un problema e coloro che ne dubitano non sono affatto capaci di giungere alle prove che essi esigono. Ma che cos’è questo buon gusto? È possibile, avendo un’infinità di regole nelle arti e di esempi nelle opere degli Antichi e dei Moderni, che non possiamo farcene un’idea chiara e precisa? Non sarà la molteplicità di questi esempi o il troppo grande numero di queste regole che offuscherà il nostro spirito e che, mostrando in esso variazioni infinite, a causa delle differenze dei soggetti trattati, gli impedirà di fissarsi a qualche cosa di certo, da cui si possa trarre una giusta definizione. È un buon gusto che è solo buono. In che cosa consiste? Da che cosa dipende? È dalla parte dell’oggetto o da quella del genio che si esercita su questo oggetto? Ha delle regole o non ne ha? È lo spirito solo che è il suo organo, o il cuore solo, o tutti e due insieme? Quante domande sotto questo titolo così conosciuto, tante volte trattato e mai spiegato abbastanza chiaramente. Si direbbe che gli Antichi non hanno fatto alcuno sforzo per trovarlo e che i Moderni invece non l’afferrino che per caso. Provano disagio a seguire la via che sembra troppo angusta per loro. Raramente si salvano senza pagare qualche tributo a una delle due estremità. C’è della affettazione in colui che scrive con cura e della negligenza in colui che vuole scrivere con facilità, mentre negli Antichi che ci restano sembra che ci sia un genio felice che li conduce per mano: essi camminano senza timore e senza inquietudine, come se non potessero andare altrimenti. Quale ne è la ragione? Non sarà che gli Antichi non avevano altro modello che la natura stessa e altra guida che il gusto e che, proponendosi i Moderni per modello le opere dei primi imitatori e temendo di danneggiare le regole che l’arte ha stabilite, le loro sono degenerate e hanno conservato una certa aria di costrizione, che tradisce l’arte e mette tutto il vantaggio dalla parte della natura? È dunque al solo gusto che si addice di fare capolavori e di dare alle

opere d’arte questa aria di libertà e di disinvoltura, che ne è sempre il più grande pregio. Noi abbiamo parlato abbastanza della natura e dei modelli che essa fornisce al genio. Ci resta da esaminare il gusto e le sue leggi. Sforziamoci innanzi tutto di conoscerlo direttamente, cerchiamo il suo principio: in seguito considereremo le regole che esso prescrive alle belle arti. Il gusto è nelle arti ciò che l’intelligenza è nella scienza; i loro oggetti sono differenti nei confronti della verità, ma le loro funzioni hanno una così grande analogia tra loro che l’una può servire a spiegare l’altra. Il vero è l’oggetto delle scienze. Quello delle arti è il buono e il bello. Due termini che rientrano quasi nello stesso significato quando li si esamini da vicino. L’intelligenza considera ciò che gli oggetti sono in se stessi, secondo la loro essenza, senza alcun rapporto con noi. Il gusto al contrario non si occupa di questi stessi oggetti che in rapporto a noi. Vi sono persone il cui spirito è fallace, perché esse credono di vedere la verità dove essa non è realmente. Vi sono anche coloro che hanno il gusto fallace perché credono di avvertire il buono o il cattivo dove difatti non ci sono. Una intelligenza è dunque perfetta, quando essa vede senza nebulosità e quando distingue senza errore il vero dal falso, la probabilità dall’evidenza. Nello stesso modo anche il gusto è perfetto quando mediante un’impressione distinta sente il buono e il cattivo, l’eccellente e il mediocre senza mai confonderli, né prenderli l’uno per l’altro. Posso dunque definire l’intelligenza: la facilità di conoscere il vero e il falso e di distinguerli l’uno dall’altro. E il gusto: la facilità di sentire il buono, il cattivo, il mediocre e di distinguerli con certezza. Così vero e buono, conoscenza e gusto: ecco tutti i nostri oggetti e tutte le nostre operazioni. Ecco le scienze e le arti. Lascio alla metafisica profonda il chiarire i meccanismi segreti del nostro animo e l’approfondire i princìpi delle sue operazioni. Non ho bisogno di entrare in queste discussioni speculative, dove si è oscuri quanto sublimi. Parto da un principio che nessuno contesta. Il nostro animo conosce e ciò che conosce produce in lui un sentimento. La conoscenza è una luce diffusa nel nostro animo: il sentimento è un movimento che l’agita. L’una rischiara, l’altra scalda. L’uno ci fa vedere gli oggetti, l’altro vi ci conduce o ce ne distoglie.

Il gusto è dunque un sentimento. E siccome nella materia di cui qui si tratta, questo sentimento ha per oggetto le opere dell’arte e poiché le arti, come abbiamo mostrato, non sono che delle imitazioni della bella natura, il gusto deve essere un sentimento che ci avverte se la natura bella è bene o mal imitata. Svolgeremo questo argomento maggiormente in seguito. Benché questo sentimento sembri prendere avvio repentinamente e alla cieca, è tuttavia sempre preceduto almeno da un lampo di luce, con il favore della quale noi scopriamo le qualità dell’oggetto. Bisogna che la corda sia stata percossa, prima di rendere il suono. Ma questa operazione è così rapida che spesso non ce ne accorgiamo e la ragione, quando ritorna sul sentimento, fa molta fatica a riconoscerne la causa. È per ciò, forse, che la superiorità degli Antichi sui Moderni è così difficile da decidere. È il gusto che ne deve giudicare e al suo tribunale si sente più che non si possa provare. [...] IV. Le leggi del gusto non hanno per oggetto che l’imitazione della bella natura

Il gusto è dunque come il genio una facoltà naturale che non può avere per soggetto legittimo che la natura stessa o ciò che le assomiglia. Trasportiamolo adesso in mezzo alle arti e vediamo quali sono le leggi che può loro dettare. Prima legge generale del gusto. Imitare la bella natura. Il gusto è la voce dell’amore proprio, fatto unicamente per gioire, è avido di tutto ciò che gli può procurare qualche sentimento gradevole. Orbene, come non c’è niente che ci lusinga più di quello che ci avvicina alla nostra perfezione o che può farcela sperare, consegue che il nostro gusto non è mai più soddisfatto di quando ci si presentano degli oggetti in un grado di perfezione che accresce le nostre idee e sembra prometterci impressioni di un carattere e di un grado nuovo, che liberano il nostro cuore da quella specie di torpore in cui lo lasciano gli oggetti a cui è abituato. È per questa ragione che le belle arti hanno tanto fascino per noi. Quale differenza tra l’emozione che produce una storia ordinaria che non ci offre che esempi imperfetti o comuni e questa estasi che ci provoca la poesia, allorché ci trascina in quelle regioni incantate, dove troviamo realizzati in

qualche modo i più bei fantasmi dell’immaginazione! La storia ci fa languire in una specie di schiavitù e nella poesia la nostra anima gode con compiacimento della sua elevazione e della sua libertà. Da questo principio segue non soltanto che il gusto richiede la bella natura, ma ancora che la bella natura è, secondo il gusto, quella che ha: 1) il maggior rapporto con la nostra perfezione, con il nostro vantaggio, con il nostro interesse; 2) quella che è nello stesso tempo la più perfetta in sé. Seguo questo ordine perché è il gusto che ci conduce in questa materia: “Id generatim pulcrum est, quod tum ipsius naturae, tum nostrae convenit”. [...] Sulla musica e la danza

La musica aveva un tempo assai maggiore estensione che non oggi. Forniva le grazie dell’arte a tutte le specie di suoni e di gesti. Comprendeva il canto, la danza, la versificazione, la declamazione. Ars decoris in vocibus et motibus. Oggi, quando la versificazione e la danza hanno formato due arti separate, e la declamazione, abbandonata a se stessa, non costituisce più un’arte; mentre la musica propriamente detta si riduce al solo canto: è la scienza dei suoni. Tuttavia, poiché la separazione è venuta più da parte degli artisti che non dalle stesse arti, che sono sempre rimaste legate intimamente fra di loro, tratteremo qui la musica e la danza senza separarle. La reciproca comparazione che si potrà fare ci aiuterà a farcele conoscere meglio: esse si getteranno luce reciprocamente in questo lavoro, così come si scambiano reciprocamente grazie nel teatro. I. Si deve conoscere la natura della musica e della danza mediante quella dei toni e dei gesti

Gli uomini hanno tre mezzi per esprimere le loro idee e i loro sentimenti: la parola, il tono della voce e il gesto. Intendiamo per gesto, i movimenti esteriori e gli atteggiamenti del corpo: Gestus, dice Cicerone, est conformatio quaedam et figura totius oris et corporis (De oratore, I, 14). Ho nominato per prima la parola perché essa occupa il primo posto e perché gli uomini vi fanno ordinariamente più attenzione. Tuttavia i toni della voce e i gesti hanno su di essa molti vantaggi: sono di un uso più

naturale, vi facciamo ricorso quando le parole ci mancano. Più estesamente, è come un interprete universale che ci segue fino alle estremità del mondo, che ci rende intellegibili alle nazioni più barbare e anche agli animali. Inoltre essi sono consacrati in maniera speciale al sentimento. La parola ci istruisce, ci convince, è l’organo della ragione: ma il tono ed il gesto sono quelli del cuore, ci commuovono, ci vincono, ci persuadono. La parola non esprime la passione che tramite i mezzi delle idee alle quali i sentimenti sono legati mediante riflessione. Il tono e il gesto giungono al cuore direttamente e senza alcuna incertezza. In breve, la parola è un linguaggio convenzionale che gli uomini hanno costruito per comunicarsi più distintamente le loro idee: i gesti e i toni sono come il dizionario della semplice natura, essi contengono una lingua che conosciamo tutti fin dalla nascita e di cui ci serviamo per annunciare tutto quello che ha rapporto con i bisogni e con la conversazione del nostro essere: così è viva, breve, energica. Quale migliore fondamento per le arti, il cui fine è muovere l’anima, di un linguaggio in cui tutte le espressioni sono piuttosto quelle dell’umanità stessa, che quelle degli uomini! La parola, il gesto e il tono della voce hanno dei gradi a cui corrispondono le tre specie delle arti che abbiamo indicato. Nel primo grado essi esprimono la natura semplice, per il solo bisogno: è il ritratto primitivo dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti: tale è o dovrebbe essere la conversazione. Nel secondo grado c’è la natura ingentilita mediante l’aiuto dell’arte per aggiungere la piacevolezza all’utilità: si scelgono con qualche cura, ma nondimeno con ritegno e modestia, le parole, i toni, i gesti più appropriati e più piacevoli: è l’orazione e la narrazione sostenuta. Nel terzo non si ha in vista che il piacere: queste tre espressioni vi hanno non soltanto tutte le grazie e tutta la forza naturale, ma ancora tutta la perfezione che l’arte può aggiungervi, voglio dire: la misura, il movimento, la modulazione e l’armonia, ed è la versificazione, la musica e la danza, che sono la più grande perfezione possibile delle parole, dei toni della voce e dei gesti. Da cui concludo: 1) Che l’oggetto principale della musica e della danza deve essere l’imitazione dei sentimenti o delle passioni, mentre quello della poesia è principalmente l’imitazione delle azioni. Tuttavia, poiché le passioni e le azioni sono quasi sempre unite nella natura e poiché esse devono così trovarsi insieme nelle arti, si avrà questa differenza per la

poesia e per la musica e la danza: nella prima, le passioni vi saranno impiegate come dei mezzi o degli espedienti che preparano l’azione e la producono, nella musica e nella danza l’azione non sarà che una specie di canovaccio destinato a portare, sostenere, condurre, legare le differenti passioni che l’artista vuole esprimere. Concludo: 2) Che se il tono della voce e i gesti hanno un significato prima di essere misurati, devono conservarlo nella musica e nella danza così come le parole conservano il loro nella versificazione; e di conseguenza che tutta la musica e tutta la danza devono avere un senso. 3) Che tutto ciò che l’arte aggiunge ai toni della voce e ai gesti deve contribuire ad aumentare questo senso e a rendere la loro espressione più energica. Non ci sembra che la prima conseguenza abbia bisogno di essere provata, svilupperemo le due ultime nei capitoli che seguono. II. Tutta la musica e tutta la danza devono avere un significato, un senso

Non ripeteremo qui che i canti della musica e i movimenti della danza non sono che delle imitazioni, un tessuto artificiale di toni e di gesti poetici di cui non hanno che la verosimiglianza. Le passioni vi sono favolose come le azioni nella poesia: esse vi sono al pari della creazione sola del genio e del gusto, niente vi è di vero, tutto è artificio. E se talora accade che il musicista o il danzatore si trovino realmente nel sentimento che esprimono, è una circostanza accidentale che non è nel disegno dell’arte: è una pittura che si trova su una pelle vivente e che non dovrebbe essere che sulla tela. L’arte non è fatta che per ingannare, crediamo di averlo detto abbastanza. Non parleremo qui che delle espressioni. Le espressioni, in generale, non sono in se stesse né naturali, né artificiali: non sono che dei segni. Che le impieghi l’arte o la natura, che siano legate alla realtà o alla finzione, alla verità o alla menzogna, esse cambiano di qualità, ma senza cambiare di natura né di stato. Le parole sono le stesse nella conversazione e nella poesia, i tratti e i colori negli oggetti naturali e nei quadri: di conseguenza i toni e i gesti devono essere gli stessi nelle passioni, sia reali, sia favolose. L’arte non crea le espressioni né le distrugge: le regola solamente, le fortifica, le raffina. E come non può uscire dalla natura per creare le cose, non può maggiormente uscirne per esprimerle: è un principio.

Immanuel Kant La critica del giudizio estetico

La stesura della Critica della facoltà di giudizio (Kritik der Urteilskraft, 1790) corona un intenso decennio di attività speculativa in cui Immanuel Kant (1724-1804) pubblica le due edizioni della Critica della ragion pura (1781 e 1787), i Prolegomeni a ogni futura metafisica che si presenterà come scienza (1783), i Primi principi metafisici della scienza della natura (1786) e, sul terreno della filosofia pratica, la fondazione della metafisica dei costumi (1783) e la Critica della ragion pratica (1788). Come vedremo, per diverse ragioni la Critica della facoltà di giudizio non deve essere considerata soltanto come la terza critica kantiana - che viene dopo le prime due e ne porta a compimento il sistema - bensì come una riformulazione e un approfondimento dell’intera filosofia critica e trascendentale, a partire da un asse teorico che lega il sentimento di piacere e dispiacere con la facoltà del giudizio e con il principio a priori della finalità. Con quest’opera Kant non solo si confronta con tematiche, come quelle del bello e dell’arte, assenti nelle due critiche precedenti, ma giunge a formulare tesi decisive circa la struttura trascendentale del soggetto e il conciliarsi, nell’uomo, di tensione conoscitiva e destinazione morale. A partire da una riflessione trascendentale sulla natura del giudizio e del sentimento in quell’esperienza particolare che è l’esperienza estetica, Kant approfondisce la propria concezione dell’esperienza in generale, ossia del rapporto tra le facoltà dell’animo umano e gli oggetti cui esse si applicano. Nella Critica della ragion pura Kant impiega il termine “estetica trascendentale” per definire la “scienza di tutti i principi a priori della sensibilità”. In quest’opera - che ha come obiettivo l’esposizione delle forme a priori della conoscenza al fine di legittimare l’edificazione di un sapere necessario e universalmente valido, giudicando così le ambizioni della

metafisica a presentarsi come scienza - l’estetica trascendentale, che tratta dello spazio e del tempo in quanto forme a priori della sensibilità, viene completata dalla “logica trascendentale”, “scienza delle leggi dell’intelletto in generale” Estetica e logica sono dunque due momenti complementari e interdipendenti nella ricostruzione della struttura trascendentale, a priori, della conoscenza. Le forme da esse analizzate - le forme a priori della sensibilità e i concetti puri dell’intelletto - non possono infatti prescindere le une dalle altre: “I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”. In una celebre nota dell’Estetica trascendentale, Kant critica Baumgarten per aver usato il termine “estetica” per quella che in realtà non sarebbe altro che una “critica del gusto”, manifestando così la speranza infondata di “ridurre a principi razionali il giudizio critico del bello, e di elevarne le regole a scienza” Secondo il Kant della Critica della ragion pura, infatti, “le regole e i criteri del gusto sono per le loro principali fonti empirici”, e una critica del gusto può essere sviluppata solo su basi psicologiche e non secondo principi a priori. L’errore di Baumgarten, quindi, sarebbe stato quello di considerare l’estetica come gnoseologia inferiore, ossia come una scienza avente per oggetto la sensibilità intesa come forma di conoscenza autonoma ma analoga, sebbene oscura e confusa, alla conoscenza intellettuale, mentre la filosofia trascendentale kantiana mostra, al contrario, che la conoscenza è possibile solo a partire dall’attività congiunta e interdipendente di sensibilità e intelletto intese come funzioni conoscitive radicalmente diverse. La differenza tra sensibilità e intelletto, in altre parole, non risiede secondo Kant nella minore o maggiore chiarezza delle rispettive rappresentazioni, ma nella loro diversa funzione trascendentale nell’edificazione della conoscenza. La tesi esposta nella Critica della ragion pura della netta distinzione tra estetica trascendentale e critica del gusto, là dove si sostiene che quest’ultima non può avere che un fondamento empirico e psicologico, sembrerebbe essere ribaltata da Kant nella Critica della facoltà di giudizio, dove troviamo una vera e propria critica del giudizio estetico, cioè del gusto, che ne individua i presupposti trascendentali a priori. In realtà, ciò che cambia non è l’approccio critico-trascendentale all’estetica, ma la concezione della sua funzione nell’ambito del sapere: all’estetica quale disciplina che si occupa di spazio e tempo come forme a priori della

sensibilità in un contesto teoretico-conoscitivo subentra ora un’estetica quale analisi della correlazione trascendentale tra giudizio di gusto e sentimento di piacere e dispiacere di fronte a prodotti dell’arte o a fenomeni naturali giudicati belli o sublimi. In entrambi i casi, rimane invariato il carattere critico-trascendentale dell’analisi kantiana, che ha per oggetto le strutture a priori, universali e necessarie della soggettività nel tentativo di comprendere il costituirsi dell’esperienza: criticismo significa infatti riflessione sulle condizioni a priori e sulla legittimità e comunicabilità del conoscere e del sentire, mentre trascendentale - come spiega Kant nell’Introduzione alla Critica della ragion pura - è ogni indagine “che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori”. Le tesi esposte nella Prefazione e nell’Introduzione alla Critica della facoltà di giudizio costituiscono un presupposto necessario per intendere il disegno complessivo dell’opera. Qui Kant presenta la critica del giudizio come completamento del disegno speculativo avviato con la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica. L’indagine critica condotta da Kant in queste due opere aveva infatti finito per isolare e contrapporre due ordini di realtà: il mondo della natura da un lato, e il mondo della libertà dall’altro. Compito dell’Introduzione alla Critica della facoltà di giudizio è chiarire in che modo possa essere raggiunta una mediazione tra questi due ordini, ossia tra il determinismo riscontrabile nel mondo naturale, fenomenico, spiegabile mediante rigorose leggi scientifiche, e la libertà che sta a fondamento delle azioni umane, compreso lo stesso pensare; in altre parole, tra la dimensione del conoscere e quella dell'agire. In questo complesso tentativo di ridefinire la struttura della propria filosofia critico-trascendentale, Kant attribuisce un ruolo di mediazione al sentimento di piacere e dispiacere, alla facoltà di giudizio e al principio di finalità: l’indagine condotta nella Critica della facoltà di giudizio consisterà allora nell’esame sia di quei sentimenti che si accompagnano al ritrovamento di un armonizzarsi finalistico delle leggi naturali e alla manifestazione di una corrispondenza finalistica tra le facoltà conoscitive del soggetto e gli oggetti cui esso si rivolge, che di quei sentimenti in cui emerge la superiore destinazione morale dell’uomo attraverso l’idea di libertà. Al termine di questo percorso, i diversi momenti della conoscenza e

dell’agire, della scienza e della moralità, dovrebbero trovare un momento di mediazione proprio nel sentimento e nel giudizio. La facoltà di giudicare, intesa genericamente come capacità di unificare un soggetto e un predicato, era già stata al centro dell’analisi della Critica della ragion pura, nella quale Kant aveva distinto tra giudizi analitici e giudizi sintetici (a seconda che il predicato sia contenuto nel soggetto o no), e giudizi a posteriori e a priori (a seconda che dipendano dall’esperienza o no). Il compito della critica della ragion pura era stato individuato nel tentativo di chiarire la legittimità dei giudizi sintetici a priori, tramite cui la conoscenza avrebbe potuto assumere un carattere necessario e universalmente valido, e dalla classificazione logica dei giudizi Kant aveva derivato la tavola delle categorie, i “concetti puri dell’intelletto” che operano a priori la sintesi delle intuizioni sensibili. Nella Critica della facoltà di giudizio, dopo aver definito il giudizio come facoltà di ricondurre un particolare sotto un universale, Kant introduce una nuova distinzione, quella tra giudizi determinanti e giudizi riflettenti: nel primo caso il particolare e l’universale (la regola, il principio, la legge) sono dati, e compito del giudizio è semplicemente ricondurre il particolare sotto l’universale, mentre nel secondo è dato solo il particolare, e compito del giudizio è trovare un universale sotto il quale sussumerlo. Determinanti sono sia i giudizi delle scienze esatte sia i giudizi pratici, i quali riconducono l’azione singola sotto l’universalità della legge morale. I giudizi riflettenti, invece, non hanno una funzione conoscitiva, né servono a individuare direttive dell’agire o principi di valutazione morale di un’azione compiuta: in essi la rappresentazione del particolare è riferita riflessivamente alle facoltà del soggetto e al sentimento da esso provato. Il giudizio riflettente, secondo Kant, si esercita sui prodotti dell’arte e su quegli aspetti in cui la natura mostra la presenza di una finalità: aspetti che non sono sussumibili sotto le leggi necessarie dell’intelletto, ma nei quali si rivela un accordo finalistico tra le facoltà soggettive capace di generare un sentimento di piacere. In questo insistere sulla natura riflettente del giudizio estetico emerge con chiarezza il fatto che l’esperienza estetica in Kant non è un’esperienza conoscitiva né presuppone una concezione dell’arte e della bellezza quale manifestazione del vero, come avverrà in Schelling e Hegel, bensì ha un senso eminentemente riflessivo: in essa il soggetto trascendentale perviene a una forma di autoaffezione, di

sentimento di sé con cui viene esperita l’attività delle facoltà trascendentali dell’animo umano. Le due parti in cui si suddivide la Critica della facoltà di giudizio - “Critica del giudizio estetico” e “Critica del giudizio teleologico” contengono l’analisi di due forme diverse del giudizio riflettente: nel giudizio estetico la facoltà di giudizio è chiamata a esprimersi su ciò che è definito “bello” o “sublime”, mentre nel giudizio teleologico essa si esplica in relazione a quegli aspetti del mondo naturale e umano che possono avere una spiegazione finalistica. Il giudizio estetico è poi detto riflettente in quanto in esso il soggetto riflette sulla “semplice apprensione della forma di un oggetto nell’intuizione”, indipendentemente dal prodursi di una conoscenza. La sua analisi è condotta da Kant in due sezioni, l’“Analitica del bello” e l’“Analitica del sublime”, a cui segue la “Deduzione dei giudizi estetici puri”. Del giudizio sul bello Kant propone un’analisi che si fonda sulla stessa suddivisione logica dei giudizi utilizzata nella Critica della ragion pura, secondo la qualità, la quantità, la relazione e la modalità. In base alle argomentazioni sviluppate in questi quattro momenti dell’Analitica del bello, le tesi cui giunge Kant sono, in ordine, le seguenti: bello è ciò che è oggetto di un piacere disinteressato, che “piace universalmente senza concetto”, che esprime una finalità “percepita senza la rappresentazione di uno scopo”, e che suscita un piacere “necessario”. Con la prima tesi circa il carattere disinteressato del piacere suscitato dal giudizio sul bello, Kant intende distinguere nettamente tra bello, buono e piacevole: i predicati del buono e del piacevole sono infatti legati all’interesse per l’esistenza di ciò che è giudicato tale, mentre nel caso del bello siamo in presenza di un giudizio puramente “contemplativo”, caratterizzato dall’assenza di interesse per l’esistenza dell’oggetto bello. La seconda e la quarta tesi, che asseriscono il carattere universale e necessario del piacere provato in concomitanza con il giudizio sul bello, contengono una delle affermazioni più importanti della Critica della facoltà di giudizio: i giudizi di gusto - sempre logicamente singolari, in quanto formulati secondo lo schema “x è bello” - devono poter ambire a una validità universale, ossia devono poter essere condivisi intersoggettivamente pur senza essere fondati su concetti. La ragione di questa pretesa è trascendentale, e risiede nella natura del piacere provato in

concomitanza con il giudizio estetico, un piacere derivante da quello che Kant chiama “libero gioco” delle facoltà conoscitive coinvolte nel giudizio sul bello: l’immaginazione e l’intelletto. Questo armonico accordarsi delle facoltà soggettive produce infatti uno stato d’animo soggettivo, non vincolato ad alcun concetto o regola e tuttavia condivisibile intersoggettivamente, una sorta di senso comune fondato sul sentimento che Kant chiama sensus communis aestheticus. Da luogo del variare soggettivo e imprevedibile delle sensazioni, il giudizio di gusto diventa dunque in Kant il fondamento trascendentale della possibilità di condividere intersoggettivamente il sentimento, luogo in cui l’esperienza del gusto può essere comunicata e assumere una valenza sociale. Il terzo momento dell’analitica del bello, infine, asserisce che bello è ciò che piace “senza la rappresentazione di uno scopo”, distinguendo in tal modo una bellezza “libera” (pulchritudo vaga), indipendente da qualsiasi rappresentazione di un fine determinato, da una bellezza “aderente” (pulchritudo adhaerens), subordinata al concetto di ciò che l’oggetto deve essere. In questo modo Kant distingue nettamente tra bellezza e perfezione, criticando la concezione baumgarteniana della bellezza come perfezione della conoscenza sensitiva. Nell’Analitica del sublime il nesso tra bellezza e moralità - già evidente nell’insistenza da parte di Kant sul tema della libertà in rapporto al bello, fonte di un piacere libero e disinteressato, fondato sul libero gioco di immaginazione e intelletto - diventa ancora più stringente. Tale nesso emerge proprio a partire dall’individuazione delle differenze tra bello e sublime: se il bello è connesso alle idee di limitazione e di forma, il sublime rimanda alle idee di illimitatezza e informe; se il sentimento di piacere che si accompagna al giudizio sul bello è tale da suscitare un'intensificazione delle forze vitali del soggetto, il giudizio sul sublime genera un’emozione in cui l’animo “è alternativamente attratto e respinto” e preda di un "piacere negativo” accompagnato non da gioia ma da meraviglia (Bewunderung) e rispetto (Achtung). L’esperienza del sublime nelle sue due forme - sublime “dinamico” e sublime “matematico” - è per Kant l’esperienza di una sproporzione tra le facoltà conoscitive del soggetto e l’infinita grandezza o infinita potenza che esso si trova dinanzi. Ciò si traduce da un lato nella consapevolezza del soggetto della sua insufficienza e limitatezza; dall’altro, però, per il solo fatto di poter pensare questa

infinita grandezza e infinita potenza nella sua totalità, il sublime finisce per attestare l’esistenza di una facoltà dell’animo superiore a ogni misura dei sensi: la ragione, intesa come facoltà dell’incondizionato e sede dell’idea di libertà. Al libero gioco tra immaginazione e intelletto che caratterizzava il giudizio sul bello subentra dunque, con il sublime, un confronto-scontro tra immaginazione e ragione, nel quale la prima, nella sua inadeguatezza, apre dialetticamente all’avvento della seconda, rivelando la superiore e sovrasensibile destinazione morale dell’uomo attraverso quel sentimento di rispetto che, nella Critica della ragion pratica, era stato presentato come sentimento avente per oggetto la legge morale nella sua assoluta universalità, formalità e incondizionatezza. Il sublime descritto da Kant nella Critica della facoltà di giudizio si rivela quindi profondamente diverso da quello descritto da Burke e da Kant stesso nelle Osservazioni sul bello e sul sublime scritte nel 1764. Alla prospettiva empirico-psicologica di Burke - che presenta un’indagine empirica sulle qualità sensibili capaci di suscitare le idee del bello e del sublime e pertanto di generare i sentimenti e le passioni a esse corrispondenti - subentra ora una prospettiva rigorosamente trascendentale con l’obiettivo di esibire un peculiare rapporto tra le facoltà soggettive: il sublime non è un'idea suscitata da qualità sensibili e accompagnata da un piacere misto a terrore (il diletto, delight), bensì è il correlarsi trascendentale di un giudizio e di un sentimento che finisce per rivelare l’esistenza di una facoltà dell’animo superiore a ogni misura dei sensi, la ragione. La “Deduzione dei giudizi estetici puri”, oltre a riprendere i temi della pretesa dei giudizi estetici alla validità universale e del gusto come senso comune estetico, affronta una serie di argomenti: la natura dell’arte, la spontaneità e la produttività del genio, la classificazione delle belle arti. Nella definizione di arte come “produzione mediante libertà, cioè mediante un arbitrio che ponga la ragione a fondamento delle sue azioni” risuona l’eco della definizione di techne esposta da Aristotele nell’Etica nicomachea, secondo cui la techne è una produzione secondo ragione, mentre la classificazione delle belle arti in arti della parola, arti figurative e arti del gioco delle sensazioni visive o uditive a partire dal concetto di espressione riprende direttamente le argomentazioni esposte da Batteux nel trattato Le Belle Arti ridotte ad un unico principio. Il tema dell’espressione

ritorna poi nella definizione kantiana del genio come “quel felice rapporto, che nessuna scienza può insegnare e nessuna diligenza può far imparare, nel rinvenire idee per un concetto dato e per altro verso nell’indovinare per esse l’espressione mediante la quale la disposizione dell’animo così provocata, quale accompagnamento di un concetto, possa essere comunicata ad altri”. Il genio artistico, nella sua esemplarità che non può essere imitata ma solo presa come modello, è descritto da Kant come capacità di esprimere idee estetiche, rappresentazioni che “danno molto da pensare” ed estendono e vivificano le facoltà conoscitive senza essere riconducibili ad alcun concetto. Speculari alle idee della ragione (concetti sovrasensibili dei quali non può mai essere fornita un’intuizione corrispettiva), le idee estetiche sono rappresentazioni dell’immaginazione rispetto alle quali nessun concetto è adeguato. La produttività dell’immaginazione, che nella Critica della ragion pura esplicava la propria funzione sintetica e conoscitiva generando gli schemi e quindi mediando tra intelletto e sensibilità, si esplica qui come creatività capace di pensare e comunicare l’inesprimibile. Nella sezione finale della critica del giudizio estetico Kant conclude la propria riflessione sul giudizio estetico quale ponte tra dominio conoscitivo e dominio morale, affermando la tesi secondo cui “la bellezza è simbolo della moralità”. Preceduta da un’analisi sul ruolo del pensiero simbolico come capacità di “esibire” le idee della ragione tramite intuizioni sensibili ad esse analoghe, l’argomentazione di questa tesi sottolinea analogie e differenze tra bello e bene: al carattere immediato e disinteressato del piacere riferito al bello si oppone il carattere mediato e interessato del giudizio morale, fondato su concetti della ragione che stabiliscono imperativamente un dover essere; all’universalità solo soggettiva del giudizio estetico si contrappone l’universalità oggettiva, conoscibile mediante concetti, della moralità. Nonostante queste differenze, l’insistenza di Kant sulla dimensione di libertà presente nel giudizio estetico sul bello e sull’emergere dialettico della superiorità della ragione nel giudizio sul sublime mostrano come, in generale, il gusto possa avere una funzione propedeutica rispetto al rivelarsi della vera destinazione morale del soggetto. Le pagine che seguono sono tratte da I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, tr. it. a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino 1999, Prima parte (“Critica della facoltà estetica di giudizio”), Prima sezione

(“Analitica della facoltà estetica di giudizio”), Primo libro ("Analitica del bello”): parr. 1-4 e “Definizione del bello derivata dal primo momento” (pp. 39-46); parr. 6-9 e “Definizione del bello derivata dal secondo momento” (pp. 46-55); parr. 11-13 (pp. 56-58), 16 (pp. 64-67) e “Definizione del bello derivata dal terzo momento” (p. 72); parr. 18-22 e “Definizione del bello derivata dal quarto momento” (pp. 72-76); “Nota generale alla prima sezione dell’analitica” (pp. 76-79). Di Kant si vedano anche: Antropologia pragmatica, tr. it. a cura di G. Vidari riveduta da A. Guerra, Laterza, Roma-Bari 1985; Critica della ragion pura, tr. it. a cura di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riveduta con introduzione e glossario a cura di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1979, in particolare “Estetica trascendentale”, pp. 65-92; Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, introduzione di G. Morpurgo Tagliabue, tr. it. a cura di L. Novati, Rizzoli, Milano 1989. Altre edizioni della Critica del giudizio; Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso, Rizzoli, Milano 1995; Critica del Giudizio, introduzione di P. D’Angelo, tr. it. a cura di A. Gargiulo, Laterza, Roma-Bari 1997; Critica del giudizio, tr. it. a cura di A. Bosi, UTET, Torino 1993. Per approfondire: L. Amoroso, Senso e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli 1984; A.G. Baumgarten e I. Kant, Il battesimo dell’estetica, tr. it. ETS, Pisa 1993 ; E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1977; P. Gambazzi, Sensibilità, immaginazione e bellezza. Introduzione alla dimensione estetica nelle tre critiche di Kant, Verona 1981; E. Garroni, Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla “Critica del giudizio”, Bulzoni, Roma 1976; Id., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992; P. Giordanetti, Estetica e sovrasensibile in Kant, Cuem, Milano 2001; Id., L'estetica fisiologica di Kant, Mimesis, Milano 2001; Id., Hume, Kant e la bellezza, Cuem, Milano 1997; Id,,Kant e la musica, Cuem, Milano 2001; D. Henrich, Aesthetic judgement and the Moral Image of the World, Stanford University Press, 1992; E Menegoni, Critica del Giudizio. Introduzione alla lettura, NIS, Roma 1995; L. Pareyson, L'estetica di Kant, Mursia, Milano 1984; L. Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze 1968, in particolare “Osservazioni sulla Critica del Giudizio”; G. Tonelli, Kant dall'estetica metafisica all'estetica psicoempirica. Studi sulla genesi del criticismo (1754-1771), Taylor, Torino 1955.

Primo momento del giudizio di gusto1 secondo la qualità

§ 1. Il giudizio di gusto è estetico. Per distinguere se qualcosa è bello o no, noi riferiamo la rappresentazione non all’oggetto mediante l’intelletto, per la conoscenza, ma al soggetto e al suo sentimento del piacere o del dispiacere mediante l’immaginazione (forse legata con l’intelletto). Quindi il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza e dunque logico, ma è estetico, intendendosi con ciò che il suo principio di determinazione non può essere altrimenti che soggettivo. Ma ogni riferimento delle rappresentazioni può essere oggettivo, perfino quello delle sensazioni (e allora esso denota ciò che di una rappresentazione empirica è reale), escluso solo il riferimento al sentimento del piacere o del dispiacere, con il quale nulla viene designato nell’oggetto, ma nel quale il soggetto sente se stesso secondo il modo in cui è affetto dalla rappresentazione. Cogliere con la propria facoltà conoscitiva (in un modo rappresentativo distinto o confuso che sia) un edificio regolare e conforme a scopi è tutt’altra cosa dall’essere coscienti di questa rappresentazione con una sensazione di compiacimento. Qui la rappresentazione viene riferita interamente al soggetto, e cioè al suo sentimento vitale, sotto il nome di sentimento del piacere o del dispiacere: il quale fonda una facoltà di distinguere e di giudicare del tutto speciale, che non contribuisce in nulla alla conoscenza, ma solo pone la rappresentazione data, nel soggetto, a fronte dell’intera facoltà delle rappresentazioni, e di ciò l’animo diviene cosciente nel sentimento del proprio stato. Rappresentazioni date, in un giudizio, possono essere empiriche (e perciò estetiche), eppure il giudizio che vien dato mediante esse è logico, se solo, nel giudizio, le rappresentazioni siano riferite all’oggetto. Viceversa però, se le rappresentazioni date fossero addirittura razionali ma venissero tuttavia riferite in un giudizio esclusivamente al soggetto (al suo sentimento), allora esse sarebbero in tal caso sempre estetiche.

§ 2. Il compiacimento che determina il giudizio di gusto è senza alcun interesse. È detto interesse il compiacimento che leghiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Perciò un tale interesse ha sempre riferimento nello stesso tempo alla facoltà di desiderare, o in quanto suo principio di determinazione oppure in quanto connesso necessariamente al suo principio di determinazione. Ora però, essendo in questione se qualcosa sia bello, si vuole sapere non se a noi o a chicchessia importi qualcosa, o anche solo possa importare, dell’esistenza della cosa, ma come noi la giudichiamo nel semplice riguardarla (con l’intuizione o la riflessione). Se qualcuno mi domanda se trovo bello il palazzo che vedo dinanzi a me, mi è certo lecito rispondere che non amo simili cose, fatte solo per lasciare a bocca aperta, oppure al modo di quel sachem irochese: che a Parigi niente gli piaceva di più delle trattorie; per di più posso ancora deprecare in buono stile roussoiano la boria dei grandi, che impiegano il sudore del popolo in cose tanto superflue; infine posso addirittura convincermi assai facilmente che, se mi trovassi su un’isola disabitata, senza speranza di ritornare mai tra gli uomini, e potessi far apparire d’incanto, esprimendo un semplice desiderio, un tale sontuoso edificio, non mi darei neppure questa briga, se già avessi una capanna per me abbastanza comoda. Si può concedermi e approvare tutto ciò; solo che ora non si tratta di questo. Si vuole sapere soltanto se la semplice rappresentazione dell’oggetto sia accompagnata in me da compiacimento, non importa quanto indifferente io possa essere nei riguardi dell’esistenza dell’oggetto di questa rappresentazione. Per dire che un oggetto è bello e dimostrare che ho gusto, si vede subito che importa ciò che io faccio in me stesso di questa rappresentazione, e non ciò per cui io dipendo dall’esistenza dell’oggetto. Chiunque deve ammettere che quel giudizio sulla bellezza in cui si mischi il minimo interesse è assai parziale e non è un giudizio di gusto puro. Si deve essere non minimamente presi dall’esistenza della cosa, ma del tutto indifferenti al proposito, per fare da giudici in questioni di gusto. Ma non possiamo chiarire meglio questa proposizione, che è di primaria importanza, se non contrapponendo al compiacimento puro e disinteressato2 del giudizio di gusto quello che è legato a un interesse, soprattutto se nello stesso tempo possiamo essere certi che non ci siano altre specie di interesse oltre a quelle di cui ora dobbiamo dire.

§ 3. Il compiacimento per il piacevole è legato a un interesse. Piacevole è ciò che piace ai sensi nella sensazione. E qui si presenta subito l’occasione di disapprovare, richiamandovi l’attenzione, uno scambio comunissimo tra i due significati che può avere la parola sensazione. Ogni compiacimento (si dice o si pensa) è già sensazione (di un piacere). Perciò tutto ciò che piace, appunto per il fatto che piace, è piacevole (e, secondo i diversi gradi o anche secondo le relazioni con altre sensazioni piacevoli, è grazioso, amabile, dilettevole, gradevole, e così via). Ma, se si concede questo, allora diventano del tutto identici, per quanto riguarda l’effetto sul sentimento del piacere, le impressioni dei sensi che determinano l’inclinazione, o i principi della ragione che determinano la volontà, o le semplici forme riflesse dell’intuizione che determinano la facoltà di giudizio. Infatti questo effetto sarebbe la piacevolezza che si prova nella sensazione del proprio stato, e, poiché infine tutto il nostro lavoro con le nostre facoltà deve risolversi nel pratico e unirvisi come nel suo obiettivo, allora non si potrebbe attribuire ad esse alcuna altra valutazione delle cose e del loro valore che quella consistente nel diletto che promettono. In definitiva, il modo in cui vi giungono non conta; e, poiché al proposito solo la scelta dei mezzi può fare una differenza, gli uomini potrebbero, sì, accusarsi l’un l’altro di stoltezza e dissennatezza, ma non mai di bassezza e di malvagità, dal momento che tutti, ciascuno secondo il suo modo di vedere le cose, si volgono verso quell’obiettivo che per ognuno è il diletto. Quando si chiama sensazione una determinazione del sentimento del piacere o del dispiacere, questa espressione significa qualcosa di completamente diverso rispetto a quando chiamo sensazione la rappresentazione di una cosa (mediante i sensi, in quanto ricettività che compete alla facoltà conoscitiva). Perché nell’ultimo caso la rappresentazione viene riferita all’oggetto, mentre nel primo unicamente al soggetto, e non serve affatto a una conoscenza, neppure a quella con la quale il soggetto stesso si conosce. Ma, con la spiegazione appena fornita, noi intendiamo con la parola sensazione una rappresentazione oggettiva dei sensi; e, per non correre continuamente il rischio di essere fraintesi, decidiamo di chiamare con il nome, del resto usuale, di sentimento ciò che deve restare sempre semplicemente soggettivo e che non può assolutamente costituire una rappresentazione di un oggetto. Il colore verde dei prati compete alla

sensazione oggettiva, quale percezione di un oggetto del senso; ma la sua piacevolezza compete alla sensazione soggettiva, con cui non viene rappresentato un oggetto, e cioè al sentimento, con il quale l’oggetto viene considerato come oggetto di compiacimento (che non è una sua conoscenza). Ora, che il mio giudizio su un oggetto, con il quale lo dichiaro piacevole, esprima un interesse per l’oggetto stesso risulta già chiaro dal fatto che questo suscita attraverso la sensazione il desiderio di oggetti simili, e di conseguenza il compiacimento presuppone non un semplice giudizio su di esso, ma il riferimento della sua esistenza al mio stato, in quanto affetto da un tale oggetto. Perciò del piacevole si dice non semplicemente che piace, ma che diletta. Non è una semplice approvazione quella che gli dedico, ma si produce con ciò un’inclinazione; e a ciò che è piacevole nel modo più vivo compete tanto poco un giudizio sulla qualità dell’oggetto, che coloro che mirano sempre e solo al godimento (poiché è questa l’espressione con cui si indica ciò che intimamente costituisce il diletto) si dispensano spesso e volentieri da ogni giudicare. § 4. Il compiacimento per il buono è legato a un interesse. Buono è ciò che, per mezzo della ragione, piace mediante il semplice concetto. Chiamiamo buono-a (l’utile) qualcosa che piace solo come mezzo; ma chiamiamo buono in sé qualcosa che piace per se stesso. In entrambi è sempre contenuto il concetto di uno scopo, quindi il rapporto della ragione con il volere (almeno possibile), e di conseguenza un compiacimento per l’esistenza di un oggetto o di un’azione, cioè un qualche interesse. Per trovare buono qualcosa, debbo sempre sapere che cosa deve essere l’oggetto, cioè averne un concetto. Per trovarvi la bellezza, non ne ho bisogno. Fiori, disegni liberi, linee intrecciate tra di loro senza intento, che vanno sotto il nome di fogliame, non significano niente, non dipendono da un concetto determinato, eppure piacciono. Il compiacimento per il bello deve dipendere dalla riflessione su un oggetto, che conduce a un qualche concetto (ma senza che sia determinato quale), e perciò si distingue anche dal piacevole, che riposa completamente sulla sensazione. In molti casi, è vero, il piacevole sembra fare tutt’uno col buono. In questo senso si dice comunemente: ogni diletto (soprattutto se durevole) è in se stesso buono; il che all’incirca vorrebbe dire che l’essere durevolmente piacevole e l’essere buono fanno tutt’uno. Ma si può subito notare che

questo è semplicemente un erroneo scambio di parole, poiché i concetti che propriamente corrispondono a queste espressioni non possono in alcun modo essere scambiati l’uno con l’altro. Il piacevole, che come tale rappresenta l’oggetto unicamente in riferimento al senso, deve essere innanzi tutto riportato mediante il concetto di uno scopo sotto principi della ragione perché si possa chiamarlo, come oggetto della volontà, buono. Ma che si tratti di un riferimento del tutto diverso al compiacimento, quando nello stesso tempo chiamo buono ciò che mi diletta, può essere ricavato dal fatto che nel buono si pone sempre la domanda se esso sia solo mediatamente buono oppure immediatamente buono (se utile o buono in sé); là dove invece nel piacevole tale domanda non può porsi affatto, dato che la parola significa sempre qualcosa che piace immediatamente. (E altrettanto, accade anche con ciò che chiamo bello.) [...] Ma, nonostante tutte queste differenze tra il piacevole e il buono, entrambi tuttavia si accordano nel fatto che sono sempre legati al loro oggetto con un interesse, non soltanto il piacevole (§ 3) e ciò che è buono mediatamente (l’utile), ciò che piace come mezzo per ottenere una qualsiasi cosa piacevole, ma anche ciò che è buono assolutamente e sotto ogni riguardo, cioè il buono morale, che comporta l’interesse più alto. Poiché il buono è l’oggetto della volontà (cioè di una facoltà di desiderare determinata dalla ragione). Ma volere qualcosa e provare compiacimento per la sua esistenza, e quindi prendervi interesse, è identico. [...] Definizione del bello derivata dal primo momento

Gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un modo rappresentativo mediante un compiacimento, o un dispiacimento, senza alcun interesse. L’oggetto di un tale compiacimento si chiama bello. Secondo momento del giudizio di gusto, cioè secondo la sua quantità

§ 6. Il bello è ciò che viene rappresentato, senza concetti, come oggetto di un compiacimento universale. Questa definizione può essere derivata dalla precedente definizione del bello, quale oggetto di compiacimento senza alcun interesse. Infatti, ciò di cui qualcuno è consapevole che il

compiacimento per esso è in lui senza alcun interesse, egli non può giudicarlo se non come se esso debba contenere un principio di compiacimento per ciascuno. Infatti, poiché questo non si fonda su una qualche inclinazione del soggetto (né su qualche altro interesse frutto di riflessione), ma poiché il giudicante si sente completamente libero in rapporto al compiacimento che egli dedica all’oggetto, egli non può trovare condizioni private, alle quali aderisca esclusivamente il suo proprio soggetto, quali principi del compiacimento, e deve perciò considerarlo come fondato in ciò che egli può presupporre anche in ciascun altro; di conseguenza deve credere di aver ragione di attribuire a ciascuno un simile compiacimento. Egli parlerà quindi del bello come se la bellezza fosse una qualità dell’oggetto e il giudizio fosse logico (tale da costituire mediante concetti dell’oggetto una sua conoscenza), sebbene esso sia solo estetico e contenga semplicemente un riferimento della rappresentazione dell’oggetto al soggetto; e ciò avviene perché esso ha tuttavia questa somiglianza con il giudizio logico: che se ne può presupporre la validità per ciascuno. Ma questa universalità neppure può provenire da concetti. Ché non c’è alcun passaggio dai concetti al sentimento del piacere o del dispiacere (eccetto che nelle leggi pratiche pure, che però comportano un interesse, il quale non è invece legato con i giudizi di gusto puri). Di conseguenza al giudizio di gusto, con la coscienza dell’astrazione, in esso, da ogni interesse, deve aderire un’esigenza di validità per ciascuno, senza una universalità riferita ad oggetti, vale a dire: con esso deve essere legata un’esigenza di universalità soggettiva. § 7. Comparazione del bello con il piacevole e il buono in forza del suddetto carattere. Per ciò che riguarda il piacevole a ciascuno basta che il suo giudizio, che egli fonda su un sentimento privato e con il quale dice di un oggetto che gli piace, si limiti anche semplicemente alla sua persona. Perciò, se egli dice: il vino delle Canarie è piacevole, accetta volentieri che un altro corregga la sua espressione e gli faccia notare che dovrebbe dire: è piacevole per me; e così non solo per il gusto della lingua, del palato e della gola, ma anche per ciò che può essere piacevole agli occhi e agli orecchi di ciascuno. Per uno il colore violetto è gentile e amabile, per un altro è smorto e senza vita. Uno ama il suono degli strumenti a fiato, un altro quello degli strumenti a corda. Da questo punto di vista sarebbe follia discutere su tali questioni, al fine di riprovare come non giusto il giudizio

dell’altro, che è diverso dal nostro, come se esso gli fosse logicamente contrapposto, ché in riferimento al piacevole vale il principio: ciascuno ha il suo proprio gusto (dei sensi). Con il bello le cose stanno in modo del tutto diverso. Sarebbe (proprio al contrario) risibile se uno, che presumesse di essere qualcuno in fatto di gusto, pensasse di legittimarsi in questo modo: Questo oggetto (l’edificio che stiamo vedendo, l’abito che quello indossa, il concerto che stiamo ascoltando, la poesia che deve essere giudicata) è bello per me. Ché, se semplicemente gli piace, non deve chiamarlo bello. Molte cose possono avere per lui attrattiva e piacevolezza, e di ciò non importa a nessuno; ma, se egli dà per bello qualcosa, allora attribuisce agli altri il medesimo compiacimento: giudica non semplicemente per sé, ma per ciascuno, e parla quindi della bellezza come se essa fosse una proprietà delle cose. Dice perciò: questa cosa è bella; né per questo conta, nel suo giudizio di compiacimento, sul consenso degli altri, per il fatto che più volte li ha trovati consenzienti con esso, ma piuttosto lo esige da loro. Li biasima se giudicano altrimenti e nega loro il gusto, pur pretendendo che essi debbano averlo, e in questo senso non si può dire: ciascuno ha il suo gusto particolare. Il che equivarrebbe a dire che non c’è affatto un gusto, cioè che non c’è alcun giudizio estetico che possa avanzare una legittima esigenza di accordo da parte di ciascuno. Nondimeno si ritiene che anche riguardo al piacevole si possa trovare tra gli uomini una concordanza nel giudicarne, rispetto alla quale si nega il gusto ad alcuni, lo si attribuisce ad altri, e, certo, nel significato non di organo del senso, ma di facoltà di giudicare in rapporto al piacevole in genere. Così si dice di qualcuno che sa intrattenere i propri ospiti con cose piacevoli (che riguardano il godimento attraverso tutti i sensi), in modo che tutti loro ne traggano piacere: che egli ha gusto. Ma qui l’universalità viene presa solo comparativamente; e ci sono solo regole generali (come lo sono tutte le regole empiriche), non universali, alle quali ultime si rifà, o di cui avanza l’esigenza, il giudizio di gusto sul bello. È un giudizio che si riferisce alla socievolezza, in quanto questa riposa su regole empiriche. Certo, anche riguardo al buono i giudizi avanzano con diritto l’esigenza della validità per ciascuno; solo che il buono è rappresentato come oggetto di un compiacimento universale soltanto mediante un concetto, ciò che non è il caso né del piacevole né del bello.

§ 8. L'universalità del compiacimento è rappresentata in un giudizio di gusto solo come soggettiva. Questa speciale determinazione dell’universalità di un giudizio estetico, quale si può trovare in un giudizio di gusto, è non per il logico, ma, certo, per il filosofo trascendentale un fatto notevole, che gli impone una non piccola fatica per scoprire la sua origine, e che però in cambio rivela anche una proprietà della nostra facoltà conoscitiva che senza questa analisi sarebbe rimasta sconosciuta. Innanzi tutto bisogna convincersi pienamente del fatto che con il giudizio di gusto (sul bello) si attribuisce a ciascuno il compiacimento per un oggetto, senza che ci si fondi però su un concetto (ché si tratterebbe allora del buono); e che questa esigenza di validità universale compete così essenzialmente a un giudizio con il quale si dichiara bello qualcosa, che, senza pensare a quella universale validità, a nessuno verrebbe in mente di usare tale espressione, ma tutto ciò che piace senza concetto sarebbe stato annoverato nel piacevole, riguardo al quale si permette a chiunque di pensarla come vuole, e nessuno pretende dagli altri il consenso con il proprio giudizio di gusto, ciò che invece accade sempre nel giudizio di gusto sulla bellezza. Posso chiamare il primo gusto dei sensi e il secondo gusto della riflessione, in quanto il primo pronuncia soltanto giudizi privati e il secondo invece giudizi che si danno come aventi validità comune (pubblici), in entrambi i casi giudizi estetici (non pratici) su un oggetto, ma solo in vista del rapporto della sua rappresentazione con il sentimento del piacere e del dispiacere. Ora è pur strano che, mentre nel caso del gusto dei sensi l’esperienza non solo mostra che il suo giudizio (di piacere o dispiacere per qualcosa) non vale universalmente, ma ognuno è già di per sé così modesto, da non richiedere agli altri appunto un tale consenso (sebbene di fatto si trovi frequentemente una assai larga concordanza anche in questi giudizi), invece il gusto della riflessione, che pure è anche abbastanza spesso respinto, come l’esperienza insegna, insieme alla sua esigenza di validità universale per ciascuno del suo giudizio (sul bello), tuttavia possa trovare possibile (ciò che esso fa anche di fatto) rappresentarsi giudizi che potrebbero esigere universalmente quel consenso, e lo attribuisca in effetti a ciascuno per ognuno dei suoi giudizi di gusto, senza che i giudicanti siano in conflitto a causa della possibilità di una tale esigenza, potendo invece non convenire solo in casi particolari sulla giusta applicazione di questa facoltà.

Innanzi tutto si deve notare qui che una universalità che non riposi su concetti dell’oggetto (sia pure solo empirici), non è affatto logica, ma è estetica, vale a dire che essa contiene non una quantità oggettiva del giudizio, ma solo una quantità soggettiva, per la quale uso anche l’espressione di validità comune, che indica la validità del riferimento di una rappresentazione non alla facoltà di conoscere, ma al sentimento del piacere e del dispiacere per ciascun soggetto. (Ma ci si può anche servire della medesima espressione per la quantità logica del giudizio, solo se si aggiunge: validità universale oggettiva, per differenziarla da quella soltanto soggettiva, che è sempre estetica.) Ora, un giudizio universalmente valido oggettivamente, lo è sempre anche soggettivamente, cioè: se il giudizio vale per tutto ciò che è contenuto sotto un concetto dato, allora vale anche per chiunque si rappresenti un oggetto mediante quel concetto. Ma da una validità universale soggettiva, cioè estetica, che non riposa su un concetto, non si può inferire la validità universale logica; perché quel tipo di giudizi non si rivolge affatto all’oggetto. Ma proprio per ciò l’universalità estetica, che viene attribuita a un giudizio, deve essere di tipo speciale, poiché il predicato della bellezza non si collega con il concetto dell’oggetto, considerato nella sua intera sfera logica, e invece si estende appunto all’intera sfera dei giudicanti. Per quanto riguarda la quantità logica, tutti i giudizi di gusto sono giudizi singolari. Poiché infatti io debbo mettere immediatamente l’oggetto a fronte del mio sentimento del piacere e del dispiacere, e non mediante concetti, allora il giudizio di gusto non può avere la quantità di un giudizio universalmente valido oggettivamente, sebbene se ne possa fare un giudizio logicamente universale se la rappresentazione singola dell’oggetto del giudizio di gusto, secondo le condizioni che lo determinano, viene trasformata mediante comparazione in un concetto: per esempio, la rosa che sto guardando, la dichiaro bella con un giudizio di gusto. Invece il giudizio che nasce dalla comparazione di molti giudizi singolari: le rose in generale sono belle, è asserito non più come un giudizio semplicemente estetico, ma come un giudizio logico fondato su un giudizio estetico. Ora il giudizio: la rosa è piacevole (all’odorato) è, sì, un giudizio estetico e singolare, non però un giudizio di gusto, ma un giudizio dei sensi. Vale a dire: esso si distingue dal primo per il fatto che il giudizio di gusto comporta la quantità estetica dell’universalità, cioè della validità per ciascuno, che non

può essere ritrovata nel giudizio sul piacevole. Solamente i giudizi sul buono, sebbene essi determinino anche il compiacimento per un oggetto, hanno universalità logica e non semplicemente estetica, perché essi valgono nei riguardi dell’oggetto, come conoscenze di questo, e quindi per ciascuno. Se si giudicano oggetti semplicemente secondo concetti, allora va perduta ogni rappresentazione della bellezza. Quindi non può esserci neppure una regola, secondo la quale qualcuno dovrebbe essere costretto a riconoscere qualcosa come bello. Per giudicare se un abito, una casa, un fiore sono belli, non ci si lascia convincere a parole, nel proprio giudizio, da ragioni o da principi. Uno vuol sottoporre l’oggetto ai suoi propri occhi, proprio come se il suo compiacimento dipendesse dalla sensazione; e tuttavia, quando poi dice bello un oggetto, crede di avere per sé una voce universale e avanza l’esigenza dell’adesione di ciascuno, mentre invece ogni sensazione privata deciderebbe per lui solo e per il suo compiacimento. Ora, si può vedere qui che nel giudizio del gusto, riguardo al compiacimento senza mediazione di concetti, non viene postulato nient’altro che una tale voce universale, e quindi la possibilità di un giudizio estetico che nello stesso tempo può essere considerato valido per ciascuno. Lo stesso giudizio di gusto non postula l’accordo di ciascuno (ché questo può farlo solo un giudizio logicamente universale, in quanto può addurre ragioni); solo richiede da ciascuno questo accordo, come un caso della regola, rispetto al quale esso si aspetta la conferma non da concetti, ma dall’adesione degli altri. La voce universale è quindi solo un’idea (dove essa si fondi, non viene qui ancora ricercato). Può essere incerto che chi crede di pronunciare un giudizio di gusto giudichi effettivamente in conformità di quell’idea, ma che egli vi si riferisca, e che quindi il suo voglia essere un giudizio di gusto, lo denuncia usando l’espressione bellezza. Per se stesso però egli può divenirne certo mediante la semplice coscienza della separazione di tutto ciò che compete al piacevole e al buono dal compiacimento che ancora gli resta; e questo è tutto ciò per cui egli si ripromette l’accordo di ciascuno: ed egli, a queste condizioni, sarebbe anche giustificato in questa esigenza, se soltanto non contravvenisse spesso ad esse e non pronunciasse perciò un giudizio di gusto sbagliato. § 9. Esame della questione: se nel giudizio di gusto il sentimento del piacere preceda il giudicare l’oggetto oppure questo quello. La soluzione di tale questione è la chiave della critica del gusto ed è degna perciò di ogni

attenzione. Se precedesse il piacere per l’oggetto dato, e nel giudizio di gusto dovesse essere solo riconosciuta alla rappresentazione dell’oggetto la comunicabilità universale del piacere stesso, un tale procedimento sarebbe in contraddizione con se stesso. Infatti un simile piacere non sarebbe altro che la semplice piacevolezza nella sensazione dei sensi, e per sua natura potrebbe perciò avere solo una validità privata, dipendendo immediatamente dalla rappresentazione con cui l’oggetto è dato. È quindi l’universale capacità di comunicazione dello stato dell’animo nella rappresentazione data che, quale condizione soggettiva del giudizio di gusto, sta a fondamento di questo, e il piacere per l’oggetto deve esserne la conseguenza. Ma niente può essere universalmente comunicato se non una conoscenza e una rappresentazione, in quanto questa compete alla conoscenza. Ché solo in quanto tale la rappresentazione è oggettiva e ha perciò un punto di riferimento universale con cui la facoltà rappresentativa di tutti è obbligata ad armonizzarsi. Ora, se il principio di determinazione del giudizio su questa comunicabilità universale della rappresentazione deve essere pensato come semplicemente soggettivo, cioè senza un concetto dell’oggetto, allora quel principio non può essere altro che lo stato dell’animo che si dà nel rapporto delle facoltà rappresentative tra di loro, in quanto queste riferiscono una rappresentazione data alla conoscenza in genere. Le facoltà conoscitive, che sono messe in gioco da questa rappresentazione, sono in questo caso in un libero gioco, ché nessun concetto determinato le limita a una particolare regola conoscitiva. Quindi lo stato dell’animo in questa rappresentazione deve essere quello di un sentimento del libero gioco delle facoltà rappresentative in una rappresentazione data per una conoscenza in genere. Ora, a una rappresentazione con cui è dato un oggetto, e perché ne risulti in genere una conoscenza, competono l’immaginazione, per la composizione del molteplice dell’intuizione, e l’intelletto, per l’unità del concetto che unifica le rappresentazioni. Questo stato di un libero gioco delle facoltà conoscitive, sull’occasione di una rappresentazione mediante la quale è dato un oggetto, deve poter comunicarsi universalmente, perché la conoscenza, in quanto determinazione dell’oggetto con cui rappresentazioni date (in un soggetto quale che sia) debbono armonizzarsi, è l’unico modo rappresentativo che

valga per ciascuno. La comunicabilità universale soggettiva del modo rappresentativo in un giudizio di gusto, poiché deve aver luogo senza presupporre un concetto determinato, non può essere altro che lo stato dell’animo nel libero gioco dell’immaginazione e dell’intelletto (in quanto questi si armonizzano tra di loro, come è richiesto per una conoscenza in genere), essendo noi consapevoli che questo rapporto soggettivo, appropriato alla conoscenza in genere, dovrebbe altrettanto bene valere per ciascuno e di conseguenza essere comunicabile universalmente, quanto lo è ogni conoscenza determinata, che pur sempre riposa su quel rapporto come sua condizione soggettiva. Ora, questo giudizio semplicemente soggettivo (estetico) dell’oggetto, o della rappresentazione mediante la quale l’oggetto è dato, precede il piacere per l’oggetto stesso ed è il fondamento di tale piacere per l’armonia delle facoltà conoscitive; ma soltanto su quella universalità delle condizioni soggettive del giudizio sugli oggetti si fonda la validità universale soggettiva del compiacimento che leghiamo con la rappresentazione dell’oggetto che diciamo bello. Che comporti un piacere il poter comunicare il proprio stato dell’animo, anche solo in rapporto alle facoltà conoscitive, si potrebbe dame conto facilmente (empiricamente e psicologicamente) con la naturale tendenza dell’uomo alla socievolezza. Ma ciò non è sufficiente per il nostro intento. Il piacere che sentiamo, se chiamiamo qualcosa bello, lo attribuiamo a ciascun altro nel giudizio di gusto come necessario, come se fosse da considerare una qualità dell’oggetto, determinata in esso secondo concetti, pur essendo la bellezza per sé, senza riferimento al sentimento del soggetto, nulla. Ma la discussione di tale questione, dobbiamo tenerla in sospeso fino alla risposta a quest’altra: se e come sono possibili giudizi estetici a priori. Per ora occupiamoci ancora della questione minore: in che modo diveniamo coscienti nel giudizio di gusto del reciproco accordo soggettivo delle facoltà conoscitive tra di loro, se esteticamente con il semplice senso interno e la sensazione, oppure intellettualmente con la coscienza della nostra attività intenzionale, con cui le mettiamo in gioco. Se la rappresentazione data, che dà occasione al giudizio di gusto, fosse un concetto che unificasse intelletto e immaginazione nel giudizio

sull’oggetto perché si abbia una conoscenza dell’oggetto, la coscienza di questo rapporto sarebbe intellettuale (come nello schematismo oggettivo della facoltà di giudizio, di cui tratta la Critica). Allora però il giudizio non verrebbe dato in riferimento al piacere e al dispiacere, e quindi non sarebbe un giudizio di gusto. Ora, invece, il giudizio di gusto, indipendentemente da concetti, determina l’oggetto nei riguardi del compiacimento e del predicato della bellezza. Quindi quell’unità soggettiva del rapporto può essere riconosciuta soltanto mediante la sensazione. Il ravvivamento di entrambe le facoltà (l’immaginazione e l’intelletto) in un’attività indeterminata e tuttavia, grazie all’occasione della rappresentazione data, concorde, cioè in quell’attività che compete a una conoscenza in genere, è la sensazione, la cui universale comunicabilità il giudizio di gusto postula. Un rapporto oggettivo può, sì, essere solo pensato, ma, in quanto è soggettivo secondo le sue condizioni, può però essere sentito nell’effetto sull’animo; e in un rapporto che non ha a fondamento un concetto (come quello delle capacità rappresentative in funzione di una facoltà conoscitiva in genere) non è possibile altra coscienza che attraverso la sensazione dell’effetto, che consiste in un gioco agevole di entrambe le facoltà dell’animo ravvivate da una vicendevole armonizzazione. Una rappresentazione che, in quanto singola e senza che la si paragoni con altre, presenti tuttavia un’armonia rispetto a quelle condizioni dell’universalità, ciò che costituisce il compito dell’intelletto in genere, mette le facoltà conoscitive in una proporzionata disposizione all’accordo, quale noi richiediamo per ogni conoscenza e perciò anche riteniamo valida per chiunque sia destinato a giudicare con l’intelletto e i sensi congiunti tra di loro (per ogni uomo). Definizione del bello derivata dal secondo momento

Bello è ciò che piace universalmente senza concetto. Terzo momento dei giudizi di gusto secondo la relazione degli scopi che in essi è presa in considerazione

[...] § 11. Il giudizio di gusto non ha a fondamento nient’altro che la forma della conformità a scopi di un oggetto (o del suo modo rappresentativo). Ogni scopo, quando viene considerato come fondamento del compiacimento, comporta sempre un interesse, quale principio di determinazione del

giudizio sull’oggetto del piacere. Quindi non può stare a fondamento del giudizio di gusto uno scopo soggettivo. Ma neppure una rappresentazione di uno scopo oggettivo, cioè della possibilità dell’oggetto stesso secondo principi del legame secondo scopi, di conseguenza nessun concetto del buono può determinare il giudizio di gusto, dal momento che esso è un giudizio estetico, non un giudizio di conoscenza, che non concerne alcun concetto di come è fatto l’oggetto e della sua possibilità interna o esterna, per questa o quella causa, ma semplicemente il rapporto delle facoltà rappresentative tra loro, in quanto vengono determinate da una rappresentazione. Ora questo rapporto nella determinazione di un oggetto in quanto oggetto bello è legato con il sentimento di un piacere, che dal giudizio di gusto viene nello stesso tempo dichiarato come valido per ciascuno; di conseguenza tanto poco la piacevolezza che accompagna la rappresentazione può contenere il principio di determinazione del giudizio di gusto, quanto la rappresentazione della perfezione dell’oggetto e il concetto del buono. Quindi nella rappresentazione di un oggetto nient’altro che la conformità soggettiva a scopi, senza alcuno scopo (né oggettivo, né soggettivo), e dunque la semplice forma della conformità a scopi nella rappresentazione con cui un oggetto ci è dato, può costituire, in quanto ne siamo consapevoli, il compiacimento che, senza concetto, giudichiamo come universalmente comunicabile, e quindi il principio di determinazione del giudizio di gusto. § 12. Il giudizio di gusto riposa su principi a priori. È assolutamente impossibile stabilire a priori il collegamento del sentimento di un piacere o di un dispiacere, come effetto, con una rappresentazione quale che sia (sensazione o concetto), come sua causa, perché questo sarebbe un rapporto causale, che (tra gli oggetti dell’esperienza) può essere conosciuto solo e sempre a posteriori e per mezzo dell’esperienza stessa. Per la verità, nella critica della ragione pratica abbiamo, sì, derivato a priori da concetti morali universali il sentimento del rispetto (come una modificazione particolare e peculiare di questo sentimento, non assimilabile affatto né al piacere né al dispiacere che riceviamo dagli oggetti empirici). Ma lì potevamo anche superare i confini dell’esperienza e richiamarci a una causalità che si fondava su una costituzione soprasensibile del soggetto, cioè quella della libertà. Solo che anche là non derivavamo propriamente questo sentimento

dall’idea della moralità come causa, e da questa invece veniva tratta soltanto la determinazione della volontà. Ma lo stato dell’animo di una volontà comunque determinata è già in sé un sentimento di piacere e identico con esso, non ne segue quindi come effetto; il che si dovrebbe ammettere solo se il concetto di moralità, inteso come un bene, precedesse la determinazione della volontà mediante la legge; dopo di che il piacere, che sarebbe legato con il concetto, sarebbe vanamente tratto da questo come da una semplice conoscenza. Le cose stanno in modo simile con il piacere nel giudizio estetico: solo che esso è qui semplicemente contemplativo, non provocando un interesse per l’oggetto, mentre nel giudizio morale è pratico. La coscienza della conformità a scopi semplicemente formale nel gioco delle facoltà conoscitive del soggetto, sull’occasione di una rappresentazione con cui è dato un oggetto, è il piacere stesso, poiché essa contiene un principio di determinazione dell’attività del soggetto in vista di un ravvivamento delle sue facoltà conoscitive, quindi una causalità interna (che è conforme a scopi) in vista della conoscenza in genere, senza tuttavia essere limitata a una conoscenza determinata, e perciò una semplice forma della conformità a scopi soggettiva di una rappresentazione in un giudizio estetico. Questo piacere non è in alcun modo pratico, né come quello che procede dal fondamento patologico della piacevolezza, né come quello che procede dal fondamento intellettuale del buono in quanto rappresentato. Eppure esso ha una causalità in sé, quella cioè di mantenere lo stato della rappresentazione stessa e l’attività delle facoltà conoscitive senza altro intento. Noi indugiamo nel riguardare il bello, perché questo riguardare rafforza e riproduce se stesso: il che è analogo (ma non identico) a quell’indugio che si ha quando un’attrattiva nella rappresentazione di un oggetto ripetutamente risveglia l’attenzione, là dove però l’animo è passivo. § 13. Il giudizio puro di gusto è indipendente dall’attrattiva e dall’emozione. Ogni interesse altera il giudizio di gusto e gli sottrae la sua imparzialità, specialmente quando esso non fa precedere la conformità a scopi al sentimento del piacere, come è invece interesse della ragione, ma la fonda su questo; ciò che sempre accade nel giudizio estetico su qualcosa che diletta o dà dolore. Perciò i giudizi che vengono influenzati in questo modo o non possono affatto avanzare l’esigenza di un compiacimento universalmente valido o tanto meno possono farlo quanto più le sensazioni

del tipo suddetto si trovano tra i principi di determinazione del gusto. Il gusto è sempre ancora barbarico quando ha bisogno del miscuglio di attrattive ed emozioni per il compiacimento, per non dire quando ne fa addirittura il criterio della sua approvazione. Eppure le attrattive non solo sono frequentemente incluse nella bellezza (che pure dovrebbe propriamente riguardare solo la forma) come contributo al compiacimento estetico universale, ma addirittura sono fatte passare per se stesse per bellezze, facendo passare di conseguenza la materia del compiacimento per la forma: un fraintendimento che, come molti altri, ha pur sempre a fondamento qualcosa di vero, e si può eliminare con un’accurata determinazione di questi concetti. Un giudizio di gusto, su cui non hanno influsso attrattiva ed emozione (sebbene esse possano essere legate con il compiacimento per il bello) e che ha quindi come principio di determinazione semplicemente la conformità a scopi della forma, è un giudizio puro di gusto. [...] § 16. Il giudizio di gusto, mediante il quale viene dichiarato bello un oggetto sotto la condizione di un concetto determinato, non è puro. Vi sono due specie di bellezza: la bellezza libera (pulchritudo vaga) o la bellezza semplicemente aderente (pulchritudo adhaerens). La prima non presuppone alcun concetto di ciò che l’oggetto deve essere, la seconda presuppone un tale concetto e la perfezione dell’oggetto secondo quel concetto. Le prime si dicono bellezze (sussistenti per sé) di questa o quella cosa; l’altra viene attribuita, in quanto aderente a un concetto (bellezza condizionata), a oggetti che stanno sotto il concetto di uno scopo particolare. I fiori sono bellezze naturali libere. Difficilmente uno che non sia un botanico sa di solito che sorta di cosa debba essere un fiore; e lo stesso botanico, che riconosce nel fiore l’organo di fecondazione della pianta, non tiene conto di questo scopo naturale quando ne giudica con il gusto. Quindi non si pone a fondamento di questo giudizio alcuna perfezione di un qualche tipo, alcuna interna conformità a scopi, cui si riferisca la composizione del molteplice. Molti uccelli (il pappagallo, il colibrì, l’uccello del paradiso), una quantità di conchiglie marine sono per sé bellezze che non spettano affatto a un oggetto determinato secondo concetti

in rapporto al suo scopo, ma piacciono liberamente e per se stesse. Così, per se stessi, non significano niente i disegni à la grecque, i fogliami delle incorniciature o sulle carte da parati, e così via: non rappresentano nulla, nessun oggetto sotto un determinato concetto, e sono bellezze libere. Si può annoverare nella stessa specie di bellezze anche ciò che in musica si chiamano fantasie (senza tema), anzi l’intera musica senza testo. Nel giudicare di una bellezza libera (secondo la semplice forma) il giudizio di gusto è puro. Non è presupposto un concetto di un qualche scopo, per cui il molteplice debba stare al servizio dell’oggetto dato, e quindi ciò che questo debba rappresentare, con il che verrebbe soltanto limitata la libertà dell’immaginazione che, per così dire, gioca nell’osservarne la figura. Ma la bellezza di un essere umano (e in questa specie quella di un uomo, di una donna o di un bambino), la bellezza di un cavallo, di un edificio (quale una chiesa, un palazzo, un arsenale, una villa) presuppone un concetto dello scopo che determina ciò che la cosa deve essere, e di conseguenza un concetto della sua perfezione; ed è quindi una bellezza semplicemente aderente. Ora, come il legame del piacevole (della sensazione) con la bellezza, che propriamente riguarda solo la forma, ostacolava la purezza del giudizio di gusto, così ne compromette la purezza il legame del buono (per cui, cioè, il molteplice è buono per la cosa stessa, secondo il suo scopo) con la bellezza. Si potrebbero aggiungere a un edificio molte cose che piacciono immediatamente nell’intuizione, se solo esso non dovesse essere una chiesa; si potrebbe abbellire una figura con ghirigori e tratti leggeri ma regolari, come fanno i neozelandesi con i loro tatuaggi, se solo non fosse un essere umano; e questo potrebbe avere tratti molto più fini e un profilo del volto più aggraziato e dolce, se solo non dovesse rappresentare un uomo o addirittura un guerriero. Ora il compiacimento per il molteplice in una cosa in riferimento allo scopo interno che ne determina la possibilità è un compiacimento fondato su un concetto; invece il compiacimento, nella bellezza, è tale da non presupporre alcun concetto, ma è legato immediatamente con la rappresentazione con cui è dato (non con cui è pensato) l’oggetto. E se il giudizio di gusto viene fatto dipendere, in rapporto al secondo tipo di compiacimento, dallo scopo che è presente nel primo, in quanto giudizio della ragione, e viene con ciò limitato, allora quello non è più un giudizio di

gusto puro e libero. Certo, con questo legame del compiacimento estetico con quello intellettuale il gusto guadagna in ciò, che viene fissato, e, sebbene non divenga universale, gli possono essere prescritte però regole in rapporto a certi oggetti determinati conformemente a scopi. Ma queste allora non sono neppure regole del gusto, ma semplicemente della compatibilità del gusto con la ragione, cioè del bello con il buono, mediante le quali il bello diventa adoperabile come strumento di un intento volto al buono, per rafforzare con quella disposizione dell’animo all’accordo, che mantiene se stessa ed è di validità soggettiva universale, quel modo di pensare che può essere mantenuto solo mediante un faticoso proponimento, ma che è universalmente valido in modo oggettivo. Tuttavia, propriamente, né la perfezione guadagna dalla bellezza, né la bellezza dalla perfezione; ma, dal momento che, quando paragoniamo la rappresentazione, con cui ci è dato un oggetto, con l’oggetto stesso (riguardo a ciò che esso deve essere) mediante un concetto, non si può nello stesso tempo evitare di tenerla insieme nel soggetto con la sensazione, allora, quando si armonizzano tra loro entrambi gli stati dell’animo, ne guadagna nel suo complesso la facoltà delle capacità rappresentative. Un giudizio di gusto sarebbe puro nei riguardi di un oggetto dallo scopo interno determinato solo se il giudicante o non avesse alcun concetto di questo scopo o nel suo giudizio ne facesse astrazione. Ma allora, sebbene pronunci un giusto giudizio di gusto, giudicando l’oggetto come bellezza libera, sarebbe censurato da chi consideri la bellezza dell’oggetto solo come una qualità aderente (che guarda allo scopo dell’oggetto) e accusato di gusto falso, pur giudicando entrambi a loro modo giustamente: l’uno secondo ciò che ha dinanzi ai sensi, l’altro secondo ciò che ha nel pensiero. Con questa distinzione si possono comporre molti dissidi tra giudici del gusto sulla bellezza, mostrando loro che l’uno si attiene alla bellezza libera, l’altro alla bellezza aderente, che il primo pronuncia un giudizio di gusto puro, il secondo un giudizio di gusto applicato. [...] Definizione del bello derivata dal terzo momento

Bellezza è forma della conformità a scopi di un oggetto, in quanto essa vi è percepita senza rappresentazione di uno scopo.3 Quarto momento del giudizio di gusto secondo la modalità del compiacimento per l’oggetto

§ 18. Che cosa sia la modalità di un giudizio di gusto. Di una qualsiasi rappresentazione posso dire che è almeno possibile che essa (in quanto conoscenza) sia legata con un piacere. Di ciò che chiamo piacevole, dico che provoca realmente piacere in me. Ma del bello si pensa che abbia un riferimento necessario al compiacimento. Ora, questa necessità è di un tipo speciale: non una necessità teoretica oggettiva, in cui possa essere riconosciuto a priori che ciascuno sentirà questo compiacimento per l’oggetto da me detto bello; e neppure una necessità pratica, in cui, mediante concetti di una volontà razionale pura, che serve da regola per un essere che agisce liberamente, questo compiacimento sia la conseguenza necessaria di una legge oggettiva e non significhi altro se non che si deve assolutamente agire in un certo modo (senz’altro intento). Ma può essere chiamata, in quanto necessità che è pensata in un giudizio estetico, soltanto esemplare, vale a dire: una necessità dell’accordo di tutti in un giudizio che viene considerato come esempio di una regola universale che non si può addurre. Poiché questa necessità, non essendo un giudizio estetico un giudizio oggettivo e conoscitivo, non può essere derivata da concetti determinati, e quindi non è apodittica. Ancora meno può essere inferita dalla generalità dell’esperienza (di una completa concordanza dei giudizi sulla bellezza di un certo oggetto). Infatti non solo l’esperienza difficilmente produrrebbe attestazioni in quantità sufficiente in questo senso, ma nessun concetto della necessità di tali giudizi può essere fondato su giudizi empirici. § 19. La necessità soggettiva, che attribuiamo al giudizio di gusto, è condizionata. Il giudizio di gusto richiede l’accordo di ciascuno; e chi dichiara bello qualcosa intende che ciascuno debba dare la sua approvazione all’oggetto in questione e allo stesso modo dichiararlo bello. Nel giudizio estetico quindi, pur con tutti i dati che sono richiesti per giudicare, ci si pronuncia riguardo al dovere solo condizionatamente. Si aspira a ottenere l’accordo di ogni altro, perché si ha per ciò un principio che è comune a tutti; sul quale accordo si potrebbe anche contare, se solo si

fosse sempre sicuri che il caso sia stato sussunto correttamente sotto quel principio in quanto regola dell’approvazione. § 20. ha condizione della necessità, pretesa da un giudizio di gusto, è l’idea di un senso comune. Se i giudizi di gusto avessero (al pari dei giudizi di conoscenza) un principio oggettivo determinato, allora chi li formulasse secondo tale principio potrebbe avanzare l’esigenza di una necessità incondizionata del suo giudizio. Se essi fossero privi di ogni principio, come quelli del semplice gusto dei sensi, allora non potrebbe venire in mente proprio nessuna loro necessità. Quindi essi debbono avere un principio soggettivo, che solo mediante il sentimento e non mediante concetti, ma in modo universalmente valido, determini ciò che piace e ciò che dispiace. Ma un tale principio potrebbe essere considerato solo come un senso comune, il quale è essenzialmente distinto dal comune intelletto, che talvolta viene chiamato anche senso comune (sensus communis), in quanto quest’ultimo giudica non secondo il sentimento, ma sempre secondo concetti, sebbene di solito solo in quanto sono principi rappresentati oscuramente. Quindi solo nella presupposizione che ci sia un senso comune (con il quale però intendiamo non un senso esterno, ma l’effetto del libero gioco delle nostre facoltà conoscitive), solo nella presupposizione, dico, di un tale senso comune può essere pronunciato il giudizio di gusto. § 21. Se si possa presupporre con ragione un senso comune. Conoscenze e giudizi, insieme alla convinzione che li accompagna, si debbono poter comunicare universalmente, ché altrimenti non spetterebbe loro alcun accordo con l’oggetto: sarebbero tutti insieme un gioco semplicemente soggettivo delle facoltà rappresentative, proprio come pretende lo scetticismo. Ma se le conoscenze si debbono poter comunicare, allora si deve poter comunicare universalmente anche lo stato dell’animo, vale a dire la disposizione all’accordo delle facoltà conoscitive per una conoscenza in genere, e precisamente quella proporzione che si addice a una rappresentazione (mediante cui ci è dato un oggetto), per farne una conoscenza, perché senza questa proporzione, come condizione soggettiva del conoscere, la conoscenza, quale effetto, non potrebbe nascere. E ciò accade effettivamente ogni volta che un oggetto dato muove, per mezzo dei sensi, l’immaginazione alla composizione del molteplice, e questa a sua volta l’intelletto all’unità della composizione in concetti. Ma questa disposizione all’accordo delle facoltà conoscitive ha una

diversa proporzione, secondo la diversità degli oggetti che sono dati. Tuttavia ce ne deve essere una, in cui questo interno rapporto per il ravvivamento (dell’una facoltà con l’altra) sia il più favorevole possibile per entrambe le facoltà dell’animo rispetto a una conoscenza (di oggetti dati) in genere; e questa disposizione all’accordo non può essere determinata altrimenti che mediante il sentimento (non secondo concetti). Ora, poiché questa stessa disposizione all’accordo si deve poter comunicare universalmente, e quindi anche il sentimento di essa (sull’occasione di una data rappresentazione), e però la comunicabilità universale di un sentimento presuppone un senso comune, allora questo può essere ammesso con ragione, e senza basarsi in questo caso su osservazioni psicologiche, ma in quanto è quella condizione necessaria della comunicabilità universale della nostra conoscenza che deve essere presupposta in ogni logica e per ogni principio delle conoscenze che non sia scettico. § 22. La necessità dell’accordo universale, che è pensato in un giudizio di gusto, è una necessità soggettiva che viene rappresentata come oggettiva sotto la presupposizione di un senso comune. In tutti i giudizi con cui dichiariamo bello qualcosa non concediamo a nessuno di essere di altro parere, senza fondare tuttavia il nostro giudizio su concetti, ma solo sul nostro sentimento, che quindi mettiamo a fondamento non come sentimento privato, ma come un sentimento che abbiamo in comune. Ora questo senso comune non può essere fondato, a questo fine, sull’esperienza, perché esso vuole giustificare giudizi che contengono un dovere: non dice che ciascuno si accorderà con il nostro giudizio, ma che deve armonizzarsi con esso. Quindi il senso comune del cui giudizio fornisco qui il mio giudizio di gusto come un esempio e gli attribuisco perciò validità esemplare, è una semplice norma ideale, sotto la cui presupposizione, di un giudizio che si armonizzasse con essa e del compiacimento che vi si esprime per un oggetto, si potrebbe fare per ciascuno con ragione una regola: perché il principio, preso, sì, solo soggettivamente e tuttavia come soggettivamente universale (un’idea necessaria a ciascuno), potrebbe addirittura esigere, per quanto riguarda la concordanza dei diversi giudicanti, un accordo oggettivo e universale, se solo si fosse sicuri di aver sussunto correttamente sotto quel principio. Questa norma indeterminata di un senso comune è da noi effettivamente presupposta: lo dimostra la nostra presunzione di

pronunciare giudizi di gusto. Se ci sia in effetti un tale senso comune, come principio costitutivo della possibilità dell’esperienza, o se un principio ancora più alto della ragione ne faccia per noi solo un principio regolativo, tale da produrre in noi innanzi tutto un senso comune per scopi superiori; se quindi il gusto sia una facoltà originaria e naturale, o solo l’idea di una facoltà ancora da acquisire e artificiale, così che un giudizio di gusto, con la sua pretesa di un accordo universale, in effetti sia soltanto un’esigenza della ragione di produrre una tale concordanza del modo di sentire, e il dovere, cioè la necessità oggettiva del confluire del sentimento di ognuno con il sentimento particolare proprio di ciascuno, significhi solo la possibilità di divenire in ciò solidali, e il giudizio di gusto offra un esempio solo dell’applicazione di questo principio: ciò non vogliamo né possiamo, qui, ancora ricercare ma per ora abbiamo solo da analizzare la facoltà del gusto nei suoi elementi e unificarli infine nell’idea di un senso comune. Definizione del bello derivata dal quarto momento

Bello è ciò che viene riconosciuto senza concetto come oggetto di un compiacimento necessario. Nota generale alla prima sezione dell’analitica

Se si trae il risultato dalle precedenti analisi, si trova che tutto sfocia nel concetto del gusto: che esso è una facoltà di giudicare un oggetto in riferimento alla libera conformità a leggi dell’immaginazione. Ora, se nel giudizio di gusto, l’immaginazione deve essere considerata nella sua libertà, in primo luogo essa viene assunta non come riproduttiva, come quando è sottoposta alle leggi dell’associazione, ma come produttiva e spontanea (in quanto autrice di forme arbitrarie di intuizioni possibili); e, se pure essa è, sì, legata nell’apprensione di un oggetto dato dei sensi a una forma determinata di questo oggetto e in quanto tale non ha libero gioco (come nell’immaginare), è però ancora possibile comprendere che l’oggetto possa appunto fornirle una forma, tale da contenere una composizione del molteplice quale la progetterebbe l’immaginazione, se lasciata libera a se stessa, in accordo con la conformità a leggi in genere dell’intelletto. Ma che l’immaginazione sia libera eppure da sé conforme a leggi, cioè che essa comporti un’autonomia, è una contraddizione. Solo l’intelletto dà la legge.

Ma, se l’immaginazione è costretta a procedere secondo una legge determinata, il suo prodotto, secondo la forma, è determinato mediante concetti, come esso deve essere; ma allora, come si è già mostrato, il compiacimento è non quello del bello, ma del buono (della perfezione, tutt’al più semplicemente formale) e il giudizio non è un giudizio mediante il gusto. Quindi solo una conformità a leggi senza legge e un accordo soggettivo dell’immaginazione nei riguardi dell’intelletto, senza accordo oggettivo, in cui la rappresentazione venga riferita a un concetto determinato di un oggetto, possono coesistere con la libera conformità a leggi dell’intelletto (che è stata detta anche conformità a scopi senza scopo) e con la peculiarità di un giudizio di gusto. Ora, le figure geometricamente regolari, un cerchio, un quadrato, un cubo, e così via, sono comunemente citate dai critici del gusto come i più semplici e indubbi esempi della bellezza; e tuttavia esse sono dette appunto regolari proprio perché non si può rappresentarle altrimenti che considerandole semplici esibizioni di un concetto determinato, che prescrive a quella figura la regola (secondo la quale, soltanto, essa è possibile). Quindi uno dei due deve essere sbagliato: o quel giudizio dei critici, che attribuisce la bellezza alle figure suddette, oppure il nostro, che trova necessaria per la bellezza una conformità a scopi senza concetto. Nessuno riterrà, forse, che sia necessario un uomo di gusto per trovare più compiacimento nella figura di un cerchio che in un contorno scarabocchiato, in un quadrilatero equilatero ed equiangolo che non in uno sbilenco, con lati diseguali e, per così dire, storpio, ché a questo proposito è richiesto solo il comune intelletto e per niente affatto il gusto. Ma dove l’intento è, per esempio, di dare un giudizio sulla grandezza di un luogo oppure di rendere afferrabile con una divisione il rapporto delle parti tra loro e rispetto al tutto, allora sono necessarie figure regolari e proprio del tipo più semplice; e il compiacimento riposa non immediatamente sulla vista della figura, ma sulla sua utilizzabilità per ogni sorta di intento possibile. Una camera, le cui pareti formino angoli sbilenchi, un giardino dello stesso tipo, nonché ogni violazione della simmetria, così nella figura degli animali (per esempio l’essere privi di un occhio), come in quella degli edifici o delle aiuole, dispiacciono, perché ciò è contrario allo scopo, non solo praticamente, in vista di un uso determinato di queste cose, ma anche per giudicarne secondo ogni sorta di intento possibile; il che non è il caso

del giudizio di gusto, che, se è puro, lega immediatamente compiacimento o dispiacimento al semplice riguardare l’oggetto, senza badare a un uso o a uno scopo. La conformità a regole che porta al concetto di un oggetto è, sì, la condizione indispensabile (conditio sine qua non) per cogliere l’oggetto in un’unica rappresentazione e determinare il molteplice nella sua forma. Questa determinazione è uno scopo in vista della conoscenza; e in riferimento a questa essa è anche sempre legata con il compiacimento (che accompagna la realizzazione di un qualsiasi intento, anche solo problematico). Ma allora si tratta semplicemente dell’approvazione che si dà alla soluzione soddisfacente di un compito, e non di un intrattenimento delle facoltà dell’animo, libero e conforme a scopi in modo indeterminato, con ciò che diciamo bello, là dove l’intelletto è al servizio dell’immaginazione e non questa al servizio di quello. In una cosa che è possibile solo mediante un intento, un edificio, ma anche un animale, la conformità a regole che consiste nella simmetria deve esprimere l’unità dell’intuizione che accompagna il concetto dello scopo, ed è quindi parte della conoscenza. Ma dove si tratta di intrattenere solo un libero gioco delle facoltà rappresentative (ma alla condizione di non urtare l’intelletto), in parchi, decorazioni di stanze, ogni sorta di arredi di buon gusto, e simili, la conformità a regole che si manifesti come costrizione è per quanto possibile evitata; perciò il gusto inglese nei giardini, il gusto barocco nei mobili spinge piuttosto la libertà dell’immaginazione fino ad avvicinarsi al grottesco, e in questa astrazione da ogni costrizione di regole costituisce precisamente il caso in cui il gusto può mostrare, nei progetti dell’immaginazione, la sua massima perfezione. Tutto ciò che è rigidamente conforme a regole (che si avvicina alla conformità matematica a regole) ha in sé qualcosa che è contrario al gusto: cioè non concede che ci si intrattenga a lungo nel riguardarlo, ma, in quanto espressamente non ha di mira la conoscenza o uno scopo pratico determinato, produce noia. Al contrario ciò con cui l’immaginazione può giocare in modo spontaneo e conforme a uno scopo è per noi sempre nuovo, e non ci si stanca mai della sua vista. Marsden nella sua descrizione di Sumatra osserva che là le bellezze libere della natura circondano dappertutto lo spettatore e perciò resta loro poco di attraente; e che invece una piantagione di pepe, quando nel mezzo di una foresta egli vi si

imbattè, dove i pali cui si avviticchiano le piante si sviluppano tra di loro in viali paralleli, ebbe su di lui grande attrattiva; e ne concludeva che la bellezza selvaggia, e all’apparenza senza regole, piace solo come diversivo a chi abbia visto a sazietà bellezze conformi a regole. Ma avrebbe solo dovuto provare a trattenersi per un giorno nella sua piantagione di pepe per rendersi conto che, quando l’intelletto grazie alla conformità a regole si è posto in una disposizione all’ordine, di cui ha sempre bisogno, l’oggetto non lo intrattiene più e piuttosto impone all’immaginazione una costrizione molesta, là dove invece la natura prodiga di varietà fino all’ostentazione dell’opulenza, non sottoposta ad alcuna costrizione di regole artificiali, può dare al suo gusto nutrimento costante. - Anche il canto degli uccelli, che non possiamo riportare sotto nessuna regola musicale, sembra contenere più libertà e quindi qualcosa in più per il gusto perfino di un canto umano che sia eseguito secondo tutte le regole dell’arte musicale: perché di quest’ultimo, se ripetuto più volte e a lungo, ci si stanca molto prima. Ma probabilmente noi scambiamo qui la nostra partecipazione alla gaiezza di una cara piccola bestiolina con la bellezza del suo canto, che quando è imitato dall’uomo con assoluta precisione (come capita talvolta con il verso dell’usignolo) pare al nostro orecchio del tutto privo di gusto. Gli oggetti belli sono inoltre da distinguere dalle belle vedute di oggetti (che assai spesso non possono più essere riconosciuti distintamente a causa della distanza). In queste ultime il gusto sembra non tanto aderire a ciò che l’immaginazione apprende in questo campo, quanto piuttosto a ciò che le dà occasione di immaginare, cioè a quelle vere e proprie fantasie con le quali l’animo si intrattiene ed è nello stesso tempo continuamente risvegliato dalla molteplicità che colpisce l’occhio, più o meno come alla vista delle figure mutevoli del fuoco di un camino o dello scorrere leggero di un ruscello, che entrambe non sono bellezze e tuttavia comportano un’attrattiva per l’immaginazione, in quanto ne intrattengono il libero gioco.

NOTE

1 La definizione del gusto, messa qui a fondamento, è che esso sia la facoltà di giudicare il bello. Ma ciò che è richiesto per dire bello un oggetto, deve rivelarlo l’analisi dei giudizi del gusto. Ho messo insieme i momenti, che concernono questa facoltà di giudicare nella sua riflessione, seguendo la guida delle funzioni logiche del giudicare (poiché nei giudizi di gusto è contenuto pur sempre un riferimento all’intelletto). Ho trattato in primo luogo la funzione della qualità, perché il giudizio estetico sul bello la riguarda in primo luogo. 2 Un giudizio su un oggetto di compiacimento può essere affatto disinteressato, e tuttavia essere molto interessante, vale a dire: esso non si fonda su un interesse, ma produce un interesse; simili sono tutti i giudizi morali puri. Ma i giudizi di gusto non fondano per se stessi alcun interesse. Solo nella società diviene interessante avere gusto, la cui ragione sarà indicata in seguito. 3 Si potrebbe addurre contro questa definizione un controesempio: che ci sono cose, in cui si vede una forma conforme a scopi, senza che si riconosca in essa uno scopo; per esempio quegli utensili di pietra, provvisti di un foro, a mo’ di manico, spesso tratti da antichi tumuli funerari, che, sebbene chiaramente tradiscano nella loro figura una conformità a scopi, di cui non si conosce lo scopo, non per ciò tuttavia vengono dichiarati belli. Solo che è già sufficiente che li si consideri come opere dell’arte per dover riconoscere che si riferisce la loro configurazione a una qualche intenzione e a uno scopo determinato. Perciò neppure alcun immediato compiacimento nella loro intuizione. Un fiore al contrario, per esempio un tulipano, viene ritenuto bello, perché viene trovata nella sua percezione una certa conformità a scopi, che, così come la giudichiamo, non è riferita a nessuno scopo.

Friedrich Schlegel La poesia e il romantico

Nei diversi frammenti critici e nel Dialogo sulla poesia pubblicati da Friedrich Schlegel (1772-1829) sulla rivista Athenaeum, da lui fondata nel 1798 insieme al fratello August Wilhelm Schlegel (1767-1845), troviamo un’esposizione emblematica dell’estetica del primo romanticismo tedesco, in tutto il suo sperimentalismo e la sua frammentarietà. La rivista, pubblicata per soli due anni dal 1798 al 1800, raccoglieva i contributi di una ristretta cerchia di intellettuali che si era riunita a Jena intorno ai fratelli Schlegel. Di tale cerchia facevano parte, tra gli altri, il teologo e filosofo Friedrich Schleiermacher (1768-1834), lo scrittore Johann Ludwig Tieck (1773-1853), il poeta Friedrich von Hardenberg, più noto con lo pseudonimo di Novalis (1772-1801), e il filosofo Friedrich Schelling (17751854), che a partire dal 1798 cominciò a insegnare proprio a Jena. Il gruppo, i cui membri pubblicavano in forma anonima i propri contributi su Athenaeum, era unito dal progetto di intervenire sulla scena letteraria e filosofica al fine di operare una trasformazione radicale del modo di pensare e giudicare la poesia e la letteratura. La dimensione collettiva della riflessione elaborata dal circolo di Jena fu esplicitamente teorizzata da Schlegel con i termini di “sinfilosofia” e “simpoesia” indicanti lo spirito di partecipazione intellettuale ed emotiva che animava i membri del gruppo, i quali intendevano presentarsi come una sorta di Autore multiplo, capace di sintetizzare in sé “diverse nature complementari” volte a “creare opere comuni”, e al tempo stesso di veicolare all’esterno, attraverso un linguaggio spesso volutamente esoterico e frammentario, il messaggio di una rivoluzione da attuarsi nel campo della critica letteraria e della poesia. In questo senso il gruppo di Jena può essere considerato il primo movimento estetico letterario in senso moderno, consapevole della propria

natura di élite intellettuale e intenzionato a far leva sulla dimensione collettiva della propria riflessione per aumentare la forza delle proprie idee. Parlando di estetica romantica in riferimento agli scritti comparsi su Athenaeum e, in particolare, alla produzione teorica di Friedrich Schlegel, sorge subito la necessità di chiarire il senso del termine “romantico” che, a differenza di altri termini appartenenti al vocabolario e alla storia dell’estetica, è diventato d’uso comune nel linguaggio corrente e sta a indicare determinati stati d’animo legati al sentimento, all’amore, alla passione. Da questa accezione di “romantico” come categoria psicologica è però necessario prescindere, se si vuole comprendere il significato dei termini “romantico” e “romanticismo” nell’estetica e nella storia della letteratura, dove si sono gradualmente imposti come categorie stilistiche e storiografiche. Innanzitutto, è importante sottolineare che il circolo di Jena, pur avendo una netta consapevolezza della propria specificità e della propria collocazione storica, non si è mai autodenominato “romantico”. Negli scritti comparsi su Athenaeum, il termine è impiegato non per autodefinirsi come scuola, bensì per caratterizzare una forma di poesia che da un lato affonda le sue origini nel passato, nella poesia cristiana medioevale e rinascimentale, e dall’altro è l’autentica poesia ancora a venire, l’ideale di letteratura verso cui si orientano le aspirazioni estetiche e utopiche del gruppo jenese. Nel frammento 116 di Athenaeum leggiamo infatti che, a differenza di altri generi poetici che hanno esaurito la propria vitalità e possono essere analizzati nella loro totalità compiuta, “il genere poetico romantico è ancora in divenire; anzi, questa è la sua essenza peculiare, che può soltanto eternamente divenire e mai essere compiuto. Esso non può esser esaurito da alcuna teoria, e solo una critica divinatoria potrà osare di voler caratterizzare il suo ideale. Esso solo è infinito, così come esso solo è libero e riconosce come sua prima legge che l’arbitrio del poeta non tollera alcuna legge. Il genere poetico romantico è l’unico a essere più di un genere e, per così dire, a essere la poesia stessa: poiché in un certo senso tutta la poesia è o deve essere romantica”. Il termine "romantico” non era stato inventato né da Schlegel né dagli altri collaboratori della rivista: presente verso la metà del XVII secolo in Inghilterra - dove romantick significa “al modo dei vecchi romanzi”, ossia di quelle forme di letteratura fantastica e d’argomento per lo più cavalleresco dette romance -, ricompare nel Settecento in riferimento a

paesaggi o edifici (castelli, rovine, foreste) con il significato di “pittoresco” Nella Germania della seconda metà del Settecento assume un’altra accezione, che risulterà decisiva per comprendere l’uso fattone da Schlegel: “romantico” indica ora tutto ciò che si riferisce alle lingue e alle letterature neolatine, che anche noi oggi chiamiamo “romanze” “Romantiche” sono quindi sia le forme tipiche di quelle letterature, come il poema cavalleresco o il romanzo vero e proprio, sia il contenuto di tali opere, spesso meraviglioso, fantastico, “romanzesco”. I termini “romantico” e “romanticismo” si sono poi imposti come categorie storiografiche indicanti sia il gruppo dei “romantici” jenesi, sia alcuni gruppi di intellettuali e scrittori attivi negli anni successivi, come per esempio quello della città di Heidelberg - caratterizzato da un profondo interesse per la mitologia e la storia delle lingue e delle tradizioni popolari -, che comprendeva il filologo Friedrich Creuzer (1771-1858) e gli scrittori Joseph Görres (1776-1848), i fratelli Jacob (1785-1863) e Wilhelm Grimm (1786-1859), Clemens Brentano (1778-1842) e Achim von Arnim (1781-1831) - o quello attivo a Berlino che ruota, a partire dal 1808, attorno alle figure di Adam Müller (1779-1829) e Heinrich von Kleist (1777-1811). Dopo che per lungo tempo, seguendo il giudizio formulato da Hegel, la produzione critica e letteraria dei romantici è stata accusata di essere concettualmente fragile e filosoficamente inconsistente, a causa della propria frammentarietà e rapsodicità, negli ultimi decenni si è affermata la tendenza a riconoscere la statura propriamente filosofica degli scritti di autori come Friedrich Schlegel, Novalis o Friedrich Hölderlin (17701843), che pure rimase autonomo rispetto al gruppo di Jena, rinvenendo comuni radici “romantiche” nel pensiero dei tre grandi rappresentanti dell’idealismo: Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), Schelling e lo stesso Hegel (1770-1831). Il carattere propriamente filosofico dell’estetica romantica può essere colto in modo emblematico nella consapevolezza, ampiamente teorizzata da Schlegel, dell’inscindibilità di poesia e critica, arte e discorso sull’arte, letteratura e teoria (e, come vedremo, storia) della letteratura. La poesia romantica, secondo Schlegel, deve contenere sempre un momento di riflessione su se stessa. Nel frammento 238, pubblicato su Athenaeum, Schlegel, riferendosi alla poesia romantica, parla di “poesia trascendentale”, ossia di una poesia intrinsecamente accompagnata dalla

consapevolezza teorica del proprio significato e del proprio farsi, così come una filosofia è trascendentale se non si occupa tanto degli oggetti della conoscenza ma del modo in cui essi sono conosciuti. Questa inscindibilità di poesia e critica ha un duplice significato, in quanto implica al tempo stesso che la poesia deve avere in sé una dimensione riflessiva, di autorispecchiamento, e che la critica deve farsi essa stessa poetica: nel Discorso sulla poesia Schlegel afferma che “solo in poesia si può propriamente parlare di poesia”, e ciò spiega la forma stessa di questo scritto, che si presenta come un dialogo contenente al suo interno quattro brevi trattati, intitolati rispettivamente “Epoche della poesia”, “Discorso sulla mitologia”, “Lettera sul romanzo”, “Saggio sulla diversità dello stile nelle opere giovanili e nelle opere tarde di Goethe”. Il primo breve trattato, “Epoche della poesia”, contiene una sorta di storia della letteratura in nuce che espone in modo molto sintetico alcune tesi fondamentali del primo romanticismo. Il percorso delineato va dalla letteratura della Grecia antica (i poemi omerici, le varie forme di poesia giambica, elegiaca, melica, ditirambica, la tragedia e la commedia) a Goethe - attraversando, in poche dense pagine, la letteratura della Roma antica, il Medioevo cavalleresco, Dante, Petrarca e Boccaccio, definiti “i tre capostipiti dello stile antico dell’arte moderna”, il poema cavalleresco rinascimentale del Boiardo e di Ariosto, e poi Cervantes e Shakespeare - e si conclude con un appello rivolto al futuro: “i tedeschi non hanno che da continuare a usare questi mezzi, seguire l’esempio dato da Goethe, esplorare le forme dell’arte fino alla sorgente, per dar loro nuova vita e nuove combinazioni, tornare alle origini della propria lingua e letteratura, liberare l’antica forza, il nobile spirito che ancora riposa, ignorato da tutti, nei documenti del passato e della nazione”. L’idea che l’individuazione dei tratti salienti della poesia del futuro debba prendere le mosse dalla considerazione del passato, esplorando “fino alla sorgente” la lingua, la letteratura e la civiltà del passato di una nazione, mostra bene uno degli aspetti insieme più importanti e influenti dell’intera estetica romantica: la radicale storicizzazione della riflessione sull’arte. Comprendere l’arte significa infatti, secondo i romantici, comprenderne la storia, l’evoluzione delle forme e degli stili da essa assunti. Compito dell’estetica, dunque, non è più fissare canoni, regole e modelli per la produzione artistica, né trattare temi quali il bello e il sublime in un’ottica gnoseologica

o psicologica che prescinde dalla loro variabilità storica (cosa che avviene, per esempio, in autori settecenteschi come Baumgarten o Burke). L’estetica si propone ora come una filosofia dell’arte che prende le mosse proprio dall’intrinseca storicità delle opere e delle forme artistiche, ossia dalla loro irriducibile individualità e determinatezza, e questa esigenza di comprensione storica viene fatta valere dai romantici non solo in relazione all’arte ma anche al linguaggio, al diritto, alla religione. La consapevolezza della determinatezza storica di ogni forma artistica agisce sul modo stesso di comprendersi e di presentarsi da parte dell’estetica romantica, là dove ricorrono frequentemente coppie di termini opposti come “antico” e “moderno” o “classico” e “romantico”. Si tratta di opposizioni che possono facilmente essere fraintese se non ricondotte al complesso della riflessione teorica da cui emergono in autori come Schlegel, Friedrich Schiller (1759-1805), Hegel o Schelling. Nello Studio della poesia greca (1797), Schlegel elabora un ampio paragone tra letteratura antica e letteratura moderna, nel quale la letteratura antica è presentata come il dominio dell’armonia, della perfezione, dell’equilibrio, mentre quella moderna appare caratterizzata dai valori opposti dell’anarchia, del caos, del disordine, dell’eccesso e del dissidio. Il senso complessivo del discorso schlegeliano mira a contrapporre il carattere naturale della cultura antica a quello artificiale della poesia moderna: da un lato la religione e la mitologia naturali della Grecia antica, dall’altro il carattere riflesso, artificiale, frammentario, ibrido della letteratura moderna, che affonda le proprie radici in una religione, il cristianesimo, con cui si spezza quell’unità armonica tra uomo e natura che caratterizzava le religioni antiche. A differenza del noto dibattito con cui, nella querelle degli Antichi e dei Moderni di fine Seicento, si confrontavano i sostenitori del primato della poesia antica e i fautori del primato dei moderni, in Schlegel la venerazione nei confronti dell’arte classica è accompagnata dalla consapevolezza che essa non può più porsi come modello da imitare. Tra arte antica e arte moderna ci sono differenze incolmabili, e l’universo di valori del moderno non può accogliere al suo interno un ordine ideale ormai perduto, se non vuole ricadere nella fredda precettistica del classicismo. L’equilibrio e la perfezione dell’arte, che riposavano sulla consonanza dello spirito creatore con il suo mondo e il suo destino, sono andati per sempre perduti, ma questa perdita e questa decadenza devono essere il punto di partenza per il

raggiungimento di una nuova perfezione, attraverso una rigenerazione dell’arte a cui si rivolgono gli sforzi del circolo jenese. La contrapposizione di antichi e moderni e quella, non equivalente, di classici e romantici, erano presenti in diversi scritti dell’epoca, anche di autori che non appartenevano al movimento romantico, col quale spesso entrarono in polemica. Poco prima che uscisse il testo di Schlegel Sullo studio della poesia greca, Friedrich Schiller, nel dicembre del 1795, aveva pubblicato sulla rivista Die Horen un saggio intitolato Sulla poesia ingenua e sentimentale, dove contrapponeva la poesia ingenua degli antichi fatta di equilibrio, armonia e immediata comunione con la natura - alla poesia sentimentale dei moderni, nella quale dominano la scissione, la distanza della riflessione, la ricerca dell’infinito e la tendenza alla rappresentazione di un ideale che contrappone l’arte alla realtà. La diade classico-romantico ritorna poi nell’Estetica di Hegel, dove l’arte classica (preceduta da quella simbolica) è l’arte in cui l’idea si manifesta in modo perfetto ed equilibrato nel sensibile, mentre nell’arte romantica, che è poi l’arte cristiana, si annuncia già quel prevalere dell’interiorità spirituale che porterà al superamento dialettico dell’arte stessa da parte della religione e della filosofia. Tra Schlegel, Schiller e Hegel vi sono tuttavia importanti differenze: in Schlegel, la distinzione tra “antico” e “moderno” è una distinzione storica, a cui si aggiunge poi quella tra “classico” e “romantico”; in Schiller, “ingenuo” e “sentimentale” sono categorie tipologiche, che individuano non due epoche della poesia, ma due modi o generi poetici; in Hegel, infine, l’arte “classica” e l’arte “romantica” sono due delle tre figure con cui si compie il cammino teleologico dell’arte come forma di autorealizzazione dello Spirito in direzione del suo superamento da parte della religione e della filosofia. Come abbiamo visto, l’approccio storico alla natura dell’arte esemplificato dal breve trattato “Epoche della poesia” è parte integrante del modo in cui i romantici definiscono e presentano la propria collocazione storica e la propria missione estetica. Una volta stabilita l’irrimediabile separazione tra antico e moderno, l’arte romantica si presenta come quell’arte che non si orienta verso una passiva riproduzione del modello classico bensì cerca nella tradizione della letteratura cristiana (i cicli della letteratura cavalleresca medioevale, Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Cervantes, Shakespeare) le radici di una rinascita della poesia. In Schlegel

“moderno” non coincide quindi necessariamente con “romantico”: è infatti moderna ma non romantica tutta l’arte che si rivolge all’antico come a un ideale da imitare con regole e precetti, per esempio il classicismo francese, costante bersaglio polemico dei romantici. In questo senso, il romanticismo appare segnato da un netto discrimine rispetto alle teorie estetiche precedenti, ossia dall’abbandono definitivo del principio di imitazione inteso come statica riproduzione di un modello esterno, individuabile di volta in volta nell’antico, o nella natura, o in entrambi. Secondo i romantici, nella sua produttività e creatività l’arte non deve essere imitazione passiva della natura bensì continuazione della sua forza attiva e generatrice: un’idea comune ai fratelli Schlegel e allo Schelling del saggio Sul rapporto tra le arti figurative e la natura (1807) che era stata ripresa dagli scritti di Karl Philipp Moritz (1756-1793), il quale per primo aveva avanzato l’idea di un’imitazione che non partisse dagli oggetti naturali ma si sforzasse di emulare la capacità creatrice della natura stessa. Nel Dialogo sulla poesia l’appartenenza della creazione poetica al flusso organico e metamorfico della natura è presentata con accenti che mostrano bene il carattere al tempo stesso critico e letterario di questo testo: “Smisurato ed inesauribile è il mondo della poesia, come smisurata ed inesauribile è la ricchezza, profusa dalla natura vivificatrice, di piante, animali ed organismi di ogni specie, forma e colore. Neppure lo spirito più grande potrà facilmente abbracciare tutte quelle opere dell’arte o quei prodotti della natura che hanno forma e nome di poesie. E che cosa sono essi di fronte a quella poesia priva di forma e di coscienza che si muove nella pianta, risplende nella luce, sorride nel bambino, balena nel fiorire della giovinezza, arde nel petto innamorato delle donne? Questa è la poesia prima e originaria, senza la quale certamente non esisterebbe poesia delle parole. E noi uomini non abbiamo, da sempre e per l’eternità, altro oggetto ed altro materiale di attività e gioia se non l’unico poema della divinità, di cui anche noi siamo parte e fioritura: la terra. Se siamo in grado di percepire la musica del meccanismo infinito e di comprendere la bellezza di quel poema, è perché una parte del poeta, una scintilla del suo spirito creatore vive in noi e mai cessa di ardere con segreta violenza sotto la cenere dell’irragione da noi stessi prodotta”. Il progetto di ricondurre la poesia alla vastità di quel “poema della divinità” che è la natura stessa, sta poi alla base del “Discorso sulla mitologia”, il secondo dei quattro saggi contenuti nel Dialogo sulla poesia.

Schlegel vi sostiene la necessità di dar vita a una “nuova mitologia”, attraverso la quale conferire forza e vita alla nuova poesia romantica. L’idea di un ritorno alla mitologia era presente anche in un celebre manoscritto del 1796 intitolato Più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, che è stato attribuito, in modo non definitivo, a Hölderlin, Schelling o Hegel. Il breve testo costituisce un programma non solo dell’idealismo, ma anche del nascente romanticismo, e molte delle idee in esso contenute riecheggiano temi affini in Schlegel o Schelling. La parte finale del Programma afferma la necessità di produrre una “nuova mitologia” che si ponga “al servizio delle idee”, una mitologia della ragione capace di dare veste sensibile e forza immaginativo-poetica a contenuti razionali, in modo da renderli accessibili anche al di fuori di una ristretta cerchia di intellettuali: “Esporrò ora un’idea che, a quanto mi risulta, non è ancora divenuta cosciente in nessun uomo è necessario possedere una nuova mitologia, ma essa deve porsi al servizio delle idee, deve divenire una mitologia della ragione. Se non daremo alle idee una forma estetica, cioè mitologica, esse non avranno interesse per il popolo, e viceversa: se la mitologia non è razionale, il filosofo ne deve provare vergogna. E così alla fine coloro che sono illuminati e coloro che non lo sono, si uniranno; la mitologia deve divenire filosofica, così da rendere il popolo razionale, e la filosofia deve divenire mitologica, così da rendere sensibili i filosofi. Allora regnerà tra gli uomini un’eterna unità!”. Nel Dialogo sulla poesia Schlegel riprende il tema della “nuova mitologia” esposto nel Programma, sottolineando non tanto la necessità di un’estetizzazione della ragione o la possibile funzione sociale del mito in relazione alle attese utopiche del movimento romantico (temi, peraltro, che egli tratta in altri scritti), ma bensì concentrando la propria attenzione sul ruolo della mitologia in relazione alla poesia. Secondo Schlegel, la differenza fondamentale tra poesia antica e poesia moderna risiede proprio nel fatto che mentre quella antica aveva nella mitologia un centro e un terreno comune, quella moderna manca di questo fondamento: “Alla nostra poesia [...] manca un centro, quale è stata la mitologia per gli Antichi. La sostanza di tutto ciò per cui la letteratura moderna è inferiore all’antica si può racchiudere nelle parole: noi non abbiamo mitologia. Però, aggiungo, siamo prossimi ad averne una o almeno è giunto il momento di contribuire seriamente a produrla. Perché essa verrà a noi per una via opposta rispetto alla mitologia di un tempo. Quella aderiva con semplicità e

immediatezza a tutto ciò che di più naturale e vivo le offriva il mondo sensibile, e ad esso si formava. Al contrario, la nuova mitologia deve essere creata, tratta dalle profondità più remote dello spirito, e ciò deve essere la più artificiale delle opere d’arte, perché deve comprendere in sé tutte le altre; deve essere il nuovo letto e il nuovo vaso in cui scorra l’antica, immortale fonte primigenia della poesia; deve essere il poema infinito che racchiuda in sé i germi di ogni altro poema”. La nuova mitologia ricercata dai romantici, dunque, come è inevitabile nel quadro dell'artificialità della cultura moderna, deve essere creata, prodotta, rivolgendosi alle mitologie antiche e orientali, al cui studio Schlegel si dedicherà negli anni successivi al periodo jenese. Se la poesia moderna vuole uscire dalla decadenza che la minaccia e ritrovare il centro vitale che le manca, deve riavvicinarsi a quell’intimo legame con il caos metaforico della natura così ben espresso dalla mitologia antica, utilizzando, per accostarsi all’incredibile, gli strumenti dell’ironia, dell’arguzia (Witz), dell’allegoria: come scrive Schlegel nel Dialogo sulla poesia, ogni bellezza “è allegoria, e le cose supreme, proprio perché inesprimibili, possono essere espresse solo allegoricamente”. Le pagine che seguono sono tratte da F. Schlegel, Frammenti critici e poetici, tr. it. a cura di M. Cometa, Einaudi, Torino 1998. Dai Frammenti critici: nn. 60 (p. 13), 78 (p. 16), 115 (p. 21), 117 (p. 22), 119 (p. 22). Dai Frammenti dall’Athenaeum: 98 [116] (pp. 43-44), 114 [146] (pp. 4748), 163 [238] (pp. 56-57), 170 [247] (p. 58), 175 [252] (pp. 59-60), 303 [434] (p. 87). Di Schlegel si vedano anche: Dialogo sulla poesia, tr. it. a cura di A. Lavagetto, Einaudi, Torino 1991; Frammenti di estetica, tr. it. a cura di M. Cometa, Aesthetica, Palermo 1989; Storia della letteratura antica e moderna, tr. it. a cura di R. Assunto, Paravia, Torino 1974; Sullo studio della poesia greca, tr. it. a cura di A. Lavagetto, Guida, Napoli 1988. Per approfondire: W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, tr. it. Einaudi, Torino 1982; C. Ciancio, F. Schlegel. Crisi della Filosofia e Rivelazione, Mursia, Milano 1984; C. Ciancio e F. Vercellone (a cura di), Romanticismo e modernità, Zamorani, Torino 1997; M. Cometa, Iduna. Mitologie della Ragione, Novecento, Palermo 1984; Id. (a cura di), Mitologie della ragione, Studio Tesi, Pordenone 1989; E Cuniberto, Fr.

Schlegel e l’assoluto letterario, Rosenberg & Sellier, Torino 1991; P. D’Angelo, L'estetica del Romanticismo, il Mulino, Bologna 1997; M. Frank, Il Dio a venire. Lezioni sulla Nuova Mitologia, tr. it. Einaudi, Torino 1994; S. Givone, La questione romantica, Laterza, Roma-Bari 1992; Id., Storia dell’estetica, Laterza, Roma-Bari 1988, cap. II (“La rivoluzione romantica”); T. Griffen), L'estetica di Schelling, Laterza, Roma-Bari 1996; F. Hölderlin, Scritti di estetica, tr. it. SE, Milano 1987; Id., Sul tragico, tr. it. Feltrinelli, Milano 1980; Id., Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, tr. it. in Scritti di estetica, cit., pp. 165-166; F. Marelli, Lo sguardo da Oriente: simbolo, mito e grecità in Friedrich Creuzer, LED, Milano 2000; K.Ph. Moritz, Scritti di estetica, tr. it. Aesthetica, Palermo 1990; Novalis, Opera filosofica, tr. it. Einaudi, Torino 1993; F. Rella, Lestetica del romanticismo, Donzelli, Roma 1997; i due numeri monografici della Rivista di Estetica, a cura di G. Carchia e F. Vercellone, intitolati Romanticismo e filosofia (1989) e Romanticismo e Poesia (1990); F. Schelling, Le arti figurative e la natura, tr. it. Aesthetica, Palermo 1989; Id., Filosofia dell’arte, tr. it. Prismi, Napoli 1986; F. Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, tr. it. SE, Milano 1986; A.W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, tr. it. Il Melangolo, Genova 1977; F. Schleiermacher, Estetica, tr. it. Aesthetica, Palermo 1988; Id., Sul concetto dell'arte, tr. it. Aesthetica, Palermo 1988; P. Szondi, Antico e moderno nell'estetica dell'età di Goethe, tr. it. Guerini, Milano 1995; F. Vercellone, Identità dell’antico: l’idea del classico nella cultura tedesca del primo Ottocento, Rosenberg & Sellier, Torino 1988; S. Zecchi (a cura di), Romanticismo. Mito, simbolo, interpretazione, Unicopli, Milano 1987.

frammenti critici

[60] Tutti i generi poetici classici sono adesso nella loro purezza ridicoli. [...]

[78] Alcuni dei migliori romanzi sono un compendio, un’enciclopedia dell’intera vita spirituale di un individuo geniale; opere tali, persino quando sono in un’altra forma, come il Nathan, prendono l’aspetto di un romanzo. Anche ogni uomo colto, o che si coltiva, ha nel suo intimo un romanzo. Che lo esterni e lo scriva non è necessario. [...] [115] L’intera storia della poesia moderna è un continuo commento al breve testo della filosofia: tutta l’arte deve divenire scienza, e tutta la scienza deve divenire arte; poesia e filosofia devono essere unificate. [...] [117] La poesia può essere criticata solo dalla poesia. Un giudizio d’arte che non è esso stesso un’opera d’arte, o nel contenuto, in quanto rappresentazione della necessaria impressione nel suo divenire, o nella sua forma bella, e nel suo tono liberale nello spirito dell’antica satira romana, non ha diritto di cittadinanza nel regno dell’arte. [...] [119] Le poesie saffiche devono crescere ed esser trovate. Esse non possono essere fatte né comunicate pubblicamente senza profanazione. Chi lo fa manca insieme di orgoglio e di modestia. Di orgoglio: in quanto egli strappa ciò che gli è più intimo dalla sacra quiete del cuore, e lo getta tra la folla perché lo guardi a bocca aperta, rozzamente e con indifferenza; e questo per un vile da capo o per un federico d’oro. Immodesto è comunque sempre metter se stessi in mostra come modello. E se le poesie liriche non sono del tutto originali, libere e vere non servono a nulla in quanto tali. Petrarca qui non c’entra: il freddo dilettante qui non dice nient’altro che graziose ovvietà; lui è romantico e non lirico. Ma se pure ci fosse ancora una natura così conseguente, bella e classica che si potesse mostrare nella sua nudità come Frine davanti a tutti i Greci, tuttavia non ci sarebbe più un olimpico pubblico per tale spettacolo. E quella era Frine. Solo i cinici amano

in piazza. Si può essere un cinico e un grande poeta: il cane e l’alloro hanno pari diritto di ornare il monumento di Orazio. Ma l’oraziano è ben lungi dall’essere il saffico. Il saffico non è mai cinico. Frammenti dall'Athenaeum

98 [116] La poesia romantica è una poesia universale progressiva. Il suo scopo non è solo quello di unificare nuovamente tutti i generi separati della poesia e di porre in contatto la poesia con la filosofia e la retorica. Essa vuole, e deve anche, ora mescolare ora fondere, poesia e prosa, genialità e critica, poesia d’arte e poesia della natura, rendere la poesia vivente e sociale e la vita e la società poetiche, poetizzare l’arguzia e riempire e saturare le forme d’arte con la più pura materia culturale d’ogni specie e animarle con gli slanci dello humour. Essa comprende tutto ciò che è solamente poetico, dal più grande sistema d’arte, che a sua volta comprende in sé altri innumerevoli sistemi, al sospiro, al bacio che il fanciullo poetante esala in un canto spontaneo. Essa può perdersi così tanto nel rappresentato da far credere che per essa caratterizzare individui poetici d’ogni specie sia solo l’alfa e l’omega; e tuttavia non vi è ancora alcuna forma che sia adatta a esprimere completamente lo spirito dell’autore; così che alcuni artisti che volevano scrivere semplicemente un romanzo, hanno rappresentato senza volerlo se stessi. Solo essa può divenire come l’epos uno specchio di tutto il mondo circostante, un’immagine dell’epoca. E tuttavia essa può, meglio d’ogni altra, anche librarsi sulle ali della riflessione poetica a metà tra l’oggetto rappresentato e il soggetto rappresentante, scevra da ogni interesse reale e ideale, potenziare sempre e di nuovo tale riflessione e moltiplicarla come in una serie interminabile di specchi. Essa è capace della più alta e più varia cultura; non solo a partire dall’interno, ma anche a partire dall’esterno organizzando in modo omogeneo tutte le parti di ciò che nei suoi prodotti deve essere un tutto, in modo tale che le si apra la prospettiva di una classicità che cresce senza limiti. La poesia romantica è tra le arti, ciò che l’arguzia è in filosofia, e la società, la relazione, l’amicizia e l’amore sono nella vita. Altri generi poetici sono finiti e possono adesso venir analizzati completamente. Il genere poetico romantico è ancora in divenire; anzi questa è la sua essenza peculiare, che può soltanto eternamente divenire e mai essere compiuto. Esso non può esser esaurito da

alcuna teoria, e solo una critica divinatoria potrà osare di voler caratterizzare il suo ideale. Esso solo è infinito, così come esso solo è libero e riconosce come sua prima legge che l’arbitrio del poeta non tollera alcuna legge. Il genere poetico romantico è l’unico a essere più di un genere e, per così dire, a essere la poesia stessa: poiché in un certo senso tutta la poesia è o deve essere romantica. [...] 114 [146] Così come il romanzo colora di sé tutta la poesia moderna, anche la satira, che attraverso tutte le trasformazioni rimase pur sempre per i Romani una poesia universale classica, una poesia di società, destinata al punto medio del cosmo colto, colora di sé tutta la poesia romana, anzi tutta la letteratura romana, e le dà, per così dire, il tono. Per essere sensibili a ciò che nella poesia di Cicerone, di Cesare e di Svetonio c’è di più urbano, di più originale e di più bello, si deve aver amato e compreso per lungo tempo le satire oraziane. Esse sono le eterne sorgenti originarie dell’urbanità. [...] 163 [238] Vi è una poesia il cui alfa e omega è il rapporto dell’ideale con il reale, e che perciò in analogia con il gergo filosofico, dovrebbe chiamarsi poesia trascendentale. Essa inizia come satira con l’assoluta diversità di ideale e reale, oscilla nel mezzo come elegia, e termina come idillio con la loro assoluta identità. Tuttavia così come si darebbe ben poco valore ad una filosofia trascendentale che non fosse critica, che non rappresentasse insieme al prodotto il produttore, e non contenesse nel sistema dei pensieri trascendentali anche una caratteristica del pensiero trascendentale, anche quella poesia dovrebbe unire i materiali trascendentali e gli esercizi preparatori per una teoria poetica della facoltà poetica, non rari nei poeti moderni, con la riflessione artistica e il bello autorispecchiamento che si trova in Pindaro, nei frammenti lirici dei Greci e nell’antica elegia e fra i nuovi in Goethe, e rappresentare in tutte le sue rappresentazioni anche se stessa, ed essere dovunque nel contempo poesia e poesia della poesia. [...]

170 [247] Il poema profetico di Dante è l’unico sistema della poesia trascendentale, ancora il sommo nel suo genere. L’universalità di Shakespeare è come il punto medio dell’arte romantica. La pura poesia poetica di Goethe è la più compiuta poesia della poesia. Questa è la grande triade della poesia moderna, il circolo più intimo e più sacro tra tutte le sfere più strette e più lontane della scelta critica dei classici della poesia moderna. [...] 175 [252] Una vera e propria poetica della poesia comincerebbe con l’assoluta differenza dell’eterna ed irriducibile separazione dell’arte e della bellezza grezza. Essa stessa ne rappresenterebbe la lotta, e finirebbe con la perfetta armonia tra poesia d’arte e poesia della natura. Quest’ultima si trova solo presso gli antichi, ed essa stessa non sarebbe altro che una storia superiore dello spirito della poesia classica. Una filosofia della poesia in generale comincerebbe con l’autonomia del bello, con la tesi che esso si distingue e debba distinguersi dal vero e dal morale, e che ha gli stessi diritti di quelli; il che per chi solo è in grado di intenderlo, deriva già dalla tesi che Io = Io. Essa stessa oscillerebbe tra l’unificazione e la separazione della filosofia e della poesia, della prassi e della poesia, della poesia in generale e dei suoi generi e tipi, e terminerebbe con la completa unificazione. Il suo inizio darebbe i principi della poetica pura, il suo centro la teoria dei generi poetici peculiari del moderno, del genere didattico, di quello musicale, di quello retorico in senso superiore ecc. Una filosofia del romanzo, i cui primi fondamenti sono contenuti nella poetica politica di Platone, ne sarebbe la chiave di volta. Certo ai superficiali dilettanti senza entusiasmo e senza una cultura sui migliori poeti d’ogni specie una tale poetica farebbe la stessa impressione che ad un bambino che dovesse illustrare un libro di trigonometria. La filosofia su un oggetto la può utilizzare solo uno che conosce l’oggetto, o lo possiede; solo questi potrà comprendere che cosa essa voglia o significhi. Esperienze e sensi la filosofia non li può né inoculare né evocare con la magia. Essa non deve neppure volerlo. Chi sa già, non impara da essa nulla di nuovo; tuttavia solo grazie a essa ciò diviene un sapere e assume in tal modo una nuova forma.

[...] 303 [434] La poesia deve assolutamente esser suddivisa? oppure deve rimanere una e indivisibile? o alternare tra divisione e connessione? La maggior parte delle rappresentazioni del sistema cosmico della poesia è ancora così rozza e puerile, come quelle del cosmo astronomico prima di Copernico. Le comuni suddivisioni della poesia sono solo una morta intelaiatura per un orizzonte limitato. Checché si possa fare o checché valga è la terra a stare immobile al centro. Nell’universo della poesia però nulla sta fermo, tutto diviene e si trasforma e si muove armonicamente; e anche le comete seguono immutabili leggi del movimento. Ma fino a quando il corso di questi corpi celesti non sarà calcolato, e il loro ritorno non si potrà predeterminare, il vero sistema cosmico della poesia non sarà scoperto.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel L’arte e l’apparire sensibile dell’idea

Il testo conosciuto con il titolo di Estetica non è un’opera pubblicata da Hegel (1770-1831) - come la fenomenologia dello spirito (1807), la Scienza della logica (1812-1816) o l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817, 1827) - bensì nasce dalla rielaborazione e dall’integrazione, da parte del discepolo Heinrich Gustav Hotho (1802-1873), di una congerie di materiali diversi, la cui ossatura portante è costituita dagli appunti presi da numerosi uditori dei corsi universitari sull’estetica tenuti da Hegel prima a Heidelberg (nel 1818) e poi a Berlino (1820-21, 1823, 1826, 1828-29). All’inizio dell’Introduzione Hegel sostiene che l’estetica non deve essere intesa né come “scienza del sentire”, seguendo le tesi avanzate da Baumgarten, né come una disciplina che prende in considerazione i sentimenti suscitati dalle opere d’arte, bensì come “filosofia dell’arte” avente per oggetto il “bello artistico”, superiore, nella sua spiritualità, rispetto al bello naturale. Se in Kant la trattazione del bello riguardava tanto il bello artistico quanto il bello naturale, e il sublime era considerato esclusivamente come sublime naturale, nell’estetica di Hegel, in virtù del principio secondo cui “tutto quel che è spirituale è superiore a ogni prodotto naturale”, l’essenza della bellezza risiede nell’arte in quanto prodotto dello spirito: “l’opera d’arte è tale solo in quanto, originata dallo spirito, appartiene al campo dello spirito, ha ricevuto il battesimo di spirituale e manifesta solo ciò che è formato secondo la risonanza dello spirito”. Di qui deriva la legittimazione dello statuto filosofico e scientifico dell’estetica: essendo lo spirito pensiero in divenire e l’arte manifestazione dello spirito, nel pensare l’arte lo spirito pensa se stesso in una delle proprie forme, e questo pensarsi dello spirito è proprio ciò che definisce la filosofia.

Il fine dell’arte, secondo Hegel, non è né l’imitazione della natura né il tentativo di suscitare sentimenti e purificare le passioni, né l’ammaestramento o il perfezionamento morale: il vero scopo dell’arte è “rivelare la verità sotto forma di configurazione artistica sensibile”. Nel bello artistico si ha la manifestazione sensibile della verità, la rivelazione concreta e individuale dell'universalità dello spirito, “l’apparire sensibile dell’idea” In questo senso l’arte è essenzialmente mediazione e conciliazione tra spirito e materia, universale e particolare, infinito e finito, pensiero e sensibilità: essa è un prodotto dello spirito con il quale questo dà vita a una prima forma di “conciliazione tra ciò che è semplicemente esterno, sensibile e transeunte, ed il puro pensiero, tra la natura e la realtà finita e l’infinita libertà del pensiero concettuale”. L’opera d’arte è dunque al tempo stesso sensibile e spirituale, si offre alla nostra apprensione sensibile e al contempo rivela attraverso di essa il proprio contenuto spirituale: “Perciò il sensibile nell’opera d’arte, in confronto con l’esistenza immediata della cosa naturale, è elevato a semplice parvenza, e l’opera d’arte sta nel mezzo tra la sensibilità immediata e il pensiero ideale. L’opera d’arte non è ancora puro pensiero, ma, nonostante la sua sensibilità, non è più semplice esistenza materiale, come le pietre, le piante, la vita organica”. A differenza delle pur varie forme del bello naturale, l’opera d’arte reca in sé un momento della vita dello spirito e fa appello a un pensiero capace di comprenderla nella sua essenza: essa “è essenzialmente una domanda, un’apostrofe, rivolta ad un cuore che vi risponde, un appello indirizzato all’animo e allo spirito”. In quanto manifestazione, mediazione e conciliazione, l’opera d’arte costituisce una delle forme del percorso lungo il quale lo spirito si libera dall’esteriorità della natura per ritornare alla piena comprensione di sé. Come è noto, il sistema hegeliano esposto nell’Enciclopedia parte dalla logica (dell’essere, dell’essenza e del concetto) per trattare della filosofia della natura (nei suoi momenti meccanici, fisici e organici) e concludere poi, passando attraverso i gradi della filosofia dello spirito soggettivo e oggettivo, con il Sapere assoluto inteso come piena e trasparente autocomprensione dello spirito. In questo percorso teleologicamente orientato, la posizione storico-epocale dell’arte come manifestazione sensibile della verità precede quelle della religione e della filosofia. Mentre la religione esprime l’assolutezza dello spirito nell’interiorità della rappresentazione e del sentimento, e la filosofia nella pura concettualità del

pensiero, l’arte, in quanto fondata su un fare e un produrre, pone lo spirito in opera, lo istituisce come ente finito e sensibile. Con queste tesi Hegel si distanzia nettamente da tutta l’estetica settecentesca e da quella kantiana, accusando la prima di essersi fermata all’analisi psicologica, empirica e soggettiva delle passioni e dei sentimenti suscitati dalle opere, e rimproverando alla seconda di non essere giunta alla perfetta conciliazione, nel bello, di quegli opposti (universale e particolare, ragione e sentimento, soggetto e natura) che pure aveva individuato con chiarezza. Il sentimento, secondo Hegel, non può costituire il perno della riflessione sul bello e sull’arte: esso è “una forma del tutto vuota dell’affezione soggettiva”, e “la riflessione sul sentimento si accontenta di osservare l’affezione soggettiva e la sua particolarità, invece di immergersi profondamente nella cosa, nell’opera d’arte, e lasciare perciò andare la semplice soggettività e i suoi stati”. La concezione hegeliana dell’arte è quindi segnata da un abbandono della centralità che avevano in Kant i temi del sentimento e del giudizio e il loro ruolo nel ridefìnire la comprensione trascendentale dell’esperienza. Ciò non significa, però, che l’arte sia considerata come altra rispetto al sensibile: al contrario, il carattere sensibile dell’opera d’arte viene ribadito, ma è reinterpretato alla luce della concezione dell’arte come manifestazione della verità e presentazione dell’assoluto. Il problema della verità dell’arte si pone infatti, in Hegel, solo nell’ambito della concezione dell'apparire: “La parvenza stessa è essenziale all’essenza; la verità non sarebbe, se non paresse ed apparisse, se non fosse per qualcosa, per se stessa tanto quanto per lo spirito in generale. [...] Lungi dall’essere semplice parvenza, ai fenomeni dell’arte è da attribuire, di contro all’effettualità abituale, realtà più alta ed esistenza più vera”. La natura sensibile dell’opera d’arte non è dunque mera parvenza bensì manifestazione e fenomeno della verità. Essa è il luogo in cui si conciliano un sensibile spiritualizzato e uno spirituale sensibilizzato. L'Estetica, nell’edizione redatta da Hotho, si suddivide in tre grandi sezioni, dedicate rispettivamente all’“idea del bello artistico o l’ideale”, allo “sviluppo dell’ideale nelle forme particolari del bello artistico” e al “sistema delle singole arti”. Per quanto riguarda la prima sezione, Hegel sostiene che l’ideale non è “l’idea come tale, quale cioè una logica metafisica deve concepirla come l’assoluto, ma l’idea in quanto si è foggiata a realtà ed è entrata con questa realtà in unità immediatamente corrispondente”.

L’ideale che si manifesta nel bello artistico è la perfetta conciliazione di idea e forma concreta, la loro configurazione sensibile e figurativa, che è possibile solo là dove il contenuto rappresentato dall’arte non è irraggiungibile nella sua astrattezza ma suscettibile di essere concretizzato in un’opera. La descrizione delle diverse modalità in cui si realizza la conciliazione di idea e forma, spirito e materia, pensiero e intuizione, costituisce la base a partire dalla quale Hegel distingue le varie forme in cui il bello artistico si è manifestato nel corso del cammino dialettico e teleologicamente orientato dello spirito: arte simbolica, arte classica e arte romantica. In questo schema triadico, in cui ogni momento deve essere compreso secondo la verità che vi si manifesta, l’arte classica ha una posizione e funzione centrale rispetto a quella simbolica, ancora incerta, disorientata, immersa in un’esteriorità che non è in grado di padroneggiare, e un’arte (quella romantica) ormai spinta dall’avvento di una nuova tendenza dello spirito a ritrarsi nella soggettività e nell’interiorità, avviandosi però in tal modo inesorabilmente alla propria dissoluzione e alla consumazione di qualsiasi possibilità di esprimere l’assoluto come tale. Se nell’arte simbolica “l’idea non ha ancora trovato in se stessa la forma, vi aspira soltanto, si sforza ad essa”, in quella classica si ha “la libera impressione adeguata dell’idea nella forma peculiarmente appropriata, secondo il suo concetto, all’idea stessa, con cui essa può quindi giungere a una libera, completa concordanza. Con ciò, soltanto la forma classica dà la produzione e l’intuizione dell’ideale compiuto e lo pone come realizzato”. L’equilibrio raggiunto dall’arte classica, che trova la sua più compiuta espressione nella rappresentazione della figura umana, viene perso con l’arte romantica, il cui oggetto è costituito dalla “libera spiritualità concreta” e nella quale predominano l’interiorità, l’intimità soggettiva, il sentimento individuale. Nella terza e ultima parte il discorso sulle forme d’arte generali (simbolica, classica, romantica) e sul rapporto in esse tra idea e forma è riportato ai diversi generi artistici, individuati in architettura, scultura, pittura, musica e poesia. Se l'architettura, nella sua elaborazione materiale della natura inorganica, appare come un genere artistico fondamentalmente legato alla forma d’arte simbolica, la scultura è invece il genere in cui si esprime con maggiore perfezione l’ideale della forma d’arte classica: “in essa l’interno spirituale, a cui l’architettura è solo in grado di accennare, si

installa nella forma sensibile e nel suo materiale esterno, ed i due lati si plasmano l’un l’altro in modo tale che nessuno dei due prevalga. [...] ad opera della scultura lo spirito deve restare in immediata unità, quieto e sereno, nella sua forma corporea, e la forma deve essere animata dal contenuto di un’individualità spirituale”. Con pittura, musica e poesia prosegue la graduale liberazione dello spirito dalla materia e il distacco rispetto all’accordo armonico con la materia che caratterizzava la scultura come momento emblematico dell’arte classica. La pittura, avendo per oggetto “il render visibile come tale”, è maggiormente spirituale della scultura, ancora legata alla pesantezza della materia, mentre nella musica è l’intera dimensione della spazialità a essere oltrepassata dialetticamente in direzione di una “idealità temporale” con cui “il suono scioglie l’ideale, per così dire, dal suo incatenamento materiale”. La poesia, infine, rappresenta la manifestazione più spirituale della forma d’arte romantica: in essa “il suono, estremo materiale esterno della poesia, non è più il sentimento che risuona, ma un segno per sé privo di significato”. Con la poesia l’arte perviene al culmine della propria capacità di liberazione dello spirito dalla materia e dalla sensibilità. L’idea ora non ha più bisogno di concretizzarsi in un materiale esterno sensibile, ma “si effonde solo nello spazio interno e nel tempo interno delle rappresentazioni e dei sentimenti”. È questo il momento in cui l’arte “va oltre se stessa”, giunge al compimento del proprio ruolo di forma dello spirito assoluto, e trapassa nella religione e nella filosofia. Già nella Fenomenologia dello spirito era presente il tema di una morte o fine dell’arte, ossia del superamento e dell’inveramento dell’arte nella religione e nel sapere assoluto. Se l’arte intuisce l’assoluto e lo manifesta nel sensibile, tocca però alla religione rappresentarlo e alla filosofia portarlo alla compiuta autocoscienza, e questo impianto sistematico, impostato nella Fenomenologia, è ripresentato nelle due edizioni dell’Enciclopedia (1817 e 1827) e fa da sfondo alle Lezioni di estetica. Parlare di fine dell’arte significa quindi ricordare che l’arte rappresenta solo una forma limitata e finita di manifestazione dell’assoluto, in cui può venire alla luce solo un certo grado di verità, quella passibile di essere rappresentata nel sensibile. Come ogni determinazione finita, anche l’opera d’arte è parte di un movimento dialettico e trova la propria verità nel tempo e nel divenire, nell’“inquietudine” che spinge ogni finito oltre se

stesso. Ogni determinazione finita è in se stessa contraddittoria, e implica la spinta inesorabile verso il proprio tramonto. Lo spirito procede attraverso le sue figure e i suoi momenti secondo il ritmo della Aufhebung, quel movimento secondo cui ogni contenuto determinato è tolto dialetticamente per essere inverato ed elevato a uno stadio successivo. Lungo questo cammino, compito della filosofia è conoscere l’idea nelle sue manifestazioni e nei suoi successivi modi di comprendersi. A questi appartiene l’arte, che ha il suo prima nella natura e il suo poi, il suo superamento, nella religione, dove la verità si dà nella fede e nell’interiorità, e nella filosofia, dove la verità si dà finalmente nella forma propria, quella del concetto, al di là di ogni estraneazione. A differenza di Schelling (1775-1854), che nelle pagine finali del Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) presentava l’intuizione artistica come forma più alta di intuizione dell’assoluto, per Hegel l’arte non è il modo supremo di rivelarsi della verità. Avendo perso il suo intrinseco legame con il divino, e in quanto forma superata di manifestazione dello spirito, ‘‘l’arte, dal lato della sua suprema destinazione, è e rimane per noi un passato”. Le pagine che seguono sono tratte da G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, tr. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Einaudi, Torino 1972: Introduzione, III (“Concetto del bello artistico”), pp. 30-51. Di Hegel si vedano anche: Arte e morte dell’arte: percorso nelle lezioni di estetica, a cura di P. Gambazzi e G. Scaramuzza, tr. it. a cura di G.E Frigo, Bruno Mondadori, Milano 1997; Lezioni di estetica, introduzione e tr. it. a cura di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2000. L’Estetica è disponibile anche nella nuova edizione a cura di N. Merker, introduzione di S. Givone, Einaudi, Torino 1997. Per approfondire: P. D’Angelo, “Hegel e l’estetica”, in P. Rossi (a cura di), Hegel. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1992; Id., Simbolo e arte in Hegel, Laterza, Roma-Bari 1989; D. Formaggio, L’idea di artisticità. Dalla “morte dell’arte” al “ricominciamento” dell’estetica filosofica, Ceschina, Milano 1962; Id., La “morte dell’arte’’ e l’Estetica, il Mulino, Bologna 1983; H.-G. Gadamer, “Fine dell’arte? ”, in Scritti di estetica, tr. it. Aesthetica, Palermo 2002; Id., “Hegel e il romanticismo di Heidelberg”, in La dialettica di Hegel (1971), tr. it. Marietti, Genova 1996; A. Gethmann-Siefert,

“Die Aesthetik in Hegels System der Philosophie”, in O. Pöggeler, Hegel, Freiburg-München 1977; S. Givone, “Introduzione”, in G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, tr. it. Einaudi, Torino 1997; T. Griffero, L'estetica di Schelling, Laterza, Roma-Bari 1996; P. Kobau, La disciplina dell’anima: genesi e funzione della dottrina hegeliana dello spirito soggettivo, Guerini, Milano 1993; G. Lukács, “L’estetica di Hegel”, in Id., Contributi alla storia dell’estetica, tr. it. Feltrinelli, Milano 1975; O. Meo, Tragico e fruizione estetica in Kant e Hegel, Il Melangolo, Genova 1993; L. Pareyson, L'estetica dell’idealismo tedesco, Edizioni di Filosofia, Torino 1950; G. Scaramuzza, “Il problema della morte dell’arte nell’Estetica di Hegel”, in AA.VV., Problemi del Romanticismo, Shakespeare & Co., Milano 1983; P. Szondi, La poetica di Hegel e Schelling, tr. it. Einaudi, Torino 1986; G. Vattimo, Lezioni sulla estetica di Hegel, Giappichelli, Torino 1971; Id., “Morte o tramonto dell’arte”, in AA.VV., Orizzonte e progetti dell'estetica, Pratiche, Parma 1980; F. Vercellone, L'estetica dell’Ottocento, il Mulino, Bologna 1999; P. Vinci, “Arte e individualità in Hegel”, in AA.VV., Individuo e modernità. Saggi sulla filosofia di Hegel, a cura di M. D'Abbiero e P. Vinci, Guerini, Milano 1995.

Dopo questi preliminari ci accostiamo ora al nostro oggetto vero e proprio, la filosofia del bello artistico, e, poiché intraprendiamo a trattarlo scientificamente dobbiamo iniziare dal suo concetto. Solo dopo aver fissato questo, potremo esporre la suddivisione e quindi il piano dell’intera scienza; infatti una suddivisione, se non deve essere intrapresa in maniera solo esteriore, come accade nell’analisi non filosofica, deve trovare il suo principio nel concetto stesso dell’oggetto. Di fronte a tale esigenza subito ci imbattiamo nella domanda; donde prendiamo questo concetto? Se incominciamo con il concetto del bello artistico stesso, esso diviene già con ciò immediatamente un presupposto e un semplice assunto; ma il metodo filosofico non ammette meri assunti, bensì la verità di ciò che per esso deve valere va provata, cioè va mostrata come necessità. Intendiamo chiarire ora con poche parole questa difficoltà, che riguarda

l’introduzione ad ogni disciplina filosofica considerata autonomamente per sé. Nell’oggetto di ogni scienza vengono innanzitutto in esame due aspetti, il primo, che tale oggetto è, il secondo che cosa è. Per il primo punto nelle scienze comuni si sogliono sollevare poche difficoltà. Potrebbe invero apparire addirittura ridicolo avanzare la richiesta che venga provato in astronomia e in fisica che esistono il sole, le stelle, fenomeni magnetici ecc. In queste scienze, che hanno da fare con esistenti sensibili, gli oggetti vengono presi dall’esperienza esterna, e invece di provarli si ritiene sufficiente indicarli. Tuttavia, già entro le discipline non filosofiche, possono insorgere dubbi sull’essere dei loro oggetti, come per es., nella psicologia o dottrina dello spirito, può sorgere il dubbio se esiste un’anima, uno spirito, cioè un elemento soggettivo per sé autonomo, distinto dall’elemento materiale; oppure, nella teologia, se c’è un Dio. Se poi si tratta degli oggetti di genere soggettivo, cioè presenti solo nello spirito e non come oggetti esternamente sensibili, noi sappiamo che è nello spirito solo ciò che questo ha prodotto con la sua attività. Ma con ciò si presenta subito l’accidentalità se sia da noi prodotta o no questa rappresentazione o intuizione interna, e, quand’anche si tratti del primo caso, se tale rappresentazione non sia stata fatta sparire o perlomeno degradata a rappresentazione semplicemente soggettiva, al cui contenuto non spetta nessun essere in sé e per sé. Così, per esempio, il bello è stato spesso considerato non come in sé e per sé necessario nella rappresentazione, ma come un semplice piacere soggettivo, come un sentire solo accidentale. Già le nostre intuizioni, osservazioni e percezioni esterne sono spesso illusorie ed errate, ma ancor più lo sono le rappresentazioni interne, sebbene abbiano in sé la massima vitalità e possano trascinarci irresistibilmente alle passioni. Ora quel dubbio, se un oggetto della rappresentazione e intuizione interna vi sia o no, come pure quell’eventualità, che la coscienza soggettiva lo produca in sé e che il modo secondo cui lo ha a sé esibito sia anche corrispondente o no all’oggetto secondo il suo essere in sé e per sé, proprio ciò suscita nell’uomo il superiore bisogno scientifico che esige che un oggetto sia mostrato o provato secondo la sua necessità, tanto se per noi è come se ci fosse quanto se esiste effettivamente. Con questa prova, se essa è sviluppata in modo veramente scientifico, si è soddisfatta al contempo la seconda domanda, che cosa un oggetto sia. Sviluppare questo punto più

ampiamente ci porterebbe troppo oltre e ci accontentiamo così di indicare solo quanto segue. Se del nostro oggetto, il bello artistico, dobbiamo mostrare la necessità, bisogna provare che l’arte o il bello è un risultato di un antecedente che, considerato secondo il suo vero concetto, conduce con necessità scientifica al concetto della bella arte. Ora, volendo noi incominciare dall’arte e volendo trattare nella sua essenza il suo concetto e la realtà di questo, ma non quel che in base al proprio concetto è ad essa antecedente, l’arte, come particolare oggetto scientifico, ha per noi un presupposto che si trova fuori della nostra considerazione e che, trattato scientificamente come un contenuto diverso, appartiene ad un’altra disciplina filosofica. Non ci rimane perciò che prendere il concetto di arte lemmaticamente, per così dire; il che accade in tutte le scienze filosofiche particolari, quando devono essere considerate isolatamente. Infatti soltanto l’intera filosofia è la conoscenza dell’universo come un’unica totalità in sé organica, che si sviluppa dal proprio concetto e, nella a sé rapportantesi necessità ritornando all’intiero in sé, si riunisce con se stessa come un unico mondo della verità. Nella corona di questa necessità scientifica ogni singola parte è, in pari misura, da un lato un circolo che ritorna in sé, mentre dall’altro ha al contempo una connessione necessaria con altri campi, un tornare all’indietro da cui essa procede, ed un andare avanti verso cui sempre internamente si spinge, nella misura in cui ha di nuovo fruttuosamente prodotto da sé e fatto emergere per la conoscenza scientifica qualcosa di altro. Dimostrare dunque l’idea del bello, con cui cominciamo, cioè dedurla secondo la necessità dei presupposti che sono antecedenti per la scienza e dal seno dei quali tale idea è nata, questo non è il nostro fine attuale, ma è il compito di uno sviluppo enciclopedico dell’intera filosofia e delle sue discipline particolari. Per noi il concetto del bello e dell’arte è un presupposto dato dal sistema della filosofia. Poiché non possiamo però discutere qui questo sistema e la connessione che l’arte ha con esso, noi non abbiamo ancora dinanzi scientificamente il concetto del bello, ma soltanto gli elementi e i lati di esso quali già si trovano o sono stati precedentemente concepiti nelle diverse rappresentazioni del bello e dell’arte presenti nella coscienza comune. Da qui noi vogliamo passare a trattare più a fondo quei punti di vista per ottenere il vantaggio di realizzare in primo luogo una rappresentazione generale del nostro oggetto, e insieme, mediante la breve

critica, una familiarità preliminare con le determinazioni superiori con cui in seguito avremo da fare. In questo modo le nostre ultime considerazioni introduttive rappresenteranno in un certo senso l’annunzio dell’esposizione della cosa stessa e avranno di mira un sommario generale e l’avvio dell’oggetto vero e proprio. A. Rappresentazioni usuali dell’arte

Quel che noi sappiamo correntemente dell’opera d’arte, riguarda le tre seguenti definizioni: 1) l’opera d’arte non è un prodotto naturale, ma è prodotta dall’attività umana; 2) essa è creata essenzialmente per l’uomo, a beneficio del cui senso anzi, viene più o meno tratta dal sensibile; 3) ha un fine in sé. 1. L’opera d’arte come prodotto dell’attività umana

Per quel che riguarda il primo punto, secondo cui l’opera d’arte è un prodotto dell’attività umana, a) si è pensato che quest’attività come produzione cosciente di un esterno possa anche essere oggetto di sapere e di prescrizioni e possa essere appresa e seguita da altri. Infatti ciò che uno fa, apparentemente potrebbe un altro fare o imitare, solo che conosca il modo di procedere, cosicché conoscendo in generale le regole della produzione artistica, dipenderebbe solo dal beneplacito di ognuno eseguire la stessa cosa in identico modo e produrre opera d’arte. In questa maniera sono sorte le teorie su citate sulle regole e i loro precetti elaborati per l’uso pratico. Ma solo qualcosa di formalmente regolare e meccanico può essere eseguito secondo tali istruzioni. Infatti, solo il meccanico è di genere così esteriore che per accoglierlo nella rappresentazione e porlo in opera si richiedono solo un’attività volitiva ed un’abilità completamente vuote che non hanno bisogno di recare in se stesse niente di concreto, niente che non si possa prescrivere con regole generali. Questo appare nella maniera più viva quando simili precetti non si limitano a quel che è puramente esteriore e meccanico, ma vengono estesi all’attività spirituale dotata di contenuto, all’attività artistica. In quest’ambito le regole contengono solo generalità indeterminate, per

esempio, “ il tema deve essere interessante, si deve far parlare ognuno secondo la sua condizione, la sua età, il suo sesso, la sua posizione”. Perché le regole qui fossero sufficienti, i loro precetti dovrebbero essere disposti con tale precisione che, senza alcuna altra attività spirituale propria, potessero essere eseguiti proprio nel modo come sono espressi. Tuttavia, essendo tali regole astratte per quel che riguarda il loro contenuto, nella loro pretesa di essere capaci di riempire la coscienza dell’artista, si dimostrano del tutto inadeguate, poiché la produzione artistica non è attività formale secondo determinatezze date, ma come attività spirituale deve lavorare in base a se stessa e presentare all’intuizione spirituale un contenuto ben altrimenti più ricco e immagini individuali più vaste. Alla peggio quelle regole, nella misura in cui in effetti contengono qualcosa di determinato e perciò di praticamente usabile, potrebbero offrire solo determinazioni per circostanze completamente esteriori. b) Infatti ci si è allontanati completamente dalla direzione suddetta, ma si è caduti proprio nel contrario. Infatti si è considerata l’opera d’arte non più come prodotto di una attività universalmente umana, ma come opera di uno spirito dotato in maniera del tutto peculiare, che però dovrebbe allora lasciare agire esclusivamente la sua particolarità, come una facoltà naturale specifica, e dovrebbe essere interamente esente tanto dal volgersi verso leggi universalmente valide, quanto dal mescolare il suo produrre istintivo con una riflessione cosciente; ne dovrebbe anzi venir salvaguardato, poiché le sue produzioni potrebbero solo essere macchiate e corrotte da tale coscienza. Secondo questo aspetto si è chiamata l’opera d’arte un prodotto del talento e del genio e si è principalmente messo in rilievo l’aspetto naturale che talento e genio portano in sé. In parte a ragione. Infatti il talento è attitudine specifica, il genio attitudine generale che l’uomo ha il potere di darsi non soltanto mediante la propria attività autocosciente; di ciò parleremo più estesamente dopo. Qui abbiamo solo da menzionare il lato falso di questa opinione, secondo cui nella produzione artistica ogni coscienza della propria attività non solo è ritenuta superflua ma anche dannosa. In tal caso la produzione del talento e del genio appare solo come uno stato in generale e più precisamente come uno stato di entusiasmo. Ad esso, si afferma, il genio potrebbe essere stimolato da un oggetto oppure potrebbe mettercisi di sua propria volontà; e a tale proposito non ci si dimenticò neppure del buon servizio che può

rendere una bottiglia di Champagne. In Germania tale opinione apparve all’epoca del così detto Periodo geniale che fu aperto dai primi prodotti poetici di Goethe e poi sostenuto dalle opere di Schiller. Questi poeti con le loro prime opere, hanno incominciato daccapo, mettendo da parte tutte le regole che erano state fin allora fabbricate, e intenzionalmente hanno operato contro quelle regole, nel che furono di gran lunga sorpassati da altri. Ma non voglio dire altro delle idee confuse che hanno dominato intorno al concetto di entusiasmo e di genio e che, per quel che riguarda l’opinione sull’onnipotenza dell’entusiasmo come tale, dominano ancora oggi. Essenziale è solo stabilire questo punto, che il talento ed il genio dell’artista, sebbene abbiano in sé un momento naturale, tuttavia hanno bisogno di essere educati ad opera del pensiero, e hanno bisogno della riflessione sui modi della loro produzione, così come dell’esercizio e abilità nel produrre. Del resto un aspetto fondamentale della produzione è un lavoro esteriore, in quanto l’opera d’arte ha un lato puramente tecnico che arriva fin quasi alla perizia artigiana; ciò massimamente nell’architettura e nella scultura, di meno nella pittura e nella musica, minimamente nella poesia. All’abilità in tali campi non viene in aiuto nessun entusiasmo, ma solo riflessione, applicazione ed esercizio. Ma tale abilità è necessaria all’artista per dominare il materiale esterno e non essere ostacolato dalla riottosità di questo. Quanto più in alto, poi, sta l’artista, tanto più profondamente deve manifestare gli abissi dell’animo e dello spirito che non sono noti immediatamente, ma sono da scrutare volgendo il proprio spirito al mondo interno ed esterno. Così, di nuovo, è con lo studio che l’artista prende coscienza di questo contenuto e guadagna la materia e il contenuto delle sue concezioni. [...] c) Un terzo punto di vista, che riguarda la rappresentazione dell’opera d’arte come prodotto di attività umana, si riferisce al posto dell’opera d’arte nei confronti dei fenomeni esterni della natura. Qui è ovvia per la coscienza comune l’opinione che la produzione artistica dell’uomo sia inferiore al prodotto della natura. Infatti l’opera d’arte non ha in sé alcun sentimento, non è in tutto e per tutto animata, ma, considerata come oggetto esteriore, è qualcosa di morto. E noi siamo soliti tenere ciò che è vivo in maggior conto di ciò che è morto. Ammettiamo senz’altro che l’opera d’arte non è in se stessa dotata di movimento e di vita. Ciò che è vivo in natura è sia

internamente che esteriormente un’organizzazione realizzata fin nei minimi particolari per rispondere ad un fine, mentre l’opera d’arte soltanto in superficie raggiunge la parvenza della vitalità, mentre nell’interno è pietra comune o legno, oppure tela, o, come nella poesia, rappresentazione che si estrinseca in discorso e lettere dell’alfabeto. Ma questo lato di esistenza esterna non è quello che fa di un’opera un prodotto della bella arte; l’opera d’arte è tale solo in quanto, originata dallo spirito, appartiene al campo dello spirito, ha ricevuto il battesimo di spirituale e manifesta solo ciò che è formato secondo la risonanza dello spirito. L’interesse umano, il valore spirituale che un avvenimento, un carattere individuale, un’azione presentano nella loro implicazione e nel loro esito, viene colto nell’opera d’arte e messo in rilievo in maniera più pura e perspicua, di quanto non sia possibile nel campo della realtà restante, non artistica. Perciò l’opera d’arte è superiore ad ogni prodotto della natura, che non ha operato questo passaggio attraverso lo spirito. Così come per esempio, è per mezzo del sentimento e dell’intendimento, secondo cui in pittura viene manifestato un paesaggio, che quest’opera spirituale assume un rango più elevato che il semplice paesaggio naturale. Infatti, tutto quel che è spirituale è superiore ad ogni prodotto naturale. Del resto nessun essere naturale manifesta ideali divini come può farlo l’arte. Lo spirito sa ora di conferire anche una durata dal lato dell’esistenza esteriore, a ciò che trae dal suo interno nelle opere d’arte. La vitalità naturale, singolarmente presa, è invece transeunte, evanescente e mutevole nel suo aspetto, mentre l’opera d’arte si conserva, benché non la semplice durata, ma il mettere in rilievo l’animazione spirituale costituisca il suo vero vantaggio rispetto alla realtà naturale. Questa superiorità dell’opera d’arte viene però combattuta da un’altra rappresentazione della coscienza comune. La natura e i suoi prodotti, si dice, sono opera di Dio, creati dalla sua bontà e saggezza, mentre la produzione artistica è solo opera dell’uomo, fatta dall’uomo secondo intendimenti umani. In quest’opposizione tra la produzione naturale come creazione divina e l’attività umana come attività solo finita, è insito l’errore, per cui Dio non opererebbe negli uomini e attraverso gli uomini, ma limiterebbe la sua operosità alla natura. Questa falsa opinione va del tutto respinta se si vuole giungere al vero concetto dell’arte, anzi le si deve saldamente opporre l’idea che Dio ha più onore da ciò che lo spirito fa, che dalle creazioni e formazioni della natura. Infatti

il divino non è solo un elemento che agisce nell’uomo, ma è un elemento che in lui agisce in una forma che è conforme all’essenza di Dio, in maniera interamente diversa e superiore che nella natura. Dio è spirito, e soltanto nell’uomo il medio, attraverso cui penetra il divino, ha la forma dello spirito cosciente, attivamente producentesi; nella natura invece questo mezzo è l’incosciente, il sensibile e l’esteriore che, per valore, è di gran lunga inferiore alla coscienza. Nella produzione artistica, ora, Dio è operante come nei fenomeni della natura, ma il divino, quale si palesa nell’opera d’arte, ha acquistato per la sua esistenza un punto di passaggio adeguato, in quanto prodotto dallo spirito, mentre l’esistenza nella sensibilità incosciente della natura è un modo di apparire non commisurato al divino. d) Se l’opera d’arte come prodotto dello spirito è fatta dall’uomo, ci si domanda infine, per trarre un risultato più profondo da quanto finora si è detto, quale sia il bisogno dell’uomo di produrre opere d’arte. Da un lato questa produzione può essere considerata come un semplice gioco del caso e del capriccio, che si può indifferentemente eseguire o no; vi sarebbero infatti mezzi diversi e anzi migliori per realizzare ciò a cui l’arte mira, e l’uomo porterebbe in sé interessi più alti e importanti di quelli che l’arte è in grado di soddisfare. D’altro canto l’arte pare nascere da un impulso superiore e sembra dare soddisfazione a bisogni superiori, anzi talvolta ai bisogni supremi ed assoluti, in quanto essa è legata alle concezioni del mondo più generali e agli interessi religiosi di intere epoche e popoli. Non possiamo ora rispondere compiutamente a questa domanda intorno al bisogno non accidentale, ma assoluto dell’arte, perché la domanda è più concreta di quanto non potrebbe essere qui la risposta. Dobbiamo perciò contentarci per il momento di stabilire solo quel che segue. Il bisogno universale e assoluto da cui sgorga l’arte (secondo il suo lato formale) trova la sua origine nel fatto che l’uomo è coscienza pensante, cioè che egli fa da se stesso per sé quel che egli è, e quel che in generale è. Le cose naturali sono solo in modo immediato e una volta sola, ma l’uomo come spirito si raddoppia, in quanto egli dapprima è come la cosa di natura, ma poi è parimenti per sé, si intuisce, si rappresenta, pensa, e solo con questo attivo essere per sé è spirito. L’uomo raggiunge questa coscienza di sé in due modi: prima, teoricamente, in quanto egli deve nel suo interno divenire cosciente di sé, di ciò che si muove nel petto umano, in esso si

agita e preme; e in generale deve intuirsi, rappresentare ciò che il pensiero trova come l’essenza, deve fissare se stesso e riconoscere solo se stesso, tanto in quello che è da lui stesso tratto, quanto in quel che è ricevuto dall’esterno. In secondo luogo l’uomo diviene per sé con l’attività pratica, in quanto ha l’impulso di produrre e parimenti riconoscere se stesso in quel che gli è immediatamente dato, in quel che è per lui esistente esternamente. Egli realizza questo fine trasformando le cose esterne su cui imprime il sigillo del suo interno e in cui ritrova ora le sue proprie determinazioni. L’uomo fa questo per togliere, come libero soggetto, al mondo esterno la sua riottosa estraneità e godere nella forma delle cose solo una realtà esterna di se stesso. Già il primo impulso del bambino porta in sé questa trasformazione pratica delle cose esterne; il fanciullo lancia delle pietre nel fiume ed ammira i cerchi che si disegnano nell’acqua come opera in cui acquista l’intuizione di ciò che è suo. Questo bisogno passa per i fenomeni più vari fino al modo in cui si produce se stessi nelle cose esterne, modo che è presente nell’opera d’arte. È l’uomo si comporta in questo modo non soltanto con le cose esterne, ma anche con se stesso, con la propria figura naturale che egli non lascia come trova, ma cambia intenzionalmente. Questa è la causa di tutte le acconciature e gli ornamenti, siano essi pur così barbari, privi di gusto, completamente deformanti o addirittura perniciosi, come i piedi infasciati delle donne della Cina o gli spacchi nelle orecchie e nelle labbra. Infatti solo presso i popoli civili la trasformazione della figura, del comportamento e di ogni altro genere di estrinsecazione nasce dall’educazione spirituale. Il bisogno universale dell’arte è dunque il bisogno razionale che l’uomo elevi alla coscienza spirituale il mondo esterno ed interno come un oggetto, in cui egli riconosce il proprio io. Egli soddisfa il bisogno di questa libertà spirituale in quanto da un lato fa per sé interiore ciò che è, ma parimenti realizza esteriormente questo essere per sé e così in questo sdoppiamento di se stesso porta ad intuizione e conoscenza per sé e per gli altri quel che è in lui. Questa è la libera razionalità dell’uomo in cui l’arte, così come ogni agire e sapere, ha il suo fondamento e la sua necessaria origine. Tuttavia vedremo dopo qual è il suo bisogno specifico e come si differenzia dal restante agire politico e morale, dalla rappresentazione religiosa e dalla conoscenza scientifica.

2. L'opera d’arte, in quanto prodotta per il senso dell'uomo, viene tratta dal sensibile

Se fin qui abbiamo considerato dell’opera d’arte l’aspetto secondo cui essa è fatta dall’uomo, dobbiamo ora passare alla seconda definizione, in base alla quale essa è prodotta per il senso dell’uomo ed è perciò più o meno presa dal sensibile. a) Questa riflessione ha dato luogo alla considerazione che la bella arte sia destinata a suscitare il sentimento, o meglio, il sentimento che troviamo a noi conforme, il sentimento gradevole. Per questi rispetti, si è fatto, della ricerca sulla bella arte, una ricerca sui sentimenti, e si è chiesto quali di essi devono essere destati dall’arte, se per es. la paura e la compassione, ma si è chiesto anche come questi sentimenti possano essere gradevoli, come la vista di un’infelicità possa dare soddisfazione. Questa tendenza della riflessione risale particolarmente ai tempi di Moses Mendelssohn, e nei suoi scritti si possono trovare molte considerazioni di questo genere. Tuttavia tale ricerca non condusse lontano, perché il sentimento è l’ottusa regione indeterminata dello spirito; ciò che viene sentito, rimane avvolto nella forma di un’astrattissima singola soggettività, e perciò anche le differenze del sentimento sono interamente astratte, non sono differenze della cosa stessa. Per esempio, paura, angoscia, preoccupazione, terrore, sono certamente modificazioni varie di un identico modo di sentire ma in parte sono solo gradazioni quantitative, in parte forme che in nulla toccano il proprio contenuto, ma sono a questo indifferenti. Nella paura per esempio è presente un’esistenza per cui il soggetto ha interesse, ma esso al contempo vede avvicinarsi il negativo che minaccia di distruggere quest’esistenza; e ora entrambi, questo interesse e quel negativo, ritrova immediatamente in sé come affezione contraddicente la sua soggettività. Ma questa paura per sé non condiziona ancora nessun contenuto, potendo accogliere in sé ciò che è più diverso e opposto. Il sentimento come tale è una forma del tutto vuota dell’affezione soggettiva. Questa forma certo può essere in se stessa varia speranza, dolore, gioia, diletto - così come può comprendere in questa diversità contenuti differenti. Vi è infatti il sentimento del diritto, il sentimento etico, il sublime sentimento religioso, ecc. Tuttavia, per il fatto che tale contenuto è presente in forme differenti del sentimento, non si vede ancora la sua natura essenziale e determinata, rimanendo essa una mia affezione semplicemente soggettiva, in cui sparisce la cosa concreta, in

quanto ristretta nella cerchia più astratta. Perciò la ricerca sui sentimenti che l’arte desta o dovrebbe destare, rimane interamente nell’indeterminato e costituisce una considerazione che astrae dal contenuto vero e proprio e dal suo concreto concetto ed essenza. Infatti la riflessione sul sentimento si accontenta di osservare l’affezione soggettiva e la sua particolarità, invece di immergersi profondamente nella cosa, nell’opera d’arte, e lasciare perciò andare la semplice soggettività e i suoi stati. Nel sentimento, invece, proprio questa soggettività priva di contenuto non solo è mantenuta ma è la cosa principale, e perciò gli uomini sentono così volentieri. Ma appunto perciò tale considerazione, per la sua indeterminatezza ed il suo vuoto, diviene noiosa, e con l’attenzione che essa rivolge alle meschine particolarità soggettive, diventa spiacevole. b) Ora, poiché l’opera d’arte non deve destare solo sentimenti in generale - ché in tal caso avrebbe questo fine in comune, senza alcuna differenza specifica, con l’oratoria, la storiografia, l’edificazione religiosa, ecc. - ma li deve destare solo in quanto è bella, la riflessione si è data a ricercare per il bello un peculiare sentimento del bello e a rinvenire un senso specifico per esso. È apparso subito che tale senso non può essere un istinto cieco e stabilmente determinato dalla natura, il quale distingua già in sé e per sé il bello, e così per questo senso fu richiesta una educazione, e il senso educato della bellezza fu chiamato gusto. Questo, sebbene educato a cogliere e scoprire il bello, doveva tuttavia rimanere un sentire immediato. Abbiamo già accennato al modo in cui astratte teorie intrapresero a formare tale senso del gusto e che esso restò esteriore ed unilaterale. La critica, mancando di principi generali, ebbe anche come critica particolare di singole opere d’arte, all’epoca di questo punto di vista meno la tendenza a motivare un giudizio più determinato - non ce ne era la stoffa - che a promuovere la formazione del gusto in generale. Questa formazione rimase perciò egualmente nel più indeterminato e si curò solo che il sentimento, come senso della bellezza, fosse dotato della riflessione in modo che il bello, dove e quale fosse, avrebbe potuto immediatamente essere trovato. Tuttavia la profondità della cosa rimane inaccessibile al gusto, poiché tale profondità esige non solo il senso e le riflessioni astratte, ma la piena ragione e il solido spirito, mentre il gusto era rivolto solo alla superficie esteriore, intorno a cui i sentimenti potevano giocare e principi unilaterali farsi valere. Perciò il cosiddetto buon gusto s’impaurisce di fronte a ogni effetto più profondo e

tace dove viene in discussione la cosa e spariscono esteriorità e futilità. Colà dove si dischiudono grandi passioni e commozioni di un’anima profonda, non c’è più posto infatti per le sottili distinzioni del gusto e il suo piccolo commercio con delle minuzie; esso sente su questo terreno avanzare il genio e, indietreggiando di fronte alla sua potenza, non si sente più sicuro né sa più essere padrone di sé. [...] d) Dopo queste annotazioni su quei modi di considerare l’arte, che sono stati occasionati dall’opinione che il lato per cui l’opera d’arte è essa stessa oggetto sensibile abbia una relazione essenziale con l’uomo quale ente sensibile, intendiamo ora considerare questo lato nel suo rapporto essenziale con l’arte stessa, e cioè a) in rapporto all’opera d’arte come oggetto, b) in rapporto alla soggettività dell’artista, al suo genio, talento ecc., senza impegnarci però in ciò che in questa relazione può solo nascere dalla conoscenza dell’arte nel suo concetto universale. Infatti qui veramente non ci troviamo ancora su un terreno scientifico vero e proprio, ma siamo solo nell’ambito di riflessioni esteriori. a) L’opera d’arte si offre dunque alla nostra apprensione sensibile. Essa è posta per il sentire sensibile, interno ed esterno, per l’intuizione e la rappresentazione sensibili, come la natura esterna intorno a noi o la nostra natura interna senziente. Anche un discorso infatti può essere per la rappresentazione ed il sentire sensibili. Ciò nonostante l’opera d’arte non è solo per l’apprensione sensibile, come oggetto sensibile, ma la sua posizione è tale che, come sensibile, essa è al contempo essenzialmente per lo spirito, lo spirito ne deve essere investito e vi deve trovare una qualche soddisfazione. Questa determinazione dell’opera d’arte ci chiarisce subito che essa non può in nessun modo essere un prodotto naturale, né può avere secondo il suo lato naturale, vitalità naturale, sia che il prodotto di natura sia valutato di più o di meno di una semplice opera d’arte, come si suole dire in senso sprezzante. Infatti il sensibile dell’opera d’arte deve avere esistenza solo in quanto esiste per lo spirito dell’uomo, ma non in quanto esiste come sensibile per se stesso. Se noi consideriamo più da vicino in che modo il sensibile esiste per l’uomo, troviamo che ciò che è sensibile può essere in rapporto con lo spirito in diversi modi.

aa) La maniera peggiore, la meno appropriata per lo spirito, è l’apprensione soltanto sensibile. Essa consiste in primo luogo semplicemente nel guardare, nell’ascoltare, nel sentire, ecc.; così come per molti nelle ore di rilassamento spirituale, può essere un passatempo andare in giro senza pensieri, e qui stare ad ascoltare, lì dare uno sguardo ecc. Lo spirito non si arresta alla semplice apprensione delle cose esterne mediante la vista e l’udito, ma fa queste per il suo interno, che in un primo momento è di nuovo spinto a realizzarsi nelle cose nella forma della sensibilità, e si comporta verso di esse come desiderio. In questa relazione di desiderio con il mondo esterno, l’uomo come singolo sensibile si contrappone alle cose come egualmente singole; egli non si rivolge a esse, come un essere pensante che abbia determinazioni universali, ma si comporta verso gli oggetti, singoli essi stessi, secondo impulsi e interessi singoli, ed egli si mantiene in essi, servendosene, consumandoli e realizzando, col loro sacrificio, il proprio soddisfacimento. In questa relazione negativa il desiderio aspira per sé non soltanto alla parvenza superficiale delle cose esterne, ma alle cose stesse, nella loro esistenza sensibile-concreta. Al desiderio non servirebbe la sola raffigurazione del legno di cui deve servirsi, dell’animale che deve consumare. Egualmente esso non può lasciare l’oggetto nella sua libertà, poiché il suo impulso lo spinge ad eliminare questa autonomia e libertà delle cose esterne e a mostrare che queste esistono solo per essere distrutte e consumate. Nello stesso tempo però anche il soggetto, in quanto prigioniero dei singoli, limitati e meschini interessi del suo desiderio, né è libero in se stesso, giacché non si determina secondo l’universalità e razionalità essenziali del suo volere né è libero in rapporto al mondo esterno, poiché il desiderio essenzialmente rimane determinato dalle cose e riferito a esse. Ora, l’uomo verso l’opera d’arte non sta in tale rapporto di desiderio. Egli la lascia esistere libera per sé come oggetto, e vi si riferisce senza desiderio come ad un suo oggetto, che è solo per il lato teoretico dello spirito. Perciò l’opera d’arte, sebbene abbia esistenza sensibile, non ha tuttavia, per questi rispetti, bisogno di un’esistenza sensibile-concreta e di una vitalità naturale; anzi non deve fermarsi su questo terreno, poiché deve soddisfare interessi solo spirituali e respingere da sé ogni desiderio. Per questa ragione allora il desiderio pratico stima di più le singole cose naturali, organiche ed inorganiche, che gli possono servire, che non le opere

d’arte che si dimostrano per lui inutili e che possono essere godute solo da altre forme dello spirito. ββ) Un’altra maniera, secondo cui le cose esterne possono essere per lo spirito, è, di contro alla singola intuizione sensibile e al singolo desiderio pratico, il rapporto puramente teoretico con l'intelligenzia. La considerazione teoretica delle cose non ha l’interesse di consumarle nella loro singolarità e di soddisfarsi a mantenersi sensibilmente mediante esse, ma di apprenderle nella loro universalità, di trovare la loro essenza e legge interna, e di concepirle secondo il loro concetto. Perciò l’interesse teoretico lascia liberamente agire le cose singole e si tira indietro di fronte a loro in quanto sensibilmente singole, poiché questa singolarità sensibile non è ciò di cui la considerazione dell’intelligenza va in cerca. Infatti l’intelligenza razionale appartiene non al singolo soggetto in quanto tale, come fa il desiderio, ma al singolo in quanto al contempo in sé universale. Entrando l’uomo in rapporto con le cose secondo quest’universalità, è la sua ragione universale a sforzarsi di ritrovare se stessa nella natura, e con ciò di restaurare l’essenza interna delle cose che l’esistenza sensibile, che pure ha in essa il suo fondamento, non può immediatamente mostrare. Quest’interesse teoretico, nel cui soddisfacimento consiste il lavoro della scienza, l’arte lo condivide ora in questa forma scientifica altrettanto poco di quanto faccia causa comune con gli impulsi del desiderio solamente pratico. Infatti la scienza può, sì, partire dal sensibile nella sua singolarità ed avere una rappresentazione di come questo singolo è presente immediatamente nel suo singolo colore, forma, grandezza, ecc. Tuttavia questo sensibile isolato, in quanto tale, non può avere allora altra relazione con lo spirito, poiché l’intelligenza tende direttamente verso l’universale, la legge, il pensiero, il concetto dell’oggetto, e perciò non solo non lo lascia nella sua immediata singolarità, ma lo trasforma interiormente, lo trasforma da un sensibile-concreto in un astratto, in un pensato, e quindi in un qualcosa di essenzialmente diverso da quel che questo oggetto era nella sua apparenza sensibile. Questo non lo fa l’interesse artistico, a differenza della scienza. Come l’opera d’arte si palesa quale oggetto esterno in determinatezza immediata e singolarità sensibile rispetto al colore, alla forma al suono, o come intuizione singola ecc., così avviene anche per la considerazione artistica, senza che essa vada tanto oltre l’oggettività immediata che le si presenta, da voler cogliere, come fa la

scienza, il concetto di questa oggettività come concetto universale. L’interesse artistico si distingue dall’interesse pratico del desiderio per il fatto che lascia sussistere per sé libero il suo oggetto, mentre il desiderio lo impiega, distruggendolo, per il suo utile; la considerazione artistica si differenzia invece dalla considerazione teoretica dell’intelligenza scientifica per il rispetto opposto, in quanto porta interesse all’oggetto nella sua esistenza singola e non opera per mutarlo nel suo pensiero e concetto universale. γγ) Ne risulta che il sensibile deve essere sì presente nell’opera d’arte, ma manifestarsi solo come superficie e parvenza del sensibile. Infatti lo spirito non ricerca nel sensibile dell’opera d’arte né la concreta struttura materiale, l’interna compiutezza ed espansione empirica dell’organismo a cui il desiderio aspira, né il pensiero universale, solo ideale, bensì vuole una presenza sensibile che deve sì rimanere tale, ma deve essere parimenti affrancata dall’impalcatura della sua semplice materialità. Perciò il sensibile nell’opera d’arte, in confronto con l’esistenza immediata della cosa naturale, è elevato a semplice parvenza, e l’opera d’arte sta nel mezzo tra la sensibilità immediata e il pensiero ideale. L’opera d’arte non è ancora puro pensiero, ma, nonostante la sua sensibilità, non è più semplice esistenza materiale, come le pietre, le piante, la vita organica; il sensibile nell’opera d’arte è già un ideale che però non essendo l’ideale del pensiero, al contempo esiste ancora esternamente come cosa. Questa parvenza del sensibile si presenta ora per lo spirito all’esterno come la forma, la visione, o il suono delle cose, e ciò accade quando lo spirito lascia essere liberamente gli oggetti, senza discendere tuttavia nel loro interno essenziale (ché, in tal caso, essi cesserebbero del tutto di esistere per lui esternamente come cose singole). Perciò il sensibile dell’arte si riferisce solo ai due sensi teoretici della vista e dell’udito, mentre rimangono esclusi dal godimento artistico olfatto, gusto e tatto. Infatti questi tre sensi hanno da fare con la materialità come tale e con le sue qualità immediatamente sensibili, l’olfatto con il volatilizzarsi materiale nell’aria, il gusto con la dissoluzione materiale degli oggetti, il tatto con il caldo, il freddo, la levigatezza ecc. Per tale motivo, questi sensi non possono avere a che fare con gli oggetti dell’arte che devono mantenersi nella loro reale autonomia e non permettono un rapporto soltanto sensibile. Quel che è bene accetto a questi sensi non è il bello dell’arte. L’arte dunque produce intenzionalmente, dal punto di vista

del sensibile, solo un mondo di ombre fatto di forme, di suoni e di visioni, e non si può dire che l’uomo, in quanto chiama ad esistere opere d’arte, sappia solo offrire la superficie del sensibile, solo fantasmi, per semplice impotenza e per la sua limitatezza. Infatti queste forme sensibili e questi suoni non si presentano nell’arte solo in vista di se stessi e della loro forma immediata, ma anche con lo scopo di soddisfare in questa forma più alti interessi spirituali, giacché essi sono in grado di far vibrare lo spirito fin nella più intima profondità della coscienza. In tal modo il sensibile è nell’arte spiritualizzato, giacché lo spirituale in essa appare sensibilizzato. β) Quindi un prodotto artistico solo in tanto c’è, in quanto è passato attraverso lo spirito ed è originato da un’attività produttrice spirituale. Questo ci conduce all’altra domanda cui dobbiamo rispondere, come cioè il lato sensibile necessario all’arte operi nell’artista in quanto soggettività produttrice. Questo genere di produzione contiene in sé, in quanto attività soggettiva, proprio le medesime determinazioni che noi trovammo oggettivamente nell’opera d’arte. Essa deve essere attività spirituale, che ha però al contempo in sé il momento della sensibilità e dell’immediatezza. Ma essa non è da un lato solo lavoro meccanico come semplice incosciente abilità sensibile manuale o attività formale secondo regole fisse da apprendere; né d’altro canto è produzione scientifica che passa dal sensibile ad astratte rappresentazioni e pensieri o si attua interamente nell’elemento del puro pensiero; ma nel produrre dell’artista i due lati, lo spirituale e il sensibile, devono essere una cosa sola. Per esempio, nella produzione poetica ci si potrebbe comportare così: prima pensare in prosa quel che deve essere manifestato, poi portarlo in immagini, in rima; di modo che l'immagine si aggiungerebbe alle riflessioni astratte semplicemente come ornamento ed abbellimento. Però tale modo di procedere potrebbe dar luogo solo a una cattiva poesia, poiché ciò che nella produttività artistica ha validità nella sua unità inseparata, opererebbe qui come attività separata. Questo vero produrre costituisce l’attività della fantasia artistica. Essa è il razionale che è come spirito solo in quanto si spinge attivamente a coscienza, ma prima si pone dinanzi in forma sensibile quel che porta in sé. Quest’attività ha dunque un contenuto spirituale che essa però configura sensibilmente, poiché solo in questo modo sensibile può divenirne cosciente. [...] La fantasia produttiva artistica è la fantasia di un grande spirito e di un

grande animo, è il concepire ed il produrre rappresentazioni e forme, anzi i più profondi e universali interessi umani, manifestandoli in immagini sensibili completamente determinate. Ne segue immediatamente che la fantasia si fonda per un lato certamente su un dono di natura, sul talento in generale, poiché il suo produrre ha bisogno della sensibilità. Si parla, è vero, anche di talento scientifico, ma le scienze presuppongono solo la generale attitudine al pensiero che, invece di comportarsi in guisa naturale come la fantasia, fa astrazione proprio da ogni attività naturale, per cui si può giustamente dire che non vi è nessuno specifico talento scientifico nel senso di un semplice dono di natura. Invece la fantasia produce in modo in pari tempo istintivo, poiché la sensibilità essenziale dell’opera d’arte e il suo essere essenzialmente immagine sono presenti soggettivamente nell’artista come disposizione ed impulso naturali, e come operare incosciente devono anche appartenere al lato naturale dell’uomo. Certo, la capacità naturale non abbraccia tutto il talento ed il genio, poiché la produzione artistica è di specie altrettanto spirituale, autocosciente; ma la spiritualità deve solo in generale avere in sé come momento il configurare e il formare naturali. Perciò quasi ogni uomo, fino a un certo grado, può fare dell’arte, mentre per oltrepassare il punto in cui propriamente inizia l’arte è necessario un superiore innato talento artistico. Tale talento si annunzia generalmente come disposizione naturale già nella prima età e si estrinseca nell’impulso senza tregua a dar forma in maniera viva e operosa entro un determinato materiale sensibile e a scegliere questo genere di estrinsecazione e comunicazione come l’unico o il più importante e il più adatto. Così anche l’abilità precoce e fino a un certo grado facile, nell’ambito tecnico, è un segno di talento innato. Allo scultore tutto si trasforma in forme, e molto presto egli dà mano alla creta per darle forma; quel che simili talenti hanno nella loro rappresentazione, quel che internamente li stimola e li muove, diviene subito figura, disegno, melodia o poesia. γ) In terzo luogo infine, per certi riguardi, nell’arte anche il contenuto è tratto dal sensibile, dalla natura; o in ogni caso, anche se il contenuto è di genere spirituale, esso viene colto tuttavia solo in modo da manifestare lo spirituale, come per esempio rapporti umani, nella forma di fenomeni esteriormente reali.

Arthur Schopenhauer L’arte e la volontà

Il pensiero di Arthur Schopenhauer (1788-1860) si sviluppa a partire dalla rielaborazione di alcuni temi kantiani e da una netta presa di posizione contro la filosofia hegeliana, e sfocia in una complessa visione metafisica della realtà che costituisce il presupposto imprescindibile per comprendere la sua concezione dell’arte. Alla visione hegeliana della storia come progressiva rivelazione e comprensione di sé dello spirito attraverso il superamento dialettico dell’esteriorità, Schopenhauer contrappone quella di un mondo interamente mosso e dominato da un principio irrazionale, la volontà. Nella sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), egli riprende e reinterpreta la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, ossia tra ciò che si manifesta all’interno delle forme trascendentali del soggetto conoscente e si costituisce progressivamente come oggetto, e la cosa in sé, inesperibile e quindi inconoscibile. In Schopenhauer la distinzione kantiana è radicalizzata e accostata a quella platonica tra mondo sovrasensibile delle idee e mondo sensibile del divenire: alla dimensione del fenomeno, inteso come pura apparenza e rappresentazione, si contrappone la dimensione soggiacente della volontà, che per Schopenhauer è la vera e propria “cosa in sé”, il sostrato metafisico dell’esistente. In quest’ottica Platone e Kant sarebbero accomunati dall’aver entrambi giudicato “il mondo sensibile come un’apparenza che non ha in sé alcun valore, che possiede un significato e una realtà derivata solo in virtù di ciò che vi si esprime (la cosa in sé per Kant, l’idea per Platone)”. Il dominio della rappresentazione è quello della conoscenza concepita come rapporto tra soggetto e oggetto vincolato alle forme dello spazio e del tempo e al principio di causalità, vero e proprio principio di ragion

sufficiente per la comprensione del mondo fenomenico. I modi in cui il soggetto comprende i rapporti causali tra gli oggetti inscritti nel mondo della rappresentazione sono quattro, e Schopenhauer li espone in dettaglio nella dissertazione del 1813 intitolata Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente: a) il principium rationis sufficientis fiendi, cioè del divenire, che manifesta la causalità fisica nelle cose naturali; b) il principium rationis sufficiente cognoscendi, cioè del conoscere, che regola la relazione logica tra le conclusioni e le premesse; c) il principium rationis sufficientis essendi, cioè dell’essere, che, presiedendo ai rapporti tra le parti dello spazio e del tempo, regola la concatenazione degli enti aritmetici e geometrici, fondando la necessità delle conoscenze matematiche; d) il principium rationis sufficientis agendi, cioè dell’azione, che è la causalità naturale vista non dalla parte dell’oggetto ma da quella del soggetto, e che regola i rapporti tra le azioni facendole dipendere da motivi, stimoli, eccitazioni, presiedendo così alla necessità morale. Al di sotto del mondo della rappresentazione - concepito da Schopenhauer quale mondo del fenomeno inteso come apparenza e inganno - sta la volontà, che è il fondamento della rappresentazione stessa. La via d’accesso al mondo come volontà è, per il soggetto, il corpo, il corpo proprio, costantemente attraversato da una volontà di vivere che si traduce in azione. Un corpo, quindi, che rivela, al di sotto della pluralità distinta dei fenomeni conosciuti secondo i principi di causalità e di individuazione, resistenza di una volontà intesa come principio unico e fondamentalmente irrazionale, un “impulso cieco” capace però di “oggettivarsi” nel mondo della rappresentazione: “unica e identica in tutti gli esseri, [la volontà] vuole sempre e dappertutto la stessa cosa, e cioè oggettivarsi nella vita, nell’esistenza, in una varietà infinita di esseri e di forme, la quale non è altro che tutta una serie di adattamenti alle varie condizioni esterne, paragonabile alle molteplici variazioni di uno stesso tema”. I diversi modi con cui la volontà si oggettiva nel mondo sono chiamati da Schopenhauer “idee nel senso platonico”, e devono essere intesi come modelli eterni capaci di concretizzarsi e individualizzarsi in una molteplicità di fenomeni. Tali diverse forme di oggettivazione della volontà si dispongono per gradi di complessità crescente: al grado più basso si trovano le forze generali della natura (come la forza di gravità o il magnetismo); seguono, quindi, in un processo ascendente, le forze che governano la vita delle piante e degli

animali; infine, nell’uomo, la volontà diviene ragione, agisce secondo motivi determinati e al tempo stesso produce lotta, conflitto, aggressività volta all’autoaffermazione. Di fronte a questo quadro metafisico dominato dall’irrazionalità della volontà e dalla lotta perenne che ha luogo all’interno delle sue diverse forme di oggettivazione (tensione verso la vita, istinti animali, egoismi individuali), all’uomo è affidato il compito etico-conoscitivo di sottrarsi alla volontà di vivere che lacera il mondo della rappresentazione, e le vie di questa liberazione sono descritte nel terzo e quarto libro del Mondo, che costituiscono rispettivamente l’estetica e l’etica del pensiero di Schopenhauer. Il compito dell’arte è condurre il soggetto conoscente a liberarsi della propria individualità e del proprio asservimento alla volontà per cogliere le idee nella loro purezza. La conoscenza rappresentativa, fondata sul principio di ragion sufficiente e avente per oggetto la pluralità dei fenomeni individuali e delle loro relazioni, deve essere superata in direzione di una conoscenza che contempla l’oggetto singolo per cogliervi l’idea, al di fuori di ogni correlazione con altri oggetti. Una volta attinto questo livello di conoscenza, “il soggetto cessa di essere puramente individuale, e diviene soggetto conoscente puro e libero dalla volontà”, “limpido specchio dell’oggetto” capace di essere “di là dal dolore, di là dalla volontà, di là dal tempo”. L’arte è dunque “la specie di conoscenza in cui è contemplata la vera essenza del mondo, nel suo sussistere all’infuori e indipendentemente da ogni relazione [...], specie di conoscenza in cui sono contemplate le idee, che sono l’oggettità immediata e adeguata della cosa in sé, della volontà” L’arte è opera del genio e ha per fine quello di cogliere le idee eterne per poi riprodurle e comunicarle all’interno di diverse forme espressive, come l’architettura, la scultura, la pittura, la poesia: “la sua origine unica è la conoscenza delle idee; il suo unico fine, la comunicazione di tale conoscenza”. Il genio, “dono innato”, è la capacità di portare al grado supremo la possibilità, insita in ogni uomo, di astrarre dalle cose particolari e dalle loro relazioni per divenire “soggetto puro della conoscenza”, un soggetto che finisce per perdersi nell’intuizione, dimenticando la propria individualità. Il tema kantiano del disinteresse della contemplazione estetica assume qui la valenza metafisica di una vera e propria liberazione della coscienza dalla propria sottomissione alla volontà. A partire da questa concezione dell’arte si chiarisce il significato della

bellezza e la distinzione tra bello e sublime. Bello è ciò che è oggetto di una contemplazione estetica, ossia ciò che nella sua individualità lascia trasparire l’assolutezza dell’idea e conduce il soggetto contemplante a divenire puro soggetto conoscente, libero da ogni volontà. Tale contemplazione estetica, però, può essere attinta in diversi modi, ed è qui che viene in luce la differenza tra bello e sublime: “Finché questo atteggiamento della natura d’offrire se stessa, finché il significato e l’evidenza delle sue forme, esprimenti le idee che vi s’individualizzano, sono le sole condizioni che ci elevano dalla conoscenza delle semplici relazioni (conoscenza che è al servizio della volontà) alla contemplazione estetica e alla dignità di soggetto di conoscenza libero da ogni volere, fino allora ciò che agisce in noi non è che il bello, e non altro che sentimento del bello quello che vibra in noi. Ma supponiamo che quegli oggetti, le cui forme significative c’invitano alla loro contemplazione, siano in relazione d’ostilità con la volontà umana in generale, quale si oggettiva nel corpo umano; supponiamo che tali oggetti le siano funesti, che la minaccino con una strapotenza vittoriosa di ogni opposizione, o che la riducano al nulla con la loro smisurata grandezza; se, nonostante tutto ciò lo spettatore non pone attenzione a questa relazione ostile con la sua volontà; [...] se, in qualità di soggetto conoscente puro e libero da ogni volontà, contempla con calma serena quegli oggetti, così terribili per la volontà, limitandosi a concepirne le idee, estranee a ogni relazione; se lo spettatore si trattiene quindi con piacere in tale contemplazione e se, infine, in conseguenza di tale atteggiamento, si eleva al di sopra di se stesso, della sua persona, della sua volontà, al di sopra di ogni volontà, allora davvero il sentimento che lo riempie sarà il sentimento del sublime”. Una volta chiarite la natura e la funzione dell’arte e del piacere estetico che è all’origine sia dell’attività poietica del genio sia della fruizione delle sue opere, Schopenhauer presenta una descrizione della specificità estetico-conoscitiva dei generi artistici, secondo una vera e propria gradazione che va dal grado più basso di oggettivazione della volontà a quello più alto. Il grado più basso è quello dell’architettura: considerata come arte bella e prescindendo dalla sua destinazione ai fini pratici, “nel qual caso essa è al servizio della volontà, e non della conoscenza pura”, essa favorisce l’intuizione di alcune idee relative ai gradi inferiori di oggettivazione della volontà, come “il peso, la coesione, la rigidità, la

durezza”. Ogni edificio, contemplato come opera, esibisce la lotta tra il peso che lo trascinerebbe verso il basso rendendolo una massa informe, e la rigidità che gli conferisce forma e verticalità. Altri generi artistici - come l’arte del giardinaggio, la pittura di paesaggio, la pittura e scultura che riproducono forme animali, la raffigurazione scultorea del corpo umano o la pittura storica - consentono di cogliere idee che esibiscono forme gradualmente più complesse di oggettivazione della volontà. Al vertice di questa scala ascendente troviamo la poesia, che si differenzia dalla storia per la sua capacità di rappresentare la natura umana nella varietà delle sue aspirazioni e delle sue motivazioni, e in particolare la tragedia, nella quale viene in luce “la lotta spaventosa della volontà con se stessa” nel grande quadro delle sofferenze umane: “sia di quelle provenienti dal caso e dall’errore che governano il mondo sotto la forma di un destino fatale, con una perfidia che ha quasi l’apparenza di una persecuzione intenzionale, sia di quelle che hanno sorgente nella stessa natura umana, cioè, o nell’incrocio degli sforzi e delle volizioni degli individui, o nella malvagità e nella stoltezza della maggioranza degli uomini”. Con la tragedia l’arte accede al grado supremo della sua capacità di condurre al di là della conoscenza vincolata alle forme della rappresentazione. Ciò che subentra è la “perfetta conoscenza dell’essere del mondo; conoscenza che, agendo come quietivo della volontà, produce la rassegnazione, la rinunzia, non soltanto alla vita, ma alla stessa volontà di vivere”. Al di là della tragedia rimane solo una forma d’arte, che appare come totalmente isolata dalle altre: si tratta della musica, che per natura non è una copia o una “ripetizione di qualche idea degli esseri di questo mondo” bensì, come le idee, una vera e propria forma di oggettivazione della volontà: “la musica, infatti, non esprime il fenomeno, ma soltanto l’intima essenza, l’in sé di ogni fenomeno, la volontà stessa”. In essa la melodia ci racconta gli impulsi, gli slanci, i movimenti della volontà nel suo dipanarsi del mondo come rappresentazione, e l’uomo accede alla conoscenza di quella che è la verità metafisica fondamentale: “Soltanto la volontà esiste; la volontà, cosa in sé, e sorgente di tutti i fenomeni. La coscienza che la volontà prende di sé, l’autoaffermazione o l’autonegazione che si decide a trarne, ecco il solo avvenimento in sé”. Di fronte a tale verità il piacere estetico assume la forma di una consolatone, di uno spettacolo grandioso capace di liberarci dal dolore e dalla sofferenza e di condurci più in là, anche

se in forma momentanea e transitoria, sulla via della rassegnazione e della negazione della volontà di vivere. Le pagine che seguono sono tratte da A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. a cura di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Bari 1928: Libro III, par. 52, pp. 318-327, 329-330, 332-333. Per approfondire: D. Jacquette (a cura di), Schopenhauer. Philosophy and the Arts, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.) 1996; V. Mathieu, “La dottrina delle idee in A. Schopenhauer”, in Filosofia, 1960, pp. 540-560; A. Philonenko, Schopenhauer. Une philosophie de la tragédie, Vrin, Paris 1980; G. Riconda, Schopenhauer interprete dell’Occidente, Mursia, Milano 1969; C. Rosset, L'esthétique de Schopenhauer, PUF, Paris 1969; F. Viscidi, Il problema della musica nella filosofia di Schopenhauer, Liviana, Padova 1959; S. Zecchi, “Eros e decadenza nell’estetica di Schopenhauer”, in Id. (a cura di), Estetica 1994. Scritture dell'eros, il Mulino, Bologna 1995.

Dopo aver fin qui considerato tutte le arti belle da quel punto di vista generale, che a noi si conviene, principiando dall'architettura, scopo della quale è render palese l’oggettivazione della volontà nel grado più basso in cui questa è visibile, ov’essa si mostra come oscuro, inconsciente, meccanico impulso della massa, e pur tuttavia già palesa interno dissidio e lotta; - e il nostro esame concludendo con la tragedia, che nel grado supremo dell’oggettivazione della volontà appunto quell’interno dissidio ci disvela in tremenda grandezza e chiarezza; - troviamo che nondimeno un’arte bella è rimasta e doveva rimanere esclusa da questa indagine, non essendo per lei alcun luogo conveniente nella trama della nostra esposizione: la musica. Ella è staccata da tutte le altre. In lei non conosciamo l’immagine, la riproduzione d’una qualsiasi idea degli esseri che sono al mondo; eppure ell’è una sì grande e sublime arte, sì potentemente agisce sull’intimo dell’uomo, sì appieno e a fondo vien da questo compresa, quasi lingua

universale più limpida dello stesso mondo intuitivo; - che in lei di certo dobbiamo cercar ben più dell'exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi, qual fu dichiarata da Leibniz. E questi ebbe nondimeno ragione, in quanto ne guardò soltanto l’immediata ed esterna significazione, la scorza. Ma se non fosse nulla di più, dovrebbe la soddisfazione, ch’ella ci arreca, somigliare a quella che noi troviamo nella giusta soluzione d’un problema di calcolo; e non sarebbe punto quell’intima gioia, con la quale noi vediamo fatto parlante il più segreto recesso del nostro essere. Dal nostro punto di vista, adunque, dobbiamo riconoscere alla musica un significato ben più grave e profondo, riferentesi alla più interiore essenza del mondo e del nostro io; rispetto alla quale le relazioni di numeri, in cui quella si lascia scomporre, stanno non già come la cosa significata, ma appena come il segno significante. Che la musica debba stare al mondo, in un senso qualsiasi, come rappresentazione sta al rappresentato, come immagine all’originale, possiamo dedurre dall’analogia delle altre arti, alle quali tutte appartiene questo carattere, e la cui azione su di noi ha la stessa natura di quella della musica, ma solo è quest’ultima più forte, più rapida, più necessaria, più infallibile. Quella relazione d’immagine rispetto all’originale, ch’ella ha col mondo, deve pur essere ben intima, infinitamente verace e sommamente precisa, per esser da ciascuno compresa in un attimo; e dà a conoscere una tal quale infallibilità, dal fatto che la sua forma si lascia ricondurre a regole ben determinate, da esprimersi in numeri; regole cui non può sottrarsi, senza cessare interamente d’esser musica. Tuttavia il punto di paragone tra la musica e il mondo, il modo onde quella sta con questo nel rapporto d’imitazione o riproduzione, giace ben profondamente celato. S’è fatto musica in tutti i tempi, senza rendersi conto di ciò: paghi di comprenderla direttamente, s’è rinunziato a una conscienza astratta di questa immediata comprensione. Nel mentre io abbandonavo tutto il mio spirito all’impressione della musica, facendo poi in seguito ritorno alla riflessione e al corso dei pensieri esposti nell’opera presente, venni a una conclusione sulla sua intima essenza e sul modo della sua relazione col mondo, la quale per necessaria analogia era da supporre fosse di natura imitativa. Tale conclusione essendo per me stesso sufficiente appieno, e per la mia indagine soddisfacente, sarà forse egualmente luminosa per chi mi abbia seguito finora convenendo col mio concetto del mondo. Ma di quella conclusione fornir la prova, riconosco

esser cosa sostanzialmente impossibile; perché essa ammette e stabilisce un rapporto della musica, come rappresentazione, con ciò che per essenza non può mai essere rappresentazione; e la musica vuol considerata come immagine di un modello, che non può direttamente venir rappresentato esso medesimo. Non posso quindi fare altro, che qui, al termine del terzo libro, principalmente consacrato all’esame delle arti, esporre quel giudizio, ond’io m’appago, sulla mirabile arte dei suoni; e il consenso o il dissenso dipenderà dall’effetto prodotto sul lettore per una parte dalla musica, per l’altra da tutto l’unico pensiero, ch’io comunico in quest’opera. Ritengo inoltre necessario, perché si possa accogliere con piena persuasione l’indagine, che ora farò, intorno al senso della musica, ascoltar musica spesso, riflettendovi durevolmente. E anche a ciò occorre esser già molto famigliare con tutto il mio pensiero. L’adeguata oggettivazione della volontà sono le idee (platoniche); provocar la conoscenza di queste (cosa possibile solo con una corrispondente modificazione nel soggetto conoscitivo) mediante rappresentazione di singoli oggetti (ché non altro sono pur sempre le opere d’arte), è il fine di tutte le altre arti. Tutte oggettivano adunque la volontà in modo mediato, ossia per mezzo delle idee: e il nostro mondo non essendo se non fenomeno delle idee nella pluralità, per essere entrate nel principium individuationis (forma della conoscenza possibile all’individuo come tale), ne risulta che la musica, la quale va oltre le idee, anche dal mondo fenomenico è del tutto indipendente, e lo ignora, e potrebbe in certo modo sussistere quand’anche il mondo non fosse: il che non può dirsi delle altre arti. La musica è dell’intera volontà oggettivazione e immagine, tanto diretta com’è il mondo; o anzi, come sono le idee: il cui fenomeno moltiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti. La musica non è quindi punto, come l’altre arti, l’immagine delle idee, bensì immagine della volontà stessa, della quale sono oggettità anche le idee. Perciò l’effetto della musica è tanto più potente e insinuante di quel delle altre arti: imperocché queste ci danno appena il riflesso, mentre quella esprime l’essenza. Essendo adunque la medesima volontà che si oggettiva, tanto nelle idee quanto nella musica, ma solo in modo affatto diverso, deve trovarsi non proprio una diretta somiglianza, ma tuttavia un parallelismo, un’analogia tra la musica e le idee, delle quali è fenomeno molteplice e imperfetto il mondo visibile. L’indicare una tale analogia sarà come un chiarimento, che aiuti a comprendere questa

dimostrazione difficile per l’oscurità del soggetto. Nei suoni più gravi dell’armonia, nel basso fondamentale, io riconosco i gradi infimi dell’oggettivantesi volontà, la natura inorganica, la massa del pianeta. Tutti i suoni acuti, agili e rapidi, notoriamente sono da considerare sorti dalle vibrazioni concomitanti del suono fondamentale profondo, e al risuonar di questi risuonan tosto lievi anch’essi. È legge dell’armonia, accordare con una nota bassa soltanto quei suoni acuti, che insieme con lei già effettivamente risuonano nelle vibrazioni concomitanti (i suoi sons harmoniques). È un fatto analogo a quello, per cui tutti i corpi e organismi della natura devono esser considerati come svoltisi gradatamente dalla massa del pianeta; questa è il loro sostegno come la loro sorgente: e la medesima relazione hanno i suoni acuti col basso fondamentale. La profondità ha un termine, oltre il quale un suono non è più percettibile: e ciò corrisponde al non esservi materia percepibile senza forma e qualità, ossia senza manifestazione d’una forza, che non può esser meglio spiegata, e in cui un’idea si esprime; anzi corrisponde più generalmente al non esservi materia in tutto scevra di volontà. Come adunque dal suono, in quanto tale, è inseparabile un certo grado di altezza, così lo è dalla materia un certo grado di manifestazione della volontà. Il basso fondamentale è quindi per noi nell’armonia quel che il mondo nella natura inorganica: la massa più rude, su cui tutto posa e da cui tutto s’innalza e si sviluppa. Procedendo, in tutte le parti costituenti l’armonia, tra il basso e la voce-guida che canta la melodia, riconosco l’intera scala delle idee, in cui la volontà si oggettiva. Quelle più vicine al basso corrispondono ai gradi inferiori, ossia ai corpi ancora inorganici ma già in più modi estrinsecantisi: le più alte mi rappresentano il mondo vegetale ed animale. I determinati intervalli della scala sono paralleli ai gradi determinati nell’oggettivazione della volontà, alle determinate specie della natura. Il discostarsi dall’aritmetica esattezza degl’intervalli, o mediante una qualsiasi tempera, o indotto dalla prescelta tonalità, è analogo al discostarsi dell’individuo dal tipo della specie: e anzi le dissonanze impure, che non danno un determinato intervallo, si posson paragonare ai mostri venuti da due specie animali, o da uomo e animale. A tutte codeste parti di basso e medie, che formano l’armonia, manca nondimeno quell’organismo nella progressione, che soltanto ha la parte superiore, ond’è cantata la melodia; la qual parte è la sola a potersi muovere rapida e leggera nelle modulazioni e

digressioni, mentre tutte le altre hanno un andare più lento, senz’avere in ciascuna per sé un organismo costante. Più pesante di tutte si muove il basso fondamentale, il rappresentante della massa bruta: il suo salire e discendere si fa solo per grandi passaggi, in terze, quarte, quinte, e non mai d’un tono solo; ché allora sarebbe, per contrappunto doppio, un basso trasportato. Questo tardo moto è a lui anche fisicamente naturale: un rapido passaggio o un gorgheggio nelle note gravi non si può neppure immaginare. Più svelte, ma ancor senza nesso melodico e significante progressione si muovono le parti più elevate, che corrono parallele al mondo animale. Il movimento isolato e la destinazione regolata di tutte le parti sono analoghi al fatto, che in tutto il mondo irrazionale, dal cristallo all’animale più perfetto, nessun essere ha una conscienza propriamente sistematica, che faccia della sua vita un complesso sensato; e nessuno ha una successione di sviluppi mentali, nessuno si perfeziona con la cultura; bensì tutti rimangono in ogni tempo eguali, secondo la propria natura, determinati da rigida legge. Finalmente nella melodia, nella voce principale, alta, canora, che il tutto guida, e libera, spontanea procede dal principio alla fine con l’organismo ininterrotto e significativo d’un pensiero unico, formando un tutto ben delineato, riconosco il grado supremo dell’oggettivazione della volontà, la conscia vita e lotta dell’uomo. Come l’uomo ognora guarda, egli solo essendo fornito di ragione, davanti o dietro a sé, sul cammino della propria realtà e delle possibilità innumerabili, compiendo un corso vitale consapevole, in cui tutto si collega e forma un insieme: così ha la melodia sola una significativa, voluta connessione da capo a fondo. Ella narra quindi la storia della volontà illuminata dalla riflessione, volontà che si manifesta nel reale con la serie degli atti suoi; ma dice di più, narra della volontà la storia più segreta, ne dipinge ogni emozione, ogni tendenza, ogni moto, tutto ciò, che la ragione comprende sotto l’ampio e negativo concetto di sentimento, né può meglio accogliere nelle proprie astrazioni. Perciò fu sempre detto esser la musica il linguaggio del sentimento e della passione, come le parole sono il linguaggio della ragione. Già Platone la dichiara ή των μελών κίνησις μεμιμημένη, έν τοΐς παθήμασιν δταν ψυχή γίγνηται (melodiarum motus, animi affectus imitans), De leg. VII; e anche Aristotele dice: διά τί οί ρυθμοί καί τά μέλη, φωνή ουσα, ήθεσιν εοικε; (cur numeri musici et modi, qui voces sunt, moribus similes sese exhibent?); Probl. c. 19. Ora, come l’essenza dell’uomo sta nel fatto, che la sua volontà aspira,

viene appagata e toma ad aspirare, e sempre così continua; anzi sua sola felicità, solo suo benessere è che quel passar dal desiderio all’appagamento e da questo a un nuovo desiderio proceda rapido, poi che il ritardo dell’appagamento è dolore, e il ritardo del nuovo desiderio è aspirazione vuota, languor, noia; così l’essenza della melodia è un perenne discostarsi, perergrinar lontano dal tono fondamentale per mille vie non solo verso i gradi armonici, la terza e la dominante, ma verso ogni tono, fino alla dissonante settima ed ai gradi eccedenti; eppur sempre succede da ultimo un ritorno al tono fondamentale. Per tutte codeste vie esprime la melodia il multiforme aspirar della volontà; ma col ritrovare infine un grado armonico, o meglio ancora il tono fondamentale, esprime l’appagamento. Trovar la melodia, scoprire in lei tutti i segreti più profondi dell’umano volere e sentire, è l’opera del genio: la cui azione è qui più facile a vedersi che altrove, libera da ogni riflessione e meditato intento - e potrebbe chiamarsi inspirazione. Qui, come ovunque nel dominio dell’arte, il concetto è infruttifero: il compositore disvela l’intima essenza del mondo, in un linguaggio che la ragione di lui non intende: come una sonnambula magnetica dà rivelazione di cose, delle quali sveglia non ha concetto alcuno. In un compositore quindi, meglio che in ogni altro artista, è l’uomo dall’artista in tutto separato e distinto. Perfino nell’illustrazione di quest’arte mirabile il concetto lascia scorgere la propria povertà e i propri limiti: ma io voglio nondimeno tentar d’esporre fino all’ultimo l’analogia da me indicata. Come il rapido passaggio dal desiderio all’appagamento, e da questo a un nuovo desiderio, è felicità e benessere, così sono gioiose le melodie rapide, senza grandi deviazioni: tristi sono invece se lente, deviate in penose dissonanze, e solo attraverso molte battute facenti ritorno al tono fondamentale; sì da paragonarsi a un tardivo, contrastato appagamento del desiderio. Il ritardo della nuova eccitazione della volontà, il languore, non potrebbe esprimersi altrimenti che nel prolungato tono fondamentale, il cui effetto sarebbe ben presto intollerabile: già di molto s’avvicinano a ciò le monotone, inespressive melodie. I brevi, facili periodi d’una rapida musica a danza sembrano parlar d’una gioia comune, agevole a raggiungersi; mentre l’Allegro maestoso, in lunghi periodi, lenti passaggi, ampie deviazioni, esprime una più alta, più nobile aspirazione verso una meta lontana, e il suo finale conseguimento. L’Adagio parla del dolore d’una grande e nobile aspirazione, la quale disdegna ogni felicità meschina. Ma come mirabile è

l’effetto del Minore e Maggiore! Come stupisce, che il mutar d’un semitono, il subentrar della terza minore in luogo della maggiore, c’inspiri immediatamente e inevitabilmente un senso d’angoscia e di pena, dal quale con la stessa rapidità ci libera il modo maggiore! L’Adagio raggiunge nel modo minore l’espressione del più alto spasimo, diviene il più sconvolgente lamento. Musica a ballo in minore sembra indicare la perdita d’una felicità mediocre, che piuttosto si dovrebbe disdegnare; sembra parlar d’un fine basso, conseguito con travagli e tribolazioni. L’inesauribile ricchezza di possibili melodie corrisponde all’inesauribile ricchezza della varietà d’individui, fisionomie e carriere vitali nella natura. Il passaggio da una tonalità a un’altra affatto diversa, venendo a toglier la connessione con ciò che precede, somiglia alla morte, in quanto ella è fine dell’individuo: ma la volontà, che in costui si palesava, vive dopo come prima, in altri individui palesandosi, la cui conscienza tuttavia non ha connessione di sorta con quella del primo. Nel mostrar tutte queste analogie, non si deve tuttavia mai dimenticare che la musica non ha con esse una relazione diretta, ma soltanto indiretta: non esprimendo ella il fenomeno, ma l’intimo essere, l’in-sé d’ogni fenomeno, la volontà stessa. Non esprime adunque questa o quella singola e determinata gioia, questo o quel turbamento, o dolore, o terrore, o giubilo, o letizia, o serenità; bensì la gioia, il turbamento, il dolore, il terrore, il giubilo, la letizia, la serenità in se stessi, e, potrebbe dirsi, in abstracto, dandone ciò che è essenziale, senza accessori, quindi anche senza i loro motivi. Perciò noi comprendiamo la musica perfettamente, in questa purificata quintessenza. Di là procede che la nostra fantasia venga dalla musica con tanta facilità eccitata, tenti allora di dar forma a quel mondo di spiriti, che direttamente ci parla, invisibile e pur si vivamente mosso, e di vestirlo con carne e ossa, cioè impersonarlo in un esempio analogo. Questa è l’origine del canto accompagnato da parole, e finalmente dell’opera, - la quale appunto perciò non dovrebbe mai abbandonare questa situazione subordinata per salire al primo luogo, e ridurre la musica a semplice mezzo della propria espressione; la qual cosa è un grosso errore e una brutta stortura. Imperocché sempre la musica esprime la quintessenza della vita e dei suoi eventi, ma non mai questi medesimi; le cui distinzioni quindi non hanno il minimo influsso sopra di lei. Appunto tale universalità, che a lei esclusivamente appartiene, malgrado la determinatezza più precisa, le dà

l’alto valore, ch’ella possiede come panacea di tutti i nostri mali. Se quindi si vuol troppo adattar la musica alle parole, e modellarla sui fatti, ella si sforza a parlare un linguaggio che non è il suo. Da questo difetto nessuno s’è tenuto lontano come Rossini: perciò la musica di lui parla sì limpido e puro il linguaggio suo proprio, da non aver punto bisogno di parole, ed esercitare quindi tutto il suo effetto, anche se eseguita dai soli strumenti. In conseguenza di tutto ciò possiamo considerare il mondo fenomenico (o la natura) e la musica come due diverse espressioni della cosa stessa; la quale è adunque il termine di unione dell’analogia che passa fra loro, la cui conoscenza si richiede per vedere addentro quell’analogia. La musica quindi è - guardata come espressione del mondo - un linguaggio in altissimo grado universale, che addirittura sta all’universalità dei concetti press’a poco come i concetti stanno alle singole cose. Ma la sua universalità non è punto quell’universalità vuota dell’astrazione, bensì ha tutt’altro carattere, ed è congiunta con una perenne, limpida determinatezza. Somiglia in ciò alle figure geometriche ed ai numeri: che, quali forme universali di tutti i possibili oggetti dell’esperienza ed a tutti applicabili, non sono tuttavia astratti, ma intuitivi e sempre determinati. Tutte le possibili aspirazioni, eccitazioni e manifestazioni della volontà; tutti quei fatti interni dell’uomo, che la ragione getta nell’ampio concetto negativo di sentimento, sono da esprimere nelle infinite melodie possibili; ma ognora nell’universalità di semplice forma, senza la materia; ognora nell’in-sé, e non nel fenomeno: quasi la più profonda anima di questo, senza il corpo. Da quest’intima relazione, che la musica ha con la vera essenza di tutte le cose, si trae pur la spiegazione del fatto che se a qualsivoglia scena, azione, evento, ambiente s’accompagna una musica adatta, questa sembra dischiudercene il senso più segreto, ed esserne il più esatto, il più limpido commentario; e nello stesso tempo pare a quegli, che intero s’abbandona all’effetto d’una sinfonia, di vedere innanzi a sé passare le vicende tutte della vita e del mondo: ma nondimeno non gli è possibile, quando vi rifletta, trovare una somiglianza tra quella musica e le cose che ondeggiavano a lui nella fantasia. Imperocché quivi la musica differisce, come ho detto, da tutte le altre arti: nell’essere non già una riflessa immagine del fenomeno o, meglio, l’adeguata oggettità della volontà, bensì l’immediato riflesso della volontà medesima; e per tutto ciò ch’è fisico nel mondo rappresentare il metafisico, per ogni fenomeno rappresentare la cosa in sé. Tanto si potrebbe quindi

chiamare il mondo musica materiata, quanto materiata volontà. In tutta questa trattazione intorno alla musica mi sono sforzato di render chiaro, come ella in un linguaggio universalissimo esprima l’essenza intima, l’in-sé del mondo, che noi, muovendo dalla sua manifestazione più limpida, significhiamo sotto il concetto di volontà; e l’esprima in una materia particolare, ossia con semplici suoni, con la massima determinatezza e verità. E d’altra parte, secondo io vedo e tendo, la filosofia non è se non compiuta, esatta riproduzione ed espressione dell’essenza del mondo, in concetti molto generali; sol con questi potendosi avere una visione, per ogni verso sufficiente e servibile, di tutta quell’essenza. Chi adunque m’ha seguito ed è penetrato nel mio pensiero, non mi troverà tanto paradossale, quando dico che, posto si potesse dare una spiegazione della musica, in tutto esatta, compiuta e addentrantesi nei particolari, ossia riprodurre estesamente in concetti ciò ch’ella esprime, questa sarebbe senz’altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti; oppur le equivarrebbe in tutto, e sarebbe così la vera filosofia. [...] Avrei ancor parecchio da aggiungere sul modo onde la musica vien percepita, ossia unicamente nel tempo e per il tempo, con assoluta esclusione dello spazio, e anche senza influsso della conoscenza di causalità, ossia dell’intelletto: imperocché i suoni musicali già producono come effetto l’impressione estetica, senza che si debba risalire alla loro causa, come accade nell’intuizione. Ma non voglio prolungar questi discorsi, ché probabilmente già a taluno sono apparso nel mio terzo libro troppo prolisso, o troppo mi sono addentrato nei particolari. Ciò era tuttavia necessario per il mio scopo, e tanto meno sarà biasimato, quanto più ci si rappresenti l’importanza, di rado conosciuta abbastanza, e l’alto valore dell’arte; riflettendo che se, a nostro modo di vedere, tutto il mondo visibile non è se non oggettivazione, specchio della volontà, e accompagna questa alla conoscenza di sé, anzi, come tosto vedremo, alla sua possibile redenzione; e riflettendo in pari tempo, che il mondo come rappresentazione, quando lo si consideri a parte, ed essendo svincolati dal volere lo si lasci occupare esso solo la conscienza, è il più gioioso e l’unico innocente aspetto della vita; di tutto ciò noi dobbiamo considerar l’arte

come il più alto grado, il più completo sviluppo, poi che ella sostanzialmente fa quel medesimo che fa il mondo visibile, ma con più concentrazione, compiutezza, consapevole intento; e può quindi nel pieno significato della parola esser chiamata la fioritura della vita. Se il mondo intero quale rappresentazione non è che la visibilità della volontà, l’arte è quella, che fa più limpida codesta visibilità, la camera oscura, che gli oggetti fa apparire più puri e meglio vedere e abbracciar con lo sguardo. È lo spettacolo nello spettacolo, la scena sulla scena, come nell’Amleto. Il godimento del bello, il conforto che l’arte può dare, l’entusiasmo dell’artista, che gli fa dimenticare i travagli della vita, unico privilegio del genio, il solo che lo compensi del dolore cresciuto di pari passo con la chiarità della conscienza, e della squallida solitudine fra una gente eterogenea, - tutto ciò poggia sul fatto che, come ci si mostrerà in seguito, l’in-sé della vita, la volontà, l’essere medesimo sono un perenne soffrire, in parte miserabile, in parte orrendo; mentre l’essere medesimo quale semplice rappresentazione, puramente intuita, o riprodotta dall’arte, libera da dolore, offre un significante spettacolo. Quest’aspetto del mondo puramente conoscitivo, e la riproduzione sua in un’arte qualsiasi è l’elemento dell’artista. Egli è incatenato dallo spettacolo dell’oggettivata volontà: vi si indugia, non si stanca di guardarlo e di riprodurlo, e talora ne fa egli medesimo le spese, ossia egli medesimo è la volontà, che in quel modo soggettiva e perdura in continuo dolore. Quella pura, vera e profonda conoscenza dell’essere del mondo gli si fa scopo di per se stessa: ed egli a lei si ferma. Non diviene ella adunque per lui, come vedremo nel seguente libro accadere per il santo arrivato alla redenzione, un quietivo della volontà; non lo redime per sempre dalla vita, ma solo per brevi istanti, e non è ancor una via a uscir dalla vita, ma solo a volte un conforto nella vita stessa; fin che la sua forza, così accresciuta, stanca alfine del giuoco, non si volga al serio. Come simbolo di questo passaggio si può considerar la Santa Cecilia di Raffaello. Al serio ci volgeremo adunque noi pure nel libro seguente.

Charles Baudelaire La bellezza nella modernità

Pubblicata su Le Figaro nel 1863, la raccolta di brevi saggi intitolata Il pittore della vita moderna (Le peintre de la vie moderne) testimonia dell’intensa attività di critico e saggista che Charles Baudelaire (1821-1867) affiancò, lungo tutto l’arco della sua vita, alla scrittura poetica. Nel 1845, in concomitanza con l’uscita sulla rivista L'artiste della prima poesia pubblicata da Baudelaire con la sua firma - “A une dame créole”, che poi entrerà a far parte della celebre raccolta I fiori del male -, esce anche il primo articolo sui Salons di pittura, in cui si esalta la pittura di Eugène Delacroix (1798-1863), definito “il pittore più originale dei tempi antichi e moderni”. I Salons erano ampie esposizioni d’arte che venivano organizzate ogni anno sin dal Settecento, inizialmente sotto gli auspici dell’Accademia e poi sotto il controllo dei professori dell’École des Beaux-Arts, che formavano la giuria delegata a decidere insindacabilmente quali artisti dovessero essere ammessi e quali no. Il controllo dei Salons da parte dell’ufficialità accademica fu in seguito contestato con episodi clamorosi da parte dei pittori rifiutati dalla giuria, come Gustave Courbet (1819-1877), che nel 1855 creò un suo padiglione del “realismo”, o il gruppo degli impressionisti, che diedero vita nel 1863 al Salon des Refusés. Le mostre autonome degli impressionisti (1874-1886) e la fondazione, da parte di Georges Seurat (1859-1891) e Paul Signac (1863-1935), del Salon des Indépendants, misero definitivamente in crisi la tradizionale istituzione, che perse gradualmente la sua importanza. Nutrita da un costante interesse per la letteratura, la musica e la pittura a lui contemporanee, la produzione critica di Baudelaire comprende non solo gli articoli relativi ai Salons del 1845, 1846 e 1859 - con cui egli si inseriva in una tradizione avviata nel Settecento da Diderot - ma anche, tra

gli altri, i saggi su Edgar Allan Poe (1809-1849), Gustave Flaubert (18211880), Victor Hugo ( 1802-1885), Théophile Gautier (1811-1872), Richard Wagner (1813-1883) e Delacroix. Nei brevi saggi che compongono Il pittore della vita moderna, l’attenzione si concentra sull’opera del pittore Constantin Guys (menzionato solo con le iniziali C.G., per sua stessa volontà), che si rivela ben presto essere una sorta di alter ego dello stesso Baudelaire: con il pretesto di commentare l’opera e la personalità di Guys, Baudelaire finisce infatti per parlare di sé, esibendo i diversi punti di vista da cui si esercita il suo sguardo al tempo stesso affascinato e disincantato sulla modernità. L’io narrante che si rivela nei saggi è un critico che si presenta di volta in volta come osservatore distaccato, filosofo, moralista appassionato, dandy, girovago (flâneur). Già in un saggio appartenente alla raccolta dedicata al Salon del 1846, intitolato “A che serve la critica?”, Baudelaire sosteneva che la vera critica “deve essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti”. Ne Il pittore della vita moderna ritroviamo questo sguardo irriducibilmente soggettivo e parziale, e attraverso il commento all’opera di C.G. scaturiscono delle rêveries morales aventi per oggetto, di volta in volta, la figura dell’artista, la bellezza, l’immaginazione, le donne, la moda, alla ricerca continua del significato che questi temi possono avere nel rivelarci l’essenza della modernità. Parlando della figura dell’artista, Baudelaire descrive le diverse prospettive assunte nel suo ruolo di critico e poeta, capace di esercitare uno sguardo libero e spregiudicato, contraddittorio e paradossale nei confronti del mondo. L’artista descritto da Baudelaire è un “uomo del mondo intero, che comprende il mondo e le ragioni misteriose e legittime di tutte le sue usanze”, un “cittadino spirituale dell’universo” per il quale la curiosità costituisce “il punto di partenza del suo genio”. È un eterno convalescente, per il quale “la convalescenza è come un ritorno all’infanzia” e al continuo fascino della novità che la pervade: “Il convalescente possiede in sommo grado, come il fanciullo, la facoltà di interessarsi vivamente alle cose, anche a quelle in apparenza più banali. Proviamo a risalire, se è possibile, con uno sforzo retrospettivo della fantasia, verso le nostre impressioni più giovani e più aurorali, e vedremo allora che esse avevano una singolare affinità con quelle impressioni, dai colori così vivi, che più

tardi abbiamo ricevuto in seguito a una malattia fisica, purché la malattia abbia lasciato pure e intatte le nostre facoltà spirituali. Il fanciullo vede tutto in una forma di novità; è sempre ebbro. Nulla somiglia tanto a quella che chiamo ispirazione, quanto la gioia con cui il fanciullo assorbe la forma e il colore. Ma io vorrei andare ancora oltre: dico che l’ispirazione ha un qualche rapporto con la congestione, e che a ogni pensiero sublime si accompagna una scossa nervosa, più o meno intensa, che si ripercuote sin nel cervelletto”. L’artista descritto da Baudelaire non è però solo convalescente e fanciullo, bensì anche un dandy, ossia colui che partecipa del mondo conoscendone i più intimi meccanismi ma al tempo stesso ostentando distacco e superiorità. Come un “animale depravato” che però ha saputo mantenere “il dono della facoltà di vedere”, insieme alla “potenza di esprimere”, il dandy vive in una dimensione di puro dispendio, di completa inutilità, ammirando “la bellezza eterna e la stupenda armonia della vita nelle capitali”. Il suo sguardo, al tempo stesso cinico e affascinato, “gioisce della vita universale”, del variare delle mode e dell’anonimato di una folla sempre mutevole: “Sposarsi alla folla è la sua passione e la sua professione. Per il perfetto perdigiorno [flâneur], per l’osservatore appassionato, è una gioia senza limiti prendere dimora nel numero, nell’ondeggiante, nel movimento, nel fuggitivo e nell’infinito. Essere fuori di casa, e ciò nondimeno sentirsi ovunque nel proprio domicilio; vedere il mondo, esserne al centro e restargli nascosto. [...] Così l’innamorato della vita universale entra nella folla come in un’immensa centrale di elettricità. Lo si può magari paragonare a uno specchio immenso quanto la folla; a un caleidoscopio provvisto di coscienza, che, ad ogni suo movimento, raffigura la vita molteplice e la grazia mutevole di tutti gli elementi della vita. È un io insaziabile del non-io, il quale, ad ogni istante, lo rende e lo esprime in immagini più vive della vita stessa, sempre instabile e fuggitiva”. Nella sua continua ricerca di “distinzione”, l’atteggiamento del dandy “confina con lo spiritualismo e con lo stoicismo”; come “un sole al tramonto”, emana un “ultimo bagliore di eroismo nei tempi della decadenza”. Descrivendo lo sguardo del dandy, Baudelaire non fa altro che descrivere la natura del proprio sguardo critico e poetico nei confronti di una realtà che deve essere colta in ciò che ha di assolutamente unico e

irriducibile, la propria modernità. Abbiamo già visto che il problema dell’individuazione di ciò che è moderno, e dunque il tentativo di un’autofondazione da parte della modernità stessa, si è spesso posto all’interno della riflessione estetica, per esempio negli scritti di Schlegel, nei quali attraverso l’opposizione tra “antico” e “moderno” viene in luce la vera natura di ciò che è “romantico”, ossia della poesia a venire e delle sue radici storiche. In Baudelaire la comprensione dell’essenza della modernità non avviene all’interno di una filosofia della storia segnata dal primato della civiltà e dell’arte antica, bensì alla luce di uno sguardo che cerca ciò che di eterno e duraturo si nasconde nel presente e nell’effimero: in un celebre passo del saggio intitolato, per l’appunto, “La modernità”, Baudelaire scrive che “la modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile [...] perché ogni modernità acquisti il diritto di diventare antichità, occorre che ne sia stata tratta fuori la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevole, la vita umana”. Il compito dello sguardo del critico viene quindi a confondersi con quello del poeta, nel tentativo di “cercare e illustrare la bellezza nella modernità”. In questo modo il presente non acquisisce la consapevolezza di sé opponendosi a un’epoca ripudiata e oltrepassata, oppure a un passato mitizzato e idealizzato: l’attualità si costituisce invece come punto di incrocio fra istantaneità ed eternità, nel momento in cui il transitorio viene fissato poeticamente e trasfigurato nell’eterno. Di qui la “teoria razionale e storica del bello” che Baudelaire ci presenta nel saggio “Il bello, la moda e la felicità”: “Il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile, la cui quantità è oltremodo difficile da determinare, e di un elemento relativo, occasionale, che sarà, se si preferisce, volta a volta o contemporaneamente, l’epoca, la moda, la morale, la passione. Senza questo secondo elemento, che è come l’involucro dilettoso, pruriginoso, stimolante del dolce divino, il primo elemento sarebbe indigeribile, non degustabile, inadatto e improprio alla natura umana. Sfido chiunque a scovarmi un esemplare qualsiasi di bellezza dove non siano contenuti i due elementi”. Nella costante ricerca del bello all’interno della dimensione poliedrica e contraddittoria della vita moderna, lo sguardo del poeta deve orientarsi verso il sublime e il meraviglioso che si nasconde nella quotidianità: “La vita parigina è fertile di soggetti poetici e meravigliosi. Il

meraviglioso ci avvolge e ci bagna come l’atmosfera; ma non lo vediamo”. Fine del poeta e del critico non deve essere imitare passivamente la realtà, bensì liberare i poteri dell’immaginazione, facoltà dell’analisi e della sintesi, dell’analogia e della metafora, del verosimile e del possibile, “concretamente congiunta con l’infinito”. In questo modo diventa possibile cogliere quelle correspondances che danno il titolo a una delle più celebri poesie de I fiori del male: “foreste di simboli dagli occhi familiari” che rivelano come tutto l’universo visibile non sia altro che “un deposito di immagini e di segni ai quali l’immaginazione deve attribuire un posto e un valore relativo”. La tendenza “realista” e “positivista” presente nell’arte a lui contemporanea, il dominante gusto per il Vero, sarebbe all’origine secondo Baudelaire del diffuso fascino per la recente invenzione della fotografia, un fascino costituito dalla sorpresa di fronte a un’immagine che si presenta come replica esatta e impassibile del vero. Nel successo della fotografia Baudelaire denuncia una forma di fanatismo e di attaccamento idolatrico al “vero” naturale dietro cui si nasconderebbe un “amore dell’osceno” e un irrimediabile “impoverimento del genio artistico”. La fotografia non deve proporsi come forma artistica alternativa, se non addirittura “superiore”, alla pittura, bensì come tecnica finalizzata alla documentazione e alla conservazione. Esaltare i poteri dell’immaginazione significa, secondo Baudelaire, difendere le prerogative della pittura di fronte alle insidie di un’arte, la fotografia, che curiosamente sembrerebbe proprio avere a che fare con quella ricerca dell’immutabile nell’istante in cui risiede l’essenza della bellezza. In questa condanna dell’“amore dell’osceno” che si nasconde dietro il successo della fotografia, la posizione di Baudelaire potrebbe sembrare senza dubbio contraddittoria, trattandosi di un autore che ha fatto della contraddizione, della paradossalità, della fusione di alto e basso, sublime e grottesco, il tratto distintivo della propria poetica. In Baudelaire prosegue infatti quella deriva anticlassicistica - annunciata dalle riflessioni romantiche sul “caratteristico” e l’“interessante” e testimoniata dal tentativo delle estetiche posthegeliane di fare i conti con il tema del brutto, per esempio nell'Estetica del brutto (1853) di Karl Rosenkranz (1805-1879) - che ha il suo massimo esponente in Victor Hugo e nella sua tematizzazione del grotttesco. Se in Rosenkranz la trattazione del brutto era ancora subordinata al primato della bellezza e dell’armonia, tanto che il disarmonico e il

negativo erano considerati momenti destinati a essere superati e ricomposti nella potenza conciliante del bello, in Hugo il brutto e il grottesco si presentano come una dimensione esuberante e irriducibile: “Il bello non ha che un tipo: il brutto ne ha mille”. L’arte non si limita più ad accogliere nel proprio ambito la bellezza, bensì si apre alle innumerevoli forme della sua decadenza e della sua perversione, rivolgendosi ai nuovi territori della deformazione e dell’informe, della contraddizione e della disarmonia. Tutto questo naturalmente è presente in Baudelaire, la cui poesia è segnata dall’accostamento di temi e stili “sublimi” con improvvise cadute nella depravazione e nel grottesco, in una tensione polare costantemente irrisolta. Nei saggi de Il pittore della vita moderna, la ricerca della dimensione sublime ed eterna in ciò che è “basso” e ordinario assume però una veste inaspettata, e si concretizza nella celebre rivalutazione della moda e del trucco. Riscattata dalla sua condanna ad opera della morale dominante, che vi vede l’ambigua esaltazione dell’artificio contro il legittimo primato della naturalità, la moda si presenta come emblema della modernità proprio in quanto congiunzione dell’eterno e dell’effimero. Obbedendo al continuo imperativo della novità, essa mostra la capacità del presente di assumere valore simbolico, facendosi rappresentazione e quindi proponendosi come eterno: la donna truccata perde infatti ogni “piatta” naturalezza e svela il suo volto quasi totemico, per farsi adorare come un idolo: “essere terribile e incomunicabile al pari di Dio (con la sola differenza che l’infinito non si comunica in quanto accecherebbe e schiaccerebbe il finito, mentre l’essere di cui si parla è forse incomprensibile solo perché non ha niente da comunicare), [la donna] è piuttosto una divinità, un astro [...] una luce, uno sguardo, un invito alla felicità, e talvolta il suono di una parola; ma soprattutto è un’armonia generale, non solo nel gesto e nel movimento delle membra, ma anche nelle mussole, nei veli, negli ampi e cangianti nembi di stoffe in cui si avvolge, che sono come gli attributi e il fondamento della sua divinità”. La moda, in altre parole, è “uno dei segni della nobiltà primitiva dell’anima umana”, “un sintomo del gusto dell’ideale”, un modo con cui la donna si eleva a una dimensione magica e soprannaturale, si pone come idolo e statua di fronte a uno sguardo adorante: “Il rosso e il nero rappresentano la vita, vita soprannaturale e smisurata; il bordo nero fa lo sguardo più profondo e singolare, dona all’occhio un’apparenza più risoluta di finestra aperta sull’infinito; il rosso

che infiamma i pomelli, accresce vieppiù la luminosità della pupilla e insinua in un bel volto femminile la misteriosa passione della sacerdotessa”. Le pagine che seguono sono tratte da Ch. Baudelaire, Scritti sull’arte, prefazione di E. Raimondi, tr. it. a cura di G. Guglielmi ed E. Raimondi, Einaudi, Torino 1992: pp. 120-121, 279-280, 305-308. Degli Scritti sull'arte di Baudelaire si vedano anche i seguenti saggi: dalla raccolta Salon del 1845, “Delacroix” (pp. 4-8); dal Salon del 1846, “A che serve la critica?” (pp. 56-58); dal Salon del 1859, “Il pubblico moderno e la fotografia” (pp. 217-222), “La regina delle facoltà” (pp. 222-225), “Il governo dell’immaginazione” (pp. 226-230); da Il pittore della vita moderna, “L’artista, uomo di mondo, uomo delle folle e fanciullo” (pp. 282-287), “La modernità” (pp. 287-290), “Il dandy” (pp. 300-303), “La donna” (pp. 304-305), “Le donne e le mondane” (pp. 308-312). Per approfondire: AA.VV., Baudelaire poeta e critico, Patron, Bologna 1981; E. Auerbach, “Les fleurs du mal di Baudelaire e il sublime”, in Id., Da Montaigne a Proust, tr. it. Laterza, Bari 1970, pp. 192-221; W. Benjamin, “Di alcuni motivi in Baudelaire”, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, tr. it. Einaudi, Torino 1995; Id., Parigi capitale del XIX secolo, tr. it. Einaudi, Torino 1986, pp. 299-506; G. Froidevaux, Baudelaire: représentation et modernité, J. Corti, Paris 1989; J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità: dodici lezioni, tr. it. Laterza, Roma-Bari 1987; V. Hugo, Sul grottesco, introduzione di E. Franzini, tr. it. Guerini, Milano 1990; G. Macchia, Baudelaire critico, Sansoni, Firenze 1939; Id., Baudelaire e la poetica della malinconia, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1947; C. Pichois e J. Ziegler, Baudelaire, tr. it. il Mulino, Bologna 1987; K. Rosenkranz, “Estetica del brutto, presentazione di R Bodei, tr. it. Aesthetica, Palermo 1994; S. Zecchi, “Baudelaire: il destino della modernità”, in Id. (a cura di), Estetica 1991. Sul destino, il Mulino, Bologna 1992, pp. 139-169.

L'eroismo della vita moderna

Molti vogliono attribuire la decadenza della pittura alla decadenza dei costumi.1 Questo pregiudizio di artisti, che si è diffuso tra il pubblico, è una pessima giustificazione invocata dagli stessi pittori, interessati come erano a rappresentare fedelmente il passato, essendo il compito più facile, e avendovi una sua parte anche la pigrizia. È vero che la grande tradizione è andata perduta, e la nuova non è ancora nata. Che altro era la grande tradizione, se non l'idealizzazione normale e consueta della vita antica; vita maschia e guerriera, stato di difesa di ogni individuo che vi portava l’abito dei gesti severi, degli atteggiamenti maestosi o violenti. Si aggiunga lo sfarzo pubblico che si rifletteva nella vita privata. La vita antica, costituita soprattutto per il piacere degli occhi, rappresentava quasi ogni cosa; e questo paganesimo del quotidiano ha contribuito in modo mirabile alle arti. Ma prima di ricercare quale possa essere il lato epico della vita moderna, e dimostrare con qualche esempio come la nostra epoca non sia meno fertile delle antiche di motivi sublimi, si può sostenere che siccome ogni secolo e ogni popolo ha avuto la propria bellezza, noi dobbiamo avere per forza la nostra. E ciò è nell’ordine delle cose. Ogni bellezza ha in sé, come qualsiasi fenomeno possibile, qualcosa di eterno e qualcosa di transitorio, - di assoluto e di particolare. La bellezza assoluta ed eterna non esiste, o meglio non è che un’astrazione distillata dall’intera superficie delle diverse bellezze. L’elemento specifico di ogni bellezza viene dalle passioni, e come noi abbiamo le nostre passioni, così abbiamo la nostra bellezza. Il bello, la moda, la felicità

[...] Ho sotto gli occhi una serie di stampe di mode, dalla Rivoluzione sino pressappoco al Consolato. Questi abiti, che muovono al riso tanta gente incapace di pensare, grave senza una gravità vera, presentano un fascino di un duplice ordine, artistico e storico. Il più delle volte sono belli e finemente disegnati; ma ciò che m’importa altrettanto, e che mi rallegra di ritrovare in tutti o nella maggior parte, è la morale e l’estetica del tempo. L’idea che l’uomo si forma del bello impronta tutto il suo modo di vestire, rende

floscio o rigido l’abito, arrotonda o squadra il gesto, e alla lunga penetra sottilmente persino nei tratti del suo volto. E l’uomo finisce per somigliare a ciò che vorrebbe essere. Queste stampe possono essere tradotte nel registro del bello e del brutto; in quello del brutto divengono caricature; nel bello, equivalgono a statue antiche. Le donne che indossavano quegli abiti erano tra di loro più o meno somiglianti, secondo il grado di poesia o di volgarità che le contrassegnava. La materia vivente rendeva flessuoso quel che ora ci sembra troppo rigido. L’immaginazione dello spettatore può ancor oggi far muovere e fremere quella tunica e quello scialle. Forse, uno di questi giorni, in un qualche teatro, sarà rappresentato un dramma in cui vedremo risorgere quei costumi sotto i quali i nostri padri si sentivano non meno attraenti di noi nei nostri poveri panni (i quali hanno sì una loro grazia, ma di una natura piuttosto morale e spirituale), e se indossati e vivificati da attrici e attori intelligenti, ci stupiremo di averne potuto ridere con tanta leggerezza. Il passato, pur conservando l’attrattiva mordente del fantasma, riprenderà la luce e il moto della vita, e si farà presente. Se un giudice imparziale si ponesse a sfogliare a una a una tutte le mode francesi dalle origini della Francia sino a oggi, non vi troverebbe nulla che potesse urtarlo e neppure sorprenderlo. Le transizioni sarebbero così riccamente graduate come nella scala del mondo animale. Nessuna lacuna, quindi nessuna sorpresa. E se egli poi aggiungesse alla stampa che rappresenta ciascuna epoca il pensiero filosofico da cui più essa era presa o travagliata - un pensiero del quale la stampa suggerisce irresistibilmente il ricordo - vedrebbe quale profonda armonia ordini tutte le membra della storia, e che, anche nei secoli che ci appaiono più mostruosi e più folli, l’immortale desiderio del bello trova sempre il proprio appagamento. Qui si offre un’occasione opportuna, invero, per istituire una teoria razionale e storica del bello, di contro alla teoria del bello unico e assoluto; mostrando che il bello è sempre, inevitabilmente, di una composizione duplice, anche se unica è l’impressione che produce; in quanto la difficoltà di distinguere gli elementi variabili del bello nell’unità dell’impressione non intacca minimamente la necessità della varietà nella sua composizione. Il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile, la cui quantità è oltremodo difficile da determinare, e di un elemento relativo, occasionale, che sarà, se

si preferisce, volta a volta o contemporaneamente, l’epoca, la moda, la morale, la passione. Senza questo secondo elemento, che è come l’involucro dilettoso, pruriginoso, stimolante, del dolce divino, il primo elemento sarebbe indigeribile, non degustabile, inadatto e improprio alla natura umana. Sfido chiunque a scovarmi un esemplare qualsiasi di bellezza dove non siano contenuti i due elementi. Scelgo, d’accordo, i due poli estremi della storia. Nell’arte ieratica, la dualità si mostra allo sguardo immediatamente; la parte di bellezza eterna non si manifesta che col consenso ed entro la norma della religione alla quale appartiene l’artista. Nell’opera più frivola di un artista raffinato operante in una di quelle epoche che noi con troppa vanità definiamo incivilite, la dualità si rivela allo stesso titolo; l’aliquota eterna di bellezza sarà a un tempo velata ed espressa, se non dalla moda, certo dal temperamento particolare dell’autore. La dualità dell’arte è una conseguenza fatale della dualità dell’uomo. Se si crede, si può benissimo considerare la sussistenza eterna come l’anima dell’arte, e l’elemento variabile come il suo corpo. Così si spiega perché Stendhal, con la sua natura indisponente, puntigliosa e persino scostante, ma le cui impertinenze provocano un’utile riflessione, si è avvicinato alla verità più di molti altri, quando ha detto che il Bello non è se non la promessa della felicità. Senza dubbio la sua definizione va oltre il segno, troppo subordinando il bello all’ideale infinitamente variabile della felicità, e spogliandolo con troppa disinvoltura del suo carattere aristocratico; ma ha il merito grande di allontanarsi decisamente dall’errore degli accademici. Già più di una volta ho spiegato queste cose; e quanto scrivo ora parla a sufficienza per coloro che amano tali giochi del pensiero astratto; ma so che i lettori francesi, per la maggioranza, non se ne dilettano, e io, a mia volta, non perdo altro tempo per entrare nella parte positiva e concreta del nostro tema. [...] Elogio del trucco

C’è una canzone, tanto volgare e sciocca da non poter quasi essere citata in un lavoro che ha qualche pretesa di serietà, ma che traduce assai bene,

nello stile dell’operetta, l’estetica della gente che non pensa. La natura abbellisce la bellezza! È da supporre che se avesse potuto esprimersi in francese, il poeta avrebbe detto: La semplicità abbellisce la bellezza! il che equivale a questa verità, che è una verità di un genere del tutto inatteso: Il niente abbellisce ciò che è. La maggior parte degli errori intorno al bello nasce dalla falsa concezione del XVIII secolo intorno alla morale. La natura in quel periodo era considerata quale base, origine e archetipo di tutto il bene e di tutto il bello possibili. E nell’accecamento generale di quel secolo, non ebbe poca parte la negazione del peccato originale. Se nondimeno accettiamo di riferirci semplicemente al fatto visibile, all’esperienza di tutti i tempi e alla “Gazette des tribunaux”, possiamo vedere che la natura non insegna nulla, o quasi nulla, in altre parole, che essa costringe l’uomo a dormire, a bere, a mangiare e a proteggersi, nei modi che può, contro gli effetti ostili dell’atmosfera. Proprio la natura spinge l’uomo ad uccidere il proprio simile, a mangiarlo, a sequestrarlo, a torturarlo; ché non appena si esce dall’ordine delle necessità e dei bisogni per entrare in quello del lusso e dei piaceri, si osserva che la natura non può consigliare altro che il delitto. Così, questa infallibile natura ha creato il parricidio e l’antropofagia e mille altri abomini che il pudore e la delicatezza impediscono di nominare. È la filosofia poi (parlo di quella onesta), è la religione a comandarci di nutrire i genitori poveri e infermi. La natura (che altro non è se non la voce del nostro interesse) ci ordina di ammazzarli. Si passi in rassegna, si esamini tutto ciò che è naturale, tutte le azioni e i desideri del semplice uomo naturale e non si troverà altro che orrore. Tutto quanto è bello e nobile è il risultato della ragione e del calcolo. Il delitto, di cui la bestia umana ha appreso il gusto nel ventre della madre, è originariamente naturale. La virtù, al contrario, è artificiale e soprannaturale, giacché sono stati necessari, in tutti i tempi e in tutti i popoli, divinità e profeti per insegnarla all’umanità imbestiata, e l’uomo, da solo, sarebbe stato impotente a scoprirla. Il male si fa senza sforzo, naturalmente, per fatalità; ma il bene è sempre il prodotto di un’arte. Tutto quello che affermo della natura come malvagia consigliera nell’ambito della morale, e della ragione come vera redentrice e riformatrice, può essere trasferito nell’ordine del bello. Sono perciò indotto a considerare l’acconciatura come uno dei segni della nobiltà primitiva dell’anima umana. Le razze che la nostra civiltà, confusa e

pervertita, ama trattare da selvagge, con un orgoglio e una fatuità incredibilmente risibili, comprendono, proprio al pari del fanciullo, la profonda spiritualità dell’abbigliamento. Il selvaggio e l’infante con la loro ingenua aspirazione verso ciò che brilla, i piumaggi multicolori, le stoffe cangianti, la maestà superlativa delle forme artificiali, attestano il loro disgusto per il reale, e dimostrano così, inconsapevoli, l’immaterialità della propria anima. Guai a colui che, come Luigi XV (il quale fu il prodotto non di una vera civiltà, ma di un ricorso di barbarie), spinge la depravazione al punto di non godere se non la semplice natura!2 La moda deve dunque considerarsi come un sintomo del gusto dell’ideale, che galleggia nel cervello umano al di sopra di tutto ciò che la vita umana vi accumula di volgare, di terrestre e d’immondo, come una deformazione sublime della natura o meglio come un tentativo inesauribile e ricorrente di riforma della natura. Si è anche ragionevolmente osservato (senza peraltro coglierne la ragione) che tutte le mode sono seducenti, ma seducenti in modo relativo, giacché ciascuna rappresenta uno sforzo nuovo, più o meno felice, verso il bello, una qualche approssimazione a un ideale il cui desiderio solletica senza sosta lo spirito umano non soddisfatto. Senonché le mode, se si vogliono apprezzare appieno, non vanno considerate come cose morte, che sarebbe come ammirare i vecchi cenci appesi, flosci e inerti come la pelle di san Bartolomeo, nell’armadio di un rigattiere. Occorre immaginarle vive, vivificate dalle belle donne che le indossarono. E soltanto così se ne può comprendere il senso e lo spirito. Se dunque l’aforisma: Tutte le mode sono seducenti, vi urta come troppo assoluto, si dica, e si sarà certi di non sbagliare: tutte sono state in modo legittimo seducenti. La donna è proprio nel suo diritto e anzi compie una sorta di dovere quando si studia di apparire magica e soprannaturale: è necessario che stupisca e incanti; idolo, deve dorarsi per essere adorata. La donna perciò deve prendere a prestito da tutte le arti i mezzi di elevarsi al di sopra della natura per meglio soggiogare i cuori e colpire gli spiriti. Importa poco che l’astuzia e l’artificio siano noti a tutti, se il loro successo è certo e l’effetto sempre irresistibile. In questo genere di riflessioni l’artista filosofo può trovare facilmente la legittimazione di tutte le pratiche messe in opera in tutti i tempi dalle donne per consolidare e divinizzare, in certo qual modo, la

loro fragile bellezza. Enumerarle tutte, sarebbe interminabile, ma per ridurci a ciò che il nostro tempo chiama volgarmente trucco, non vi è chi non veda come l’uso della polvere di riso, così insulsamente messo al bando dai filosofi candidi, abbia come fine e come risultato quello di far scomparire dalla carnagione tutte le macchie che la natura vi ha oltraggiosamente disseminate, e di creare un’unità astratta nella grana e nel colore della pelle, la quale, come quella prodotta dalla maglia, accosta immediatamente l’essere umano alla statua, cioè a un essere divino e superiore. E quanto al nero artificiale che cerchia l’occhio e al rosso che segna la parte superiore della guancia, benché l’uso derivi dallo stesso principio, che è il bisogno di superare la natura, il risultato vale per soddisfare a un bisogno del tutto opposto. Il rosso e il nero rappresentano la vita, vita soprannaturale e smisurata; il bordo nero fa lo sguardo più profondo e singolare, dona all’occhio un’apparenza più risoluta di finestra aperta sull’infinito; il rosso che infiamma i pomelli, accresce vieppiù la luminosità della pupilla e insinua in un bel volto femminile la misteriosa passione della sacerdotessa. Così, se non vengo frainteso, la coloritura del viso non deve essere usata con il fine volgare, inconfessabile, di imitare la bella natura e di sfidare la giovinezza. Si è osservato d’altro canto che l’artificio non abbellisce il brutto e può servire soltanto la bellezza. Chi mai oserebbe attribuire all’arte la sterile funzione di imitare la natura? Il trucco non ha da nascondersi, né evitare di farsi percepire; al contrario, può esibirsi se non proprio con affettazione, con una sorta di candore. Concedo con piacere a coloro cui la gravità compassata vieta di cercare il bello sin nelle sue manifestazioni più minute, di ridere delle mie riflessioni e di denunciarne la solennità tutta infantile; il loro giudizio austero non mi tocca; e a me basta, ora, fare appello ai veri artisti e a quelle donne, del pari, che hanno ricevuto alla nascita una scintilla di quel fuoco sacro di cui vorrebbero illuminarsi in tutto il loro essere.

NOTE 1 È un errore confondere questa decadenza con la prima: l’una concerne il pubblico e i suoi sentimenti, l’altra non riguarda che i pittori.

2 È noto che la Dubarry, quando voleva evitare di ricevere il re, si metteva il rossetto. Era un segno sufficiente. La signora sbarrava la sua porta. Proprio abbellendosi, essa faceva fuggire il regale discepolo della natura.

Benedetto Croce Arte, intuizione, espressione

Nella primavera del 1900 Benedetto Croce (1866-1952) legge all’Accademia Pontaniana di Napoli le Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale. Accompagnate da un’ampia parte storica e profondamente rimaneggiate, le Tesi diventeranno due anni dopo l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria e Storia (1902), a cui faranno seguito il Breviario di Estetica (1912), l'Aesthetica in nuce (1928) e diversi scritti di critica e storia letteraria, tra cui i saggi sulla letteratura italiana dall’Unità ai primi del secolo raccolti nei quattro volumi della Letteratura della Nuova Italia (1914-15), e testi come La riforma della storia artistica e letteraria (1917), Poesia e non poesia (1923), i Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1931), Poesia popolare e poesia d’arte (1933), La Poesia (1936). Nell’arco di questa produzione teorica che si misura di volta in volta con i principi fondanti dell’estetica o con l’analisi di singole opere, Croce viene articolando la propria tesi fondamentale, che concepisce l’arte come intuizione ed espressione, e, come abbiamo visto (si veda p. 91), si richiama alla figura di Giambattista Vico, che per primo avrebbe avuto il merito di proporre una “Logica poetica”, distinta da quella intellettuale, capace di considerare la poesia una forma di conoscenza autonoma rispetto alla filosofia e avente come principio la fantasia. La genesi della riflessione crociana sull’estetica risale alla memoria del 1893 intitolata La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. In questo testo arte e storia sono definite entrambe “rappresentazione della realtà”, salvo poi differenziarsi in conoscenza di ciò che è meramente possibile (l’arte) e di ciò che è veramente accaduto (la storia). La concezione dell’arte come forma specifica e autonoma di conoscenza e l’intenzione di

riconnettere i fatti estetici e artistici alla totalità della vita dello spirito ritornano nelle Tesi e nell’Estetica del 1902, dove l’arte è identificata con la conoscenza intuitiva, distinta da quella concettuale o logica: “La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è insomma, o produttrice di immagini o produttrice di concetti”. Il dominio dell’arte è dunque quello dell’intuizione dell’individuale e dell’immagine fantastica, un dominio profondamente diverso da quello della logica o della scienza, che procedono per elaborazione di concetti, costruzione di classi, astrazioni, ordinamento di fatti. Conoscenza intuitiva e conoscenza concettuale, studiate rispettivamente dall’Estetica e dalla Logica, si oppongono quindi come momenti distinti, anche se in parte complementari, della sfera teoretica. Analogamente, nell’ambito pratico Croce distingue tra un primo grado (l’attività meramente utile o economica) e un secondo grado (quello dell’attività morale), finendo così per delineare l’impianto generale della Filosofia dello Spirito, sviluppato in seguito, oltre che nell'Estetica, nei Lineamenti di Logica (1905), nella Logica (1909) e nella Filosofia della Pratica. Economica ed etica (1908). Affermando la tesi secondo cui l’arte è conoscenza intuitiva, Croce si riallaccia al senso originario del termine estetica come autonoma “scienza della sensibilità” introdotto a metà Settecento da Baumgarten e, contemporaneamente, si ricollega alla concezione kantiana dell’Estetica trascendentale esposta nella Critica della ragion pura. Come in Kant, così anche in Croce l’estetica si differenzia dalla logica, e l’intuizione dal concetto; se però nella Critica della ragion pura intuizioni e concetti si integrano a vicenda per dar luogo alla sintesi conoscitiva, nell’elaborazione crociana la sfera estetica rimane autonoma rispetto alla logica: vi sono infatti intuizioni “pure” a cui non si mescolano concetti o volizioni, mentre non si può dire il contrario, in quanto non c’è pensiero logico o azione morale che possa prescindere da intuizioni e sentimenti. In quest’ottica, essendo l’intuizione un grado necessario e imprescindibile della vita dello spirito, non ha alcun senso parlare di morte o eliminazione dell’arte: “domandare se l’arte sia eliminabile sarebbe né più né meno come domandare se siano eliminabili la sensazione o l’intelligenza”. Ma cosa significa, per Croce, intuizione? L’intuizione è apprensione

immediata di un contenuto sensibile, opposta all’elaborazione discorsiva prodotta dall’intelletto. È presenza di un contenuto ai nostri sensi (un’immagine, un colore, un suono) prima dell’intervento di qualsiasi organizzazione concettuale. L’intuizione si differenzia però sia dalla percezione, in quanto non distingue tra la realtà e l’irrealtà dei propri contenuti, sia dalla sensazione, ossia dalla semplice affezione passiva e meccanica procurataci da qualcosa di esterno. L’intuizione “pura” - ossia scevra di ogni elemento concettuale - plasma e dà forma alle sensazioni, le fissa in immagini senza pronunciarsi sulla loro verità o falsità, le esprime. Momento fondamentale dell’attività dello spirito, l’intuizione è dunque espressione, forma e sintesi: “Ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si oggettiva in una espressione non è intuizione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità. Lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo. Chi separa intuizione da espressione, non riesce mai più a congiungerle”. Come scrive Croce, “l’atto estetico è forma, e nient’altro che forma”, e proprio nella sua capacità di dar forma al sentimento risiede la funzione catartica dell’arte: “Elaborando le impressioni, l’uomo si libera da esse. Oggettivandole, le distacca da sé e si fa loro superiore. La funzione liberatrice e purificatrice dell’arte è un altro aspetto e un’altra formola del suo carattere di attività. L’attività è liberatrice appunto perché scaccia la passività”. Dalla tesi dell’identità di intuizione ed espressione discende quindi la tesi dell’identità di Estetica e Linguistica generale, contenuta nei titoli delle Tesi e dell’Estetica del 1902: ogni forma espressiva è linguaggio, anche le espressioni figurative o la musica, e il linguaggio è essenzialmente libera creazione. Le categorie grammaticali, le leggi fonetiche, le stesse lingue storico-naturali studiate dalla linguistica, secondo Croce, sono soltanto costruzioni secondarie, che si elevano sul tessuto liberamente creativo dell’attività espressiva di un linguaggio concepito come attività, dinamicità, “creazione spirituale”. L’arte è dunque essenzialmente intuizione ed espressione. Essa differisce profondamente dalla filosofia, in quanto “filosofia è pensamento logico delle categorie universali dell’essere, e l’arte è intuizione irriflessa dell’essere; e perciò, laddove la prima oltrepassa e risolve l’immagine, l’arte vive nella cerchia di questa come in suo regno”. Dalla tesi che afferma il carattere intuitivo-espressivo dell’arte e il suo essere parte integrante della vita spirituale, deriva poi una serie di importanti conseguenze per quanto

riguarda lo statuto dell’artista, dell’opera d’arte e del bello naturale. Innanzitutto Croce afferma che l’arte differisce quantitativamente, e non qualitativamente, dalle comuni intuizioni. Tutte le intuizioni, potenzialmente, sono arte, e la differenza tra le intuizioni dell’uomo comune e quelle del genio artistico non è di natura, genere, qualità, ma di grado, quantità, estensione. Compito dell’Estetica deve essere, secondo Croce, ricondurre l’arte al complesso della vita spirituale e dell’attività teoretica, rimettendo in discussione ogni gerarchia precostituita e ogni canone tradizionale: “Un epigramma appartiene all’arte: perché no una semplice parola? Una novella appartiene all’arte: perché no una nota di cronaca giornalistica? Un paesaggio appartiene all’arte: perché no uno schizzo topografico?”. A questa provocatoria apertura nei confronti delle più diverse forme di espressione, corrisponde però in Croce la tesi della non artisticità della dimensione tecnica e materiale del fare artistico, ossia di ogni processo di fissazione materiale, fisica, delle espressioni. Una volta raggiunta l’espressione adeguata a una data intuizione, l’iscrizione mediante segni o la fissazione su di un supporto non è altro che un’attività estrinseca, che può avere sicuramente chiari fini pratici - legati alla comunicazione, alla conservazione, alla diffusione sociale dell’arte - ma è priva di valore estetico. Le opere d’arte, per Croce, sono sostanzialmente immagini interiori, esistono solo “nelle anime che le creano o le ricreano”. Alla tecnica artistica e alla componente materiale dell’opera viene così negato ogni senso artistico, in quanto si tratta di qualcosa di estrinseco, di derivato: “Il fatto estetico si esaurisce tutto nell’elaborazione espressiva delle impressioni. Quando abbiamo conquistato la parola interna, concepito netta e viva una figura o una statua, trovato un motivo musicale, l’espressione è nata ed è completa: non ha bisogno d’altro [...] l’opera d’arte (l’opera estetica) è sempre interna; e quella che si chiama esterna non è più opera d’arte”. Alla svalutazione della tecnica artistica fa seguito una netta svalutazione di tutta una serie di temi tradizionali dell’estetica, come la distinzione tra generi letterari e tra stili, o la riflessione sul bello naturale. Lo studio dei generi letterari, delle figure retoriche, di categorie estetiche quali sublime, tragico, comico, ecc., è condannato da Croce in quanto estrinseco rispetto all’unicità del principio secondo cui l’arte è intuizione. L’estetica crociana riconduce all’unità e all’universalità di questo principio la varietà irriducibile delle forme espressive, che devono essere colte nella loro

individualità, a prescindere da rigide classificazioni che hanno una validità puramente pratica ed empirica. Concetti come tragico, sublime, romanzo, novella, servono semplicemente a ordinare e catalogare le opere letterarie, e diventano fonte d’errore se trasformati in strumenti per la critica e il giudizio estetico. Di fronte all’arte bisogna chiedersi unicamente se essa sia espressiva e che cosa esprima, e non a quale genere appartenga. Il bello naturale, invece, per Croce è privo di quei caratteri di attività e spiritualità che costituiscono l’essenza dell’atto intuitivo ed espressivo dell’arte, che nella sua purezza si distingue tanto dalle sensazioni da cui prende le mosse quanto dai sentimenti di piacere che è capace di suscitare. Non ha dunque senso parlare di bellezza naturale, in quanto la bellezza non è altro che “l’adeguatezza dell’espressione” Tutto ciò che è espresso adeguatamente è bello, mentre è brutto ciò che è antiestetico o inespressivo, e che perciò si pone di fatto al di fuori dei confini dell’arte. Al principio dell’intuizione Croce riconduce sia il momento della creazione artistica sia quello della ricezione, del giudizio, del gusto. Come leggiamo nell'Estetica, “l’attività giudicatrice, che critica e riconosce il bello, s’identifica con quella che lo produce. La differenza consiste soltanto nella diversità delle circostanze, perché una volta si tratta di produzione e l’altra di riproduzione estetica. L’attività che giudica si dice gusto; l’attività produttrice, genio: genio e gusto sono, dunque, sostanzialmente identici”. Il giudizio di gusto nasce dunque da un atto con cui l’intuizione estetica in cui consiste l’opera d’arte viene riprodotta. Su questa possibilità di rivivere la genesi di un’intuizione si fondano, secondo Croce, non soltanto la fruizione dell’arte e l’attività del critico, ma la stessa continuità della nostra vita di coscienza, in cui ci rapportiamo costantemente al nostro passato rivivendolo, e la possibilità di una vita sociale fatta di “comunione coi nostri simili” e di “comunicazione con gli altri uomini, del presente e del passato”. Per diventare storici della letteratura e dell’arte, però, non è sufficiente saper riprodurre le intuizioni contenute nelle opere, ma bisogna che a questa riproduzione faccia seguito la capacità di giungere a nuove intuizioni ed espressioni con cui un’opera viene rappresentata storicamente. Di qui l’alto compito assegnato da Croce alla critica e alla storia dell’arte e della letteratura: “La storia artistica e letteraria è, perciò, un’opera d’arte storica, sorta sopra una o più opere d’arte”.

Le pagine che seguono sono tratte da B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1990: Parte prima, Teoria, capp. le II, pp. 3-24, 26-28. Di Croce si vedano anche: Breviario di estetica; Aesthetica in nuce, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1990; Nuovi saggi di estetica, Bibliopolis, Napoli 1991; La Poesia: introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, Laterza, Bari 1963; Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, Laterza, Bari 1966; Storia dell’estetica per saggi, Laterza, Bari 1942. Per approfondire: P. Bonetti, Introduzione a Croce, Laterza, Roma-Bari 1984; P. D’Angelo, “Croce e l’estetica romantica”, in R. Bruno (a cura di), Per Croce. Estetica Etica Storia, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1995; Id., L'stetica di Benedetto Croce, Laterza, Roma-Bari 1982; Id., L'estetica italiana del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1997; G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, il Saggiatore, Milano 1990; L. Russo, Una storia per l’estetica, Centro internazionale studi di estetica, Palermo 1988; G. Sasso, Filosofia e idealismo, vol. I (Benedetto Croce), Bibliopolis, Napoli 1994; G. Scaramuzza, “Per una rilettura dell’estetica di Croce”, in R. Bruno (a cura di), op. cit.; V. Stella, “Poesia intensa e poesia pura”, in R. Bruno (a cura di), op. cit.; A. Trione, Estetica e Novecento, Laterza, Roma-Bari 1996, in particolare cap. I.

L'intuizione e l’espressione

La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti. Continuamente si fa appello, nella vita ordinaria, alla conoscenza intuitiva. Si dice che di certe verità non si possono dare definizioni; che non

si dimostrano per sillogismi; che conviene apprenderle intuitivamente. Il politico rimprovera l’astratto ragionatore, che non ha l’intuizione viva delle condizioni di fatto; il pedagogista batte sulla necessità di svolgere anzitutto nell’educando la facoltà intuitiva; il critico si tiene a onore di mettere da parte, innanzi a un’opera artistica, le teorie e le astrazioni e di giudicarla intuendola direttamente; l’uomo pratico, infine, professa di vivere d’intuizioni più che di ragionamenti. Ma a questo ampio riconoscimento che la conoscenza intuitiva riceve nella vita ordinaria, non fa riscontro un pari e adeguato riconoscimento nel campo della teoria e della filosofia. Della conoscenza intellettiva c’è una scienza antichissima e ammessa indiscussamente da tutti, la Logica; ma una scienza della conoscenza intuitiva è appena ammessa, e timidamente, da pochi. La conoscenza logica si è fatta la parte del leone; e, quando addirittura non divora la sua compagna, le concede appena un umile posticino di ancella o di portinaia. - Che cosa è mai la conoscenza intuitiva senza il lume della intellettiva? È un servitore senza padrone; e, se al padrone occorre il servitore, è ben più necessario il primo al secondo, per campare la vita. L’intuizione è cieca; l’intelletto le presta gli occhi. Ora, il primo punto che bisogna fissare bene in mente è che la conoscenza intuitiva non ha bisogno di padroni; non ha necessità di appoggiarsi ad alcuno; non deve chiedere in prestito gli occhi altrui perché ne ha in fronte di suoi propri, validissimi. E se è indubitabile che in molte intuizioni si possono trovare mescolati concetti, in altre non è traccia di simile miscuglio; il che prova che esso non è necessario. L’impressione di un chiaro di luna, ritratta da un pittore; il contorno di un paese, delineato da un cartografo; un motivo musicale, tenero o energico; le parole di una lirica sospirosa, o quelle con le quali chiediamo, comandiamo e ci lamentiamo nella vita ordinaria, possono ben essere tutti fatti intuitivi senza ombra di riferimenti intellettuali. Ma, checché si pensi di questi esempi, e posto anche si voglia e debba sostenere che la maggior parte delle intuizioni dell’uomo civile siano impregnate di concetti, v’è ben altro, e di più importante e conclusivo, da osservare. I concetti che si trovano misti e fusi nelle intuizioni, in quanto vi sono davvero misti e fusi, non sono più concetti, avendo perduto ogni indipendenza e autonomia. Furono già concetti, ma sono diventati, ora, semplici elementi d’intuizione. Le massime filosofiche, messe in bocca a un personaggio di tragedia o di commedia, hanno colà

ufficio, non più di concetti, ma di caratteristiche di quei personaggi; allo stesso modo che il rosso in una figura dipinta non sta come il concetto del color rosso dei fisici, ma come elemento caratterizzante di quella figura. Il tutto determina la qualità delle parti. Un’opera d’arte può essere piena di concetti filosofici; può averne, anzi, in maggior copia, e anche più profondi, di una dissertazione filosofica; la quale potrà essere, a sua volta, ricca e riboccante di descrizioni e intuizioni. Ma nonostante tutti quei concetti, il risultato dell’opera d’arte è un’intuizione; e, nonostante tutte quelle intuizioni, il risultato della dissertazione filosofica è un concetto. I Promessi sposi contengono copiose osservazioni e distinzioni di etica; ma non per questo vengono a perdere, nel loro insieme, il carattere di semplice racconto o d’intuizione. Parimente, gli aneddoti e le effusioni satiriche, che possono trovarsi nei libri di un filosofo come lo Schopenhauer, non tolgono a quei libri il carattere di trattazioni intellettive. Nel risultato, nell’effetto diverso a cui ciascuna mira e che determina e asservisce tutte le singole parti, non già in queste singole parti staccate e considerate astrattamente per sé, sta la differenza tra un’opera di scienza e un’opera d’arte, cioè tra un atto intellettivo e un atto intuitivo. Senonché, per avere un’idea vera ed esatta dell’intuizione non basta riconoscerla come indipendente dal concetto. Tra coloro che così la riconoscono, o che almeno non la fanno esplicitamente dipendente dall’intellezione, appare un altro errore, il quale offusca e confonde l’indole propria di essa. Per intuizione s’intende frequentemente la percezione, ossia la conoscenza della realtà accaduta, l’apprensione di qualcosa come reale. Di certo, la percezione è intuizione: le percezioni della stanza nella quale scrivo, del calamaio e della carta che ho innanzi, della penna di cui mi servo, degli oggetti che tocco e adopero come strumenti della mia persona, la quale, se scrive, dunque esiste; -sono tutte intuizioni. Ma è parimente intuizione l’immagine, che ora mi passa pel capo, di un me che scrive in un’altra stanza, in un’altra città, con carta, penna e calamaio diversi. Il che vuol dire che la distinzione tra realtà e non realtà è estranea all’indole propria dell’intuizione, e secondaria. Supponendo uno spirito umano che intuisca per la prima volta, sembra ch’egli non possa intuire se non realtà effettiva ed abbia perciò soltanto intuizioni del reale. Ma poiché la coscienza della realtà si fonda sulla distinzione tra immagini reali e immagini irreali, e tale distinzione nel primo momento non ha luogo, quelle, in verità, non

saranno intuizioni né del reale né dell’irreale, non percezioni ma pure intuizioni. Dove tutto è reale, niente è reale. Una certa idea, assai vaga e ben da lontano approssimativa, di questo stato ingenuo può darci il fanciullo, con la sua difficoltà a discernere il reale dal finto, la storia dalla favola, che per lui fanno tutt’uno. L’intuizione è l’unità indifferenziata della percezione del reale e della semplice immagine del possibile. Nell’intuizione noi non ci contrapponiamo come esseri empirici alla realtà esterna, ma oggettiviamo senz’altro le nostre impressioni, quali che siano. Sembrerebbe perciò che si appressino di più al vero coloro i quali considerano l’intuizione come la sensazione formata e ordinata semplicemente secondo le categorie dello spazio e del tempo. Spazio e tempo (essi dicono) sono le forme dell’intuizione; intuire è porre nello spazio e nella serie temporale. L’attività intuitiva consisterebbe quindi in questa duplice concorrente funzione della spazialità e della temporalità. Senonché, è da ripetere per queste due categorie ciò che si è detto delle distinzioni intellettuali, che pur si trovano fuse nell’intuizione. Noi abbiamo intuizioni senza spazio e senza tempo: una tinta di cielo e una tinta di sentimento, un “ahi!” di dolore e uno slancio di volontà oggettivati nella coscienza, sono intuizioni che possediamo, e dove nulla è formato nello spazio e nel tempo. [...] Liberata, in tal modo, la conoscenza intuitiva da qualsiasi soggezione intellettualistica e da ogni aggiunta posteriore ed estranea, noi dobbiamo chiarirla e determinarne i confini da un altro lato e contro una diversa invasione e confusione. Dall’altro lato, di qua dal limite inferiore, è la sensazione, è la materia informe che lo spirito non può mai afferrare in sé stessa, in quanto mera materia, e che possiede soltanto con la forma e nella forma, ma di cui postula il concetto come, appunto, di un limite. La materia, nella sua astrazione, è meccanismo, è passività, è ciò che lo spirito umano subisce, ma non produce. Senza di essa non è possibile alcuna conoscenza e attività umana; ma la mera materia ci dà l’animalità, ciò che nell’uomo è di brutale e d’impulsivo, non il dominio spirituale, quello in cui consiste l’umanità. Quante volte ci travagliamo nello sforzo d’intuire chiaramente ciò che si agita in noi! Intravediamo qualcosa, ma non l’abbiamo innanzi allo spirito oggettivto e formato. In quei momenti meglio ci accorgiamo della profonda differenza tra materia e forma; le quali sono non già due atti nostri, di cui l’uno stia di fronte all’altro, ma l’uno è un di

fuori che ci assalta e ci trasporta, l’altro è un di dentro che tende ad abbracciare quel di fuori e a farlo suo. La materia, investita e trionfata dalla forma, dà luogo alla forma concreta. È la materia, è il contenuto quel che differenzia una nostra intuizione da un’altra: la forma è costante, l’attività spirituale; la materia è mutevole, e senza di essa l’attività spirituale non uscirebbe dalla sua astrattezza per diventare attività concreta e reale, questo o quel contenuto spirituale, questa o quella intuizione determinata. [...] L’intuizione è stata scambiata talvolta con la sensazione bruta. Ma poiché questo scambio urta troppo perfino il comune buon senso, più di frequente si è cercato di attenuarlo o larvarlo mercé una fraseologia che pare voglia nello stesso tempo confondere e distinguere. Così è stato asserito che l’intuizione sia sensazione, ma non già semplice sensazione, sì bene associazione di sensazioni; dove l’equivoco nasce appunto dalla parola “associazione”. La quale, o s’intende come memoria, associazione mnemonica, ricordo cosciente; e in tal caso appare inconcepibile la pretesa di congiungere nella memoria elementi che non sono intuiti, distinti, posseduti in qualche modo dallo spirito e prodotti dalla coscienza: o s’intende come associazione di elementi incoscienti; e, in questo secondo caso, non si esce dalla sensazione e dalla naturalità. Che se poi, come taluni associazionisti fanno, si parla di un’associazione che non sia né memoria né flusso di sensazioni, ma associazione produttiva (formativa, costruttiva, distinguente), in questo caso si concede la cosa e si nega solo la parola. Infatti, l’associazione produttiva non è più associazione nel significato dei sensualisti, ma sintesi, cioè attività spirituale. Si chiami pure associazione la sintesi; ma con quel concetto di produttività è posta la distinzione tra passività e attività, tra sensazione e intuizione. Altri psicologi sono disposti a distinguere dalla sensazione qualcosa che non è più tale, ma non è ancora il concetto intellettivo: la rappresentazione o immagine. Quale differenza corre tra la loro rappresentazione o immagine, e la nostra conoscenza intuitiva? Grandissima e nessuna: anche “rappresentazione” è parola molto equivoca. Se essa s’intende come qualcosa di ritagliato e risaltante sul fondo psichico delle sensazioni, la rappresentazione è l’intuizione. Se, invece, viene concepita come sensazione complessa, si ritorna alla sensazione bruta, che non cangia qualità perché ricca o povera, effettuantesi in un organismo rudimentale o in un organismo

sviluppato e pieno di tracce di sensazioni passate. Né all’equivoco si rimedia col definire la rappresentazione prodotto psichico di secondo grado, rispetto alla sensazione che sarebbe di primo. Che cosa significa, qui, secondo grado? Differenza qualitativa, formale? E, in questo caso, rappresentazione è elaborazione della sensazione, e perciò intuizione. Ovvero maggiore complessità e complicazione, differenza quantitativa e materiale? In quest’altro caso, invece, l’intuizione sarebbe di nuovo confusa con la sensazione bruta. Eppure vi è un modo sicuro di distinguere l’intuizione vera, la vera rappresentazione, da ciò che le è inferiore: quell’atto spirituale dal fatto meccanico, passivo, naturale. Ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si oggettiva in un’espressione non è intuizione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità. Lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo. Chi separa intuizione da espressione, non riesce mai più a congiungerle. L’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime. Se questa proposizione suona paradossale, una delle cause di ciò è senza dubbio nell’abito di dare alla parola “espressione” un significato troppo ristretto, assegnandola alle sole espressioni che si dicono verbali; laddove esistono anche espressioni non verbali, come quelle di linee, colori, toni: tutte quante da includere nel concetto di espressione, che abbraccia perciò ogni sorta di manifestazioni dell’uomo, oratore, musico, pittore o altro che sia. E, pittorica o verbale o musicale o come altro si descriva o denomini, l’espressione, in una di queste manifestazioni, non può mancare all’intuizione, dalla quale è propriamente inscindibile. Come possiamo intuire davvero una figura geometrica, se non ne abbiamo così netta l’immagine da essere in grado di tracciarla immediatamente sulla carta o sulla lavagna? Come possiamo intuire davvero il contorno d’una regione, per esempio dell’isola di Sicilia, se non siamo in grado di disegnarlo così come esso è in tutti i suoi meandri? A ognuno è dato sperimentare la luce che gli si fa internamente quando riesce, e solo in quel punto che riesce, a formolare a sé stesso le sue impressioni e i suoi sentimenti. Sentimenti e impressioni passano allora, per virtù della parola, dall’oscura regione della psiche alla chiarezza dello spirito contemplatore. È impossibile, in questo processo conoscitivo, distinguere l’intuizione dall’espressione. L’una viene fuori con l’altra, nell’attimo stesso dell’altra, perché non sono due ma uno.

Ma la cagione principale che fa sembrare paradossale la tesi da noi affermata, è l’illusione o pregiudizio che s’intuisca della realtà più di quanto effettivamente se ne intuisce. Si ode spesso taluni asserire di avere in mente molti e importanti pensieri, ma di non riuscire a esprimerli. In verità, se li avessero davvero, li avrebbero coniati in tante belle parole sonanti, e perciò espressi. Se, nell’atto di esprimerli, quei pensieri sembrano dileguarsi o si riducono scarsi e poveri, gli è che o non esistevano o erano soltanto scarsi e poveri. Parimente si crede che noi tutti, uomini ordinari, intuiamo e immaginiamo paesi, figure, scene, come i pittori, e corpi, come gli scultori; salvo che pittori e scultori sanno dipingere e scolpire quelle immagini, e noi le portiamo dentro il nostro animo inespresse. Una Madonna di Raffaello, si crede, avrebbe potuta immaginarla chiunque; ma Raffaello è stato Raffaello per l’abilità meccanica di averla fissata sulla tela. Niente di più falso. Il mondo che intuiamo ordinariamente è poca cosa, e si traduce in piccole espressioni, le quali si fanno via via maggiori e più ampie solo con la crescente concentrazione spirituale in alcuni particolari momenti. Sono le parole interne che diciamo a noi stessi, i giudizi che esprimiamo tacitamente: “ecco un uomo, ecco un cavallo, questo pesa, questo è aspro, questo mi piace, ecc. ecc.”, ed è un barbaglio di luce e di colori, che pittoricamente non potrebbe avere altra sincera e propria espressione se non in un guazzabuglio, e dal quale appena si sollevano pochi tratti distintivi particolari. Ciò, e non altro, possediamo nella nostra vita ordinaria, ed è base della nostra azione ordinaria. È l’indice di un libro; sono, come è stato detto, le etichette che abbiamo apposto alle cose e ci tengono luogo di queste: indice ed etichette (espressioni anch’esse), sufficienti ai piccoli bisogni e alle piccole azioni. Ma, di tanto in tanto, dall’indice passiamo al libro, dall’etichetta alla cosa, o dalle piccole intuizioni alle più grandi e alle grandissime ed eccelse. E il passaggio è talvolta tutt’altro che agevole. È stato osservato da coloro che hanno meglio indagato la psicologia degli artisti che, quando dal vedere con rapido sguardo una persona ci si dispone a intuirla davvero, per farle, per esempio, il ritratto, quella visione ordinaria, che sembrava così vivace e netta, si rivela come poco meno che nulla; ci si accorge di possedere, tutt’al più, qualche tratto superficiale, non bastevole neppure per un pupazzetto; la persona da ritrarre si pone innanzi all’artista come un mondo da scoprire. E Michelangelo sentenziava che “si dipinge col cervello, non con le mani”; e

Leonardo scandalizzava il priore del convento delle Grazie con lo stare giorni interi avanti al Cenacolo senza mettervi pennello, e diceva che “gli ingegni elevati talor che manco lavorano più adoprano, cercando con la mente l’invenzione”. Il pittore è pittore perché vede ciò che altri sente solo, o intravvede, ma non vede. Un sorriso crediamo di vederlo, ma in realtà ne abbiamo solo qualche vago accenno, non scorgiamo tutti i tratti caratteristici da cui risulta, come, dopo averci lavorato intorno, li scorge il pittore, che perciò può fermarlo compiutamente sulla tela. Anche del nostro più intimo amico, di colui che ci sta accanto tutti i giorni e tutte le ore, non possediamo intuitivamente se non qualche tratto appena della fisionomia, che ce lo fa distinguere dagli altri. Meno facile è l'illusione per le espressioni musicali; perché a ognuno parrebbe strano il dire che a un motivo, il quale è già nell’animo di chi non è compositore, il compositore aggiunga o appiccichi le note; quasi che l’intuizione del Beethoven non fosse, per esempio, la sua Nona sinfonia e la sua Nona sinfonia la sua intuizione. Ora, come colui che si fa illusioni sulla quantità delle proprie ricchezze materiali è smentito dall’aritmetica, la quale gli dice esattamente a quanto esse ammontano; così chi s’illude sulla ricchezza dei propri pensieri e delle proprie immagini è ricondotto alla realtà, allorché è costretto ad attraversare il ponte dell’asino dell’espressione. “Numerate,” diciamo al primo: “parlate, eccovi una matita e disegnate, esprimetevi,” diremo all’altro. Ognuno di noi, insomma, è un po’ pittore, scultore, musicista, poeta, prosatore; ma quanto poco, rispetto a coloro che son chiamati così appunto pel grado elevato in cui hanno le comunissime disposizioni ed energie della natura umana; e quanto poco un pittore possiede delle intuizioni o rappresentazioni di un poeta, o di quelle anche di un altro pittore! Pure, quel poco è tutto il nostro patrimonio attuale d’intuizioni o rappresentazioni. Fuori di esse, sono soltanto impressioni, sensazioni, sentimenti, impulsi, emozioni, o come altro si chiami ciò che è ancora di qua dello spirito, non assimilato dall’uomo, postulato per comodo di esposizione, ma effettivamente inesistente, se l’esistere è anche esso un atto dello spirito. Alle varianti verbali accennate in principio, con le quali si designa la conoscenza intuitiva, possiamo, dunque, aggiungere ancora quest’altra: la conoscenza intuitiva è la conoscenza espressiva. Indipendente e autonoma rispetto all’intellezione; indifferente alle discriminazioni, posteriori di realtà

e irrealtà e alle formazioni e appercezioni, anche posteriori, di spazio e tempo; - l’intuizione o rappresentazione si distingue da ciò che si sente e subisce, dall’onda o flusso sensitivo, dalla materia psichica, come forma; e questa forma, questa presa di possesso, è l’espressione. Intuire è esprimere; e nient’altro (niente di più, ma niente di meno) che esprimere. L’intuizione e l’arte

Prima di procedere oltre, ci sembra opportuno trarre alcune conseguenze da ciò che si è stabilito e soggiungere qualche schiarimento. Noi abbiamo francamente identificato la conoscenza intuitiva o espressiva col fatto estetico o artistico, prendendo le opere d’arte come esempi di conoscenze intuitive e attribuendo a queste i caratteri di quelle. Ma la nostra identificazione ha contro di sé una concezione, largamente accolta anche da filosofi, la quale considera l’arte come intuizione di una qualità tutta propria. Ammettiamo (si dice) che l’arte sia intuizione; ma intuizione non è sempre arte: l’intuizione artistica è una specie particolare, che si distingue per un di più dall’intuizione in genere. In che poi si distingua, in che consista questo di più, niuno ha saputo mai assegnare. Si è pensato talvolta che l’arte sia, non la semplice intuizione, ma quasi l’intuizione di un’intuizione; allo stesso modo che il concetto scientifico sarebbe, non il concetto volgare, ma il concetto di un concetto. L’uomo, insomma, si eleverebbe all’arte con l’oggettivare, non le sensazioni, come accade nell’intuizione comune, ma l’intuizione stessa. Senonché questo processo di elevazione a seconda potenza non ha luogo; e il paragone col concetto volgare e con lo scientifico non dice ciò che gli si vorrebbe far dire, per la buona ragione che non è vero che il concetto scientifico sia concetto di un concetto. Quel paragone, se mai, dice proprio il contrario. Il concetto volgare, se concetto è e non semplice rappresentazione, è concetto perfetto, quantunque povero e limitato. La scienza sostituisce alle rappresentazioni i concetti, ai concetti poveri e limitati aggiunge e sovrappone altri più larghi e comprensivi, scoprendo sempre nuove relazioni; ma il metodo di essa non differisce da quello con cui si forma il più piccolo universale nel cervello del più umile degli uomini. Ciò che comunemente si chiama, per antonomasia, l’arte, coglie intuizioni più vaste e complesse di quelle che si sogliono comunemente

avere, ma intuisce sempre sensazioni e impressioni: è espressione d’impressioni, non espressione dell’espressione. Per la stessa ragione non si può ammettere che l’intuizione, che si dice di solito artistica, si diversifichi da quella comune come intuizione intensiva. Sarebbe tale, se lavorasse diversamente in pari materia. Ma poiché la funzione artistica spazia in campi più larghi e tuttavia con metodo non diverso da quello dell’intuizione comune, la differenza tra l’una e l’altra non è intensiva ma estensiva. L’intuizione di un semplicissimo canto popolare d’amore, che dica lo stesso, o poco più, di una dichiarazione di amore quale esce a ogni momento dalle labbra di migliaia di uomini ordinari, può essere intensivamente perfetta nella sua povera semplicità, benché, estensivamente, tanto più ristretta della complessa intuizione di un canto amoroso di Giacomo Leopardi. Tutta la differenza, dunque, è quantitativa, e, come tale, indifferente alla filosofia, scientia qualitatum. A esprimere pienamente certi complessi stati d’animo vi è chi ha maggiore attitudine e più frequente disposizione, che non altri; e costoro si chiamano, nel linguaggio corrente, artisti: alcune espressioni, assai complicate e difficili, sono raggiunte più di rado, e queste si chiamano opere d’arte. I limiti delle espressioni-intuizioni, che si dicono arte, verso quelle che volgarmente si dicono non-arte, sono empirici: è impossibile definirli. Un epigramma appartiene all’arte: perché no una semplice parola? Una novella appartiene all’arte: perché no una nota di cronaca giornalistica? Un paesaggio appartiene all’arte: perché no uno schizzo topografico? Il maestro di filosofia della commedia di Molière aveva ragione: “sempre che si parla, si fa della prosa”. Ma vi saranno in perpetuo scolari, i quali, come il borghese signor Jourdain, si maraviglieranno d’aver fatto prosa per quarant’anni senza saperlo, e stenteranno a persuadersi che, quando chiamano il servitore Giovanni perché porti loro le pantofole, anche questa sia, nientemeno, “prosa”. Noi dobbiamo tener fermo alla nostra identificazione, perché l’avere staccato l’arte dalla comune vita spirituale, l’averne fatto non si sa qual circolo aristocratico o quale esercizio singolare, è stata fra le principali cagioni che hanno impedito all’Estetica, scienza dell’arte, di attingere la vera natura, le vere radici di questa nell’animo umano. Come nessuno si maraviglia allorché apprende dalla fisiologia che ogni cellula è organismo e ogni organismo è cellula o sintesi di cellule; né alcuno si maraviglia di

trovare in un’alta montagna gli stessi elementi chimici costituenti un piccolo sasso o frammento; come non c’è una fisiologia degli animali piccini e un’altra dei grossi, o una chimica dei sassi e un’altra delle montagne; così non c’è una scienza dell’intuizione piccola e un’altra della grande, una dell’intuizione comune e un’altra dell’artistica, ma una sola Estetica, scienza della cognizione intuitiva o espressiva, ch’è il fatto estetico o artistico. E questa Estetica è il vero analogo della Logica, la quale abbraccia, come cose della medesima natura, la formazione del più piccolo e ordinario concetto e la costruzione del più complicato sistema scientifico e filosofico. Anche niente più che una differenza quantitativa possiamo ammettere nel determinare il significato della parola genio, o genio artistico, distinto dal non genio, dall’uomo comune. Si dice che i grandi artisti rivelino noi a noi stessi. Ma come ciò sarebbe possibile se non ci fosse identità di natura tra la nostra fantasia e la loro, e se la differenza non fosse di semplice quantità? Meglio che: poëta nascitur, andrebbe detto: homo nascitur poëta; poeti piccoli gli uni, poeti grandi gli altri. L’aver fatto di questa differenza quantitativa una differenza qualitativa ha dato luogo al culto e alla superstizione del genio, dimenticandosi che la genialità non è qualcosa di disceso dal cielo, ma è l’umanità stessa. L’uomo di genio, che si atteggi o venga rappresentato come lontano da questa, trova la sua punizione nel diventare, o nell’apparire, alquanto ridicolo. Tale il genio del periodo romantico, tale il superuomo dei tempi nostri. Ma (è bene qui notare) dall’elevazione disopra all’umanità fanno poi precipitare il genio artistico disotto a essa coloro che ne pongono come qualità essenziale l’incoscienza. La genialità intuitiva o artistica, come ogni forma d’attività umana, è sempre cosciente; altrimenti, sarebbe cieco meccanismo. Ciò che al genio artistico può mancare, è soltanto la coscienza riflessa, la coscienza sovraggiunta dello storico o del critico, che gli è inessenziale. Una delle questioni più dibattute in Estetica è la relazione tra materia e forma, o, come si dice di solito, tra contenuto e forma. Consiste il fatto estetico nel solo contenuto o nella sola forma, o nell’uno e nell’altra insieme? Questione che ha avuto vari significati, che menzioneremo ciascuno a suo luogo; ma sempre che le parole sono state prese nel significato da noi fermato di sopra, sempre che per materia si è intesa l’emozionalità non elaborata esteticamente o le impressioni, e per forma

l’elaborazione ossia l’attività spirituale dell’espressione, il nostro pensiero non può essere dubbio. Dobbiamo, cioè, respingere così la tesi che fa consistere l’atto estetico nel solo contenuto (ossia nelle semplici impressioni), come l’altra che lo fa consistere nell’aggiunzione della forma al contenuto, ossia nelle impressioni più le espressioni. Nell’atto estetico, l’attività espressiva non si aggiunge al fatto delle impressioni, ma queste vengono da essa elaborate e formate. Ricompaiono, per così dire, nell’espressione come acqua che sia messa in un filtro e riappaia la stessa e insieme diversa dall’altro lato di questo. L’atto estetico è, perciò, forma, e niente altro che forma. Da ciò si ricava, non che il contenuto sia alcunché di superfluo (ché anzi è il punto di partenza necessario del fatto espressivo); ma che dalle qualità del contenuto a quelle della forma non c’è passaggio. Si è pensato talvolta che il contenuto, per essere estetico, ossia trasformabile in forma, dovesse avere alcune qualità determinate o determinabili. Ma, se ciò fosse, la forma sarebbe una cosa medesima con la materia, l’espressione con l’impressione. Il contenuto è, sì, il trasformabile in forma, ma fino a tanto che non si sia trasformato, non ha qualità determinabili; di esso noi non sappiamo nulla. Diventa contenuto estetico non prima, ma solo quando si è effettivamente trasformato. Il contenuto estetico è stato anche definito come l’interessante: il che non è falso, ma vuoto. Interessante, infatti, che cosa? L’attività espressiva? E, certo, se questa non se ne interessasse, non l’eleverebbe a forma. Il suo interessarsene è appunto l’elevarlo a forma. - Ma la parola “interessante” è stata anche adoperata con altra non illegittima intenzione, che spiegheremo più oltre. È polisensa, come la precedente, la proposizione che l’arte sia imitazione della natura. Con queste parole ora si sono affermate o almeno adombrate verità, ora sostenuti errori; e, più spesso, non si è pensato nulla di preciso. Uno dei significati scientificamente legittimi si ha, allorché “imitazione” viene intesa come rappresentazione o intuizione della natura, forma di conoscenza. E quando si è voluto designare ciò, e mettere insieme in maggior luce il carattere spirituale del procedimento, risulta legittima anche l’altra proposizione: che l’arte è idealizzamento o imitazione idealizzatrice della natura. Ma se per imitazione della natura s’intende che l’arte dia riproduzioni meccaniche, costituenti duplicati più o meno perfetti di oggetti naturali, innanzi alle quali si rinnovi quello stesso tumulto d’impressioni

che producono gli oggetti naturali, la proposizione è evidentemente erronea. Le statue di cera dipinta, che simulano esseri vivi e innanzi a cui arretriamo sbalorditi nei musei di tale roba, non ci danno intuizioni estetiche. L’illusione e l’allucinazione non hanno che vedere col calmo dominio dell’intuizione artistica. Se un artista dipinge lo spettacolo di un museo di statue di cera, se un attore sulla scena ritrae burlescamente l’uomo-statua, abbiamo di nuovo il lavoro spirituale e l’intuizione artistica. Perfino la fotografia, se ha alcunché di artistico, lo ha in quanto trasmette, almeno in parte, l’intuizione del fotografo, il suo punto di vista, l’atteggiamento e la situazione ch’egli s’è industriato di cogliere. E se la fotografia non è del tutto arte, ciò accade appunto perché l’elemento naturale resta più o meno ineliminabile e insubordinato: e, infatti, innanzi a quale fotografia, anche delle meglio riuscite, proviamo soddisfazione piena? a quale un artista non farebbe una o molte variazioni e ritocchi, non toglierebbe o aggiungerebbe? Dal non aver esattamente riconosciuto il carattere teoretico della semplice intuizione, distinta così dalla conoscenza intellettiva come dalla percezione; dal credere che solo l’intellettiva, o, tutt’al più, anche la percezione sia conoscenza; è sorta l’affermazione, tante volte ripetuta, che l’arte non sia conoscenza, che essa non dia verità, che appartenga non al mondo teoretico ma al sentimentale, e simili, Abbiamo visto che l’intuizione è conoscenza, libera da concetti e più semplice che non sia la cosiddetta percezione del reale; e perciò l’arte è conoscenza, è forma, non appartiene al sentimento e alla materia psichica. Se si è insistito tante volte e da tanti estetici a mettere in rilievo che l’arte è apparenza (Schein), ciò è stato appunto perché si sentiva la necessità di distinguerla dal più complicato atto percettivo, affermandone la pura intuitività. E se si è insistito sull’essere l’arte sentimento, ciò è stato pel medesimo motivo: escluso, infatti, il concetto come contenuto dell’arte ed esclusa la realtà storica in quanto tale, altro contenuto non resta che la realtà appresa meramente nella sua ingenuità e immediatezza, nello slancio vitale, come sentimento, ossia, di nuovo, l’intuizione pura. [...] Un altro corollario della concezione dell’espressione come attività, è l’indivisibilità dell’opera d’arte. Ogni espressione è un’unica espressione.

L’attività estetica è fusione delle impressioni in un tutto organico. Ed è quel si è voluto sempre notare quando si è detto che l’opera d’arte deve avere unità, o, ch’è lo stesso, unità nella varietà. L’espressione è sintesi del vario, o molteplice, nell’uno. Parrebbe opporsi a quest’affermazione il fatto che noi dividiamo l’opera artistica nelle sue parti: un poema in scene, episodi, similitudini, sentenze, o un quadro nelle singole figure e oggetti, sfondo, primo piano, e così via. Ma cotesta divisione annulla l’opera, come il dividere l’organismo in cuore, cervello, nervi, muscoli e via continuando, muta il vivente in cadavere. È vero che vi sono organismi in cui la divisione dà luogo a più esseri viventi; ma in tal caso, e trasportando l’analogia al fatto estetico, è da concludere per una molteplicità di germi di vita e per una rapida rielaborazione delle singole parti in nuove espressioni uniche. Si osserverà che l’espressione sorge talora su altre espressioni: vi sono espressioni semplici e ve ne sono composte. Qualche differenza bisogna pur riconoscere tra l'eureka, con cui Archimede esprimeva tutto il suo giubilo per la fatta scoperta, e l’atto espressivo (anzi i cinque atti) di una tragedia regolare. - Ma no: l’espressione sorge sempre direttamente sulle impressioni. Chi concepisce una tragedia mette in un gran crogiuolo una grande quantità, per così dire, d’impressioni: le espressioni stesse, altra volta concepite, vengono rifuse insieme con le nuove in un’unica massa; allo stesso modo che in una fornace di fusione si possono gittare informi pezzi di bronzo e statuette elettissime. Perché si abbia la nuova statua, le statuette elettissime debbono fondersi al modo stesso dei pezzi informi. Le vecchie espressioni debbono ridiscendere a impressioni, per potere essere sintetizzate con le altre in una nuova unica espressione. Elaborando le impressioni, l’uomo si libera da esse. Oggettivandole, le distacca da sé e si fa loro superiore. La funzione liberatrice e purificatrice dell’arte è un altro aspetto e un’altra formola del suo carattere di attività. L’attività è liberatrice appunto perché scaccia la passività. Da ciò si scorge anche perché agli artisti si soglia a volta a volta attribuire la massima sensibilità o passionalità, e la massima insensibilità o l’olimpica serenità. Entrambe le qualifiche si conciliano, perché non cadono sullo stesso oggetto. La sensibilità o passionalità si riferisce alla ricca materia che l’artista accoglie nel suo animo; l’insensibilità o serenità, alla forma con cui egli assoggetta e domina il tumulto sensazionale e passionale.

Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Il saggio L'opera d'arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica viene scritto da Walter Benjamin (1892-1940) nel 1935 subito dopo aver partecipato come uditore al I Congresso internazionale degli scrittori, organizzato a Parigi al fine di dar vita a un’ampia mobilitazione intellettuale contro la diffusione del fascismo. Nel 1936 il saggio è pubblicato, nella traduzione francese di Pierre Klossowski, sulla celebre rivista Zeitschrift für Sozialforschung, che in quel periodo si stampava a Parigi e il cui gruppo dirigente era costituito da Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969), Max Horkheimer (1895-1973) e Herbert Marcuse (1898-1979), fondatori dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte. In una lettera del 16 ottobre 1935 a Horkheimer, Benjamin descrive il saggio come “una puntata in direzione di una teoria materialistica dell’arte”; in effetti la sua problematica adesione al marxismo e i rapporti con il gruppo di Adorno e con Bertolt Brecht costituiscono un quadro di riferimento imprescindibile per comprendere un testo che lega il problema del mutato statuto dell’opera d’arte - a seguito della diffusione di nuove tecniche di riproduzione - a considerazioni di carattere politico e sociale. L’adesione di Benjamin al “materialismo storico”, ossia alla dottrina associata principalmente alle figure di Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895), secondo cui le produzioni cosiddette “spirituali” degli uomini - arte, religione, filosofia - sarebbero determinate, in quanto “sovrastruttura”, dalle strutture economiche soggiacenti delle diverse relazioni sociali e dei diversi modi di produzione, è sin dall’inizio assai problematica e originale. Nel saggio Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, Benjamin individua come compito del materialismo storico il superamento dell’atteggiamento “contemplativo” e neutrale assunto dallo

storicismo per introdurre una visione dialettica della storia. Il passato non deve essere considerato come inserito in un ordine lineare e progressivo, bensì come qualcosa di unico, un’“esperienza originaria” in cui il presente si incontra con il passato in una “costellazione critica” che “fa deflagrare la continuità della storia”. L’idea di un presente nel quale si incontrano i diversi registri temporali dell’eternità e dell’istante era probabilmente maturata in Benjamin attraverso la lettura di Baudelaire, il quale, come abbiamo visto, nei saggi de Il pittore della vita moderna aveva definito la modernità come coesistenza, nel presente, del transitorio e dell’effimero con l’eterno e l’immutabile. La critica della concezione della storia come progresso lineare e ascendente ritorna nelle tesi Sul concetto di storia (1940), dove il compito del materialista storico è descritto come quello di “scardinare il continuum della storia”, a partire da “un presente che non è passaggio, ma nel quale il tempo è in equilibrio ed è giunto a un arresto [...] quel presente in cui egli, per quanto lo riguarda, scrive storia”. Il presente non è un istante astratto e anonimo nell’omogeneo fluire del tempo, né un'agostiniana distensio animi tutta rinchiusa nell’interiorità della coscienza: esso è, invece, istanza originaria generatrice del tempo storico, luogo della sospensione e della critica in cui la storia è narrata e costruita guardando al futuro, a partire dalle urgenze dell’attualità (Jetztzeit). Questa costellazione di presente, passato e futuro, implicante al tempo stesso critica dell’esistente e apertura verso il futuro, si rivela allo sguardo dello storico purificato dalle pecche dello storicismo sotto le sembianze di quella che Benjamin chiama un’“immagine dialettica”: un’immagine improvvisa, balenante, nella quale passato e futuro si illuminano a vicenda a partire dal presente. È nella sezione N del libro incompiuto dedicato ai passages di Parigi, intitolata “Elementi di teoria della conoscenza, teoria del progresso” che Benjamin sviluppa questo concetto, sostenendo che è solo attraverso le immagini dialettiche che la storia giunge alla leggibilità in una determinata epoca, là dove improvvisamente il passato subisce una sorta di “téléscopage” attraverso il presente: “Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora (Jetzt) in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la

relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso, ma un’immagine discontinua, a salti. Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio” L’immagine dialettica appare là dove il pensiero si arresta in una costellazione, dove passato, presente e futuro si manifestano improvvisamente alla luce di una “vera sintesi” in cui appare ciò che Benjamin, riprendendo un termine fondamentale della morfologia goethiana, chiama un “fenomeno originario della storia”. La riflessione benjaminiana su cosa significhi un approccio materialistico e dialettico alla storia e all’arte sta sullo sfondo del saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che nella “Premessa” è presentato come una raccolta di “tesi sopra le tendenze dello sviluppo dell’arte nelle attuali condizioni di produzione”. In apertura del saggio Benjamin cita un passo di un breve testo di Paul Valéry (1871-1945), “La conquête de l’ubiquité”, pubblicato nel 1931 nella raccolta Pièces sur l’art. In questo testo Valéry si interroga sui mutamenti in atto nella nozione stessa di arte - nelle tecniche artistiche, nella concezione della creazione, nella riproduzione e trasmissione delle opere - in seguito all’incremento stupefacente del nostro “potere di azione sulle cose”. La futura diffusione di nuovi mezzi di comunicazione analoghi alla radio e al telefono avrebbe presto consentito, secondo Valéry, di “trasportare o ricostituire in ogni luogo il sistema di sensazioni - o più esattamente, il sistema di eccitazioni provocato in un luogo qualsiasi da un oggetto o da un evento qualsiasi”. Nel caso dell’arte, ciò avrebbe significato la possibilità per le opere di avere una sorta di “ubiquità”, ossia di divenire delle “fonti” o “origini” i cui effetti potrebbero essere avvertiti ovunque. Su un piano più generale, lo scenario evocato da Valéry è quello di una società futura in cui sarebbe possibile suscitare un flusso di immagini visive o di sensazioni uditive con un semplice gesto, una società caratterizzata dalla possibilità di una “distribuzione della Realtà Sensibile a domicilio”. In questo aumentato potere di riprodurre e diffondere le opere, che Valéry vede già compiersi nel caso della musica, risiederebbe la “condizione essenziale della resa estetica più elevata”, ossia la possibilità di sganciare la fruizione dell’opera d’arte dall'hic et nunc della sua collocazione materiale o della sua esecuzione per renderla accessibile nel momento spirituale più favorevole e fecondo. La stessa riflessione sui mutamenti in atto nello statuto e nella fruizione

dell’arte in seguito all’elaborazione di nuove tecniche di riproduzione e trasmissione delle opere che anima il breve testo di Valéry è al centro del saggio di Benjamin, che ha come presupposto la grande diffusione della fotografia e del cinema nei primi decenni del secolo e il lavoro di sperimentazione condotto su queste due forme espressive da avanguardie artistiche come il dadaismo, il surrealismo o il costruttivismo. A differenza di Valéry, Benjamin conferisce però alla propria analisi una valenza esplicitamente politica, in quanto nelle nuove forme di produzione e trasmissione dell’arte messe in atto da cinema e fotografia vede la possibilità di liberare l’esperienza estetica dal sostrato religioso-sacrale che ne accompagnava la fruizione da parte della borghesia, impedendo l’instaurazione di un nuovo rapporto tra l’arte e le masse. Quelle proposte da Benjamin, secondo le sue stesse parole, sono tesi “che eliminano un certo numero di concetti tradizionali - quali i concetti di creatività e di genialità, di valore eterno e di mistero -, concetti la cui applicazione incontrollata [...] induce a un’elaborazione in senso fascista del materiale concreto” Scopo dell’analisi deve essere elaborare concetti “del tutto inutilizzabili ai fini del fascismo”, concetti che consentano, al contrario, “la formulazione di esigenze rivoluzionarie nella politica culturale”. Una riflessione sulla riproducibilità dell’opera d’arte non può non partire dalla constatazione che, “in linea di principio, l’opera d’arte è sempre stata riproducibile”. La riproduzione intesa come imitazione manuale di disegni, quadri o sculture è sempre stata parte integrante della pratica artistica, dell’apprendimento e della messa in circolazione delle opere. Nel caso della musica, poi, l’opera stessa esiste innanzitutto come ri-esecuzione. Ciò che interessa Benjamin, però, non è la riproduzione intesa in questo senso bensì la riproduzione tecnica delle opere d’arte, qualcosa che nella storia si è manifestato progressivamente nelle pratiche della fusione del bronzo, del conio delle monete, della silografia e della litografia come riproduzione della grafica e, soprattutto, della stampa come riproducibilità tecnica della scrittura. Con l’invenzione della fotografia e del cinema, la riproducibilità del visibile attinge una dimensione nuova, sganciandosi ulteriormente dal condizionamento della manualità e velocizzandosi enormemente. Di fronte a una tale rivoluzione tecnica, il compito del critico, secondo Benjamin, consiste nel riflettere sul modo in cui questo tipo di riproducibilità dell’opera d’arte finisce per imporre una ridefinizione dello statuto stesso

dell’arte nella sua forma tradizionale. La tesi centrale del saggio di Benjamin risiede nell’affermazione che nella riproduzione fotografica di un’opera viene a mancare un elemento fondamentale: “l’hic et nunc dell’opera d’arte, la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova” Nell’unicità della collocazione spaziotemporale dell’opera risiede il fondamento della sua autenticità e della sua autorità come “originale”, ossia la sua capacità di assumere il ruolo di testimonianza storica. La trasmissione di un’eredità culturale poggia infatti sul permanere nel tempo dell’unicità e dell’autorità delle opere e sulla loro conservazione e celebrazione in spazi dedicati, come i musei, o nei quali esse si radicano nella loro unicità (una chiesa, un palazzo). Benjamin riassume i valori di unicità, autenticità e autorità dell’opera d’arte nella nozione di “aura”, un termine ricorrente nel lessico storicoartistico ed esoterico di inizio secolo nell’accezione di “aureola” (come quella che circonda le immagini dei santi) o in quella, assai più ambigua, di “alone” che circonda e avvolge ogni individuo, come negli scritti di carattere misterico o teosofico. Il “declino”, il “venir meno” dell’aura (Verfall der Aura) determinato dall’avvento dei mezzi di riproduzione tecnica delle opere, sarebbe il sintomo, secondo Benjamin, di un più vasto mutamento “nei modi e nei generi della percezione sensoriale”: a ogni periodo storico corrispondono infatti determinate forme artistiche ed espressive correlate a determinate modalità della percezione, e la storia dell’arte deve essere accompagnata da una storia dello sguardo. Proseguendo la riflessione sul progressivo impoverirsi dell’esperienza avviata nel saggio Il narratore. Considerazioni sull'opera di Nicola Leskov, in L'opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Benjamin constata come nella società a lui contemporanea, mediante la diffusione dell’informazione e delle immagini, tenda ad affermarsi sempre più un’esigenza di avvicinamento, alle cose e alle opere. Ciò che però viene meno, in un’epoca caratterizzata dal bisogno di “rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine” e in cui “si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine, o meglio nell’effigie, nella riproduzione”, è quel peculiare intreccio di vicinanza e lontananza nel quale risiede, secondo Benjamin, l’essenza

dell’aura: “Cade qui opportuno illustrare il concetto, sopra proposto, di aura a proposito degli oggetti storici mediante quello applicabile agli oggetti naturali. Noi definiamo questi ultimi apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa - ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo”. Fine dell’aura significa fine di quell’intreccio tra lontananza, irripetibilità e durata che caratterizzava il nostro rapporto con le opere d’arte tradizionali, e avvento di una fruizione dell’arte basata sull’osservazione fugace e ripetibile di riproduzioni. Originariamente, le opere d’arte erano parte inscindibile di un contesto rituale, prima magico e poi religioso; la loro autorità e autenticità, la loro aura, era determinata proprio da questa appartenenza al mondo del culto. In forme secolarizzate, l’atteggiamento rituale e cultuale nei confronti dell’arte sarebbe poi trapassato nelle forme profane del culto della bellezza, che nasce nel Rinascimento e dura fino alle ultime derive del Romanticismo. L’avvento della riproducibilità tecnica e la sua diffusione mediante la fotografia segnano per la prima volta la possibilità di emancipare l’arte rispetto all’ambito del rituale: venendo meno i valori dell’unicità e dell’autenticità, si apre la possibilità di conferire all’arte una nuova valenza politica, e al valore cultuale (Kultwert) dell’opera si sostituisce progressivamente il valore espositivo (Ausstellungswert). Il discorso benjaminiano sulla fine dell’aura non è quindi riducibile a una forma di nostalgia, bensì è un tentativo di individuare le potenzialità ancora non del tutto esplicitate della riproducibilità. Nella fotografia la dissoluzione del valore cultuale in favore del valore di esponibilità non è ancora completa, in quanto l’aura mantiene una sua ultima forma di sopravvivenza nel “volto dell’uomo”. Non è un caso che le prime fotografie siano state soprattutto dei ritratti, miranti a fissare e a tramandare nel tempo l’identità e lo sguardo dei soggetti fotografati: “Nell’espressione fuggevole di un volto umano, dalle prime fotografie, emana per l’ultima volta l’aura. È questo che ne costituisce la malinconica e incomparabile bellezza”. Il profondo legame tra l’immagine fotografica e l’unicità del soggetto rappresentato nell'hic et nunc del suo essere rappresentato, e quindi il legame tra immagine, temporalità e morte - che Roland Barthes (1915-1980) avrebbe successivamente tematizzato tramite il

concetto di punctum nel celebre saggio La chambre claire - viene meno con il cinema. La rappresentazione cinematografica, a differenza di quella teatrale, è fatta di mediazione, differimento, scomposizione: le azioni che ci si presentano nella loro sequenzialità sono girate in momenti diversi, e ciò che vediamo è il risultato di una serie di scelte legate all’inquadratura e al montaggio. A differenza del pittore - che è come un mago nel mantenere la distanza tra sé e ciò che è oggetto della rappresentazione e nel conferire un’autorità auratica alla rappresentazione stessa - l’operatore cinematografico è come un chirurgo: penetra nelle immagini, le frammenta, le scompone, ne ridefinisce la sequenza, finendo però per eliminarne l’aura. Lungi dal condividere il senso di disagio provato da Pirandello nei confronti della presenza del mezzo tecnico nella realizzazione dell’immagine cinematografica, come testimonia il romanzo Si gira del 1915, Benjamin afferma che proprio questa mediatezza consente al cinema di determinare un significativo approfondimento delle nostre capacità percettive. La possibilità di moltiplicare i punti di vista e le inquadrature mediante quella che Benjamin chiama “la dinamite dei decimi di secondo” rende infatti più libero e indipendente il nostro sguardo sulle cose. Lo spazio che si rivela alla cinepresa è, inoltre, profondamente diverso da quello che si rivela allo sguardo empirico: “al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente". Quello rivelato dall’istantaneità dell’immagine fotografica e dalla sequenzialità dell’immagine in movimento è dunque un “inconscio ottico” che si rivela soltanto attraverso di esse, così come l’inconscio istintivo viene portato alla luce nella psicoanalisi. La portata “rivoluzionaria” che Benjamin attribuisce alla fotografia come tecnica della riproduzione e, in maggior misura, al cinema, si esplica dunque su diversi piani: dissoluzione dell’aura attraverso riproduzioni che sottraggono l’opera d’arte all’hic et nunc della sua esistenza materiale e della sua fruizione, rivelazione di una visibilità che rimane inaccessibile all’occhio empirico e diventa invece accessibile grazie alla mediazione del dispositivo, contestazione di ogni atteggiamento cultuale e “feticistico”, tipicamente borghese, nei confronti dell’autenticità e dell’autorità dell’opera. Riguardo a quest’ultimo punto, Benjamin sottolinea come il cinema, a differenza della pittura, non consenta un atteggiamento puramente contemplativo, fatto di esaltazione e rapimento. Quella del cinema non è una fruizione fatta di

raccoglimento ma una fruizione “distratta” in cui lo spettatore non si perde nell’opera, ma si mantiene in un atteggiamento nel quale piacere e giudizio critico coesistono senza limitarsi a vicenda. Il cinema, in altre parole, si allontana dal naturalismo e dall’illusionismo teatrale e consente di conservare la “distanza” e lo “straniamento” che erano al centro, negli stessi anni, della riflessione sul teatro di Brecht. La capacità di ridefinire il rapporto tra l’arte e le masse aperta dal cinema, dunque, risiede per Benjamin nella possibilità di una fruizione collettiva nella quale la critica non è soffocata da una forma di devozione cultuale nei confronti dell’immagine. Certo, anche nel cinema è presente un residuo di aura, in particolare nel culto della personality che trasforma gli attori in divi, e del resto è chiaro che “l’industria cinematografica ha tutto l’interesse a imbrigliare, mediante rappresentazioni illusionistiche e mediante ambigue speculazioni, la partecipazione delle masse”. Alla ricognizione delle possibilità espressive del mezzo cinematografico operata da registi come Ejzenstejn si contrapponeva, in quegli stessi anni, l’impiego dell’immagine cinematografica da parte dei regimi fascisti a fini propagandistici - basti pensare al contributo della regista Leni Riefenstahl nel definire l’iconografia del nazismo -, testimoniando così come questa forma espressiva avesse un potenziale ambiguo, che sarà poi analizzato da Adorno e Horkheimer, in relazione all’industria culturale americana, in Dialettica dell’illuminismo (1946). Rispetto a questo testo, l’analisi di Benjamin mostra di condividere l’interesse e le aspettative nutrite da diversi movimenti degli anni Venti e Trenta (neoplasticismo, costruttivismo, Bauhaus), oltre che dai giovani Lukács e Brecht, nei confronti dei nuovi mezzi espressivi, pur riconducendo la riflessione sull’arte a una finalità prettamente politica: Benjamin risponde infatti all’estetizzazione della politica e della guerra proposte dal fascismo, e condivise da futuristi come Marinetti, sostenendo la necessità di una “politicizzazione dell’arte” proprio a partire dal potenziale rivoluzionario e democratico del cinema. Le pagine che seguono sono tratte da W. Benjamin, L'opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. a cura di E. Filippini, Einaudi, Torino 1966: parr. 1-5 (pp. 20-28); parr. 12-15 (pp. 38-46).

Di Benjamin si vedano anche: “Piccola storia della fotografia”, in op. cit., pp. 57-78; “Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico”, in op. cit., pp. 79-123; “Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolai Leskov”, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, tr. it. a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962; I “passages” di Parigi, a cura di R. Tiedemann, tr. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2000, in particolare la sezione N (“Elementi di teoria della conoscenza, teoria del progresso”), pp. 510-549; Sul concetto di storia, tr. it. a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, in particolare pp. 1557. Per approfondire: Th.W. Adorno, Teoria estetica, tr. it. Einaudi, Torino 1978; Th.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, introduzione di C. Galli, tr. it. Einaudi, Torino 1997; R. Barthes, La camera chiara: nota sulla fotografia, tr. it. Einaudi, Torino 1980; G. Bedeschi, Introduzione a La Scuola di Francoforte, Laterza, Roma-Bari 1997; P. Bürger, Teoria dell’avanguardia, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1997; G. DidiHuberman, Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, Les Éditions de Minuit, Paris 1992; M. Jay, L'immaginazione dialettica. Storia della Scuola di Francoforte e dell’Istituto per le ricerche sociali 1923-1930, tr. it. Einaudi, Torino 1979; Id., Theodor Wiesengrund Adorno, tr. it. il Mulino, Bologna 1987; A. Pinotti, Piccola storia della lontananza: Walter Benjamin storico della percezione, Libreria Cortina, Milano 1999; R. Rochlitz, Le désenchantement de l'art. La philosophie de Walter Benjamin, Gallimard, Paris 1992; G. Scaramuzza (a cura di), Walter Benjamin lettore di Kafka, Unicopli, Milano 1994; G. Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, Einaudi, Torino 2001; P. Valéry, “La conquête de l’ubiquité”, in Id., Oeuvres, a cura di J. Hytier, Gallimard, Paris 1960, vol. II, pp. 1284-1287.

1. In linea di principio, l’opera d’arte è sempre stata riproducibile. Una cosa fatta dagli uomini ha sempre potuto essere rifatta da uomini. Simili riproduzioni venivano realizzate dagli allievi per esercitarsi nell’arte, dai maestri per diffondere le opere, infine da terzi semplicemente avidi di

guadagni. La riproduzione tecnica dell’opera d’arte è invece qualcosa di nuovo, che si afferma nella storia a intermittenza, a ondate spesso lontane l’una dall’altra, e tuttavia con una crescente intensità. I greci conoscevano soltanto due procedimenti per la riproduzione tecnica delle opere d’arte: la fusione e il conio. Bronzi, terrecotte e monete erano le uniche opere d’arte che essi fossero in grado di produrre in quantità. Tutte le altre erano uniche e non tecnicamente riproducibili. Con la silografia diventò per la prima volta tecnicamente riproducibile la grafica; così rimase a lungo, prima che, mediante la stampa, diventasse riproducibile anche la scrittura. Gli enormi mutamenti che la stampa, cioè la riproducibilità tecnica della scrittura, ha suscitato nella letteratura sono noti. Ma essi costituiscono soltanto un caso, benché certo particolarmente importante, del fenomeno che qui viene considerato sulla scala della storia mondiale. Nel corso del Medioevo, alla silografia vengono ad aggiungersi l’acquaforte e la puntasecca, come, all’inizio del secolo XIX, la litografia. Con la litografia, la tecnica riproduttiva raggiunge un grado sostanzialmente nuovo. Il procedimento, molto più efficace, che rispetto all’incisione del disegno in un blocco di legno o in una lastra di rame è costituito dalla sua trasposizione su una lastra di pietra, diede per la prima volta alla grafica la possibilità non soltanto di introdurre nel mercato i suoi prodotti in grande quantità (come già avveniva prima), ma anche di farlo conferendo ai prodotti configurazioni ogni giorno nuove. Attraverso la litografia, la grafica si vide in grado di accompagnare in forma illustrativa la dimensione quotidiana. Cominciò a tenere il passo della stampa. Ma fin dall’inizio, pochi decenni dopo l’invenzione della litografia, venne superata dalla fotografia. Con la fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, la mano si vide per la prima volta scaricata delle più importanti incombenze artistiche, che ormai venivano ad essere di spettanza dell’occhio che guardava dentro l’obiettivo. Poiché l’occhio è più rapido ad afferrare che non la mano a disegnare, il processo della riproduzione figurativa venne accelerato al punto da essere in grado di star dietro all’eloquio. L’operatore cinematografico nel suo studio, manovrando la sua manovella, riesce a fissare le immagini alla stessa velocità con cui l’interprete parla. Se nella litografia era virtualmente contenuto il giornale illustrato, nella fotografia si nascondeva il film sonoro. La riproduzione tecnica del suono venne affrontata alla fine del secolo scorso.

Questi sforzi convergenti hanno prefigurato una situazione che Paul Valéry definisce con questa frase: “Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano” Verso il 1900, la riproduzione tecnica aveva raggiunto un livello, che le permetteva, non soltanto di prendere come oggetto tutto l’insieme delle opere d’arte tramandate e di modificarne profondamente gli effetti, ma anche di conquistarsi un posto autonomo tra i vari procedimenti artistici. Per lo studio di questo livello nulla è più istruttivo del modo in cui le sue due diverse manifestazioni - la riproduzione dell’opera d’arte e l’arte cinematografica - hanno agito sull’arte nella sua forma tradizionale. 2. Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l'hic et nunc dell’opera d’arte - la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova. Ma proprio su questa esistenza, e in null’altro, si è attuata la storia a cui essa è stata sottoposta nel corso del suo durare. In quest’ambito rientrano sia le modificazioni che essa ha subito nella sua struttura fisica nel corso del tempo, sia i mutevoli rapporti di proprietà in cui può essersi venuta a trovare. La traccia delle prime può essere reperita soltanto attraverso analisi chimiche o fisiche che non possono venir eseguite sulla riproduzione; quella dei secondi è oggetto di una tradizione la cui ricostruzione deve procedere dalla sede dell’originale. L'hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità. Analisi di genere chimico della patina di un bronzo possono essere necessarie per la constatazione della sua autenticità; corrispondentemente, la dimostrazione del fatto che un certo codice medievale proviene da un archivio del secolo XV può essere necessaria per stabilirne l’autenticità. L’intiero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica - e naturalmente non di quella tecnica soltanto. Ma mentre l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di regola viene da esso bollata come un falso, ciò non accade nel caso della riproduzione tecnica. Essa può, per esempio mediante la fotografia, rilevare aspetti dell’originale che sono accessibili soltanto all’obiettivo, che è spostabile e in grado di scegliere a piacimento il suo punto di vista, ma non all’occhio umano, oppure, con l’aiuto di certi procedimenti, come

l’ingrandimento o la ripresa al rallentatore, può cogliere immagini che si sottraggono interamente all’ottica naturale. È questo il primo punto. Essa può inoltre introdurre la riproduzione dell’originale in situazioni che all’originale stesso non sono accessibili. In particolare, gli permette di andare incontro al fruitore, nella forma della fotografia oppure del disco. La cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d’arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all’aria aperta può venir ascoltato in una camera. Le circostanze in mezzo alle quali il prodotto della riproduzione tecnica può venirsi a trovare possono lasciare intatta la consistenza intrinseca dell’opera d’arte - ma in ogni modo determinano la svalutazione del suo hic et nunc. Benché ciò non valga soltanto per l’opera d’arte, ma anche, e allo stesso titolo, ad esempio, per un paesaggio che in un film si dispiega di fronte allo spettatore, questo processo investe, dell’oggetto artistico, un ganglio che in nessun oggetto naturale è così vulnerabile. Cioè: la sua autenticità. L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla sua virtù di testimonianza storica. Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, la virtù di testimonianza della cosa. Certo, soltanto questa; ma ciò che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della cosa. Ciò che vien meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di “aura”; e si può dire: ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’“aura” dell’opera d’arte. Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano a un violento rivolgimento che investe ciò che viene tramandato - a un rivolgimento della tradizione, che è l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità. Essi sono strettamente legati ai movimenti di massa dei nostri giorni. Il loro agente più potente è il cinema. Il suo significato sociale, anche nella sua forma più positiva, e anzi proprio in essa, non è pensabile senza quella distruttiva, catartica: la liquidazione del valore

tradizionale dell’eredità culturale. Questo fenomeno è particolarmente vistoso nei grandi film storici. Esso vi conquista sempre nuove posizioni, e quando, nel 1927, Abel Gance esclama entusiasticamente: “Shakespeare, Rembrandt, Beethoven faranno dei film... Tutte le leggende, tutte le mitologie e tutti i miti, tutti i fondatori di religioni, anzi tutte le religioni, aspettano la loro risurrezione nel film, e gli eroi si accalcano alle porte”, senza rendersene conto, invita a una liquidazione generale. 3. Nel giro di lunghi periodi storici, insieme coi modi complessivi di esistenza delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale. Il modo secondo cui si organizza la percezione sensoriale umana - il medium in cui essa ha luogo -, non è condizionato soltanto in senso naturale, ma anche storico. L’epoca delle invasioni barbariche, durante la quale sorge l’industria artistica tardo-romana e la Genesi di Vienna, possedeva non soltanto un’arte diversa da quella antica, ma anche un’altra percezione. Gli studiosi della scuola viennese, Riegl e Wickhoff, opponendosi al peso della tradizione classica che gravava sopra quell’arte, sono stati i primi ad avere l’idea di trarre da essa conclusioni a proposito della percezione nell’epoca in cui essa veniva riconosciuta. Per quanto notevoli fossero i loro risultati, essi avevano un limite nel fatto che questi studiosi si accontentavano di rilevare il contrassegno formale proprio della percezione nell’epoca tardo-romana. Essi non hanno mai tentato - e forse non potevano sperare di riuscirvi - di dimostrare i rivolgimenti sociali che in questi cambiamenti della percezione trovavano un’espressione. Per quanto riguarda il presente, le condizioni per una corrispondente comprensione sono più favorevoli. E se le modificazioni nel medium della percezione di cui noi siamo contemporanei possono venir intese come una decadenza dell’“aura”, sarà anche possibile indicarne i presupposti sociali. Cade qui opportuno illustrare il concetto, sopra proposto, di aura a proposito degli oggetti storici mediante quello applicabile agli oggetti naturali. Noi definiamo questi ultimi apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa - ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo. Sulla base di questa descrizione è facile comprendere il condizionamento sociale dell’attuale decadenza dell’aura. Essa si fonda su due circostanze, entrambe connesse con la sempre maggiore importanza

delle masse nella vita attuale. E cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione. Ogni giorno si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza a impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine, o meglio nell’effigie, nella riproduzione. E inequivocabilmente la riproduzione, quale viene proposta dai giornali illustrati o dai settimanali, si differenzia dall’immagine diretta, dal quadro. L’unicità e la durata s’intrecciano strettissimamente in quest’ultimo, quanto la labilità e la ripetibilità nella prima. La liberazione dell’oggetto dalla sua guaina, la distruzione dell’aura sono il contrassegno di una percezione la cui sensibilità per ciò che nel mondo è dello stesso genere è cresciuta a un punto tale che essa, mediante la riproduzione, attinge l’uguaglianza di genere anche in ciò che è unico. Così, nell’ambito dell’intuizione si annuncia ciò che nell’ambito della teoria si manifesta come un incremento dell’importanza della statistica. L’adeguazione della realtà alle masse e delle masse alla realtà è un processo di portata illimitata sia per il pensiero sia per l’intuizione. 4. L’unicità dell’opera d’arte si identifica con la sua integrazione nel contesto della tradizione. È vero che questa tradizione è a sua volta qualcosa di vivente, qualcosa di straordinariamente mutevole. Un’antica statua di Venere, per esempio presso i greci, che la rendevano oggetto di culto, stava in un contesto tradizionale completamente diverso da quello in cui la ponevano i monaci medievali, che vedevano in essa un idolo maledetto. Ma ciò che si faceva incontro sia ai primi sia ai secondi era la sua unicità, in altre parole: la sua aura. Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto. Le opere d’arte più antiche sono nate, com’è noto, al servizio di un rituale, dapprima magico, poi religioso. Ora, riveste un significato decisivo il fatto che questo modo di esistenza, avvolto da un’aura particolare, non possa mai staccarsi dalla sua funzione rituale. In altre parole: il valore unico dell’opera d’arte autentica trova una sua fondazione nel rituale nell’ambito del quale ha avuto il suo primo e originario valore d’uso. Questo fondarsi, per mediato che sia, è riconoscibile, nella forma di un rituale secolarizzato, anche nelle forme più profane del culto della bellezza. Il culto profano della bellezza, che si configura con il Rinascimento per poi restare valido lungo

tre secoli, dà a riconoscere chiaramente quei fondamenti, una volta scaduto questo termine, al momento del primo serio scuotimento da cui sia stato colpito. Vale a dire: quando, con la nascita del primo mezzo di riproduzione veramente rivoluzionario, la fotografia (contemporaneamente al delinearsi del socialismo), l’arte avvertì l’approssimarsi di quella crisi che passati altri cento anni è diventata innegabile, essa reagì con la dottrina dell’arte per l’arte, che costituisce una teologia dell’arte. Successivamente da essa è proceduta addirittura una teologia negativa nella forma dell’idea di un’arte “pura”, la quale, non soltanto respinge qualsivoglia funzione sociale, ma anche qualsiasi determinazione da parte di un elemento oggettivo. (Nella poesia, Mallarmé è stato il primo a raggiungere questo stadio). Tenere conto di queste connessioni è indispensabile per un’analisi che abbia a che fare con l’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. Perché esse prefigurano una scoperta decisiva per questo ambito: la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte emancipa per la prima volta nella storia del mondo quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale. L’opera d’arte riprodotta diventa in misura sempre maggiore la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità. Di una pellicola fotografica per esempio è possibile tutta una serie di stampe; la questione della stampa autentica non ha senso. Ma nell’istante in cui il criterio dell’autenticità nella produzione dell’arte viene meno, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte. Al posto della sua fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla politica. 5. La ricezione di opere d’arte avviene secondo accenti diversi, due dei quali, tra loro opposti, assumono uno specifico rilievo. Il primo di questi accenti cade sul valore cultuale, l’altro sul valore espositivo dell’opera d’arte. La produzione artistica comincia con figurazioni che sono al servizio del culto. Di queste figurazioni si può ammettere che il fatto che esistano è più importante del fatto che vengano viste. L’alce che l’uomo dell’età della pietra raffigura sulle pareti della sua caverna è uno strumento magico. Egli lo espone davanti ai suoi simili; ma prima di tutto è dedicato agli spiriti. Oggi sembra addirittura che il valore cultuale come tale induca a mantenere l’opera d’arte nascosta: certe statue degli dèi sono accessibili soltanto al sacerdote nella sua cella. Certe immagini della Madonna rimangono invisibili per quasi tutto l’anno, certe sculture dei duomi medievali non sono

visibili per il visitatore che stia in basso. Con l’emancipazione di determinati esercizi artistici dall’ambito del rituale, le occasioni di esposizione dei prodotti aumentano. L’esponibilità di un ritratto a mezzo busto, che può essere inviato in qualunque luogo, è maggiore di quella della statua di un dio che ha la sua sede permanente all’interno di un tempio. L’esponibilità di una tavola è maggiore di quella del mosaico o dell’affresco che l’hanno preceduta. E se l’esponibilità di una messa per natura non era probabilmente più ridotta di quella di una sinfonia, tuttavia la sinfonia nacque nel momento in cui la sua esponibilità prometteva di diventare maggiore di quella di una messa. Coi vari metodi di riproduzione tecnica dell’opera d’arte, la sua esponibilità è cresciuta in una misura così poderosa, che la discrepanza quantitativa tra i suoi due poli si è trasformata, analogamente a quanto è avvenuto nelle età primitive, in un cambiamento qualitativo della sua natura. E cioè: così come nelle età primitive, attraverso il peso assoluto del suo valore cultuale, l’opera d’arte era diventata uno strumento della magia, che in certo modo soltanto più tardi venne riconosciuto quale opera d’arte, oggi, attraverso il peso assoluto assunto dal suo valore di esponibilità, l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale. Certo è che attualmente la fotografia, e poi il cinema, forniscono gli spunti più fecondi per il riconoscimento di questo dato di fatto. [...] 12. La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle masse con l’arte. Da un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei confronti di un Picasso, si rovescia in un rapporto estremamente progressivo, per esempio nei confronti di un Chaplin. Ove l’atteggiamento progressivo è contrassegnato dal fatto che il gusto del vedere e del rivivere si connette in lui immediatamente con l’atteggiamento del giudice competente. Questa connessione è un importante indizio sociale. Infatti, quanto più il significato sociale di un’arte diminuisce, tanto più il contegno critico e quello della mera fruizione da parte del pubblico divergono. Il

convenzionale viene goduto senza alcuna critica, ciò che è veramente nuovo viene criticato con ripugnanza. Al cinema l’atteggiamento critico e quello del piacere del pubblico coincidono. Dove il fatto decisivo è questo: in nessun luogo più che nel cinema le reazioni dei singoli, la cui somma costituisce la reazione della massa del pubblico, si rivela preliminarmente condizionata dalla loro immediata massificazione. Appena si manifestano, si controllano. Anche qui il confronto con la pittura continua a rivelarsi utile. Il dipinto ha sempre affacciato la pretesa peculiare di venir osservato da uno o da pochi. L’osservazione simultanea da parte di un vasto pubblico, quale si delinea nel secolo XIX, è un primo sintomo della crisi della pittura, crisi che non è stata affatto suscitata dalla fotografia soltanto, bensì, in modo relativamente autonomo, attraverso la pretesa dell’opera d’arte di trovare un accesso alle masse. Il fatto è appunto questo, che la pittura non è in grado di proporre l’oggetto alla ricezione collettiva simultanea, cosa che invece è sempre riuscita all’architettura, che riusciva un tempo all’epopea, che riesce oggi al film. E per quanto, in sé, da questa circostanza non vadano tratte conclusioni riguardanti il ruolo sociale della pittura, nel momento in cui, in seguito a particolari circostanze e in certo modo contro la sua natura, la pittura viene messa a diretto confronto con le masse, precisamente quella circostanza agisce come una grave limitazione. Nelle chiese e nei chiostri del Medioevo e alle corti principesche fin verso la fine del secolo XVIII, la ricezione collettiva di dipinti non avveniva simultaneamente, bensì mediatamente, secondo una complessa gradualità e secondo una gerarchia. Se questa situazione si è trasformata, in tale mutamento si esprime il particolare conflitto in cui la pittura è stata coinvolta attraverso la riproducibilità tecnica del quadro. Ma benché si cercasse di portarla di fronte alle masse mediante le gallerie e i salon, non esisteva una via lungo la quale le masse potessero organizzare e controllare se stesse in vista di una simile ricezione. Perciò lo stesso pubblico che di fronte a un film grottesco reagisce in modo progressivo, di fronte al surrealismo deve per forza diventare un pubblico retrivo. 13. Il cinema non trova le sue caratteristiche soltanto nel modo in cui l’uomo si rappresenta di fronte all’apparecchiatura necessaria alla ripresa, ma anche nel modo in cui esso si rappresenta, con l’aiuto di quest’ultima, il mondo circostante. Un’occhiata alla psicologia della prestazione illustra la

capacità dell’apparecchiatura di sottoporre l’interprete a test. Un’occhiata alla psicanalisi la illustra dal lato opposto. Infatti il cinema ha arricchito il nostro mondo degli indici di metodi che possono venir illustrati mediante la teoria freudiana. Cinquant'anni fa, un lapsus nel corso di una conversazione passava più o meno inosservato. Il fatto che a tratti potesse dischiudere prospettive profonde nella conversazione stessa, che prima sembrava avvenire tutta in primo piano, poteva venir annoverato tra le eccezioni. Dopo la Psicopatologia della vita quotidiana questa situazione è cambiata. Quest’opera ha isolato e reso analizzabili cose che in precedenza fluivano inavvertite dentro l’ampia corrente del percepito. Il cinema ha avuto come conseguenza un analogo approfondimento dell’appercezione su tutto l’arco del mondo della sensibilità ottica, e ora anche di quella acustica. Il fatto che le prestazioni che il film propone sono analizzabili in modo molto più esatto e da punti di vista molto più numerosi di quelle che si rappresentano in un dipinto o sulla scena costituisce soltanto l’altra faccia di questa situazione. Rispetto alla pittura, la maggiore analizzabilità della prestazione rappresentata nel film è determinata dalla resa incomparabilmente più precisa della situazione. Rispetto al palcoscenico, la maggiore analizzabilità della prestazione rappresentata nel film è condizionata dalla maggiore isolabilità. Questa circostanza, e precisamente in ciò sta il suo significato principale, comporta una tendenza a promuovere la vicendevole compenetrazione tra l’arte e la scienza. Infatti, di un atteggiamento chiaramente circoscritto nell’ambito di una determinata situazione - come di un muscolo in un corpo - è difficile dire che cosa sia più affascinante: il suo valore artistico o la sua applicabilità scientifica. Una delle funzioni rivoluzionarie del cinema sarà quella di far riconoscere l’identità dell’utilizzazione artistica e dell’utilizzazione scientifica della fotografia, che prima in genere divergevano. Mentre il cinema, mediante i primi piani di certi elementi dell’inventario, mediante l’accentuazione di certi particolari nascosti di sfondi per noi abituali, mediante l’analisi di ambienti banali, grazie alla guida geniale dell’obiettivo, aumenta da un lato la comprensione degli elementi costrittivi che governano la nostra esistenza, riesce dall’altro anche a garantirci un margine di libertà enorme e imprevisto. Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci

irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine. Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al rallentatore si dilata il movimento. E come l’ingrandimento non costituisce semplicemente chiarificazione di ciò che si vede comunque, benché indistintamente, poiché esso porta in luce formazioni strutturali della materia completamente nuove, così il rallentatore non fa apparire soltanto motivi del movimento già noti: in questi motivi noti ne scopre di completamente ignoti, “che non fanno affatto l’effetto di un rallentamento di movimenti più rapidi, bensì quello di movimenti propriamente scivolanti, plananti, sovrannaturali”. Si capisce così come la natura che parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente. Se di solito ci si rende conto, sia pure approssimativamente, dell’andatura della gente, certamente non si sa nulla del suo comportamento nel frammento di secondo in cui affretta il passo. Se siamo più o meno abituati al gesto di afferrare l’accendisigari o il cucchiaio, non sappiamo pressoché nulla di ciò che effettivamente avviene tra la mano e il metallo, per non dire poi del modo in cui ciò varia in relazione agli stati d’animo in cui noi ci troviamo. Qui interviene la cinepresa coi suoi mezzi ausiliari, col suo scendere e salire, col suo interrompere e isolare, col suo ampliare e contrarre il processo, col suo ingrandire e ridurre. Dell’inconscio ottico sappiamo qualche cosa soltanto grazie ad essa, come dell’inconscio istintivo grazie alla psicanalisi. 14. Uno dei compiti dell’arte è stato da sempre quello di generare esigenze che non è in grado di soddisfare attualmente. La storia di ogni forma d’arte conosce periodi critici in cui questa determinata forma mira a certi risultati, i quali potranno per forza essere ottenuti soltanto a un livello tecnico diverso, cioè attraverso una nuova forma d’arte. Le stravaganze e le prevaricazioni che da ciò conseguono, specie nelle cosiddette epoche di decadenza, procedono in realtà dal loro centro di forza storicamente più ricco. Di simili forme barbariche brulicava ancora, recentemente, il Dadaismo. L’impulso che lo muoveva è riconoscibile soltanto oggi: il Dadaismo cercava di ottenere con i mezzi della pittura (oppure della

letteratura) quegli effetti che oggi il pubblico cerca nel cinema. Ogni formulazione nuova, rivoluzionaria, di determinate esigenze è destinata a colpire al di là del suo bersaglio. Il Dadaismo lo fa nella misura in cui sacrifica i valori di mercato, che ineriscono al film in così larga misura, a favore di intenzioni di maggior rilievo - delle quali naturalmente non è consapevole nella forma che qui viene descritta. I dadaisti davano all’utilizzabilità mercantile delle loro opere un peso molto minore che non alla loro inutilizzabilità nel senso di oggetti di un rapimento contemplativo. Essi cercavano di attingere questa inutilizzabilità, non in ultima istanza mediante una radicale degradazione del loro materiale. Le loro poesie sono insalate di parole, contengono locuzioni oscene e tutti i possibili e immaginabili cascami del linguaggio. Non altrimenti i loro dipinti, dentro i quali essi montavano bottoni o biglietti ferroviari. Ciò che essi ottengono con questi mezzi è uno spietato annientamento dell’aura dei loro prodotti, ai quali, coi mezzi della produzione, imponevano il marchio della riproduzione. Di fronte a un quadro di Arp o a una poesia di August Stramm è impossibile concedersi, come di fronte a un quadro di Derain o a una lirica di Rilke, il tempo per il raccoglimento e per un giudizio. Al rapimento, che con la decadenza della borghesia è diventato una scuola di comportamento asociale, si contrappone la diversione quale varietà di comportamento sociale. Effettivamente, le manifestazioni dadaiste concedevano una diversione veramente violenta rendendo l’opera d’arte centro di uno scandalo. L’opera d’arte era chiamata principalmente a soddisfare un’esigenza: quella di suscitare la pubblica indignazione. Coi dadaisti, dalla parvenza attraente o dalla formazione sonora capace di convincere, l’opera d’arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro l’osservatore. Assunse una qualità tattile. In questo modo ha favorito l’esigenza di cinema, il cui elemento diversivo è appunto in primo luogo di ordine tattile, si fonda cioè sul mutamento dei luoghi dell’azione e delle inquadrature, che investono gli spettatori a scatti. Si confronti la tela su cui viene proiettato il film con la tela su cui si trova il dipinto. Quest’ultimo invita l’osservatore alla contemplazione; di fronte ad esso lo spettatore può abbandonarsi al flusso delle sue associazioni. Di fronte all’immagine filmica non può farlo. Non appena la coglie visivamente, essa si è già modificata. Non può venir fissata. Duhamel, che odia il cinema, che non ha capito nulla del suo significato ma ha capito parecchie cose della sua

struttura, definisce questo fatto nella nota che segue: “Non sono già più in grado di pensare quello che voglio pensare. Le immagini mobili si sono sistemate al posto del mio pensiero”. Effettivamente il flusso associativo di colui che osserva queste immagini viene subito interrotto dal loro mutare. Su ciò si basa l’effetto di shock del film, che, come ogni effetto di schock esige di essere accolto con una maggiore presenza di spirito. In virtù della sua struttura tecnica, il film riesce a liberare l’effetto di shock fisico, che il Dadaismo manteneva ancora impaccato, per così dire, nell’effetto di shock morale, da questo imballaggio. 15. La massa è una matrice dalla quale attualmente esce rinato ogni comportamento abituale nei confronti delle opere d’arte. La quantità si è ribaltata in qualità: le masse sempre più vaste dei partecipanti hanno determinato un modo diverso di partecipazione. L’osservatore non deve lasciarsi ingannare dal fatto che questa partecipazione si manifesta dapprima in forme screditate. Eppure non sono mancati quelli che si sono pervicacemente attenuti a questo aspetto superficiale della cosa. Tra costoro Duhamel è colui che si è espresso nel modo più radicale. Egli riconosce al film un peculiare modo di partecipazione da parte delle masse. Egli definisce il film “un passatempo per iloti, una distrazione per creature incolte, miserabili, esaurite dal lavoro, dilaniate dalle loro preoccupazioni..., uno spettacolo che non esige alcuna concentrazione, che non presuppone la facoltà di pensare..., che non accende nessuna luce nel cuore e non suscita alcuna speranza se non quella, ridicola, di diventare un giorno, a Los Angeles, una star”. È evidente che si tratta in fondo della vecchia accusa secondo cui le masse cercano soltanto distrazione, mentre l’arte esige dall’osservatore il raccoglimento. Si tratta di un luogo comune. Resta soltanto da vedere se esso costituisca un terreno utile per lo studio del cinema. - E opportuno qui considerare le cose più da vicino. La distrazione e il raccoglimento vengono contrapposti in un modo tale che consente questa formulazione: colui che si raccoglie davanti all’opera d’arte vi si sprofonda; penetra nell’opera, come racconta la leggenda di un pittore cinese alla vista della sua opera compiuta. Inversamente, la massa distratta fa sprofondare nel proprio grembo l’opera d’arte. Ciò avviene nel modo più evidente per gli edifici. L’architettura ha sempre fornito il prototipo di un’opera d’arte la cui ricezione avviene nella distrazione e da parte della collettività. Le leggi della sua ricezione sono le più istruttive.

Gli edifici accompagnano l’umanità fin dalla sua preistoria. Molte forme d’arte si sono generate e poi sono morte. La tragedia nasce coi greci per estinguersi con loro e per poi rinascere dopo secoli; ma ne rinascono soltanto le regole. L’epopea, la cui origine risale alla giovinezza dei popoli, si estingue in Europa con l’inizio del Rinascimento. La pittura su tavola è un frutto del Medioevo e nulla può garantirle una durata ininterrotta. Ma il bisogno dell’uomo di una dimora è ininterrotto. L’architettura non ha mai conosciuto pause. La sua storia è più lunga di quella di qualsiasi altra arte; rendersi conto del suo influsso è importante per qualunque tentativo di comprendere il rapporto tra le masse e l’opera d’arte. Delle costruzioni si fruisce in duplice modo: attraverso l’uso e attraverso la percezione. O, in termini più precisi: in modo tattico e in modo ottico. Non è possibile definire il concetto di una simile ricezione se essa viene immaginata sul tipo di quelle raccolte per esempio dai viaggiatori di fronte a costruzioni famose. Non c’è nulla, dal lato tattico che faccia da contropartita di ciò che, dal lato ottico, è costituito dalla contemplazione. La fruizione tattica non avviene tanto sul piano dell’attenzione quanto su quello dell’abitudine. Nei confronti dell’architettura, anzi, quest’ultima determina ampiamente perfino la ricezione ottica. Anch’essa, in sé, avviene molto meno attraverso un’attenta osservazione che non attraverso sguardi occasionali. Questo genere di ricezione, che si è generata nei confronti dell’architettura ha tuttavia, in certe circostanze, un valore canonico. Poiché i compiti che in epoche di trapasso storico vengono posti all’apparato percettivo umano, non possono essere assolti per vie meramente ottiche, cioè contemplative. Se ne viene a capo a poco a poco grazie all’intervento della ricezione tattica, all’abitudine. Anche colui che è distratto può abituarsi. Più ancora: il fatto di essere in grado di assolvere certi compiti anche nella distrazione dimostra innanzitutto che per l’individuo in questione è diventata un’abitudine assolverli. Attraverso la distrazione, quale è offerta dall’arte, si può controllare di sottomano in che misura l’appercezione è in grado di assolvere compiti nuovi. Poiché del resto il singolo sarà sempre tentato di sottrarsi a questi compiti, l’arte affronterà quello più difficile e più importante quando riuscirà a mobilitare le masse. Attualmente essa fa questo attraverso il cinema. La ricezione nella distrazione che si fa sentire in modo sempre più insistente in tutti i settori dell’arte e che costituisce il sintomo di profonde modificazioni dell’appercezione, trova nel cinema lo

strumento più autentico su cui esercitarsi. Grazie al suo effetto di shock il cinema favorisce questa forma di ricezione. Il cinema svaluta il valore cultuale non soltanto inducendo il pubblico a un atteggiamento valutativo, ma anche per il fatto che al cinema l’atteggiamento valutativo non implica attenzione. Il pubblico è un esaminatore, ma un esaminatore distratto.

Martin Heidegger Opera d’arte e verità dell’essere

Per comprendere la riflessione sull’arte condotta da Martin Heidegger (1889-1976) nel saggio L'origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes, 1935), è necessario collocare questo testo nel quadro del percorso speculativo intrapreso dall’autore negli anni successivi alla pubblicazione di Essere e tempo (1927), quando emerge la necessità di abbandonare il progetto di un’analitica dell’esistenza in favore dell’elaborazione di un nuovo pensiero dell’essere, che prenda le mosse da una comprensione del senso e della storia della metafisica. Già in Essere e tempo Heidegger aveva mostrato come il pensiero filosofico elaborato dalla tradizione europea fosse caratterizzato sostanzialmente da una comprensione dell’essere come semplice-presenza (Vorhandenheit) e obiettività. Secondo questa tradizione - che nelle sue linee essenziali sarebbe rimasta invariata da Parmenide a Nietzsche - è, in senso pieno, ciò che sussiste, è incontrabile, si dà nella sua presenza e visibilità. L’essere, in altre parole, sarebbe stato pensato come analogo all'ente, alla cosa (res), rimuovendo e dimenticando la fondamentale differenza ontologica che li separa. In correlazione con questa concezione dell’essere come ente e come oggetto posto di fronte alla coscienza (ob-jectum), il pensiero metafisico moderno avrebbe poi prodotto la concezione di un soggetto concepito non più quale semplice substrato (hypokeimenon, sub-stantia, sub-jectum) portatore di qualità e accidenti, bensì quale io conoscente (ego cogitans), soggetto puro, trascendentale, puro occhio sul mondo, fondamento della verità in quanto luogo del suo manifestarsi come presenza evidente. La correlazione conoscitiva tra soggetto e oggetto avrebbe quindi dato luogo a una concezione della verità come conformità o adeguazione tra linguaggio, pensiero ed ente, adaequatio rei et intellectus.

Se il filo conduttore dell’analitica esistenziale sviluppata in Essere e tempo era stato il tentativo di ritematizzare il rapporto tra essere e temporalità e di chiarire la dimensione concreta di quell’io pensato dalla filosofia neokantiana e dalla fenomenologia come io puro e come soggettività trascendentale, negli scritti degli anni Trenta Heidegger mette al centro della propria riflessione il problema della metafisica e della sua storia, soffermandosi sulle figure chiave di Cartesio, Leibniz e Nietzsche. La tesi che sviluppa in questo periodo è quella secondo cui la metafisica, nel suo insieme e nella pluralità di forme che ha assunto storicamente, sarebbe caratterizzata da un oblio dell’essere, ossia dalla tacita precomprensione dell’essere come nozione ovvia, che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Tale oblio della differenza ontologica tra essere ed ente avrebbe trovato poi un pieno dispiegamento nell’avvento di un mondo caratterizzato dal primato della tecnica, dove l’essere dell’ente non è più neanche remotamente qualcosa che occorre cercare oltre l’ente stesso, bensì il suo effettivo funzionamento all’interno di un sistema strumentale subordinato alla volontà del soggetto. Nel mondo della tecnica il pensiero diviene esso stesso strumento per la soluzione di problemi interni alla totalità strumentale degli enti, ed è finalizzato al raggiungimento di una razionalità sempre più perfetta ed efficiente. Collocato sullo sfondo di questa riflessione sul senso della metafisica, il saggio L’origine dell’opera d’arte viene a occupare una posizione centrale nello sviluppo del pensiero heideggeriano, in quanto scritto in un periodo nel quale alla riflessione sulla storia e sul senso della metafisica si affianca il tentativo di sviluppare un nuovo pensiero sull’essere e sulla verità, a partire dalla rielaborazione di alcuni temi centrali di Essere e tempo. Come è noto, la stesura di questo testo era stata interrotta da Heidegger essendo emersa la necessità di operare un radicale ripensamento del linguaggio filosofico. Superare la metafisica, infatti, non poteva significare semplicemente parlare di ciò che la metafisica ha sempre taciuto, ossia dell’essere, per darne una nuova “definizione” o elaborarne un nuovo “concetto”, più “adeguato”, più “vero”. L’elaborazione di un pensiero dell’essere alternativo a quello della metafisica, secondo Heidegger, doveva innanzitutto rifiutarne la terminologia e ripensarne radicalmente i concetti fondanti, a partire da quelli di cosa, ente e verità. E proprio a un tentativo di riformulazione del problema della verità è dedicato il saggio sull’opera

d’arte, in cui si annunciano inoltre alcuni temi che saranno al centro della successiva riflessione heideggeriana: la concezione dell’essere come evento e il ruolo ontologico del linguaggio, argomento sviluppato in seguito da Heidegger in quel “dialogo storico-ontologico con i poeti” che prende avvio proprio nel saggio del 1935 e nel testo della conferenza intitolata Hölderlin e l’essenza della poesia, del 1936. In apertura del saggio Heidegger chiarisce che riflettere sull’origine dell’opera d’arte significa riflettere sulla sua essenza: “Origine significa, qui, ciò da cui e per cui una cosa è ciò che è ed è come è. Ciò che qualcosa è essendo così com’è, lo chiamiamo la sua essenza. L’origine di qualcosa è la provenienza della sua essenza. Il problema dell’origine dell’opera d’arte concerne la provenienza della sua essenza”. Intraprendere la ricerca dell’essenza dell’opera d’arte secondo le opinioni comunemente accettate, tuttavia, ci conduce subito in quello che appare un circolo vizioso da cui non si può uscire: l’opera d’arte sembra essere tale in virtù dell’attività dell’artista che la crea e del nostro concetto di arte, mentre a loro volta l’arte e l’attività artistica sembrano poter essere definite solo a partire dalle opere d’arte. Tale circolo non deve però essere rimosso: “dobbiamo muoverci nel circolo”, sostare nella contraddizione da esso evidenziata, nella co-appartenenza di arte e opera. Per tentare di pervenire a comprendere l’essenza dell’arte, Heidegger decide allora di partire dal concetto comune di cosa: le opere d’arte, nella loro materialità e maneggiabilità, sembrano infatti appartenere al dominio delle cose, benché non come “mere cose”, ma come cose a cui inerisce qualcosa d’altro. Ma cos’è una cosa? Per giungere a una comprensione dell’esser-cosa dell’opera, Heidegger ripercorre le dottrine tradizionali intorno all’ente o alla cosa, mostrandone l’insufficienza: l’opera non può essere compresa nella sua essenza né rifacendosi ai concetti di cosa come sostrato o sostanza (hypokeimenon, sub-stantia), né come sintesi di una molteplicità di percezioni sensibili (aistheton) o come unione di materia (hyle) e forma (morphe). In particolare, rinunciare alla coppia concettuale materia-forma significa, e Heidegger lo sottolinea, rinunciare allo “schema concettuale classico di ogni teoria dell’arte e di ogni estetica”, uno schema che ha costituito l’asse portante della riflessione sull’arte da Platone a Hegel e oltre, e in base al quale sono stati elaborati concetti chiave dell’estetica come quelli di creazione e imitazione.

Una volta chiarita l’insufficienza delle concezioni della cosa che emergono da un’analisi della tradizione filosofica, Heidegger, nell’intento di comprendere l’essenza dell’opera a partire proprio dalla sua cosalità, si rivolge al concetto di cosa come strumento, da lui stesso elaborato in Essere e tempo. Già nell’analitica esistenziale di Essere e tempo aveva infatti sviluppato una netta critica del concetto di cosa come res inerte e come semplice-presenza, proponendo una concezione della cosa come strumento caratterizzato dall’utilizzabilità (Zuhandenheit) e dal rimandare ad altro: lo strumento è sempre strumento-per-qualcosa e si rapporta a una concezione dell’esistenza dell’uomo come essere-nel-mondo caratterizzato dall’apertura verso il poter-essere e dalla progettualità. Nel saggio L’origine dell’opera d’arte Heidegger riprende la concezione dell’opera come strumento-per, come mezzo, ma con una sostanziale differenza rispetto a Essere tempo: il chiarimento dell’esser-mezzo del mezzo viene sviluppato non a partire dall’attività progettante dell’uomo, bensì attraverso l’analisi di un’opera d’arte, di una rappresentazione figurativa, un quadro di Van Gogh che raffigura un paio di scarpe da contadino. É qui che viene in luce qualcosa che la descrizione di un paio di scarpe effettivamente presenti non avrebbe potuto attingere: l’esser-mezzo del mezzo, la sua essenza, risiede in qualcosa di più profondo della semplice “utilizzabilità” di cui parlava Essere e tempo, risiede nella sua “fidatezza” (Verlässigkeit): “In virtù sua la contadina confida, attraverso il mezzo, nel tacito richiamo della terra; in virtù della fidatezza del mezzo essa è certa del suo mondo. Mondo e terra ci sono per lei, e per tutti coloro che sono con lei nel medesimo mondo [...] la fidatezza del mezzo dà al mondo immediato la sua stabilità e garantisce alla terra la libertà del suo afflusso costante. L’essermezzo del mezzo, la fidatezza, tiene unite tutte le cose secondo il loro modo e la loro ampiezza. L’usabilità del mezzo non è che la conseguenza essenziale della fidatezza”. La vera natura della cosa come mezzo è stata dunque stabilita non attraverso l’analisi di un ente concretamente esistente, ma ponendosi di fronte a un’opera d’arte, a un quadro, e quindi a un'immagine. Ed è proprio in relazione a questa capacità dell’opera di rivelare la verità del mezzo che Heidegger presenta la tesi centrale del saggio: “Ciò che abbiamo potuto stabilire è l’esser-mezzo del mezzo. Ma come? Non mediante la descrizione e l’analisi di un paio di scarpe qui presenti. Non mediante l’osservazione dei

procedimenti di fabbricazione delle scarpe, e neppure mediante l'osservazione di un qualche uso di calzature. Ma semplicemente ponendoci innanzi a un quadro di Van Gogh. È il quadro che ha parlato. Stando nella vicinanza dell’opera, ci siamo trovati improvvisamente in una dimensione diversa da quella in cui comunemente siamo. L'opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità [...] è solo nell’opera e attraverso di essa che viene alla luce l’esser-mezzo del mezzo. Che significa ciò? Che cos’è in opera nell’opera? Il quadro di Van Gogh è l’aprimento di ciò che il mezzo, il paio di scarpe, è [ist] in verità. Questo ente si presenta nel nonnascondimento [Unverhorgenheit] del suo essere. Il non-esser-nascosto dell’ente è ciò che i Greci chiamavano aletheia. Noi diciamo: ‘verità’, e non riflettiamo sufficientemente su questa parola. Se ciò che si realizza è l’aprimento dell’ente in ciò che esso è e nel come è, nell’opera è in opera l’evento [Geschehen] della verità. Nell’opera d’arte la verità dell’ente si è posta in opera. ‘Porre’ significa qui: portare a stare. In virtù dell’opera, un ente, un paio di scarpe, viene a stare nella luce del suo essere. L’essere dell’ente giunge alla stabilità del suo apparire. L’essenza dell’arte consisterebbe quindi nel porsi in opera della verità dell’ente [das Sich-ins-Werk-Setzen der Wahrheit des Seienden]”. L’arte ha dunque essenzialmente a che fare con la verità, e la riflessione sull’arte non può non assumere i tratti di una speculazione ontologica che conduce a una riformulazione del problema dell’essere dell’ente. Dire che l’arte consiste nel porsi in opera della verità, tuttavia, non significa affatto riproporre una concezione dell’arte come imitazione o riproduzione della realtà, in base alla tesi secondo cui la verità è adeguazione tra pensiero e ente, concetto e cosa, segno e designato, copia e modello. Il quadro di Van Gogh non ci ha rivelato l’essenza del mezzo imitando un paio di scarpe concretamente esistente, non si è posto come copia o ri-presentazione di un modello esterno e precedentemente esistente. Come chiarisce Gadamer in Verità e metodo parlando di “valenza ontologica dell’immagine”, nel testo heideggeriano viene in luce il fatto che l’immagine come opera d’arte non deve essere intesa come immagine-copia (Abbild) subordinata a un modello, ma come immagine (Bild) capace di manifestare la presenza del rappresentato e di porlo come originale (Ur-bild). É infatti nell'inseparabilità ontologica tra immagine e rappresentato che quest’ultimo accede alla propria verità. Come scrive Heidegger, “ciò che è in opera

nell’opera è l’apertura [Eröffnung] dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità [das Geschehnis der Wahrheit]”. A partire da tali asserzioni appare sempre più chiaramente che proprio sul concetto di verità come non-nascondimento (Unverborgenheit) - termine con cui Heidegger riprende il senso del greco aletheia, “verità” (composto da a- privativo e letho o lanthano, “restare nascosto”) - verte la riflessione del filosofo tedesco sull’opera d’arte. Questa deve essere sottratta alla sua precomprensione all’interno dell’estetica, della critica e della storia dell’arte, al fine di enucleare il farsi evento della verità che in essa ha luogo, mostrando al tempo stesso come la verità sia intrinsecamente attraversata da una dinamica di svelamento e nascondimento. A questo proposito Heidegger ricorre alla “descrizione” di un’altra opera, un tempio greco. Questo, delimitando una regione sacrale e racchiudendo al suo interno la statua del Dio, “dispone e raccoglie intorno a sé l’unità di quelle vie e di quei rapporti in cui nascita e morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta, sopravvivenza e rovina delineano la forma e il corso dell’essere umano nel suo destino. L’ampiezza dell’apertura di questi rapporti è il mondo di questo popolo storico”. Come scrive Heidegger, il tempio, “in quanto opera, espone un Mondo [...] mantiene aperta l’apertura del Mondo”. Al tempo stesso, però, il tempio, come ogni opera, riconduce questo stesso Mondo alla Terra da cui esso proviene, una Terra concepita come fondamento generatore e al tempo stesso come chiusura e negazione: “La Terra è ciò in cui il sorgere riconduce, come tale, tutto ciò che sorge come nel proprio nascondimento protettivo. In ciò che sorge è presente la Terra come la nascondente-proteggente [als das Bergende]”. Essere un’opera significa, dunque, “esporre [auf-stellen] un Mondo”, aprire e rivelare un insieme di relazioni istituenti la vita e la storia di una comunità, e al tempo stesso “porre-qui [her-stellen] la Terra”, ossia lasciar emergere ciò che fonda ritraendosi e chiudendosi in sé. Se però “esporre un Mondo e porre-qui la Terra sono due tratti essenziali dell’esser opera dell’opera” e se nell’opera accade il porsi in opera della verità, è evidente che i due termini correlativi di Mondo e Terra hanno un significato che deve essere chiarito in relazione sia all’essenza dell’opera che a quella della verità. In base al riferimento alla coppia Mondo-Terra, la verità non deve essere pensata né come evidenza né come adeguazione, bensì come “il non-essernascosto dell’ente [die Unverborgenheit des Seiendes], riprendendo il termine

greco aletheia, ma non nel senso di semplice “svelamento” bensì come dinamica di nascondimento e non-nascondimento, illuminazione (Lichtung) che si staglia sempre sullo sfondo di un orizzonte di oscurità: “L’ente può essere come ente solo se si immerge e emerge dal seno dell’illuminato di questa illuminazione. [...] Grazie a questa luce, l’ente è non-nascosto in una misura particolare e mutevole. Lo stesso esser-nascosto dell’ente è possibile solo nel dominio di questo illuminato. Ogni ente che incontriamo e che ci accompagna sottostà a questa singolare natura oppositoria dell’esserpresente, poiché nel contempo si ritira nel nascondimento. L’illuminazione in cui l’ente si mantiene è parimenti un nascondimento [Verbergung] [...] Il luogo aperto nel mezzo dell’ente, l’illuminazione, non è mai uno scenario immobile, a sipario costantemente sollevato, in cui si svolge la rappresentazione dell’ente. L’illuminazione ha invece luogo soltanto nell’ambito di questo duplice nascondimento”. Riprendendo un tema già affrontato nel saggio L’essenza della verità, del 1930, Heidegger sostiene dunque che occorre pensare la verità come apertura e svelamento e, al tempo stesso, come oscurità e nascondimento, ossia come “non-verità”: “L’essenza della verità, cioè il nonesser-nascosto, è pervasa da un diniego. Questo diniego non è affatto una mancanza o un difetto, come se la verità fosse un semplice nonnascondimento liberatosi da ogni impaccio. Se ciò fosse possibile, il nonesser-nascosto non sarebbe più se stesso. É all’essenza stessa della verità come non-esser-nascosto che questo diniego appartiene nella forma del duplice nascondimento. La verità, nella sua essenza stessa, è non-verità”. Se da un lato la coppia Mondo-Terra può essere intesa come modo per contestare la concezione metafisica della verità come presenza ed evidenza, mostrando la costitutiva compresenza di svelamento e nascondimento, dall’altro la dinamica tra questi due termini - dinamica descritta da Heidegger anche come “contrapposizione” e “lotta originaria” mostra che ogni opera, nel momento stesso in cui apre un mondo, offrendo una totalità comprensibile di significati e una nuova prospettiva sull’ente, mantiene in sé una riserva di significato mai definitivamente esplicitabile. L’opera è, costitutivamente, un darsi e un ritrarsi, e il porsi in opera della verità che in essa accade deve essere inteso come un’instaurazione (Stiftung) che è al tempo stesso “fondazione” e “donazione”, dono libero e immotivato ma proveniente da un orizzonte che rimane costitutivamente non

esplicitato. A questa dinamica dell’apparire e del nascondimento Heidegger riconduce poi la stessa nozione di bellezza: “Ponendosi in opera, la verità appare. L’apparire, in quanto apparire di questo essere-in-opera e in quanto opera, è la bellezza. Il bello rientra pertanto nel farsi evento nella verità”. Nell’ultima sezione del saggio, intitolata “Verità e arte”, ai temi fin qui esaminati se ne aggiunge un altro: il ruolo del linguaggio nel porsi in opera della verità. Già in Essere e tempo il linguaggio occupava una posizione peculiare, in quanto, come segno e come rimando, rendeva manifesta la stessa struttura ontologica dell’essere-nel-mondo dell’uomo. Ora esso si presenta come il modo stesso di aprirsi della verità dell’ente. Come scrive Heidegger, “La verità, come illuminazione e nascondimento dell’ente, si storicizza se viene poetata [gedichtet]. Ogni arte, in quanto lascia che si storicizzi l’avvento della verità dell’ente come tale, è nella sua essenza Poesia [Dichtung]”. Nel parlare di poesia, Heidegger opera una distinzione tra Dichtung - dal verbo dichten, che significa “poetare” ma anche “creare”, “inventare”, “escogitare” - e Poesie, intesa come arte della parola e genere letterario. Sulla base di questa distinzione, ogni opera d’arte, non solo la poesia, è essenzialmente Dichtung, ossia creazione e istituzione del nuovo, apertura di un mondo. E poiché l’apertura di un mondo accade innanzitutto e fondamentalmente nel linguaggio, il linguaggio stesso, nel suo “senso essenziale”, è Dichtung: “Abitualmente il linguaggio è inteso come una specie di comunicazione. Serve alla conservazione e all’accordo, cioè, in genere, alla comprensione interumana. Ma il linguaggio non è soltanto e in primo luogo l’espressione orale e scritta di ciò che deve essere comunicato. Esso non si limita a trasmettere in parole e frasi ciò che è già rivelato o nascosto, ma, per prima cosa, porta nell’Aperto l’ente in quanto ente. Là dove non ha luogo linguaggio di sorta, come nell’essere della pietra, della pianta e dell’animale, non ha neppur luogo alcun aprimento dell’ente e quindi nessun aprimento del non-essente e del vuoto. Il linguaggio, nominando l’ente, per la prima volta lo fa accedere alla parola e all’apparizione”. Il tema della valenza ontologica del linguaggio e della poesia come evento e come “istituzione in parola dell’essere”, “nominare che istituisce l’essere e l’essenza di tutte le cose”, annunciato nell’ultima parte del saggio sull’opera d’arte, diventerà sempre più centrale nella riflessione heideggeriana successiva, a cominciare dal testo della conferenza su Hölderlin e l’essenza della poesia, per proseguire con i saggi raccolti nel

volume In cammino verso il linguaggio (1959). Le pagine che seguono sono tratte da M. Heidegger, “L’origine dell’opera d’arte”, in Sentieri interrotti, tr. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968: pp. 3-9, 11-25. Di Heidegger si vedano anche: Corpo e Spazio. Osservazioni su artescultura-spazio, tr. it. a cura di F. Bolino, Il Melangolo, Genova 2000; “Hölderlin e l’essenza della poesia”, in La poesia di Hölderlin, a cura di F.W. von Herrmann, tr. it. a cura di L. Amoroso, Milano, Adelphi 1988, pp. 3958; In cammino verso il linguaggio, tr. it. a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1990; Parte e lo spazio, prefazione di G. Vattimo, tr. it. a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1995. Per approfondire: J. Bleicher, L'ermeneutica contemporanea, tr. it. il Mulino, Bologna 1986; P. Chiodi, “L’estetica di M. Heidegger”, in Il pensiero critico, 9-10 (1954); J. Derrida, La verità in pittura, tr. it. Newton Compton, Roma 1981; M. Ferraris, “Estetica, ermeneutica, epistemologia”, in S. Givone, Storia dell’estetica, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 175-221; Id., Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988; H.-G. Gadamer, Inattualità del bello. Saggi di estetica ermeneutica, tr. it. Marietti, Genova 1986; Id., “La verità dell’opera d’arte”, in I sentieri di Heidegger, tr. it. Marietti, Genova 1987; Id., Scritti di estetica, tr. it. Aesthetica, Palermo 2002; Id., Verità e metodo, tr. it. Bompiani, Milano 1987, in particolare pp. 168-179 (“La valenza ontologica dell’immagine”); S. Givone, Ermeneutica e romanticismo, Laterza, Bari 1983; T. Griffero, M. Ferraris e F. Vercellone, Il pensiero ermeneutico, testi e materiali a cura di M. Ravera, presentazione di G. Vattimo, Marietti, Genova 1986; M. Guerri (a cura di), Le arti nell’età della tecnica, Mimesis, Milano 2001; O. Pöggeler, Il cammino di pensiero di M. Heidegger, tr. it. Guida, Napoli 1991; G. Vattimo, Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l'ermeneutica, Feltrinelli, Milano 1984; Id., Essere, storia e lingmggio in Heidegger, Marietti, Genova 1989; Id., Introduzione a Heidegger, Laterza, Roma-Bari 1982; Id., Poesia e ontologia, Mursia, Milano 1967; F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger: ermeneutica, fenomenologia, esistenzialismo, ontologia, teologia, estetica, etica, tecnica, nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1997; J. Wahl, La pensée de Heidegger et la poésie de Hölderlin, Tournier et Constans, Paris 1952.

Origine significa, qui, ciò da cui e per cui una cosa è ciò che è ed è come è. Ciò che qualcosa è essendo così com’è, lo chiamiamo la sua essenza. L’origine di qualcosa è la provenienza della sua essenza. Il problema dell’origine dell’opera d’arte concerne la provenienza della sua essenza. Secondo il modo comune di vedere, l’opera nasce dall’attività e in virtù dell’attività dell’artista. Ma in virtù di che cosa e a partire da che cosa l’artista è ciò che è? In virtù della sua opera. Che un’opera faccia onore a un artista significa infatti: solo l’opera fa dell’artista un maestro dell’arte. L’artista è l’origine dell’opera. L’opera è l’origine dell’artista. Nessuno dei due sta senza l’altro. Tuttavia nessuno dei due, da solo, è in grado di produrre l’altro. Artista ed opera sono ciò che sono, in sé e nei loro reciproci rapporti, in base ad una terza cosa, che è in realtà la prima, e cioè in virtù di ciò da cui tanto l’artista quanto l’opera d’arte traggono il loro stesso nome, in virtù dell’arte. Così necessariamente come l’artista è l’origine dell’opera in un modo diverso da quello in cui l’opera è l’origine dell’artista, altrettanto necessariamente l’arte costituisce, in un modo diverso ancora, l’origine, ad un tempo, e dell’artista e dell’opera. Ma è dunque possibile che l’arte costituisca un’origine? Dove e in qual modo sussiste l’arte? L’arte è ormai solo più una parola a cui non corrisponde nulla di reale. Non si tratta che di una rappresentazione unitaria in cui facciamo rientrare ciò che l’arte include ancora di reale: l’opera e l’artista. Ma anche nel caso che l’arte fosse qualcosa di più di una semplice rappresentazione unitaria, ciò che viene inteso con tale parola potrebbe esser ciò che è solo sul fondamento della realtà in atto delle opere e degli artisti. O le cose stanno al contrario? C’è l’opera e c’è l’artista solo in quanto c’è l’arte come loro origine? Qualunque risposta si dia a questi interrogativi, il problema dell’origine dell’opera d’arte assume la forma di problema dell’essenza dell’arte. Ma poiché deve restare impregiudicato se e come l’arte in generale sia, cercheremo di rintracciare l’essenza dell’arte là dove l’arte domina

indubitabilmente reale. L’arte si trova nell’opera d’arte. Ma che cos’è un’opera d’arte? Solo l’opera ci può dire che cosa sia l’arte. Si potrà osservare che ci andiamo muovendo in un circolo vizioso. L’intelletto comune esige che si esca da questo circolo, contrario alla logica. Tale intelletto pretende che si ricavi la comprensione dell’essenza dell’arte da un’analisi comparativa delle opere d’arte, viste nella loro semplice-presenza [Vorhandenheit]. Ma un’indagine di questo genere come potrà esser certa di basarsi su autentiche opere d’arte, quando non sa ancora in cosa consiste l’essenza dell’arte? Ma se è impossibile a raggiungersi per questa strada, l’essenza dell’arte non è neppure deducibile da concetti generali. Infatti anche una deduzione di questo genere non può non presupporre come acquisite le determinazioni costitutive di ciò che deve esser assunto come opera d’arte. [...] Dobbiamo quindi muoverci nel circolo. Ma non si tratta né di un ripiego, né di un difetto. Nel percorrere questo cammino sta la forza del pensiero, e nel non uscire da esso la sua festa, posto che il pensiero sia un mestiere. Non fa circolo soltanto il passo decisivo dall’opera all’arte - in quanto passo dall’arte all’opera -, ma ognuno dei passi che arrischiamo fa circolo in questo circolo. Per rintracciare l’essenza dell’arte, che risiede realmente nell’opera, ci indirizzeremo verso un’opera concreta per chiedere ad essa che cosa e come essa sia. Tutti conoscono opere d’arte. Edifici e monumenti artistici ornano le piazze, opere d’arte si trovano nelle chiese e nelle case. Nelle collezioni e nelle esposizioni sono ospitate opere d’arte di diverse epoche e paesi. Se guardiamo le opere nella loro realtà immediata e senza preconcetti, si fa chiaro che esse si trovano lì dinanzi nella loro semplicepresenza né più né meno delle cose. Il quadro pende dalla parete allo stesso modo di un fucile da caccia o di un cappello. Un quadro, ad esempio quello di Van Gogh che rappresenta un paio di scarpe da contadino, passa da una esposizione all’altra. [...] Tutte le opere hanno questo carattere di cosa [dinghaft]. Che sarebbero senza di esso? Ma forse ci arrestiamo di fronte a un carattere dell’opera troppo grossolano ed estrinseco. [...] Noi dobbiamo prendere le opere quali appaiono a coloro che le vivono e ne godono. Ma anche la tanto invocata immedesimazione estetica nell’opera non potrà mai prescindere dal carattere di cosa che inerisce all’opera. [...] Il

carattere di cosa è talmente radicato nell’opera d’arte che noi, addirittura, capovolgiamo queste affermazioni dicendo: l’edificio è in pietra, la scultura lignea è in legno, il quadro è in colore, il poema in parole, la musica in note. Bisogna guardarsi dalle evidenze grossolane. Certo. Ma che cos’è questo carattere di cosa così potentemente presente nell’opera d’arte? O si tratterà di un problema secondario e ingannevole, visto che l’opera è qualcos’altro, al di sopra e al di là della cosalità? Quest’altro, è ciò che costituisce l’artistico. L’opera d’arte è, sì, una cosa fabbricata, ma dice anche qualcos’altro oltre la pura cosa: άλλο αγορεύει. L’opera d’arte rende noto qualcos’altro, rivela qualcos’altro: è allegoria. Alla cosa fabbricata l’opera d’arte riunisce anche qualcos’altro. Riunire si dice in greco συμβάλλειν. L’opera d’arte è simbolo. Allegoria e simbolo costituiscono il campo entro cui si muove, già da tempo, la caratterizzazione dell’opera d’arte. Ma questo qualcosa che manifesta nell’opera qualcos’altro, che si riunisce a qualcos’altro, è proprio la cosità dell’opera d’arte. Sembra quasi che la cosità nell’opera d’arte sia una specie di basamento in cui e su cui poggia l’altro, l’autentico. Ma non è proprio questo esser-cosa dell’opera ciò che l’artista fa nel suo operare? Ciò che ci proponiamo è di incontrare la realtà immediata e piena dell’opera d’arte; è solo così, infatti, che nell’opera possiamo rintracciare l’arte nella sua realtà. Dobbiamo quindi incominciare col porre in chiaro la cosità dell’opera. Ma a tal fine è necessario sapere chiaramente che cosa significa “cosa”. Solo a questo patto ci sarà possibile stabilire se l’opera d’arte è una cosa a cui inerisce anche qualcos’altro, oppure se è alcunché di completamente diverso da una cosa; e quindi in nessun caso una cosa. Cosa e opera

Che cos’è, in verità, una cosa perché sia una cosa? Ponendo questa domanda miriamo a stabilire l’esser-cosa (la cosità) della cosa. Bisogna cogliere il carattere di cosa della cosa. Al qual fine è necessario conoscere la regione in cui rientra ogni ente che diciamo cosa. La pietra nella strada è una cosa, la zolla del campo è una cosa. Sono cose il boccale e la fontana lungo la strada. Che dire poi del latte nel boccale e dell’acqua nella fontana? Anche queste sono cose, come lo sono la nuvola in cielo, il cardo nel campo, la foglia al vento d’autunno e lo sparviero in

volo sulla foresta. Tutto questo dev’essere infatti detto cosa, se viene designato con lo stesso nome anche ciò che, a differenza delle cose suddette, non si manifesta, e perciò non appare. Una cosa che non appare, cioè una “cosa in sé”, è, ad esempio, secondo Kant, il mondo nella sua totalità, e perfino Dio. Cose in sé e cose che appaiono - tutti gli enti in generale - sono detti, nel linguaggio filosofico, cose. [...] In generale il termine “cosa” indica tutto ciò che non è il mero nulla. Pertanto anche l’opera d’arte è una cosa, per il fatto di differenziarsi dal nulla. Ma questo concetto di cosa non ci offre aiuto alcuno, immediatamente almeno, in vista del nostro compito, e cioè della differenziazione del modo di essere della cosa dal modo di essere dell’opera. Ci ripugna inoltre designare Dio come cosa; e anche definire cosa il contadino nel campo, il fuochista dinanzi alla caldaia, il maestro nella scuola. L’uomo non è una cosa. [...] Siamo anche perplessi a chiamar cosa il capriolo nella radura, lo scarabeo fra l’erba, lo stelo. Sono cose, piuttosto, il martello e la scarpa, la scure e l’orologio. Ma anche qui non si tratta di mere cose. Tali sembrano essere solo la pietra, la zolla, un pezzo di legno: l’inanimato della natura e dell’uso. In questo senso si parla abitualmente di cose di natura e di cose d’uso. Dal più ampio dominio in cui tutto è cosa (cosa res = ens = ente), comprese le supreme e ultime, siamo così sospinti verso il ristretto dominio delle mere cose. “Mero” significa, qui, per un verso: la pura cosa, quella che è semplicemente cosa e null’altro. Ma “mero” significa anche: “soltanto più cosa”, in un significato prossimo al peggiorativo. Le mere cose, con esclusione delle stesse cose d’uso, valgono come le vere e proprie cose. In che consiste il carattere di cosa di queste cose? È da esse che dobbiamo muovere per determinare la cosità delle cose. Tale determinazione ci porrà in grado di individuare l’essenza del carattere di cosa. Saremo allora in grado di muovere alla ricerca di quella realtà dell’opera in cui consiste quel qualcos’altro oltre alla cosa di cui abbiamo parlato. È risaputo che, fin dall’Antichità, quando fu posto il problema intorno alla natura dell’ente, le cose, nella loro cosità, s’imposero come l’ente paradigmatico. È dunque nelle interpretazioni tradizionali dell’ente che dovremo cercare la determinazione della cosità delle cose. Non avremo quindi che da esaminare le dottrine tradizionali intorno all’ente, senza doverci impegnare in una ricerca particolare, per raggiungere la determinazione del carattere di cosa della cosa. Le risposte al problema circa

la natura delle cose sono talmente familiari che non si sospetta più che in esse si nasconda qualcosa di problematico. Le interpretazioni della cosità delle cose, predominanti nel corso del pensiero occidentale e divenute in esso ovvie e di impiego abituale, si possono ridurre a tre. Una mera cosa è, ad esempio, questo blocco di granito. È duro, pesante, esteso, massivo, informe, ruvido, colorato, in parte opaco e in parte rilucente. Tutto ciò è riscontrabile nella pietra. Ne conosciamo così i tratti caratteristici. Ma questi tratti caratteristici non fanno che indicare ciò che appartiene alla pietra. Sono le sue proprietà. La cosa le possiede. La cosa? A che pensiamo in questo momento dicendo “cosa”? Evidentemente la cosa non è la semplice riunione delle sue caratteristiche, e neppure il sommarsi delle proprietà da cui soltanto risulterebbe l’insieme. La cosa, come ognuno crede di sapere, è ciò intorno a cui le proprietà si raccolgono. Si parla così del nocciolo della cosa. I Greci lo intesero come τò υποκείμενον. Questo nocciolo della cosa era per loro ciò che sta nel fondo e che precede ogni determinazione. Le caratteristiche sono invece τα συμβεβηκόχα, ciò che, nei singoli noccioli, è già sempre incluso, e quindi si presenta sempre con essi. Queste denominazioni non sono casuali. In esse parla - cosa che qui non c’è più bisogno di dimostrare - la sperimentazione fondamentale dell’essere dell’ente da parte dei Greci. In queste determinazioni trova fondamento la successiva interpretazione della cosità delle cose e in esse si fonda l’interpretazione occidentale dell’essere dell’ente. Questa incomincia con l’assunzione dei termini greci nel pensiero romano-latino; υποκείμενον diviene subjectum, ύπόστασις diviene substantia; συμβεβηκός diviene accidens. Questa traduzione latina dei termini greci non è per nulla quel processo “innocuo” che è ancor oggi ritenuto. Dietro questa traduzione letterale, e quindi apparentemente garantita, si nasconde invece il tradursi [übersetzen] in un modo di pensare diverso dalla sperimentazione greca dell’essere. Il pensiero romano assume i termini greci senza la corrispondente sperimentazione cooriginaria di ciò che essi dicono, senza la parola greca. La mancanza di base del pensiero occidentale incomincia proprio con questo genere di traduzione. La determinazione della cosità della cosa come sostanza degli accidenti, sembra corrispondere alla nostra concezione naturale delle cose. Niente di strano quindi che questa concezione abituale della cosa abbia fatto da norma

anche al comportamento verso la cosa, e cioè alla chiamata in questione della cosa e al parlare intorno ad essa. La proposizione più elementare consiste di un soggetto - che è la traduzione latina di υποκείμενον (e, come tale, la sua reinterpretazione latina) - e di un predicato, che enuncia le caratteristiche della cosa. Chi potrebbe mai pensare di porre in dubbio questi rapporti fondamentali fra cosa e proposizione, fra costituzione della proposizione e costituzione della cosa? Ma noi non possiamo far a meno di chiederci: la costituzione della proposizione semplice (la connessione fra soggetto e predicato) è il rispecchiamento della costituzione della cosa (l’unione di sostanza ed accidenti)? Oppure la costituzione della cosa così rappresentata, è progettata in base alla struttura della proposizione? [...] In ciò che la vista, l’udito e il tatto apportano, nella sensazione dei colori, dei suoni, della ruvidezza, della durezza, le cose ci investono, alla lettera, nel nostro corpo. La cosa è αίσθητόν, ciò che, attraverso le sensazioni, è percepito dai sensi della sensibilità. Diviene così abituale considerare la cosa semplicemente come l’unità d’un molteplice di dati sensibili. Non cambia nulla in questa concezione il fatto che l’unità venga concepita come somma, o come totalità, o come forma. Questa interpretazione della cosità della cosa è esatta e comprovabile non meno della precedente. Il che basta già a far dubitare della sua verità. Se riflettiamo infatti con attenzione su ciò di cui andiamo alla ricerca, anche questa soluzione ci lascerà perplessi. La sua pretesa, infatti, che nella manifestazione delle cose noi incominciamo col percepire, innanzitutto e propriamente, un presentarsi di sensazioni - ad esempio di suoni e di rumori - è priva di fondamento. Ciò che udiamo è la tempesta che sibila nel camino, il rombo del trimotore, la Mercedes nella sua evidente diversità dalla Adler. Ciò che ci è più vicino non sono le sensazioni, ma le cose stesse. In casa udiamo sbattere la porta, e non udiamo mai sensazioni acustiche o anche solo semplici rumori. Per poter udire un semplice rumore dobbiamo non udire le cose, distogliere da loro il nostro orecchio, cioè ascoltare astrattamente. Il concetto di cosa che stiamo esaminando non consiste tanto in una sopraffazione della cosa, quanto nel tentativo esagerato di portarcela vicina nella massima immediatezza. Ma la cosa continuerà a sfuggirci finché

ci chiuderemo nel tentativo di risolvere il suo carattere di cosa in ciò che è percepito dalle sensazioni. Mentre la prima interpretazione della cosa, in certo modo, ce l’allontana troppo, rendendocela totalmente estranea, la seconda la rende troppo incombente e incalzante. Nell’uno come nell’altro caso, la cosa dilegua. È quindi opportuno evitare ambedue gli eccessi. Occorre far sì che la cosa riposi in se stessa, e si faccia innanzi nel suo riposare in se stessa. È ciò che sembra fare la terza interpretazione, che è vecchia quanto le precedenti. Ciò che installa la cosa nella sua persistenza e nel suo nocciolo e, ad un tempo, determina la modalità della sua presentazione sensibile (colore, suono, durezza, massività) è l’elemento materiale della cosa. In questa determinazione della cosa come materia (ΰλη) è già compresa anche la forma (μορφή). L’elemento costitutivo della cosà, la sua consistenza, sta nell’unione di una materia con una forma [Form], La cosa è materia formata. Questa interpretazione della cosa si rifà all’immediatezza visiva attraverso cui la cosa ci si presenta nel suo aspetto (είδος). Con la sintesi di materia e forma è finalmente trovato un concetto di cosa ugualmente valido per le cose di natura e per quelle d’uso. Questo concetto di cosa pone in grado di rispondere al problema del carattere di cosa dell’opera d’arte. Ciò che nell’opera d’arte ha il carattere di cosa è, evidentemente, la materia di cui l’opera consiste. La materia è la base e il campo della formazione artistica. Ma questa concezione così chiara e nota non avrebbe potuto essere subito proposta? Perché far un giro tanto lungo per giungere a una posizione comunemente ammessa? Perché diffidiamo anche di questa concezione della cosa come materia formata. Ma la coppia di concetti materia-forma non è forse la più adatta al campo in cui ci stiamo muovendo? Certamente. La distinzione di materia e forma, nei suoi ruoli più diversi, è proprio lo schema concettuale classico di ogni teoria dell’arte e di ogni estetica. Ma questo fatto incontestabile non dimostra che la distinzione di materia e forma sia sufficientemente fondata, né che essa, originariamente, appartenga al dominio dell’arte e dell’opera d’arte. Inoltre il campo di validità anche di questa coppia di concetti oltrepassa già da tempo ed ampiamente l’estetica. Forma e contenuto sono concetti onnicomprensivi, a cui tutto e ogni cosa è riconducibile. Se poi la forma viene connessa al razionale e la materia all’irrazionale, facendo coincidere il razionale col logico e l’irrazionale con

l’illogico, e se la coppia forma-materia viene connessa alla relazione soggetto-oggetto, allora il gioco disporrà di un meccanismo concettuale a cui nulla può più contrastare. Stando così le cose, quale aiuto ci potrà dare la distinzione di materia e forma nella determinazione della mera cosa rispetto al resto dell’ente? Forse l’utilizzazione della distinzione materia-forma sarà possibile se porremo rimedio all’ampliamento e allo svuotamento di questi concetti. Certamente. Ma ciò presuppone l’individuazione del dominio dell’ente in cui essi possono ottenere la loro capacità determinativa. Che questo sia il dominio della mera cosa, resta finora una semplice assunzione. Certamente il fruttuoso impiego di questa coppia concettuale nell’estetica potrebbe far pensare che materia e forma siano determinazioni derivate dall’essenza dell’opera d’arte, successivamente trasferite nel dominio della cosa. Ma dov’è che il plesso materia-forma trova la sua origine? Nel carattere di cosa della cosa o nel carattere di opera dell’opera? Un blocco di granito riposante in se stesso è qualcosa di materiale, con una forma determinata, benché non predisposta. In questo caso “forma” significa una disposizione spazio-locale ed un ordinamento delle particelle di materia da cui consegue un determinato contorno, e precisamente quello del blocco. È però materia che possiede una forma anche la brocca, anche la scure, anche la scarpa. Ma qui la forma, in quanto contorno, non consegue da una disposizione della materia. È la forma, al contrario, che determina l’ordinamento della materia. Non solo, ma la forma implica anche la qualità e la scelta della materia: impermeabile per la brocca, sufficientemente dura per la scure, resistente e tuttavia morbida per le scarpe. L’unione di materia e forma che qui si riscontra è, sin dal principio, regolata da ciò a cui brocca, scure e scarpe debbono servire. Questa usabilità non è aggiunta e attribuita in un secondo momento agli enti suddetti. Essa non è neppure qualcosa come un fine che ondeggi qua o là sopra di essi. Essa è invece quel tratto fondamentale in base a cui questo ente ci si presenta, ci sta davanti e in tal modo ci è-presente [an-west], essendo così l’ente che è. In questa usabilità si fondano tanto il genere di forma quanto la scelta della materia adatta, e con ciò il predominio della connessione di materia e forma. L’ente che sottostà ad esso è sempre il prodotto di una fabbricazione diretta all’approntamento di un mezzo per qualcosa. Materia e forma, quali determinazioni dell’ente, ineriscono quindi all’essere del mezzo. Questo

termine denota ciò che è stato prodotto per l’uso e per la fruizione. Materia e forma non sono mai determinazioni originarie della cosità della mera cosa. Il mezzo (le scarpe, ad esempio), una volta approntato, riposa in se stesso come la mera cosa; ma non possiede, come il blocco di granito, il carattere dell’esser sorto da sé. Infatti il mezzo ha in comune con l’opera d’arte il fatto d’esser frutto di un’attività umana. D’altra parte, però, l’opera d’arte, in virtù dell’autosufficienza del suo esser-presente, assomiglia piuttosto alla mera cosa nel suo esser sorta da sé e nel suo non essere costretta a nulla. Ciononostante non annoveriamo le opere fra le mere cose. In generale sono le cose d’uso che ci circondano quelle che noi consideriamo le cose più immediate ed autentiche. Quindi il mezzo è per metà cosa, perché determinato dalla cosità, con qualcosa in più; nel contempo è per metà opera d’arte, con qualcosa in meno, mancando dell’autosufficienza dell’opera d’arte. Il mezzo ha una singolare posizione intermedia fra cosa e opera, posto che sia lecito questo genere di esamecomparativo. Il complesso materia-forma, che determina inizialmente l’essere del mezzo, si offre facilmente come il modello della costituzione di ogni ente, poiché vi prende parte l’uomo stesso come fabbricante, cioè quanto al modo del venir all’essere del mezzo. Poiché il mezzo si colloca in una posizione intermedia fra la mera cosa e l’opera, diviene facile applicare l’essere del mezzo (la connessione di forma e materia) anche all’ente che non ha il carattere di mezzo - cose ed opere - e infine a ogni altro ente in generale. La tendenza a intendere la costituzione di ogni essere nel quadro di materiaforma, riceve poi un’altra notevole spinta dal fatto che si tende a concepire il tutto dell’ente come ente creato (cioè, qui, fabbricato), per effetto di una particolare fede, la biblica. La filosofia propria di questa fede ha un bell’insistere sul fatto che l’azione creatrice di Dio va intesa in un modo del tutto diverso dall’oprare umano. Ma se, tuttavia, e sin dall’inizio, in virtù della predestinazione della filosofia tomistica a interprete della Bibbia, l’ens creatum viene pensato in base all’unità di materia e forma, allora la fede sarà chiarita nell’ambito di una filosofia la cui verità riposa in un non-esser-nascosto [Unverborgenheit] dell’ente che è di genere del tutto diverso da quello del mondo creduto nella fede. Il concetto di creazione fondato nella fede può anche perdere la sua forza direttiva nei confronti della conoscenza dell’ente nel suo insieme.

Tuttavia la ormai diffusa interpretazione teologica dell’ente, ricavata da una filosofia estranea, cioè dalla visione del mondo basata sullo schema di materia e forma, può continuare a valere. Ciò è visibile nel passaggio dal Medioevo al Mondo Moderno. La metafisica di quest’ultimo riposa, come quella medioevale, sulla connessione forma-materia che solo più verbalmente ricorda l’essenza dimenticata di είδος e ΰλη. In tal modo l’interpretazione della cosa secondo lo schema materia-forma, medioevalmente o trascendentalmente (kantianamente) concepito, diviene abituale ed ovvia. Così anche questa interpretazione della cosità della cosa è, non meno delle altre, una sopraffazione dell’esser-cosa della cosa. [...] Le tre maniere esaminate di determinare la natura della cosa la concepiscono rispettivamente come portatrice di accidenti, come unità della molteplicità delle sensazioni e come materia formata. Nel corso della storia della verità dell’ente, le suddette interpretazioni si sono talvolta mescolate fra di loro; ma non è il caso di parlarne. In queste contaminazioni la loro estensione astratta si è sempre più accentuata, al punto di farle valere indifferentemente per la cosa, il mezzo e l’opera. Ne conseguì quel modo di vedere in base al quale pensiamo non solo la cosa, il mezzo e l’opera in particolare, ma ogni altro ente in genere. Questo modo di vedere, divenuto abituale da tempo, anticipa ogni autentica e immediata sperimentazione dell’ente. Ne consegue che il concetto predominante di cosa ci sbarra la via alla determinazione del carattere di cosa della cosa, come, del resto, al carattere di mezzo del mezzo e di opera dell’opera. [...] Che la cosità della cosa si manifesti con grande difficoltà ed assai raramente è provato inconfutabilmente dalla storia delle sue interpretazioni testé tratteggiata. Questa storia è connessa al destino in base al quale il pensiero occidentale in generale ha pensato sinora l’essere dell’ente. Ma non dobbiamo limitarci a questa semplice constatazione. In questa storia vediamo anche un avvertimento. È forse a caso che nell’interpretazione della cosità della cosa ha assunto un rango predominante lo schema materia-forma? Questa determinazione della cosa deriva da un’interpretazione dell’esser-mezzo del mezzo. Il mezzo è particolarmente vicino al modo di vedere dell’uomo, perché trae il suo essere dall’attività umana. Questo ente, il mezzo, a noi così familiare nel suo essere, possiede anche una caratteristica posizione intermedia fra la cosa e l’opera. Facciamo

tesoro di questo avvertimento e incominciamo con l’indagare l’esser-mezzo del mezzo. Poi ci sarà forse possibile procedere oltre, verso la determinazione dell’esser-cosa della cosa e dell’esser-opera dell’opera. Dobbiamo però guardarci dal considerare avventatamente la cosa e l’opera come sottospecie del mezzo. Prescinderemo inoltre dalla possibilità che nel modo in cui il mezzo è tale abbiano luogo differenze storiche fondamentali. Qual è la via che conduce all’esser-mezzo del mezzo? In qual modo possiamo accedere a ciò che il mezzo è in verità? Il procedimento che si rende a tal fine necessario deve guardarsi con cura dal cadere in quei forzamenti che caratterizzano le interpretazioni abituali. Ci potremo garantire da questo pericolo se incominceremo con la semplice descrizione di un mezzo qualsiasi, senza teorie filosofiche. Consideriamo, a titolo di esempio, un mezzo assai comune: un paio di scarpe da contadino. Per descriverle non occorre affatto averne un paio sotto gli occhi. Tutti sanno cosa sono. Ma poiché si tratta di una descrizione immediata, può esser utile facilitare la visione sensibile. A tal fine può bastare una rappresentazione figurativa. Scegliamo, ad esempio, un quadro di Van Gogh, che ha ripetutamente dipinto questo mezzo. Che c’è in esso da vedere? Ognuno sa come son fatte le scarpe. Se non si tratta di calzature di legno o di corda, hanno la suola di cuoio e la tomaia unita alla suola con cuciture e chiodi. Questo mezzo serve da calzatura. Col variare dell’uso lavoro nei campi o danza - variano la forma e la materia. Queste considerazioni abbastanza banali non fanno che chiarire ciò che già sappiamo. L’esser-mezzo del mezzo consiste nella sua usabilità. Ma che ne è di quest’ultima? Con essa afferriamo anche l’esser-mezzo del mezzo? A tal fine non dovremo considerare il mezzo usato nell’atto del suo impiego? La contadina calza le scarpe nel campo. Solo qui esse sono ciò che sono. Ed esse sono tanto più ciò che sono quanto meno la contadina, lavorando, pensa alle scarpe o le vede o le sente. Essa è in piedi e cammina in esse. Ecco come le scarpe servono realmente. È nel corso di questo uso concreto del mezzo che è effettivamente possibile incontrarne il carattere di mezzo. Fin che noi ci limitiamo a rappresentarci un paio di scarpe in generale o osserviamo in un quadro le scarpe vuotamente presenti nel loro nonimpiego, non saremo mai in grado di cogliere ciò che, in verità, è l’essermezzo del mezzo. Nel quadro di Van Gogh non potremmo mai stabilire dove si trovino quelle scarpe. Intorno a quel paio di scarpe da contadino non c’è

nulla di cui potrebbero far parte, c’è solo uno spazio indeterminato. Grumi di terra dei solchi o dei viottoli non vi sono appiccati, denunciandone almeno l’impiego. Un paio di scarpe da contadino e null’altro. Ma tuttavia... Nell’orificio oscuro dall’interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell’umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’annuncio della nascita, l’angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce. Da questo appartenere custodito, il mezzo si immedesima nel suo riposare in se stesso. Ma forse tutto ciò non lo vediamo che noi nel quadro. La contadina, invece, porta semplicemente le sue scarpe. Se almeno questo “semplice portare” fosse davvero semplice! Quando, alla sera, la contadina, stanca ma lieta, si toglie le scarpe; o quando, al primo mattino, le ricalza; oppure, quando in un giorno di festa le smette, essa sa tutto questo senza bisogno di osservazioni o di considerazioni. L’esser mezzo del mezzo consiste certamente nella sua usabilità. Ma questa a sua volta riposa nella pienezza dell’essere essenziale del mezzo. Questo essere è da noi indicato col termine fidatezza [Verlässigkeit]. In virtù sua la contadina confida, attraverso il mezzo, nel tacito richiamo della terra; in virtù della fidatezza del mezzo essa è certa del suo mondo. Mondo e terra ci sono per lei, e per tutti coloro che sono con lei nel medesimo modo, solo così: nel mezzo. Diciamo “solo” ed in realtà erriamo, poiché la fidatezza del mezzo dà al mondo immediato la sua stabilità e garantisce alla terra la libertà del suo afflusso costante. L’esser-mezzo del mezzo, la fidatezza, tiene unite tutte le cose secondo il loro modo e la loro ampiezza. L’usabilità del mezzo non è che la conseguenza essenziale della fidatezza. Quella vibra in questo, e senza di esso sarebbe nulla. Il singolo mezzo viene consumato e logorato; ma anche l’usare incappa nel frattempo nell’usura, si ottunde e diviene comune. Così lo stesso esser-mezzo si corrompe e decade a mero mezzo. Questa devastazione dell’esser-mezzo è il dileguare della fidatezza. Il deperimento a

cui le cose d’uso debbono la loro noiosa ed importuna abitualità non è che un segno dell’essenza originaria dell’esser-mezzo. La banale abitudinarietà del mezzo si fa allora innanzi come il modo di essere unico ed esclusivo del mezzo. Di visibile non resta che la piatta usabilità. Essa porta con sé l’illusione che l’origine del mezzo consista nella semplice fabbricazione che impone una forma a una materia. Invece il mezzo, nel suo esser tale, risale ben oltre. Materia, forma, e la loro distinzione, hanno esse stesse un’origine assai più lontana. Il riposo del mezzo riposante in se stesso, consiste nella fidatezza. È in esso che possiamo vedere che cosa il mezzo sia in verità. Tuttavia non sappiamo ancora nulla di ciò che cercavamo in principio, e precisamente dell’essere cosa della cosa; e meno ancora sappiamo di ciò che in ultima analisi andiamo cercando, cioè l'esser opera dell’opera nel senso dell’opera d’arte. O abbiamo forse, inavvertitamente e, per così dire di passaggio, intravisto qualcosa intorno all’esser opera dell’opera. Ciò che abbiamo potuto stabilire è l'esser-mezzo del mezzo. Ma come? Non mediante la descrizione e l'analisi di un paio di scarpe qui presenti. Non mediante l’osservazione dei procedimenti di fabbricazione delle scarpe, e neppure mediante l’osservazione di un qualche uso di calzature. Ma semplicemente ponendoci innanzi a un quadro di Van Gogh. È il quadro che ha parlato. Stando nella vicinanza dell’opera, ci siamo trovati improvvisamente in una dimensione diversa da quella in cui comunemente siamo. L’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità. Sarebbe un errore esiziale quello di credere che la nostra descrizione, con procedimento soggettivo, abbia immaginato tutto ciò, attribuendolo poi a un oggetto. Se qui c’è qualcosa di discutibile è solo la nostra scarsa capacità di esperire l’opera d’arte e di esprimere l’esperito. Ma prima di tutto bisogna rendersi conto che, contro ogni apparenza iniziale, l’opera non ci è semplicemente servita ad una migliore comprensione di ciò che il mezzo è. Al contrario, è solo nell’opera e attraverso di essa che viene alla luce l'essermezzo del mezzo. Che significa ciò? Che cos’è in opera nell’opera? Il quadro di Van Gogh è l’aprimento di ciò che il mezzo, il paio di scarpe, è [ist] in verità. Questo ente si presenta nel non-nascondimento [Unverborgenheit] del suo essere. Il non-esser-nascosto dell’ente è ciò che i Greci chiamavano αλήθεια. Noi

diciamo: “verità”, e non riflettiamo sufficientemente su questa parola. Se ciò che si realizza è l'aprimento dell’ente in ciò che esso è e nel come è, nell’opera è in opera l’evento [Geschehen] della verità. Nell’opera d’arte la verità dell’ente si è posta in opera. “Porre” significa qui: portare a stare. In virtù dell’opera, un ente, un paio di scarpe, viene a stare nella luce del suo essere. L’essere dell’ente giunge alla stabilità del suo apparire. L’essenza dell’arte consisterebbe quindi nel porsi in opera della verità dell’ente. Ma finora l’arte non ha forse avuto a che fare solo col bello e la bellezza, e non con la verità? Quelle arti che producono queste opere sono infatti dette - a differenza delle arti pratiche - belle arti. Ma nelle belle arti non è l’arte ad esser bella: esse prendono questo nome perché producono il bello. La verità, al contrario, rientra nella logica. La bellezza è invece riservata all’estetica. O magari, con l’affermazione che l’arte sia il porsi in opera della verità, si vorrà far risuscitare quell’antiquata opinione secondo cui l’arte consiste nell’imitare e nel copiare la realtà? La riproduzione della realtà semplicemente-presente richiede infatti la corrispondenza con l’ente, la commisurazione ad esso. Adaequatio dice il Medioevo; όμοίωσις diceva già Aristotele. Corrispondenza con l’ente, già da molto tempo, equivale a verità. Ma crediamo veramente che nel quadro di Van Gogh si ritrae la semplicepresenza di un paio di scarpe e che esso è un’opera d’arte perché l’intento è riuscito? Pensiamo forse che il quadro assume una copia del reale e la presenta come un prodotto della produzione artistica? Per nulla. Se l’opera non consiste nella riproduzione degli enti singoli che ci stanno innanzi, consisterà forse nella riproduzione dell’essenza universale delle cose? Ma dov’è e com’è questa essenza universale con cui l’opera d’arte dovrebbe concordare? Con l’essenza di quale cosa dovrebbe concordare un tempio greco? Chi avrà il coraggio di sostenere che nell’edificio del tempio è espressa l’idea del tempio in generale? Ma tuttavia in quest’opera, se è veramente tale, è posta in opera la verità. Pensiamo all’inno di Hölderlin Il Reno. Che mai si offriva al poeta che potesse esser riprodotto nella poesia? Ma, concesso che in questo, come in altri casi analoghi, la concezione che pone un rapporto descrittivo fra il reale e l’opera d’arte non regga, sembra tuttavia che un’opera d’arte come Fontana romana di C.F. Meyer confermi in pieno la tesi che l’opera non fa che

riprodurre: Alto va lo zampillo e, ricadendo, ricolma la marmorea coppa, che, velandosi, trabocca in altra coppa. Questa, troppo ricolma, offre a un’altra il suo ondeggiante flusso; e ognuna accoglie e dona, scorre e sta.

In realtà, non si tratta né della riproduzione poetica di una fontana realmente esistente, né della rappresentazione dell’essenza universale di una fontana romana. Ma la verità è posta in opera. Quale verità si fa evento storico nell’opera? Può la verità in genere farsi storia ed essere così storica? Non si dice forse che la verità è qualcosa di atemporale e di ultratemporale? Andiamo alla ricerca della realtà dell’opera d’arte e lo facciamo con l’intento di trovare realmente l’arte che vi si cela. Come realtà più prossima dell’opera ci si è offerta la cosità che la sorregge. Ma per la comprensione di questa cosità sono apparsi inadeguati i concetti tradizionali di cosa. Essi infatti si lasciano sfuggire il carattere di cosa della cosa. Il concetto di cosa predominante, la cosa come materia formata, è apparso ricavato non già dall’essenza della cosa, ma dall’essenza del mezzo. Si è inoltre constatato che l’essere del mezzo si è da tempo arrogato un particolare primato nell’interpretazione dell’ente in generale. Questo primato, finora non sufficientemente tenuto in conto, ci obbligò a porre su nuove basi il problema della natura del mezzo, al fine di non cadere nelle interpretazioni abituali. Che cosa sia il mezzo ci fu possibile stabilirlo in virtù di un’opera. È così venuto in chiaro, quasi di soppiatto, ciò che nell’opera è in opera: l’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità. Ma se la realtà dell’opera non può esser determinata che attraverso ciò che nell’opera è in opera, come staranno le cose per quanto concerne il nostro assunto iniziale: la determinazione della realtà dell’opera d’arte? Eravamo fuori strada fin che presumevamo di rintracciare la realtà dell’opera d’arte nel suo supporto cosale. Ci troviamo così di fronte a un esito inatteso delle nostre riflessioni, se questo può esser definito un esito. Due cose sono apparse chiare: Da un lato: gli strumenti per comprendere il carattere di cosa dell’opera

(i concetti di cosa predominanti) sono apparsi inadeguati. Dall’altro: ciò che presumevamo di poter assumere come più prossima realtà dell’opera, il basamento cosale, non rientra, a questo modo, nell’opera d’arte. Se non si tien conto di quanto sopra, si finisce per vedere nell’opera un mezzo a cui viene aggiunta una sovrastruttura che dovrebbe portare con sé “l’artistico”. Ma l’opera non è affatto un mezzo fornito aggiuntivamente di un valore estetico. L’opera non è qualcosa di simile, così come la mera cosa non è affatto una cosa a cui manchino i caratteri del mezzo, cioè l’usabilità e la fabbricazione. La nostra impostazione del problema dell’opera è andata a pezzi perché non era diretta con vigore verso l’essenza dell’opera, ma ondeggiava fra cosa e mezzo. In realtà non si tratta di un’impostazione nostra. È l’impostazione caratteristica dell’estetica. Il modo in cui questa considera sin dall’inizio l’opera d’arte è sotto l’influsso dell’interpretazione tradizionale dell’ente come tale. Ma il ripudio di questa impostazione tradizionale non è l’essenziale. Ciò che conta più di tutto è il primo aprirsi di una prospettiva secondo cui è possibile accedere al carattere di opera dell’opera, al carattere di mezzo del mezzo e al carattere di cosa della cosa solo se ci impegniamo a pensare l’essere dell’ente. Al qual fine è necessario che crollino le barriere dell’ovvio [selbstverständlich] e che siano messi da parte i falsi concetti abituali. Perciò dovemmo fare un lungo giro. Ora siamo finalmente sulla via che può condurre alla determinazione della cosalità dell’opera. Il carattere di cosa dell’opera non può esser negato; ma esso, proprio in quanto rientrante nell’esser opera dell’opera, dev’esser concepito in base al carattere di opera dell’opera. In conseguenza di ciò, il procedimento che mira alla determinazione della realtà cosale dell’opera non andrà dalla cosa all’opera, ma, al contrario, dall’opera alla cosa. L’opera d’arte apre, a suo modo, l’essere dell’ente. Nell’opera ha luogo questa apertura, cioè lo svelamento, cioè la verità dell’ente. Nell’opera d’arte è posta in opera la verità dell’ente. L’arte è il porsi in opera della verità. Che cos’è dunque la verità perché si realizzi temporalmente come arte? Che cos’è questo porsi in opera?

Maurice Merleau-Ponty Pittura e ontologia della visione

Nel saggio Il filosofo e la sua ombra, Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) affronta il problema del suo debito nei confronti del pensiero husserliano, e scrive: “La tradizione è oblio delle origini, diceva l’ultimo Husserl. Ed effettivamente, se dobbiamo molto allo stesso Husserl, non siamo in grado di vedere esattamente ciò che gli appartiene”. L’intero percorso filosofico di Merleau-Ponty è caratterizzato da un continuo confronto con alcuni grandi temi della fenomenologia husserliana - lo statuto della percezione, della visione, del corpo proprio, dell’esperienza preriflessiva -, ripresi nell’interrogazione della pittura attraverso il confronto con l’opera di Paul Cézanne (1839-1906) che anima l’ultimo saggio da lui pubblicato, L'occhio e lo spirito (L’Œil et l’Esprit, 1960). Questo testo si colloca al termine di un percorso di pensiero iniziato con La struttura del comportamento (1942) e proseguito con la pubblicazione della Fenomenologia della percezione (1945) e delle raccolte di saggi Senso e non senso (1948) e Segni (1960), e si pone in stretta relazione con le note di lavoro degli ultimi anni, pubblicate postume nel 1964 da Claude Lefort nel volume intitolato Il visibile e l’invisibile (1964). Nel tentativo di chiarire il modo in cui la riflessione di Merleau-Ponty sulla visione e la pittura si inserisce nel quadro del pensiero fenomenologico, cominceremo con l’esporre sinteticamente le osservazioni di Edmund Husserl (1859-1938) sul rapporto tra estetica e fenomenologia e sullo statuto dell’immagine. Sebbene il progetto fenomenologico husserliano si sia progressivamente definito come edificazione di una scienza dei fondamenti capace di descrivere le strutture del mondo fenomenico e gli atti soggettivi che le costituiscono, assegnando così un ruolo centrale all’analisi delle dinamiche estetiche della percezione e della sensibilità, Husserl non ha mai

dedicato un’attenzione specifica al problema dell’arte. Gli unici suoi contributi in questo senso sono costituiti da un manoscritto del 1906-1907, Aesthetik und Phänomenologie, dove critica le interpretazioni psicologistiche e soggettivistiche dell’opera d’arte proprie di autori come Theodor Lipps (1851-1914), e da una breve lettera al poeta Hugo von Hofmannsthal (1874-1929), scritta nel 1907. In entrambi i testi Husserl sottolinea le analogie tra metodo fenomenologico e atteggiamento estetico, accomunati dal fatto che l’atteggiamento “naturale” e “ingenuo” nei confronti delle cose e il nostro coinvolgimento irriflesso - di volta in volta conoscitivo, emotivo o pragmatico - nei confronti del mondo vengono sospesi, messi tra parentesi. Il metodo fenomenologico presuppone la sospensione di ogni presa di posizione irriflessa nei confronti del mondo (epoche) per ricondurre le cose al loro darsi fenomenico nella sfera di una soggettività pura, trascendentale, costitutiva, intesa come puro “sguardo” (Schauen) che coglie intuitivamente e descrive strutture, somiglianze e differenze. Ma anche l’atteggiamento puramente estetico si basa sulla sospensione di ogni assunzione di esistenza relativa alle cose: “Le cose che ci stanno qui davanti sensibilmente, le cose di cui parlano i discorsi comune e scientifico, le vediamo come realtà, e su queste visioni d’esistenza [Existenzsehungen] si fondano atti del sentire e del volere: gioia che questo è, dolore che quello non è, desiderio che ciò possa essere, e così via (prese di posizione esistenziali, cioè, dell’animo): il contrario di quanto accade nell’atteggiamento spirituale della intuizione puramente estetica e della situazione del sentire ad essa corrispondente. Ma il contrario, anche, e con non minor ragione, di quanto accade nell’atteggiamento puramente fenomenologico, al cui interno soltanto i problemi filosofici possono venire risolti. Perché anche il metodo fenomenologico esige che venga rigorosamente messa fuori circuito ogni presa di posizione esistenziale. Soprattutto nella critica della conoscenza”. La differenza fra atteggiamento estetico dell’artista e atteggiamento fenomenologico del filosofo risiede invece nella diversa motivazione che sta dietro l'epoché: se da un lato il puro vedere del fenomenologo mira a “penetrare il senso del fenomeno del mondo e ad afferrarlo in concetti”, quello dell’artista è “un vedere per godere esteticamente”, che intende appropriarsi intuitivamente del mondo “per raccogliere da ciò abbondanza di forme, materiali per creative formazioni

estetiche”. A partire da queste brevi ma suggestive osservazioni di Husserl, prende avvio una corrente di studi di estetica fenomenologica che si richiama proprio all’analogia tra atteggiamento estetico e atteggiamento fenomenologico, e ai due momenti chiave della riduzione degli oggetti a puri fenomeni che si danno alla coscienza nello spazio puro della soggettività trascendentale, e alla descrizione degli atti con cui questa stessa coscienza intenziona, prende di mira e costituisce i fenomeni stessi. Autori come Waldemar Conrad (1878-1915), Moritz Geiger (1880-1937) o Roman Ingarden (1893-1970) descrivono l’evento estetico come fenomeno per eccellenza, come pura e significativa presenza di fronte a un soggetto, a cui questo si rapporta con il piacere, il sentimento, la partecipazione sensibileemotiva, e propongono l’estetica fenomenologica come uno stile di ricerca che dovunque mira a evidenziare tratti caratterizzanti, costanti, differenze strutturali tra i fenomeni estetici presi in esame. Nel lavoro forse più noto di questa corrente, la fenomenologia dell’opera letteraria (1931) di Ingarden, il testo letterario è affrontato come oggetto intenzionale - nel duplice senso che a esso è essenziale sia l’intenzione del creatore di fornirgli significato, sia l’intenzione del fruitore di decifrare tale significato - e descritto nella sua stratificazione, distinguendo tra strato fonico, strato dei significati delle parole e delle frasi, strato degli oggetti denotati e strato delle apparenze di tali oggetti. Su un altro versante, il tema husserliano dell’analogia tra atteggiamento estetico e atteggiamento fenomenologico nel comune ricorso all'epoché, ossia alla sospensione delle assunzioni esistenziali nei confronti dei contenuti presi in considerazione, si rivela determinante per lo sviluppo della riflessione fenomenologica sulla natura dell’immagine. A differenza delle immagini percettive, in cui l’oggetto appare come “esso stesso presente”, “in carne e ossa” o, per così dire, “in persona”, nelle immagini della fantasia o in quelle rappresentative fissate su supporti materiali concretamente esistenti (quadri, disegni, incisioni, ecc.) l’oggetto ci appare “come se” ci fosse, “in immagine”, in quella sospensione di ogni credenza relativa alla sua esistenza o effettiva collocazione spazio-temporale che Husserl chiama “modificazione di neutralità”. Nel § 111 del primo volume di Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica Husserl riassume la sua riflessione sullo statuto dell’immagine e sulla coscienza che

la intenziona con una celebre analisi dell’incisione di Albrecht Dürer dal titolo Il cavaliere, la morte e il diavolo. In questo testo Husserl distingue tra la percezione dell’immagine come cosa fisica, nella sua materialità di incisione su un supporto, e la coscienza d’immagine con cui le linee che costituiscono l’incisione vengono “attraversate” in direzione di ciò che è raffigurato: “La coscienza dell’‘immagine’ che procura e rende possibile la raffigurazione (cioè la coscienza delle piccole figure grigie, in cui [...] si ‘presenta in maniera raffigurativa’, in virtù della somiglianza, un’altra cosa) è un esempio di modificazione di neutralità della percezione. Questo obiectum-immagine che raffigura qualcos’altro non sta dinanzi a noi né come esistente né come non esistente né in qualunque altra modalità posizionale; o piuttosto, è dato alla coscienza come esistente, ma come esistente-percosì-dire, sottoposto alla modificazione di neutralità dell’essere”. In quanto caratterizzata dalla sospensione delle posizioni d’essere dell’oggetto intenzionato, l’immaginazione - ossia l’attività di coscienza capace di presentificare, rendere presenti le immagini - assume un importante ruolo conoscitivo nella fenomenologia husserliana. Considerare un oggetto in immagine significa potersi distanziare dalla determinatezza del darsi percettivo dell’oggetto stesso e variarne le vedute, i profili, le prospettive. L’immagine finisce così per favorire attività cognitive specifiche che differiscono sia dalla percezione sia dall’intellezione: moltiplicando le prospettive a partire dalle quali è intenzionato l’oggetto, la coscienza riesce a superare i vincoli della percezione (a cui spetta comunque un primato in quanto incontro in carne e ossa con il fenomeno) e ad aprirsi al più chiaro coglimento dell’essenza del fenomeno intenzionato, da un lato, e alla dimensione della possibilità e del “come se” dall’altro. Il legame tra immaginazione, neutralizzazione e possibilità viene radicalizzato da Jean-Paul Sartre (1905-1980) in L'imaginaire (1940), un testo che costituisce uno dei principali punti di riferimento, spesso polemico, per il pensiero di Merleau-Ponty. Sartre distingue nettamente tra percezione e immaginazione: attribuisce alla prima la capacità di connettersi con la datità delle cose nel mondo, e alla seconda un radicale potere di nientifcazione, di annullamento dei suoi contenuti. Nella coscienza immaginativa l’oggetto è posto come non-esistente, e in questo modo il soggetto perviene a divincolarsi dalla datità del mondo esterno, sospendendolo e negandolo nella sua posizione d’esistenza e aprendosi al possibile e all'irreale. Come

vedremo, nelle sue linee fondamentali, la riflessione di Merleau-Ponty si sviluppa in una direzione opposta a quella di Sartre, in quanto non considera l’immagine come il momento della nientificazione bensì come il luogo in cui si concretizza esemplarmente la relazione percettiva e corporea tra io e mondo e, nell’ultima fase della sua riflessione, come l’apertura della possibilità di un accesso alla dimensione ontologica della visione e della sensibilità. Sebbene segnata anche da un confronto con il pensiero di Heidegger, l’opera di Merleau-Ponty non rinnega mai la propria provenienza husserliana, in particolare per quanto riguarda il riconoscimento della centralità del problema della percezione e l’esigenza, propria dell’ultimo Husserl, di ricondurre l’insieme delle scienze oggettive al loro fondamento nella concretezza del mondo della vita (Lebenswelt). In ha crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (pubblicata postuma nel 1954) Husserl parte dalla constatazione della sostanziale estraneità delle scienze oggettive rispetto al concreto mondo storico della vita soggettiva. Al fine di riscoprire questo fondamento comune di ogni prassi e di ogni forma di attività teoretica umana è necessario, secondo Husserl, operare “una epoché nei confronti di tutte le scienze oggettive”, ossia un’astensione “nei confronti di tutti gli interessi teoretici obiettivi, nei confronti di tutte le finalità e le azioni che assumiamo e compiamo in quanto scienziati o anche soltanto in quanto uomini avidi di sapere”. Solo in questo modo è possibile attingere il piano di quel “regno di evidenze originarie” che è il piano della Lebenswelt, “il mondo-ambiente realmente concreto, la realtà vera e propria in cui viviamo, il terreno e orizzonte già sempre datoci, esistente in anticipo, per ogni prassi, teoretica ed extrateoretica”, un mondo che esiste pur non essendo normalmente oggetto della nostra attenzione e riflessione. Il riferimento alla tematica husserliana della Lebenswelt è fondamentale per comprendere lo sviluppo del pensiero di Merleau-Ponty e il suo approdo a un’ontologia del sensibile. Sin da La struttura del comportamento e dalla Fenomenologia della percezione, al centro della riflessione merleau-pontyana vi è infatti il tema della percezione, intesa non come puro sguardo capace di descrivere essenze e strutture fenomeniche ma piuttosto come esperienza primordiale dell’uomo, sfondo ultimo dal quale si staccano i suoi atti e il suo sapere. Soggetto della percezione non è tanto un ego trascendentale che opera la riduzione per attingere un piano di datità fenomenica pura, quanto

un corpo agente e senziente, animato da un’intenzionalità irriflessa e precategoriale. Il cardine su cui si incentra l’interpretazione della corporeità come soggetto della percezione è la distinzione husserliana tra il corpo proprio o vivo (Leib) - ossia il corpo “in carne ed ossa”, vivente e vissuto in prima persona - e il corpo oggettivo (Körper), corpo rappresentato e ridotto a cosa. La fenomenologia della percezione delineata da Merleau-Ponty mostra una percezione radicata nel corpo vivente, costantemente orientata in modo prospettico e strutturata da diverse forme di motivazione. In quest’ottica, la coscienza rappresentativa e la riflessione non sono che momenti delimitati di una vita esperienziale dominata da una viva corporeità sensibile e agente. Al di sotto del cogito riflesso, ossia dell’io che si articola nel linguaggio razionale, giace un cogito tacito, silenzioso, preverbale e precategoriale, inscritto nel corpo e dotato di una capacità simbolico-espressiva che risiede nel tradursi spontaneo di un senso nell’altro e nella gestualità che accompagna il situarsi dell’io nel mondo concreto. La prima riflessione di Merleau-Ponty sulla pittura di Cézanne, esposta nel saggio Il dubbio di Cézanne, nasce proprio sullo sfondo dei temi delineati da Fenomenologia della percezione e identifica nella pittura la forma più pregnante con cui si esplicita il linguaggio tacito del corpo vissuto. Il segreto della pittura sta nel suo riferirsi al corpo come apertura e veicolo dell’essere al mondo, e nella sua capacità di dischiudere il mondo della vita e la genesi del senso che vi ha luogo: “Cézanne non ha creduto di dover scegliere tra sensazione e pensiero come tra caos e ordine. Non vuole separare le cose fisse che appaiono sotto il nostro sguardo e la loro labile maniera di apparire, vuole dipingere la materia che si sta dando una forma, l’ordine nascente attraverso un’organizzazione spontanea. Non introduce la frattura tra i ‘sensi’ e l’‘intelligenza’, ma tra l’ordine spontaneo delle cose percepite e l’ordine umano delle idee e delle scienze. Noi percepiamo le cose, ci intendiamo su di esse, siamo ancorati ad esse e solo su queste fondamenta di ‘natura’ costruiamo delle scienze. Cézanne ha voluto dipingere questo mondo primordiale, ed ecco perché i suoi quadri danno l’impressione della natura alla sua origine, mentre le fotografie dei medesimi paesaggi suggeriscono i lavori degli uomini, le loro comodità e la loro presenza imminente”. L’espressione pittorica è capacità di “ritornare, per prenderne coscienza, al fondamento d’esperienza muta e solitaria sul quale sono edificate la cultura e lo scambio delle idee” L’arte non è

imitazione, bensì è “un’operazione d’espressione” con cui “il pittore riprende e converte appunto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita separata da ogni coscienza: la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose”. In L'occhio e lo spirito l’accento cade sulla dimensione ontologica della pittura, e non più sulla pittura come espressione della soggettività corporea dell’artista e come prolungamento, seppure creativo, del gesto corporeo. Vengono in primo piano i grandi temi poi confluiti nel testo incompiuto pubblicato con il titolo Il visibile e l’invisibile; il passaggio da una fenomenologia come indagine trascendentale a un'ontologia fenomenologica che cerca di attingere il senso dell’Essere in una sensibilità originaria, diffusa e de-soggettivata detta carne (chair), o, ancora, la centralità della visione in quanto capace di rivelare l’intreccio e la reversibilità tra io e mondo, soggetto e oggetto, vedente e visibile. Il saggio si apre con una critica all’atteggiamento delle scienze moderne, che nascono da un pensiero che manipola le cose e le riduce, attraverso la costruzione di modelli, a “oggetti in generale”, anziché abitarle nella loro concretezza e opacità. Contro questa scienza che si rapporta al mondo come “pensiero di sorvolo [pensée de survol]”, Merleau-Ponty afferma l’esigenza di ricondurre il pensiero all’“Essere effettuale presente”, a quel “c’è” o “si dà [il y a]” che è originaria coappartenenza di io e mondo mediata dal corpo. Solo l’arte, e in particolare la pittura, è ancora capace di attingere a questo “strato di senso bruto [nappe de sens brut]”, e lo fa proprio evidenziando la genesi corporea dell’immagine. Il corpo di cui parla Merleau-Ponty è “un fascio di funzioni, un intreccio [entrelacs] di visione e movimento”, un corpo enigmatico e paradossale in quanto al tempo stesso vedente e visibile: “Guarda ogni cosa, ma può anche guardarsi, e riconoscere in ciò che allora vede ‘l’altra faccia’ della sua potenza visiva. Si vede vedente, si tocca toccante, è visibile e sensibile per se stesso”. È dunque un corpo preso nel tessuto del mondo, caratterizzato dall'intreccio o chiasmo - termine derivante dalla retorica antica e indicante un’inversione o rovesciamento nel rapporto fra termini appartenenti a versi contigui - tra senziente e sentito: “Siamo in presenza di un corpo umano quando, fra vedente e visibile, fra chi tocca e chi è toccato, fra un occhio e l’altro, fra una mano e un’altra mano, avviene una sorta di reincrociarsi [recroisement]”. L’immagine cui dà luogo la pittura non è quindi da intendersi come

copia, ricalco, ri-presentazione del rappresentato, bensì è un’immagine che “non celebra mai altro enigma che quello della visibilità”, che si apre sulla trama dell’Essere. Un’immagine che è sì somigliante, ma nel senso di “una similitudine efficace, che è genitrice, genesi, metamorfosi dell’Essere nella visione del pittore”. Il pittore non ricerca altro che il farsi della visibilità, il dispiegarsi del senso nel visibile, e al tempo stesso porta alla manifestazione quella visibilità diffusa in cui si annullano le differenze tra vedente e visibile, tra chi dipinge e chi è dipinto. Di qui l’emblematicità dello specchio come luogo in cui il vedente si scopre guardato e l’io si sdoppia nell’altro. Nella terza parte del saggio, Merleau-Ponty si confronta infine con la teoria della visione proposta da Cartesio nella Diottrica, dove la visione è ricondotta a un modello proiettivo geometrico (tramite l’analogia con la proiezione prospettica delle immagini nella camera oscura) e le immagini percettive sono considerate alla stregua di segni arbitrari nel loro rapporto con le idee nel pensiero. Opporsi a questa interpretazione geometrica e meccanicistica della visione significa, per Merleau-Ponty, opporsi a ogni forma di pensiero rappresentativo e “di sorvolo” in cui va persa la capacità delle immagini di esprimere la coappartenenza di corpo e mondo. Ciò che deve ricercare il pittore non è tanto l’artificialità di una prospettiva geometrica statica e meccanica, quanto la vita del visibile, il “mistero di passività” che lo anima dall’interno. Le pagine che seguono sono tratte da M. Merleau-Ponty, “L’occhio e lo spirito”, in Id., Il corpo vissuto, tr. it. a cura di Franco Fergnani, il Saggiatore, Milano 1979: pp. 206-214,228-230. Di Merleau-Ponty si vedano anche: “Il dubbio di Cézanne”, in Senso e non senso, introduzione di E. Paci, tr. it. a cura di P. Caruso, il Saggiatore, Milano 1962, pp. 27-44; “Il filosofo e la sua ombra”, in Segni, tr. it. a cura di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1967, pp. 211-238; Il visibile e l’invisibile, tr. it. a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 1993; Linguaggio, storia, natura: corsi al Collège de France 1952-1961, tr. it. a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 1995; La natura: lezioni al Collège de France 1956-1960, tr. it. a cura di M. Carbone, Raffaello Cortina, Milano 1996. Cocchio e lo spirito è disponibile anche nella tr. it. a cura di A. Ordini, postfazione di C. Lefort, SE, Milano 1989.

Per approfondire: R. Barbaras, De l’être du phénomène, Millon, Grenoble 2001; R. Bernet, I. Kern e E. Marbach, Edmund Husserl, tr. it. il Mulino, Bologna 1992; M. Carbone, Ai confini dell’esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust, Guerini, Milano 1990; Id., Il sensibile e l’eccedente: mondo estetico, arte, pensiero, Guerini, Milano 1996; Id., La visibilité de l’invisible: Merleau-Ponty entre Cézanne et Proust, Olms, Hildesheim 2001; W. Conrad, L’oggetto estetico, tr. it. Liviana, Padova 1972; V. Costa, L’estetica trascendentale fenomenologica, Vita e Pensiero, Milano 1999; V. Costa, E. Franzini e P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002; R. Descartes, La diottrica, in Opere scientifiche, vol. 2: Discorso sul metodo, La diottrica, Le meteore, La geometria, tr. it. UTET, Torino 1983; M. Dufrenne, Estetica e filosofia, tr. it. Marietti, Genova 1989, in particolare il saggio “L’occhio e lo spirito”, pp. 25-30; E. Franzini, L'estetica francese del ’900: analisi delle teorie, Unicopli, Milano 1984; P. Gambazzi, Cocchio e il suo inconscio, Raffaello Cortina, Milano 1999; M. Geiger, La fruizione estetica, tr. it. Liviana, Padova 1973; Id., Lo spettatore dilettante, tr. it. Centro internazionale studi di estetica, Palermo 1988; E. Husserl, “Estetica e fenomenologia”, tr. it. e commento in S. Zecchi, La magia dei saggi, Jaca Book, Milano 1984, pp. 111-127; Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, introduzione di E. Franzini, tr. it. Einaudi, Torino 2002, vol. I, in particolare parr. 109-112 (pp. 269-276); Id., “Lettera a Hoffmannstahl”, tr. it. in Fenomenologia e scienze dell’uomo, 2 (1985), pp. 203-207; R.W. Ingarden, Fenomenologia dell’opera letteraria, tr. it. Silva, Milano 1968; S. Mancini, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione, Franco Angeli, Milano 1987; G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza. Saggio di filosofia fenomenologica, il Saggiatore, Milano 1979; A. Pinotti (a cura di), Filosofia e pittura nel novecento, Guerini, Milano 1998; J.-P. Sartre, li immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, tr. it. Bompiani, Milano 1962; Id., Immagine e coscienza. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, tr. it. Einaudi, Torino 1976; G. Scaramuzza (a cura di), La fenomenologia e le arti, Cuem, Milano 1991; Id., Oggetto e conoscenza: contributi allo studio dell’estetica fenomenologica, Unipress, Padova 1989; S. Zecchi, “Questioni preliminari di estetica fenomenologica”, in La magia dei saggi, cit.

Il pittore “si dà con il suo corpo”, dice Valéry. Effettivamente, non si riesce a immaginare come uno Spirito potrebbe dipingere. È prestando il suo corpo al mondo che il pittore trasforma il mondo in pittura. Per comprendere questa transustanziazione, bisogna ritrovare il corpo operante e attuale, che non è una porzione di spazio o un fascio di funzioni, ma un intreccio di visione e di movimento. Basta che io veda qualcosa, per saperla anche raggiungere ed afferrare, anche se non so come ciò avvenga nella macchina nervosa. Il mio corpo mobile rientra nel mondo visibile, ne fa parte, ecco perché posso dirigerlo nel visibile. D’altra parte è vero anche che la visione dipende dal movimento: vediamo solamente quello che guardiamo. Che cosa sarebbe la visione senza il movimento degli occhi? E come potrebbe questo movimento non confondere le cose, se fosse lui stesso riflesso o cieco, se non avesse le sue antenne, la sua chiaroveggenza, se la visione non vi fosse già prefigurata? Per principio, tutti i miei spostamenti figurano in un angolo del mio paesaggio, sono riportati sulla mappa del visibile. Tutto ciò che vedo è per principio alla mia portata, per lo meno alla portata del mio sguardo, segnato sulla mappa dell'“io posso” Ciascuna delle due mappe è completa: il mondo visibile e quello dei miei progetti motori sono parti totali del medesimo essere. Questo straordinario sconfinamento, al quale non si presta abbastanza attenzione, impedisce di concepire la visione come un’operazione del pensiero che innalzerebbe davanti allo spirito un quadro o una rappresentazione del mondo, un mondo dell’immanenza e dell’idealità. Immerso nel visibile mediante il suo corpo, anch’esso visibile, il vedente non si appropria di ciò che vede: l’accosta soltanto con lo sguardo, “dà” sul mondo. E dal canto suo questo mondo, di cui il vedente fa parte, non è in sé o materia. Il mio movimento non è una decisione dello spirito, un fare assoluto che stabilirebbe, dal fondo di una soggettività ritiratasi in se stessa, qualche mutamento di luogo poi eseguito miracolosamente nell’estensione. Il mio movimento è il proseguimento naturale e la maturazione di una visione. Io dico che una cosa è mossa, ma il mio corpo si muove, il mio

movimento si dispiega; non avviene nell’ignoranza di sé, non è cieco a se stesso, s’irradia da un sé... L’enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile: guarda ogni cosa ma può anche guardarsi, e riconoscere in ciò che allora vede “l’altra faccia” del suo potere visivo. Si vede vedente, si tocca toccante, è visibile e sensibile per se medesimo. Il mio corpo è un sé, non per trasparenza come il pensiero, che può pensare una cosa solo assimilandola, costituendola, trasformandola in pensiero, bensì un sé per confusione, narcisismo, inerenza di colui che vede a ciò che è visto, di colui che tocca al toccato, del senziente al sentito - dunque un sé che è preso nelle cose, che ha una faccia e un dorso, un passato ed un avvenire... Questo primo paradosso ne produce altri. Visibile e mobile, il mio corpo è annoverabile fra le cose, è una di esse, è preso nel tessuto del mondo e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si muove, tiene le cose in cerchio intorno a sé, le cose sono un annesso o un prolungamento del corpo, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione: il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo. Questi capovolgimenti e antinomie sono modi diversi di dire che la visione è presa, o si fa, nel mezzo delle cose - cioè là dove un visibile incomincia a vedere e diventa visibile per se stesso e grazie alla visione di tutte le cose, là dove persiste, come l’acqua madre nel cristallo, l’indivisa comunione del senziente e del sentito. Quest’interiorità non precede la composizione materiale del corpo umano, ma neppure ne è il risultato. Se i nostri occhi fossero fatti in modo che nessuna parte del nostro corpo potesse cadere sotto il nostro sguardo, o se un maligno meccanismo, pur lasciandoci liberi di muovere le mani sulle cose, ci impedisse di toccare il nostro corpo - o semplicemente se, come certi animali, avessimo occhi laterali, senza intersezione dei campi visivi - allora questo corpo che non si rifletterebbe né si sentirebbe, questo corpo quasi adamantino che non sarebbe completamente carne, non sarebbe neanche un corpo d’uomo, e non esisterebbe umanità. E tuttavia l’umanità non è il prodotto delle nostre articolazioni, dell’impianto dei nostri occhi (ed ancor meno dell’esistenza degli specchi, che pure sono gli unici a rendere visibile per noi il nostro corpo intero). La semplice somma di queste circostanze e di altre simili - senza le quali, pure, non esisterebbe l’uomo - non può far esistere effettivamente neanche un solo uomo. L’animazione del corpo non

è la giustapposizione delle sue parti, - né consiste d’altronde nella discesa in un automa di uno spirito venuto dal di fuori: il che presupporrebbe ancora che il corpo non abbia un didentro e un “sé”. Siamo in presenza di un corpo umano quando, fra vedente e visibile, fra toccante e toccato, fra un occhio e l’altro, fra una mano e l’altra, avviene una sorta di reincrocio, quando si accende la scintilla del senziente-sensibile, quando si accende questo fuoco, che non cesserà di bruciare finché un accidente corporeo disferà quel che nessun accidente avrebbe potuto fare... Una volta dato questo strano sistema di scambi, si pongono contemporaneamente tutti i problemi della pittura. Essi illustrano l’enigma del corpo, e tale enigma li giustifica. Poiché le cose e il mio corpo son fatti della medesima stoffa, bisogna che la visione si faccia in qualche modo in esse, o, ancora, che la visibilità manifesta delle cose si accompagni in lui ad una visibilità segreta: “la natura è all’interno”, dice Cézanne. Qualità, luce, colore, profondità, che sono laggiù davanti a noi, sono là soltanto perché risvegliano un’eco nel nostro corpo, perché esso li accoglie. Non potrebbe questo equivalente interno, questa formula carnale della loro presenza che le cose suscitano in me, suscitare a sua volta un tracciato visibile, in cui ogni altro sguardo riconoscerebbe i motivi che sostengono la sua ispezione del mondo? Apparirebbe in tal caso un visibile al quadrato, essenza carnale o icona del primo. E non si tratta di una copia sbiadita, di un “trompe-l'œil”, di un’altra cosa. Gli animali dipinti sulla parete di Lascaux non sono lì come è lì la crepa o il rigonfiamento del calcare. Ma non sono neanche altrove. Un po’ avanti, un po’ indietro, sostenuti dalla massa della parete di cui abilmente si servono, s’irradiano intorno ad essa senza mai mollare il loro inafferrabile ormeggio. Sarebbe ben difficile dire dove è il quadro che sto guardando. Giacché non lo guardo come si guarda una cosa, non lo fisso al suo posto, il mio sguardo erra in lui come nei nimbi dell’Essere. Più che vedere il quadro, io vedo secondo o con esso. La parola immagine ha una cattiva fama perché si è creduto sconsideratamente che un disegno fosse un ricalco, una copia, una seconda cosa, e che l’immagine mentale fosse un disegno di questo genere nel nostro bazar privato. Ma se in effetti l’immagine mentale non è niente di simile, allora neanche il disegno e il quadro fanno parte dell’in sé. Essi sono il didentro del difuori e il difuori del didentro, che la duplicità del sentire rende possibili, e senza i quali non si comprenderanno mai la quasi-presenza

e la visibilità imminente che costituiscono tutto il problema dell’immaginario. Il quadro, la mimica del commediante, non sono strumenti ausiliari presi in prestito dal mondo vero per indicare, attraverso di loro, cose prosaiche assenti. L’immaginario è molto più vicino e insieme molto più lontano dal fattuale. Più vicino poiché è il diagramma della sua vita nel mio corpo, la sua polpa, il suo risvolto carnale per la prima volta esposto agli sguardi; in tal senso, come dice efficacemente Giacometti,1 “Ciò che mi interessa in tutti i dipinti è la rassomiglianza, vale a dire quel che per me è la rassomiglianza: ciò che mi fa scoprire un po’ il mondo esterno”. Molto più lontano, perché il quadro è un analogo solo secondo il corpo, non offre allo spirito un’occasione di ripensare i rapporti costitutivi delle cose, ma offre piuttosto allo sguardo, affinché esso le sposi, le tracce della visione del didentro, e alla visione ciò che la fodera interiormente, la struttura immaginaria del reale. Diremo allora che c’è uno sguardo del didentro, un terzo occhio che vede i quadri ed anche le immagini mentali, così come si è parlato di un terzo orecchio che coglie i messaggi dell’esterno attraverso il rumore che sollevano in noi? Ipotesi inutile, poiché tutta la questione consiste nel comprendere che i nostri occhi di carne sono già molto più che ricettori dei raggi luminosi, dei colori e delle linee: sono computers del mondo, che hanno il dono del visibile così come si dice che l’uomo ispirato ha il dono delle lingue. Naturalmente questo dono si conquista con l’esercizio, e non è in qualche mese, e neppure nella solitudine, che il pittore entra in possesso della sua visione. Ma non è questo il problema: precoce o tardiva, spontanea o coltivata nei musei, la visione del pittore impara solo vedendo, impara solo da se stessa. L’occhio vede il mondo, vede ciò che manca al mondo per esser quadro e ciò che manca al quadro per essere se stesso; vede sulla tavolozza il colore che il quadro attende, vede, una volta compiuto, il quadro che risponde a tutte queste mancanze, e vede infine i quadri degli altri, altre risposte ad altre mancanze. Non si può fare un inventario limitativo del visibile, così come non si possono catalogare gli usi possibili di una lingua, o anche solo il suo vocabolario e le sue costruzioni. Strumento che si muove da sé, mezzo che s’inventa i suoi fini, l’occhio è ciò che è stato toccato da un certo impatto con il mondo, e lo restituisce al visibile mediante i segni tracciati dalla mano. Da Lascaux ai giorni nostri, in qualsiasi civiltà

nasca, di qualsiasi credenza, motivazione, pensiero o cerimonia si circondi, pura o impura, figurativa o no, la pittura, anche quando sembra destinata ad altri scopi, non celebra mai altro enigma che quello della visibilità. Ciò che ho appena detto si risolve in un truismo: il mondo del pittore è un mondo visibile e nient’altro che visibile, un mondo quasi folle, perché è completo e parziale nello stesso tempo. La pittura risveglia e porta all’ennesima potenza un delirio che è poi la visione stessa, perché vedere è avere a distanza, e la pittura estende questo bizzarro possesso a tutti gli aspetti dell’Essere, che devono in qualche modo farsi visibili per entrare in lei. Quando il giovane Berenson parlava, a proposito della pittura italiana, di un’evocazione dei valori tattili, non poteva sbagliarsi di più: la pittura non evoca niente, e meno che mai il tattile. Fa tutt’altra cosa, quasi il contrario: dà esistenza visibile a ciò che la visione profana crede invisibile, fa in modo che non ci occorra un “senso muscolare” per percepire la voluminosità del mondo. Questa visione divorante, spingendosi al di là dei “dati visuali”, si apre su una trama dell’Essere di cui i messaggi sensoriali discreti sono solo le interpunzioni o le cesure, e in cui l’occhio abita, come l’uomo in casa sua. Restiamo nell’ambito del visibile in senso stretto e prosaico: qualunque pittore, mentre dipinge, pratica una teoria magica della visione. E poiché non smette mai di regolare sulle cose la sua chiaroveggenza, il pittore deve ben ammettere che, secondo il sarcastico dilemma di Malebranche, o le cose passano dentro di lui, oppure lo spirito esce dagli occhi e va a passeggiare fra le cose. (Niente cambia se non dipinge dal vivo: dipinge comunque perché ha visto, perché il mondo ha inciso in lui una volta almeno le cifre del visibile.) Egli deve ben riconoscere che la visione è specchio o concentrazione dell’universo, come dice un filosofo, o che, come dice un altro filosofo, l'ϊδιος κόσμος [idios kosmos] si apre, attraverso la visione, su un κοινός κόσμος [koinos kosmos], insomma che la medesima cosa è laggiù, nel cuore del mondo, e qui, nel cuore della visione. La medesima o, se si vuole, una cosa simile, ma secondo una similitudine efficace, che è genitrice, genesi, metamorfosi dell’Essere nella visione del pittore. È la montagna stessa che, di laggiù, si fa vedere da lui, è lei che il pittore interroga a partire dal proprio sguardo. Che cosa le chiede precisamente? Di rivelare i mezzi - i mezzi visibili, e nient’altro - con i quali essa si fa montagna sotto i nostri occhi. Luce,

illuminazione, ombre, riflessi, colore: questi oggetti della ricerca non sono esseri del tutto reali; hanno solo un’esistenza visiva, come i fantasmi. Stanno sulla soglia della visione profana: generalmente, non vengono visti. Lo sguardo del pittore li interroga per sapere come possano far sì che esista improvvisamente qualche cosa, e proprio quella cosa, comporre questo talismano di mondo, farci vedere il visibile. La mano che accenna verso di noi nella Ronde de la Nuit è veramente là solo quando la sua ombra sul corpo del capitano ce la presenta contemporaneamente di profilo. La spazialità del capitano si colloca nel punto d’incontro delle due prospettive incompossibili, e che pure si trovano insieme. Tutti gli uomini provvisti di occhi sono stati qualche volta testimoni di questo gioco d’ombre o di altri simili, e grazie ad esso hanno potuto vedere delle cose e uno spazio. Ma tale gioco d’ombre operava in loro senza di loro, si dissimulava per mostrare la cosa: per vedere la cosa, era necessario non vedere il gioco d’ombre. Il visibile in senso profano dimentica le sue premesse, riposa su una visibilità totale che va continuamente ricreata, e che libera i fantasmi in esso prigionieri. Com’è noto i moderni ne hanno liberati molti altri, hanno aggiunto molte note sorde alla gamma ufficiale dei nostri mezzi visivi. Ma l’interrogazione della pittura mira comunque a questa genesi segreta e febbricitante delle cose nel nostro corpo. Non è dunque, la domanda del pittore, quella rivolta da chi sa a chi ignora, la domanda del maestro di scuola. È il quesito di colui che non sa ad una visione che sa tutto, che non siamo noi a creare, che si fa in noi. Dice giustamente Max Ernst (e con lui il surrealismo): “Come il ruolo del poeta, a partire dalla celebre Lettre du Voyant, consiste nello scrivere sotto la dettatura di ciò che si pensa e si articola in lui, così il ruolo del pittore è quello di proiettare ciò che si vede in lui, dopo averne delimitati i contorni”.2 Il pittore vive nell’affascinamento. Le sue azioni più proprie questi gesti, questi segni di cui egli solo è capace, future rivelazioni per gli altri, che non hanno le sue medesime mancanze - gli sembrano emanare dalle cose stesse, come il disegno delle costellazioni. Tra lui e il visibile i ruoli inevitabilmente si invertono: ecco perché tanti pittori hanno detto che le cose li guardavano. Dice, dopo Klee, André Marchant: “Più volte, trovandomi in una foresta, ho sentito che non ero io a guardare la foresta. Certi giorni sentivo che erano gli alberi che mi guardavano, che mi

parlavano, e io ero là, in ascolto... credo che il pittore debba lasciarsi penetrare dall’universo, e non volerlo penetrare... Aspetto di essere interiormente sommerso, sepolto. Forse, dipingo per nascere”.3 Si parla di ispirazione, e la parola dovrebbe venir presa alla lettera: nell’Essere c’è veramente un ritmo respiratorio di inspirazione ed espirazione, azione e passione, così poco distinguibili, che non si sa più chi vede e chi viene visto, chi dipinge e chi viene dipinto. Diciamo che un uomo nasce nell’istante in cui ciò che in fondo al corpo materno era solo un visibile virtuale si fa visibile per noi e, insieme, per se stesso. La visione del pittore è una nascita prolungata. Potremmo cercare nei quadri stessi una filosofia figurata della visione, e in un certo senso la sua iconografia. Non a caso per esempio nella pittura olandese e in molte altre un interno deserto viene spesso “digerito” dall’“occhio rotondo dello specchio”4. Questo sguardo pre-umano è l’emblema dello sguardo del pittore. L’immagine speculare abbozza nelle cose il processo della visione più completamente di quanto non facciano le luci, le ombre, i riflessi. Come tutti gli altri oggetti tecnici, gli utensili, i segni, anche lo specchio è nato sul circuito aperto che va dal corpo vedente al corpo visibile. Ogni tecnica è una “tecnica del corpo”, che raffigura ed amplia la struttura metafisica della nostra carne. Lo specchio fa la sua comparsa perché io sono vedente-visibile, perché esiste una riflessività del sensibile, che esso traduce e raddoppia. Attraverso lo specchio, il mio difuori si completa, tutto ciò che ho di più segreto passa in questo viso, questo essere piatto e chiuso, di cui già sospettavo l’esistenza vedendo il mio riflesso nell’acqua. Schilder5 osserva che, quando fumo la pipa davanti allo specchio, sento la superficie liscia e bruciante del legno non solamente in corrispondenza delle mie dita, ma anche in quelle dita gloriose, puramente visibili, che sono in fondo allo specchio. Il fantasma dello specchio trascina fuori la mia carne, e contemporaneamente tutto l’invisibile del mio corpo può investire gli altri corpi che vedo. D’ora in poi il mio corpo può comportare dei segmenti prelevati sul corpo degli altri, come la mia sostanza passa in loro: l’uomo è specchio per l’uomo. Quanto allo specchio, esso è lo strumento di una magia universale che trasforma le cose in spettacoli e gli spettacoli in cose, me nell’altro e l’altro in me. I

pittori hanno spesso fantasticato sugli specchi, perché in questo “trucco meccanico”, come in quello della prospettiva,6 riconoscevano la metamorfosi del vedente e del visibile, che è la definizione della nostra carne e della loro vocazione. Ecco anche perché i pittori sovente hanno amato (e amano tuttora: si vedano i disegni di Matisse) raffigurare se stessi nell’atto di dipingere, aggiungendo a quel che allora vedevano ciò che le cose vedevano di loro, come a testimoniare che esiste una visione totale o assoluta, al di fuori della quale niente rimane, e che si richiude sul pittore stesso. Che nome dare a queste operazioni occulte, ai filtri e agli idoli che esse preparano? E, nel mondo della comprensione razionale, dove collocarle? Consideriamo quel sorriso di un re morto da tanti anni di cui parlava La Nausea, e che continua a prodursi e a riprodursi sulla superficie di una tela. È troppo poco dire che è là in immagine, o in essenza: esso è là in se stesso, in ciò che ebbe di più vivo, appena guardo il quadro. L’“istante del mondo” che Cézanne voleva dipingere e che è passato da molto tempo, ci viene ancora incontro dalle sue tele, e la sua montagna Sainte-Victoire si crea e si ricrea da un capo all’altro del mondo, in maniera diversa, ma non meno efficace che nella dura roccia sopra Aix. Essenza ed esistenza, immaginario e reale, visibile ed invisibile: la pittura confonde tutte le nostre categorie, dispiegando il suo universo onirico di essenze carnali, di rassomiglianze efficaci, di significazioni mute. [...]

Come si vede, non si tratta più di aggiungere una dimensione alle due dimensioni della tela, di organizzare un’illusione o una percezione senza oggetto la cui perfezione consisterebbe nel rassomigliare il più possibile alla visione empirica. La profondità pittorica (come pure l’altezza e la larghezza dipinte) viene da non si sa dove a posarsi, a germogliare sul supporto. La visione del pittore non è più sguardo su un di fuori, relazione meramente “fisico-ottica”7 col mondo. Il mondo non è più davanti a lui per rappresentazione: è piuttosto il pittore che nasce nelle cose, per una sorta di concentrazione e di venuta-a-sé del visibile. Il quadro, infine, può rapportarsi ad una qualsiasi cosa empirica solo a condizione di essere innanzitutto “autofigurativo”, può essere spettacolo di qualche cosa solo essendo “spettacolo di niente”,8 perforando la “pelle delle cose”9 per

mostrare come le cose si fanno cose, e il mondo mondo. Apollinaire diceva che in un poema ci sono frasi che sembrano non essere state create, ma essersi formate. Ed Henri Michaux diceva che a volte i colori di Klee sembrano nati lentamente sulla tela, emanati da uno sfondo primordiale, “esalati al posto giusto”10 come una patina o una muffa. L’arte non è costruzione, artificio, rapporto industrioso con uno spazio ed un mondo esterni. È davvero il “grido inarticolato che sembrava la voce della luce” di cui parla Ermete Trismegisto. E, una volta là, risveglia nella visione comune potenzialità addormentate, un segreto di preesistenza. Quando vedo, attraverso lo spessore dell’acqua, le piastrelle in fondo alla piscina, non le vedo malgrado l’acqua e i riflessi, ma proprio attraverso e per mezzo loro. Se non ci fossero queste distorsioni, queste zebrature di sole, se vedessi senza questa carne la geometria del fondo piastrellato, proprio allora cesserei di vederla come e dove è, vale a dire al di là di ogni luogo identico. Non posso dire che l’acqua stessa, cioè la potenza della massa acquea, l’elemento sciropposo e luccicante, sia nello spazio: non è altrove, ma non è neanche nella piscina. L’acqua abita la piscina, vi si materializza, ma non vi è contenuta, e se levo gli occhi verso lo schermo dei cipressi dove gioca il reticolato dei riflessi, non posso negare che l’acqua visita anch’essi, o perlomeno vi invia la sua essenza attiva e vivente. È quest’animazione interna, quest’irraggiarsi del visibile, che il pittore cerca sotto i nomi di profondità, spazio, colore. A pensarci, è sorprendente che spesso un buon pittore faccia anche del buon disegno, o della buona scultura. Dato che né i rispettivi mezzi d’espressione, né i gesti sono paragonabili, ciò prova che esiste un sistema di equivalenze, un Logos delle linee, delle luci, dei colori, dei rilievi, delle masse; una presentazione aconcettuale dell’Essere universale.

NOTE 1 G. Charbonnier, Le Monologue du peintre, Paris 1959, p. 172. 2 Ibidem, p. 34. 3 Ibidem, pp. 34-35. 4 P. Claudel, Introduction à la peinture hollandaise, Paris 1946.

5 P. Schilder, The image and appearance of the human body, New York 1950. 6 R. Delaunay, Du cubisme à l’art abstrait, fascicoli pubblicati da Pierre Francastel, Paris 1957. 7 P. Klee, Diari 1898-1918, tr. it. di A. Foelkel, prefazione di G.C. Argan, il Saggiatore, Milano 1960. 8 Ch.P. Bru, Esthétique de l’abstraction, Paris 1959, pp. 86 e 99. 9 Henri Michaux, Aventures de lignes. 10 Ibidem.

Letture consigliate

Tra le storie dell’estetica e le introduzioni all’estetica disponibili in italiano: M. Dufrenne e D. Formaggio, Trattato di estetica, 2 voll., Mondadori, Milano 1988; E. Franzini e M. Mazzocut-Mis, Estetica. I nomi, i concetti, le correnti, Bruno Mondadori, Milano 1996; S. Givone, Storia dell’estetica, Laterza, Roma-Bari 1988; P. Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea. Un’introduzione all’estetica, Laterza, Roma-Bari 2002; F. Restaino, Storia dell'estetica moderna, UTET, Torino 1991; L. Russo, Una storia per l’estetica, Centro internazionale studi di estetica, Palermo 1988; W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, 3 voll., tr. it. Einaudi, Torino 1980; Id., Storia di sei idee, tr. it. Aesthetica, Palermo 1997. Sui singoli periodi: R. Assunto, Stagioni e ragioni dell’estetica del Settecento, Mursia, Milano 1967; G. Carchia, L'estetica antica, Laterza, RomaBari 1999; E. Cassirer, La filosofia dell’illuminismo, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 19772, cap. VII (“I problemi fondamentali dell’estetica”); J. Chouillet, L'esthétique des Lumières, PUF, Paris 1974; P. D’Angelo, L’estetica del Romanticismo, il Mulino, Bologna 1997; Id., L’estetica italiana del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1997; R. Diodato, Vermeer, Gongora, Spinoza. L'estetica come scienza intuitiva, Bruno Mondadori, Milano 1997; U. Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Bompiani, Milano 1997'’; D. Formaggio, Filosofi dell’arte del Novecento, presentazione di E. Franzini, Guerini, Milano 1996; E. Franzini, L’estetica francese del '900: analisi delle teorie, Unicopli, Milano 1984; Id., inestetica del Settecento, il Mulino, Bologna 20022; M. Fumagalli Beonio Brocchieri, L’estetica medievale, il Mulino, Bologna 2002; P.O. Kristeller, Il pensiero e le arti nel Rinascimento, tr. it. Donzelli, Roma 1998; M.T. Marcialis, La disputa sei-settecentesca sugli antichi e sui moderni, Principato, Milano 1976; E. Migliorini, Introduzione all’estetica

contemporanea, Firenze 1981; G. Morpurgo Tagliabue, Anatomia del barocco, Aesthetica, Palermo 1987; M. Perniola, L’estetica del Novecento, il Mulino, Bologna 1998; A. Trione, Estetica e Novecento, Laterza, Roma-Bari 1996; F. Vercellone, L’estetica dell’Ottocento, il Mulino, Bologna 1999. Fra le antologie di estetica: E. Franzini, Estetica, teoria dell'arte, scienze dell'uomo. Un itinerario nell’estetica contemporanea, Signorelli, Milano 1985; E. Fubini, L'estetica contemporanea, Torino 1976; S. Givone, Estetiche e poetiche del Novecento, Einaudi, Torino 1973; R. Ruschi (a cura di), Estetica tedesca oggi, Milano 1986; G. Vattimo (a cura di), Estetica moderna, il Mulino, Bologna 1977; S. Zecchi e E. Franzini, Storia dell’estetica. Antologia di testi, 2 voll., il Mulino, Bologna 1995. Fra i lessici, i dizionari e le enciclopedie: Dizionario di estetica, a cura di G. Carchia e P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 1999; W. Henckmann e K. Lotter (a cura di), Lexikon der Aesthetik, München 1992; R. Milani, Le categorie estetiche, Pratiche, Parma 1991. Fra le opere di orientamento generale: P. D’Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Laterza, Roma-Bari 2001; G. Di Giacomo, Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999; G. Dorfles, L'estetica del mito. Da Vico a Wittgenstein, Mursia, Milano 1967; Id., Il divenire della critica, Einaudi, Torino 1976; Id., Il feticcio quotidiano, Feltrinelli, Milano 1988; Id., Itinerario estetico, Studio Tesi, Pordenone 1987; M. Dufrenne, Estetica e filosofia, tr. it. Marietti, Genova 1989; M. Ferraris, Estetica razionale, Raffaello Cortina, Milano 1997; M. Ferraris, S. Givone e F. Vercellone, Estetica, UTET, Torino 1995; M. Ferraris e P. Kobau (a cura di), L'altra estetica, Einaudi, Torino 2001; D. Formaggio, L'arte come idea e come esperienza, Mondadori, Milano 1981; Id., Fenomenologia della tecnica artistica, prefazione di G. Scaramuzza, Pratiche, Parma 1978; Id., I giorni dell’arte, Franco Angeli, Milano 1991; Id., Problemi di estetica, Aesthetica, Palermo 1991 ; E. Franzini, Arte e mondi possibili. Estetica e interpretazione da Leibniz a Klee, Guerini, Milano 1994; Id., Estetica e filosofia dell’arte, Guerini, Milano 1999; Id., Filosofia dei sentimenti, Bruno Mondadori, Milano 1997; Id., Le leggi del cielo. Arte, estetica, passioni, Guerini, Milano 1990; E. Garroni, Estetica. Uno sguardoattraverso. Garzanti, Milano 1992; Id., Senso e paradosso: l’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari 1986; P. Montani, Il debito del linguaggio. Il problema dell’autoriflessività estetica nel segno, nel testo e nel discorso,

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Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, Aesthetica, Palermo 1997; J.-J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, tr. it. Einaudi, Torino 1999.

Indice dei nomi

Addison, Joseph, 55, 124 Adorno, Theodor W., 273, 279 Agatone, 51 Agostino d’Ippona, 13, 119 Alberti, Leon Battista, 13, 79-81 Alcibiade, 51 Alcuino, 13 Alessandro Magno, 61, 102 Anacarsi, 33 Anacreonte, 61 Apione, 98, 102 Apollinaire, Guillaume, 335 Apollodoro di Pergamo, 53 Archimede, 270 Ariosto, Ludovico, 193, 195 Aristofane, 65 Aristotele, 1, 7, 10-11, 13-14, 39-42, 53, 61, 98, 103, 146-147, 162, 235, 316 Arnaldo Daniel vedi Arnaut Daniel Arnaut Daniel (il Pacca), 101 Arnim, Achim von, 193 Arp, Jean (o Hans), 291 Bacone, Ruggero, 14 Baillie, John, 123 Barthes, Roland, 277 Batteux, Charles, 15, 137-139, 162

Baudelaire, Charles, 17, 241-245 Baumgarten, Alexander Gottlieb, 1, 3-4, 7, 15, 91, 94, 105-107, 158, 194, 205, 254 Beethoven, Ludwig van, 283, 304 Benjamin, Walter, 17, 273-279 Berenson, Bernard, 330 Bilfinger, G.B., 111 Boccaccio, Giovanni, 193, 195 Bochart, Samuel, 102 Bodmer, Johann Jakob, 107 Boezio, Severino, 12 Boiardo, Matteo Maria, 193 Boileau, Nicolas, 55, 123, 125 Bonaventura da Bagnoregio, 13 Bramante (Donato di Pascuccio d’Antonio), 81 Brecht, Bertolt, 273, 278-279 Breitinger, Johann Jakob, 107, 111 Brentano, Clemens, 193 Brunelleschi, Filippo, 80-81 Burke, Edmund, 15, 55, 124-126, 162, 194 Burnet, Thomas, 124 Cartesio, Renato, 15, 105, 126, 296, 324 Cassio Longino, 53 Cassirer, Ernst, 6 Cecilio di Calatte, 54, 57, 61 Cervantes Saavedra, Miguel de, 193, 195 Cesare, Gaio Giulio, 145, 201 Cézanne, Paul, 319, 323, 328, 333 Chaplin, Charlie (Charles Spencer), 287 Cicerone, Marco Tullio, 54, 71, 111, 115, 153, 201 Clemente Alessandrino, 101 Cleofonte, 45 Cleomene, 61 Colonna, Francesco, 79 Condillac, Etienne Bonnot de, 94

Conrad, Waldemar, 320 Copernico, Niccolò, 203 Courbet, Gustave, 241 Creuzer, Friedrich, 192 Croce, Benedetto, 17, 91, 253-257 Dante Alighieri, 13, 123, 193,195, 202 Delacroix, Eugène, 241 Demarato da Corinto, 102 Demostene, 58-59, 61,64 Dennis, John, 55, 123-124 Derain, André, 291 Descartes, René vedi Cartesio, Renato Diderot, Denis, 14, 139, 241 Dione Crisostomo, 100 Dionigi di Alicarnasso, 53 Dionisio, 44 Donatello (Donato de’ Bardi), 81 Duhamel, Georges, 291-292 Dürer, Albrecht, 321 Egemone di Taso, 45 Ejzenstejn, Sergej Michajlovic, 279 Elingius, Lorenz Ingewald, 98 Empedocle, 44 Engels, Friedrich, 273 Ernst, Max, 332 Erodoto, 50,61,66 Eschilo, 46 Eschine, 59 Esiodo, 34 Euripide, 65 Evandro d’Arcadia, 102 Fabro, Antonio vedi Favre, Antoine Favre, Antoine, 97

Fichte, Johann Gottlieb, 193 Ficino, Marsilio, 13 Fidia, 72-73 Filarete, 79 Filippo, re di Macedonia, 59, 61 Filisto, 65 Filosseno, 45 Flaubert, Gustave, 241 Gadamer, Hans-Georg, 298 Galeno, 103 Gance, Abel, 283 Gautier, Théophile, 241 Geiger, Moritz, 320 Ghiberti, Lorenzo, 79, 81 Giacometti, Alberto, 329 Giamblico, 99, 103 Giuseffo ebreo vedi Giuseppe Flavio Giuseppe Flavio, 98, 100, 102 Glaucone, 33-34 Goethe, Johann Wolfgang, 193-194, 202, 214 Gorgia da Lentini, 23 Görres, Johann Joseph von, 193 Gottsched, Johann Christoph, 107 Gravina, Gian Vincenzo, 92 Grimm, Jakob, 193 Grimm, Wilhelm, 193 Guys, Constantin, 241-242 Hall, John, 55 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 5, 16, 160, 193-196, 205-207, 209, 297 Heidegger, Martin, 18, 295-301, 322 Herder, Johann Gottfried, 94 Hofmannsthal, Hugo von, 319 Hölderlin, Friedrich, 193, 196, 304, 316 Horkheimer, Max, 273, 279

Hotho, Heinrich Gustav, 205, 207 Hotman, François, 100 Hugo, Victor, 241, 244-245 Hume, David, 15, 124 Husserl, Edmund, 319-322 Ingarden, Roman, 320-321 Ingewaldo Elingio vedi Elingius, Ingewald Ippia di Elide, 23 Kant, Immanuel, 1-2, 4, 9, 16, 55, 157-163, 205, 207, 227, 254, 305 Klee, Paul, 332, 334 Kleist, Heinrich von, 193 Klossowski, Pierre, 273 La Bruyère, Jean de, 61 Le Brun, Charles, 126 Lefort, Claude, 319 Leibniz, Gottfried Wilhelm, 1, 15, 105-106, 115, 120, 296 Leonardo da Vinci, 14, 79-82, 137, 264 Leopardi, Giacomo, 266 Lessing, Gotthold Ephraim, 82, 139-140 Linceo, 77 Lipps, Theodor, 319 Lisia, 63 Livio Andronico, 100, 118 Locke, John, 15 Lowth, Robert, 123-124 Lucrezio Caro, Tito, 116 Luigi XIV, re di Francia, 126 Luigi XV, re di Francia, 250 Lukács, György, 279 Malebranche, Nicolas de, 15, 331 Mallarmé, Stéphane, 286

Mallinckrot, Bernhard von, 98 Manzi, G., 79 Marchant, André, 332 Marcuse, Herbert, 273 Marinetti, Filippo Tommaso, 279 Marsden, Chris, 188 Martini, Francesco di Giorgio, 79 Matisse, Henri, 333 Marx, Karl, 273 Marziano Capella, Minneo Felice, 137 Maupertuis, Pierre-Louis Moreau de, 94 Melinckrot, Bernardo da vedi Mallinckrot, Bernhard von Mendelssohn, Moses, 219 Merleau-Ponty, Maurice, 18, 319, 322-325 Meyer, Conrad Ferdinand, 316 Michaux, Henri, 334 Michelangelo Buonarroti, 264 Milton, John, 123, 133 Molière (Jean-Baptiste Poquelin), 148 Moritz, Karl Philipp, 196 Millier, Adam, 193 Muratori, Ludovico Antonio, 92 Nietzsche, Friedrich, 16, 295-296 Novalis (Friedrich Leopold von Hardenberg), 191, 193 Omero, 28, 32-34, 44-45, 50, 57, 91, 98-100, 102-103 Orazio Fiacco, Quinto, 111, 118, 146, 200 Ottomano vedi Hotman, François Pacioli, Luca, 79-81 Parmenide, 295 Pascal, Blaise, 15 Petrarca, Francesco, 193, 195, 200 Petronio Arbitro, 55 Picasso, Pablo, 287

Piero della Francesca, 79-80 Pindaro, 123,202 Pirandello, Luigi, 278 Pitagora, 33 Platone, 1, 7-11, 13, 15, 21-26, 39-40, 42, 53, 62-63, 69-71, 78, 99-100, 103, 146, 202, 227, 235, 297 Plauto, Tito Maccio, 120 Plinio il Giovane (Gaio Plinio Cecilio Secondo), 55 Plinio il Vecchio (Gaio Plinio Secondo), 80 Plotino, 11-13, 69-72 Poe, Edgar Allan, 241 Polignoto, 44, 48 Pompeo Magno, Gneo, 145 Pope, Alexander, 55 Porfirio, 69 Prodico di Ceo, 23, 34 Protagora di Abdera, 23, 34 Pseudo-Dionigi, 13 Pseudo-Longino, 11, 53-55, 123, 125 Quintiliano, Marco Fabio, 8 Raffaello Sanzio, 240, 263 Rembrandt, Harmenszoon van Rijn, 283 Reynoldsjoshua, 55 Riefenstahl, Leni, 279 Riegl, Alois, 284 Rilke, Rainer Maria, 291 Rosenkranz, Karl, 244-245 Rossini, Gioacchino, 238 Rousseau Jean-Jacques, 94 Sancuniate (Sanchuniaton), 101 Sartre, Jean-Paul, 322 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 160, 191, 193-194, 196, 209

Schilder, P. 333 Schiller, Friedrich, 194-195, 214 Schlegel, August Wilhelm, 191 Schlegel, Friedrich, 191-197, 243 Schleiermacher, Friedrich, 191 Schopenhauer, Arthur, 16, 227-228, 230 Seneca, Lucio Anneo, 55 Senofonte, 57, 62, 67 Seurat, Georges, 241 Shakespeare, William, 123, 193, 195, 202, 283 Signac, Paul, 241 Socrate, 33-34 Sofocle, 46 Sofrone, 44 Stendhal (Henri Beyle), 249 Stramm, August, 291 Svetonio Tranquillo, Gaio, 201 Tacito, Cornelio, 55, 101-102 Talete di Mileto, 33 Tatarkiewicz, Wladyslaw, 8 Teodoro di Gadara, 53 Teofrasto, 61 Teopompo, 61, 66 Tiberio Claudio Nerone, imperatore romano, 53 Tibullo, Albio, 120 Tieck, Ludwig, 191 Tommaso d’Aquino, 13 Trissino, Gian Giorgio, 101 Ugone, Ermanno, 98 Valéry, Paul, 275, 281, 326 Van Gogh, Vincent, 297-298, 304, 313, 315-316 Varrone, Marco Terenzio, 100 Vasari, Giorgio, 79

Vico, Giambattista, 15, 91-94, 253 Virgilio (Publio Virgilio Marone), 145 Vitruvio Pollione, 8, 80 Voss, Gerrit Janszoon, 98 Vossio, Gerardo Giovanni vedi Voss, Gerrit Janszoon Wagner, Richard, 241 Wickhoff, Franz, 284 Wolff, Christian, 1, 105-106 Zeusi, 48, 138, 148

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Frontespizio Introduzione Platone - Mimesis e verità Aristotele - La rappresentazione del verosimile Pseudo-Longino - La retorica e il sublime Plotino - Il bello intelligibile Leonardo da Vinci - Arte e interpretazione della natura 1. Se la pittura è scienza o no 2. Esempio e differenza tra pittura e poesia 3. Quale scienza è più utile, ed in che consiste la sua utilità 4. Delle scienze imitabili, e come la pittura è inimitabile, però è scienza 5. Come la pittura abbraccia tutte le superficie de’ corpi, ed in quelli si estende 6. Come la pittura abbraccia le superficie, figure e colori de’ corpi naturali, e la filosofila sol s’estende nelle lor virtù naturali 8. Come chi sprezza la pittura non ama la filosofia, né la natura 9. Come il pittore è signore d’ogni sorta di gente e di tutte le cose 14. Pittore che disputa col poeta 15. Come la pittura avanza tutte le opere umane per sottili speculazioni appartenenti a quella 20. Dell’occhio 29. Quale scienza è meccanica, e quale non è meccanica Giambattista Vico - La logica poetica Corollari d’intorno a’ tropi, mostri e trasformazioni poetiche Alexander Gottlieb Baumgarten - Estetica e conoscenza sensibile Introduzione I. La bellezza della conoscenza XXVII. La verità estetica Edmund Burke - Le idee del bello e del sublime Dolore e piacere Diletto e piacere come opposti l’uno all’altro Le passioni che appartengono all’autopreservazione Il sublime [...] Ricapitolazione La passione causata dal sublime L’oscurità La bellezza La causa reale della bellezza Ricapitolazione Confronto tra il sublime e il bello Come si produce il sublime Charles Batteux - Le belle arti: imitazione ed espressione Dove si fonda la natura delle arti mediante quella del genio che le produce I. Divisione e origine delle arti II. Il genio non ha potuto produrre le arti che mediante l'imitazione: che cosa significa imitare III. Il genio non deve imitare la natura come essa è Dove si stabilisce il principio di imitazione mediante la natura e le leggi del gusto I. Che cosa è il gusto IV. Le leggi del gusto non hanno per oggetto che l’imitazione della bella natura Sulla musica e la danza I. Si deve conoscere la natura della musica e della danza mediante quella dei toni e dei gesti II. Tutta la musica e tutta la danza devono avere un significato, un senso Immanuel Kant - La critica del giudizio estetico Primo momento del giudizio di gusto1 secondo la qualità Definizione del bello derivata dal primo momento Secondo momento del giudizio di gusto, cioè secondo la sua quantità Definizione del bello derivata dal secondo momento Terzo momento dei giudizi di gusto secondo la relazione degli scopi che in essi è presa in considerazione Definizione del bello derivata dal terzo momento Quarto momento del giudizio di gusto secondo la modalità del compiacimento per l’oggetto Definizione del bello derivata dal quarto momento Nota generale alla prima sezione dell’analitica Friedrich Schlegel - La poesia e il romantico frammenti critici Frammenti dall'Athenaeum Georg Wilhelm Friedrich Hegel - L’arte e l’apparire sensibile dell’idea A. Rappresentazioni usuali dell’arte 1. L’opera d’arte come prodotto dell’attività umana

2 4 22 41 56 71 82 86 87 88 88 89 90 90 90 91 91 91 92 94 98 108 113 116 118 126 131 133 134 134 135 135 136 136 137 138 139 139 140 141 145 146 148 152 153 154 156 157 157 159 160 169 173 173 181 181 186 187 190 190 195 204 206 210 219 219

2. L'opera d’arte, in quanto prodotta per il senso dell'uomo, viene tratta dal sensibile Arthur Schopenhauer - L’arte e la volontà Charles Baudelaire - La bellezza nella modernità L'eroismo della vita moderna Il bello, la moda, la felicità Elogio del trucco Benedetto Croce - Arte, intuizione, espressione L'intuizione e l’espressione L’intuizione e l’arte Walter Benjamin - L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Martin Heidegger - Opera d’arte e verità dell’essere Cosa e opera Maurice Merleau-Ponty - Pittura e ontologia della visione [...] Letture consigliate Indice dei nomi

225 233 248 255 255 257 262 267 275 281 304 315 329 345 348 352