Eppur che sono donne. Protagoniste dell'etnologia religiosa 9788878704756

I quattro saggi contenuti in questo volume illustrano il rapporto fra donna e religione in contesti prevalentemente (ma

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Eppur che sono donne. Protagoniste dell'etnologia religiosa
 9788878704756

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ITINERARI DI RICERCA STORICORELIGIOSA  15 

Collana diretta da Danila Visca

Eppur che sono donne Protagoniste dell’etnologia religiosa a cura di Danila Visca

BULZONI EDITORE

In copertina: Foto di Sergio Corini

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-475-6 © 2010 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

INDICE

Nota introduttiva....................................................................................................................

p.

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Danila Visca, Eppur che sono donne. Le protagoniste dell’etnologia religiosa ....................................................................................................................................

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Nicola Mapelli, Da Madre Terra a Gaia. Donne, religione ed ecologia................................................................................................................................................

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Franco Pignotti, Regina d’Africa. La profetessa Alice Lenshina e la Chiesa Lumpa dello Zambia ....................................................................................

» 169

Boris Tacchia, Donne “preti”. Storia di Gaudencia Aoko e della sua Maria Legio .........................................................................................................................

» 237

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nota introduttiva

NOTA INTRODUTTIVA

I quattro saggi contenuti in questo volume illustrano il rapporto fra donna e religione in contesti prevalentemente (ma non solo) extraoccidentali. L’applicazione di una prospettiva storico-religiosa attenta a tematiche d’ordine etnoantropologico permette, in ciascuno dei casi oggetto di analisi, di contestualizzare la tematica generale – il ruolo e la posizione della donna nella ‘gestione del sacro’ – ad alcuni casi ben specifici. Danila Visca offre una panoramica delle principali protagoniste dell’etnologia religiosa, inserendole nel contesto più generale del rapporto fra donna e religione nel tempo e nello spazio. Focalizza infine l’interesse sull’Africa, ove mette in discussione l’invalso stereotipo di un ruolo femminile secondario e ancillare in campo religioso. Nicola Mapelli analizza il rapporto fra donna e religione nell’ottica delle questioni ecologiche. Partendo dall’analisi di un movimento religioso dei Caraibi fondato da una donna, l’autore perviene all’analisi dell’ecofemminismo religioso, cercando di mettere in luce quali conseguenze, anche politiche, abbia comportato il passaggio, in campo religioso, dalla categoria Madre Terra a quella di Gaia. Franco Pignotti analizza il ruolo della profetessa Alice Lenshina, che nello Zambia diede vita a un grande movimento religioso a predominanza femminile teso a riscattare e rivitalizzare l’antico mondo rurale. Il percorso del movimento, destinato a soccombere sotto i colpi del nazionalismo occidentalizzato dello Zambia, viene studiato focalizzando 9

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l’attenzione sui suoi tentativi di sintesi fra modernità e cultura ancestrale africana. Boris Tacchia analizza il caso di Gaudencia Aoko, co-fondatrice nel 1963 della Maria Legio del Kenya (e delle donne “preti” che la seguivano), per cercare di rispondere a una semplice domanda: quanto è possibile per una donna africana inserita in un contesto cattolico recuperare la centralità ‘religiosa’ riconosciutale a livello tradizionale?

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Danila Visca

EPPUR CHE SONO DONNE

Le protagoniste dell’etnologia religiosa

Trent’anni fa, quando gli studi di genere non erano ancora di moda in Italia, pubblicavo due testi: Le iniziazioni femminili: un problema da riconsiderare (1976) e Il sesso infecondo (1977). Nel primo cercavo di mostrare una verità che non avrebbe avuto bisogno di dimostrazione e che, pur tuttavia, fino a quel momento ancora non era stata espressa a chiare lettere: cioè a dire, che era il rito a conferire alla giovane – pubere o impubere che fosse – lo status sociale di donna nubile (nel senso etimologico del termine: ‘maritabile’); nel secondo prendevo in considerazione le tematiche relative ad aborto, infanticidio e contraccezione nelle società di interesse etnologico. Pur basandosi su alcune tesi di ecologia culturale oggi superate (e su previsioni demografiche rivelatesi poi errate: quelle del famoso Club di Roma), le ricerche compiute per scrivere quel testo mi permisero di raccogliere una gran quantità di materiale su argomenti affatto disattesi in Italia dall’etnologia – religiosa o no che fosse –, e per contro di scottante attualità nel panorama socio-politico e religioso nazionale: l’intento ultimo era quello di dimostrare come a livello etnologico fosse la cultura (e non la natura) a stabilire quando un individuo era – diventava – persona. Negli anni successivi continuai a rivolgere di quando in quando la mia attenzione su problematiche in qualche modo connesse al mondo femminile: nel 1982, ad esempio, pubblicavo Approccio etnologico alle mutilazioni sessuali in un volume miscellaneo, Circoncisione femminile, escissione e infibulazione: realtà e proposte di cambiamento, ove traducevo anche il Rapporto del Minority 11

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Rights Group curato da S. McLean. Il volumetto si configurò come il primo lavoro inteso a richiamare l’attenzione del pubblico specialista e non su delicatissimi temi che in breve tempo avrebbero trovato larga udienza nella società civile occidentale e non solo. Progressivamente i miei studi andarono concentrandosi sempre più sul mondo africano: mi aveva colpito, in particolare, il fatto che il primo caso storicamente documentato di tentativo ‘organico’ di sincretizzazione del cristianesimo con il sistema di credenze tradizionale fosse stato operato proprio da una donna, in Congo, tra la fine del XVII e i primissimi anni del XVIII secolo. La donna si chiamava Beatrice, aveva poco più di 20 anni e finì sul rogo ‘a cura’ di missionari cappuccini. È un caso famosissimo: ci fu chi la paragonò a Giovanna d’Arco e chi ne chiese la beatificazione. Considero Beatrice come un piccolo tarlo che cominciò a rodermi nel cervello: ‘che cosa’ è la donna in Africa? La naturale fattrice indefessa, inconsapevole esecutrice del biblico ‘crescete e moltiplicatevi’, la vittima muta di società androcentriche, la mamma amatissima, la strega assassina, la guaritrice posseduta – una persona capace di inventarsi o farsi leader di movimenti religiosi, sociali, politici…? Capace addirittura di mettersi al comando di uomini in armi? Una serie a suo modo organica di curiosità e sollecitazioni – che andavano dalla rivisitazione del culto degli antenati alla ‘scoperta’ di apparizioni mariane in Africa, dalla storia dell’evangelizzazione alla riflessione sulla c.d. teologia africana –, mi condusse infine ad articolare un ampio studio sul culto mariano in Africa, Nera ma bella (2002), per problematizzarne in particolare il processo di impiantamento: come gli evangelizzatori hanno cercato di contestualizzare la figura femminile per eccellenza del cattolicesimo, la Vergine Maria, sul suolo africano? A quali figure femminili dei sistemi di credenze locali fecero riferimento per agevolarne la conoscenza? E come mutava l’operazione di ‘traduzione’ dei missionari con il mutare dai tempi? Due anni più tardi pubblicai un altro libro, La strega e il terrorista (2004), in cui – nel contesto di un’analisi sulla ‘globalizzazione’ della categoria ‘fondamentalismo’ – analizzavo un 12

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moderno movimento politico-religioso fondato nell’Acholiland (Uganda) da una donna: l’Holy Spirit Movement, a tutt’oggi attivo come Lord’s Resistance Army sotto la guida del famigerato Joseph Kony. In concreto, si tratta di una feroce guerriglia mossa contro il governo ugandese a partire dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso, a ispiratore della quale figurava uno spirito – Lakwena, il ‘messaggero’ – originariamente incorporatosi nella giovane Alice Auma, conosciuta poi come Alice Lakwena. Costei, da ‘normale’ guaritrice posseduta dallo spirito, su ordine di quest’ultimo si fece per qualche tempo leader di una schiera di ribelli per poi tornare, una volta sconfitta, a più modesti ruoli di guaritrice/erborista nel campo profughi keniano in cui trovò riparo (è morta, cinquantenne, un paio d’anni fa). Un caso emblematico, quello della Lakwena, degli straordinari ma non eccezionali sviluppi che può assumere in contesti africani il fenomeno possessivo, tipicamente caratteristico della gran parte delle figure religiose femminili (e secondariamente maschili) a livello sia tradizionale sia acculturativo. Ho ripreso in mano buona parte del materiale utilizzato a suo tempo per questi lavori per sostanziare un corso da me tenuto alla Sapienza nell’a.a. 2008-2009 avente ad oggetto – un omaggio inconscio al quarantennale del ’68 femminista? – proprio le ‘protagoniste’ dell’etnologia religiosa. Il corso mi ha dato l’opportunità di riesumare alcune di quelle tematiche femminili – palesemente o celatamente ‘femministe’ – e di guardarle con occhi nuovi: non oserò dire con uno “sguardo da lontano”, ma sicuramente più distaccato dal contesto ‘controculturale’ degli anni Settanta del Novecento alle cui provocazioni esse innegabilmente si riallacciano. Preparare un corso del genere, avendo come destinatari studenti che per la prima volta si avvicinavano alla disciplina, mi ha imposto di effettuare una ricognizione di ampio raggio sulle tematiche della storia e dell’etnologia religiose al femminile, sia in senso diacronico (la donna e la religione nel corso della storia) sia in senso sincronico (la donna e la religione nei vari contesti culturali e/o geografici). Ed è proprio pensando 13

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ancora ai ‘miei’ studenti – ma anche a lettori digiuni di questi argomenti e magari deviati da superficiali esotismi massmediologici – che per prima cosa, in queste pagine, ripercorrerò alcuni dei temi trattati durante il corso stesso, senza appesantirli con eccessive annotazioni, ma facendone una sintesi atta a fornire lo sfondo sul quale collocare poi alcune considerazioni e alcune specifiche storie al femminile. Alcune osservazioni preliminari sono però necessarie. Anzitutto, non ho potuto fare a meno di notare un progressivo calo di interesse per queste tematiche, sia a livello accademico – la storia e l’etnologia religiose sembrano muoversi da tempo su altri, e nuovi, campi piuttosto che ri-pensare i ‘vecchi’ argomenti; e, a dir la verità, mi pare che gli stessi studi di genere stiano vivendo una fase di relativa stanca1 – sia nell’interesse degli studenti, più attratti, comprensibilmente, dalle nuove manifestazioni del religioso (o piuttosto della ‘spiritualità’) come il New Age o i fenomeni paranormali, o da quei nuovi movimenti religiosi come la Wicca e i culti ufologici2. Una seconda osservazione di portata generale è che per l’etnografia d’antan valgono, a limitarne il valore, da un canto l’obiettivamente scarsa possibilità degli osservatori (allora esclusivamente maschi) di infrangere certi muri che la loro stessa e/o l’altrui cultura erigevano a separazione del mondo femminile da quello maschile e, dall’altro canto, il consueto sospetto di lettura superficiale o soggettiva dei casi fortunosamente ‘documentati’ (basterebbe citare 1

Cfr. tuttavia l’ottimo Boesch Gajano – Pace 2007. 2 È quanto ho potuto verificare io stessa in aula: i miei corsi su questi temi sono sempre stati da ‘Posti in piedi’, mentre non posso dire altrettanto per quelli nei quali offrivo argomenti più ‘classici’. Sento qui la necessità di aprire una breve parentesi per chiedermi se sia giusto chiamare – come ho fatto – ‘religiosi’ fenomeni come quelli sopra ricordati… La mia impressione è che tali realtà meriterebbero di essere definite altrimenti, se non per la loro qualità, per porre almeno un freno a quanti, a motivo della loro recente uscita alla ribalta, si sentono abilitati a parlare di ripresa, ritorno, reviviscenza o chessò altro del sacro/religioso in Occidente. Ma non sarà – mi chiedo – che proprio per poter affermare questa ripresa, ritorno, reviviscenza…, si è costretti a chiamare ‘religiosi’ i fenomeni in questione? Per questa problematica cfr. Visca 2008, p. 50 sgg.

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l’abuso del termine ‘sacerdote/sacerdotessa’ per qualificare qualsiasi tipo di specialista del religioso incontrato/a sul campo3). Terza e ultima considerazione: fin dall’intensificarsi e dal normalizzarsi dei contatti con gli occidentali – culturalmente distruttivi e pur intellettualmente fecondi quali furono –, e più che mai oggi, nel III millennio, i protagonisti e le protagoniste del religioso esotico sono divenuti essi stessi parte costitutiva di una rete più vasta: di una globalizzazione del religioso, in termini odierni, per la quale ormai anche quanto avviene – chessò – in un misero villaggio africano difficilmente è esente dall’influenza di quanto viene elaborato in Occidente – negli Usa, soprattutto –, o altrove. Per questa ragione non ritengo indispensabile soffermarmi troppo a lungo, nelle pagine che seguono, sull’analisi approfondita di ‘prototipi’ specifici: le caratteristiche generali dei tipi di fenomeni presi in esame si ripetono un po’ ovunque, seguendo grosso modo il medesimo canovaccio; cercherò piuttosto di mettere in luce, laddove necessario, le differenze specifiche di un fenomeno rispetto al modello generale di riferimento. Di qui la mia scelta di presentare un’abbondante casistica, che copra quanto più possibile l’ampia gamma delle singole contingenze.

Alcune precisazioni terminologiche Dobbiamo comunque chiederci, preliminarmente, quali siano i modelli generali che possano fungere da riferimento, vale a dire quale sia la tipologia standard all’interno della quale inserire gli oggetti del nostro interesse: le ‘protagoniste’ dell’etnologia religiosa. Dedicherò pertanto la prima parte di questo capitolo proprio all’illustrazione di chi, dagli interessati non meno che dalle nostre discipline, vengono tenuti per ‘professionisti/e’ del religioso. 3

Per non dire poi che anche il carattere religioso riferito allo ‘specialista’ individuato sul campo era a sua volta frutto dell’applicazione – sovente arbitraria – di coordinate proprie a contesti altrui.

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Nei manuali di storia delle religioni e di etnologia4, per indicare individui ‘specializzati’ nelle attività religiose delle culture tribali (e non necessariamente solo di queste) viene utilizzata, convenzionalmente al maschile, la generica espressione ‘operatori rituali’. Se nelle società più semplici a occuparsi delle cose (che noi identifichiamo come) religiose5 è – a seconda del contesto di riferimento del culto – il capofamiglia, il capovillaggio o il capotribù, in quelle più articolate, invece, vi sono individui dediti (nel caso, per delega del capo o del re) quasi esclusivamente a faccende che afferiscono alla sfera del religioso, comunque esso venga definito: sono questi, in ultima analisi, i presupposti tanto della specializzazione nel campo d’azione religioso quanto degli uffici sacerdotali propriamente detti, su cui tornerò. Ciò nondimeno, la specializzazione religiosa può emergere anche da particolari attitudini, qualità o circostanze che designano specifici individui a speciali funzioni interdette a chi di quelle prerogative sia privo: l’assunzione di ruoli rituali si può avverare, insomma, tanto per vocazione e ‘chiamata’, quanto per successione ereditaria. A questi individui – i quali tutti, ordinariamente, vengono in qualche modo remunerati per le loro attività ‘professionali’ –, si applicano comunemente le qualifiche di ‘mago’, ‘stregone’, ‘fattucchiere’, ‘guaritore’, ‘medicine-man’, ‘sciamano’, ‘divinatore’: termini tutti che – come sottolineava già Angelo Brelich6 – hanno molti inconvenienti, non solo perché distinguono categorie perlopiù indistinguibili e di fatto localmente indistinte7, ma anche perché alcuni di essi – come fattucchiere, mago 4

La mia fonte privilegiata, in questa illustrazione, è Brelich 2003, a cui rimando per un’informazione più approfondita. 5 L’inciso è necessario perché la maggior parte delle culture – fatta salva quella occidentale – non distingue il ‘religioso’ come categoria a sé stante rispetto al ‘civico’. 6 Cfr. Brelich 2003: 63. 7 D. Sabbatucci, ad es., avanzò l’ipotesi che fossero definibili tutti egualmente ‘divinatori’, dal momento che anche il guaritore (lo sciamano, il medicine-man…) in ultima analisi è colui che ‘indovina’ la giusta terapia, il giusto rimedio (Cfr. Sabbatucci 1991: 185 ss.). Per parte mia, a fini ‘didattici’ do spazio a questa tradizionale classificazione fenomenologica, ma la considero, appunto, ‘tradizionale’ – un reperto di quando le

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e, soprattutto, stregone –, qualificano in negativo coloro cui vengono attribuiti, a causa di una loro accreditata associazione, nel nostro pensiero ‘cristiano’8, con Satana e il demoniaco. In effetti, le voci ‘stregone, fattucchiere, mago’, specie se riferite a realtà altre dalla nostra, possono in ugual modo indicare tanto coloro che esercitano le proprie arti a fin di male, quanto coloro che le usano per beneficiare i singoli o la comunità – ad es. divinando, guarendo da malattie, procurando la pioggia, facendo riti per ottenere la vittoria in guerra, purificare la comunità, e così via: cioè a dire, procurando rimedi per qualsivoglia negativo. Nel prosieguo, per queste loro qualità applicate in contesti più particolari e specifici – generalmente di ‘crisi’ e più precisamente, in origine, in situazioni di scontro o collasso culturale –, implicanti una ‘chiamata’ e un contatto immediato con le entità sovrannaturali, molti di questi operatori rituali verranno definiti ‘profeti’, reinterpretando e volgarizzando l’antico modello biblico, vuoi dagli studiosi, vuoi dai più diretti interessati9. Nel tempo, tuttavia, col mutarsi delle circostanze, il ruolo del c.d. profeta ha subito una rilevante ancorché prevedibile involuzione: oggi la qualifica è sicuramente inflazionata e ha perso tutte le sue originarie connotazioni ‘sovversive’ – quelle che caratterizzarono il profeta in età coloniale e immediatamente post-coloniale. Profeta, al presente, viene proclamato chiunque si proponga come predicatore e terapeuta, ma soprattutto come fondatore e/o leader di un movimento religioso, sincretico o neo-tradizionalista che sia, o di una nuova denominazione cristiana, da ultimo soprattutto del tipo evangelico-pentecostale e affatto priva d’ogni traccia del carattere contestativo ed emancipazionista discipline antropologiche rifacevano il verso a quelle biologiche ordinando e catalogando e i propri ‘oggetti’ come farfalle, secondo una famosa espressione di E.Leach all’indirizzo dei seguaci di Radcliffe-Brown (1973: 15) – e ne farei volentieri a meno. 8 Come lo sarà anche nel pensiero ‘cristianizzato’. 9 Checché se ne dica, in ogni caso non possiamo parlare di ‘profeti’ prima dell’ingresso del cristianesimo nelle società extra-occidentali. A riguardo di questa tematica cfr. Visca 2007.

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delle prime formazioni ecclesiali affrancatesi dalle Chiese storiche. Per altro verso, il carattere ispirato e la funzione terapeutica che qualificano l’odierno profeta finiranno per confondersi con l’aspetto estatico e l’analogo ruolo curativo che caratterizzano lo sciamano – producendo anche per questa categoria una perdita di specificità che molto avrebbe sconcertato Mircea Eliade10. Dicevo poco sopra che avrei ripreso il tema dell’origine degli uffici sacerdotali. Di fatto, nel mio repertorio di operatori rituali ancora non ho fatto menzione della categoria più familiare alla nostra stessa cultura: quella dei sacerdoti. Ripeto dunque che in linea teorica, confortata da attendibili evidenze, i ruoli e le funzioni sacerdotali emergono quando un capo o un sovrano – che in origine è anche operatore sacro: il ‘re-mago’ – delega ad altri incombenze rituali che non ha modo di assolvere perché impegnato ad altri compiti – ad es. in guerra. Questa evenienza giustifica anche una peculiarità che distingue il sacerdozio così configurato dalle altre ‘professioni’ religiose: si tratta di un ufficio elettivo che finisce col costituirsi spesso come ereditario e che di per sé non richiede qualità o doti particolari, anche se può imporre un tipo di vita marcatamente ritualizzato. Ma questa non è l’unica possibilità di affermazione delle mansioni sacerdotali. In ultima analisi, infatti, quando per qualsivoglia emergenza non più il singolo, ma la comunità nel suo insieme si rivolge a un qualsiasi manipolatore ‘privato’ dell’extraumano o del soprannaturale per ottenerne gli uffici, ne muta con ciò stesso il ruolo, facendone un agente e un intermediario ‘pubblico’: quello che noi chiameremmo – appunto – un ‘sacerdote’, ossia colui che è delegato a svolgere funzioni religiose a nome e per conto dell’intera comunità. Va da sé che nelle culture più complesse la funzione rituale ‘socializzata’ alla lunga si istituzionalizzi, divenendo una carica e un ufficio formalmente riconosciuti e, soprattutto, organizzati. Per contro, l’uso invalso nella letteratura meno

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A cui dobbiamo il classico Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase (1951).

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accurata di connotare come ‘sacerdoti’ tutti gli operatori rituali – specie di ambito etnologico – non deve trarre in inganno: presso la maggior parte delle società più semplici manca affatto il concetto stesso di sacerdozio nel senso dovuto. Va inoltre sottolineato che presso quasi tutte le società in cui compaiono figure sacerdotali si tende a distinguere tra queste – cioè tra individui istituzionalmente incaricati della routine cultuale della comunità – e gli ‘stregoni’ o gli ‘sciamani’, a cui si ricorre in circostanze che esulano dalla norma. In casi di particolare gravità si ricorre anche al già menzionato ‘profeta’ – inteso nella sua accezione classica, non in quella banalizzata attuale –, che si pone a guida (spirituale e non solo) della sua gente trasmettendole le disposizioni impartitegli dalle entità sovrannaturali, vuoi nel corso di fenomeni possessivi, spontanei o indotti che siano, vuoi per mezzo di sogni o visioni – anche queste ultime eventualmente indotte con particolari tecniche o con l’assunzione di droghe. Che poi questo operatore rituale sia distinto e inteso localmente quale ‘profeta’ solo dopo l’impatto col profetismo biblico – cioè dopo l’impatto con l’occidente e il suo processo di evangelizzazione – è un fatto a mio avviso indiscutibile. Come s’usa fare abitualmente per quel retaggio culturale androcentrico che continua a condizionarci anche linguisticamente, ho parlato di questi personaggi sempre al maschile – mago, divinatore, stregone, sacerdote, profeta… –, ma in effetti tutte le figure menzionate hanno il loro corrispettivo al femminile non solo, genericamente, a livello ‘linguistico-grammaticale’, ma anche a livello attuale tanto presso le culture dell’Occidente quanto presso quelle extraoccidentali: pertanto, ove presenti, possiamo parlare esattamente di maghe, divinatrici, profetesse, ecc… Esistono però due categorie di operatori rituali – quelle degli stregoni e dei sacerdoti – la cui ‘traduzione’ al femminile può generare una certa confusione: stiamo parlando delle ‘streghe’ e delle ‘sacerdotesse’. Di fatto, il primo termine, strega, figura solo al femminile e non sempre e non necessariamente, in ambito etnologico, è il femminile di ‘stregone’ né sul piano grammaticale né su quello professionale. Anzi, secondo alcuni analisti dal penchant ‘entomologico’, si tratta di due categorie affatto 19

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distinte di professionisti magici11: lo stregone (come pure il mago) è un tecnico, per così dire, che usa consapevolmente la sua strumentazione magica per operare, nel bene e nel male, ‘stregonerie’, ‘magie’; la strega – che, attenzione, può essere anche un maschio – è invece essa stessa ‘strumento’ di male, e perfino involontariamente, perché il male le è intrinseco e connaturato: un paragone che s’usa fare è quello con lo jettatore della tradizione partenopea, che ‘porta male’ col solo sguardo, anche senza intenzione. Ciò nondimeno, se non altrimenti specificato, quando qui parlerò di streghe lo farò con riferimento al senso generico della parola, quello che potrebbe valere anche per le streghe e le maghe della tradizione nostrana: cioè nel senso di persona dotata di particolari qualità e poteri usati, esattamente come fa lo stregone, a fin di male o di bene non solo, oggettivamente, a seconda del contesto, ma anche, soggettivamente, a seconda dell’ottica in cui se ne considera l’azione. Di fatto, un’azione cattiva nei confronti di un individuo o di un gruppo può configurarsi come un’azione positiva nei confronti dei rispettivi antagonisti: in ultima analisi, sarà di volta in volta il significato sociale dell’azione stessa a favorire l’una o l’altra qualificazione. L’altro termine ‘ambiguo’ è sacerdotessa, ma è un’ambiguità che condivide in toto col suo ‘maschile’ e che – come già accennavo – riguarda specialmente l’abuso fattone in letteratura. Il termine ‘sacerdote’/‘sacerdotessa’ si dovrebbe applicare infatti solo in casi più che rari agli operatori o alle operatrici rituali di contesto etnologico, perché all’analisi risulta evidente che il più delle volte mancano affatto i requisiti per i quali, in base alla classificazione operata dalle nostre discipline, l’operatore rituale merita quel titolo: istituzionalizzazione della carica, formalizzazione del culto, templi o sedi cultuali stabili (ad es. santuari), cioè a dire, una vera e propria organizzazione religiosa dotata di specialisti a tempo pieno, quale si produce soprattutto in quelle società il cui sistema di credenza è incentrato su un

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Ricordo qui, per la sua rinomanza, la classica distinzione in merito operata da E. Evans-Pritchard. Cfr. Evans-Pritchard 2002.

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complesso di esseri destinatari di culto. Insomma: dove si sia venuto a configurare un politeismo abbastanza articolato che rispecchia l’articolazione e la complessità della società stessa12. Infine, i casi richiamati e gli esempi che si produrranno in seguito fanno quasi tutti uso del c.d. presente ‘etnografico’, ma sono ben consapevole che per alcune di queste categorie di operatori rituali – al pari della loro categorizzazione stessa! – il tempo giusto da usare sarebbe dovuto essere l’imperfetto. Non si speri, però, nella scomparsa di figure (presumibilmente) anacronistiche e irrazionali come quelle delle streghe e degli stregoni. Questi operatori e queste operatrici rituali sono più che mai vivi e operanti anche nell’attualità dell’odierno, modernizzato e in larga misura cristianizzato o islamizzato Sud (e non solo) del mondo: anzi, in alcuni contesti, come esemplarmente in quello africano, rappresentano a certi livelli non un, ma il problema sociale forse più pressante13. L’imperfetto, in verità, varrebbe soprattutto per la figura ultima e in fondo più aliena nel panorama delle culture extraoccidentali, perché senza l’apporto dell’Occidente non sarebbe neppure venuta in essere: dico il profeta, ma quello che ho chiamato ‘classico’, la cui presenza – e necessità – si è risolta con il risolversi stesso della crisi che lo aveva 12

È di un certo interesse notare che la voce ‘sacerdotessa’ dell’Oxford Dictionary così recita: “Sacerdote femmina di una religione non-cristiana” (A female priest of a non–christian religion): la religione cristiana pertanto non prevede la presenza di donne sacerdote. Il che sta già di per sé a significare una disparità di trattamento tra maschi e femmine nei confronti della gestione del sacro, sostanzialmente interdetto nella cultura occidentale alle donne. 13 Si pensi, in proposito, alla ricorrente ‘caccia alle streghe’ nel continente, condotta tanto a livello spontaneo – erompendo in feroci linciaggi – quanto governativo – con numerosi arresti. A titolo esemplificativo: dall’inizio del 2008 al mese di luglio dello stesso anno 11 persone erano state bruciate vive in un villaggio del Kenya e in Tanzanìa erano state arrestate 73 ‘streghe’ (Cfr. LV @ 2009 e Petraitis 2003). Sorprende pertanto non poco quanto scrive H. Zimon (2006: 53) secondo cui “modernization and secularization slowly cause that accusations of sorcery and witchcraft are less frequent […]”.

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prodotto: la conquista o la colonizzazione da parte degli occidentali e la prima predicazione del cristianesimo salvifico, con la sua Apocalissi giovannea e la sua millenaristica età dell’oro…

Una prima contestualizzazione Una volta chiarito che oggetto della mia analisi saranno gli operatori rituali al femminile, ossia le ‘specialiste del sacro’ presenti nelle culture extra-occidentali, cerchiamo ora di contestualizzarle nel più ampio discorso della situazione femminile. Quindi, per non lasciare l’indagine priva dei necessari referenti socio-politici, accennerò per sommi capi alla condizione della donna e al suo riflesso in ambito religioso (o viceversa: la concezione della donna nella religione e il suo riflesso sulla condizione sociale della donna) – in generale e in alcune culture in particolare14. In generale possiamo riscontrare – e quindi affermare – che in tutto il mondo le donne godono di meno diritti degli uomini e che le religioni hanno senz’altro dato un contributo decisivo a generare e poi supportare questo stato di cose. È noto a tutti che a giustificazione dell’inferiorità e subordinazione femminile il più delle volte s’invocano motivi culturali che hanno le radici in tradizioni ancestrali, e il motivo culturale più comune a cui si fa riferimento è il sistema patriarcale che, con normative diverse ma ugualmente rigorose, governava – e quanto non governa ancora?15 – la stragrande maggioranza delle società, specie di cultura c.d. ‘superiore’, a livello planetario. Per quanto riguarda la sfera del religioso, il sistema patriarcale predominante nelle culture superiori ha prodotto sistemi di credenza che, pur sancendo in teoria l’uguaglianza del genere femminile sul piano teologico, poi, nel concreto, operano una discriminazione nei confronti delle donne come tali. 14

Per una gustosa panoramica sulla misoginia, cfr. Starr 1992. 15 Sulla critica femminista al sistema patriarcale, cfr. il saggio di N. Mapelli in questo stesso volume.

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Produco un solo esempio chiarificatore di questa ambivalenza nella considerazione del femminile: la religione induista riconosce nel ‘principio femminile’ (Shakti) una delle sorgenti fondamentali dell’energia cosmica, ma nel contempo nega dignità alla donna in quanto tale, vale a dire nella sua qualità di essere umano. Infatti, a fronte di un pantheon affollato di cospicue divinità femminili, la tradizione induista considera la donna una creatura indegna cui, ad esempio, è negata la conoscenza dei testi sacri. Per contro, per ricordare solo qualche caso tra i più facili atto a illustrare gli esiti culturali (e quindi anche sociali) di una sistema patriarcale, basterà pensare alla pratica dell’harem nei contesti islamici16; alla lapidazione dell’adultera (ma non dell’adultero!) nella cultura dell’antico Israele17 ove, ad esempio, anche il periodo d’impurità post partum era maggiore se si era partorita una femmina che un maschio18; alla pratica aberrante delle mutilazioni genitali operate sulle femmine in Africa specie – ma non solo – in alcuni contesti islamizzati19; al c.d. delitto d’onore contemplato dalla nostra legislazione e abolito non così tanti anni fa…20, e via discorrendo. Dietro tutte le usanze attribuite alla tradizione ancestrale s’annida sempre una qualche motivazione d’ordine ‘religioso’, non solo perché spesso le consuetudini in questione hanno il loro stesso statuto in prescrizioni specificamente religiose (è il caso delle tradizioni riferibili ai tre grandi monoteismi), ma anche perché in contesti meno formalizzati e dogmatici quali quelli etnologici la tradizione fondata dagli antenati, mitici o storici che siano, è proprio in quanto tale

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Da non confondersi con la pratica della poliginia nei contesti etnologici – che può non esserle, in ogni caso, del tutto estranea dal punto di vista ‘ideologico’. 17 Ma ancora, al presente, negli stati islamici più ‘ortodossi’, quali esemplarmente l’Iran. 18 Elemento peraltro riscontrabile nella gran parte delle culture che richiedono la ‘purificazione’ della puerpera. 19 Di fatto la pratica, in Africa, non ha origini islamiche, né l’islam contempla le mutilazioni sessuali femminili tra le sue prescrizioni coattive. Sul tema, cfr. Visca 1982. 20 Legge n. 442 del 5 agosto 1981.

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dotata di profondo valore ‘religioso’: non possiamo infatti dimenticare che gli antenati sono, ad esempio in Africa, i più importanti referenti dei sistemi di credenza. Insomma: a qualsiasi cultura si volga lo sguardo, non mancano affermazioni puntuali della superiorità dell’uomo rispetto alla donna e spesso, a farle, sono perfino i fondatori stessi di sistemi religiosi e i filosofi o i pensatori che hanno dato sostanza alle tradizioni sviluppatesi successivamente al messaggio originario. Scendiamo nel particolare, allora, e facciamo qualche esempio. Per tornare all’India, in un suo testo sacro la donna viene definita come una creatura ‘dalla nascita colpevole, immorale’, e il Manusmriti, una raccolta di leggi, afferma che la donna ha bisogno di essere protetta, ma non da pericoli esterni, bensì dai pericoli derivanti dal suo smisurato e incontrollabile potenziale sessuale: il potere della sua seduzione è ritenuto infatti devastante. Senza poi contare l’istituzione del sati, per cui la vedova si immola sulla pira funeraria del marito (ma non succede lo stesso se è l’uomo che rimane vedovo!). Una tale ‘misoginia’ religiosa è rinvenibile in altre tradizioni orientali21, ma per il momento preferisco soffermarmi brevemente solo su quella individuabile nei tre monoteismi. Nella bibbia è Eva che porta Adamo al peccato e alle sue conseguenze per l’umanità tutta, così il mito della Genesi fonda che la donna dovrà partorire con dolore ed essere sottomessa all’uomo, che avrà autorità su di lei. Il Siracide ribadisce il concetto: “Dalla donna ebbe principio il peccato, e per lei moriamo tutti” (XXV, 24) e Qoèlet incalza: “… ho trovato che la donna è più amara della morte […]. Colui che è caro a Dio fuggirà da lei […] Tra mille trovai un uomo; tra tutte le donne non ho trovata una donna” (VII, 27, 29). C’è chi arriva a ringraziare Dio per non averlo fatto nascere donna – sono gli ebrei, nella preghiera del mattino22 –, e considera la donna impura durante le mestruazioni 21

Si pensi a certe affermazioni di Confucio, o a quelle attribuite al Buddha – ancorché in questo, come in tutti gli altri casi, si cerchi di ‘storicizzare’ tali giudizi riferendoli al contesto culturale di cui furono espressione. 22 La frase è stata espunta dalla preghiera degli ebrei riformati.

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– ancora gli ebrei, ma non solo loro. Il rabbino Giuseppe Caro, autore cinquecentesco di una codificazione del Talmud, scrisse: “Un uomo non camminerà tra due donne, due cani o due maiali, e due uomini non permetteranno a una donna, un cane e un maiale di camminare in mezzo a loro”23. Si consideri che ancor oggi in sinagoga donne e uomini sono tenuti separati (ma lo furono a lungo anche i cristiani in chiesa!) e la donna non vi può cantare, perché il suo canto può ‘turbare’ l’uomo – il che è fonte di preoccupazione religiosa; ciò nondimeno l’ebraismo ortodosso non vieta ruoli pubblici alla donna, a parte il rabbinato (permesso comunque dall’ebraismo riformato). Il Corano non è da meno. Da un canto professa l’uguaglianza di tutti – maschi e femmine – davanti ad Allah, e lascia ad entrambi la possibilità della redenzione, dall’altro vi si afferma decisamente che gli uomini sono superiori alle donne; che le donne virtuose sono quelle ubbidienti e sottomesse (ovviamente al maschio); che se disobbediscono i loro mariti le lasceranno “sole nei loro letti” e le potranno picchiare…(Sura IV). A riprova del trattamento discriminatorio dell’islam nei confronti delle donne possiamo citare l’uso del burqa – anche se si dice che è per difenderle dal maschio, in verità mira a difendere l’uomo dal potere del fascino femminile! – e la pratica del purdah, cioè l’isolamento delle donne dalla comunità, la loro segregazione e l’allontanamento dagli spazi comuni, che è peraltro in uso anche tra gli indù di casta elevata – ma qui per salvaguardare la purezza di casta, mentre nell’islam il fine è, ancora, quello di tener lontani gli uomini dalle tentazioni. Il cristianesimo dal canto suo è un coacervo di contraddizioni. Se la bibbia recita che “Dio creò l’uomo a sua immagine: lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina” (Gen. 1, 27), Paolo afferma a sua volta che per i cristiani non c’è più “né maschio né femmina”, perché “voi tutti non siete che una sola persona in Gesù Cristo” (Gal. 3, 28), ma vieta poi alle donne di parlare nelle assemblee (I Cor. 14, 34). La teologia patristica e quella medievale non saneranno 23

Cfr. Chefare @ n/a.

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le incongruenze: Tertulliano afferma che “le donne sono la porta del diavolo” e che a causa di ciò che la donna ha fatto “il Figlio di Dio è dovuto morire” (De cultu foeminarum, l. 1, cap. 1); S. Agostino, che teneva in tanta considerazione le donne da non vedere per quale aiuto fossero state fatte per l’uomo, “se si esclude il fine della procreazione” (De Genesi ad litteram, 9:5), arriva ad affermare, nei Soliloquia (1:10), che le relazioni sessuali vadano radicalmente evitate: “Penso – scriveva – che nulla avvilisca l’uomo quanto le carezze di una donna e i rapporti corporali che fanno parte del matrimonio”24; S. Tommaso, dal canto suo riteneva la donna un errore della natura, una specie di uomo mutilato, fallito e mal riuscito: “foemina est animal imperfectum”25 (Summa Theologiae, Ia IIae, q. 102 a. 3 ad 9) – per affermare poi che senza la donna il mondo, però, sarebbe “imperfetto” (Ia q. 92 a. 1 ad 3). Anche gli ortodossi considerano le donne responsabili di tutti i peccati, mentre per ciò che concerne il protestantesimo si sa che ai tempi della Riforma la teologia espresse giudizi ambivalenti – se non negativi tout court – nei riguardi della donna: si pensi ad alcune affermazioni dello stesso Martin Lutero, per il quale notoriamente le donne dovrebbero restare a casa, sedere silenziose, badare alla casa e far figli – ché questo è lo scopo della loro esistenza26. Infine, non posso fare a meno di accennare al fatto che in tutte e tre le maggiori ramificazioni del cristianesimo l’opzione patriarcale è proiettata anche sul piano teologico: Dio è Padre – e c’è chi si ricorda ancora lo scandalo che fece papa Albino Luciani quando chiamò Dio “madre”... Quanto alla sessualità, punto dolente per tutt’e tre i monoteismi, va detto che mentre l’ebraismo, pur sublimandola col finalizzarla 24

E su questa scia papa Gregorio I – San Gregorio Magno – arrivò a definire atto colpevole l’unione sessuale anche all’interno del matrimonio legittimo (Gregorio M., Ep. ad Agostino di Canterbury, S. Ch, 371, Appendix 11, c. 8). 25 Per onestà intellettuale va detto che nel contesto specifico Tommaso parla di animali per il sacrificio! 26 Le famose tre K: Kirche, Kinder, Küche! Cfr. King 1991.

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unicamente alla procreazione, non considera l’uomo personalità completa senza la donna, il cristianesimo e più specificamente il cattolicesimo esalta la continenza e consacra la castità, imponendola con voto solenne ai religiosi regolari, cioè ai monaci e alle monache. L’islam, dal canto suo, vigila sulla sessualità, garantita dal matrimonio, relegando – come già sappiamo – la donna nel privato, e dando all’uomo la possibilità di sposare fino a quattro donne. Per tornare al cristianesimo, è probabile che le prime comunità cristiane sperimentarono un netto miglioramento della condizione femminile rispetto al giudaismo e in generale, secondo la nota opinione dello storico Le Goff, fu proprio il cristianesimo a favorire la condizione della donna dal medioevo in poi – una situazione che però si perse con l’instaurarsi dei valori della borghesia nel XIX secolo27. È incontestabile, d’altro canto, che solo la religione ha consentito alle donne di alcune aree dell’Europa cristiana l’opportunità di esprimere se stesse, affrancandole dalla loro condizione di ‘mutismo’ nei contesti pubblici, e rendendo in tal modo meno netta la tradizionale distinzione tra la sfera d’azione pubblica, di dominio maschile, e la sfera d’azione privata riservata alle donne. Specie nei contesti in cui la posizione della donna era del tutto marginale, come ad es. nell’Europa meridionale fino a non molti decenni fa, e dove predominava la religione popolare, maggiormente orientata verso la pratica – come si usa dire: più verso il fare che verso il credere –, quello delle pratiche rituali era uno dei pochi campi d’azione in cui alle donne era consentito di prendere parte attiva e di esprimere le proprie capacità espressive e la propria creatività, pur senza assumere, ovviamente, alcun ruolo istituzionale: in altre parole, era l’istituzione, la Chiesa stessa, che concedeva alle donne una sorta di valvola di sfogo, di cui peraltro gestiva e controllava accortamente l’utilizzazione. Le cose oggi vanno un po’ diversamente – almeno in Occidente e nei contesti occidentalizzati – sul piano della parità di diritti civili, tuttavia enormi differenze sussistono ancora in campo religioso. 27

Cfr. Le Goff 1996.

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Per quanto qualcuno sostenga che sia stato il cristianesimo a valorizzare la differenza di genere e il ruolo della donna28, a fronte dei reiterati omaggi alla donna del Magistero – si pensi alla pubblica ammenda fatta da Giovanni Paolo II in occasione del giubileo del 2000 per i peccati della Chiesa, tra cui compare anche quello contro la dignità delle donne, e alla lettera da lui inviata già nel 1995 “ad ogni donna”, ove chiedeva perdono (a Dio) per le ingiustizie compiute in nome di Cristo nei confronti delle donne –, e nonostante che dal 1970 ad oggi la Chiesa abbia nominato ben tre donne Dottore della Chiesa29 (Teresa d’Avila, Caterina da Siena, Teresa di Lisieux), le donne sono ancora radicalmente escluse dall’assunzione di ruoli sacerdotali, salvo in un (peraltro contestato) settore della confessione anglicana e presso alcune ‘sètte’ tenute per eretiche30. Come ho già detto, non intendo portare avanti un discorso antropologico sulle questioni di genere, perciò non mi soffermo oltre su questi argomenti. Tuttavia, per completare questo sommario quadro storicoantropologico, farò ulteriori accenni al tema specifico del rapporto tra donna e religione (o sacro) presso le culture che storicamente hanno più influito sulla costruzione della nostra cultura – dove, in larghissima misura, le qualitativamente caratterizzanti e quantitativamente preponderanti confessioni cristiane interdicono, come s’è detto, il sacerdozio31 e, più in generale, ruoli religiosamente attivi, di effettiva gestione del sacro, alle donne. 28

Cfr. ad es. Ales Bello 2004. 29 A fronte di – complessivamente – 30 Dottori maschi: una proporzione davvero non esaltante. 30 Si tenga d’altro canto presente che la Riforma protestante abolì del tutto il sacerdozio di tipo gerarchico, assumendolo come ‘universale’: Dio non ha intermediari, e i pastori sono semplici guide spirituali della comunità – cosicché numerose denominazioni contemplano senza problema la figura della pastora. 31 Per completezza d’informazione: la Congregazione per la dottrina della fede, il 19 dicembre 2007, ha riconfermato con un decreto la scomunica latae sententiae sia per chi ordina una donna sacerdote che per la donna così ordinata, disposta già dal Canone 1378 del Codice di Diritto Canonico.

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Quale era la situazione nel passato pre-cristiano? Come sappiamo, la cultura occidentale è il frutto di una storia che ha coinvolto parecchie componenti: dal mondo greco-romano ai popoli barbari, dal vicino oriente al cristianesimo – che in qualche modo tutte quante le ha fagocitate, al punto che la cultura occidentale può assumere anche la definizione di giudeo-cristiana, facendo esplicito riferimento al complesso religioso che la connota ben aldilà dei limiti geografici… Fondamentalmente, nel suo background possiamo pertanto distinguere tra una cultura del Mediterraneo – a cui appartiene di fatto anche il cristianesimo – e una cultura nordica, con la prima decisamente più significativa, ma non esclusiva, nel suo processo di costruzione. Quale era dunque la posizione o condizione della donna nelle società in questione? A un rapido sguardo possiamo vedere che, pur trattandosi in ogni caso di culture al maschile, mentre le civiltà vicino-orientali (sumeri, babilonesi, assiri, fenici) parrebbero aver riservato una posizione dignitosa alla donna – specie se nobile32 –, egizi e greci erano entrambi rappresentanti di culture androcentriche, ma la Grecia certamente più dell’antico Egitto: da quanto si può dedurre dalle statue e dalle pitture murali, la condizione della donna in Egitto era, entro certi limiti, più prossima a una certa eguaglianza di quella della donna greca, priva di diritti e largamente estromessa dalla vita sociale della polis, fatta eccezione per Sparta. Per contro, pare che la donna etrusca godesse di una rilevante parità cogli uomini, tanto inusuale nel contesto del mondo ‘classico’ da aver indotto qualcuno a parlare addirittura di ‘matriarcato’. Le testimonianze sono quasi esclusivamente archeologiche, ma significative: ad es., nelle iscrizioni il nome della donna è preceduto dal prenome (ciò che tra i romani è riservato esclusivamente ai maschi) e nell’onomastica etrusca accanto a quello del padre figura anche il nome

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Per motivi facilmente intuibili, è difficile comprendere quale potesse essere, in qualsivoglia contesto della remota antichità, la condizione della donna ‘qualunque’, al riguardo della quale di norma mancano chiare evidenze archeologiche o letterarie.

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della madre – per non dire poi dell’aspetto sorridente e compiaciuto delle spose che compaiono stese accanto ai mariti sui coperchi dei sarcofaghi… Le uniche donne nella Grecia antica il cui status era pari a quello dei maschi loro contemporanei erano le sacerdotesse delle divinità più venerate: il che sta a significare che, pur politicamente ‘marginali’, le donne avevano accesso al sacro, potendo assumere numerosi e vari ruoli sacerdotali o rituali33, a volte anche esclusivi e di estrema rilevanza – si pensi anche solo alla Pizia, sacerdotessa (di fatto, profetessa) di Apollo a Delfi, o alle profetesse di Zeus a Dodona. A Roma, per contro, la donna, pur relegata in ruoli prettamente domestici e pur giuridicamente soggetta alla potestà del padre e del marito, cui in sostanza ‘apparteneva’, non era socialmente altrettanto emarginata della donna greca: poteva accompagnare il marito a banchetti e cerimonie, recarsi alle terme, a teatro, al circo ecc., godere di alcuni diritti ‘civili’ (ad es. in materia di divorzio e di eredità), e anche raggiungere un rilevante livello culturale34. A fronte di questa relativa considerazione, troviamo un solo ed unico caso, ancorché importantissimo, di sacerdozio femminile a Roma, quello della famose Vestali35, esse stesse tuttavia rappresentanti la quintessenza del femminile – totalmente estraneo alla sfera pubblica maschile – secondo il sistema di pensiero romano. Caste, dedite a lavori donneschi (sono loro che preparano la mola salsa, il tritello di farro con cui si cospargevano le

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Ciò che di fatto ha consentito ad alcuni di contestare – a motivo della rilevanza ‘pubblica’, ‘politica’, della dimensione religiosa nel mondo greco – la ‘marginalità’ della donna in Grecia. 34 Di cui ci rendono testimonianza per un verso la fama, ad es., della figlia di Scipione Africano, Cornelia, madre dei Gracchi e donna di straordinaria cultura, per altro verso i componimenti della poetessa Sulpicia del I sec. a.C.: i soli, però, che ci siano rimasti di una letterata romana e perdipiù raccolti nel Corpus Tibullianum – e a Tibullo di fatto tuttora attribuiti nella maggioranza delle letterature latine. 35 La eccezionalità e insieme non ‘rappresentatività’ delle donne romane nel sacerdozio (ufficio fondamentalmente ‘pubblico’, ‘maschile’ e ‘statuale’) sono ulteriormente sottolineate dall’esiguità del numero delle vestali: sei in tutto.

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vittime dei sacrifici36), godevano ciò nondimeno di grandi ed esclusivi privilegi, alcuni dei quali tipicamente ‘maschili’: l’affrancamento dalla patria potestà, la facoltà di testare e testimoniare senza giuramento, di chiedere la grazia per i condannati a morte incontrati per via, di essere sepolte entro il pomerio, ossia entro i confini dell’urbs. A fronte di questi privilegi, dobbiamo considerare che in caso di ‘incesto’ (i.e. sacrileghi rapporti sessuali) o di spegnimento del fuoco sacro e conseguenti – o piuttosto motivanti! – catastrofi e prodigi mostruosi, venivano sepolte vive, cioè uccise senza spargimento di sangue, con un rito che sembra adombrare un sacrificio umano37. Più ampi ruoli sacerdotali saranno tuttavia conquistati dalla donna romana in età imperiale, con l’ingresso a Roma di riti di origine orientale – in primis l’esotico culto di Iside. Concludo con un rapido cenno a una cultura tornata di grande attualità grazie al neo-paganesimo e al New Age: quella nordica di galli, britanni, celti, ecc. Qui il sacerdozio era aperto ad entrambi i sessi: non è certo, però, che le donne fossero effettivamente ammesse a far parte dello specifico e qualificante ordine dei druidi38, mentre ci sono prove della presenza di sacerdotesse/profetesse chiamate bandrui. In certi contesti la funzione di queste ultime era perfino più importante di quella del druido – da cui possiamo comprendere anche il successo della religione druidica presso le new ager neo-pagane di fede ‘femminista’39. Le sacerdotesse, che erano fondamentalmente maghe, divinatrici e guaritrici, si occupavano del culto delle divinità femminili cui erano consacrate e dei riti di fertilità e di morte che scandivano l’anno; tra di esse, alcune osservavano un voto

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Da cui immolare. 37 L’ultima vestale, con spegnimento del fuoco sacro, fu Celia Concordia nel 384: i culti pagani furono di fatto vietati da Teodosio I nel 391. 38 Non è detto, infatti, che fossero druidesse le donne vestite di scuro, coi lunghi capelli al vento e fiaccole accese in mano, della cui presenza accanto ai druidi ci riferisce Tacito negli Annales, narrandone il massacro da parte dei romani nel 61 d.C. (XIV, 29-30). 39 Vedi il saggio di N. Mapelli in questo stesso volume.

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perenne di castità ma altre, all’opposto, celebravano riti a sfondo sessuale, di grande rilevanza cultuale in quanto nella religione druidica l’unione sessuale riattualizzava sul piano simbolico una potente ierogamia – cioè, l’accoppiamento tra o con entità divine. Come prevedibile, con l’avvento del cristianesimo e la sua diffusione nelle terre nordiche questi rituali furono immediatamente soppressi perché ritenuti oltremodo peccaminosi, intanto che tutto il complesso delle credenze celtiche veniva per intero demonizzato e druidi e sacerdotesse perseguitati come stregoni, fattucchiere e, infine, eretici. Forse le figure sacerdotali femminili più ‘famose’ in virtù dei loro comportamenti rituali appartengono a una cultura che ha certamente contribuito anch’essa – in qualche modo – a ‘costruire’ l’Occidente in virtù dei tanti intrecci tra antiche culture di cui parla la storia: alludo alle sacerdotesse mesopotamiche (sumere, assire, babilonesi, ecc.), sacre ad Inanna/Ishtar e dedite alla prostituzione rituale nei templi – tra le quali tuttavia figuravano anche delle caste ‘vestali’ –, il cui gran numero all’opera nei recinti templari non mancò di stupire lo stesso Erodoto, nel V sec. a.C. Va da sé che il rapporto sessuale praticato nei templi aveva un carattere rituale e altamente simbolico – nell’esplicarlo, infatti, le sacerdotesse figuravano quali temporanee personificazioni della dea e pertanto elevavano a una condizione divina anche gli uomini con cui si univano: in tal modo la prostituzione sacra esprimeva ritualmente una ierogamia40. Anche la dea fenicia Astante aveva a sua volta prostitute sacre, ma perfino popolazioni per così dire ‘italiane’ hanno conosciuto forme di prostituzione sacra: ad es. gli etruschi. Nei pressi di Santa Severa (RM) furono ritrovati i resti di un grande santuario, probabilmente quello, ricchissimo, di Pyrgi dedicato a Uni-Astarte e saccheggiato nel 384 a.C. da Dionigi il Vecchio di Siracusa, la cui prosperità viene attribuita proprio alla pratica della prostituzione sacra.

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L’obolo versato alle ierodule per la loro ‘prestazione’ era, peraltro, interamente devoluto al tempio.

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Aprendo una rapida parentesi aldifuori dei presupposti della cultura occidentale, ma utile a dare un assaggio di comparazione tra culture superiori, menziono le acclas (acllas) o mamaconas (se anziane) incaiche (Perù), chiamate anche le spose del Sole, perché dedite prevalentemente, ma non esclusivamente, al culto del Sole e dell’Inca41: queste sacerdotesse, scelte tra le giovani nobili, godevano di grandi privilegi e poteri, ma all’occorrenza potevano anche venire sacrificate – ciò che, comunque, nel particolare contesto va anch’esso considerato un privilegio... Dovevano essere e restare vergini – a meno che lo stesso Inca non se ne servisse – e cerimonie grandiose ne celebravano le nozze col dio cui erano associate. Come le vestali romane, cui per alcuni versi assomigliano (vivevano nel complesso sacro acclawasi, dovevano tenere acceso il fuoco sacro, cucinavano anche loro per le feste…), tra i loro compiti vi era quello di istruire le neofite. Altrettanto velocemente ricordo che in Oriente troviamo le note monache buddiste (bhikkhuni) facenti parte (al pari dei monaci: bhikkhu) dei sangha, cioè delle comunità monastiche istituite da Buddha stesso nel V sec. a.C., e assai diversamente connotate a seconda della realtà locale in cui operano, sia essa la Cina (dove pare che sopravanzino numericamente i monaci) o il Tibet o altri paesi seguaci del Theravada; la Thailandia per contro fa eccezione, perché fino a pochi anni fa non vi si trovavano monache ordinate, mentre a Taiwan esistono, ma non sono particolarmente rispettate. C’è da dire che le funzioni delle monache sono quasi ovunque oltremodo modeste: di norma accudiscono i monaci42, i quali pure, a loro volta, non hanno grossi impegni rituali di tipo sacerdotale, dedicandosi perlopiù alla meditazione, al confezionamento di amuleti o a benedizioni. In effetti, potrebbe essere considerata un’imprecisione 41

Cfr. Acosta 1962: 240. 42 L’‘accudimento’ è inteso universalmente come compito propriamente femminile: dalla moglie/madre all’infermiera, passando per la segretaria, si estende fino alla religiosa (e forse anche oltre, se pensiamo al modello mariano, solo parzialmente temperato dal Concilio Vaticano II)! 33

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rubricare bhikkhu e bhikkhuni nella tipologia sacerdotale propriamente detta, tanto più tenuto conto che molti studiosi tendono a negare al buddismo la qualifica stessa di ‘religione’, adducendone a motivo la (discutibile) mancanza di un referente divino. Tuttavia, a parte l’opportunità di contestualizzare alle diverse culture la categoria sacerdotale stessa, credo che il problema possa essere superato considerando non solo la profondità storica, istituzionalizzazione e attiva presenza del monachesimo buddista nelle aree di sua competenza, ma anche l’enorme significato e popolarità da esso universalmente conquistati – spesso per ragioni non solo religiose, come nel caso del monachesimo tibetano. Di fatto, se è ‘sacerdote’ colui che media pubblicamente e ‘politicamente’ il religioso a beneficio della comunità, forse oggigiorno nessuno merita più dei monaci e delle monache tibetani l’applicazione della qualifica sacerdotale. In Estremo Oriente, in Giappone e Corea in particolare, troviamo invece figure sacerdotali femminili ascrivibili alla categoria delle sciamane, sulle quali ritornerò a breve. A questo proposito, e a suffragio della profondità e rilevanza storica del fenomeno, vale la pena menzionare la famosa Himiko43, una donna regnante nella prima metà del III secolo d.C. in un antico regno giapponese che la maggioranza degli studiosi colloca nella regione dello Yamato: una misteriosa figura di regina nubile, di fatto una sciamana dedita alla magia e alla stregoneria, che aveva ottenuto il potere dopo una lunga guerra e mille incantesimi e la cui vicenda viene narrata in una storia cinese. Lasciando alla tradizione quest’antica eroina, nel Giappone odierno troviamo le miko, le ‘ragazze del tempio’ della religione shintoista: di fatto le figure più accreditate e influenti della religione popolare giapponese. La voce miko anticamente significava sciamana, medium, profetessa, sacerdotessa…, aveva cioè una valenza che apparentemente abbraccia più categorie ‘professionali’; in concreto, la miko era una ‘normale’ operatrice rituale posseduta dai 43

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Cfr. Kidder 2007. Himiko più che un nome personale è, di fatto, un appellativo.

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kami (le entità cultuate nello shintoismo), di cui trasmetteva ammaestramenti e profezie in un contesto templare; all’occorrenza, la donna poteva anche non essere incardinata ad alcun tempio, ma vivere in un villaggio o peregrinare per il paese praticando la magia e fungendo da medium. Fino a non molto tempo fa la miko era prevalentemente la figlia del sacerdote in carico di un tempio e lo accudiva e coadiuvava nella conduzione delle cerimonie; oggi il suo ruolo si è notevolmente ridimensionato: essa è una donna – solo teoricamente una vergine come vorrebbe la tradizione, ancorché di fatto, sposandosi, di norma lasci l’incarico – che perlopiù part-time o come volontaria esercita o assiste a funzioni rituali presso un tempio shintoista. In effetti, lo shintoismo annovera anche sacerdoti femmina (manca il termine femminile), con autorità maggiore rispetto a quella delle miko – le quali tuttavia, in assenza di un sacerdote (m. o f.), potevano assumerne le mansioni44. Nel contesto dell’Asia orientale, i casi più noti di sciamanesimo al femminile appartengono però alla Corea ove lo sciamanesimo, non più cospicuo come un tempo ma suffragato tuttora da largo seguito nel paese, sincretizza i fondamenti religiosi della tradizione con credenze e pratiche di matrice buddista e taoista. La mudang – come la sua assai meno numerosa controparte maschile – agisce da mediatrice tra la divinità e gli esseri umani e i suoi uffici sono richiesti per assicurare fortuna, curare malattie esorcizzando gli spiriti patogeni, propiziare gli spiriti locali e guidare in cielo lo spirito dei singoli morti. Secondo una norma che riscontreremo pressoché universale, la donna è ‘chiamata’ a farsi sciamana a seguito di una malattia fisica o mentale: questa patologia è considerata indizio della sua possessione da parte di uno spirito ed è curabile solo con pratiche rituali sciamaniche; secondo una prassi altrettanto universale quando si tratta di vocazioni spirituali, la donna oppone resistenza alla chiamata e diventa sciamana ‘suo malgrado’.

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Le miko costituiscono eroine ‘classiche’ della letteratura giapponese, ma oggi soprattutto dei manga e dei famosi cartoni animati giapponesi.

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Riprenderò questi discorsi quando tratterò specificamente dello sciamanesimo e metterò in luce le caratteristiche che lo differenziano dal sacerdozio – anche se oggi si tende necessariamente, e forse anche opportunamente, a confondere le due categorie. Ora continuiamo la nostra panoramica. In India pare che anticamente le sacerdotesse fossero molte: alcune di grande reputazione e famose letterate. Nel tempo esse sono, però, quasi del tutto scomparse, forse non per uno ma per una combinazione di motivi: perché si restrinse il ruolo sacerdotale a una sola casta e, in questa, ai soli uomini; o forse perché a un certo punto della sua storia la civiltà indiana perse il suo antico splendore e subì un notevole impoverimento culturale che produsse l’abbassamento dello status della donna e la sua conseguente esclusione da ruoli impegnativi... Di fatto, sebbene tecnicamente l’induismo non vieti il sacerdozio femminile, tradizionalmente esso è divenuto un’attività maschile. Resta, ed è assai famosa, una sola categoria particolare di sacerdotesse indiane: le devadasi, le danzatrici sacre nei templi, il cui stile di danza oggi è divenuto oggetto di rappresentazione ‘profana’, teatrale, in tutto il mondo. Le devadasi, originariamente caste vergini al servizio degli dei, col tempo assunsero il ruolo di prostitute sacre, specie per favorire i raja e i bramini: l’istituzione fu resa illegale nel 1947 al momento della emancipazione dell’India dall’Impero britannico, ma le devadasi, come danzatrici, restarono in funzione ancora a lungo, riducendosi tuttavia di molto, numericamente, col passare degli anni. C’è da dire che la pretesa parità tra i sessi nell’antica India e, di più, l’affermata ‘venerazione’ per le donne è una tesi portata avanti, quasi ribaltando le affermazioni dell’archeologa Marija Gimbutas45, da rappresentanti dell’attuale neo-induismo (tipicamente new-ager) e soprattutto dalle femministe (indiane e non) che, un poco pretestuosamente, applicano la loro tesi all’India Vedica; d’altro

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La quale, com’è noto, attribuiva proprio alla comparsa di bellicose popolazioni indoeuropee di struttura patriarcale la fine della pacifica ed egualitaria cultura preistorica caratterizzata dal culto della Grande Madre.

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canto anche un autore ottocentesco, Louis Jacolliot (1837-1890) ha scritto che “India of the Vedas entertained a respect for women amounting to worship” 46: grande conoscitore dell’India, Jacolliot è stato ciò nondimeno definito del tutto ‘inattendibile’47. In realtà, è pur vero, ad esempio, che dei 407 saggi (rishi) associati alla rivelazione divina dei RgVeda e compositori di inni 21 sono donne, e che nelle Upanishad compaiono donne che discutono liberamente con uomini alti argomenti filosofici, ma ciò nonostante una tesi del genere appare più verosimile per il passato pre-patriarcale dell’India – un passato preistorico su cui molto si è congetturato ma che resta estremamente opinabile, dacché manca una documentazione certa. Anche tutte le innegabili situazioni concrete di storica discriminazione, prevaricazione e abuso ai danni delle donne vengono da questi teorici del “worship” indiano delle donne comparate ad analoghe situazioni documentate in Occidente per dimostrare che percentualmente l’India si macchia di assai meno soprusi e delitti contro la donna della società euro-americana. E a proposito dei diritti della donna, si fa notare che l’India ha avuto Indira Gandhi come Presidente per vent’anni, quando ancora nessuna figura femminile predominava nella politica degli stati occidentali; e c’è perfino chi ha sostenuto che l’idea del femminismo e dell’ecologia – oltreché la concezione stessa di una Madre Terra (la Bhu-Devi in India) – è giunta all’Occidente grazie all’incontro con l’India negli anni Sessanta del secolo scorso48: ma il femminismo, quanto meno la sua prima, storica ondata, è di molto antecedente la fascinosa svolta contro-culturale di quegli anni. Per venire a fatti verificabili, è innegabile che oggi, al pari delle occidentali, anche le indiane competono con gli uomini in tutte le attività e, per tornare alla questione del sacerdozio, anche se non sembra essere un ruolo particolarmente ambito, coerentemente con questa loro nuova 46

Così traduce la nostra fonte. Cfr. Polisi @ 2003. 47 È, tra l’altro, l’A. di un’ennesima ipotesi di ‘Continente perduto’ (Rutas) nell’Oceano Pacifico. 48 Le notizie qui riportate sono tutte reperibili in HW @ 2008.

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assertività, alcune donne se ne stanno riappropriando. Nonostante una certa resistenza da parte degli uomini (in effetti le donne in molte aree dell’India non potrebbero neppure entrare nei templi!), a Pune, un’area particolarmente progredita dell’India, attualmente un numero crescente di donne studia da sacerdotessa in un apposito centro universitario e officia cerimonie indù. A quanto pare le donne sono preferite dalle famiglie che se ne servono perché ritenute più disponibili e partecipi rispetto ai maschi, sovraccarichi di impegni durante le grandi festività e spesso sacerdoti ereditariamente, perciò privi di quella genuina vocazione che muove invece le donne. Ciò nondimeno, alla piena assunzione del ruolo sacerdotale da parte delle donne sussistono alcuni ostacoli apparentemente insormontabili: infatti, a parte il tenace tradizionalismo degli indù delle vaste aree rurali, che rifiutano ancora i servizi delle donne per le loro puja, le donne non possono officiare riti connessi alla morte (la cremazione, ad es., è affare esclusivamente maschile: ma almeno una donna, Sandhya Kulkarni, ha infranto il millenario tabu), e perdipiù sono considerate impure durante i periodi mestruali e assolutamente non in grado, allora, di occuparsi del sacro49. Per quanto riguarda l’India un’ultima parola va detta per una categoria particolare di persone che non sono propriamente né sacerdoti né stregoni, ma spesso venerate incarnazioni della divinità: alludo ai guru. Storicamente, il ruolo è stato esclusivamente maschile, ma da ultimo sia in India che negli USA50, e di fatto in tutto il mondo, si sono affermate in qualità di leader religiosi numerose e valenti personalità femminili.

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Cfr. Dhaliwal @ 2001 e Kaur @ 2008. 50 A far data dal famoso Parlamento mondiale delle religioni (Chicago 1893) divenuti il capolinea dell’emigrazione della spiritualità esotica, in particolare dall’India.

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L’ascesa al mondo degli spiriti: sciamanesimo al femminile Come ho anticipato nel paragrafo precedente, voglio soffermarmi brevemente sul caso dello sciamanesimo – più per il successo contemporaneo (quasi una moda!) di questo fenomeno attorno al quale si organizzano convegni e giornate di studio, si pubblicano tesi e testi, che per una maggiore importanza storico-religiosa delle sciamane rispetto a, chessò, le profetesse o le sacerdotesse (il che vale anche per le loro controparti maschili). Ciò premesso, va detto, in ogni caso, che lo sciamanesimo riveste una grande importanza sul piano etnologico-religioso, anche se è necessario disambiguare il termine e il concetto, divenuti estremamente vaghi e fumosi dopo che di essi si è impadronito il New Age. Questo, malauguratamente, ha fatto dello sciamanesimo un contenitore di temi e fenomeni estremamente diversi, sussunti nella categoria di cui stiamo parlando solo per ignoranza, faciloneria o fraintendimento – quando non si tratti di un cosciente e funzionale travisamento! –, ingenerando così la sconcertante confusione che oggi avvolge questa pratica e questo sistema di credenze magico-religiose peculiari a numerose culture tradizionali. Tornerò sull’uso improprio del termine (eventualmente modificato in neo-sciamenesimo) da parte dei seguaci del New Age, ma ora cerchiamo di chiarire in che cosa consista il fenomeno nei suoi propri e specifici caratteri distintivi, premettendo che la presenza femminile nei contesti autenticamente sciamanici quasi pareggia quella maschile e che le prime testimonianze archeologiche dello sciamanesimo si sono trovate in area centro-europea (Repubblica ceca) e sono testimonianze al femminile. Nella descrizione generale, comunque, parleremo convenzionalmente di sciamano al maschile: va da sé che quanto diremo vale in larga misura anche per le sciamane (quanto allo sciamanesimo al femminile faremo il caso, già accennato, delle mudang coreane). Quando si parla di sciamanesimo la prima cosa che si cita è la sua etimologia, che risale al tunguso shaman dal pali samana dal sanscrito sramana (= saggio; radice indoeuropea sa, cfr. sapere). Nell’uso attuale (extra New Age) di solito il termine sciamano è fatto coincidere con 39

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quello di stregone/guaritore ma, pur tenendo conto di numerose effettive analogie tracciabili tra l’operato del medicine-man e quello dello sciamano, dal punto di vista etno-antropologico tale equivalenza andrebbe considerata un errore, perché il termine ‘sciamano’ appartiene a una specifica area linguistica e culturale – appunto quella mongolica dell’Asia settentrionale. Di fatto, proprio l’appartenenza dello sciamanesimo propriamente detto ad una specifica area culturale sollecita o consente uno scrupolo e un rigore classificatorio altrimenti contrastabili. Parimenti, sarebbe errato ritenere gli sciamani figure sacerdotali, dacché i sacerdoti sono operatori rituali istituzionali – vale a dire individui sanciti come tali (per iniziazione o delega) da un’organizzazione religiosa socialmente riconosciuta –, che agiscono pubblicamente a beneficio di tutto un gruppo, laddove lo sciamano di norma opera come tale privatamente e aldifuori della religione ‘istituzionale’, in virtù di poteri personali acquisiti a seguito di una chiamata individuale. Detto ciò, va riconosciuto che in numerosi casi gli sciamani svolgono funzioni che possono effettivamente essere qualificate come tipicamente pertinenti ai sacerdoti. Quali sono dunque le funzioni dello sciamano? Sono molteplici – anche di qui la confusione terminologica – a seconda della cultura da cui è espresso: fondamentalmente è un guaritore, ma può essere anche un divinatore, uno psicopompo e un cantore o narratore di miti, eventualmente anche tutte queste cose assieme51. Ha la prerogativa di comunicare con entità sovrumane (divinità, spiriti della natura o dei morti), con cui può entrare in contatto in stato di trance, vuoi spontaneamente (per ‘chiamata’), vuoi mediante iniziazione (caso percentualmente più raro), vuoi mediante apposite tecniche (percussione di tamburo, assunzione di droghe, veglie e digiuni, ecc.): di fatto, lo sciamano ‘classico’ – ad es. quello siberiano – una volta entrato in trance affronta un viaggio spirituale per incontrare gli spiriti nel loro mondo ultraterreno e lì apprendere in che modo supe-

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Si pensi al caso emblematico del nele (sciamano) cuna sviscerato da C. LéviStrauss (Lévi-Strauss 1968: 210 ss).

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rare la crisi per la quale è stato richiesto il suo intervento. La ‘chiamata’ è un evento drammatico e sconvolgente manifestantesi in forma di un disturbo di tipo psichico che ciò nondimeno non viene inteso come patologico, bensì come rivelazione della vocazione sciamanica del soggetto interessato: questi, al pari di quanto avviene nel caso del profeta, le oppone una notevole resistenza, ancorché alla fine non possa sottrarvisi. Come già osservato in una precedente occasione a proposito di operatori rituali del genere mago o stregone, anche lo sciamano – a volte assistito da uno o più spiriti tutelari – può tanto guarire e fare del bene, quanto nuocere e uccidere: per questo gli sciamani sono tanto rispettati e onorati quanto sospettati e temuti dai propri contribuli. Essendo lo sciamano fondamentalmente un guaritore, il motivo più frequente per il quale si cerca il suo intervento è la diagnosi e la terapia di malattie di natura, indifferentemente, psichica o fisica. È interessante rilevare che la malattia o il malessere in questione è perlopiù causato da spiriti adirati per qualsivoglia motivo o mossi da sollecitazioni d’ordine stregonesco, e però sono ancora gli spiriti coloro che offrono allo sciamano i rimedi per sanare lo stato di sofferenza, mettendolo a parte di conoscenze e poteri nel corso della sua visita nella propria residenza ultraterrena. Di norma, la tecnica terapeutica dello sciamano consiste nell’entrare nel corpo del malato per affrontare e cacciarne lo spirito patogeno, ma non di rado si ricorre anche all’impiego congiunto di piante medicinali e/o di minerali, all’assunzione di vegetali enteogeni, a canti tradizionali o appresi al momento dagli spiriti stessi, ecc. I canti vengono accompagnati dal ritmico battere del tamburo, che in certe aree (Siberia, Alaska) è il simbolo dello sciamano, e il cui suono è di per sé capace di indurre il necessario stato di trance. La stessa funzione possono avere sonagli, gong, e altri strumenti musicali. Come a questo punto risulterà chiaro, a parte la non certamente irrilevante prerogativa di ascendere al mondo degli spiriti piuttosto che accoglierli nel proprio – prerogativa tuttavia anch’essa opinabile a livello di casi etnografici concreti –, funzioni, ruoli, compiti e, soprattutto, poteri dello sciamano non differiscono 41

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granché, a ben vedere, da quelli di tutta la congerie di operatori rituali che siamo andati illustrando. Veniamo ora all’argomento che più ci interessa, cioè al ‘genere’ dello sciamano. Come ho già detto, a seconda delle società in cui si riscontra, il ruolo può essere esclusivamente maschile, maschile e femminile, (quasi) esclusivamente femminile. Quest’ultimo è tuttavia quello meno diffuso, ancorché sia rappresentato da alcuni casi particolarmente interessanti. Tratto singolare, tanto più perché presente a livello planetario, del complesso sciamanico è la “transessualità”, cioè l’assunzione da parte dello sciamano delle caratteristiche del sesso opposto, e l’omosessualità – a volte anche la bisessualità. Dicevo che si riscontrano anche casi di sciamanesimo quasi esclusivamente al femminile. L’esempio più noto è quello già citato coreano: le sciamane (mudang) consultate ancor oggi, come lo erano tradizionalmente, per questioni personali quali la guarigione, la buona fortuna oppure la scelta matrimoniale, ma anche per accompagnare le anime dei defunti nell’aldilà, danzano vestite di vesti sgargianti52 al suono di tamburi, fumano tabacco e raggiungono uno stato di trance – indizio dell’avvenuto contatto con la divinità (o con lo spirito di un morto)53 –, nel corso del quale si servono spettacolarmente di armi da taglio senza patirne danno. Pur quantitativamente in declino rispetto ai tempi passati, numerose sono le mudang tornate oggigiorno in attività dopo una momentanea eclissi, e vanno pragmaticamente prestando i propri servigi tanto ai buddisti quanto ai cristiani54. Un altro notissimo esempio di sciamanesimo quasi solo al femminile ci viene da un’area culturale quanto più distante e ‘altra’ da quella asiatica: l’America meridionale. I mapuche, di cui intendo parlare, sono un’etnia 52

Anche le mudang, in linea con il surricordato tratto caratteristico dello sciamanesimo, in alcune cerimonie ‘invertono’ il simbolismo sessuale delle vesti. 53 Questo ‘contatto’ in verità si configura nei termini di una possessione da parte delle divinità, pertanto più come una loro discesa che come un’ascesa della mudang alla loro sfera: di qui l’opinabilità del percorso sopra segnata. 54 La presenza del cristianesimo protestante, in specie evangelico, in Corea è rilevante.

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presente in Cile e in Argentina, che la Spagna non riuscì mai ad asservire, e che oggi, pur cristianizzati (cattolici), continuano a difendere con successo le proprie tradizioni ancestrali, di cui proprio lo sciamanesimo rappresenta forse l’elemento maggiormente caratterizzante. Il ruolo in questione è prevalentemente, anche se non esclusivamente, femminile (perciò ne parleremo al femminile) e, come in ogni sciamanesimo, è un ruolo di mediazione tra gli uomini e le diverse entità extraumane che popolano il sistema di credenze mapuche – antenati, spiriti, ‘divinità’ (si parla di un Dio Vecchio e di sua moglie, di un Dio Giovane e di sua moglie: in verità, ovvie figure mitiche) – e coi quali le sciamane – machi – entrano in comunicazione. Per poter assolvere al suo ruolo, ogni sciamana deve sottostare a un iter ‘iniziatico’ messo in moto dalla visione (o sogno) di un animale particolare, di colore bianco, seguita da malattia: una sciamana in carica prende allora sotto la sua cura la donna, istruendola nelle arti della professione – medicina ed erboristeria tradizionali, rituali, cerimonie, ecc. L’istruzione dura parecchi anni, al termine dei quali la futura sciamana ‘sposa’, nella foresta, un albero di cannella da cui in seguito, nel corso della sua attività, preleverà i ramoscelli necessari alla conduzione delle sue cerimonie. Queste consistono essenzialmente in rituali individuali di guarigione delle persone colpite dalla malevolenza di spiriti o di streghe, ma le machi agiscono anche nel corso delle feste e delle cerimonie pubbliche in cui i mapuche, collettivamente, chiedono agli antenati fertilità per la terra e gli animali e benessere per sé – con ciò assurgendo, come si diceva prima in proposito, a uffici che si confondono con quelli sacerdotali. Non tutte le sciamane sono uguali dal punto di vista del potere di cui dispongono: alcune sono particolarmente dotate come indovine, altre come guaritrici, altre ancora come intermediarie presso le entità extraumane: in ogni caso sono assai rispettate e apprezzate, e in molti percorrono lunghi tragitti per consultarle e venirne assistiti55.

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Cfr. TEC @ n/a.

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Per terminare questa veloce disamina del fenomeno sciamanico al femminile, farò menzione di un caso tutto particolare di ‘passaggio’ dal maschile al femminile in un’area geografico-culturale tipicamente connotata in termini sciamanistici, la Mongolia e la Siberia meridionale. Qui, durante l’era sovietica, per scampare all’eliminazione fisica posta in atto ai loro danni dal regime comunista e per salvaguardare quindi, anche e soprattutto, la pratica tradizionale, gli sciamani – tradizionalmente uomini – trasmisero le loro conoscenze alle donne, cosicché queste, oggi, rappresentano la quasi totalità degli operatori sciamanici. Secondo il modello più classico, gli/le sciamani/e dei mongoli hanno spiriti protettori cui appellarsi per ottenere guarigioni e predizioni, e modi personali di comunicazione con gli stessi, anche se alcuni tratti caratteristici restano invariati: gli spiriti arrivano nottetempo dai monti o dal cielo, comunque da luoghi lontani e misteriosi; gli operatori indossano un mantello ‘sacro’, e percuotono un tamburo particolare atto a convocare gli spiriti56. Tra l’altro merita una menzione il fatto che in questa stessa area, cioè in Mongolia, assai prima dei comunisti erano stati i buddhisti a cercare di liquidare lo sciamanesimo – allo stesso modo in cui il cristianesimo (e prima di lui, in Europa e nel Vicino Oriente, la diffusione del monoteismo) ha cercato di eliminare, a volte con pieno successo, la presenza di ‘sciamani’ – cioè di operatori rituali dalle caratteristiche assimilabili a quelle degli operatori in causa – presso le culture tradizionali tra cui si andava espandendo, traducendoli in malefici operatori del demonio e streghe. Veniamo ora alla questione dell’appropriazione indebita del termine sciamano/sciamanesimo da parte del New Age a cui abbiamo accennato in precedenza. Com’è noto, il New Age ha fatto proprie, per costruire una spiritualità alternativa alle religioni maggioritarie occidentali, molte suggestioni provenienti da sistemi di pensiero esotici: soprattutto orientali (induismo, buddhismo), ma anche ‘primitivi’, tra cui – appunto – il 56

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Cfr. Calfee @ 2008.

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complesso sciamanistico. Ho detto già che questa operazione è fortemente criticata nell’ambiente accademico, che mira a difendere l’integrità culturale del fenomeno, ma anche i più diretti interessati, vale a dire gli sciamani propriamente detti, hanno non solo sollevato le loro obiezioni al riguardo, ma anche messo in luce – dalla loro prospettiva – la pericolosità insita nell’utilizzare scorrettamente (a volte addirittura in esibizioni teatrali) la mediazione spirituale sciamanica. Di fatto, c’è chi ha preteso di creare una sorta di sciamanesimo ‘internazionale’, miscelando tematiche e pratiche provenienti dai più diversi contesti – lo studioso Michael Harner ne è l’esempio più noto57 – e c’è chi se n’è appropriato riformulandolo per venire incontro alle esigenze di moderni ambiti magicoesoterici (con l’evocazione di entità spirituali); c’è chi l’ha recuperato con finalità terapeutiche e c’è chi ha riorganizzato il tutto in funzione del consumo di droghe allucinogene o enteogene. Basterà qui ricordare, al riguardo, il caso della Chiesa del Santo Daime fondata negli anni Trenta del XX secolo in Amazzonia da Raimundo Irineu Serra (Mestre Irineu, morto nel 1971; gli è succeduto Padrinho Sebastiao): culto afro-indiocristiano centrato su una rilettura sincretica dell’uso tradizionale di un vegetale enteogeno, è diventato ultimamente un fenomeno new ager centrato sul culto della Natura – e sull’assunzione dell’ayahuasca58. Un cenno infine merita anche il caso di Carlos Castaneda e del suo stregone yaqui (Messico), sciamano (anche) in virtù del consumo tradizionale di peyote, che iniziò l’antropologo nella via yaqui alla conoscenza (come recita il sottotitolo della prima di una sua lunga serie di opere, peraltro criticatissime dagli accademici)59: Castaneda, Don Juan, la conoscenza yaqui e il peyote appartengono in pieno all’orientamento che sarà tipico del New Age, oltre che della – e oltre la – controcultura californiana degli anni tra i Sessanta ed Ottanta del secolo scorso. Infine, forme

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Cfr. Harner 1995. 58 Cfr. Verlangieri 2000. 59 Cfr. Castaneda 1978.

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di c.d. neo-sciamanesimo sono diffuse anche in Europa, sulla scia o nell’ambito del neo-paganesimo tipicamente nord-europeo, i cui cultori praticano alcune varietà di sciamanesimo recuperandole da un passato pre-cristiano più o meno documentato – e soppresso, a loro dire, nel processo di cristianizzazione delle diverse nazioni –, o inventato di sana pianta. È soprattutto nella sfera del neo-paganesimo che lo sciamanesimo si coniuga prevalentemente al femminile: penso, in particolare, alle variegate combinazioni della Wicca.

La discesa degli spiriti: la possessione al femminile in Africa Conclusa questa rapida panoramica generale sul rapporto fra ‘donna e religione’ nei diversi ambiti storici e geografici, desidero ora approfondire l’analisi di uno specifico contesto – quello africano –, che avevo già preannunciato essere centrale nei miei interessi. Anche al di là delle mie preferenze o competenze personali, è un dato di fatto che il continente africano ci offre una straordinaria riserva di casi utili all’illustrazione dei numerosi, diversificati, cospicui e peculiari rapporti esistenti tra il femminile e ciò che definiamo il religioso – convenzionalmente, se non ‘colonialisticamente’ estendendo ai sistemi di pensiero altrui categorie proprie e pertinenti al solo mondo occidentale. L’Africa ci offre l’intera gamma dei fenomeni religiosi al femminile che abbiamo già tratteggiato e qualcosa di più, in quanto ha vissuto – d’altra parte non diversamente da molte altre aree geografiche del pianeta – un evento storico che ne ha intaccato e più spesso significativamente modificato numerosi aspetti culturali, in primis quello ‘religioso’ originario: alludo chiaramente all’impatto con, e al successivo inglobamento entro, un contesto storico e culturale alieno che, nel caso dell’Africa, è consistito nel suo inserimento, indirettamente o direttamente, nelle sfere di influenza arabo-islamica e occidentale-cristiana. Darò quindi cenni dei diversi contesti rituali e/o religiosi venuti in essere a seguito sia della islamizzazione che della cristianizzazione. 46

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È necessaria una premessa, che riguarda la donna nelle religioni tradizionali africane e, ancor prima di questo argomento, la definizione di religione, la qualità dei diversissimi sistemi religiosi che caratterizzano le altrettanto diverse culture africane e il problema della documentazione, che è scarsa e frammentaria: le culture sono state lungamente studiate e descritte da una prospettiva esclusivamente maschile. Gli osservatori sul campo (missionari e etno-antropologi) si sono focalizzati sulle strutture sociali pubbliche, invariabilmente gestite da e tra uomini: perfino nei rari casi in cui le donne svolgevano ruoli di primo piano (ad es. le reginemadri in varie culture akan e bantu), esse sono state studiate non per sé, ma per i loro rapporti con i maschi. Per prima cosa andrà, dunque, rilevato che i c.d. esseri supremi (dati per) presenti in numerosi sistemi di credenza africani sono maschi (quando il genere è menzionato), anche se gli si affiancano mogli (ad es., presso yoruba, bemba, san…) e madri (bemba) da considerarsi altrettanto ‘divine’. Gli antenati pubblici, cultuati a livello nazionale (swazi, bemba, ganda, nyakyusa), sono sempre maschi, anche se quelli dei gruppi domestici possono essere di entrambi i sessi (yoruba, mende, lamba…): ciò sta a dimostrare che anche a livello divino il femminile pertiene ad ambiti domestici, non comunitari60. Le religioni tradizionali africane sono religioni vitalistiche, come vitalistica è, notoriamente, l’intera cultura africana. Perciò molte entità sovrumane sono deputate al controllo della fertilità, la quale, in ultima analisi, è un problema femminile: i rapporti sessuali sia rituali sia ‘profani’ ne sono il presupposto e quindi la donna ha un ruolo fondamentale nell’assicurare la riproduzione della vita umana. Ciò nondimeno la sessualità femminile è vista in termini ambigui presso la maggioranza delle società africane, in quanto si ritiene che le donne, oltre che produttrici di vita, siano anche una considerevole fonte di pericolo a motivo della natura contaminatrice del sangue mestruale. Pertanto il sistema di pensiero, anche ‘religioso’, 60

Cfr. Kilson 1976.

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africano sottolinea in genere l’orientamento domestico della vita delle donne e il loro ruolo riproduttivo, ma non tiene alcun conto di altri aspetti della loro sessualità – ne fa testo l’ampia diffusione di pratiche che in grado diverso, ma egualmente penalizzante, smorzano o sopprimono la sessualità della donna, dalla clitoridectomia all’infibulazione, del tutto erroneamente attribuite alla tradizione islamica. Nei riti collettivi rivolti agli esseri spirituali (antenati regali, divinità, eroi, spiriti della fertilità o della natura, ecc.) le donne assai raramente svolgono una parte di rilievo: quasi senza eccezioni (i casi dei swazi o dei mende, ad es., dove le donne hanno responsabilità pubbliche) i sacerdoti sono maschi e le donne apparentemente relegate in ruoli subordinati o marginali, ancorché vi possano fungere in maniera cospicua da medium. In effetti, mentre va sottolineato che ordinariamente i medium – maschi o femmine che siano – vengono fatti oggetto di grandi riguardi fintanto che sono posseduti, ma non aldifuori della possessione, va rilevato che la funzione di portavoce degli esseri extraumani è svolta, in concreto, perlopiù da donne e che queste, proprio grazie alla loro facoltà, possono spesso elevare notevolmente il proprio status ordinariamente inferiore. Detto ciò, è bene osservare che anche dove sono totalmente escluse dalla partecipazione attiva ai culti collettivi o vi svolgono ruoli subordinati, le donne hanno tuttavia ruoli di assoluto rilievo nei riti individuali di trasformazione di status associati a nascita, pubertà e morte, e soprattutto nei riti che trasformano le ragazze in donne nubili: di fatto, questi riti puberali – e sovente anche alcune fasi di quelli iniziatici pubblici – sono quasi esclusivamente in mani femminili e, pur esprimendo la generale concezione ambigua della sessualità femminile, disegnano i modi in cui gli aspetti positivi della fertilità possono essere indirizzati al bene comune e quelli negativi socialmente controllati61.

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Cfr. Kilson 1976. Per una versione dello stesso argomento fortemente inficiata dall’ottica cristiana del suo autore, cfr. Mbiti 1988.

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Passiamo dunque a esaminare più da vicino il fenomeno – già più volte menzionato – della possessione in ambito femminile, sia tradizionale che acculturativo. Come già rilevato, la possessione connota quasi più la ritualità delle donne che quella degli uomini, di norma in contesti d’ordine circoscritto, privato o individuale (è il caso dei riti di guarigione svolti entro la compagine degli aderenti a un determinato culto o a beneficio di singoli ‘pazienti’), ma in non rari casi anche in contesti cerimoniali pubblici, propriamente istituzionali e ‘religiosi’ e, via via sempre più frequentemente, soprattutto in ambiti sincretici (afro-cristiani e afro-islamici). I riti di possessione rappresentano un elemento costitutivo centrale della vita culturale e religiosa di quasi tutte le culture, antiche e odierne, del pianeta – e spesso, là dove sono assenti, in realtà sono stati soppressi nel corso del tempo, con maggiore o minor successo a seconda dei contesti, per diversi motivi storico-culturali: si pensi non solo alle culture esotiche di recente cristianizzazione (con i necessari dubbi sull’effettiva scomparsa del fenomeno), ma anche – per fare solo un paio di esempi – al caso della religione romana che combatté e proscrisse qualsiasi fenomeno possessivo (si faccia mente al famoso episodio dei Baccanali, nel 186 a.C.62), o alle nostre ‘tarantate’ pugliesi, e si pensi anche alla demonizzazione della stregoneria nell’Europa cristiana del XVI-XVII sec., a cura della Santa Inquisizione. L’Africa, in ogni caso, costituisce un esempio dei più rappresentativi non solo della presenza di questi riti, ma anche della loro trasformazione a seguito di eventi storici che li hanno profondamente modificati in termini di credenze e referenti, pur senza troppo incidere sulla loro forma e, soprattutto, sul loro significato. In Africa63 i riti di possessione rappresentano non solo momenti di socializzazione e di festa per la popolazione di un villaggio o di un 62

In sintonia con il nostro tema, nei Baccanali – traduzione romana del culto mistico-orgiastico del dio Dioniso in Grecia – furono coinvolte molte donne, numerose delle quali avevano ruoli sacerdotali. 63 E, in verità, non solo in quella c.d. sub-sahariana di cui prevalentemente mi occupo.

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quartiere cittadino, ma soprattutto danno corpo a un sistema terapeutico al fondo del quale si colloca una eziologia tradizionale dei mali come effetto dell’intervento di spiriti e per liberarsi dai quali si rende necessario prestare culto agli stessi spiriti, guadagnandone così protezione e favori. Prestare culto significa iniziarsi allo stesso sotto le direttive d’una esperta guaritrice e partecipare regolarmente, per tutta la vita, ai relativi rituali di possessione. Il rituale – ricco di comportamenti collettivi d’ordine sociale, gestuale, vocale, musicale, coreutico e di richiami al mondo mitico e simbolico – influenza potentemente tutti i partecipanti ma soprattutto i ‘malati’ e i loro terapeuti, producendo stati di c.d. coscienza alterata, intesa come sintomo dell’incorporazione di uno spirito da parte della persona interessata al fenomeno. Una volta ottenuta questa ‘incarnazione’, lo spirito possessivo viene indotto a intervenire sul soggetto ‘malato’ vuoi per castigare infrazioni o mancanze d’ordine prevalentemente etico-sociale e rituale, vuoi per attestare il proprio potere, obbligando la persona in causa ad iniziarsi al suo culto e farsene formalmente suo esponente – al limite, suo/a sacerdote/essa –, ottenendone così la protezione in perpetuo: la paziente dunque non solo consegue la guarigione per sé, ma acquisisce anche potere terapeutico da esercitare eventualmente a beneficio altrui. Dico la paziente perché nella stragrande maggioranza dei culti di possessione in Africa, pazienti e terapeuti sono donne – come sono donne, ad es., anche nel vudù haitiano di provenienza africana, di cui a breve farò cenno64. Circa l’effettiva valenza terapeutica di questi riti molti studiosi hanno fatto propria l’ipotesi avanzata dagli etnopsichiatri per i quali, com’è noto, la guarigione sarebbe indotta da fenomeni di ‘autosuggestione’, particolarmente efficaci in soggetti psichicamente disturbati; insomma, 64

Facendo un grosso salto culturale e temporale, sono prevalentemente donne anche le seguaci delle numerose chiese carismatico-pentecostali euro-americane, in cerca di salute e conforto da mali morali e fisici. E donne sono in netta maggioranza anche le partecipanti ai riti delle chiese ‘spirituali’ africane, in debito nei confronti della tradizione quanto del pentecostalismo protestante.

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sarebbe una specie di terapia autogena capace di produrre stati analgesici ed euforici fino all’autopercezione di una presunta o soggettivamente autentica ‘guarigione’. Per quanto mi riguarda, sono incline a sposare la tesi di quanti vedono nella terapia possessiva un fenomeno culturalmente determinato, in quanto tale perfettamente integrato sul piano sociale e perciò efficace: nei contesti in questione, ‘posseduti’, ‘malati’ e ‘guariti’ sono, di fatto, coloro che la società ritiene tali – tanto più che le malattie trattate sono quasi esclusivamente quelle che nell’ottica razionalista occidentale vengono rubricate come psicosomatiche. Quanto alla detta predominanza numerica femminile delle persone possedute, molte sono le ipotesi avanzate dagli studiosi: i nativi la spiegano con la labilità del temperamento femminile65, ma un antropologo – Ioan Lewis – ne ha dato una spiegazione d’ordine sociologico, facendo riferimento al fenomeno possessivo da lui studiato in Somalia, vale a dire in un contesto ampiamente islamizzato66. Qui, sia in ambiente rurale che urbano, la donna vive una condizione di estrema debolezza nei confronti dell’uomo, e il culto possessivo chiamato sar (zar in Etiopia) le offre un’occasione e, soprattutto, un valido strumento psicologico di riscatto dalla sua situazione di inferiorità e solitudine. Di più: in ambiente urbano, in seno alla emergente borghesia locale, lo spirito sar che parla per bocca della donna posseduta – i sar sono spiriti ‘autoctoni’, cioè di origine pre-islamica – chiede al marito di lei tutti quei doni e orpelli che la donna desidera ma ch’egli le nega: e l’uomo non può sottrarsi a richieste provenienti da uno spirito foriero di pericoli anche per lui!67 La lettura sociologica

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Non diversamente da quanto – semplicisticamente – fanno i pentecostali in America e in Europa, per spiegare la predominanza femminile nei fenomeni carismatici… 66 Cfr. Lewis 1972. 67 Lewis afferma che nei rari casi di possessione maschile da parte, nel loro caso, di spiriti jinn d’origine islamica, si tratta di individui – spesso mandriani di cammelli – sottoposti a un regime di vita solitaria psicologicamente deleteria e assai penalizzante anche sul piano sociale, la cui emarginazione può assimilarsi a quella patita dalle donne. Queste affermazioni troverebbero conferma, sul piano comparativo, nei riti possessivi

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di Lewis (e di altri) pone tuttavia – e non risolve – il problema della possibile finzione delle donne, strumentale all’ottenimento di vantaggi o beni altrimenti loro negati: di fatto, già Michel Leiris negli anni ’40 aveva sottolineato la componente spettacolare e opportunistica delle possessioni zar in ambiente urbano – totalmente assente invece, a suo avviso, in quelle di ambiente rurale68. afro-americani dell’epoca della schiavitù, quando vi esercitavano una funzione di supporto psicologico-sociale – e quasi, a suo modo, una funzione psico-terapeutica – fra i neri, maschi e femmine, costretti ad una estrema emarginazione e subordinazione sociale. Una spiegazione, tuttavia, che non sembra tenere in alcun conto l’assai mutato scenario in cui oggi si continuano a celebrare i medesimi riti. 68 Cfr. Lanternari 1996. Vedi anche Lanternari 1994. Lanternari compara il caso somalo con quello delle tarantate pugliesi studiate da E. De Martino (De Martino 1961), rilevando interessanti analogie tra i due (e poi analizzerà anche il possibile riscontro con il rituale terapeutico dell’argia sarda studiato dalla C.Gallini (Gallini 1988)): le due situazioni sono in effetti quasi perfettamente sovrapponibili, trattandosi in entrambi i casi di possessione subita da donne in condizione di sofferenza acuta che, drammatizzando pubblicamente le proprie tensioni psicologiche (per pene d’amore o altro), davano (e trovavano) sfogo alle proprie frustrazioni e nel contempo ottenevano la reintegrazione nella comunità d’appartenenza. Il tarantismo pugliese nasce in epoca pre-cristiana, tra una popolazione contadina in cui la donna era l’elemento sociale più esposto ai rischi del lavoro nei campi: in questo caso, al morso di un idealizzato ragno ‘taranta’ al tempo della mietitura; nell’immaginario mitico della società contadina pugliese, dunque, alla ‘taranta’ finì con l’essere imputata la responsabilità di tutti i malesseri e le inquietudini che tormentavano le donne. Fintantoché il rituale è stato eseguito (l’ultimo episodio di genuino tarantismo si ebbe nel 1993), era dunque la donna che praticava, al suono di un’apposita orchestrina (con una musica diversa per ciascun tipo di ‘taranta’ responsabile del ‘pizzico’), una specifica danza atta a indurre una catartica crisi possessiva nel corso della quale veniva espulso lo spirito ‘taranta’ da cui era posseduta. Non è senza interesse, anche se esula dai confini del nostro tema, ricordare che il culto venne ‘cristianizzato’ a metà del XVIII sec. trasferendolo e celebrandolo, il 29 di giugno, nella chiesa di S. Paolo a Galatina – da cui furono contestualmente bandite musiche e danze, ma non i fenomeni di trance. Per tornare alle considerazioni di Lanternari, egli si chiede come si spieghi che l’equivalente sardo del tarantismo, il rituale terapeutico dell’argia – un ragno analogamente mitizzato ed esorcizzato mediante la danza e possibilmente la trance-possessione –, fosse invece

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Si diceva che in Africa sono le donne a gestire nella quasi totalità i culti di possessione: ciò avviene tanto a livello tradizionale quanto a livello sincretico. Farò qualche esempio tratto da una piccola popolazione del Ghana al confine con la Costa d’Avorio, gli nzima, nel cui ambito abbiamo modo di illustrare ambedue le situazioni – tradizionale e sincretica –, e verificare come in entrambe, ma in modo particolare a livello sincretico, siano le donne gli attori principali dei culti di possessione69. Nelle forme tradizionali di villaggio è una ‘sacerdotessa’70 – chiamata komenle – a dirigere i rituali, entrando per prima in trance ed essendo poi imitata dalle altre partecipanti. La religione tradizionale nzima contempla due tipi di operatori rituali: il ninsinli, il divinatore-guaritore erborista (native-doctor, maschio) e il, o piuttosto la, komenle, anch’essa divinatrice e guaritrice, ma contraddistinta da un rapporto particolare con uno o più spiriti da cui è posseduta – a seguito di una o più visioni e penosi eventi ‘vocazionali’ (malattia, perdita di figli, ecc.) – e da una capacità terapeutica di attestata derivazione spirituale. La komenle cura i propri pazienti (prevalentemente donne) nel suo compound, in una specie di ‘santuario-ospedale’, per lunghi periodi di tempo, organizzando periodicamente numerose sedute cerimoniali con canti, danze e fenomeni di trance che riattualizzano l’evento fondante la propria esperienza e, quali efficaci adorcismi, sono recepiti come trattamenti terapeutici risolutivi delle crisi: lo spirito o gli spiriti possessivi in questione si fanno, alla fine del rito, liberatori e protettori di chi, originariamente, avevano

destinato a ‘pazienti’ di genere maschile e risponde mettendo l’accento sulla diversa realtà esistenziale delle parti in causa. In Sardegna, nella sua cultura pastorale tradizionale, era l’uomo quello più esposto alla precarietà, ai rischi e alle durezze della vita quotidiana, in una condizione affatto paragonabile a quella dei mandriani somali, che condividono con le donne la possessione da parte di spiriti (i jinn, nel loro caso). 69 Cfr. Lanternari 1988. 70 Così la qualifica Lanternari stesso, traducendo l’inglese fetish-priest/ess (Lanternari 1988: 132, 162). 53

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perseguitato. Non di rado in tali occasioni gli astanti, malati e non, finiscono anch’essi in trance, per una sorta di travolgente contagio. Nelle forme sincretiche afro-cristiane, quali ad es. il culto dei Water Carriers derivato dalla predicazione nel 1914, tra gli stessi nzima, del grande profeta liberiano William Wade Harris71, è ancora prevalentemente una donna, una ‘profetessa’(esofo), a dirigere una performance coreutica a cui partecipano quasi esclusivamente donne: qui peraltro, a differenza dei culti tradizionali agiti dalla komenle, la profetessa non danza e, soprattutto, non cade in possessione, ciò che fanno invece le sue adepte. Queste si riuniscono nel compound della profetessa (secondo il modello proprio alla komenle) e suonano zucche-crepitacoli mentre le ‘malate’, al centro della corte, danzano sempre più freneticamente tenendo catini in equilibrio sul capo e cercando invano di evitare che ne cada l’acqua di cui sono colmi – finché non vengono possedute dagli spiriti. Qui, però, la possessione spirituale non è intesa positivamente, tant’è che l’acqua da cui le malate alla fine vengono irrorate nel vortice della danza ha evidenti funzioni lustrali ed esorcistiche, ed eguale funzione parrebbe avere l’invocazione del nome di Gesù. Il riferimento a Gesù è in effetti del tutto secondario72, e il rito si risolve in un esorcismo: l’acqua lustrale serve a cacciare lo spirito da cui proviene il male/malattia del soggetto malato73. Anche in molte delle moderne Chiese carismatico-spirituali che sono sorte in Ghana come in tutta l’Africa (e non solo), sono principalmente le donne a partecipare a danze di possessione, ancorché gli uomini

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E qui prosperato, in particolare, ad opera di una delle donne al suo seguito, la ‘profetessa’ Grace Tane. 72 Spesso, pur facendo riferimento alla Bibbia – elemento fondamentale del movimento harrista –, i Water Carriers non ne conoscono il contenuto. 73 Si noti la differenza rispetto al contesto tradizionale: mentre lì lo spirito ammala e guarisce (e ri-prende ritualmente possesso della komenle), facendosi infine protettore della sua vittima – esercitando perciò un ruolo ambivalente –, qui lo spirito ha una parte esclusivamente negativa: ammala e va esorcizzato

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assistano alle relative liturgie. Queste Chiese dipendono in maniera qualificante dal cristianesimo (protestante), ma rappresentano forme affatto alternative e autonome rispetto al cristianesimo delle missioni: la loro componente evangelica recupera numerosi temi del cristianesimo delle origini – partecipazione emotiva, solidarietà, collaborazione, comunitarismo –, e per contro accentua lo spiritualismo del pentecostalismo statunitense, di cui le Chiese in causa sono state spesso derivazioni sull’onda dell’espansionismo culturale, economico, politico degli USA nel secondo dopoguerra. Il carattere che, invece, le accomuna ai movimenti sincretici e ai culti tradizionali è la centralità del tema ‘malattiaguarigione’. Al sistema di pensiero tradizionale secondo cui la malattia era cagionata dall’intervento incontrollato di spiriti e la terapia fondata sull’adorcismo/esorcismo, a seconda dei casi, del malato o dell’operatore rituale –, le chiese carismatico-pentecostali sostituiscono una nuova concezione, secondo cui lo spirito divino, invadendo l’individuo per fede, lo libera da spiriti ormai tradotti in termini diabolici. Il debito di questo tipo di Chiese nei confronti del cristianesimo non è palesato solo dalla centralità della nozione dello spirito divino quale antagonista degli spiriti ancestrali, ma anche – tornando al nostro argomento – dalla netta predominanza in esse di una leadership maschile, ancorché resti femminile la maggioranza dei praticanti, tra i quali nel corso delle liturgie (omelie del profeta, musica tradizionale ma canti corali di ispirazione cristiana, invocazioni, riti di guarigione…) si verificano spettacolari fenomeni di trance estatica.

Un esempio famoso: la possessione bori La situazione descritta, riferita alla piccola etnia nzima – vale a dire la compresenza tra i nativi, assieme alle religioni storiche d’importazione, dei tre tipi di sistema di credenza illustrati –, potrebbe essere intesa come esemplificativa di una situazione pressoché generale non solo del Ghana, ma dell’Africa tutta. L’evangelizzazione e, per contro, l’islamizzazione, 55

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pur avendo raggiunto entrambe una ragguardevole diffusione, non hanno cancellato del tutto le antiche tradizioni che tendono ovunque a dissimularsi e a meticciarsi con elementi culturali esogeni e con gli input della modernità mentre, nelle loro forme originarie, sopravvivono più o meno ‘pure’ solo in sacche culturali sempre più marginali o in contesti caratterizzati da un forte tradizionalismo a carattere identitario. Nel processo di mutamento culturale dell’Africa, due sono gli ambiti in cui il sistema di pensiero tradizionale tende ad essere tuttora articolato secondo parametri pre-cristiani e pre-islamici, ancorché spesso riformulati nei linguaggi dei nuovi credo, e sono quelli riguardanti, da un canto, la sorte individuale – da cui il persistere delle credenze relative alla magia e alla stregoneria – e, dall’altro, la credenza – su cui peraltro si appoggia largamente il tema precedente – in un’attiva e potente schiera di spiriti: da quelli degli antenati defunti (i living dead) a quelli che, eventualmente al servizio della stregoneria, possono recare agli uomini ogni sorta di mali, malattie e sventure. Nell’un caso e nell’altro al centro delle preoccupazioni c’è la malattia e, come ormai ci è noto, la relativa cura ‘spirituale’ mediante vuoi esorcismo vuoi adorcismo. Cercherò dunque anche in altri ambiti geografico-culturali dell’Africa ulteriori esempi rappresentativi di come i sistemi di credenza autoctoni – prodotti da specifiche situazioni storiche – si modifichino per rispondere alle esigenze di altre situazioni storico-culturali venutesi a verificare. Prima, però, voglio soffermarmi su un caso – famosissimo negli studi etno-antropologici74- abbastanza diverso dal quadro proposto relativamente alla piccola etnia ghanese, ma rappresentativo anch’esso di un qualche sincretismo verificatosi tra una religione autoctona e una ‘d’importazione’: una situazione, peraltro, analoga a quella che abbiamo già visto essersi prodotta in Somalia, dacché la religione autoctona anche qui si sincretizza con l’islam. Siamo tuttavia in un ambiente geografico e culturale affatto diverso: siamo nel Niger, nella vallata del Maradi, tra gli 74

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Cfr. Broustra 1970.

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hausa, ove si pratica un culto detto bori, esclusivamente femminile per quanto riguarda le persone possedute, che si traduce, come in ogni altro caso di possessione spirituale, in una drammatica intrusione del sovrannaturale nel mondo degli umani. Gli iskoki, le ‘divinità’ del complesso pantheon tradizionale hausa, si incarnano infatti in particolari operatrici rituali appositamente addestrate, e disposte, ad accoglierli facendosene invadere: secondo un modello che ormai ci è familiare, la divinità si sostituisce infatti alla personalità del suo supporto, che parla e agisce in sua vece. Dal punto di vista del sistema di credenza, il culto bori media tra l’islam e la religione tradizionale, ospitando in sé tanto alcuni ‘geni’ musulmani quanto le entità ancestrali – le quali ultime tuttavia, inserite nel bori, hanno perso molta della loro antica potenza. Il fenomeno possessivo che qualifica il culto è socialmente accettato e perfettamente integrato nella società stessa e ha anche qui, secondo la ‘norma’, una dimensione terapeutica: il reclutamento delle adepte avviene infatti attraverso le vie della malattia. Un ‘dio’ trascurato da un essere umano manifesta il proprio risentimento colpendolo con una malattia, più o meno grave a seconda della mancanza, consapevole o meno, commessa dall’interessato: se questi è una donna, potrà guarire solo votandosi per sempre a lui ed eventualmente anche ad altri dèi, entrando cioè nel culto bori – devotamente facendogli da ricettacolo durante le sedute di possessione. In cambio, le verranno rivelate conoscenze occulte in virtù delle quali sarà in grado di curare la malattia di cui in origine ella stessa è stata vittima: si tratterà in ogni caso di un lungo e scrupoloso addestramento, al termine del quale la donna sarà una esperta guaritrice, in quanto tale tenuta in grande considerazione dalla comunità. A fini terapeutici, tuttavia, il bori fa un uso assai limitato dei fenomeni possessivi, i quali avvengono invece in occasione degli eventi centrali della vita dell’adepta: matrimonio, nascita di figli… In queste occasioni la donna, nel corso di una cerimonia pubblica, entra in trance e in lei si incarnano gli dèi assegnatile al momento dell’iniziazione, i quali ‘montano’ e/o vengono ‘montati’ dalla loro ‘giumenta’ – come si usa dire indifferentemente – al suono di particolari strumenti sacri e di ritmi 57

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diversi per ciascuno di essi. Gli iskoki partecipano in tal modo a tutti i momenti più significativi della vita delle loro ‘giumente’, ma c’è un’occasione particolare in cui gli dèi si scatenano, ed è la ‘parata’ (shagali), una festa di grande partecipazione popolare, in cui le esibizioni delle donne possedute si fanno particolarmente spettacolari, rivelando anche (non del tutto imprevedibili) aspetti erotici. La donna, al ritmo del motivo del ‘suo’ dio, palpita, suda, cade ripetutamente a terra finché il dio non la possiede e allora danza, parla, grida, promette: i fenomeni, contestualmente al mutare del ritmo suonato e dell’iskoki ad esso associato, si ripetono fino a una dozzina di volte finché, spossata, la donna non si ritirerà a riposare anche per 24 ore di seguito75. La malattia, dunque, non è concettualizzata tra gli hausa in modo così diverso da quello illustrato più sopra a proposito degli nzima: è la manifestazione di una potenza soprannaturale. Vediamone nel dettaglio l’eziologia: si parla di una sua origine ‘divina’, in quanto la malattia può essere inflitta dagli dèi (ivi compreso Allah) per punire colpe consce o inconsce commesse, con conseguenze più o meno gravi a livello non soltanto individuale, ma anche sociale; di un’origine magica, in quanto risultato di manovre magiche ai danni di qualcuno (es. classico: tra comogli); e, infine, si parla di origine stregonesca, la causa più terribile e più rara: lo stregone infatti è un ‘mangiatore d’anime’, e la malattia da lui veicolata può quindi portare alla morte. Come variano le cause della malattia, così variano anche il suo significato e la terapia. Tra gli hausa vi sono tre tipi di terapeuti: il marabutto, il boka, e la donna bori. Il marabutto è il sacerdote-guaritore islamico che opera in nome di Allah76: se tuttavia capisce che la malattia è inviata non da Allah, ma da un altro iskoki, manderà il paziente dal boka (bokamia se donna), il guaritore tradizionale, il native doctor – sostanzialmente un erborista. Anche la 75

Come vedremo a breve, fin qui la fenomenologia del bori si ritroverà quasi uguale in quella dei culti afro-americani. 76 Il marabutto cura ‘con l’inchiostro’, perché fa bere al malato acqua in cui ha immerso un versetto del corano scritto da lui stesso su un pezzetto di carta.

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donna bori è una provetta erborista, che di fatto, come tale, può guarire anche senza far intervenire la dimensione religiosa; ciò nondimeno, il suo rilievo pubblico e ruolo religioso ne fanno una guaritrice affatto diversa, da consultarsi quando la malattia, per il suo protrarsi, viene vissuta dal malato in termini di una vera e propria persecuzione da parte degli dèi. Un’ultima annotazione, atta a mettere maggiormente in luce la singolarità di questa particolare figura di operatrice rituale. L’ambiente da cui emerge la guaritrice bori è un ambiente islamizzato poligamo, ove la donna di norma ha uno status marginale e subalterno, a meno che non sia la prima sposa d’un uomo, una zia paterna, una tambara – vale a dire una donna che ha accumulato ingenti ricchezze unicamente allo scopo di distribuirle e ottenere così la qualifica in questione – o una prostituta, dacché anche la prostituzione si configura come un mezzo di realizzazione personale per la donna hausa. La donna bori comprende in sé tutte queste opportunità di integrazione sociale: infatti è stata o è, successivamente o contemporaneamente, sposa, zia paterna, tambara o prostituta. Non si tratta perciò della ‘solita’ donna frustrata o disperata dei culti di afflizione, che cerca una compensazione in seno a un culto ma, al contrario, di una donna che dal culto trae profitto: divenendo una potente guaritrice ella acquisterà infatti entrate e prestigio, al punto da far quasi capo al polo maschile piuttosto che a quello femminile della società. Questo, tuttavia, solo nel quotidiano, perché nel suo ruolo di ricettacolo degli dei, di ‘giumenta’, diviene invece iper-femminile: al momento della possessione, infatti, l’iniziata perde completamente coscienza e si fa del tutto passiva dal punto di vista psicologico e comportamentale per permettere al dio di incarnarsi in lei – drammatizzando così al massimo il ruolo tradizionalmente subalterno e seduttivo della donna. L’ambivalenza della donna bori – ‘maschile’ nel quotidiano, ‘iperfemminile’ nel corso delle possessioni – ne fa pertanto un essere socialmente deviante, ma di una devianza positiva, giacché è perfettamente inserita in un culto. È questo lo ‘scandalo’ del bori messo in luce dalla sua più nota analista, l’antropologa J. Nicolas Broustra: qui la donna, quale ‘giumenta’ degli dèi, diviene superiore all’uomo – il che sembra quanto meno un paradosso in una società islamizzata. 59

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Un ulteriore esempio d’ispirazione islamica: il movimento di Mujidat Restiamo in ambiente islamico per illustrare l’interessantissimo e raro caso di fondazione e leadership femminile di un movimento religioso – la Fadillullah Muslim Mission – presente in Nigeria, a Osogbo (capitale dello stato Osun, Nigeria sud-occidentale)77. In Nigeria convivono – e oggi a volte confliggono aspramente – tre religioni: l’islam, percentualmente maggioritario, il cristianesimo (specie evangelico o aladura78) e la religione tradizionale yoruba. Per comprendere l’eccezionalità del caso che illustrerò, giova ricordare rapidamente qualche particolarità circa la condizione della donna islamica in Nigeria. Nonostante che il Corano sancisca la pari dignità di uomo e donna, e la tradizione riservi alla moglie di Maometto – Aisha – un ruolo di rilievo nei primi anni dell’islam, in generale il compito della donna islamica si riassume in quello di moglie e madre ed è pertanto ritenuto socialmente assai marginale – anche se deve aver rappresentato un passo avanti rispetto alla condizione della donna presso le società arabe che originariamente accolsero il messaggio del profeta79. In Nigeria convivono così tante culture diverse che è difficile standardizzare lo status e il ruolo delle donne: soprattutto diverse sono le situazioni tra nord e sud del paese. Il nord risente dell’influenza hausa ed è più o meno islamizzato dal XV sec.: l’islam, anzi, qui servì da strumento di resistenza durante il periodo 77

Il caso si dimostrerà particolarmente interessante per noi non solo per le sue qualità intrinseche, ma anche perché si offre a una sorprendente comparazione con un esempio di movimento carismatico cristiano, sorto a Douala, nel confinante Camerun, ad opera di due donne, di cui si riferisce nel mio libro Nera ma bella. Cfr. Visca 2002: 58 ss. 78 Le Chiese e i movimenti religiosi denominati aladura (= orante) sono chiese afro-cristiane di guarigione per fede tipicamente nigeriane. 79 Ad es. pare che in molte società vigesse la poliandria, che alcuni assimilano a una forma di prostituzione ‘istituzionale’, di cui si propone quale positivo emendamento la poliginia… 60

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coloniale. Tuttavia, solo dal 1980 le donne hanno preso coscienza della loro forza e hanno creato una Federation of Muslim Women Association of Nigeria (Fomwan): la situazione, comunque, non è migliorata di molto. A Osobgo, la città che ci interessa in quanto teatro delle vicende che mi appresto a riferire, l’islam arrivò solo negli anni Venti dell’’800, e movimenti islamici80 di rilievo cominciarono a fiorire solo nella prima metà del XX sec., in larghissima maggioranza fondati e retti da uomini81. Il movimento di cui ci occupiamo è unico in Nigeria per le sue caratteristiche82: la sua carismatica fondatrice – Sheidat Mujidat Adeoye – rivendica infatti una chiamata per manifestazione divina, tipica dei movimenti cristiani aladura tra gli yoruba, e persegue modelli terapeutici che trovano la loro origine nella tradizione indigena: ciò nondimeno è una missionaria islamica al cento per cento, guaritrice e leader del movimento da lei fondato a seguito di un incontro spirituale. Nata negli anni ’70, Mujidat ha un’educazione modesta anche in ambito religioso, nonostante i suoi genitori fossero buoni musulmani; sposata giovanissima con un musulmano praticante, suo partner nella conduzione del movimento, originariamente commerciava in riso e fagioli. Il 23 agosto del 1997 (a 27 anni), mentre si trovava al mercato, la donna fu invasa da uno spirito: ordinò ai presenti di coprirsi il capo e cominciò a urlare e gridare, recitando il noto versetto Lai lah, illah ‘llah (“Non c’è altro Dio che Allah”) e pronunciando ‘profezie’ – tanto che al momento i presenti la credettero impazzita. Quando si riprese, i testimoni della sua possessione spirituale le dissero cos’era successo e Mujidat ebbe grosse difficoltà

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Classificabili in conservatori, liberali, di liberazione, mistici: a Osobgo erano perlopiù di tipo liberale (forse perché gli yoruba sentono più i legami di sangue delle differenze religiose). 81 Ciò nondimeno negli anni Settanta del XX sec. fu istituito un gruppo femminile, aperto alle donne sposate, alle vedove e alle divorziate, deputato all’istruzione sui corretti usi e comportamenti richiesti alle donne islamiche: il gruppo arrivò a ritagliarsi un posto nelle moschee, con grande scandalo dei leader musulmani. 82 Cfr. Ogungbile 2004.

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a convincersene, perché non era così devota da giustificare l’accaduto – non sapeva neppure leggere il Corano! Perdipiù, nella città di Osogbo non s’era verificato alcun precedente del genere in ambiente islamico: fenomeni simili si potevano trovare, e numerosi, solo tra i gruppi cristiani del tipo aladura83. Nondimeno la donna iniziò un digiuno di preghiera di sette giorni, al termine dei quali – per quanto con la tipica riluttanza di tutti i ‘chiamati’ – cominciò profetizzare e a pregare per quelli che si recavano da lei, senza chiedere nulla in cambio e cercando al contempo di continuare una vita normale. Ma la nuova attività finì fatalmente per incidere sul suo lavoro: la clientela abituale andava scemando mentre dava seguito alle suppliche dei molti che, ispirati da misteriose influenze, la cercavano perché pregasse per loro e testimoniavano poi l’efficacia delle sue preghiere e la verità delle sue profezie. Pertanto, seppure con riluttanza perché angosciata dai problemi economici e spaventata dalla complessità del suo nuovo ufficio ‘profetico’, Mujidat intensificò le sue prestazioni: alla fine lasciò che del suo commercio si occupassero altre donne e si consegnò interamente alla chiamata divina. I ‘clienti’ si moltiplicarono, il successo si fece rilevante e ben presto attorno a Mujidat, biancovestita a significare la purezza di Dio e il suo desiderio di semplicità84, si venne a costituire una nuova congregazione, a cui si rese necessario dare un nome. Mujidat e il marito, che l’affiancava nella missione, trovarono ispirazione nel Corano (Sura VI: 124-125), laddove si dice della natura inesplicabile dell’opera di Allah: era quanto veniva testimoniato dall’esperienza stessa di Mujidat, con la creazione di un movimento fondato e retto da una donna dotata della facoltà di operare miracoli. Il movimento fu dunque chiamato Fadillullah – contrazione di un’espressione coranica che significa “Questo è il segno proveniente da Dio”. La Fadillullah Mission è oggi un frequentato centro di preghiera 83

La Cherubim and Seraphim Church, Christ Apostolic Church, Church of the Lord, Celestial Church of Christ, tutte di origine yoruba, sono le Chiese più note e frequentate. 84 Tanto più ch’era stata una fashion-victim!

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che dispone perfino di una sua propria moschea: di fatto, è un nuovo movimento e una nuova espressione dell’islam presso la comunità di Osogbo, che intende risolvere problemi non solo ai musulmani, ma anche a persone di ogni altra tradizione religiosa. Come fenomeno musulmano e nel quadro della norma islamica, due sono le particolarità della Fadillullah Mission maggiormente degne di nota: la sua fondazione ad opera di una donna e il fatto di costituire un movimento di preghiera particolarissimo in seno all’islam. Mujidat riceve la sua ‘clientela’ tutti i giorni tranne il venerdì – giorno festivo per l’islam – e i giorni di preghiera sono dedicati ciascuno a una distinta categoria di persone; tutte le attività rituali del movimento avvengono attorno alla sua moschea85, e tipicamente islamici appaiono, oltre alle abluzioni rituali, anche gli elementi centrali nel ministero e nel movimento di Mujidat: la preghiera e il digiuno. Questi solo sono la fonte del suo potere, e non – sottolinea la donna – quelle pratiche magiche cui fanno ricorso i guaritori tradizionali86 e delle chiese ‘spiritualiste’ cristiane. Eppure, al pari di questi, Mujidat è diventata l’ultima speranza per una popolazione oppressa dal diuturno tormento di problemi che vanno dalla sterilità alla sfortuna, dallo stress alle malattie (anche mentali); di fatto, nonostante la presenza di uomini, la maggior parte dei ‘clienti’ della nostra guaritrice sono donne, per di più appartenenti a tutte le religioni o Chiese aladura presenti nell’area: probabilmente perché il problema trasversalmente più avvertito e patito – e di più difficile soluzione, per cui si batte a tutte le porte – è qui come altrove, nell’Africa Nera, quello della sterilità. A giustificazione della centralità e dell’efficacia della preghiera nel movimento Fadillullah, oltre alla sua matrice prettamente islamica a cui riconducono 85

La gente fa la coda dalle 9 del mattino fuori della moschea e poi ciascuno vi entra in successione ed espone perché ha bisogno di Mujidat, la quale prega, spiega le rivelazioni eventualmente ricevute durante la preghiera e prescrive al postulante i rimedi necessari. La donna afferma di non chiedere alcun compenso per le sue preghiere, ma accetta le offerte volontarie da parte dei clienti. 86 Viene tassativamente vietato, peraltro, di rivolgersi ai guaritori tradizionali.

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le affermazioni della stessa Mujidat, si può in ogni caso individuare anche la persistenza di quell’indelebile credenza, tipicamente yoruba, nella potenza del destino individuale che ciascuno ‘sceglie’ per sé, e a cui Mujidat apre la possibilità di essere cambiato proprio con la forza antagonista della preghiera. Quanto invece alle tracce dell’innegabile influenza delle chiese di guarigione afro-cristiane, la donna ha sottolineato l’assenza, nel suo movimento, delle ‘testimonianze’ in uso presso di esse, in cui ravvisa e deplora una funzione propagandistica per attrarre seguaci. Per contro, sono presenti nel movimento simbolici oggetti ‘terapeutici’ in uso anche nelle chiese cristiane: acqua e olio, ma anche spugne e sapone, sui quali la donna prega per renderli ‘efficaci’ alla bisogna87. L’appartenenza all’islam è rivendicata dal Fadillullah e dai suoi aderenti seguendo scrupolosamente determinate pratiche nella moschea: ad es., c’è un imam che guida il servizio del venerdì. Ma la lealtà nei confronti della religione del Profeta si rese massimamente manifesta quando Mujidat subì e respinse pressioni d’ogni genere da parte di alcuni gruppi cristiani perché si unisse a loro, a motivo delle cospicue analogie presenti nelle rispettive esperienze spirituali. Ciò nondimeno, e come s’è già potuto rilevare, il clima spirituale da cui è emersa la Fadillullah Mission mostra una patente influenza da parte sia della religione tradizionale sia del cristianesimo: a Osogbo, d’altra parte, ci sono parecchi devoti delle divinità yoruba (Osun, Ifà, Obatalà, Egungun…) e vi si celebrano varie feste in loro onore, essendo in qualche modo quella degli orisha la religione ‘nazionale’ del paese, con specifici sacerdoti e sacerdotesse. Per contro la presenza cristiana è capillare nel territorio, specie grazie alle chiese aladura, che vi svolgono complesse funzioni terapeutiche – spesso 87

Di solito c’è una corrispondenza tra oggetti e problema del cliente: ad es., se uno/a ha detto di “aver scelto” (secondo l’ideologia locale soggiacente) un brutto destino, gli/le si raccomanda di portare sette spugne e sette saponette su cui viene pregato: il/la cliente deve quindi recarsi al vicino fiume e lavarsi la testa per un certo numero di volte (7 o un multiplo); oppure si dice a un/a cliente di strofinare la parte del corpo malata con olio consacrato.

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usando anch’esse, nei loro rituali, l’acqua lustrale. La compresenza delle diverse tradizioni spiega sia l’atmosfera marcatamente religiosa che si respira a Osogbo, sia le loro possibili interazioni – come pure tutte le miscomprensioni e misinterpretazioni da parte dei loro praticanti. Ad es., analogo è il concetto di esperienza religiosa, di estasi o trance, che è sempre esperita da donne, tanto nelle chiese aladura quanto tra i devoti di Osun ecc.; invece i modi del servizio, le preghiere e la loro conduzione, il numero di giorni e l’orario di preghiera e di digiuno, come pure la loro scelta, l’uso di oggetti sacri (acqua, olio ecc.) per i bagni lustrali e i bagni lustrali stessi sono quelli delle chiese aladura (e, sorprendentemente, non quelli dell’islam maggioritario) 88.

Donne possedute, divinatrici, guaritrici – e non solo Una menzione particolare meritano le operatrici rituali del SudAfrica, le izangoma (in lingua zulu) che, considerate nella nostra ottica, si 88

Il caso di Mujidat è perfettamente sovrapponibile a quello di Mallah e Marie Lumière, le due guaritrici di Douala sulle quali mi soffermo a lungo nel mio Nera ma bella, salvo che qui le visioni estatiche delle due donne, a monte della rispettiva chiamata, sono pertinenti alla religione cattolica – Dio, Gesù, la Vergine – a cui entrambe saldamente appartengono. Ma la funzione terapeutica, l’‘ospedaletto’ messo su dalle interessate nel cortile di casa, l’acqua lustrale, perfino la ripartizione per giorni dei malati, e soprattutto il debito nei confronti di insopprimibili tradizioni spirituali locali – nella fattispecie i c.d. ‘culti d’afflizione’ – sono uguali. L’altra sola differenza che potremmo segnalare sta nella relativa autonomia della moschea costruita dal gruppo di Mujidat rispetto al persistente, forte legame delle due guaritrici con la parrocchia cattolica da cui dipendono: ma questo è spiegabile facendo riferimento alla diversa impostazione ideologica, organizzazione pratica e prassi consuetudinaria delle due religioni, cattolica e musulmana. Infine, è da segnalare che la parrocchia di riferimento delle due donne di Douala è di orientamento carismatico, segue cioè quel tipo di approccio spirituale – di matrice protestante e all’epoca nuovo per il cattolicesimo – che più può essere avvicinabile all’atmosfera delle chiese aladura (anch’esse di matrice protestante) da cui Mujiad è palesemente influenzata. Cfr. Visca 2002: 58 ss.

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situano su entrambi i versanti della magia e della medicina tradizionale89. Nel sistema di pensiero dei nativi sudafricani (zulu, xhosa, nguni ecc.) ovviamente questa distinzione non esiste, come dimostra chiaramente la concezione locale della malattia e della sua eziologia. Anche nella cultura sud-africana religione e malattia si configurano come strettamente connesse: l’uomo infatti è considerato soggetto all’influenza dell’Essere supremo (il quale, tuttavia, risulta del tipo c.d. ‘ozioso’, cioè del tutto inattivo!), degli antenati, delle streghe come pure agli effetti della contaminazione, e ciascuno di questi agenti può causare sia malattie e malesseri di ordine psicologico che sfortuna. Al primo posto nella responsabilità delle patologie troviamo l’azione di antenati offesi da azioni sconvenienti o irrituali commesse dai propri discendenti, ma un posto di rilievo lo hanno anche streghe e stregoni, che possono agire magicamente in maniera da manipolare, nel bene e nel male, la realtà. Quando sono preda di spiriti maligni, questi operatori rituali possono cambiare aspetto e forma, usare ‘medicine’ per nuocere e servirsi di animali o altri agenti per compiere cattive azioni; ritenute spesso persone ‘invidiose’ del successo altrui, si usa difendersi dai loro attacchi con alcune piante protettive, appositamente messe a dimora attorno alle abitazioni. Per quanto sia indubbio che esistono individui capaci di compiere intenzionalmente azioni malvagie a danno altrui, è tuttavia ovvio che, qui come altrove, attribuire sfortune, disgrazie e malattie all’azione di streghe ecc. risponde all’esigenza di razionalizzare gli eventi negativi per spiegarsene la ragione – al pari di concetti quali, ad es., quello di karma o di punizione divina presso altre e diverse culture. Di fatto, chiamando in causa la stregoneria a spiegazione della sventura, non solo se ne rendono decifrabili le ragioni della comparsa, ma si rende anche possibile trattare l’evento con opportune contromisure: specifici riti protettivi o scaramantici, amuleti, erbe magiche ecc. – e preghiere, nel caso in cui i responsabili siano gli antenati. Quanto alle credenze 89

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Cfr. Kohler – Warmelo 1941 e Wreford 2008.

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relative alla ‘contaminazione’, esse sono quelle secondo cui le sventure non sono né inviate dagli antenati né procurate da streghe, ma causate da una forza mistica scatenata dal contagio indotto da un’impurità rituale. Ma veniamo agli operatori rituali che fungono da guaritori tradizionali. In Sud-Africa se ne contano circa duecentomila, a cui regolarmente ricorre più del 60% degli abitanti, e sono di due tipi principali: gli erbalisti (izinyanga) e i divinatori (izangoma). Questi ultimi, diversamente dagli erbalisti, non decidono spontaneamente di abbracciare la professione, ma sono ‘chiamati’ ad essa dagli antenati mediante una specifica malattia – caratterizzata da malesseri, sogni, visioni e disturbi mentali –, che si ritiene inviata dagli spiriti ancestrali stessi: quanto alla particolare interazione che dal momento della chiamata in poi i divinatori intratterranno con gli spiriti, se ne discute e prevalentemente se ne confuta la qualità, e quindi la caratterizzazione, in termini di possessione – vuoi in sede scientifica vuoi da parte degli stessi interessati. I ‘chiamati’ non diventano guaritori/divinatori istantaneamente: prima, con una complessa sequela di riti, devono essere curati dalla ‘malattia’ che li ha colpiti, e poi sottoposti a un addestramento nelle tecniche di divinazione e terapia ad opera di un esperto guaritore – il tutto secondo un modello che, come ormai possiamo affermare, è proprio dello sciamano e del guaritore tribale a livello pressoché planetario. Pur essendo la ‘professione’ aperta a maschi e femmine, le izangoma sono percentualmente più degli uomini. Se riprendiamo la tesi di Lewis, la maggior presenza femminile nella professione sarebbe segno di quella ricerca di riscatto dalla marginalità che colpisce le donne, come in Somalia, anche in Sud-Africa, mentre, sul versante maschile, gli uomini non avrebbero alcun motivo o interesse a cercare nel ruolo di divinatore la propria emancipazione, essendo la loro socializzazione di gran lunga più favorita rispetto a quella delle femmine. Tuttavia le fonti parlano di una generalizzata – e contraddittoria – resistenza da parte dei chiamati, siano essi uomini o donne, all’assunzione del ruolo, a cui si è in certo modo ‘costretti’ per l’espressa volontà degli antenati – senza contare che spesso, tra l’altro, il ruolo è coercitivo 67

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per ereditarietà. Prescindendo dal fatto che la resistenza alla chiamata spirituale è un tópos di tutte le ‘vocazioni’ (si pensi anche solo alla chiamata profetica del profetismo ‘prototipico’, quello ebraico: si pensi a Giona, a Geremia…), la vita del guaritore/trice sudafricano/a non appare in effetti particolarmente attraente: deve vivere quasi recluso a casa, soggetto a rigide restrizioni alimentari e sessuali, e scrupolosamente attento ad evitare impurità rituali. In tutte le numerose inchieste condotte localmente sul fenomeno, la quasi totalità degli intervistati ebbe a deplorare la decisione degli antenati, lamentandosi soprattutto del fatto di essere vincolati a curare pazienti quotidianamente e continuativamente, senza mai potersi muovere di casa: di fatto, in un’indagine condotta alla fine degli anni Ottanta del XX secolo di 114 donne interrogate sulla loro disponibilità a diventare divinatrici, solo 6 risposero positivamente. Ciò indurrebbe a pensare che – al pari che agli uomini – la propria condizione non appaia alle donne stesse tanto misera da far loro configurare come una panacea l’assunzione del ruolo di guaritrice. È da uno stato vicino al Sud-Africa, lo Zimbabwe – quando il territorio ndebele ad esso corrispondente stava per essere battezzato col nome di Rhodesia90 in virtù del suo essere divenuto press’a poco un dominio personale del famoso Sir Cecil Rhodes e della sua British South Africa Company91 –, è dallo Zimbabwe, dicevo, che cogliamo il primo caso storicamente documentato di donna divinatrice “e non solo” di questa nostra rassegna. Alludo a Nehanda Nyakasikana (1840-1898), una donna shona che da leader spirituale dei suoi contribuli si fece anche leader di una rivolta contro la summenzionata Compagnia rhodesiana e, fatta prigioniera, fu messa a morte dai britannici92. Col che apriamo uno spiraglio sull’impegno se non (anche) di combattenti, almeno di ispiratrici 90

Rhodesia Meridionale, la Settentrionale corrispondendo all’attuale Zambia. 91 La Rhodesia meridionale divenne una colonia dell’Impero britannico solo nell’ottobre del 1923. 92 Cfr. B1872 @ 2003.

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di lotte in senso lato ‘nazionaliste’ – o quanto meno interpretate come tali dall’Occidente, dai neri occidentalizzati e dall’antropologia storica che le ha studiate – di numerose operatrici rituali africane. Nyakasikana era una divinatrice medium dello spirito Nefanda, uno ‘spirito-leone’, e come tale, oltre a celebrare le cerimonie tradizionali per assicurare alla popolazione pioggia e raccolti, dava responsi oracolari. All’inizio la donna aveva accolto con favore i primi coloni europei ma in seguito, assieme a molti altri leader religiosi locali, aderì alla rivolta sollevata nel 1896 dalla popolazione shona e ndebele in risposta all’imposizione di pesanti gabelli da parte degli amministratori britannici. Fallita la rivolta e catturati i suoi leader, anche Nyakasikana ne seguì il destino: accusata di aver fatto uccidere un Native Commissioner, fu processata, riconosciuta colpevole e impiccata. La storia locale riferisce che morì solo al terzo tentativo – e solo dopo che le ebbero tolto una (magica?) borsa di tabacco appesa alla cintura –, affermando che le sue ossa sarebbero tornate93. L’eroismo da lei dimostrato nel conflitto con i britannici e al momento della morte divenne una bandiera nella lotta di liberazione nazionale combattuta nello Zimbabwe negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo94. Una situazione similare ci è proposta dal caso memorabile e lontanissimo nel tempo di una al-kahina (‘sacerdotessa’ o ‘profetessa’) di nome Dahia, ovvero Dahia-al-Kahina, una donna – “nera di capelli, scura di pelle” – che si oppose con le armi agli arabi che stavano invadendo il Nord-Africa attorno al 690, mettendosi personalmente al comando dei combattenti africani e respingendo gli invasori fino al 701, quando gli africani furono definitivamente sconfitti. Dahia a quel punto, secondo la versione che la vuole ‘mora’ (“maura”, vale a dire probabilmente ori93

Si dice anche che un missionario cattolico avesse fatto strenui ma inutili tentativi di convertire al cristianesimo la medium. 94 E forse potrebbe ancora svolgere proficuamente questo suo ruolo simbolico nell’auspicabile affrancamento dello Zimbabwe dai suoi odierni ceppi politici. Anche un’altra valorosa e importante profetessa, Alice Lenshina, sarà proclamata ‘donna del secolo’ nel natìo Zambia. V. infra, pp. 169-236.

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ginaria della Mauritania), si espresse a favore dell’adozione dell’islam e fece fare ai suoi causa comune cogli arabi – che, conquistato ormai il Nord-Africa, si accingevano a soggiogare Spagna e Portogallo e ad invadere l’Europa95; altre versioni, invece, la danno per ebrea96, per berbera di religione tradizionale, per religiosamente indifferente…: tutte, in ogni caso, ne celebrano il coraggio e la iniziale determinazione nell’opporsi con le armi alla penetrazione dell’islam. Certamente, antiche figure di donne combattenti sono state espresse anche dalla cultura europea, ma molte sono personaggi mitici o di fantasia – dalla dea Artemide e da Diana, la sua ‘equivalente’ romana, alle nordiche Valchirie, dalle Amazzoni greche alla virgiliana “vergine Camilla”, dalla Maeve celtica alla Brunilde germanica, da Bradamante dell’Orlando Furioso alla Fantaghirò della fiaba narrata da Calvino fino alla Eowyn di Tolkien97 –, mentre quelle (pochissime) ‘vive e reali’ normalmente furono considerate e trattate come delle eccezionali – inusitate o dissennate – deviazioni dalla giusta norma femminile. Al punto che la più famosa tra di esse – di fatto l’unica vera combattente nel nome di Dio – venne giudicata un’eretica, addirittura un’indemoniata, una strega nell’accezione ‘europea’ del termine, e come tale condannata al rogo: penso a Giovanna d’Arco, la cui quasi perfetta replica africana, a cavallo dei secoli XVII e XVIII, è rappresentata da Kimpa Vita, la famosa Donna Beatrice del Congo. Di Beatrice, il caso più famoso e più complesso di ‘profetessa’ africana – e anche la prima, in ordine di tempo e non 95

Cfr. Rachidi @ 2000. È noto che molti degli invasori islamici della penisola iberica erano africani neri – tant’è che gli arabi stessi vengono identificati quali ‘mori’ dalla tradizione. 96 Cfr. JTF @ 2007: secondo questa versione al-kahina sarebbe la forma femminile di Cohen. Cfr. anche WWR @ 2006. 97 Potremmo citare anche Clorinda della “Gerusalemme Liberata” ma, seppur immaginata da un poeta italiano, è una guerriera saracena. Le culture asiatiche sembrerebbero invece assai più ricche di donne guerriere, mitiche e storiche – e cinematografiche…: si pensi, ad es., a Hero, La tigre e il dragone, La foresta dei pugnali volanti, del noto regista Zhang Yimou.

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solo d’importanza, di cui si abbiano dettagliate notizie grazie a relazioni redatte da missionari cappuccini italiani – la storia religiosa, non meno dell’etno-antropologia, ha già detto tutto quello che poteva dirsi: la bibliografia su di lei e sul suo movimento religioso – l’Antonianesimo – è di fatto ricchissima98. Volendo tratteggiarne brevissimamente la vicenda, dirò semplicemente che la giovane congolese, convertita cattolica ma già iniziata a un culto possessivo tradizionale dei bakongo, ‘morta’ a seguito di una malattia e ‘resuscitata’ come S. Antonio – cioè a dire, risemantizzando in chiave cristiana l’antico culto possessivo, Beatrice incorporò il santo di Padova invece di uno spirito nkita tradizionale –, riunì attorno a sé un cospicuo numero di seguaci che ne condividevano tanto la critica nei confronti del clero europeo (al momento soprattutto iberico e italiano) e di alcuni aspetti della dottrina cattolica impartita99, quanto l’appoggio a uno dei pretendenti al trono dell’antico regno del Kongo, da tempo dilaniato da una penosa guerra civile. Come per Giovanna, anche per Beatrice fu soprattutto la politica – anche ‘ecclesiastica’ – a giocare il ruolo decisivo della sua vicenda: processata dai cappuccini e condannata per la sua ‘eresia’ fu da essi, secondo la norma, consegnata al ‘braccio secolare’, a quello stesso Pedro IV per cui la profetessa s’era tanto spesa, e da questi fatta ardere viva assieme a un suo sodàle100. Una parentesi. Questo paragone tra Giovanna d’Arco e Donna Beatrice mi consente di suffragare fin d’ora con un esempio concreto la mia ‘lettura’ del rapporto donna/religione in Africa – che esporrò in maniera più articolata e definita alla conclusione del saggio –, secondo la quale in Africa perfino personaggi ‘estremi’ come Donna Beatrice non 98

Me ne sono occupata anche io in Visca 2002: 115 ss. Ma cfr. anche Cerri 2007. Rimando a questi due lavori per la cospicua bibliografia a cui ho fatto riferimento, limitandomi a citare qui il solo Thornton 1998. 99 Famosa in proposito è la riformulazione della Salve Regina in chiave antoniana operata da Beatrice. 100 Incidentalmente: anche padre del figlio della ‘falsa Sant’Antonio’, come Beatrice veniva chiamata dai missionari.

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rappresentano un’eccezione ma rispondono pienamente alla norma, in quanto conformi ai canoni culturali locali. Con ciò non sto dicendo che – in termini quantitativi – in ogni e qualsiasi villaggio africano e a ogni pie’ sospinto spuntino leader religiose capaci di schierarsi politicamente e perfino di guidare delle armate in difesa del proprio movimento o culto, bensì che – in termini qualitativi – nella cultura africana mancano quelle coordinate di passività ubbidienza e sottomissione, in una parola: quello stereotipo tipicamente cristiano della ‘femminilità’, che nel contesto occidentale rendono così eccezionale un personaggio quale la santa orleanese. La donna africana, insomma, non è minimamente paragonabile, dal punto di vista religioso, alla donna occidentale, docilmente strutturata o inquadrata dalle o nelle androcentriche istituzioni religiose101. Ma andiamo avanti: riprenderemo a suo tempo questo discorso. Proseguendo a stilare il mio breve repertorio di guaritrici “e non solo”, citerò anche una nganga (divinatrice) bantu di nome Wanankhucha. La storia che serve a contestualizzarla è, succintamente, la seguente: gli schiavisti arabi di base nel sultanato di Zanzibar da sempre traevano schiavi dalla Tanzanìa, dal Mozambico, dal Malawi e li commerciavano soprattutto nei mercati della Somalia, alle cui piantagioni erano destinati. Tra i bantu fatti schiavi figuravano anche cospicui gruppi di Tanzaniani di lingua zigula, i quali col tempo han finito con l’insediarsi stabilmente in Somalia102, presso i fiumi Giuba e Shebeli: la storia di questo insediamento ha il suo incipit proprio con la vicenda relativa alla nganga in questione. Wanankhucha è di fatto il personaggio principale, l’eroe, della tradizione orale degli odierni bantu della Somalia, perché fu lei, alla metà dell’Ottocento, ad organizzarne la fuga dalla 101

Tant’è che in Occidente – come di fatto ho illustrato nel corso tenuto alla Sapienza nel 2° semestre dell’a.a. 2008-09 –, se la donna vuole ‘gestire’ il sacro, deve inevitabilmente uscire dalla religione istituzionale: di qui la rilevantissima presenza di donne nei nuovi movimenti religiosi – dalla M.me Blavatsky della Teosofia fino alle attuali ‘streghe’ della Wicca… 102 Infatti oggi sono identificati come bantu somali.

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schiavitù, conducendoli alla libertà attraverso molte peripezie ma senza danno grazie alle sue visioni e al suo potere. L’intenzione originaria dei fuggiaschi era infatti quella di tornare nella natia Tanzanìa, ma la lunga migrazione attraverso il Kenya per raggiungere la loro meta finale avrebbe comportato assai rischi e pericoli, compreso quello di cadere nuovamente nelle mani degli schiavisti. Così, mentre stavano ancora attraversando la valle del Giuba – tenuti saldamente uniti e solidali dalla loro lingua e dalla sagacia della nganga, che ne alimentava la coscienza identitaria organizzando frequenti performance di canti tradizionali zigula –, si ebbe un terremoto da cui Wanankhucha seppe trarre favorevoli presagi: la sua gente decise allora di stabilirsi nella Somalia meridionale, ponendo termine alla propria migrazione. Più noto e più vicino a noi nel tempo è il caso di una guaritrice/ divinatrice – e molto di più – del nord dell’Uganda103. Il suo nome è Alice Lakwena ed è morta solo un paio d’anni fa in Kenya, dove si era rifugiata; il luogo ove si svolse la sua vicenda è la regione ugandese abitata dall’etnia acholi, e l’epoca è la seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando in Uganda, in una lunga e sanguinosa guerra civile, si fronteggiavano per conquistare il potere le armate contrapposte di Milton Obote e di Yoweri Museveni, il futuro presidente del paese, inviso alla popolazione acholi. Nel 1985 la giovane Alice si ammala – secondo il consueto pattern vocazionale della possessione spirituale – e i guaritori tradizionali non riescono a guarirla; un giorno scompare e quando torna, dopo quaranta giorni, afferma di essere rimasta per tutto il tempo immersa nelle acque del Nilo, ove era stata invasa dallo spirito Lakwena (= Messaggero), originariamente un veterano italiano della Grande Guerra sepolto nei pressi. Da questo momento e fino all’agosto del 1986 Alice opererà come guaritrice tradizionale, secondo il ‘solito’ modello. Ma il 6 agosto Lakwena le comanda di assumere il ruolo di comandante militare e di arruolare un esercito, di cui egli stesso si sarebbe messo a capo per 103

Di cui si discute a lungo in Visca 2004.

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suo tramite: era nato così l’Holy Spirit Movement. Di fatto in molti seguirono la profetessa, e riportarono straordinari successi sul campo fino all’ottobre dell’ ’87, quando il braccio armato del movimento, l’Holy Spirit Mobile Front, venne clamorosamente battuto da Museveni: Alice ferita riparò in Kenya e l’esercito si disperse, per essere poi ricompattato dall’erede della profetessa, l’assai discusso e discutibile Joseph Kony – presentatosi anch’egli come portavoce dello spirito Lakwena –, che tante sofferenze recherà alla popolazione dell’Acholiland. Alice nel campo profughi del Kenya riassunse il suo ruolo originario di guaritrice, ma senza più essere posseduta da Lakwena: curava come erborista e affermava di aver trovato delle erbe capaci di guarire l’Aids104. Ciò nondimeno, il suo antico potere spirituale e la sua sperimentata abilità ‘militare’ restavano un pericolo tanto avvertito e tanto temuto dal governo ugandese che la donna, nonostante i ripetuti appelli e le molte discussioni, non riuscì mai ad ottenere il permesso di rientrare in patria e, come ho già ricordato, è morta esule nel campo profughi dell’Onu a Dadaad. “E non solo”: sciamane, guaritrici, divinatrici, combattenti… Anche fondatrici e leader di grandi movimenti religiosi e di Chiese di nuovo conio. Di due casi celebri di fondatrici di importanti, nuove realtà ecclesiali: l’una – Alice Lenshina –, della Lumpa Church nello Zambia, l’altra – Gaudencia Aoko –, co-fondatrice in Kenya della Maria Legio, 104

Notizie aggiornate sugli eventi ugandesi si trovano nel numero di gennaio 2009 della rivista comboniana Nigrizia (Tacchella 2009). Di fatto, sembrava che Kony – che nel frattempo ha lasciato il Sudan per rifugiarsi in territorio congolese (nel Nord-Kivu, dove ora continua le sue operazioni di guerriglia) – fosse intenzionato a firmare la pace col governo ugandese, ma il 30 novembre 2008 non si è presentato all’incontro coi mediatori fissato al villaggio sudanese di Ri-Kwangba. Egli infatti pretende che la Corte Penale Internazionale ritiri il mandato di cattura contro di lui e chiede di essere giudicato da un tribunale ugandese, ma la CPI non intende annullare le sue decisioni. Intanto, però, le forze militari internazionali non sembrano capaci di arrestarlo – o non interessate a farlo. 74

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tra le rarissime Chiese indipendenti di matrice cattolica, si occupano diffusamente in questo stesso volume Franco Pignotti e Boris Tacchia. Rimando pertanto ai loro saggi105.

Dall’Africa all’America Il nostro discorso sull’Africa non sarebbe completo senza una menzione della ‘esportazione’ dei suoi sistemi di credenza – e delle sue professioniste del sacro – nel continente americano. Di fatto, le etnie dei paesi che si affacciano sul golfo di Guinea, assieme a quelle del Congo e dell’Angola, sono le culture ‘nere’ africane note da più tempo all’Occidente – essendo state contattate soprattutto da portoghesi e spagnoli fin dalla fine del XV secolo –, e quelle sottoposte alla più intensa e distruttiva deportazione nel Nuovo Mondo con la tratta degli schiavi. Nelle Americhe, e in particolare nell’America centro-meridionale, gli schiavi deportati riuscirono a conservare, sotto mentite spoglie – cioè mascherando o meticciando le proprie credenze con quelle cristiano-cattoliche inculcate loro dai nuovi padroni –, molti dei tratti costitutivi i propri originari sistemi di credenza: divinità, riti, fenomeni possessivi…, dando luogo a vere e proprie nuove religioni, che gli studiosi indicano col termine di ‘afro-americane’: in Brasile ai vari culti afro-brasiliani come il candomblé o la macumba, e il culto di Exù nelle metropoli, ad Haiti (e anche nel sud degli USA, come in Louisiana) al vudù, a Cuba alla Santeria, a Trinidad e Tobago al culto di Shango, tanto per citare solo le più famose. In tutte queste nuove formazioni religiose le donne svolgono un ruolo affatto portante. In effetti, le donne svolgevano funzioni di rilievo già nel contesto originario delle tradizioni religiose dell’Africa occidentale, ove possiamo distinguere grandi pantheon – come quello yoruba che sarà alla radice della maggior parte dei culti afro-brasiliani –, e complessi

105

Cfr. pp. 169 e ss. e pp. 237 e ss.

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sistemi incentrati sul culto di un dio serpente – come il vodun (cfr. vudù) del Benin (già Dahomey). Giulio Ferrario, un enciclopedico autore ottocentesco, nel suo Il costume antico e moderno o Storia del governo, della milizia, della religione, delle arti, scienze ed usanze di tutti i popoli antichi e moderni 106, ci ha lasciato un quadro assai illuminante del ruolo svolto e dei privilegi goduti dalle antiche sacerdotesse in carica presso le etnie costiere del golfo di Guinea, e più in particolare a Ouidah (Benin), dov’è oggi la famosa ‘Porta del non-ritorno’. Rispettate quanto i sacerdoti, queste donne si dicevano figlie del dio da esse cultuato e, se si sposavano, esercitavano – diversamente dalle donne comuni – un’autorità assoluta sui propri mariti. Ogni anno – riferisce il nostro Dottor Ferrario –, le sacerdotesse anziane sceglievano alcune fanciulle da consacrare al dioserpente (il pitone, la divinità principale del pantheon), e le istruivano lungamente circa le danze e i canti a lui sacri, mentre ne andavano incidendo la pelle del corpo con dolorose scarificazioni (“la loro pelle s’assomiglia ad un bellissimo raso nero a fiori”), segno della loro destinazione al servizio del dio e motore del rispetto di cui godranno da parte dell’intera popolazione. Seguiva, al momento opportuno, un rito ierogamico con rappresentanti del serpente stesso. Una volta compiuto il rito e uscite dal tempio, le donne potevano tornare alle loro famiglie ed eventualmente sposarsi: “Quelle che non trovano occasione di maritarsi vendono i loro favori al pubblico”107. Le sacerdotesse anziane – vedove o nubili che fossero – svolgevano ancora un ruolo e, con “quella malignità ch’è propria delle vecchie che non possono più aver parte nelle amorose tresche”, insegnavano alle giovani loro affidate tutte le arti più licenziose perché potessero trarre il massimo profitto dal loro ruolo108. A parte le 106

Ferrario 1825: III, 259 ss. 107 Col che avremmo un caso africano di c.d. ‘prostituzione sacra’. La qual cosa non ci deve sorprendere più di tanto, tenuto conto che tutta l’Africa occidentale sembra aver subito rilevanti influssi dalle culture mediterranee – non ultimo, nella complessità dei suoi sistemi religiosi. 108 A proposito di questo culto del dio-serpente, rimando al paragrafo del mio

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infiocchettature del Dottor Ferrario su un disegno etnografico largamente impressionistico, questa fu in effetti la trama religiosa che raggiunse il Nuovo Mondo assieme agli schiavi – i quali tuttavia vi ricamarono sopra altri e innovati orditi. I sistemi religiosi sviluppatisi nelle Americhe a volte sincretizzando la visione del mondo africana con quella cristiana, a volte usando quest’ultima come un mero paravento o prescindendone affatto, sono – come ho detto – numerosi e assai diversi tra loro, ma tutti hanno al loro centro la ricerca di un contatto con il sovrannaturale tramite la trance. Questa viene suscitata dall’impiego congiunto della percussione ossessivamente ripetitiva di specifici tamburi e della danza eseguita con movimenti rotatori veloci e prolungati: ciò nondimeno resta, al pari di qualsiasi altro analogo evento ‘possessivo’, un fenomeno psichico scientificamente inspiegabile. Aldilà di tutti i tentativi di spiegazione clinica – che non ci competono –, quel ch’è certo è che in contesti del genere il fenomeno è ‘culturale’, non ‘patologico’, e pertanto socialmente integrato: la possessione si configura ovunque, infatti, come assolutamente congruente e funzionale al gruppo di appartenenza del soggetto che sperimenta la trance. Nei contesti afro-americani questi è detto ‘figlio’ o ‘cavallo’109 dello spirito invocato (orisha, vodun, loa, o antenato che sia), il quale si manifesta appunto prendendo possesso del suo corpo e divenendo in tal modo il tramite della comunicazione tra il sovrannaturale e la comunità dei fedeli. Iniziamo col vedere in che cosa consista il vudù110 haitiano (e non solo haitiano, ma ad Haiti riconosciuto ufficialmente quale religione a tutti gli effetti nel 2003), il sistema di credenza che più direttamente discende dal vodun dahomeyano, e quale vi sia il ruolo della donna. Nella Nera ma bella dedicato alla Makewana, una sacerdotessa del lontano Malawi anch’essa sposa del Pitone – e utilizzata dagli evangelizzatori per impiantare la Madonna! Cfr. Visca 2002: 248 ss. 109 Cfr. le ‘giumente’ del bori nigeriano! 110 Vodu, Voodoo, vodou, vaudou...: le grafie sono diverse. 77

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sua versione africana – la quale tuttavia non si differenzia più di tanto da quella afro-americana, essendo entrambe nate tra il XVII e il XVIII sec. combinando elementi ancestrali e concetti cristiani –, il vudù è oggigiorno (dal 1996) la religione ufficiale del Benin, cui aderisce l’80% della popolazione, ed è molto presente anche in Togo. Il termine vudù proviene con ogni evidenza da vodun = ‘spirito’ (lo spirito che permea la materia cosmica dandole la vita) e il culto sincretizza a diversi livelli tratti del cattolicesimo e delle religioni tradizionali delle etnie del golfo di Guinea – in particolare dell’attuale Benin – a cui appartenevano molti dei neri della diaspora al tempo della tratta. A lungo perseguitato dal cattolicesimo perché considerato affermazione della stregoneria ed espressione delle diaboliche superstizioni degli schiavi delle piantagioni, ma pervicacemente mantenuto in vita da congregazioni clandestine create dal clero vuduista stesso, vi si venera un dio supremo – Mawu, Olorun, o anche Bon Dieu, per mimesi del Dio cristiano – oltreché gli antenati, i defunti in genere e gli spiriti loa (= ‘misteri’, ma anche santi e angeli), che sono entità già appartenenti alle religioni tribali riproposte nelle mimetiche vesti di specifici santi cattolici: di fatto sono spiriti della natura – in parte derivati dagli orisha yoruba –, che costituiscono i vari aspetti coi quali Dio si manifesta nel mondo. Il serpente – Da o Damballa – resta un’entità centrale nel vudù, dacché vi è considerato una incarnazione del vodun, dello spirito: come il serpente s’avviluppa attorno alle sue prede, così Dio avviluppa il suo spirito attorno al cosmo – ogni cosa animata o inanimata è infatti parte di Dio. Tra i numerosissimi altri loa menzionerò Ayida, spirito dell’arcobaleno e sposa di Damballa; Lisa, spirito della creazione; Shango, spirito delle tempeste; Maman Brigitte, dea dei morti; Mademoiselle Charlotte, spirito dall’aspetto occidentale; Ti Jean, un loa antropofago, e infine Yemaya (la Sirène, ovvero Mami Wata, dall’inglese Mommy Water), grande e pericolosa dea delle acque raffigurata in forma di sirena, il cui culto è il più diffuso: molti di questi loa corrispondono, peraltro, a entità cultuate anche nelle religioni afro-brasiliane. Diversamente da queste ultime, tuttavia, nel vudù i loa possono anche essere concepiti privi di aspetto o caratteristiche fisiche, 78

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in quanto intesi come essenze del dio supremo, e per questo rappresentati simbolicamente mediante i vévé, sacri disegni geometrici. Dicevo poc’anzi che nel vudù sono presenti componenti di derivazione cristiana: provengono dal cattolicesimo la pratica del battesimo, il segno della croce e le raffigurazioni di santi oltre all’uso di candele, croci e campane; dalla tradizione africana provengono, invece, la danza, i tamburi, il culto degli antenati e dei gemelli, e lo sgozzamento rituale del galletto (il più tradizionale dei sacrifici animali in uso). Ma è soprattutto ‘africana’ la trance possessiva che, nel corso di cerimonie in cui i loa vengono invocati con canti, danze e percussioni di tamburi affinché dispensino consigli e operino guarigioni, si manifesta in ciascuno dei celebranti nei modi tipici dello spirito da cui è posseduto. Veniamo così, finalmente, al clero vuduista. I sacerdoti celebranti sono di entrambi i generi, senza distinzione alcuna di competenze e importanza: alti sacerdoti e alte sacerdotesse – papaloa e mamaloa –, gli oungan e le mambo, svolgono funzioni simili e godono degli stessi privilegi. Nel corso di particolari liturgie essi hanno il compito di comunicare con gli spiriti o con i defunti, che se ne impossessano – ed è quando un membro del clero è così posseduto che viene detto zombi, cioè a dire una persona viva controllata da un’entità estranea al suo corpo111. Tra gli ordini sacerdotali il più importante è quello associato a Mami Wata/ Yemaya e ad altre potenti divinità acquatiche – spesso descritte anch’esse in forma di sirena o di serpente –, il cui corpo consacrato è composto principalmente da donne (mamaisii). Il vudù oggi vive un momento di rinnovato interesse tanto in Africa quanto presso la popolazione di colore delle Americhe. Di più: al pari degli altri culti afro-americani, il vudù ‘espatriato’ ha riattraversato l’Atlantico nella persona di numerosi sacerdoti e sacerdotesse che ‘tornano’ in Africa per ricongiungersi alla tradizione ancestrale abbeverandosi, per

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Diversamente dallo zombie reso celebre da La notte dei morti viventi di G.A. Romero (1968).

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così dire, alla sua fonte originaria, nella culla stessa del loro credo. Ma il vudù riscuote un certo successo oltreché presso i neri anche tra i bianchi, in questa ricerca tanto new ager di alternative religiose. Il mistero che ha circondato il culto ai tempi della colonizzazione e della schiavitù, assieme al forte misticismo e all’esoterismo che connotano il culto stesso, ne fanno un sistema di pensiero e di credenza particolarmente appetibile per gli odierni cercatori di spiritualità esotica112. Anche il candomblé brasiliano vede le donne in primissimo piano nello scenario rituale. Il candomblé è una religione tipicamente ma non esclusivamente brasiliana, che si fonda sul culto di divinità chiamate orixas, di evidente origine africana – sono gli orisha yoruba che abbiamo già incontrato, lì intesi perlopiù come lontani antenati mitistorici –, e associate ciascuna ad un elemento naturale: come accade per quasi tutte le realtà religiose afro-americane, e in maniera del tutto consuetudinaria in Brasile, pur essendo il candomblé una religione decisamente ‘incompatibile’ con il cristianesimo, sono assai frequenti i casi di doppia appartenenza. Al pari del vudù, anche il culto in oggetto fu portato nelle Americhe con la tratta degli schiavi e da questi accortamente meticciato con il cristianesimo imposto dai portoghesi – per cui anche qui a ciascuno degli orixas è stato fatto corrispondere un santo. Soprattutto in città, dove gli schiavi ebbero maggiori possibilità di frequentazione interetnica e associazione in confraternite ufficialmente cattoliche (irmandades)113, il culto si diversificò in più tradizioni e queste a loro volta in ‘nazioni’, cioè in stili e riti legati alla rispettiva provenienza africana: il candomblé, come tale, nacque a Salvador de Bahia e si presenta suddiviso in varie ‘nazioni’. Gli adepti del candomblé ne contestano la lettura in termini di sincretismo, affermando che si tratta di una religione vera e propria, affatto 112

Per altro verso, però, il vudù non manca neppure di preoccupare l’Occidente: sono noti i problemi sollevati dalla sua pratica nell’ambito della emigrazione africana in Europa, specie per favorire l’asservimento delle donne nel traffico della prostituzione. 113 Nelle piantagioni gli schiavi venivano invece ripartiti secondo la loro provenienza.

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autonoma sia dal cristianesimo che dalla religione tradizionale africana: così, ad es., nel 1983 dichiararono polemicamente alcune grandi iyalorixas (sacerdotesse) in un loro consesso ufficiale. Di fatto, esso può essere sommariamente definito un culto della natura: cose alberi animali persone, tutto è sacro, ogni persona è un frammento della divinità, e ogni elemento della natura è associato ad uno specifico orixa. Ciò nondimeno il candomblé non è né un panteismo né un politeismo secondo i suoi cultori, dacché al di sopra di tutto c’è un principio primo, chiamato Olorum (o Olodumaré)114, il quale ha dato inizio ai princìpi maschile e femminile che, a loro volta, hanno dato origine al mondo, alla natura e agli esseri viventi. Ed è ancora da questo Essere supremo che provengono gli orixas 115, divinità-energie della natura che fanno da tramite fra gli esseri viventi e Olorum e dei quali i mortali sono figli. Le divinità sono sentite prossime agli umani nel quotidiano, e per alcuni – ma soprattutto per alcune – questa vicinanza si manifesta in particolare con la chiamata che, secondo il consueto modello vocazionale, si attua mediante sogni e/o malattie dall’origine misteriosa: è qui che entrano in gioco i pais e, soprattutto, le mães do santo (‘padri’ e ‘madri del santo’), i sacerdoti e le sacerdotesse del candomblé. La chiamata va infatti verificata con un processo divinatorio detto di Ifà – divinità della divinazione e della sapienza –, che consiste in gittate di conchiglie, ed è appunto la mãe (o, più raramente, il pai) do santo a eseguire il jogo de buzios e ad analizzare la situazione energetico-spirituale del/la consultante: in base a tale analisi inizierà la celebrazione di specifici riti per avvicinare il/la fedele al proprio orixa. Se poi la divinità lo richiede, si passerà ad una vera e propria ini114

La natura propriamente mitica del c.d. dio supremo Olorum viene svelata dal mito posto all’origine del candomblé: si tratta del mito della sua separazione del cielo, sede degli orixas, dalla terra – perché gli uomini lo sporcano. Gli orixas, senza poter più incontrare gli uomini a seguito di questa disgiunzione, si rattristarono e Olorum, stufo dei loro lamenti, permise loro di far visita ogni tanto alla terra, dove, sollecitati dalle offerte dei fedeli, danzano al suono dei tamburi riportando felicità e armonia. 115 Sono un centinaio, ma i più onorati sono solo una dozzina.

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ziazione (con reclusione all’interno del terreiro e varie ‘prove’) per entrare in maggior contatto con l’orixa ed eventualmente diventarne sacerdote/ essa; l’unione con la divinità avviene comunque in momenti determinati e ritualmente organizzati dal clero e per il tramite della trance, che si ottiene con canti, danze e percussioni di tamburi. I riti si officiano nei terreiros, luoghi di culto ove si svolge per intero la vita dei pais e delle mães do santo, che ne sono le autorità spirituali e ne guidano in ogni dettaglio tutte le attività e cerimonie – dalla divinazione ai sacrifici, dall’iniziazione all’istruzione dei nuovi adepti. Tra le sacerdotesse (e non tra i sacerdoti!) delle irmandades ‘storiche’, alcune delle quali sono diventate vere figure mitiche, compaiono fondatrici di famosi terreiros. Ogni cerimonia inizia col pade, rito per Exu – dio messaggero che è finito con l’essere identificato nel diavolo del cristianesimo116 –, a cui fanno seguito preghiere e riti in onore degli antenati e degli dei, invitati a scendere fra i fedeli. Infine c’è la possessione da parte degli orixas: i sacerdoti e le sacerdotesse, con abiti sgargianti e vistosi ornamenti sacri, danzano seguendo specifiche coreografie e incorporano gli orixas, impersonandone le caratteristiche individuali. Nel corso dei fenomeni possessivi gli orixas impersonati dal clero officiante non si limitano a rispondere alle richieste dei loro postulanti e a dare consigli, ma trasmettono loro anche conoscenze relative alla mitologia e al sapere tradizionale: i loro messaggi, in ogni caso, non rispondono mai alla logica del ragionamento ma all’arte della percezione sensoriale. Pae (yoruba: Babalorisha), ma soprattutto mãe (Iyalorisha) do santo hanno un ruolo fondamentale in tutti i culti afro-brasiliani – compreso l’umbanda che associa alla tradizione afro-cristiana elementi del kardechismo (i.e. lo spiritismo medianico codificato e divulgato da Allan Kardec) europeo –, perché non solo sono coloro che posseggono le chiavi della tradizione culturale e religiosa di ciascuna nazione ma, essendo essa

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E come tale divenuto destinatario di un culto autonomo nel Quimbanda contemporaneo, quale espressione dei disvalori e delle aspirazioni della modernità brasiliana. Cfr. Visca 2006, pp. 159-167.

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essenzialmente orale, sono anche i responsabili della sua trasmissione alle nuove generazioni. Anche il candomblé, come diversi altri culti afro-americani, ha riscosso e va riscuotendo un crescente successo presso la popolazione bianca al di là e perfino al di qua dell’Atlantico: la cospicua presenza di occidentali – semplicemente curiosi o specificamente attratti dall’esotico e dall’esoterico in momenti segnati dalla ricerca di alternative spirituali – tra le fila degli adepti del candomblé si giustifica soprattutto col suo essere interpretato e presentato come un sistema di pensiero essenzialmente vòlto alla ricerca di armonia con sé e con gli altri.

In conclusione Va da sé che quanto esposto nelle pagine che precedono richiederebbe, in ogni singolo paragrafo, un’approfondita trattazione specifica. L’ho già precisato all’inizio del saggio e non voglio soffermarmi ulteriormente sulla mia scelta metodologica: l’intento era quello di presentare una panoramica a volo d’aquila sulla complessa dialettica religione/donna, senza problematizzarne ogni singolo aspetto. Sono cosciente che procedendo in questo modo ho – forse – accontentato il lettore che per la prima volta si accostava a queste tematiche, ma al tempo stesso scontentato lo studioso che avrebbe desiderato maggiore attenzione e problematicità rispetto alle questioni sollevate da ogni singolo elemento o caso toccato. Il risultato, di necessità, ha tutti i pregi e i difetti delle sintesi: permette di cogliere alcune linee generali a scapito dell’attenzione specifica ai singoli fatti. Ribadisco che non ho inteso sottovalutare la complessità degli argomenti – come liquidare il sati in una riga, la prostituzione sacra in un paragrafo, la questione femminile nei tre monoteismi in un capitoletto? – ma, appunto, cogliere le linee generali della tematica. Le mie affermazioni non siano però motivo di fraintendimenti: quando dico che mi sono proposta di cogliere le linee generali di una problematica storicoreligiosa, come il rapporto religione/donna, non voglio assolutamente 83

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dire che ho inteso fare un discorso di stampo fenomenologico e morfologico. Sono una storica delle religioni, dopotutto, e questo significa che la panoramica è funzionale all’elaborazione – attraverso la comparazione di situazioni fra loro tanto disparate nella loro apparente affinità quanto possono esserlo, ad es., lo sciamanesimo al femminile coreano e la multiforme possessione africana – di una lettura del rapporto donna/religione, soprattutto in ambito etnologico, non inficiata da facili omologazioni e pregiudizi occidentali. Di fatto, il motivo e il risultato principali della mia indagine sono stati proprio quelli di verificare un sospetto e quindi constatare – se ancora ve ne fosse bisogno, dopo gli studi postcoloniali e le complesse teorie decostruzioniste elaborate negli ultimi due decenni! – quanto la visione occidentale della donna abbia influito sull’interpretazione (ma non solo ‘interpretazione’) della donna nei contesti extraoccidentali. Anche se nel breve spazio concessomi in questo volume non ho potuto esporre tutta la documentazione da me raccolta nel corso del tempo, la riflessione trattane è che nei contesti etnologici la donna, in ultima analisi, ha avuto assai più spazi di quanti non le siano stati riconosciuti dagli osservatori – e forse perfino di quanti ne abbia trovati in Occidente! In verità, man mano che le mie investigazioni procedevano e man mano che, invecchiando, andavo prendendo le distanze sia dai ‘vecchi’ Maestri sia dai ‘vecchi’ condizionamenti, mi si andava progressivamente ma decisamente mettendo in discussione il mito a tutt’oggi invalso per cui nel mondo extra-occidentale la donna si trova – o quanto meno si trovava – per motivi culturali rinviabili a questioni di genere, in una posizione di estrema inferiorità e subordinazione rispetto all’uomo e che – per quanto attiene alla nostra tematica – essa non ha/aveva voce alcuna in ambito religioso. Attenzione: non sto dicendo che nei fatti la donna in un villaggio africano o indiano si trovi (nemmeno oggi!) in una situazione socio-culturale uguale e men che meno migliore rispetto a quella dell’uomo, ma che la sproporzione fra i due sessi non è così marcata come ci è sempre stato fatto credere dalle relazioni di antropologi e missionari, e – soprattutto – che spesso non di sproporzione si tratta ma di incom84

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presa ‘complementarietà’ – come esemplarmente in Africa –, o di ragioni che con il genere hanno a che fare solo in modo mediato – ciò che vale senz’altro, ad es., per l’India, ove lo scandalo è assai più l’onnipervasivo sistema castale con la sua esaltazione culturale a statuto religioso della differenza, che la differenza di genere in sé. A mio avviso il problema sta, anche in questo caso, nella natura delle fonti a nostra disposizione117: il materiale etnografico che ci è stato consegnato agli albori della conoscenza scientifica dell’‘altro’ non veniva infatti semplicemente raccolto, ma già inconsciamente catalogato e interpretato secondo le categorie degli osservatori118. E chi erano gli osservatori? Appunto: missionari (in antico per la maggior parte cattolici, poi anche protestanti a parità d’impegno) e antropologi (molti dei quali formatisi in anglosassoni ambienti vittoriani): la concezione della donna nel cristianesimo119 e nel mondo borghese d’ispirazione vittoriana120 è ben nota ed è fuor di dubbio che in entrambi quei contesti si può parlare di un ideale di subordinazione della donna all’uomo121. Secondo me è 117

Dico “anche” perché la questione dell’inattendibilità di molte delle fonti etnografiche è stata discussa per vari altri argomenti dagli storici delle religioni: in primis da Dario Sabbatucci (ad es. 1986, 1991), ma anche da me (ad es. Visca 1984, 1986, 2007). 118 Parlo esplicitamente del primo materiale etnografico perché è ovvio che stiamo riflettendo sulla condizione della donna ‘indigena’ ancora relativamente indenne dagli influssi di una realtà aliena quanto quella occidentale – e della c.d. modernità –, quale appunto ci viene riferita dai primi osservatori. 119 Ma almeno fino alla prima metà del novecento le posizioni del cattolicesimo e del protestantesimo in merito al ‘posto’ della donna non si differenziavano in maniera determinante – come abbiamo anche avuto modo di ricordare più sopra. Per inciso, dell’ortodossia non si parla mai in rapporto ai processi di evangelizzazione, perché scarsissimamente attiva sul piano missionario, ma anche le Chiese ortodosse perseguono una visione tradizionalista della donna. 120 Sublime ironia d’un’epoca connotata dal femminile! 121 Si sa che il melenso ruolo di ‘angelo del focolare’ assegnato alle donne in epoca vittoriana valeva per la sola borghesia – mentre le ‘proletarie’ andavano ad infoltire le fila della classe operaia (o della miseria e della prostituzione). E in ogni caso le decantate qualità di quell’‘angelo’ erano la modestia, la docilità, la riservatezza, l’assenza di

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stata proprio quella concezione – espressa e partecipata l’una sul versante religioso, l’altra sul versante laico del medesimo, epocale momento storico coincidente con la nascita delle fabbriche e delle discipline etnoantropologiche! – a influenzare la lettura delle realtà osservate. È stato il condizionamento culturale dell’osservante a far leggere determinate situazioni come espressioni di subordinazione assoluta della donna in quanto tale all’uomo. Due esempi saranno sufficienti: la poliginia in Africa e il lavoro femminile nelle culture extraoccidentali. Per quanto concerne la poliginia, sappiamo bene ch’essa è stata per lunga pezza intesa e strenuamente avversata come peccaminosa manifestazione di concupiscenza – più crudamente ancora: della incontenibile e ferina sessualità del maschio africano –, ma non c’è voluto molto perché infine gli analisti vi scorgessero piuttosto un fattore di oculata gestione ‘economica’ della famiglia, sia a livello riproduttivo che a livello produttivo: più figli – in situazioni demografiche precarie per l’estrema morbilità – più braccia per la sussistenza. Per quanto concerne il lavoro: quante volte abbiamo visto in documentari oppure letto di donne di luoghi lontani al lavoro mentre i loro uomini discutono pigramente all’ombra di una pianta? Ebbene, la nostra (soprattutto di noi donne!) indignazione al riguardo122 a ben vedere non è altro che un’ulteriore applicazione agli ‘altri’ del concetto occidentale di ‘lavoro’ in debito con la rivoluzione industriale (casualmente d’età vittoriana!), vale a dire nella sua qualità di attività produttiva in termini esclusivamente economicistici di dispendio e rendimento di forza fisica: dovremmo applicare questi stessi parametri, chessò, ai professionisti della parola, ai politici occidentali, e forse ci convinceremmo che il lavoro può consistere anche nell’articolare e scambiare idee – possibilmente, lì come

aspirazioni discordanti col proprio compito domestico… le ‘virtù’ che – polari rispetto a quelle dell’uomo forte e ambizioso – qualificavano in generale tutti i ‘subordinati’. 122 La mia propria, in occasione di un ‘campo’ in Kenya nel 1982, è registrata in Visca 1984: 72 ss.

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qui, vacue o profondissime, comunque di sicuro assai meno ‘faticate’ delle sudate attività di sussistenza. Ma – fuor di celia – c’è anche dell’altro, e voglio soffermarmi ancora per qualche riga sul condizionamento occidentale gravante sulla concezione del lavoro, perché lo ritengo responsabile di effetti realmente deleteri sulla valutazione dell’alterità culturale al femminile123. È un dato incontrovertibile che si è fatto del lavoro una delle più potenti chiavi di lettura della subordinazione femminile nei contesti esotici e non solo: la donna, in verità, è discriminata sia che non lavori, sia che lavori! Ma il parametro usato per esprimere il giudizio è stato ed in fondo è tuttora quello sviluppato in uno specifico momento storico della nostra cultura – nuovo e rivoluzionario per l’Occidente stesso dal punto di vista economico, ma non per quanto attiene ai ‘ruoli’ sociali e religiosi tradizionalmente assegnati ai generi. Di più: il lavoro stesso è stato ideologizzato e la sua ideologizzazione in chiave occidentale è stata esportata, assieme alle nuove fogge da esso assunte e alla sua monetarizzazione (per non dire dell’idea complementare stessa di ‘progresso’!), nell’‘altrove’ – cioè dove il lavoro in quella sua ‘idea’ ‘forma’ e ‘monetarizzazione’ di marca occidentale non esisteva punto. La gente, di fatto, ‘altrove’ non lavorava:124 si procacciava di che vivere. Insomma: cacciava, pescava, coltivava, ‘faceva’ ad esclusivi fini di sussistenza – al limite c’era un’unica, consapevole divisione di compiti, ma era di ordine simbolico: le attività ‘distruttive’ erano prerogativa degli uomini, quelle ‘costruttive’ delle donne, datrici di vita per antonomasia. La concezione del lavoro in quanto tale si introduce nel sud del mondo – e nello stesso Occidente fin allora sostanzialmente rurale e con un’economia di tipo ancora ‘feudale’ – quando dall’orto si è 123

Li ha avuti anche sulla valutazione dell’alterità al maschile, ovviamente. 124 Una riprova credo di poterla individuare nell’impiego – direi a livello planetario – dei vocaboli occidentali per ‘lavoro’ (work, travail, ecc.) per tradurre l’‘opera’, il ‘fare’ degli dei, che nei sistemi di pensiero autoctoni non era certamente concettualizzato in termini di prestazione/retribuzione: The work of the Gods in Tikopia, si intitola – ad es. – una vecchia monografia (1939) di R.Firth.

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dovuti passare alla piantagione, dall’artigianato alla fabbrica, dal consumo diretto al salario – quando da un’economia di sussistenza si è passati all’economia di mercato125. Ma torniamo alle nostre ‘faccende’ femminili. Se si fosse trattato semplicemente di una questione di ‘lettura’ di una realtà (quella africana, poniamo) con le categorie di un’altra (quella occidentale), forse il danno non sarebbe stato poi così grande: sarebbe rimasto confinato al colore delle monografie e alla teoria dei manuali antropologici. Il fatto è che, com’è intuibile, la concezione della donna stampata nella mente degli occidentali non si è limitata a influenzare la scrittura delle relazioni che giungevano da lontani lidi, ma ha portato alla creazione di modelli sociali, economici e – per quanto ci attiene – religiosi che hanno indotto a (ri)costruire anche in quei contesti extraoccidentali la condizione sociale della donna quale si configurava in Occidente. L’accusa è grave, e me ne rendo perfettamente conto: sto, tutto sommato, dicendo che in virtù del suo espansionismo l’Occidente è responsabile delle condizioni nelle quali si trovano le donne più o meno in tutto il pianeta! È essenziale perciò ch’io qualifichi immediatamente il mio discorso: non sto addossando tutta la colpa all’Occidente, sto solo dicendo che il modello di donna invalso in Occidente, unito alla potenza economica, politica, militare e religiosa dell’Occidente che si affermava in tutto il mondo, ha finito per soppiantare modelli tradizionali che invece, pur entro coordinate loro proprie, davano assai più spazio alle donne di quanto compreso dagli osservatori. Il risultato è che, in questo scambio, la donna ci ha perso – anche perché l’assunzione 125

Un discorso in certa misura analogo si potrebbe fare anche per le culture dell’antichità passate da livelli ‘etnologici’ a livelli ‘superiori’. In Occidente, tuttavia, come ci ebbe a insegnare K. Marx, si avverò il ‘passaggio’ esemplare: la rivoluzione borghese distrusse la società feudale fondata sulla proprietà della terra e delle persone come fattori di produzione e, trasformando i servi in ‘proletari’, introdusse il mercato del lavoro. Col che si mutò radicalmente anche il significato del danaro: restò mezzo di scambio, ma si fece merce esso stesso.

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diretta o indiretta della visione del mondo occidentale ha finito col parcellizzare l’intera sua sfera d’azione, imponendo una distinzione di ambiti prima sconosciuta: familiare, sociale, politico, religioso... Con ciò intendo dire che anche il ritagliare – per le donne e non solo – uno spazio religioso dal complesso degli spazi socio-culturali in cui si esplica la propria esistenza è, di per sé, un’operazione occidentale. L’etno-antropologia e la storia delle religioni ci hanno tuttavia mostrato che, quale che sia il grado di omologazione imposto o raggiunto, le culture locali mettono sempre in atto – in un modo o nell’altro – strategie di resistenza che impediscono al loro antico sostrato di sparire del tutto e per sempre, risemantizzandolo in nuove creazioni che molto spesso assumono la forma di nuovi movimenti religiosi: di impronta social-religiosa, politico-religiosa, o meramente religiosa, man mano che le categorie concettuali e operative si andavano più distintamente delineando – anche questo, come s’è detto, a seguito della progressiva occidentalizzazione delle culture in questione. In materia, ho preso l’Africa come principale esemplificazione di tali processi perché è l’ambito che ho più frequentato, sulle orme degli studi condotti da Vittorio Lanternari. Ora, nonostante tutto quanto finora discusso, nei casi più sopra esaminati s’è potuto rilevare come la concezione nativa della donna non sia stata definitivamente cancellata dall’Occidente cristiano, ma abbia opposto resistenza all’omogeneizzazione indotta e anche trovato nuove modalità nelle quali esprimersi: quanto più lontano dall’immagine della ‘donna sottomessa e subalterna’ all’uomo delle donne-‘indiate’ dei culti afroamericani, delle profetesse possedute, delle divinatrici per le quali gli dèi non hanno segreti, o delle guaritrici di ‘afflizioni’ all’evenienza alla guida di eserciti di guerriglieri? Cosa più lontano dall’immagine della donna emarginata dalle strutture religiose delle fondatrici di nuovi culti, che hanno saputo raccogliere attorno a sé non solo ‘casalinghe disperate’, ma donne e uomini di ogni estrazione sociale? La mia esemplificazione si è focalizzata sull’Africa perché è su quell’ambiente specifico che, per i motivi appena più sopra considerati, 89

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mi sono più lungamente soffermata, tuttavia un simile ribaltamento di prospettiva è sicuramente praticabile anche in altri, analoghi contesti culturali. Torniamo dunque all’Africa per sottolineare un altro aspetto controverso della questione femminile: abbiamo visto come la possessione non rappresenti in alcun modo un evento di ordine ‘psichiatrico’ che marginalizza la donna, bensì costituisca, tutt’al contrario, l’occasione privilegiata e ‘benedetta’ per farle assumere un ruolo centrale, e altamente rispettato, all’interno del suo gruppo sociale. Di fatto, l’assunzione da parte della donna del ruolo di divinatrice/guaritrice per il tramite della possessione non solo non la qualifica come specialista di ‘secondo rango’ nel novero dei professionisti del sacro, ma la mette su un piano di valenza sociale che non ha nulla da invidiare agli operatori rituali maschili. Anzi: la funzione terapeutica prevalentemente o specificamente svolta dalle donne ‘indiate’ le pone, a tutti gli effetti, in una posizione superiore. Più esattamente: la società ‘indìa’ le donne – o, se si preferisce, la sua cultura ne consente l’indiamento’ – e ‘indiandole’ assegna loro una posizione di supremazia. Un’immediata obiezione che sento opporre a questa mia affermazione richiama in questione la menzionata tesi di I. Lewis sulla marginalità sociale delle donne e degli uomini coinvolti nei fenomeni di tipo possessivo: ma quanto tiene la lettura del fenomeno somalo – o dell’argia sarda cui è stata estesa – in contesti come quello, ad es., della tambara hausa, che s’associa al culto bori – collocato in un assetto africano ugualmente islamizzato – da una posizione già di netta e riconosciuta oltreché socialmente approvata supremazia, o in quei contesti nei quali gli uomini posseduti appartengono a riveriti lignaggi specifici? Quanto regge in contesti come quelli latino-americani odierni, ove i neri, maschi e femmine, non sono più per nulla ideologicamente discriminati, né su base razziale, né su base socio-economica, e dove le donne, per la scelleratezza o l’infantile irresponsabilità dei maschi più che per il loro ‘machismo’, reggono sovente famiglie esemplarmente matrifocali? Quanto giustifica l’emergenza di una donna ‘benestante’ – la nigeriana Mujidat – a capo di una missione islamica, oppure, al contrario, la riluttanza a farsi 90

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izangoma delle donne sudafricane?126 Così, d’altra parte, non ha seguito neppure la semplicistica affermazione secondo cui gli spiriti e le entità sovrumane possiedono le donne perché psicologicamente più ‘fragili’ e che il loro ‘indiamento’, pertanto, sarebbe ulteriore segnale di inadeguatezza, perché se è vero che percentualmente sono più possedute le donne degli uomini, esse ciò nondimeno non sono le sole ad esserlo – e non necessariamente si tratta sempre di solitari ‘mandriani’... Ma c’è sicuramente anche un’altra osservazione che si potrebbe fare, ed è che nei culti terapeutici possessivi la maggior parte dei pazienti sono anch’esse donne: il che sembrerebbe ridimensionare la funzione religiosa delle donne a un ruolo di ‘nicchia’. In realtà, è vero proprio l’opposto: si sottraggono le donne alle cure dei maschi! In altri termini, gli operatori rituali maschili non hanno il monopolio sul benessere ‘spirituale’ e fisico delle donne. Di più: le malate ‘risanate’ vengono socialmente reintegrate e promosse, assumendo esse stesse i medesimi importanti ruoli rituali e terapeutici delle loro guaritrici. Forse è giunto il momento di leggere in questi fatti la documentazione di una finora non-intesa autonomia femminile… Il nodo che vorrei mettere in luce, in conclusione, è proprio questo: in Occidente è stata necessaria una lunga lotta femminista per sottrarre le donne al monopolio maschile; nei contesti etnologici questa ‘emancipazione’ era a suo modo già presente. Solo la cecità ‘culturale’ degli osservatori ne ha impedito l’identificazione: così ne è sortita una copiosa letteratura che, pur sottolineando l’assoluta prevalenza maschile in campo religioso per questo o quel motivo – biologico o culturale che fosse –, quasi ‘inavvertitamente’ esemplifica poi un’infinita varietà di fenomeni e ruoli religiosi tipicamente – e sovente esclusivamente – femminili127. A questo punto si fa pertanto chiaro il singolare, e perverso, circolo vizioso venutosi a creare nell’impatto fra culture tradizionali e Occidente: a 126

Va da sé che la tesi dell’emarginazione/riscatto sociale ha un discutibile impatto in casi quali quelli – ad es. – delle famose machi cilene e tanto più in quelli delle mudang coreane o delle miko giapponesi, per non dire di casi ‘storici’ quali quelli delle pizie delfiche. 127 Per una riprova relativamente all’Africa si veda Zimon (2006).

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una situazione originaria (addirittura!) favorevole alle donne è seguito il suo deterioramento e crollo per l’avvento dei paradigmi occidentali… e ora l’Occidente esporta nei medesimi contesti esotici il femminismo per liberare le donne da una situazione creata da lui stesso! Un perfetto colonialismo culturale… Si comprende allora perché – forse inconsciamente – molti movimenti di liberazione e/o di salvezza, ad es., abbiano cercato i propri strumenti socio-culturali nella preservazione, riviviscenza o riattualizzazione delle tradizioni del passato, anche se spesso opportunamente meticciate con le novità provenienti dal di fuori. Si pensi alle migliaia di culti ‘sincretici’ che hanno tradotto e traducono l’antica possessione spiritica nei carismi dello Spirito trinitario… E prendiamo, poi, gli eventi e i movimenti originati da combattive operatrici rituali africane. Come giudicare il caso di Nehanda Nyakasikana, che da leader spirituale si fece anche leader di una rivolta contro i britannici? E che dire di Dahia, di Donna Beatrice, di Wanankhucha? E delle due Alice, la Lakwena e la Lenshina? Già solo ponendo le domande, ho menzionato parecchie donne, e mi sono limitata per necessità di cose: avrei potuto fare assai più nomi128. Invece, se ci spostiamo in Occidente, quanti nomi di donne ‘religiose’ – tanto impegnate, determinate e radicali da guidare una lotta armata a difesa dei propri ideali – possiamo elencare? Anche sforzandoci, a parte qualche santa particolarmente assertiva, ancorché disarmata – come Caterina Benincasa o Brigida di Svezia o Teresa d’Avila – ci viene alla mente un solo personaggio rispondente ai nostri modelli africani, ed è Giovanna d’Arco. Cioè a dire: il contesto africano ha permesso la nascita di movimenti di lotta – armata o meno – ispirati a principi religiosi e a guida femminile, in maniera enormemente più vasta di quanto sia avvenuto in Occidente 128

A prescindere dal ruolo di operatrici rituali che qui soprattutto ci interessa, si veda in WGWL @ 2009 quante donne leader – regine, rain-queen, regine-madri, reggenti, capi, personaggi politicamente influenti (ad es. come mogli di personalità politiche locali), e via via anche ministri e primi ministri possa vantare l’Africa dall’inizio del 1600 ad oggi. Cfr. anche Mazzola @ 2005, e TSHA @ 2007, in particolare Dashu @ 2007.

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dove, al pari del modello di riferimento della donna tout court, anche il prototipo della eccezionalità e santità femminile è rimasto a lungo e tende a restare quello della docile e umile, dolcissima Maria del “fiat”. Ciò che voglio significare, insomma, è che, ragionando di questi contesti etnologici, non ci troviamo di fronte a una semplice ‘femminilizzazione’ del religioso: le donne, in Africa, non utilizzano la religione per ritagliarsi uno spazio proprio all’interno di una società ‘maschilista’. È esattamente l’opposto: è la società stessa che dà loro gli spazi per potersi esprimere, senza che la religione diventi uno strumento di ‘riscatto’ o di ‘rivalsa’ socio-politica. Le figure femminili da noi analizzate non ricorrono al religioso perché è l’unica valvola di sfogo consentita alle donne dal contesto socio-politico locale – ciò che valeva (e vale?), ad es., per le ‘donne di chiesa’ delle culture cattoliche dell’Europa meridionale –, ma se ne avvalgono perché è uno spazio al quale esse possono liberamente accedere, ‘indiate’ o meno che siano, senza indignare o sconcertare alcuno – come potrebbe avvenire là dove la gestione femminile del religioso è categoricamente impedita. Come spiegarsi altrimenti il fatto che una donna poteva guidare un’armata di uomini? Per lungo tempo l’impressionistica equazione Africa = cultura della fertilità ha ridotto la donna africana a mero emblema della maternità – tanto confacente a quella lettura sentimentale e compassionevole (e ipocrita) che è la faccia ‘buona’ dell’occupazione territoriale e della conquista culturale –, quando in realtà era solo un aspetto di un quadro molto più complesso. Di fatto, se è vero che le differenti rappresentazioni delle donne sono in stretto rapporto con le differenti culture e situazioni storiche – e di potere, come insegna Foucault –, è anche vero che lo stereotipo della fertilità non ci deve indurre a costringere la donna africana nel ruolo di semplice – e disperante – ‘housewife’. È molto di più, come mostrato dalle numerose esemplificazioni offerte. Insomma: se la religione può essere considerata un ‘evidenziatore’ del ruolo socio-culturale della donna, il fatto che nei contesti religiosi africani la donna abbia spesso assunto un ruolo centrale – come esemplarmente testimoniano tanto le assertive e a volte combattive/combattenti leader 93

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religiose quanto le non meno energiche ‘normali’ operatrici rituali e le ‘folli’ portavoci degli spiriti – non può essere relegato a semplice o marginale fenomeno di costume, ma va inteso come una vera e propria espressione di ciò che la donna africana è, aldilà di tutte le costruzioni e interpretazioni occidentali. Che sia il sacro, il religioso, a consentire alle donne l’espressione della propria personalità, volontà e operatività, rappresenta un bel contrappasso all’etimo – religare – del latino ‘religio’: con un collaudato capovolgimento di significato, possiamo davvero concludere – rifacendo il verso a Raffaele Pettazzoni129 – che la religione non lega, ma libera: quanto meno le donne. In Africa.

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Pettazzoni 1929-36.

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Bibliografia

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DA MADRE TERRA A GAIA Donne, religione ed ecologia

In un noto passaggio del De bello Gallico (VI: 16) Giulio Cesare racconta: Tutto il popolo gallico è molto osservante per quanto riguarda le pratiche religiose, e quindi, chi è affetto da malattie di una certa gravità, si trova in battaglia o esposto ad altri pericoli, immola, o fa voto di immolare, vittime umane, e ricorre ai druidi per amministrare questi sacrifici, perché ritengono di non poter placare la potenza degli dèi immortali se non offrono vita per vita, e si istituiscono anche sacrifici pubblici di questo tipo. Alcune popolazioni hanno immagini di enormi proporzioni, fatte di vimini intrecciati, al cui interno rinchiudono uomini ancora vivi, poi vi appiccano il fuoco e li fanno morire tra le fiamme. Credono che il supplizio di chi sia stato sorpreso a commettere furti, ladrocini o altri delitti sia più gradito agli dèi immortali, ma quando mancano vittime di questo tipo, arrivano anche a sacrificare degli innocenti.

Ritroviamo il supplizio descrittoci dal conquistatore romano in un poco conosciuto horror britannico, uscito nelle sale cinematografiche nel 1973: The Wicker Man (letteralmente: “L’uomo di vimini”). Il protagonista del film è un devoto poliziotto che, per indagare sulla scomparsa di Rowan, una bambina dodicenne, si reca su un’isola al largo delle coste scozzesi: Summerisle. Già dal suo arrivo nella locanda Green Man il poliziotto si rende conto di trovarsi in un’isola i cui abitanti hanno usanze bizzarre: individui che fanno liberamente sesso all’aperto e ragazze nude che danzano attorno a un fuoco sono solamente alcuni degli eventi che 101

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scandalizzano il pio cristiano. Sarà la persona più importante dell’isola, Lord Summerisle – interpretato da Cristopher Lee –, a spiegargli che a Summerisle sono tutti pagani praticanti: venerano il sole, praticano riti di fertilità e magia sessuale, credono nella reincarnazione e nelle benefiche forze della natura. Il poliziotto, sconvolto, li accusa di aver ucciso la piccola Rowan in un rituale pagano e vuole lasciare l’isola per denunciarne tutti gli abitanti. Non vi riesce, perché l’unico mezzo che avrebbe potuto portarlo via, un aeroplano, è stato sabotato. Decide allora di continuare le sue investigazioni, anche perché si convince che Rowan è ancora viva e che dovrà essere presto sacrificata in un rito pagano. Poco dopo, infatti, trova la bambina e cerca di fuggire con lei: invano, perché Rowan in realtà era un’esca (consapevole) per attrarlo sull’isola e sacrificarlo agli antichi dèi. Di fatto la bambina lo porta dritto nelle mani di Lord Summerisle che, insieme agli abitanti dell’isola, conduce e imprigiona il poliziotto all’interno di un gigantesco fantoccio di vimini, al quale viene dato fuoco: la credenza della comunità è infatti che gli dèi pagani avrebbero gradito il sacrificio di un cristiano bigotto, concedendo fertilità al prossimo raccolto. Il poliziotto muore fra le fiamme recitando il salmo 23, mentre gli abitanti dell’isola, attorno al Wicker Man, cantano una canzone popolare. Trent’anni dopo, nel 2006, Hollywood rilascia nelle sale cinematografiche un remake del film (tradotto in italiano col titolo: Il prescelto), con protagonista Nicholas Cage. Vengono mantenute le linee generali della trama: il poliziotto che si reca su un’isola misteriosa alla ricerca di una bambina scomparsa, la presenza di una comunità neopagana, il sacrificio finale tra le fiamme del fantoccio di vimini. Cambiano i luoghi – il poliziotto è californiano, e l’isola si trova al largo delle coste dello stato di Washington – la bambina scomparsa è ora la figlia del poliziotto (frutto di una passata relazione con una donna, adesso sull’isola), ma soprattutto cambiano le caratteristiche della comunità: se nella versione originaria la comunità neopagana era guidata da un uomo, ora il tutto viene tradotto al femminile. L’isola è infatti sotto il controllo delle donne, che trattano gli uomini come cittadini di secondo ordine 102

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(se non schiavi); fra loro si chiamano ‘sorelle’ e sono guidate da Sorella Summersisle. Questa è venerata come fosse una divinità dagli abitanti dell’isola, dediti a un culto di Madre Terra dalle tinte fortemente ecologiste, inteso a garantire la fertilità naturale. Senza mezzi termini, Sorella Summersisle spiega al poliziotto che le feste sacrificali dell’isola sono fatte “in onore della grande dea madre che governa quest’isola, di cui io sono la personificazione terrena”; e conclude: “io rappresento il fulcro spirituale di questa colonia”. Narrando la storia di tale colonia, spiega: “le mie antenate celte già ai loro tempi si ribellarono alla repressione del femminino”; per sfuggirvi – continua – sul finire del XVII secolo scapparono dall’Europa e giunsero nel Nuovo Mondo; prima a Salem e poi, dopo le accuse di stregoneria a loro rivolte, più a ovest, fino appunto a dare origine a questa comunità. Venerare questa grande dea madre, e offrirle sacrifici, è l’unico modo per garantire la fertilità – in particolare la produzione di miele, fondamentale per l’economia dell’isola. Proprio per rimediare allo scarso raccolto di miele dell’anno precedente è necessario fare un sacrificio agli antichi dèi, alla terra madre: un uomo deve essere sacrificato, il poliziotto, e sarà proprio una donna, sua figlia, a dare fuoco al fantoccio di vimini in cui è stato imprigionato. Senza arrivare agli estremi della finzione cinematografica, sono realmente esistite ed esistono comunità ispirate a principi neopagani; in particolare, comunità neopagane caratterizzate dal giustificare il proprio interesse per la dimensione femminile dello spirituale con un discorso di matrice naturale ed ecologista. Il mutamento delle caratteristiche della comunità neopagana nelle due versioni di The Wicker Man testimonia un cambiamento di sensibilità, che ha portato a sostituire da un lato Lord Summerisle con Sorella Summersisle1 e dall’altro una comunità mista genericamente devota a divinità pagane con una comunità femminile devota alla dea terra. Ciò è dovuto al fatto che nel periodo intercorso fra

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Non si tratta di errori di battitura: vi è effettivamente un “s” in più nel secondo film (Lord Summerisle; Sorella Summersisle).

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gli anni Settanta – prima versione del film – ed oggi – seconda versione del film – è sorta e si è sviluppata una nuova ideologia spirituale, ecologica e femminista, alla quale non è sfuggita nemmeno Hollywood. Vi è tuttavia un qualcosa di più profondo che un semplice cambiamento di moda: l’esaltazione del femminile in contrapposizione al maschile, del paganesimo in contrapposizione al cristianesimo, del naturale in contrapposizione all’artificiale, dell’immanenza in contrapposizione alla trascendenza; non si tratta solo di generici ed estemporanei recuperi di esotiche divinità pagane, ma di prospettive più ampie nelle quali entrano in gioco complessi fattori socio-politici – una nuova sensibilità che ha permesso di declinare in senso spirituale alcune richieste delle donne, che prima erano espresse unicamente in termini politici. Di fatto, anche se la connessione fra donne, natura e religione può essere affrontata a una molteplicità di livelli, in questo saggio noi cercheremo di mostrare come realtà apparentemente folkloristiche e marginali, come lo sono alcuni nuovi movimenti religiosi che assumono Madre Terra (e/o Gaia) come centro delle proprie creazioni simboliche, in realtà rappresentano qualcosa di più profondo che non un semplice recupero di elementi esotici o arcaici: mascherate sotto mitologie e rituali si celano in realtà esigenze politiche che, per una ragione o per l’altra, non riescono a trovare nei più consueti canali istituzionali una rappresentanza e dunque cercano vie alternative per manifestarsi. La religione diviene il sostituto della politica; cioè a dire: laddove una società non permette che una certa idea, una certa istanza, una certa richiesta venga manifestata con un normale discorso politico, essa può trovare il modo di venire espressa, ed essere socialmente accettabile, travestendosi da religione. La conseguenza è che quelle che di primo acchito paiono richieste spirituali in realtà sono rivendicazioni prettamente politiche, e come tali – al di là della loro concreta efficacia – devono essere valutate. Inizieremo prendendo come esemplificativo il caso di una piccola comunità ‘neo-pagana’ costituitasi negli anni Settanta del XX secolo nell’isola di Trinidad, e centrata sul messaggio di una donna autoproclamatasi ‘Madre Terra’; vedremo poi come questo, che in apparenza 104

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sembra un bizzarro movimento di nudisti new age, in realtà si inserisca a modo suo in una corrente ben più vasta di riflessione spirituale in cui il femminile diviene la chiave di lettura sia del religioso che della natura, dando origine a una strategia politica che si pone come ideologia alternativa a quella rappresentata dal predominio androcentrico patriarcale – sfruttando a tal fine anche la recente sensibilità new age tramite la sostituzione della categoria Madre Terra con quella di Gaia.

Mother Earth e gli Earth People: resistenza e riappropriazione La piccola comunità di Earth People si trova nella Hell Valley, come pittorescamente è chiamata una zona remota della costa settentrionale dell’isola di Trinidad, nei Caraibi2. Il gruppo si costituisce attorno al messaggio di una donna di colore, Jeanette Baptiste (1934-1984), nel quale viene enfatizzato il valore assoluto della natura: l’idea di fondo è che Madre Terra si è manifestata in Jeanette, e che solo la comunità da lei organizzata potrà sopravvivere all’imminente apocalisse che riporterà il mondo alla condizione originaria, lo status quo ante di un mondo privo di scienza, tecnologia e altri inganni attribuiti – come vedremo – a Dio. Esaltando la propria identità di matrice africana, il movimento iniziato da Jeanette pone l’enfasi sulla separazione fra bianchi e neri, e interpreta questa separazione come la conseguenza – lo vedremo a breve – dell’originale insubordinazione di Dio (maschio) nei confronti della Natura (femmina). A ciò si può rimediare solo restaurando l’originaria relazione fra Madre=Natura e i suoi veri figli (i neri), in particolare restituendo il potere alle donne, più vicine alla verità della Natura. In questo modo gli Earth People, radunandosi attorno a Jeannette, riproducono nella loro comunità la condizione archetipale del mondo. 2

Per l’analisi di Mother Earth e del movimento degli Earth People ci rifacciamo in larga misura alle pubblicazioni di R. Littlewood (cfr. Littlewood 1993; 1998; 2002), a tutt’oggi l’unico ad essersi occupato con una certa profondità sull’argomento – anche se da un punto di vista psicologico/psichiatrico.

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L’infanzia di Jeannette è caratterizzata dalla povertà dei bassifondi di Port-au-Spain: lì cresce con la madre, che lavora come ‘serva’ presso una famiglia di ricchi bianchi. Dalla madre Jeanette apprende i primi rudimenti religiosi, sotto forma di alcuni messaggi sincretici tipici della zona caraibica come lo Shango o la sua versione più accomodante col cristianesimo, lo Shouter Baptist. Ben presto Jeanette, influenzata anche dalla controcultura hippie – “erano vagamente consapevoli di quella riscoperta e breve fioritura della spinta radicale negli anni Sessanta, con i suoi hippies, i Figli dei Fiori, le Madri Terra e, non così lontani, i movimenti ecologisti e femministi”3 – e dalle rivendicazioni politiche dei neri – che trovavano espressione soprattutto nel movimento del Black Power4 – comincia a disprezzare il contesto urbano di Port-au-Spain, che vede procedere inesorabilmente verso un modello di vita consumistico ‘americano’, imposto alle giovani generazioni tramite il sistema scolastico di Trinidad, e dominato dalla scienza e dalla tecnologia. Ragazza-madre, Jeanette impara fin da adolescente a non farsi illusioni: non sono solamente i bianchi a rendere difficile la vita alle donne nere, ma anche gli stessi uomini di colore. Alla fine, però, decide di convivere con uno di questi, di nome Cipriano. Fu proprio questi a convincerla ad abbandonare la città dopo il fallimento delle lotte di Black Power, nelle quali era coinvolto: era il 1973, e la famiglia si trasferisce con sei dei dodici figli di Jeanette sul tratto di costa ove in seguito sarebbe sorta la comunità. All’inizio la famiglia di Cipriano e Jeannette non è diversa da tante altre di Trinidad che, per necessità o per scelta, vivono in zone rurali isolate. Tutto cambia nel 1975, con quell’evento fondante conosciuto 3

Littlewood 1993: 129. 4 Il movimento Black Power fu la risposta politica alle trasformazioni sociali che interessarono il Trinidad negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. Fu portato avanti soprattutto da studenti e intellettuali che avevano come punto di riferimento analoghi movimenti negli USA, senza però riscuotere molto successo nella comunità afroamericana. L’eredità di questi sentimenti di riscatto dei neri venne raccolta soprattutto dal Rastafari.

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come The Miracle: Jeannette porta il sole più vicino alla Terra. Immediatamente prima del ‘fatto’, la donna aveva messo un dito in bocca alla figlia di quattro anni e le aveva rotto una mano, e motiva queste sue azioni affermando che la figlia era stata posseduta da uno spirito (che più tardi identificò con Dio) che doveva essere scacciato. Racconta Jeanette: Be’, dopo averle rotto la mano, avvicino il sole alla terra. Stavo giusto parlando. E mentre parlavo, congiunsi le mani e lo portai giù fra le mie gambe5.

Da quel momento si susseguono una serie di visioni, che permettono alla donna di elaborare un originale messaggio religioso: l’insegnamento cristiano concernente Dio Padre e Creatore non solo è sbagliato, ma anche fuorviante. È sbagliato perché Dio non è l’assoluta realtà originaria di cui parlano teologi e catechismi, ma un prodotto secondario: è il Figlio della Natura, che Jeanette qualifica come Madre. Ed è fuorviante perché Jeanette, riprendendo la mitologia relativa all’essere sovrumano (femminile) Yemanja, afferma che questo Figlio=Dio non è l’entità positiva di cui parlano tutte le religioni, il cristianesimo in particolare, ma uno stupratore incestuoso: dallo stupro del Figlio=Dio nei confronti della Madre=Natura nacquero gli uomini di razza nera – africani e indiani – che con il loro stile di vita ecologico rimasero a lungo fedeli alla Madre=Natura; ben presto però vennero sottomessi dagli uomini di razza bianca, fedeli al Figlio=Dio, con il loro stile di vita legato alla scienza e alla tecnologia6. In realtà il vero conflitto, più che fra bianchi

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Parole di Jeanette, riportate da Littlewood 1993: 74. 6 L’idea di un rapporto incestuoso fra due esseri sovrumani qualificati come figlio e madre non è una trovata originale di Jeanette, ma riprende un tema tipico di alcune credenze africane, rielaborato da numerosi movimenti afro-americani. Di fatto, sulla sua nativa isola di Trinidad, Jeanette poteva disporre di diverse narrazioni africane mediate dalle tradizioni afro-caraibiche in cui la divinità femminile viene resa feconda per incesto: lo schema classico, la cui origine è da individuarsi negli Yoruba dell’Africa occidentale, è che la divinità ha prima un rapporto sessuale col fratello, e quindi col figlio nato dal rapporto col fratello. Presso gli Yoruba tale divinità femminile si chiama

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e neri, viene individuato da Jeanette proprio fra la donna, equiparata alla natura, e l’uomo, equiparato alla scienza: solo la donna=natura può generare vita, mentre ciò che l’uomo può fare è unicamente cercare di sostituirsi ad essa tramite la scienza. Ne consegue che la supremazia dei bianchi sui neri non è altro che il corollario della supremazia degli uomini (di ogni colore!) nei confronti delle donne, e ciò si trasforma appunto nel dominio della tecnologia e della scienza sulla natura. Il messaggio di Jeanette, che guida e regola la vita degli Earth People, è certamente più complesso e in molte sue elaborazioni ricorda da vicino le costruzioni barocche di un certo gnosticismo. Scopo della nostra ricerca non è tanto addentrarci nelle sottigliezze del suo insegnamento, quanto mettere in luce la netta opposizione che vi si viene a creare fra Dio e Natura. Le conseguenze sono due: da un lato che il cristianesimo e il messaggio di Jeannette finiscono per divenire antagonisti irriducibili; dall’altro che l’enfasi non solo teologica ma anche etica posta sul tema razziale (neri = buoni; bianchi = cattivi) esclude la possibilità di qualsiasi discorso religioso universalistico: i neri stanno con la Madre, rappresentano la natura, e dunque la verità; i bianchi stanno con Dio, rappresentano la scienza e la tecnologia, e dunque la falsità – e il colore della pelle non è qualcosa che si possa cambiare con una conversione: la salvezza, questa la conclusione, sta unicamente nella negritudine. È l’esaltazione dell’originaria identità africana: “l’Africa è l’inizio della Terra”7, Emanja: essa ha un rapporto col fratello Aganju (la divinità della terra) generando il figlio Orungan, il quale a sua volta ha un rapporto con la madre. In Trinidad Emanja diventa Yemanja. È in particolare il movimento religioso dello Shango a farne oggetto di attenzioni: dal rapporto incestuoso in questo caso nascono elementi sovrumani, identificati con le forze naturali, che vengono mascherati sotto le spoglie di santi cattolici (la stessa Yemanja è assimilata a santa Caterina o a sant’Anna, la madre della vergine Maria): Shango, che è il potere della tempesta e dei tuoni (assimilato a Giovanni il Battista); Ogun, per la guerra e il ferro (assimilato all’arcangelo Michele); Shopono, legato al vaiolo e alla terra (assimilato tra gli altri a san Francesco). Ritroviamo Yemanja nel culto brasiliano del Candomblé e in quello cubano della Santeria. 7 Parole di Jeannette Baptiste, riportate da Littlewood 1993: 84. La superiorità

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dice espressamente Jeannette. Tramite queste contrapposizioni Jeanette sottolinea in maniera incisiva la peculiarità del proprio insegnamento, e dunque dello stile di vita che deve assumere la comunità radunata attorno a lei: se il cristianesimo punta sulla trascendenza, gli Earth People devono puntare sull’immanenza; se il cristianesimo è la fuga dalla materia verso un regno spirituale, gli Earth People devono esaltare la fisicità della natura e vivere in armonia con essa; se la via del Figlio, e dunque dei bianchi, è quella della scienza con le sue città, vestiti e produzioni industriali, la via della Madre, e dunque dei neri, è quella della natura: ambiente rurale, nudità, lavoro nei campi. Le contrapposizioni elaborate da Jeanette non riguardano solo il passato mitico (l’origine incestuosa della realtà) o il presente (in cui si esalta il ritorno alla natura), ma anche il futuro, tramite un discorso di stampo apocalittico: la via della scienza progredirà al punto che il Figlio=Dio, dopo aver conquistato a sé anche i neri – come testimoniato dalle continue conversioni degli afroamericani alle varie denominazioni cristiane –, cercherà di rimpiazzare tutta l’umanità (dunque anche i bianchi!) con computer e robot, sconfiggendo in maniera definitiva la natura. Di fatto, qualsiasi interferenza con quello che viene percepito come l’ordine naturale delle cose viene interpretata come parte di una più grande Interferenza, che è il piano orchestrato dal Figlio=Dio per sgominare gli umani e sostituirli con le macchine: di qui il rifiuto da parte di Jeanette di realtà considerate non-naturali come l’inseminazione artificiale e la contraccezione, ma anche del sistema scolastico o delle medicine artificiali. Cedere a una sola di queste interferenze significa contribuire al trionfo del Figlio=Dio. L’ultima parola non sarà tuttavia dell’empio e incestuoso Figlio=Dio: è da tempo ormai che la sua della razza africana non è forse provata – afferma Mother Earth – dal fatto che la terra è nera? In ogni caso la radicalità della scelta non esclude la possibilità del compromesso: si accetta sia il fatto che la terra debba essere lavorata, sia che questo avvenga con gli strumenti creati dal Figlio=Dio e dalla sua razza, i bianchi. Quali siano tuttavia i limiti di tale compromesso è oggetto di vivaci discussioni: è lecito ad esempio accettare un passaggio su un camion per andare in città, o bisogna camminare fino alla meta?

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sfrontatezza ha fatto perdere pazienza alla Madre=Natura, e di ciò sono testimonianza le calamità naturali che colpiscono il pianeta e Trinidad in particolare: siccità, carestie e l’immancabile riscaldamento globale. Questi disastri sono solo anticipazioni dell’apocalisse vera e propria: una guerra nucleare che riporterà l’intero pianeta allo stato in cui si trovava la natura prima che le manipolazioni scientifiche e tecnologiche dei bianchi la rovinassero. L’apocalisse si concluderà con la vittoria della Madre sul Figlio, che verrà mandato in esilio sul sole, e il ‘ritorno’ dell’umanità all’originario stato ermafrodita, una condizione androgina nella quale non si è né maschio né femmina. Gli Earth People, proprio grazie agli insegnamenti di Jeanette, già vivono immersi nella natura senza bisogno né di scienza né di tecnologia, e questa testimonianza di vita li qualifica come l’avanguardia e il faro di salvezza per tutta l’umanità. La forza per potere vivere questo ideale così radicale di rifiuto del mondo moderno nasce dal fatto che Madre=Natura non è considerata dagli Earth People una categoria ecologista astratta (per giustificare una battaglia ambientalista e difendere la natura dall’invasione tecnologica) o una divinità lontana (da venerare come in un culto neopagano), ma una realtà con un corpo umano: Jeanette Baptiste se ne è infatti proclamata una manifestazione parziale già a partire dal Miracle, quando cantò un inno a Yemanja identificandosi con quell’essere sovrumano “che nutre ma è implacabile, femmina ma androgina, protettrice del parto e oppositrice dell’eroe culturale maschile che, incestuosamente, la penetra per guadagnare il potere di generare”8. Da allora Jeannette iniziò a farsi chiamare Mother Earth, affermando che se adesso la sua manifestazione del potere femminile è parziale, diverrà però completa alla fine dei tempi. In quel momento, nelle parole di Jeannette, Parlerò ogni lingua. Darò una lingua ai tamburi d’Africa e d’India. Quindi guarirò il malato, lo zoppo e il cieco, risusciterò il morto, purificherò il lebbroso, farò parlare il muto, udire il sordo, vedere il cieco. Avrò tutti i poteri. Così cerco 8

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Littlewood 1993: 226.

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di mostrare alla mia gente come sarà quando arriverà l’ora dell’Inizio. Parlo a tutte le nazioni. Non solamente all’Africa e all’India. A tutti. Perché ognuno è parte di Me. Io sono la Terra. L’Inizio. L’Alfa e l’Omega (come si dice nel libro). L’Inizio e la Fine. Geova (Jah). Allah9.

Per spiegare ai suoi seguaci le meccaniche di questa identificazione col supremo potere femminile, Jeannette usa il modello dell’incarnazione di Cristo precisando che lei, invece di essere l’incarnazione di Dio, è l’incarnazione della Natura. Chiarisce R. Littlewood: Ella rappresenta nel suo corpo una Causa Prima, virtualmente eterna e preesistente. Il Dio cristiano le è subordinato nel ruolo di suo Figlio, e altre divinità monoteistiche sono interpretate come espressioni parziali o della Madre o del Figlio. Eppure lo Spirito della Madre è immanente in ogni cosa, in cui si scontra con lo Spirito di suo Figlio. La madre incarna letteralmente la Natura, consustanziale all’intera creazione, con il fondamento di essere, più che una divinità una concentrazione spinoziana. Il suo linguaggio biblico tracima di panteismo e perfino ilozoismo; il Figlio, è vero, sarà esiliato sul suo pianeta [i.e.: il sole], e così forse rimarrà un principio distinto, ma il resto della Natura ritornerà, in senso reale, a Lei, per essere riconciliato nella sua forma originale10.

Se Jeanette si è assunta il compito di ripristinare il valore della natura non solo tramite la fondazione di una comunità devota a ‘Madre Terra’, ma anche e soprattutto contrastando le false religioni che insegnano la superiorità del Figlio rispetto alla Madre – in poche parole: combattendo gli insegnamenti distorti della bibbia sul dio cristiano – e giungendo addirittura a proclamarsi la manifestazione di un potere femminile divino, si comprendono la ripulsa e i sospetti di molti abitanti di Trinidad, tradizionalmente legati al cristianesimo o a forme religiose come lo

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Parole di Jeannette Baptiste, riportate da Littlewood 1993: 85. Jah (Geova) è la 72° reincarnazione di Dio nella persona dell’imperatore etiopico Haile Selassie. Il termine Jah era utilizzato da Mother Earth quando doveva spiegare le sue idee ai Rasta. 10 Littlewood 1993: 126.

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Shango e il Rastafari. Qualche esempio: per alcuni Jeanette non è altro che una lajabless, un demone femminile la cui credenza è diffusa nei Caraibi; secondo altri la comunità di Hell Valley è semplicemente un paravento per comportamenti illeciti a base di orge e consumo di ganja e altre droghe; secondo altri ancora l’enfasi posta sull’opposizione neri/ bianchi prova che gli Earth People nascondono intenti rivoluzionari, come quelli del movimento Black Power. Più che la teologia degli Earth People o alcune ‘deviazioni’ nel loro comportamento11 il grande scandalo legato alla comunità fondata da Jeanette sta nella nudità dei suoi membri; una nudità ancora più provocante se si pensa che nei primi anni del movimento gli Earth People non indossavano vestiti nemmeno per recarsi in città, compresa la capitale Port-au-Spain. Fu proprio nel corso di queste ‘visite’ alla capitale che Jeanette venne arrestata un paio di volte, e i bambini sottratti alle loro famiglie e messi in orfanatrofi. Jeanette, invariabilmente, veniva internata in un ospedale psichiatrico, il St. Ann, alla periferia di Port-au-Spain. La prima volta fu nel 1977: Jeanette venne arrestata durante una delle periodiche marce della comunità verso la capitale, mentre circolava nuda insieme agli altri membri del suo gruppo; sottoposta a visite psichiatriche, le venne diagnosticato uno stato paranoide – in un secondo tempo i dottori parlarono di schizofrenia – da curarsi con medicine. La seconda volta fu nel 1980, e in questo caso il suo internamento fu giustificato dal comportamento ‘disordinato’ tenuto pubblicamente da Jeanette. In quell’occasione la diagnosi registra su un documento ufficiale l’affermazione di Jeanette secondo cui “lei

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Gli abitanti di Trinidad erano abituati a comportamenti ‘inconsueti’, in particolare grazie alla numerosa presenza sull’isola di rastafariani: non è casuale che per molto tempo la comunità di Jeanette fosse stata considerata un gruppo rastafari: dopotutto si acconciavano i capelli con lo stesso stile! Rileviamo che quando iniziarono le visioni di Jeanette non vi era alcun contatto con il movimento rasta: solo successivamente giunsero da Port-au-Spain alcuni rasta, che trasmisero al gruppo di Jeanette un certo linguaggio, il fumare ganja (mariuana) e, appunto, la caratteristica acconciatura dei capelli.

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era Madre Terra e che il sole stava avvicinandosi alla terra, e che ci sarebbe stato un incendio”12. Anche in questo caso le venne diagnosticata una forma di schizofrenia. Se la prima volta, nel 1977, la donna venne rilasciata dall’ospedale psichiatrico dalle competenti autorità, nel 1980 venne invece ‘liberata’ con un’irruzione pacifica del suo gruppo: l’evento scatenante l’azione di ‘liberazione’ fu che lo staff medico aveva deciso di tagliarle i lunghi capelli tenuti in stile rasta; ciò provocò la rabbia e la furia del suo compagno Cipriano che chiamò a raccolta gli Earth People, e insieme andarono a prelevare Jeanette dall’ospedale: l’evento è stato celebrato come rappresentativo della vittoria della Natura (gli Earth People e Mother Earth) contro la Scienza (l’ospedale). Il sospetto che Jeanette fosse pazza non rimase tuttavia confinato ai soli medici del St. Ann: all’epoca del Miracle, alcuni mesi dopo il parto di due gemelli, la quarantunenne Jeanette prese la bibbia e vi diede fuoco, e insieme alla bibbia bruciò e distrusse anche i suoi occhiali, gli attrezzi domestici e i vestiti; coloro che le erano vicini sospettarono che (l’ennesima) gravidanza l’avesse resa pazza a tutti gli effetti. La tesi è ripresa da R. Littlewood, che collega l’evento a una malattia della tiroide di cui soffriva Jeannette: “la tireotossicosi, in associazione con il parto, conduce a un episodio di ipomania caratterizzato da un senso di potere personale e di significato speciale, da una esuberanza giocosa, e all’incendio dei suoi vestiti e delle sue cose, alimentato dall’esasperazione nei riguardi della società e dei suoi lavori domestici”13. Non vogliamo comunque soffermarci su queste tematiche psichiatriche – anche se non possiamo fare a meno di notare che l’unico ad avere realmente studiato Mother Earth e gli Earth People sia stato proprio uno psichiatra! -; e nemmeno vogliamo soffermarci sulle 12

Littlewood 1993: 61. 13 Littlewood 1993: 226. Il fatto che Jeanette avesse bruciato e distrutto tutto aveva reso nullatenente – in senso letterale – la famiglia, tanto che la nudità, prima ancora di essere una scelta ideologica, fu una scelta pratica. Fu proprio la nudità e più in generale l’esaltazione di una vita naturale ad attirare soprattutto i rasta, disillusi dall’incapacità del rastafarianesimo di vivere una vita più vicina alla natura.

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altre vicende giudiziarie del movimento – come l’occupazione abusiva del terreno sul quale sorse la loro comunità. Continuiamo a focalizzare la nostra attenzione sugli aspetti propriamente religiosi del movimento: se tralasciamo la diagnosi medica appena citata, ad esempio, possiamo osservare che è proprio nel momento in cui la bibbia viene bruciata che Jeannette ottiene la rivelazione definitiva con cui scopre di essere la Natura stessa, decidendo di conseguenza di cambiare il proprio nome da Jeanette a Mother Earth: “adesso Jeanette comprende che lei è la Natura stessa, la Madre di Tutto, il processo stesso della creazione …”14. Con la rivelazione giunge la comprensione della verità: sia il dominio dei bianchi sia il monoteismo cristiano sono da considerarsi una falsità, e l’unica via di ‘guarigione’ è il rifiuto sia di quanto viene insegnato dai libri (per questo i bambini di Earth People non vanno a scuola, giustificando così agli occhi dei loro detrattori il fatto che le autorità li sottraggano alle loro famiglie) sia dell’artificiale morale piccolo-borghese, in favore di un apprendimento e di un comportamento più spontanei: da ciò consegue non solo la nudità ma anche la frequente pratica di parlare per opposti, per cui ad esempio il diavolo diventa una figura positiva, la destra la sinistra, oppure diventa lecito utilizzare un linguaggio osceno; anzi, invertire la moralità comune, con adulterio o incesto, è visto come un preannuncio degli ultimi giorni e l’anticipazione di una nuova modalità nelle relazioni umane, in modo tale da indicare – appunto tramite questa inversione radicale – la propria alterità rispetto all’ordine esistente, giudicato vecchio e sorpassato. Se è vero che un messaggio così peculiare è stato capace di attrarre alcuni individui, in particolare coloro che si sentivano rifiutati dalla società ‘per bene’, non bisogna tuttavia esagerare la portata del movimento: la comunità degli Earth People ebbe sempre dimensioni limitate – nel 1981, al tempo dell’indagine sul campo di R. Littlewood, i membri erano ventuno, e tutti di colore; tra l’altro, coloro che non erano 14

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Littlewood 1993: 76.

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membri dell’immediata famiglia di Jeannette era ‘transfughi’ rasta -, con un continuo aggregarsi e soprattutto allontanarsi dal gruppo. Di fatto, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da ideali così idilliaci come quelli teorizzati da Mother Earth, la vita nella comunità non è mai stata esente da tensioni (nemmeno fra Jeannette e Cipriano), come pure difficili sono stati a volte i rapporti con i villaggi vicini. R. Littlewood, proprio alla luce delle difficoltà pratiche del movimento, aveva ipotizzato due possibili vie per il futuro degli Earth People: la prima, quella che considerava la più probabile, era un ridimensionamento della comunità ai soli membri della famiglia biologica di Jeannette; la seconda, più che altro un auspicio, era un suo allargamento a persone di classe media interessate a tematiche ecologiche e femministe: “una possibilità intrigante, ma improbabile, è che altri gruppi di classe media, orientati verso le più ampie correnti internazionali di ecologismo, pacifismo e femminismo, possano stringere un qualche rapporto con gli Earth People o elaborarne ulteriormente le idee”15. A tutt’oggi non sembra che questo sia avvenuto – anzi, quasi l’opposto, come vedremo a breve –, e possiamo darne almeno due motivazioni: una, già accennata, è l’esclusivismo di un messaggio che punta in maniera radicale sulla razza nera rendendo dunque difficile conquistare, ad esempio, le simpatie di new ager ed ecoanarchici europei o americani, in maggioranza di razza bianca; l’altra è che fra gli Earth People, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da una comunità che pone una così grande enfasi sul rapporto religioso fra femminile e natura, solo un membro oltre Jeannette era una donna: il movimento, in altri termini, non sembra emanare sufficiente fascino per attrarre donne provenienti da ceti sociali medio-bassi, e tantomeno donne di ambienti femministi ed ecologisti borghesi (negli scritti delle ecofemministe, di fatto, non si trova alcuna menzione di Mother Earth e degli Earth People). Al di là degli aspetti sociologici del movimento, tuttavia, ciò che a noi premeva sottolineare con la descrizione del rovesciamento del 15

Littlewood 1993: 215.

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‘normale’ mondo dei bianchi (caratterizzato dal dominio del maschio, della tecnologia e del cristianesimo) era proprio il fatto che in tal modo diventano centrali tutti quei temi da noi più volte presentati: la preferenza per lo status quo ante rispetto al futuro, il rifiuto del mondo industriale, l’esaltazione del femminile, dei neri come popolo eletto e dei bianchi come coloro che si appropriarono del messaggio divino distorcendolo, e pertanto una riduzione del cristianesimo a ‘giustificazione ideologica’ dei colonialisti occidentali. Ripristinare il passato perso comporta di conseguenza il rigetto totale di ciò che si crede abbia distrutto quel passato, ossia l’Occidente cristiano: per cui se l’Occidente cristiano insegna a vestirsi, occorre rigettare i vestiti; se l’Occidente cristiano impone nomi stranieri, occorre rigettarli per ritornare a quelli nativi; se l’Occidente cristiano si basa su un’economia di mercato, occorre rigettarla e con quella tutti i prodotti dell’Occidente; se l’Occidente cristiano è androcentrico, bisogna ridare potere alle donne. Soprattutto, è la natura prima della conquista occidentale e della devastazione cristiana a divenire l’emblema di tutto ciò che dovrebbe essere, a fronte di tutto ciò che invece è; e, all’interno di quell’idealizzata condizione originaria, il modello di vita diviene quello del nativo che, prima del contatto col bianco, viveva in armonia con la natura16. Conferma R. Littlewood:

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Quanto appena detto è uno schema diffuso in molti movimenti nativisti, che propugnano la distruzione dell’ordine coloniale esistente proprio per permettere il ritorno alla libertà originaria: in questo caso, all’originario stato di natura senza tecnologia. Nasce però l’obiezione immediata: questa esaltazione della terra è a tutti gli effetti un ideale borghese. Nella società di Trinidad coltivare la terra non viene mai idealizzato, anzi, è considerato una condizione dalla quale scappare il più presto possibile per andare in città. Nel rapporto che il contadino stabilisce con la terra non vi è nulla di idilliaco: la terra è al servizio dell’uomo, in quanto produce ciò che è necessario al suo sostentamento; non si trova in condizione di parità e armonia. In questo senso si può dire che Mother Earth si basa più su una visione romantica della natura che si sviluppa in ambiente urbano, che non sulla realistica visione dei contadini che la lavorano; la poesia, e non la prosa.

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Con la totale alienazione della terra da parte degli Europei, sembra essersi sviluppato un concetto particolare di ‘Natura’. Per quanto prima della colonizzazione la natura possa essere stata concepita in contrapposizione alla società umana, ora i colonizzati vengono retrospettivamente identificati con un idealizzato stato ‘naturale’ in cui un tempo erano vissuti in perfetta armonia con il loro ambiente (spesso ‘al femminile’)17.

Se l’idealizzazione della natura è l’aspetto più appariscente degli Earth People, essa non è tuttavia la sola realtà idealizzata: anche il passato africano subisce un processo analogo negli insegnamenti di Mother Earth, tanto che l’essere naturale è spesso equiparato all’essere africano. Il fenomeno, noto come ‘africanismo’, non è esclusivo degli Earth People ma di molti movimenti afroamericani – si pensi solo al rastafari – ed è stato oggetto di analisi in celebri opere, quali Les religions africaines au Brésil (1960) di R. Bastide, e prima ancora The myth of Negro Past (1941) di M. Herskovits. Quest’ultimo autore introduce il concetto di retention per indicare la conservazione di un elemento originariamente africano nell’ambito culturale afroamericano. L’esempio più frequentemente citato è la predilezione nel mondo afroamericano per il battesimo per immersione degli adulti, spiegata come una memoria dei riti iniziatici delle religioni dell’Africa occidentale, portati in America dagli schiavi. Con questa sua personale rilettura del concetto tyloriano di survival, Herskovits precisa che esistono diversi gradi di conservazione delle credenze e delle pratiche africane: si va dal massimo di retention, rappresentato dalle culture dei ‘Bush Negroes’ del Suriname, al minimo di retention, rappresentato dai neri che vivono nelle zone urbane degli Usa; le formazioni sviluppatesi nelle zone caraibiche – dunque anche Mother Earth e gli Earth People – si situano nel mezzo: se M. Herskovits afferma che l’idealizzazione dell’Africa si manifesta in particolare nel survival dei

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Littlewood 1998: 234.

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nomi delle divinità, noi abbiamo potuto osservare che è stato proprio questo il caso di Mother Earth, che fa sua Yemanja18. L’idealizzazione della natura e del passato africano non sono i soli elementi che permettono di comprendere l’insegnamento di Mother Earth e la vita degli Earth People: per R. Littlewood occorre rifarsi anche al continuo riaffiorare, nell’area caraibica, di tradizioni millenaristiche risalenti al XVII secolo. Sviluppatesi soprattutto in ambienti protestanti, tali tradizioni, oltre a riprendere tipiche tematiche apocalittiche, mutuano un forte linguaggio anticattolico per cui ad esempio il nemico, invece di essere chiamato col biblico ‘Babilonia’ (come fanno i rastafari), viene chiamato ‘Roma’: è questo il caso degli Earth People. La comunità degli Earth People non si configura dunque come una novità assoluta, soprattutto se pensiamo che in tutte queste comunità utopiche vigeva il duplice principio per cui da un lato il millennio è prossimo, e dall’altro le normali convenzioni morali non devono più essere rispettate. Riprendendo la tesi di R. Bastide per cui il survival di elementi africani nel mondo americano non va interpretato in senso passivo, ma attivo, notiamo che anche grazie all’introduzione di queste tematiche apocalittiche l’eredità africana subisce un processo di trasformazione, che è compito dello storico delle religioni analizzare: abbiamo visto che Mother Earth riplasma l’idealizzazione dell’Africa inserendo sul tronco di elementi derivati dall’Africa (Yemanja, l’esaltazione della negritudine) alcune idee millenaristiche (l’apocalisse che deve venire), colorate da prospettive ecologiste (il ritorno all’Eden originario di Madre Terra senza scienza e tecnologia), il tutto sottolineando la necessità di superare una situazione sociale spesso letta in chiave biblica (si era schiavi e occorreva ‘uscire’ dall’Egitto per ‘tornare’ in Africa), tramite il rifiuto delle Chiese istituzionali, con le loro strutture, gerarchie e rituali. Con la nostra esposizione, dunque, abbiamo voluto mettere in evidenza che Mother Earth non predica solo il rifiuto delle Chiese e 18

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Yemanja, ricordiamolo, non è il nome africano dell’entità, ma quello brasiliano.

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delle religioni tradizionali, ma anche della società in cui vive, considerata dominante e oppressiva: ciò significa che il suo messaggio, e l’esperienza degli Earth People, possono essere letti come una strategia di resistenza a fronte della situazione di degrado e di oppressione dei neri, e soprattutto delle donne: la religione diviene in questo modo il sostituto della lotta politica in un contesto in cui non sembra possibile attuare alcuna rivoluzione politica; è sintomatico, al riguardo, che tutto nasca dopo il fallimento dell’esperienza di Black Power. In questo modo si ricalca il modello diffuso presso gli africani del continente americano nel periodo antecedente la prima metà del XX secolo, o più ancora, del periodo della schiavitù: la religione diviene lo strumento che supplisce al fallimento o all’incapacità di portare avanti una lotta politica. Questa, alla fine, è la conclusione alla quale siamo condotti dalla nostra analisi e che può riallacciarsi ad alcune tesi di V. Lanternari sulla ‘situazione pre-politica’: laddove manca la possibilità di una riposta politica a un sistema di oppressione, essa può avvenire attraverso la religione; e Mother Earth e gli Earth People divengono l’esemplificazione che anche la natura e le tematiche ecologiste possono servire da sfondo teorico per costruire movimenti di resistenza nei confronti del potere oppressivo e di riappropriazione della propria identità minacciata da quello stesso potere. La religione diviene così una “ideologia di opposizione” (oppositional ideology)19 che permette di creare un modello sociale – alternativo a quello dominante – che, nel caso degli Earth People, si concretizza nella leadership femminile di Mother Earth che rigetta il dominio dei maschi, della tecnologia e del cristianesimo20. Jeanette Baptiste muore nel 1984, e con lei se ne va anche l’unità del movimento: gli Earth People si dividono in quattro gruppi, dei quali solo uno rimane nel luogo originale. Per i superstiti l’ispirazione non sarà più 19

L’espressione è di E. Schwimmer. Cfr. Schwimmer 1972. 20 I termini sono stati appositamente messi in corsivo: con Mother Earth non abbiamo un esempio di movimento di libertà e salvezza, per riprendere la nota espressione di V. Lanternari, ma di resistenza e riappropriazione.

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la visione messianica di Mother Earth, ma la sua testimonianza di uno stile di vita ‘naturale’ e ‘africano’21. Non ci interessa seguire la parabola discendente di un movimento che non ha mai mobilitato folle oceaniche, ma rilevare come l’esperimento spirituale – se così possiamo definirlo – di Jeanette e degli Earth People abbia testimoniato l’esistenza di un movimento religioso in grado di fare della categoria ‘Madre Terra’ il centro e il motore delle proprie creazioni simboliche. È un fatto piuttosto raro, per uno storico delle religioni, avere l’occasione di analizzare un movimento che possa esemplificare la trasformazione di una categoria fenomenologica in nuovo movimento religioso, e Mother Earth ci ha offerto proprio questa possibilità. A fronte di questa constatazione perdono interesse le problematiche di natura classificatoria, ossia se gli Earth People debbano essere considerati un culto neo-pagano, un movimento contro-culturale, una delle tante espressioni dei movimenti revivalisti dei Caraibi, o tutte queste cose e altre insieme. La volontà di classificare questo singolare movimento religioso, sicuramente, non nasce dal nulla: gli studiosi di religioni sanno benissimo che la ‘fossilizzazione’ e la ‘cristallizzazione’ della categoria fenomenologica Madre Terra non è stata opera solo degli Earth People ma anche di altri movimenti, che a breve prenderemo in considerazione. Ciò che vogliamo mettere in luce, con la critica a un discorso classificatorio, è che esso rischia di far perdere di vista l’originalità di Mother Earth e degli Earth People: con loro, infatti, siamo di fronte a una radicalità assoluta, a un rigetto totale di ciò che non è natura per ritornare alla natura; una radicalità che è invece assente in altre realtà che pure condividono con gli Earth People certe tematiche: se infatti i vari movimenti ecofemministi, neopagani, wiccan e new age condividono l’esaltazione di Madre Terra e la connessione fra dimensione femminile del religioso e tematiche ecologiste e natura, tuttavia nessuno di essi ha vissuto e vive la stessa radicalità degli Earth People. Piuttosto, si tratta in genere di donne della classe borghese medio-alta che, al termine dei loro 21

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Cfr. Littlewood 2002: 1107.

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incontri e dei loro rituali, ritornano con tutta tranquillità e senza vedervi alcuna contraddizione – come invece la vedeva Mother Earth! – al mondo tecnologico che offre la possibilità di un bagno caldo (ricordiamo qui, anche se non l’abbiamo detto sopra, che Mother Earth si vantava di non lavarsi!)22, del riscaldamento in inverno, di fare decine o centinaia di km in macchina per andare e venire dal proprio raduno (mentre gli Earth People avevano accese discussioni perfino sulla legittimità di accettare un passaggio in macchina!), di usare il computer, e via di questo passo. Non stiamo certamente giudicando l’etica connessa a queste scelte, ma ci preme sottolineare che se decidiamo di seguire R. Littlewood e qualificare gli Earth People come “una comunità ‘antinomica’ e ‘neopagana’”23, dobbiamo intendere quel ‘neo-pagana’ in tutta la sua pregnanza originale di significato: non per nulla lo stesso Littlewood mette il termine fra virgolette. In altre parole: l’esaltazione di Yemanja e di Madre Terra portata avanti da Mother Earth e dagli Earth People può essere accostata solo marginalmente, proprio in virtù della radicalità della loro scelta di vita, a quella di altri movimenti neopagani come la Wicca. Piuttosto, la categorizzazione degli Earth People come movimento neo-pagano mette in luce i limiti teorici degli studiosi che attuano un processo classificatorio, cioè a dire, l’arbitrarietà della scelta dell’elemento qualificante un gruppo, di modo che poi questo possa essere incasellato; per cui se l’elemento qualificante viene visto nell’esaltazione di Madre Terra e Yemanja, cioè se vi è il recupero di entità sovrumane pre- o extra-cristiane, non possiamo che

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Littlewodd riporta queste parole di Jeanette: “ci laviamo troppo spesso. Non voglio dire che ogni tanto non ti puoi lavare, ma questa storia di lavarsi tutti i giorni! Il tuo corpo è il tuo corpo; devi imparare a odorarti e a conoscerti, a conoscere chi sei veramente. Vuoi essere ‘pulito’ ma il corpo non è mai pulito perché se sudi devi puzzare se stai senza lavarti. […]. È il tuo corpo, non c’è nulla di cui aver paura o da disprezzare. Quanto iniziai il Miracolo, cominciai a restare sporca. Quando mi sentivo era un’altra cosa! Puzzo terribilmente (quello che loro chiamano ‘terribile’!) fino a che quell’odore se ne va e io comincio a puzzare normalmente – ossia sporco”. Littlewood 1993: 83. 23 Littlewood 2002: 1105.

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essere di fronte a un movimento neo-pagano centrato sull’esaltazione del connubio fra donna e natura; ma questa metodologia porta a trascurare, ad esempio, altri elementi che sono ugualmente o forse più importanti, come l’esaltazione dell’africanità e il riaffiorare del millenarismo. Anche noi, decidendo all’inizio della nostra ricerca, di inserire il discorso su Mother Earth e gli Earth People in una trattazione sulla dimensione femminile del religioso, coniugata al ‘naturale’, abbiamo accolto inizialmente la classificazione di questo movimento come ‘neopagano’. Nel corso delle nostre analisi, tuttavia, ci siamo resi conto di quanto messo in luce nel paragrafo immediatamente precedente, ossia che gli Earth People andrebbero meglio caratterizzati come un movimento di resistenza nei confronti del potere sociale e politico oppressivo e di riappropriazione della propria identità minacciata da quello stesso potere, una ideologia di resistenza e riappropriazione espressa con un linguaggio religioso – ispirato a tematiche ecologiste e femministe: proprio qui sta l’originalità del movimento -, in una situazione in cui era impossibile esprimere la protesta con altre modalità. Mother Earth è il caso più eclatante – anche se il meno conosciuto – di una trasposizione al femminile di tematiche ecologiste coniugate col religioso. Altri movimenti, pur non avendo la stessa radicalità degli Earth People, fanno proprie quelle istanze e le ristrutturano con differenti modalità, che possiamo sostanzialmente ricondurre a due tipologie: o si vive una generica atmosfera di ‘ecofemminismo religioso’ senza essere parte esplicita di alcun movimento (in maniera comparabile al vivere in una generica atmosfera ‘new age’, senza associarsi ad alcuna nuova formazione religiosa); oppure si entra a far parte di un gruppo, senza però che questa aggregazione cambi in maniera radicale la propria vita, che a tutti gli effetti continua secondo gli schemi usuali (durante la settimana si va a lavorare e si fa abbondante uso di tecnologia, e quando ci sono gli incontri della propria comunità religiosa, si partecipa): è questo il caso di alcuni movimenti neopagani e della Wicca. Iniziamo col prendere in considerazione il fenomeno dell’ecofemminismo, per poi passare alla seconda tipologia. 122

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L’atmosfera e il dogma politico Come indica il neologismo, l’ecofemminismo è una concezione del mondo che unisce tematiche ecologiche e tematiche femministe, sostanzialmente centrando il discorso sull’idea che il predominio dell’uomo sulla natura equivale al predominio dell’uomo sulla donna: migliorare le condizioni della natura e quelle delle donne sono dunque due fronti della stessa guerra, in cui il comune nemico è l’androcentrismo. Alla base di tutto sta lo speciale legame che per queste femministe unisce le donne e la natura: I ruoli tradizionalmente assegnati alle donne hanno permesso loro di mantenere il contatto con la natura e i processi naturali, mentre la società nel suo insieme si muoveva verso una progressiva alienazione dalla natura. Il senso di intimità con la natura che alcune donne sperimentano nel misticismo della natura o nei cicli del loro corpo, nelle mestruazioni, nella gravidanza, nel parto, hanno molto da insegnare alle donne e agli uomini in merito al radicamento della condizione umana nell’ordine naturale24.

Il termine ecofemminismo venne coniato dalla francese Françoise d’Eaubonne (1920-2005), membro del Partito Comunista Francese e attivista per i diritti di gay e lesbiche: appare per la prima volta nell’opera Le féminisme ou la morte (1974), ove l’autrice sostiene che l’unico mezzo per assicurare la salvezza ecologica del pianeta è una rivoluzione femminista in grado di sostituire al sistema patriarcale una nuova condizione di eguaglianza fra uomini e donne, e fra umani e natura. A questa trasformazione sociale si deve accompagnare una trasformazione intellettuale: abbandonare il dualismo uomo/donna, anima/corpo, ragione/emozione, cultura/natura, a favore di una visione olistica in cui – soprattutto – la natura non è più giudicata per il suo valore utilitaristico per gli umani,

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Christ – Paltrow 1979: 11-12.

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ma per quello intrinseco: è una prospettiva biocentrica, in cui non vi è alcuna preferenza gerarchica per l’umano rispetto agli altri esseri viventi. Se il termine è stato coniato da una francese, le principali teoriche del movimento sono però americane. Carolyn Merchant, nell’opera The Death of Nature: Women, Ecology, and the Scientific Revolution (1980), afferma che attorno al XVI secolo avvenne nel mondo occidentale un radicale cambiamento di mentalità, che portò da una considerazione della natura come entità organica e vivente a una concezione meccanicistica e inerte25. Il sintomo di questo cambiamento è nell’avvicendarsi di alcune metafore: se prima la natura era di preferenza rappresentata come una ‘madre’ che nutre, ora viene invece rappresentata come una ‘donna selvaggia’, violenta e caotica. Il passaggio dal modello organico a quello meccanicistico fa leva soprattutto su questa seconda immagine della natura: quello di una realtà caotica che solo la scienza è in grado di comprendere e controllare – giustificando tale discorso con il richiamo al biblico ‘dominate il mondo’26. L’inevitabile risultato di questo processo, conclude Merchant, è la morte della natura; una morte alla quale ha dunque contribuito la religione, nello specifico il monoteismo di matrice giudaico-cristiana. La natura non è più una vivente realtà organica, ma un inerte insieme di particelle ed elementi che l’uomo può e deve dominare per darvi ordine e stabilità, ovviamente a proprio vantaggio27. È proprio l’invito ad abbandonare il paradigma meccanicistico della natura a favore di quello organicistico il tema più frequentemente presente nelle trattazioni del rapporto fra ecofemminismo e religione. Condizione sine qua non per una visione ‘femminile’ della natura è infatti che questa torni ad essere considerata una realtà vivente e ciò, per l’ecofemminismo religioso, può avvenire solo introducendo un discorso di matrice spirituale28. Se è vero che la coniugazione dell’eco25

Cfr. Merchant 1980: 278. 26 Cfr. Merchant 1980: 1ss. 27 Cfr. Merchant 1980: 193. 28 La prospettiva è presente anche nella riflessioni di alcuni autrici cristiane. Ricor-

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femminismo a tematiche religiose e spirituali è stata fatta anche da studiose non occidentali – come Delores S. Williams, che in Sisters in the Wilderness (1993) sottolinea la necessità di rifarsi alle spiritualità dei nativi americani; o l’indiana Vandana Shiva, che invece suggerisce un ‘ritorno’ alla più autentica spiritualità indù per salvare donne e ambiente29 – va tuttavia rilevato che il grande successo dell’ecofemminismo, e di una sua rilettura in chiave religiosa, è un fatto eminentemente occidentale, nel cui contesto culturale può di fatto godere di una lunga tradizione di ‘femminismo spirituale’. Questa tradizione fa leva sull’esaltazione del matriarcato e sulla venerazione storica e preistorica di una divinità femminile, conosciuta con vari nomi ma comunemente considerata una manifestazione del potere femminile della natura: Madre Terra. Di fatto, più che su ‘astratte’ discussioni teoriche circa il rapporto fra donna, natura e religione, l’ecofemminismo religioso si basa essenzialmente sul ‘mito’ dell’esistenza di un antico matriarcato, espressione sociale di un’originaria religione della dea30. Nella sua forma più comune la narrazione di questo ‘mito’ afferma che quella condizione originaria venne soppiantata tra il 3000 e il 1000 a.C. da società patriarcali devote a una divinità maschile. L’immagine del divino si riflette nella strutturazione della società per cui quando il patriarcato vinse vennero invertiti i termini del discorso, fino al culmine rappresentato dal mondo semitico e dal cristianesimo che “ha semplicemente rovesciato i valori della Dea e ‘inventato’ il peccato, il diavolo, il senso di colpa, la confessione, il culto per il dolore (martirio); ha usato la penitenza per giustificare la sofferenza, glorificato la morte con la crocifissione; e ha creato un cielo tutto al maschile per giustificare un potere tutto al maschile in terra”31. Il riflesso di questo cambiamendiamo le due più celebri studiose: Rosemary Radford Ruether, in particolare con l’opera Gaia and God (1992), e Sallie McFague con Models of God: Theology for an Ecological, Nuclear Age (1987) e The Body of God: An Ecological Theology (1993). 29 Cfr. Shiva 1989: 223. 30 D’ora in poi lo indicheremo semplicemente come il ‘mito’. 31 Budapest 1979: 12.

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to nelle relazioni umane fu ben presto codificato: “le donne vennero identificate con la natura, il corpo, il regno materiale, tutti considerati radicalmente inferiori al trascendente spirito maschile”32, e così alla Terra-Madre si sostituisce il Cielo-Padre. Anche se questo ‘mito’ non è mai stato corroborato da prove storiche o archeologiche certe – come è stato ampiamente dimostrato prima da P. Davis in Goddess unmasked: the rise of neopagan feminist spirituality (1988) e poi, in maniera più articolata, da C. Eller in The Myth of Matriarchal Prehistory (2000) –, esso continua ad avere una grande popolarità e consistenza ‘storica’ nei circoli dell’ecofemminismo religioso, ragion per cui vi dedicheremo una parte della nostra analisi. L’idea di una originaria divinità femminile circolava in Europa già dai tempi del romanticismo di primo Ottocento, essenzialmente nell’opera di poeti che la misero in relazione – guarda caso! – proprio con la natura: secondo R. Hutton Intorno al primo decennio dell’Ottocento, il divino femminile è personificato o come la Luna (evocata con particolare religiosità da Keats) o come lo spirito della terra verdeggiante (per la quale Shelly fa un equivalente, specialmente nella ‘Song of Preserpine’). In quest’ultimo aspetto, essa spesso si spogliò di ogni etichetta classica, diventando semplicemente ‘Madre Terra’ o ‘Madre Natura’33.

Ben presto questa concezione romantica della divinità femminile venne fatta propria da alcuni ambienti accademici e da un numero sempre più crescente di studiosi, fra i quali possiamo prendere come esemplificativo il tedesco E. Gerhard che scrisse nel 1849 che “dietro le varie dee della Grecia classica vi era un’unica grande dea venerata prima della storia”34. Di fatto, più che la connessione con la natura fu quella col matriarcato ad alimentare nuove elaborazioni concernenti la dea primor32

Christ – Paltrow 1979: 21. 33 Hutton 1997: 92. 34 Hutton 1997: 93.

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diale; nella seconda metà del XIX secolo, in particolare, assistiamo alla pubblicazione di due opere influenti per lo sviluppo di questa tematica, Das Mutterrecht (1861) di J. J. Bachofen e Primitive Marriage (1865) di F. McLennan: entrambi gli autori, pur con diverse metodologie e con prospettive differenti, sostennero l’idea di una primitiva forma di organizzazione sociale al femminile, poi soppiantata da una al maschile. L’ipotesi venne raccolta e rielaborata da Friedrich Engels e da quel momento la storia di queste teorie accompagna quella del socialismo: il frutto più eclatante di questa dialettica fu la c.d. ‘prima ondata’ di femminismo che, includendo nelle proprie riflessioni le elaborazioni di antropologi come Lewis H. Morgan, teorizza l’arcaico matriarcato come un’idillica realtà in cui – conformemente ai precetti vittoriani! -, vigevano come ideali sommi la monogamia e la castità. Le interpretazioni più originali di questa prima ondata femminista sono rappresentate da Elizabeth Cady Stanton (1815-1892) e Matilda Joslyn Gage (1826-1898), due studiose americane: il matriarcato, sostengono, è la forma sociale perfetta in quanto ha il suo centro nella donna-madre che, in quanto tale, è interessata unicamente al benessere della prole (e non a guerre e violenze). Applicando a questa riflessione alcune idee evoluzioniste il discorso si arricchisce di ulteriori elementi: nel matriarcato erano le donne che sceglievano fra molti uomini quello migliore, in tal modo indirizzando la razza verso un futuro migliore; il patriarcato determinò la fine di questo principio in quanto sostituì motivazioni – diremmo noi oggi – di ordine culturale a quelle propriamente naturali nella scelta del partner riproduttivo: per il bene della razza era dunque necessario tornare a motivazione naturali di selezione, e dunque al matriarcato. Soprattutto, e per quanto attiene più strettamente alla tematica del presente saggio, nella prima ondata di femminismo si assiste all’emergere sempre più distinto della teoria secondo cui la dèa era l’essere sovrumano principale del mondo preistorico: fu in particolare M. J. Gage a scagliarsi contro il mondo patriarcale e le sue religioni, sostenendo invece la bellezza di una società matriarcale in cui le donne veneravano la dèa e dove il sacerdozio era prerogativa esclusivamente femminile. Prendendo spunto da queste 127

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suggestioni la suffragetta l’inglese Frances Swiney (1847-1922) rilesse la teosofia in chiave femminile, fondando nel 1907 la League of Isis per promuovere il rispetto della maternità e più ‘salutari’ relazioni sessuali: nella sua opera più conosciuta, The Bar of Isis (1909), Swiney descrive infatti un’epoca dorata in cui la sessualità maschile era sotto il controllo delle donne e funzionale esclusivamente alla riproduzione; in particolare, l’autrice esalta il decreto con cui la dèa-madre Isis impediva agli uomini di avere rapporti sessuali con donne incinta e allattanti35. Dopo la prima ‘fiammata’ a cavallo fra il XIX e il XX secolo, tuttavia, l’interesse per queste tematiche andò progressivamente svanendo36 per riemergere solo con la c.d. ‘seconda ondata’ del femminismo a partire dagli anni Sessanta del XX secolo negli Stati Uniti. L’opera più emblematica di questo periodo è The First Sex (1971) di Elizabeth Gould Davis, la cui tesi di fondo è il già citato ‘mito’: a un arcaico matriarcato, democratico, pacifico e fondato sul culto della Grande Dea, sarebbe succeduto un sistema patriarcale centrato sulla devozione a una divinità maschile in cui il diritto di proprietà soppianta i diritti umani. Per sostenere le proprie tesi la Gould Davis utilizza materiali mitologici (in tutti i miti la perdita del paradiso sarebbe connessa alla sostituzione di una Grande Dea con una vendicativa divinità maschile), archeologici (i siti che l’autrice associa a un culto della dea, come Çatal Hüyük, testimonierebbero una civiltà pacifica senza guerre, violenze e sacrifici animali) e antropologici (il tabù dell’incesto sarebbe stato introdotto per proteggere le donne dai parenti

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Cfr. F. Swiney, The Bar of Isis; or, The Law of the Mother (1909) e Ead., The Awakening of Women; or, Woman’s Part in Evolution (1908). La discussione sulla ‘maternità’ della Lega di Isis è dibattuta: nella seconda edizione di The Bar of Isis Swiney ne attribuisce la fondazione ad Henry Ancketill. La Lega non è sopravvissuta alla Prima Guerra Mondiale. 36 Non del tutto: ricordiamo le tesi esposte dalla classicista Jane E. Harrison in Prolegomena to the Study of Greek Religion (1903) e Themis (1912). Da alcune riflessioni contenute in questi testi si svilupparono le tesi di Robert Briffault in The Mothers (1927) e Robert Graves in The White Goddess (1946).

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violenti; ai primordi il sangue mestruale sarebbe stato considerato sacro e non impuro). Il passaggio da una società matriarcale a una patriarcale fu causato dalla comparsa di violente tribù nomadi di razza semitica, il cui progetto patriarcale includeva il dominio sulla donna e il controllo della sessualità femminile: furono i semiti a ‘lanciare’ il mito della supremazia maschile, facendo sparire quel poco di potere femminile che ancora esisteva in zone del mediterraneo come Creta e Micene, oppure, andando più a nord, nel mondo dei celti. Per dare consistenza alle proprie pretese androcentriche, questi semiti manipolarono diversi racconti dell’antico testamento in modo da sostituire alla Grande Dea una divinità maschile. Col passare del tempo il mito della supremazia maschile si diffuse ovunque, trovando il suo luogo privilegiato nel cristianesimo di Paolo e dei Padri della Chiesa che imposero alle popolazioni pagane un modello di donna, e di relazione uomo-donna, a loro estraneo (come appunto testimoniato dal potere che le donne avevano presso i celti). Da quel momento in poi in Occidente si assiste al crescere di una violenza contro le donne senza paralleli nella storia dell’umanità, violenza che raggiunse il culmine con la caccia alle streghe nel cristianesimo e con la sottomissione della donna nel puritanesimo anglosassone. Oltre alla E. Gould Davis altre due donne furono strumentali allo sviluppo e al consolidamento del ‘mito’ di un arcaico matriarcato fondato sulla devozione a una dea strettamente connessa alla natura: Merlin Stone e Marija Gimbutas. Merlin Stone, nella celebre opera When God Was a Woman (1976), cerca di mostrare che è nelle antiche civiltà mediorientali (nelle quali include anche l’Egitto) che l’originale culto della dea venne soppresso e forzatamente sostituito con un culto maschile. Questo processo raggiunse il punto più alto nel mondo ebraico, dove è possibile trovare abbondanti testimonianze di misoginia e odio nei confronti della divinità femminile: non per nulla buona parte dell’analisi del libro è dedicata all’antico testamento, e in particolare all’opera dei sacerdoti leviti. Furono loro a manipolare le scritture per creare una giustificazione ideologica del proprio potere: il racconto di Adamo ed Eva nella Genesi “di fatto, fu costruito per utilizzarlo nella incessante lotta dei leviti contro 129

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la religione femminile”37; il racconto, sostiene la Stone, non è altro che la perfetta allegoria del passaggio dal culto della Dea Madre (rappresentata dall’albero della vita e dal serpente) al culto della divinità maschile Yahweh, presentando la prima come il male e il secondo come il bene e, di conseguenza, la donna come negativa e l’uomo come positivo. Per giustificare il dominio dell’uomo sulla donna, dunque, i leviti inventarono il mito genesiaco: non è forse tra i primi decreti divini la sottomissione della donna all’uomo? Quel mito tuttavia non poteva bastare: se il sesso era direttamente collegato alla divinità femminile e alla natura, occorreva tenerlo a bada sia teologicamente, facendolo diventare un atto immorale (l’episodio genesiaco diviene così l’emblema del ‘peccato originale’) sia praticamente, stabilendo codici per cui la sessualità era controllata da un lato con l’imposizione della verginità alle donne non sposate e dall’altro con la sobrietà sessuale per quelle sposate38. Dietro un discorso religioso, dunque, si cela un ben preciso piano politico di dominio dell’uomo sulla donna attraverso il controllo della sessualità femminile. Questo processo, sostiene la Stone, non fu limitato al solo mondo veterotestamentario ma si estese anche a quello delle altre religioni del vicino e medio oriente in cui la dea – qualunque nome assumesse: Hathor, Ishtar, Ashtoreth, Inanna, o altri ancora – veniva spesso rappresentata da un serpente, e la comunione con lei dal mangiare il frutto di un albero solitamente posto nei pressi del suo altare: Simboli come serpenti, alberi da frutto sacri e donne sessualmente seduttrici disponibili a suggerimenti di serpenti, potevano essere intesi dalle genti dei tempi biblici come simboli dell’allora familiare divinità femminile. Nel mito del paradiso, queste immagini possono aver spiegato allegoricamente che l’aver dato ascolto a donne devote alla Dea un tempo aveva causato l’espulsione dell’intera umanità dalla sede della felicità nell’Eden39.

37

Stone 1976: 198. 38 Cfr. Stone 1976: 216-218. 39 Stone 1976: 198-199.

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La Stone ribadisce che questo processo, rintracciabile in molte religioni del Vicino Oriente, raggiunse tuttavia il suo apice nel mondo ebraico che più degli altri si adoperò per sopprimere l’originaria divinità femminile e la sua connessione con la natura, i piaceri sessuali e la riproduzione, e sostituirla con una trascendente e lontana divinità maschile nemica di qualsiasi gioia terrena. Dal mondo ebraico, poi, tali idee passarono nel cristianesimo40. L’altra autrice le cui tesi sono funzionali al ‘mito’ di una originaria divinità femminile cultuata in un’arcaica società matriarcale è la famosa Marija Gimbutas (1921-1994), per moli anni (dal 1963 al 1989) docente di archeologia all’università di Los Angeles (UCLA). In opere quali The Goddesses and Gods of Old Europe (1974), The Language of the Goddess (1989), The Civilization of the Goddess (1991) e il postumo The living Goddesses (1999), la studiosa di origini lituane presenta una serie di ‘prove’ per giustificare l’esistenza ininterrotta di un culto preistorico rivolto a una “Grande Madre” a partire dal 25.000 a.C. almeno fino al 2500 a.C. ca. (periodo esteso fino al 1500 a.C. ca. per l’isola di Creta). Tale culto sarebbe stato drasticamente soppresso, durante l’età del bronzo, dall’arrivo di popolazioni indoeuropee, la cui società patriarcale si fondava sul culto di divinità guerriere, le quali fecero sparire la cultura femminile originaria – pacifica, economicamente egualitaria, e soprattutto in sintonia con la natura41. Sebbene l’attenzione della Gimbutas si concentri sull’area mediterranea e vicino-orientale, non manca di prestar attenzione anche ad altre aree, alle quali estende il suo modello matriarcale e di adorazione

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Quest’ultima tematica è stata analizzata in particolare da Mary Daly. Cfr. The Church and the Second Sex (1968) e Beyond God the Father: Toward a Philosophy of Women’s Liberation (1985), sulle quali però non ci soffermiamo in quanto non strettamente attinenti alla tematica del presente saggio. Della stessa autrice ha avuto una grande popolarità anche il saggio: Gyn/Ecology. The Metaethics of Radical Feminism (1978). 41 Cfr. Gimbutas 1989: 321. Senza ridurre la dea a fertilità o maternità: per questa ragione Gimbutas preferisce utilizzare un generico ‘Grande Dea’ rispetto a un più specifico ‘Dea Madre’. Cfr. Gimbutas 1989: 316.

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della grande dea: “le prime civiltà del mondo – in Cina, Tibet, Egitto, Vicino Oriente ed Europa – erano con ogni probabilità delle matristiche (matristic) ‘civiltà della Dea’”42. Anche in queste civiltà, come avvenne in Europa, si ebbe l’involuzione da una originaria cultura femminile in sintonia con la natura a una struttura patriarcale dominata dal maschio: […] la Dea partenogenetica è stata il tratto più persistente nella documentazione archeologica del mondo antico. In Europa ha dominato per tutto il Paleolitico e il Neolitico, e nell’Europa Mediterranea per buona parte dell’età del bronzo. Lo stadio successivo, quello degli dèi guerrieri di società pastorali e patriarcali, che soppiantò o assimilò il pantheon matristico di dee e dèi, rappresenta uno stadio intermedio prima del cristianesimo e della diffusione del ripudio filosofico della Dea e di tutto ciò ch’ella rappresentava43.

Se le teorie della Gimbutas – insieme a quelle di Stone, Gould Davis e altre studiose della medesima scuola di pensiero – non rimasero confinate agli ambienti intellettuali, fu solo grazie a una serie di opere divulgative che popolarizzarono il ‘mito’ dell’originario culto della dea e del matriarcato a esso connesso. La più celebre fra queste opere di divulgazione fu un vero e proprio bestseller (oltre mezzo milione di copie vendute!): The Chalice and the Blade (1987) di Riane Eisler. Il ‘calice’ e la ‘spada’, oltre che essere rappresentazioni simboliche delle divinità – la forma del calice richiama il grembo della dea, quella della spada il fallo del dio – lo sono anche di due diverse modalità di organizzazione sociale e dei valori a esse connessi: il primo esprime il “partnership model”, quello cioè in cui le relazioni fra i sessi sono interpretate in senso di comunione e interdipendenza, dando così origine a una società egualitaria, pacifica e matrifocale; il secondo esattamente l’opposto, ossia un modello gerarchico, violento e 42

Gimbutas 1991: 324. Notiamo che, tendenzialmente, Gimbutas rifiuta l’utilizzo del termine ‘matriarcato’ in quanto immagine speculare del ‘patriarcato’. Preferisce utilizzare altri termini come matrifocal o, come nel passo citato, matristic in quanto suggeriscono più un’uguaglianza fra i sessi che non il dominio dell’uno sull’altro. 43 Gimbutas 1989: 321.

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patriarcale. Questi due modelli si sono succeduti nel tempo: riconfermando il ‘mito’ da noi più volte esposto, Eisler riprende le tesi della Gimbutas e afferma che il ‘modello calice’ era diffuso nel Neolitico europeo, e fu poi soppiantato dal ‘modello spada’ introdotto da aggressive popolazioni nomadi durante l’epoca del bronzo. Se il ‘modello calice’ è associato a una divinità femminile, il ‘modello spada’ è invece fondato su una divinità maschile, con la conseguenza che se il primo esalta la capacità di dare vita, il secondo glorifica la capacità di toglierla. Queste riflessioni – che Eisler corrobora con una serie di argomenti tratti dalle studiose che già abbiamo presentato, ad esempio che Adamo ed Eva sono la rappresentazione simbolica del trapasso da una divinità/società femminile a una divinità/società maschile, o che la civiltà minoica di Creta è uno degli ultimi esempi-modelli di società al femminile – sono solo le fondamenta teoriche per proporre una vera e propria trasformazione culturale (“cultural transformation”): l’invenzione (da parte di uomini!) della bomba atomica ha infatti portato l’umanità a un punto critico, e l’unico modo per evitare l’autodistruzione è il rigetto del ‘modello spada’, e dunque dell’androcentrismo, a favore del ritorno al ‘modello calice’ che favorisce la pace, l’armonia, il rispetto dell’ambiente e una vita in comunione con la natura: proprio ciò che era l’umanità durante l’epoca matriarcale. Di fatto proprio questa, se vogliamo, è la sostanza di fondo del ‘mito’ e ciò che lo trasforma in un ‘dogma politico’: il fatto cioè che l’esaltazione del matriarcato, della dea e della sua connessione con la natura, non sono solo un nostalgico richiamo al passato ma un invito all’azione nel presente: se in passato è esistita una civiltà matriarcale, perché questa non può realizzarsi anche adesso? L’enfasi sull’esistenza storica del culto della Dea e sulle prove che sarebbero esistite società in cui le donne non erano subordinate agli uomini, è rivoluzionaria in quanto mette in crisi l’immagine del patriarcato come di una presenza eterna. Inoltre, consente alle donne di considerarsi capaci di creare una società che afferma il potere e la divinità delle donne44. 44

Crosby 2000: 14.

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L’espressione “dogma politico” (“political dogma”)45 è di Cynthia Eller: il ‘mito’, possiamo dire noi elaborando le riflessioni di Eller, si fa ‘dogma’ proprio perché nelle elaborazioni femministe diviene politicamente funzionale a mostrare la possibilità storica dell’esistenza di un altro ordine sociale e politico, ossia un ordine che non sia fondato sul dominio del maschio: il governo delle donne non è cioè solo un’utopia per il futuro, ma anche un fatto politico storico che può e deve essere riattualizzato nel presente. Questa trasformazione di un ‘mito’ in un ‘dogma politico’ fu possibile solo grazie a un capovolgimento dei termini della discussione: se la ‘prima ondata’ del femminismo aveva insistito prioritariamente sul matriarcato come struttura sociale centrata sulle donne e solo secondariamente sulla venerazione della dea, l’opposto avvenne con la ‘seconda ondata’ delle femministe per cui l’arcaico culto della dea è la giustificazione ideologica per opporsi alle ideologie oppressive (soprattutto il cristianesimo); e se nella ‘prima ondata’ era soprattutto l’aspetto materno della donna a essere sottolineato in connessione con la venerazione della dea Madre, in questa ‘seconda ondata’ è quello della licenza sessuale: il passaggio dall’epoca vittoriana alla controcultura degli anni Sessanta e Settanta non poteva non lasciare il segno. Di fatto, le riflessioni teoriche da noi esposte sarebbero rimaste pura teoria se quel ‘dogma politico’ non fosse diventato, proprio a partire dagli anni Sessanta e Settanta, il motore di un’azione pratica, cioè se da un’ortodossia dogmatica non si fosse passati a un’ortoprassi femminista. In altre parole: se dall’esaltazione di un ‘mitico’ passato storico e preistorico centrato su un culto della dea, e messo in relazione coi ritmi della natura (se non identificato con la natura tout court), non si fosse passati al culto attuale di una divinità femminile. I responsabili di questo cambiamento sono facilmente individuabili nei nuovi movimenti religiosi che si rifanno al Neopaganesimo in generale e alla Wicca in particolare, i quali hanno tradotto nella realtà gli insegnamenti finora esposti, generalmente dando 45

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Eller 2005: 1.

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origine a comunità (quasi sempre, anche se non esclusivamente, femminili) centrate su varianti del culto della dea e che ebbero il loro periodo di massima fioritura tra gli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta. Prima di andare a conoscere da vicino le caratteristiche di queste nuove realtà religiose, e come esse si inseriscano nella dialettica fra donna e natura, dobbiamo presentare quell’elemento che più di altri ha contribuito a creare l’atmosfera spirituale all’interno della quale esse sono sorte e si sono sviluppate. Stiamo parlando dell’appropriazione da parte del new age di tematiche strettamente ecologiste tramite la chiave di lettura offerta dal concetto di Gaia. Ai primordi il termine Gaia indicava la divinità greca cantata negli inni omerici e nella Teogonia di Esiodo: siamo dunque tra il IX e l’VIII secolo avanti Cristo, anche se alcuni studiosi vedono in Gaia la sopravvivenza di una più antica divinità pre-ellenica. A partire dal 1969 esso venne utilizzato per indicare una nuova concezione della Terra: l’ipotesi Gaia, appunto. Fu uno scienziato, James Lovelock, a sostenere che il nostro pianeta poteva essere meglio compreso se interpretato come una realtà vivente e non come un inerte congegno meccanico. L’ipotesi nacque in ambito scientifico: la NASA, interessata a missioni di ricognizione del sistema solare, chiese a Lovelock un sistema per determinare a distanza se Marte fosse o meno un pianeta vivente (nel senso di avere una sua propria vita biologica). Lo scienziato notò che il confronto con la Terra forniva una risposta palese: l’atmosfera è il segno più evidente che il nostro pianeta sostiene una biologia, ciò che invece non si può dire di Marte (o Venere). Partendo da queste prime riflessioni, Lovelock cominciò a interessarsi alla domanda: cosa vuol dire affermare che la Terra è un pianeta vivente, da momento che il 95% del pianeta è costituito di materiale inerte? La risposta la forniva il confronto con l’essere umano: non poteva questa ‘materia inerte’ planetaria essere paragonata al sistema osseo? E l’uomo non è comunque considerato una realtà vivente nonostante la presenza di tale ‘materia inerte’? L’approccio, in altri termini, non doveva essere quantitativo ma olistico: non importava la percentuale di materiale inerte ed organico che costituivano il pianeta, ma come l’inorganico si relazionava all’organico per dare origine a un unico sistema. 135

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Nelle prime fasi della sua ricerca Lovelock fu tentato di dare a questa ipotesi un nome scientifico ma poi, su suggerimento dell’amico romanziere William Golding, decise di utilizzare il nome della divinità greca della terra: Gaia46. La scelta fu deprecata dagli scienziati che vi videro una pericolosa apertura a tematiche new age, e non a torto, in quanto il termine popolarizzò l’ipotesi anche al di fuori dei circoli accademici, dove venne a perdere qualsiasi serietà scientifica: “Gaia, nel suo ruolo culturale popolare, è la dea del femminismo, dell’ecologismo, di un modo di guardare olistico, e di una fusione di scienza e spiritualità”47. Nonostante questa deriva spiritualeggiante Lovelock non volle abbandonare il valore scientifico della sua ipotesi: si rivolse alla microbiologa Lynn Margulis che gli fornì diverse intuizioni – in particolare relativamente all’interdipendenza fra microorganismi – che permisero allo scienziato di qualificare ulteriormente l’ipotesi (poi, a partire dal 1988: teoria) Gaia: il pianeta non è solo un unico sistema organico e interconnesso, ma è anche autoregolantesi, ossia capace di ripristinare l’equilibrio ogni qualvolta delle mutate condizioni lo abbiano alterato; tale capacità di autoregolarsi, conclude Lovelock, è tanto più grande quanto maggiore è la complessità del sistema, ossia delle realtà che ne fanno parte. L’aspetto caratteristico di questo processo di auto-regolazione dell’ambiente è che esso avviene per il ‘bene di tutti’, nel senso che Gaia cerca costantemente di mantenere l’equilibrio che permette la sopravvivenza di ogni suo elemento costitutivo. Lovelock vuole proporre “una nuova teoria dell’evoluzione, che non nega la grande visione di Darwin, ma la integra con l’osservazione che l’evoluzione delle specie e degli organismi non è indipendente dall’evoluzione del loro ambiente materiale. Anzi, le specie e il loro ambiente sono strettamente uniti ed evolvono come un sistema unico”48. In quest’ottica, la teoria di Lovelock non postula

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Cfr. Lovelock 1990: 1. 47 Fairbairn 1994: 1204. 48 Lovelock 1990: xiv.

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una spietata lotta per la sopravvivenza ma la cooperazione di tutte le realtà – organiche ed inorganiche – per il benessere globale di Gaia, il quale a sua volta favorisce il benessere di ogni singolo elemento. Questa visione ottimista fin dagli inizi ha attirato le critiche degli scienziati, che vedono in quest’ipotesi di collaborazione la negazione di quanto afferma l’evoluzionismo più classico o le sue versioni più recenti, come quella esposta da R. Dawkins nel celeberrimo The Selfish Gene (1976), secondo cui tutte le realtà viventi non sono altro che ‘macchine di sopravvivenza’ programmate dai geni in esse contenuti per potersi perpetuare: la selezione naturale è una lotta per propagare i propri geni. Insomma: per i darwiniani più puri l’idea che gli organismi – e pure l’inorganico! – potessero comportarsi in maniera altruistica per il benessere generale era aberrante, un’idea cripto-religiosa se non religiosa tout court penetrata nella serietà del discorso scientifico. Certamente Lovelock ha cercato di limitare al massimo le derive new age della propria teoria, in particolare affermando che l’‘altruismo’ e la ‘cooperazione’ espressi da Gaia avvengono senza coscienza da parte dei propri attori. Insomma, non è che un batterio vuole ‘intenzionalmente’ fare il bene di una gazzella: il processo di regolazione globale dell’ambiente naturale è ‘inconscio’; tuttavia, per quanto si fosse voluto presentare l’ipotesi Gaia come una teoria scientifica, come modello di spiegazione per un sistema autoregolantesi, la tentazione di trasformare questo modello interpretativo delle meccaniche del pianeta Terra in una vera e propria realtà organica era troppo forte. Il new age non poteva lasciarsi scappare l’occasione di fare propria questa teoria, tanto più che essa presupponeva la capacità di tale mega-organismo di regolarsi senza alcun bisogno di un intervento esterno (Dio!), e che tutto ciò avveniva grazie alla cooperazione altruistica delle realtà che lo costituivano. Come lasciarsi sfuggire l’occasione di dire che il sistema idrico del pianeta corrisponde alla circolazione del sangue nell’uomo, o il movimento dell’atmosfera al respiro – e considerare tali espressioni non metafore letterarie, ma enunciati della verità? Ciò che ruota attorno al sole non è solo un corpo celeste inerte, ma un pianeta vivente: è Gaia. E questa 137

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realtà non è solo vivente, ma è anche dotata di sentimenti propri, intelligenza propria e, ovviamente, di una propria anima immanente. Si comprende allora la logica di fare un passo in più e scegliere il nome di una divinità pagana per indicare questa realtà new age: la Terra non è solo una macroversione di ciò che è l’uomo (corpo, sentimenti, coscienza, anima), ma è un essere divino; anzi: un essere divino femminile. Scegliere il nome di una divinità femminile favoriva infatti un più facile collegamento col ‘mito’ da noi più volte esposto, per cui Gaia divenne semplicemente l’ultima manifestazione, l’ultimo nome, di una realtà femminile di cui l’uomo ha avuto percezione sin dalla più antica preistoria: allora era la Grande Dea, o la Grande Madre; poi divenne una delle tante entità femminili nel corso della storia – come Isis in Egitto, Ishtar in Canan, Demetra in Grecia, Magna Mater a Roma e, per alcuni, anche la Vergine Maria nel cattolicesimo49 – fino alla sua ultima e più veritiera manifestazione: la riappropriazione di Gaia da parte del new age, per cui connettersi alla dimensione femminile significa non solamente esaltare la maternità e la fecondità – ciò a cui spesso si riduceva l’utilizzo della categoria Madre Terra –, ma soprattutto gli altri valori tradizionalmente associati al femminile come la cooperazione e l’importanza delle relazioni interpersonali, da mettere in contrapposizione ai disvalori maschili di dominio ed egoismo. Tramite questa ermeneutica, la spietata lotta darwiniana per la sopravvivenza e il modello cooperativo di Gaia divennero un’ulteriore esemplificazione della perenne dialettica fra il modello maschile di violenza e sopraffazione e quello femminile di benevolenza e cooperazione, col risultato finale – sotto gli occhi di tutti – che l’ipotesi Gaia divenne quanto di più funzionale si potesse trovare per una visione femminista di ecologia spirituale: ora non bisognava più esaltare semplicemente la maternità della dea (Madre Terra!), ma fare riferimento a un principio spirituale più vasto che coinvolge l’intero mondo naturale e che non abbisogna di alcun dio metafisico, 49

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Cfr. Ross 1992.

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ma che anzi capovolge la dottrina giudaico-cristiana del dominio: non più violenza sulla natura, ma cooperazione. Non sorprende allora che le varie manifestazioni del neopaganesimo che ora andremo ad analizzare abbiano finito prioritariamente con l’incanalarsi verso il culto della dea, identificata dapprima con Madre Terra e poi, tramite la soffusa atmosfera new age, con Gaia. Di fatto, potremmo dire che Gaia non è altro che la coniugazione new age di Madre Terra, ovverosia la trasformazione di una categoria fenomenologica (Madre Terra) in una realtà spirituale (Gaia).

I movimenti neopagani Dopo aver presentato l’atmosfera generale che fa da sfondo, e nutre, molte nuove realtà religiose che assumono la natura come centro delle proprie creazioni simboliche, volgiamo ora la nostra attenzione a quei movimenti che declinano tale atmosfera nel c.d. neopaganesimo. Il neopaganesimo al quale facciamo riferimento ruota attorno a tre fattori principali: il primo è la contrapposizione politeismo/monoteismo; il secondo è che, nonostante la pretesa di un sistema di pensiero politeista, esso finisce nella maggior parte dei casi con l’esaltare una divinità femminile equiparata a Madre Terra: diremmo quasi che a un monoteismo maschile sostituisce un monoteismo femminile; il terzo è che il neopaganesimo viene a configurarsi come un sistema di pensiero, a tinte fortemente femministe ed ecologiste, che fa leva sul modello Gaia. Il valore del politeismo è stato messo in luce dal classico per eccellenza del neopaganesimo, The New Polytheism: Rebirth of the Gods and Goddesses (1974) di David L. Miller, ove si afferma che solo il neopaganesimo può permettere la liberazione “dall’imperialismo tirannico del monoteismo”50 (ovviamente identificato col cristianesimo) attraverso la

50

Miller 1974: 3.

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riaffermazione della molteplicità di divinità pagane: se il monoteismo è connesso a ideologie forti di dominio, il politeismo rispecchia più rispettose forme democratiche; se il monoteismo è uniformità intellettuale, il politeismo rappresenta la vivacità della creatività; se il monoteismo giustifica la persecuzione del diverso, il politeismo esalta le specificità; se il monoteismo spinge alla conversione di chi la pensa diversamente, il politeismo favorisce la tolleranza; se il monoteismo incita alla violenza, il politeismo permette la pacifica convivenza. Tutto questo significa, scrive Margot Adler in un altro classico del neopaganesimo, Drawing Down the Moon (1986), che l’importanza del politeismo è soprattutto nella mentalità che esso instilla nei propri aderenti: Molti pagani ti diranno che il politeismo è un atteggiamento e una prospettiva che non influisce solo sulla spiritualità. Ti potrebbero dire che il continuo richiamo all’unità, all’integrazione e all’omogeneizzazione nel mondo occidentale deriva dalla pervicace ideologia del monoteismo, che resta la tradizione maggioritaria dell’Occidente51.

Potremmo continuare a lungo con lo schema oppositivo monoteismo/politeismo, ma per quanto concerne la nostra analisi ciò che è importante osservare è che grazie al politeismo viene a cadere ogni pretesa gerarchica, e dunque qualsiasi tentativo di giustificare la superiorità del maschile sul femminile, del dio sulla dea, dell’uomo sulla natura. Ciò non ha tuttavia portato la maggioranza dei movimenti neopagani a sviluppare forme religiose ‘egualitarie’ fra uomo e donna, come riflesso della complementarietà del dio e della dea, bensì alla volontà di riaffermare il primato della dea in quanto considerata più in sintonia con la natura; dicevamo sopra che a un monoteismo maschile si sostituisce spesso un monoteismo femminile. Sarebbe però sbagliato credere che questa femminilizzazione spirituale della natura tramite il politeismo abbia attratto solo donne, o che 51

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Adler 1986: 24.

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su quel principio di spiritualità ecologista al femminile solo delle donne abbiano dato origine a movimenti neopagani. Il desiderio di non ridurre il mondo al prodotto meccanico della scienza occidentale e la volontà di re-incantarlo tramite l’immaginazione ispirata al paganesimo sono due elementi che ritroviamo anche in alcune costruzioni maschili: non sono solamente le donne a proporre un ‘universo alternativo’ in cui il dio del monoteismo cristiano con le sue logiche di dominazione patriarcali è sostituito dalla riscoperta del politeismo, variamente declinato; non sono solamente le donne a sentire il fascino – per mutuare categorie di M. Eliade – delle religioni cosmiche rispetto a quelle storiche; non sono solamente le donne a volere ritrovare un’armonia con i ritmi della natura, abbandonando macchine, bibbia e santi per riappropriarsi di tramonti, fiabe e fate. In alcuni ambienti di spiritualismo ecologista maschile tutto ciò si è tradotto con la riproposizione del Green Man (a volte anche del Wild Man), una figura di essere sovrumano maschile sopravvissuta nel folklore europeo nonostante i ripetuti tentativi di soppressione attuati dal cristianesimo. Secondo William Anderson, autore di Green Man: The Archetype of Our Oneness with the Earth (1990), la riappropiazione di questa figura permetterebbe di sostituire a una divinità maschile dei cieli – il Dio cristiano, Yahweh, Allah, Zeus – una divinità maschile della terra52. Più comunemente, però, anche lo spiritualismo ecologista elaborato dai maschi ha fatto riferimento a una divinità femminile: la differenza rispetto a più classiche elaborazioni femministe è che invece di sostituire al monoteismo maschile un monoteismo femminile essi hanno puntato generalmente sul principio di complementarietà fra uomo e donna, dio e dea, maschile e femminile. Il caso più tipico di questo processo è rappresentato da un piccolo gruppo neopagano californiano: Feraferia (termine solitamente tradotto con “celebrazione della natura”). Il movimento venne creato nel 1967 da Frederick Adams (m. 2008), diplomatosi 52

Cfr. Anderson 1990.

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alla University of Southern California studiando in particolare i celti e i greci. Robert Ellwood, sul cui lavoro si basa la nostra presentazione di Feraferia53, individua fra le varie fonti di ispirazione di Adams noti studiosi quali C. Jung, C. Kerenyi, M. Eliade, R. Graves, J. Bachofen; e personalità meno note, fra le quali spicca H. Bailey Stevens e la sua opera The Recovery of Culture (1953): nel testo si sostiene che originariamente l’uomo era vegetariano – e di ciò si ha una sbiadita memoria nei miti delle Esperidi e di Avalon – e la sua sussistenza basata sull’orticultura; solo in una fase successiva, di decadenza, si giunse alla caccia. Racconta Adams che un giorno del 1956, ai tempi del college, fece l’esperienza del “femminile misterioso” e comprese che “il femminile è un a-priori”: in quel momento ebbe la certezza che la sua vita dovesse essere dedicata al servizio “del Femminile Sacro”54. Per questo l’anno successivo si trasferiva in una comunità multifamiliare sulle montagne della Sierra Madre, le cui caratteristiche salienti erano un tempio all’aria aperta dedicato alla “Dea Fanciulla della natura selvaggia” (“Maiden Goddess of Wildness”) e il nudismo nelle occasioni più importanti – e non permanentemente, come nel caso di Mother Earth – che coincidevano con gli equinozi e i solstizi; a volte le celebrazioni erano accompagnate dall’assunzione di droghe psichedeliche. Adams fece anche un viaggio in Europa nei santuari dell’antica religione celtica e riuscì a mettersi in contatto con gruppi neopagani britannici. Infine nel 1967, come abbiamo detto, le sue letture, esperienze interiori e viaggi si coagularono nella creazione di Feraferia. Sintetizzando le credenze del movimento, Ellwood scrive: Feraferia crede che la vita religiosa sia intimamente connessa alla sensibilità per la natura e alla propria consapevolezza erotica. L’uomo, la terra, il cielo e il mare, sono un immenso bioma, o organismo vivente. Si è completi solo nella misura in cui si riconosce questa unità e si vive per celebrarla55. 53

Facciamo riferimento anche a Holzer 1972. 54 Ellwood 1971: 132. 55 Ellwood 1971: 133.

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Come già abbiamo visto per il classico ‘mito’ femminista, anche per Adams – che spiega la sua visione negli Oracles of the Faerie Faith (The Faerie Manifesto), del 1970 – la divinità femminile ha avuto nel corso della storia una molteplicità di nomi, e continua ad averli nel presente perché ogni donna è potenziale sua manifestazione. La manifestazione primordiale del femminile divino è “la grande Dea panteista-panerotica, la Signora Respiro dei luoghi selvaggi, la Regina Albero delle stelle e di tutti i mondi”56; accanto a lei vi sono I suoi due figli, gli amanti divini, che fondano l’appassionata polarità della creazione. Sono Kore e Kouros, che riconosce il primato di KORE. Come Fanciulla salvatrice, ella custodisce l’essenza della grazia infantile, la sacralità lirica, la spiritualità romantica e quella esuberante. Ella garantisce la trascendenza per ogni Presenza unica. Infine, ella è l’autentica musa della nascente fatata età dell’Acquario57.

Il mondo incantato di Feraferia si completa con altre sette divinità (il sole, la luna e i cinque pianeti visibili), e le varie forme di spiriti e fate, spesso interpretate come realtà in attesa di reincarnazione. Per Feraferia la manifestazione principale del femminile divino è comunque Kore, che Adams coglie dalla mitologia greca come l’immagine di fanciulla innocente che ogni anno rinasce nella natura primaverile per poi ritirarsi al sopraggiungere dell’inverno. La scelta di Kore è interessante per la nostra analisi: in un movimento neopagano iniziato da un maschio la divinità femminile principalmente cultuata non è Madre Terra o la Grande Dea, ma una fanciulla pubescente (pubescent maiden) perché bisogna essere consapevoli che “il cuore della natura” – scrive Adams – “non è solo fertilità e maternità, ma anche erotismo, civetteria, risveglio della passione”58.

56

Feraferia @ 2008. Nei rituali il nome di questa divinità è spesso abbreviato in AWIYA. 57 Feraferia @ 2008. 58 Ellwood 1971: 133.

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Questo è un aspetto qualificante e lo ribadiamo: l’archetipo femminile non è rappresentato dalla fertile Madre Terra o dalla Grande Dea con la sua forza onnipotente di stampo monoteistico, ma da una maliziosa ragazzina capace di svegliare con la sua ‘innocente’ e naturale sensualità l’erotismo dell’uomo e della donna. Questa ‘Fanciulla Magica’, come viene chiamata nei rituali di Feraferia, è al centro delle celebrazioni che il gruppo tiene nei momenti significativi del ciclo naturale (in particolare solstizi ed equinozi), come ad esempio nella festività di Beltane in primavera: in quest’occasione uomini e donne nudi recitano in uno spazio sacro alcune invocazioni alla Fanciulla Magica, concludendo poi la cerimonia con un rito che celebra l’unione di Kore con Kouros, del femminile col maschile. Scopo del rituale non è infatti la liberazione o il nirvāṇa, ma mnemosyne, il pieno ricordo della propria verità in quanto ‘elemento interconnesso’ con l’intero mondo naturale, ossia l’unione con tutti i livelli della vita, in particolare del femminile e del maschile. In questo modo, benché al centro di Feraferia si trovi la ‘Fanciulla Magica’, la sacralizzazione del cosmo59 attuata da questo movimento neopagano viene ad esprimere l’ottimismo di una possibile riconciliazione fra dio e dea, cultura e natura, uomo e donna, maschile e femminile. Tutto ciò avviene proprio tramite l’esaltazione di una ecologia vissuta in una creatività immaginifica di ‘magia’, erotismo e recupero di divinità pagane, testimonianza vivente di un mondo differente: Feraferia si ritiene il precursore di una cultura a venire in cui l’archetipo femminile sarà reintegrato – nella forma della Fanciulla Magica – al centro della religione, e in cui l’umanità recupererà sentimenti di riverenza nei suoi rapporti con la natura e la vita60.

59

Adams afferma esplicitamente che molto della sua visione deriva dalla lettura de Le mythe de l ’éternel retour (1949) di M. Eliade. 60 Ellwood 1971: 138.

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La ripresa del passato pagano avviene dunque con questa particolare sensibilità, che Adams chiama “EARTH SENSITIVITY” 61: è l’affermazione di un ideale utopico che può salvare la società dalla distruzione verso la quale è incamminata, rivalutando uno stile di vita vegetariano basato sull’orticultura (si ricordi l’insegnamento di Bailey Stevens), in contatto con la natura e gli ambienti selvaggi, che dà spazio all’immaginazione e alla poesia. Precisa Adams: La comunità umana, ispirata dalla bontà e dalla gioia della Dea Fanciulla, si regolerà agevolmente da sola. Tutte le forme di costrizione esterna, messe in atto con la costante minaccia di punizione, diminuiranno automaticamente. Ognuno diventerà immediatamente il bambino, il genitore, il fratello/sorella di ogni altro, e scoprirà una felice consanguineità con tutti gli esseri della natura: fuochi, venti, nuvole, acque, pietre, suoli, alberi, piante e animali62.

L’esito finale sarà la “realizzazione sulla Terra del paese incantato delle fate”63. Non c’è in questo movimento l’idea del riscatto socio-politico della donna come sottofondo delle proprie elaborazioni e ritualità – ciò che invece abbiamo visto e vedremo essere una costante di buona parte delle elaborazioni femminili che si rifanno a un ecologismo spirituale -, piuttosto l’idea di un ‘completamento’ fra maschile femminile, simbolizzato appunto dall’unione fra Kore e Kouros64. Come dicevamo poco sopra, anche per Feraferia la linea guida è comunque l’esaltazione del femminile – sotto forma di ‘Fanciulla Magica’ –, e dunque possiamo dire che anche questo movimento resta all’interno di un neopaganesimo che esalta l’archetipo femminile, ossia una modalità che permette una più profonda connessione con la natura 61

Feraferia @ 2008. In maiuscolo nell’originale. 62 Feraferia @ 2008. 63 Feraferia @ 2008. 64 Non entriamo oltre nello specifico di Feraferia, anche se sarebbe stato interessante mettere in luce i legami con la Church of Afrodite di Gleb Botkins, per il quale Afrodite è la suprema divinità, in senso ‘quasi’ monoteistico.

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tramite la riappropriazione di arcaiche dee: ritrovare i molteplici volti della divinità femminile permette di riappropriarsi di una concezione della natura come entità vivente. Di questa natura i neopagani si sentono responsabili e ad essa vogliono riconnettersi sia con rituali compiuti in momenti cosmicamente (e non storicamente!) importanti come gli equinozi e i solstizi, sia celebrando tali rituali ‘vestiti solo di cielo’ (skyclad), ossia nudi: il corpo è parte della natura, della dea, di Madre Terra, e non vi è nulla – come già diceva Mother Earth – di cui vergognarsi; essere nudi durante i riti è affermare la propria libertà, e la strada migliore per esprimere e far fluire senza ostacoli il proprio essere parte di Gaia: Il paganesimo è una spiritualità in cui hanno grande rilievo le relazioni reciproche fra umani e ogni altra realtà con cui condividiamo la vita sulla Terra. I pagani sono persone che considerano il mondo un organismo vivente; ascoltano la voce della Terra65.

Ancora: Il paganesimo è una spiritualità in cui è centrale e celebrata la Natura – la Terra e il corpo. Nella sua filosofia e pratica è fondamentalmente ‘verde’, dacché prende seriamente l’affermazione che ‘tutto ciò che vive è sacro’66.

Se questa esaltazione pagana della natura vivente avviene in prospettiva maschile col Green Man, in quella di complementarietà maschilefemminile con l’unione di Kore e Kourus in Feraferia, la sua forma più diffusa è tuttavia quella dell’esaltazione del puro femminile tramite la riattualizzazione dell’antico culto della dea, a lungo soppresso dal sistema patriarcale. Questo neopaganesimo al femminile si configura di fatto come la volontà di ricostruire una religione arcaica “concepita come sincera devozione alla Dea e rispetto per la Terra quale sua principale

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Harvey 1997: viii. 66 Harvey 1997: 126.

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incarnazione”67. A questo processo di ricostruzione che combina la dea, la donna e ‘Gaia’ hanno contribuito diverse studiose, in particolare M. Gimbutas che, in un passo spesso citato, scrive: Il declino della Dea in tutte le sue forme, iniziatosi durante il periodo dell’indoeuropeizzazione della Vecchia Europa fra il IV e il III millennio a.C., continuò per tutto il periodo storico, intensificandosi nelle varie tradizioni ebraicocristiane. Nonostante gli energici tentativi per sradicarne il culto in epoca storica, specie da parte dell’Inquisizione europea nel medioevo quando quasi ogni donna di saggezza e peso veniva mandata al rogo, la sua importanza non svanì nella vita e nei racconti68.

La tesi che la dea non sia mai morta ma abbia continuato a esistere in forme ‘sotterranee’, segretamente fatta oggetto di un culto le cui praticanti venivano sistematicamente perseguitate, è il filo rosso del contemporaneo fenomeno Wicca. Questo si presenta come un movimento neopagano imperniato sul culto della dea le cui aderenti, quasi esclusivamente donne, si autodefiniscono witches: streghe. Il termine ha nel movimento una connotazione positiva e di intenzionale riscatto rispetto al significato denigratorio associato alle streghe sia nel presente etno-antropologico che nel passato (medievale, ma non solo): nel primo ambito il termine comunemente indica le persone capaci per ‘qualità innate’ di compiere azioni malefiche, nel secondo connotava donne moralmente qualificate come ‘il male’ in quanto praticanti arti magiche che avevano come sorgente ultima di potere Satana. Si riteneva infatti che le donne stringessero patti col signore delle tenebre durante incontri notturni nei quali si profanava l’eucarestia, si uccidevano bambini, ci si cibava di carne umana e si compivano orge culminanti con l’accoppiamento coi demoni. Le moderne streghe rigettano queste immagini negative del presente e del passato, presentandosi come coloro che hanno 67

Lewis 1996: 1. 68 Gimbutas 1991: 244.

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il coraggio di riportare alla luce una tradizione religiosa divenuta clandestina a seguito delle persecuzioni del cristianesimo, e più in generale dei sistemi patriarcali. Anche il più noto rappresentante della Wicca, Gerald Gardner (1884-1964), sostenne di essere stato iniziato proprio da una strega la cui famiglia – sopravvivendo a tutte le persecuzioni – era riuscita a tramandarsi nei secoli la vecchia religione della dea. Più probabilmente Gardner non aveva fatto altro che elaborare una personale sintesi di alcune opere quali Aradia, Gospel of Witches (1899) di Charles Leland (Aradia è la figlia di Diana, ed è considerata la prima strega), Magick in Theory and Practice (1929) di Aleister Crowley, ma soprattutto The Witch-Cult in Western Europe (1921) e The God of the Witches (1931) di Margaret Murray. Gardner, in Witchcraft Today (1954), definisce nel modo seguente le streghe: Sono persone che si autodefiniscono Wica [sic], le ‘sagge’, che praticano gli antichi riti e che hanno preservato, insieme a molte superstizioni e conoscenze erboristiche, gli insegnamenti occulti e le pratiche da loro stesse considerate magiche o stregonesche69.

E, in linea col discorso finora fatto, ne dà un’immagine positiva: “queste Wica [sic] generalmente agiscono con scopi benefici e aiutano come meglio possono coloro che sono in difficoltà”70. Questa visione positiva è ribadita dalle due principali teoriche del movimento, Zsusanna Budapest (nom de plume di Zsuzsanna Emese Moksay) e Starhawk (pseudonimo di Miriam Simos), le quali caratterizzano questa positività in termini ecologisti: il discorso Wicca si inserisce nella visione del pianeta come realtà vivente, in cui ogni essere è interconnesso con gli altri – Gaia. La tesi di fondo è dunque che riportando alla luce l’antica religione, queste donne di fatto contribuiscono al benessere di Madre Terra/ Gaia. Scrive Budapest: 69

Gardner 1954: 102. 70 Gardner 1954: 103.

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Una strega è una donna o un uomo che ritiene la Terra un essere vivente, cosciente, che respira – parte della famiglia del vasto universo – da considerare e rispettare in sé come una divinità. Per essere una strega, devi vedere te stessa come parte di Dio, che è presente in, e non separato da, noi e tutti gli esseri viventi71.

Starhawk precisa ulteriormente il senso di questo rapporto fra divinità, religione e natura: Usiamo anche la parola ‘Dea’, tuttavia, per indicare vari aspetti di quella forza vitale che hanno assunto particolari attributi e personalità: Demetra, la dea greca del grano e dell’agricoltura, per esempio, o Kalì, la Grande Dea indù di nascita, vita e morte. Ci sono migliaia di Dee nelle culture di tutto il mondo, come pure migliaia di Dei – divinità maschili che pure incarnano i cicli di vita, morte e rigenerazione72.

La dea è una realtà immanente, presente ovunque ma in modo speciale nel corpo della donna73: ritroviamo qui la stessa idea sviluppata da Jeannette, che considera se stessa la manifestazione di Madre Terra. La connessione con la natura avviene così tramite una riappropriazione del proprio corpo, favorita dalla religione della dea. Il concetto per cui ogni donna, col suo corpo, è manifestazione della dea, è espresso a chiare lettere da Z. Budapest: La dea ha diecimila nomi, condivisi dalle donne di tutto il mondo. Il suo nome è Diana, Madre Santa. Il suo nome è Tiamat. Il suo nome è Hecate. Il suo nome è Isis, Inanna, Belili. Il suo nome è Sapasone, Belladonna, la Grande Madre del Granoturco, il suo nome è Madre dell’orso dell’Alaska, Artemis, Brigis, Io, Morrigan e Cerriwen; il suo nome è ogni nome di donna – Carly, Doris, Lily, Catherine, Sharon, Susan. Tutti i nomi personali di 71

Budapest 1989a: 57. 72 Starhawk 1997: 9. 73 Cfr. ad esempio Christ 1987: 125: “la Dea aiuta il processo di dare un nome e reclamare il corpo femminile, i suoi cicli e i suoi processi”.

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donna derivano da nomi della Dea, come tutte le donne, senza eccezione, sono espressione della Madre – manifestazione sulla Terra della Dea (Goddess-on-Earth Manifest)74.

La base teorica è il ‘mito’ più volte esposto di un originario matriarcato e culto della dea, che Starhawk coniuga con tematiche naturalistiche ed ecologiche: 35.000 anni fa, ai primordi dell’umanità, la dea era la “Signora dei Mammuth” e le streghe erano sciamane in sintonia perfetta con la vita che da essa fluiva; poi, col passaggio da una economia di caccia e raccolta a una di agricoltura, la “Signora dei Mammuth” sarebbe divenuta nell’epoca neolitica la “Madre dell’orzo”, e messa in stretta connessione con il ciclo del raccolto. Col passaggio a un modello patriarcale – di cui Starhawk trova testimonianza anche nel mutamento delle narrazioni mitologiche: dal mito di Inanna e Dumuzi a quello di Gilgamesh, ad esempio – la religione della dea è costretta alla clandestinità, e soppressa ogni qualvolta le strutture di dominio patriarcali la scorgevano riaffiorare in superficie. Anche per Starhawk l’apice di queste violenze fu la caccia alle streghe: La storia della civiltà patriarcale potrebbe essere intesa come lo sforzo complessivo di rompere quel legame, di inserire un cuneo fra spirito e carne, cultura e natura, uomo e donna. Una delle più importanti battaglie di quella lunga guerra di conquista venne combattuta nel XVI e XVII secolo, quando la persecuzione delle streghe distrusse il legame dei contadini con la terra, impedì alle donne di continuare a praticare le arti mediche, e impose una visione meccanicistica del mondo, ora considerato una macchina inerte. Quella rottura costituisce le fondamenta della concomitante oppressione di razza, sesso, classe e distruzione ecologica. L’Arte sopravvisse, tuttavia, segretamente, silenziosamente, clandestinamente, in piccoli gruppi chiamati coven i cui membri erano legati da vincoli di sangue o di profonda fiducia. Il suo riaffiorare in questo secolo è legato alla crescente consapevolezza di molti che l’inerte mondo meccanico, il mondo

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Budapest 1989b: 283.

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del predominio, non può sostenere la nostra vita interiore, né la nostra vita in comunione l’uno con l’altro, e neppure la vita del pianeta75.

La tesi di Starhawk viene ribadita da Z. Budapest, che descrive le religioni dell’Europa pre- (o extra-)cristiana come religioni di fertilità centrare sulla dea, obbligata a nascondersi per non estinguersi: Come i nativi americani, i nativi europei non riuscivano a capire un Grande Spirito che imponesse di divenirne seguace, o che questo Grande Spirito dal Medio Oriente fosse crudele, possessivo e geloso. Questi attributi non erano divini; erano qualità proprie alle concezioni imperialistiche di chi guidava la Chiesa. Così i contadini reagirono nascondendosi, praticando la loro Arte nei giorni sacri alla natura, e andando in chiesa la domenica mattina. Ma poi venne l’enorme, e granitico, potere della Chiesa e dello stato. In questo periodo, che durò dall’XI al XVII secolo, la Chiesa ebbe poteri statali. La gerarchia cristiana poteva arrestare e torturare chiunque per estorcergli ‘confessioni’. Spesso gli obiettivi erano i contadini, la cui terra faceva gola alla Chiesa. Sono i tempi noti come ‘l’epoca dei roghi’; agli sciamani fu dato il nome di strega, e la loro devozione per la natura fu detta satanismo. […]. Nove milioni di uomini, donne e bambini furono bruciati vivi in Europa per eliminare dalla terra le ultime vestigia delle religioni naturali e appropriarsi dei beni degli accusati76.

Ritroviamo tematiche già presenti in Mother Earth: il rigetto del mondo artificiale della tecnologia a favore della spontaneità della natura, e soprattutto l’individuazione del nemico principale nel cristianesimo, 75

Starhawk 1988: xxvi-xxvii. 76 Budapest 1989b: 238-239. Come di consueto, esiste una ‘guerra dei numeri’. La cifra di nove milioni è quella più frequentemente riportata nei testi delle femministe, ma nessun studioso è mai riuscito a individuare la sua ‘sorgente prima’: a un certo punto è stato scritto che il numero dei morti era nove milioni, e da allora il numero è stato continuamente ribadito. L’ipotesi più comunemente accreditata individua in M. J. Gage la prima autrice a riportare quella cifra (cfr. Gage 1980: 106-107). Gli storici propongono una cifra più conservativa: furono 100.000 le persone uccise per stregoneria, due terzi delle quali donne.

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accusato di aver ereditato la mentalità e la pratica repressiva degli indoeuropei e dei semiti nei confronti della realtà femminile del divino, che si manifestava originariamente nella natura e nel sistema matriarcale. Non è forse vero che il cristianesimo ha occultato la verità del ‘divino’ femminile sia teoricamente (ad esempio: rappresentandolo con la sottomessa Vergine Maria piuttosto che con la libera Maddalena, non casualmente santificando la prima e denigrando la seconda come prostituta) che praticamente (ad esempio: istituendo un sacerdozio esclusivamente maschile)? A fronte di questo mondo ostile le streghe contemporanee si assumono il compito di ricondurre l’umanità alla verità della natura, come appunto aveva fatto anche Mother Earth. Il ‘mito’ più volte ricordato è funzionale a questo progetto, come ben espresso dalle parole di Starhawk: Questa antica civiltà era un mosaico di culture di villaggio di tipo più o meno egualitario, pacifico e creativo. L’agricoltura, la ceramica, l’architettura, la scrittura e la matematica nacquero tutte in questo periodo. L’immaginario religioso si focalizzava sui cicli della vita e della morte, sul cibo, la fertilità, e la sessualità come immagini del sacro. Gli archeologi possono dissentire da questa rappresentazione, ma per le attuali devote della Dea ciò che importa è che presenta un modello di società cooperativa, pacifica e innovativa nascosto alle radici della cultura europea. Sapendo che società del genere sono possibili, non siamo costretti ad accettare come inevitabili la guerra e il predominio77.

Le parole di Starhawk chiariscono in che senso il ‘mito’ diviene un dogma politico: una narrazione costruita a tavolino diviene un ‘mito di fondazione’ funzionale a giustificare una lotta ideologica. Il ‘mito’ non è solo la sterile e retorica esaltazione di un passato in cui la religione favoriva la donna=natura, ma uno sprone all’azione perché quel luminoso passato si renda nuovamente presente, e cessi la subordinazione delle donne. In un’analisi storico-religiosa, infatti, non possiamo trascurare il fatto che ogni movimento ha bisogno di un suo ‘mito di fondazione’, 77

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Starhawk 1997: 10. Corsivo mio.

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indifferente a qualsiasi prova storica, proprio perché attraverso il mito si riesce a dare senso al reale: le cose sono così come sono (cioè, il dominio è dei maschi) a causa di un ‘evento’ originario (l’arrivo del sistema patriarcale col suo dio) e la conseguente ‘caduta’ dal perfetto stato femminile (matriarcale, con la sua dea). Il ‘mito’ diviene così una ‘contro-ideologia’, o perlomeno una fase preliminare che serve a coagulare una protesta e rendere capaci le donne di cogliere le radici della propria situazione di sottomissione, ossia il patriarcato e il dominio degli uomini. Si prenda questa affermazione di Starhawk: Il dominio del maschio, il razzismo, lo sfruttamento economico, la guerra, il controllo centralizzato, l’eterosessimo, la persecuzione religiosa, il predominio dell’uomo sulla natura e sugli animali, guidano tutti la macchina che ci sta portando dove nessuno vuole andare. Per cambiare direzione, o meglio, per smantellare tutta la macchina, dobbiamo riconoscere che il sistema non si limita ad agire su di noi – ci forma e agisce dentro di noi. Il patriarcato ci ha creato a sua immagine78.

Lo strumento con cui avviene questa presa di coscienza politica è la religione, ossia il ‘mito’ più volte ribadito che ora, coniugato grazie al new age in Gaia, permette un processo di re-incantamento del mondo tramite la creazione immaginifica di un passato bello e idilliaco. Questo è testimoniato anche da moltissima letteratura Fantasy, in particolare dal romanzo The Mists of Avalon (1982) di Marion Z. Bradley (m. 1999)79. Le nebbie di Avalon, come il titolo è stato tradotto in italiano, ruota attorno ai tentativi della protagonista, la fata (non strega) Morgana, di salvare la sua cultura 78

Starhawk 1987: 67. 79 Potremmo fare riferimento anche ad un altro genere di letteratura Fantasy, che fa leva sulla preistoria: è il caso della saga Earth’s Children di Jeanne Auel, ambientata in un periodo in cui l’autrice fra convivere uomini di cro-magnon – come lo è Ayla, la giovane orfana protagonista del primo dei libri della serie The Clan of the Cave Bear (1980) – e uomini di Neanderthal, che sono quelli che l’adottano; fra i gruppi che circonda il clan vi sono quelli che venerano la Grande Madre Terra.

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matriarcale celtica dai tentativi del cristianesimo patriarcale di distruggere le antiche vie pagane: “non ho alcun problema con il Cristo, solo con i suoi preti, che chiamano la Grande Dea un demonio, e negano che essa abbia mai avuto potere in questo mondo”80. Ciò avviene in particolare tramite la magia, vista come un mezzo per raccogliere e utilizzare le energie della natura (e non quelle spirituali!). Morgana – che è stata istruita sull’isola di Avalon, cuore della devozione alla dea – assiste quotidianamente alle tensioni fra i rappresentanti dell’antico culto pagano e quelli del nuovo culto cristiano. Quando la moglie di Artù non riesce a dargli un figlio, il re inizia a credere che ciò sia una punizione del dio cristiano per aver permesso la sopravvivenza del paganesimo nel suo regno, e di conseguenza diviene un fanatico cristiano, costringendo così Avalon – e con l’isola il culto della dea – a ritirarsi dietro nebbie impenetrabili. Proprio per tutto questo spazio dato alla fantasia non è casuale, allora, che Starhawk definisca la Wicca “una religione di poesia”81 e che – sulla linea di Mother Earth, pur senza la stessa radicalità -, essa divenga il modo per contrastare un freddo mondo meccanico di macchine e computer. La possibile deriva di un neopaganesimo interpretato con tale chiave di lettura è che esso si riduca appunto solo a un movimento che cerca di re-incantare attraverso la letteratura, l’arte, i rituali, un mondo dominato dalla scienza e dalla tecnologia, senza riuscire ad essere effettivamente un movimento inteso a generare una vera e propria rivoluzione di valori per sostituire al dominio del maschio e del dio quello della femmina e della dea. E infatti, proprio come testimoniato dal successo della letteratura Fantasy connessa a queste tematiche, il pericolo è che tutto ciò, alla fine, si traduca in una fuga dalla storia, ‘tradendo’ così il forte attivismo politico della prima ondata di femministe che, invece, non si erano fatte incantare dalla ‘sirena’ di applicare un discorso religioso alla loro lotta politica.

80

Bradley 1984: ix. 81 Starhawk 1989: 22.

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Pretese politiche e valvole di sfogo spirituali Alla luce di quanto finora esposto, potremmo dire che il ‘mito’ in questione non ha tanto una dimensione verticale (connettere in maniera trascendente con la dea) quanto orizzontale: diviene lo strumento con cui si vuole riproporre un ordine sociale radicalmente diverso da quello esistente, ossia dare forma a un desiderio di cambiamento sociopolitico che – pur senza assumere la radicalità della proposta di Mother Earth e degli Earth People – è in grado di capovolgere un sistema strutturato attorno al principio ‘cristiano’ del dominio sulle donne. La religione della dea diviene così una strategia politica con cui reclamare il passato e riportarlo in vita: mostrando tramite i rituali quel passato di armonia con la natura si rende allo stesso tempo più evidente ciò che si è perso e la tragica situazione attuale, e si aumenta così il desiderio di recuperare – anzi, ricostruire – una situazione in cui le donne erano al centro della struttura sociale. Non si tratta allora solo di dire che la ‘tradizione’ del divino femminile è sopravvissuta nei coven, ma anche che la sua perpetuazione nel presente manifesta la creazione di uno spazio sociale in cui le donne – attraverso il processo di mitopoiesi e di ritualità con cui si identificano con le antiche adoratrici della dea – manifestano la volontà di estendere a tutta la società l’ordine sociale al femminile presente nel coven. Di fatto, un progetto che sembrerebbe utilizzare la religione come sostituto della politica per attuare tramite un discorso religioso una trasformazione sociale, in realtà si concretizza in un processo di autoemarginazione delle donne: queste, ritirandosi nei coven, in ultima analisi non fanno altro che auto-escludersi dai veri e propri centri decisionali di potere, e così facendo rafforzano lo stereotipo donna/natura/spiritualità che le separa dall’altro stereotipo uomo/cultura/politica. Cioè a dire: l’isolamento dei coven non fa altro che rinvigorire il sistema patriarcale, in quanto permette alle pretese politiche delle donne (una società non più dominata dal maschio) di avere una valvola di sfogo spirituale – e non politica! –, in tal modo non intaccando la più vasta struttura socio155

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politica che si trova al di fuori dei coven, i quali diventano così lo spazio in cui è possibile fuggire dal dominio maschile e patriarcale rappresentato dal dio unico del monoteismo, ma non uno spazio da cui partire per cambiare il mondo. Nonostante i proclami e i volantini delle streghe contemporanee, verrebbe da dire, la vera incisività politica è stata quella delle suffragette di inizio XX secolo, che almeno rischiavano qualcosa nel momento in cui cercavano di trasformare la condizione della donna. Paradossalmente, se la prima ondata di femministe aveva effettivamente iniziato a ribaltare gli stereotipi vittoriani e cristiani cui era costretta la donna dell’epoca, i coven contemporanei rischiano invece di consolidare la visione tradizionale per cui è bene che la donna se ne stia in disparte, in un angolo, a sfogare la sua irrazionalità in strane cerimonie, senza pretendere di entrare nella società, razionale, dominata dai maschi. In questo modo il ‘mito’ non raggiunge nemmeno lo status di ‘utopia’ in grado di scardinare il sistema sociale esistente, ma si ferma al livello di una ideologia che contrariamente alle apparenze serve a mantenere lo status quo: se quel ‘mito’ è stato una creazione moderna che aveva ai primordi vittoriani una funzionalità di riscatto – e la ebbe perché l’esaltazione della dea era secondaria rispetto a quella del matriarcato: la questione religiosa era subordinata a quella di rivendicazione politica – aver messo, a partire dagli anni Settanta, al primo posto l’esaltazione della dea e solo secondariamente il valore del matriarcato – quindi, prima la tematica religiosa e poi quella sociale – ha determinato un corrispettivo trasferimento di interesse da una tematica storica (il matriarcato come risposta al patriarcato oppressivo) a una tematica religiosa (la dea come risposta al dio), in questo modo dissolvendo la forza politica prima insita nella funzionalità del ‘mito’. Non è casuale che le ecofemministe più combattive – spesso autrici cristiane influenzate dalla teologia della liberazione – critichino questo auto-ghettizzarsi delle donne, che non ha nulla a che vedere con, ad esempio, il radicale isolamento di Mother Earth basato su una precisa scelta controcorrente, ossia un qualcosa che non si limita a un estemporaneo incontro fra donne nel fine-settimana per una celebrazione 156

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neopagana nei boschi. La Rosemary Reuther mette in luce proprio il fatto che il ‘mito’ femminista del matriarcato e della dea originaria, riattualizzato nei coven, non agisce sulle cause reali della sottomissione delle donne: non agisce, aggiungiamo noi, su quelle strutture sociali, politiche, economiche che permettono e giustificano tale sottomissione. Se proprio vogliamo avere un ‘mito di fondazione’, suggerisce la Reuther, perché non utilizzarlo per capire che cosa è andato storto? Quale fu il vero peccato originale, la debolezza intrinseca del matriarcato e del culto della dea che ne permise la facile sostituzione col patriarcato e il culto del dio? Solo se individuiamo quel punto debole che permise il dominio dell’uomo è possibile per le donne d’oggi non commettere lo stesso errore82. A ciò la Reuther aggiunge un’altra critica: come si può pretendere che l’equazione donna/natura/spiritualità sia un valido movente per gli uomini per agire a favore dell’ambiente o cambiare strutture sociali ingiuste? Non bisognerebbe forse trovare un modello differente, più basato sull’uguaglianza fra i sessi che non sull’antagonismo fra donna e uomo, fra dea e dio? In altre parole: la connessione wicca fra donna, spiritualità e natura non fa altro che ritagliare uno spazio marginale entro il più vasto contesto sociale senza riuscire a scalfirlo minimamente, anzi: le donne che vi partecipano finiscono per essere considerate ‘pazze’, ‘originali’, ‘esotiche’ o peggio, e in tal modo delegittimate insieme alle loro richieste. L’isolamento, alla fine, produce delegittimazione. Anzi, il fatto che questi movimenti, per connettere la spiritualità femminile alla natura, sottolineino in modo particolare il valore dell’intuizione sopra il ragionamento, e ‘della conoscenza corporale’ su quella intellettuale, non gioca certo a favore di progetti politici di più ampio respiro: l’importante – dicono – è l’intuizione e ciò che si prova (to feel), e diventa secondario il fatto che ci siano o no delle prove storiche, testuali o archeologiche, a sostegno della propria tesi83. Le donne – sostengono le rappresentanti di

82

Cfr. Reuther 1992: 171. 83 Cfr. Budapest 1989b: 4; Starhawk 1989: 22.

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questi movimenti – sono associate alla natura, al corpo e alle emozioni, in questo modo fornendo munizioni a coloro che, in linea con una ideologia patriarcale, vogliono escluderle dalla partecipazione alla società e alla politica proprio in virtù di queste caratterizzazioni: come affidare a creature irrazionali, guidate dai sentimenti e dalle emozioni, la guida e la trasformazione della società? Se dunque attraverso l’esaltazione del femminile e della natura si attua un processo di colonizzazione simbolica della storia passata (soprattutto della preistoria) in modo che tale territorio possa essere utilizzato nel presente, questo viene tuttavia privato della sua drammaticità, complessità e ambiguità. La nostra critica non si rivolge allora al processo di re-incantamento del mondo, alla volontà di restituire poesia a una realtà divenuta fredda e informatizzata, ma al fatto che questo re-incantamento non comporti poi un ‘ritorno’ sotto forma di una filosofia d’azione che sia in grado di cambiare il mondo, ma fornisca solo una giustificazione religiosa per bearsi nella pace e nell’evasione fornite dai coven, un escapismo giustificato da un passato idealizzato tramite il ‘mito’. Se l’ideologia (o contro-ideologia) espressa dal ‘mito’ può essere funzionale a creare la coesione fra le donne che appartengono al medesimo gruppo, essa diventa inefficace nel momento in cui si cerca di applicarla al di fuori. Cioè a dire: se la religione della dea-natura diviene funzionale a creare un legame ideologico, sotto forma di legame religioso, fra donne che si sentono oppresse dalla realtà patriarcale, la nostra obiezione è che tale legame non ha poi alcuna funzionalità politica esterna al gruppo: quale differenza fra la coesione di un gruppo di donne che vanno insieme a fare shopping il fine settimana, e un gruppo di donne che si riuniscono in un coven in mezzo al bosco per riattualizzare arcaici rituali della dea? In entrambi i casi non si viene a intaccare il sistema patriarcale e androcentrico considerato fonte di ogni male, anzi, l’auto-marginalizzazione ha l’effetto opposto: il modello patriarcale e androcentrico si rafforza proprio perché gli eventuali elementi di ‘disturbo’ se ne vanno dalla società per starsene buone buone in un angolo del bosco a invocare la dea. 158

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La fuga dalla storia? Il titolo di questo saggio è volutamente Da Madre Terra a Gaia, preferito a quelle che potevano essere più generiche intitolazioni del tipo “Donne e natura”, proprio perché fin dall’inizio si è voluto precisare che la nostra interpretazione dei fenomeni presi in esame fa riferimento a una idea di natura e Madre Terra mediata dalle contemporanee elaborazioni sul concetto di Gaia. Pur senza ritenere che l’ipotesi Gaia sia da riconoscersi “come una delle più importanti discontinuità nel pensiero umano”84, è un dato di fatto che essa è ormai divenuta la categoria con cui si analizzano tutti i movimenti connessi alla natura, compresi quelli – come Feraferia e gli Earth People di Mother Earth – sorti prima che il termine divenisse di uso corrente negli anni Ottanta del XX secolo grazie alla sua appropriazione da parte del new age. Certo, sarebbe riduttivo ricondurre Mother Earth e gli Earth People alla spiritualità new age, e disegnare la parabola del movimento come un progressivo incanalarsi verso quelle tematiche naturaliste ed ecologiste che caratterizzano la Nuova Era. Da un lato abbiamo visto che – benché non si possano provare influenze dirette di Wicca e Neopaganesimo sugli insegnamenti di Mother Earth -, l’atmosfera nella quale il movimento è cresciuto è stata certamente quella: una esaltazione della dea, e più in generale di una divinità femminile connessa alla natura. Dall’altro però abbiamo potuto notare che il contesto nel quale si inserisce l’insegnamento di Jeannette è più vasto e complesso: non assume i contorni di un evasionistico movimento spirituale neopagano, ma quelli ben più definiti di una rivendicazione sociale e politica a favore delle donne: la religione diviene lo strumento sostitutivo della politica, laddove per una ragione o per l’altra è impedita la possibilità di esprimere le proprie rivendicazioni con un discorso politico.

84

Thomas 1990: xi.

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In tutte quelle realtà in cui le donne non sono riuscite a esprimere le proprie esigenze tramite un vero attivismo politico hanno rispolverato la perenne Madre Terra e tutto il connesso ‘mito’ della dea che dalla lontana preistoria arriva al presente in maniera sotterranea, superando l’oppressivo sistema patriarcale, giungendo infine a presentarla nella più recente veste di Gaia. Dove la piazza o altri mezzi di rivendicazione delle proprie esigenze non sono ritenuti più efficaci, le tematiche politiche possono trasformarsi in tematiche religiose, trovando uno spazio legittimo e tutto sommato accettato dalla società. Abbiamo visto come questo processo sia stato debole, se non assente del tutto, in quei movimenti neopagani – come Feraferia – che esprimevano una complementarietà fra maschile e femminile: pur puntando decisamente sulla celebrazione di una divinità femminile, la ‘Fanciulla Magica’, individuare il culmine spirituale nell’unione di Kore e Kourus veniva in un certo senso a ‘stemperare’ le richieste del femminile contro il maschile: non è necessario ribaltare il patriarcato per sostituirlo col matriarcato, o cacciare il dio per sostituirlo con la dea: la complementarietà e la cooperazione fra maschile e femminile sono possibili, per cui il modello che si propone non è quello di richieste politiche mascherate da richieste religiose, ma quello utopico di riproposizione di una comunità vegetariana in cui uomini e donne vadano d’accordo, come espresso dalla nudità aproblematica nelle loro celebrazioni. Anzi, la scelta di una divinità femminile che non si presenti in forme ‘aggressive’ come potrebbero esserlo quelle di una dea matura, ma nelle forme puberali di Kore, della civettuola preadolescente, mostra propria la precisa volontà di cercare uno spazio non conflittuale ma di gioiosa e apolitica testimonianza di una utopia di cooperazione fra uomini e donne. All’opposto, dove si proponeva una netta contrapposizione fra dio e dea, ovvero in quei casi in cui abbiamo individuato la sostituzione di un monoteismo maschile e patriarcale con un monoteismo femminile e matriarcale, si è parallelamente estremizzata l’opposizione fra maschile e femminile. La conseguenza non è stata però una lotta irriducibile in campo aperto, ma la trasformazione della battaglia politica in una controideologia di fuga dalla realtà e dalla politica. In quest’ottica, il passaggio 160

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da Madre Terra a Gaia in molte elaborazioni spirituali di ecofemministe e neopagane sembrerebbe indicare un raffreddamento della conflittualità politica: se Madre Terra è colei che provvede alla fertilità dei campi ma anche alla devastazione di monsoni e tsunami, Gaia è colei che invece cerca di risolvere gli squilibri con il minimo di conflitto possibile; se Madre Terra è l’espressione di una realtà a cui tutto fa riferimento, Gaia è l’espressione di una molteplicità di realtà che insieme collaborano per la risoluzione dei problemi. Questo raffreddamento della conflittualità politica ha avuto però almeno due aspetti positivi: anzitutto, se non è stato in grado di produrre un ribaltamento del rapporto uomo-donna in epoca contemporanea, il ‘mito’ è stato comunque capace di relativizzare enormemente le relazioni di potere fra i sessi, in quanto il predominio dell’uomo è stato contestualizzato a un preciso periodo storico: non è più la norma assoluta di ogni strutturazione sociale (magari giustificata biologicamente: l’uomo è più forte della donna); anzi, il periodo di predominio dell’uomo è temporalmente inferiore a quello della donna: poche migliaia di anni di storia contro le decine di migliaia della preistoria, e ciò non può che indurre fiducia per future prospettive di cambiamento sociale. Un altro aspetto positivo è che la diminuita conflittualità ha permesso una lettura meno radicale del femminismo e una visione più obiettiva della preistoria e della storia: non esiste una connessione diretta fra culto della dea e una migliore situazione per la donna. La Ruether ad esempio rileva che la venerazione di Ishtar nelle culture della Mezzaluna Fertile era praticata soprattutto da uomini e che più che servire alle donne era funzionale alla legittimazione del sistema patriarcale, al punto che la studiosa afferma che la venerazione della dea in quell’area geografica era la manifestazione di “una religione fondamentalmente interessata a tenere i re del Medio Oriente sul trono delle loro città stato”85. Allo stesso modo, A. Ross fa notare che la presenza di una dea non necessariamente corrisponde a una 85

Ruether 1980: 843.

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struttura sociale favorevole alle donne o più genericamente pacifica: la schiavitù era praticata nell’Egitto che venerava Iside, e nella Creta Minoica – considerata l’ultimo luogo di sopravvivenza dell’antica religione della dea – si compivano sacrifici umani86. Alla luce di queste, e altre osservazioni simili, si comprende come non siano mancate studiose che si siano chieste quanto potesse essere veramente efficace un progetto femminista che pretende di ‘annullare’ la storia di migliaia di anni per ritornare alla preistoria della dea madre: non si finisce, in questo modo, per consolidare stereotipi femminili già affermati? Janet Biehl, nel classico Rethinking Ecofeminist Politics (1991), mette in luce proprio questo pericolo, affermando che continuare a ragionare in questi termini, e soprattutto a esaltare la connessione fra donna e natura, non fa altro che dare ragione ai consueti luoghi comuni maschili concernenti la donna. Biehl non ha paura a caratterizzare l’irrazionalità presente in molto ecofemminismo come “imbarazzante”: più che favorire la causa delle donne ha fatto fare passi indietro rispetto alle ben più radicali conquiste delle prime femministe che erano impegnate nella storia e non certo in evasioni settimanali nella natura o in esaltazioni di un inesistente passato preistorico. Biehl afferma che per una donna essere razionale significa anzitutto rigettare il manicheismo per cui tutto ciò che è stato prodotto da millenni di cultura androcentrica è da buttare: Come donna e femminista, io do molto valore alle mie capacità razionali e cerco di ampliare tutta la gamma delle facoltà della donna. Non intendo rifiutare i validi risultati della cultura occidentale solo per il fatto di essere prodotti soprattutto da uomini… Non possiamo gettar via millenni di complessi sviluppi sociali, filosofici e politici di quella cultura – ivi inclusa la democrazia e il raziocinio – a motivo dei molti soprusi ad essa connessi87.

86

Cfr. Ross 1992. 87 Biehl 1991: 7.

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La trasformazione di Madre Terra in Gaia, ovverosia l’ingresso di tematiche new age entro una visione spirituale femminile della natura, ha invece prodotto una giustificazione spirituale per un processo destorificante: il dio patriarcale del giudeo-cristianesimo – il grande nemico di Mother Earth, delle neopagane e delle ecofemministe – è per definizione un dio che interviene nella storia; la dea delle ‘femministe’ invece, soprattutto quando questa è intesa come Gaia, non interviene nella storia. Anzi: la connessione con la natura mette in luce uno schema eliadiano di religioni storiche / religioni cosmiche, per cui vi è effettivamente da chiedersi quanto l’esaltazione di una ‘dea oziosa’, che parla solamente attraverso i cicli della natura, con la quale la donna si deve armonizzare sintonizzandosi su quei cicli, sia davvero efficace come progetto politico. Quanto, per dirla in altri termini, una strategia di questo tipo che crea una atemporale oasi matriarcale e femminista – non solo teoricamente, ma anche realmente come nel caso degli Earth People di Hell Valley – può essere efficace nella storia dominata dal maschio? Alla fine, più che favorire un reale ingresso nella storia, il meccanismo di sostituzione della politica con la religione sembra favorire una radicalizzazione della distinzione fra ‘sacro’ e ‘profano’, per cui è possibile incontrare la dea, o Gaia, solo nella sacralità della natura o dei coven delle streghe, ma non nel mondo profano della storia, che è il pieno dominio del maschio e del dio patriarcale. E così la religione non può più dire nulla nella politica. Di fatto, se la prima ondata delle femministe puntava su un discorso prettamente sociale (l’esaltazione del matriarcato), la seconda ondata si è spiritualizzata prima attraverso la ripresa del politeismo e poi con il new age e Gaia, e tutte le volte che ha guardato al passato, alla fine ha cercato quasi esclusivamente in un discorso religioso, e non politico, la giustificazione delle proprie pretese: si prenda come esemplificativo di tutto ciò il proclama che Andreé Collard fa verso la fine del celebre libro Rape of the Wild (1988): Storicamente, il nostro destino di donne e il destino della natura sono inseparabili. Ebbe inizio in seno a società che veneravano la dea terra, e celebravano il 163

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potere di dare e mantenere la vita proprio delle donne e della natura, e persiste a dispetto della brutale negazione e violazione nel presente. Le donne devono ricordare e reclamare i propri poteri biofiliaci (biophilic). Attingendo ad essi, dobbiamo operare le scelte che affermano e favoriscono la vita, traendo via il futuro dal nulla dei padri e conducendolo verso quel qualcosa che è nostro – su questo pianeta – adesso88.

Non solo il principio del destino della donna è correlato alla natura, ma è pure messo in relazione con la dea: è religiosamente giustificato. Un processo di giustificazione che continua nella storia con il recupero di immagini religiose e non politiche: Isis, Ishtar, Demetra, Magna Mater, e più in generale le protagoniste dei rituali folkloristici di pagani e contadini. Questa ricerca della giustificazione delle donne in uno spazio sacrale, e non politico, è ribadita da M. Adler, che scrive È essenziale recuperare dalle rovine, creare, sognare ancora, e restaurare il potere delle migliaia di antiche dee che davano forma a una moltitudine di antiche culture. Queste potenti figure sono modelli del nostro proprio divenire. Nella misura in cui comprendiamo la loro forza, possiamo più facilmente reclamarla come nostra89.

Al di là del proclama entusiasta di Adler, la storia ha mostrato qual è stato lo sbocco ultimo di queste proposte: mascherare legittime richieste politiche in richieste religiose, utilizzando chiavi di lettura neopagane e new age, alla fine ha portato alla emarginazione delle donne. Ora non si tratta più di dare realmente battaglia a un sistema oppressivo androcentrico e patriarcale – come cinematograficamente rappresentato dai roghi di uomini in fantocci di vimini – ma, come Morgana, di rifugiarsi ad Avalon, separandosi dalla storia grazie a nebbie ai più impenetrabili. La natura è il grembo che accoglie e consola le donne mentre fuori, nella storia, infuria la lotta alla quale si sono sottratte sia le Wiccan – che si 88

Collard 1988: 168. 89 Adler 1986: 228-229.

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ritrovano in luoghi selvaggi a celebrare la dea – sia Mother Earth e gli Earth People, ritiratisi in un luogo remoto dell’isola di Trinidad: progetti che volevano cambiare la storia alla fine si sono tramutati in una fuga dalla storia.

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regina d’africa

Franco Pignotti REGINA D’AFRICA La profetessa Alice Lenshina e la Chiesa Lumpa dello Zambia

Da quanto ho potuto appurare con la ricerca bibliografica da me condotta, in Italia non esiste alcuna pubblicazione che parli della profetessa Alice Lenshina, né del movimento religioso – la Chiesa Lumpa – da lei fondato nello Zambia. Unica eccezione, e non poteva essere altrimenti, è Vittorio Lanternari, che, in Occidente e Terzo Mondo, libro del 1967, dedica alcune paginette alle vicende della Lenshina che nel frattempo, al momento dell’indipendenza nel 1964, si erano già concluse in un bagno di sangue1. Data invece l’ampiezza degli studi in lingua francese e inglese dedicati a questo movimento, non posso che sottolineare le affermazioni di Danila Visca nella nota introduttiva ad un suo libro, dove lamenta la povertà dell’editoria italiana per tutto ciò che riguarda la storia africana2. Dal recente saggio di David M. Gordon (agosto 2008)3 e da una elementare ricerca da me compiuta su alcuni quotidiani zambiani4, si evince che la Chiesa Lumpa, messa al bando dal presidente K. Kaunda nel 1964, è tuttora viva e vitale: una realtà socio-religiosa formata da povera gente di rientro da un lungo esilio, dove ha vissuto per decenni una vita ai margini della società. Il loro sogno è compiere un contro-esodo, tornare a Sion, il loro villaggio sacro, dove peraltro ogni anno, nel mese 1

Lanternari 1967: 208-211. 2 Visca 2004: 9-10. 3 Gordon 2008: 45-76. 4 Tembo 2006; Kalaluka 2008

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di luglio, chi può fa un pellegrinaggio alla tomba della profetessa e sulla terra bagnata dal sangue dei martiri, parenti e correligionari, al tempo del massacro. Si tratta dunque non semplicemente di una ‘storia’, indagabile con il mero metodo storiografico, ma di una storia che mette in gioco idee, concetti, categorie – esodo, Sion, villaggio sacro, pellegrinaggio, profetessa, martiri – che appartengono alla sfera della ‘religione’. Quale storia si cela dietro quest’odierna piccola chiesa africana, peraltro non registrata in alcun elenco di AIC (African Indipendent Churches), che sta vivendo in questi anni il proprio controesodo? Occorrerà tornare indietro di oltre mezzo secolo, al tempo in cui stava maturando, in molti paesi dell’Africa nera, la lotta per la liberazione dal giogo del colonialismo europeo. E’ la storia della ‘profetessa’ Alice Lenshina e del movimento da lei suscitato; una storia in cui ‘religione’ e ‘politica’ sono radicalmente interconnesse – come in tutte le culture ‘tradizionali’ precedentemente all’impatto con l’occidente cristiano –, e il cui ‘separarsi’ a seguito di questo impatto a volte ha generato, come qui, una conflittualità mortale. Queste vicende hanno dunque bisogno di una indagine storico-religiosa.

Il contesto Il quadro storico-antropologico Il teatro principale della vicenda di Alice Lenshina è il grande altopiano nel nord dello Zambia, abitato da popolazioni che parlano la lingua bemba5 ed esteso grosso modo quanto le regioni del nord Italia. Su questo territorio dominava la potente etnia dei Bemba, proveniente 5

Nel testo userò indifferentemente il termine ‘bemba’ come fanno la maggior parte degli autori, ma per essere precisi dovremmo usare il termine lubemba quando parliamo del territorio, babemba quando parliamo delle persone, e cibemba quando parliamo della lingua. In realtà bemba senza alcun prefisso significa semplicemente ‘lago’.

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dall’originario territorio congolese del Kasai, la cui casa reale, i Bena Ngandu (Figli del Coccodrillo), aveva istituito un forte sistema centralizzato su tutte le popolazioni della regione, sia quelle di provenienza anch’esse congolese (Bisa, Lunda, Lamba, Lala), sia quelle già presenti da tempo immemorabile sul territorio, i Bashimatongwa6. I Bena Ngandu avevano raggiunto il massimo del loro potere verso la metà del XIX secolo, con l’arrivo dei mercanti arabi, che portavano fucili in cambio di avorio e schiavi. Una delle attività più lucrose dei capi di quest’etnia era, infatti, la razzia, condotta ai danni delle tribù vicine, per procurarsi tal genere di merce di scambio. Con l’arrivo in zona della British South African Company (BSAC), che nel 18997 aveva messo fine al potere di questa etnia, la conquista militare dei Bemba si fermò immediatamente. Tutte le popolazioni dell’altopiano avevano comunque caratteristiche comuni: oltre alla lingua – che pur nei suoi vari dialetti era quella bemba –, avevano in comune l’organizzazione matrilineare e matrilocale della società, laddove tutte le popolazioni confinanti, in genere provenienti dal sud, erano patrilineari e patrilocali.

Il quadro religioso-politico-economico Le credenze religiose dei Bemba erano centrate sul sistema politico tradizionale8. I Bemba vivevano in villaggi di un centinaio di persone sotto l’autorità immediata di un capovillaggio. Al di sopra del livello del

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Il termine bashimatongwa significa ‘aborigeni’ e denota genericamente le popolazioni formatesi dalla integrazione fra le prime migrazioni bantu e le popolazioni boscimani precedentemente insediate. 7 Il colonialismo qui arriva pertanto non come conquista da parte della Corona Inglese, ma sotto forma di appropriazione da parte di una ‘impresa privata’, la BSAC appunto, in seguito alla fortunata spedizione che assicura a Cecil Rhodes il potere sull’immenso territorio costituito oggi dal Malawi, dallo Zimbabwe e dallo Zambia. Roberts 1976: 165. 8 Richards 1969: 351-380.

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villaggio c’era una rete di capi territoriali9 soggetti a un capo supremo, il Chitimukulu. Questo capo supremo, e in grado minore gli altri grandi capi, potrebbero essere definiti ‘re divini’ in quanto la loro purità rituale e salute fisica erano ritenute avere un effetto immediato sulla fertilità della terra, del bestiame e della gente. Soprattutto, solo essi potevano ottenere la benedizione dei propri antenati, i mipashi, gli spiriti dei grandi capi del passato, sulla loro terra e sul loro popolo. I Bemba riconoscevano la presenza di un Essere creatore, Lesa, che era un tipico deus otiosus e non aveva alcun culto particolare10. C’erano tuttavia altri spiriti tutelari oltre a quelli dei capi defunti, gli ngulu, entità ctonie che erano venerate presso cascate, sorgenti, rocce, grotte, ecc. I sacrifici e i rituali potevano essere organizzati solo dai capi locali che invocavano i loro mipashi, ma gli ngulu potevano rivelarsi a chiunque in sogni, visioni o attraverso la possessione. Abbiamo qui la sovrapposizione di due forme di religione tradizionale: quella della etnia dominante bemba centrata sul culto degli antenati (mipashi) dei grandi capi, venerati nei santuari costituiti dai cimiteri reali, i cui sacerdoti erano gli stessi mfumu, cioè i capi tradizionali, e quella delle popolazioni presenti sull’altopiano prima dell’arrivo delle etnie provenienti dal Congo, i Bashimatongwa, le quali veneravano gli ngulu 9

In italiano la terminologia non riesce a ridare perfettamente la distinzione fra capo del villaggio (in inglese headman) e capo territoriale (in inglese chief ). Il capo villaggio poteva essere qualsiasi anziano che poteva contare su una grande famiglia allargata e i villaggi erano costituiti su base parentale con le donne e non gli uomini come colonne della parentela; si trattava infatti di clan sia matrilineari che matrilocali. Il capo territoriale invece è uno mfumu, in genere un membro del clan reale dei Bena Ngandu appartenenti a linee minori e laterali oppure, nel caso dei grandi capi, alla linea dinastica centrale. 10 Ovviamente Lesa, con l’arrivo dei missionari europei, sarà identificato con il Dio biblico e comincerà a ricevere il culto cristiano. Ma come scrive Ben Kakoma, docente al Dipartimento di Storia della Università di Lusaka, in occasione dell’ultimo solenne funerale tradizionale del Chitimukulu: “The Bemba have an indigenous god called Lesa who is, however, virtually of no significance at all compared to the Chitimukulu”, capo supremo e re divino dei Bemba. Kakoma 2005

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presso ‘santuari naturali’ custoditi dagli shimapepo (operatori rituali). In particolare, presso queste popolazioni di origine autoctona, erano le donne a costituire il tramite privilegiato per il rapporto con gli spiriti della natura e gli antenati familiari. Le capanne coniugali, dove avevano corso i rapporti sessuali tra marito e moglie, costituivano i veri santuari dove mettersi in contatto con gli antenati11. In ogni caso, il potere anarchico della stregoneria popolare e quello basato sulla venerazione degli spiriti degli antenati personali e degli ngulu territoriali, venivano rigorosamente controllati dal potere centrale del capo, che rappresentava il vero gran sacerdote e stregone, il solo ad avere il potere sacro per eccellenza nel campo della magia, quello dell’ordalia del veleno12. Il sistema gerarchico, dal capovillaggio ai capi territoriali fino a giungere ai grandi dignitari e allo stesso Chitimukulu, era dunque il perno della vita politica, ma anche di quella religiosa ed economica. La gente non viveva in maniera anarchica dove voleva, in questo immenso territorio largamente spopolato, ma viveva organizzata. Qualsiasi spostamento di persone e famiglie veniva regolato da ritualità e da autorizzazioni che mantenevano la persona sempre ben ancorata dentro i limiti di una comunità determinata. Una società che non capitalizzava in beni, costruiva la sua autorità sulle persone e sul loro controllo.

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Hinfelaar 1994: 53. Il simbolo principale di questa ‘religione familiare’ era “the Bored Stone”, la ‘pietra forata’. 12 L’ordalia del veleno consisteva nel far ingerire del veleno a qualcuno accusato di stregoneria, della cui colpevolezza non si era sicuri: se il malcapitato vomitava il veleno significava che era innocente, se moriva significava che era colpevole. Quando l’accusa di stregoneria era invece ritenuta sicura, il malcapitato veniva direttamente ucciso o venduto come schiavo. Buseyi Tegera 1994: 49-51.

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L’impatto violento con la cultura europea La vita e gli equilibri tradizionali vennero progressivamente sconvolti dall’arrivo degli europei: missionari, esploratori, commercianti e soprattutto amministratori coloniali. I primi ad entrare nella regione, subito dopo la morte di David Livingstone avvenuta nel 1874, furono i missionari, sia protestanti (la Free Church of Scotland) che cattolici (i Missionaires d’Afrique, comunemente chiamati Padri Bianchi). A seguire, e sulle rotte aperte dai missionari, l’amministrazione coloniale inglese (in realtà la compagnia privata di C. Rhodes, la BSAC) aveva iniziato a stabilire, a partire dal 1891, centri amministrativi strategici per contrastare l’avanzata degli altri paesi europei interessati alla regione (Belgi, Tedeschi e Portoghesi), fino a costituire ufficialmente un ‘Protettorato’ in Nyasaland (oggi Malawi) nel 1904 e in Northern Rhodesia (oggi Zambia) nel 1911. Il primo problema che si pose fu l’espropriazione delle terre dei nativi ad opera degli europei sia per costituire grandi fattorie commerciali, sia per avviare lo sfruttamento delle risorse minerarie. Il territorio bemba, sia per la mancanza di risorse minerarie che per la scarsa fertilità dei terreni, fu toccato solo marginalmente da questa espropriazione delle terre; ma le fattorie commerciali e le miniere, impiantate nei territori limitrofi, avevano bisogno di ingenti quantità di lavoratori e fu così che le popolazioni bemba diventarono il classico serbatoio di manodopera. Per ‘forzare’ la gente verso il lavoro salariato, l’amministrazione coloniale non trovò di meglio che inventarsi una tassa, la ‘tassa sulla capanna’. Giustificata in cambio della propria protezione e del mantenimento dell’ordine, in realtà questa tassa produsse la necessità di reperire denaro contante. In una economia regionale di mera sussistenza, l’unica possibilità di reperire denaro restava l’emigrazione degli uomini più validi verso le zone minerarie e l’agricoltura commerciale13. Secondo

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La Hut Tax fu introdotta nel 1901, sostituita nel 1914 da una Poll Tax, una tassa a persona. Rotberg 1965: 42.

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stime ufficiali, negli anni Cinquanta almeno il 40% dei maschi adulti viveva lontano da casa14. L’assenza di una porzione così considerevole di uomini causava difficoltà sia nella vita economica (il calo della produzione agricola, già povera di per sé) che nella vita sociale, poiché tale assenza determinava anche l’indebolimento del potere dei capi tradizionali, la cui autorità e ricchezza era basata sul lavoro offerto dai sudditi come tributo. Il ritorno periodico dei giovani adulti emigrati portava chiaramente una nuova mentalità acquisita nelle melting pot minerarie, la quale metteva in discussione l’autorità degli anziani su cui era basata tutta la struttura sociale, generando di conseguenza conflitti generazionali, perdita delle norme di condotta tradizionali e dinamiche conflittuali fra villaggio e aree urbanizzate. Accanto a questo sconvolgimento prodotto dall’introduzione forzata della nuova economia coloniale, con tutti i suoi corollari socio-politici, dobbiamo poi considerare come altro fattore primario di disturbo della tranquilla vita tradizionale la feroce rivalità immessa nella regione dalle due formazioni missionarie che si erano insediate quasi contemporaneamente nel territorio: missionari protestanti scozzesi (Livingstonia – 1881) e cattolici francesi (Mambwe – 1890). Una rivalità che ovviamente venne trasmessa, attraverso i ‘fedeli’ autoctoni conquistati all’una o all’altra versione del cristianesimo, alla popolazione stessa, che si ritrovava così divisa, in virtù dei nuovi valori alieni, nel corpo stesso delle proprie comunità parentali. Queste rivalità si estendevano poi alle stesse metodologie missionarie, basate soprattutto sulla scolarizzazione per i protestanti e sulla sacramentalizzazione per i cattolici. L’epicentro della rivalità era il territorio di Chief Nkula, uno dei principali dignitari bemba presso la cui corte, a Chinsali, nel 1905 sorse una missione presbiteriana, la missione di Lubwa, all’interno di un territorio, l’altopiano bemba, già occupato dai missionari cattolici. La risposta cattolica a questa intrusione protestante fu la fondazione della 14

Rotberg 1976: 177ss.; Calmettes 1978: 81-86.

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missione di Ilondola, nel 1934, ad appena qualche miglio di distanza. Se pensiamo poi che su questo stesso fazzoletto di terra dominato da Chief Nkula risiedeva anche il santuario centrale dei Bena Ngandu, e cioè il sacro cimitero reale dei Chitimukulu, lo Shimwalule, possiamo farci una idea di quell’alta tensione fra soggetti antichi e nuovi che finirà per innescare il fenomeno lumpa. Ci troviamo dunque di fronte a una società attraversata da crescenti difficoltà economiche dovute al generale impoverimento delle aree rurali e percorsa da inquietudini e conflitti fra uomini e donne, giovani e anziani, sudditi e capi, gente di villaggio e gente di città, scolarizzati e analfabeti, nativi ed europei, ‘pagani’ e ‘cristiani’, cattolici e protestanti. In questo contesto la credenza nel potere della magia guadagnò terreno e la stregoneria finì con il diventare contemporaneamente sia la spiegazione dei nuovi e diffusi mali, sia il rimedio contro di essi, gettando così la gente sempre di più in situazioni di insicurezza. Tanto più perché l’antico modo di controllo sulla stregoneria era stato rimosso: sotto il governo coloniale infatti, con il Witchcraft Act del 1914, fu severamente proibito accusare qualcuno di magia nera, e i capi non potevano più amministrare le ordalie del veleno, generando così nella gente l’idea sia di una protezione degli stregoni da parte delle autorità coloniali, sia dell’impossibilità di far più ricorso a quelle valvole di sfogo rappresentate appunto dalle ordalie15. Dal punto di vista religioso, all’indebolimento della funzione dei capi corrispondeva l’indebolimento della religione aristocratica e centralizzata dei mipashi; a ciò si accompagnava, però, il contemporaneo rinvigorimento della religione popolare ed anarchica degli ngulu e quindi delle possessioni da parte degli spiriti e il rinvigorimento della stregoneria sia nella forma protettiva che nella forma aggressiva16.

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Buseyi Tegera 1994: 90-177. 16 Buseyi Tegera 1994: 98 e nota 32

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Il quadro regionale dei movimenti e delle chiese indigene La profonda crisi prodotta dalla destrutturazione dell’antico mondo tradizionale ad opera del violento impatto con l’arrivo degli europei finì per generare delle ‘risposte’ tra le popolazioni autoctone: nacquero quei movimenti di ‘protesta’ caratterizzati da un universo simbolico ‘olistico’ che l’occidente ha ascritto alla ‘religione’, ma che nella sostanza implicavano una forte valenza ‘politica’. La reazione al colonialismo infatti assunse ben presto la forma della protesta religiosa. Questo è avvenuto non solo in Africa, ma nelle Americhe, in Asia e in Oceania, come è stato magistralmente dimostrato da V. Lanternari nei suoi lavori sull’argomento17: lo spazio storico-geografico dell’insorgere di questi movimenti non fu casuale, ma seguiva le mappe dell’impatto coloniale sulle società indigene. Lanternari parla di veri e propri “epicentri dei movimenti profetici africani”18. Per quanto riguarda l’Africa Centrale e Australe, quella che qui ci interessa, questi epicentri corrispondono alle mete di immigrazione delle popolazioni dell’altopiano bemba: lo Zimbabwe e le regioni minerarie del Sudafrica; la regione del Katanga in Congo e del Copperbelt in Zambia; e il Malawi19. Una prima modalità di questi movimenti era quella che partiva dalla rielaborazione in chiave africana di influssi stranieri. All’origine dei movimenti religiosi radicali della regione del Malawi, ad esempio, troviamo la predicazione fondamentalista, apocalittica ed egualitaria di Joseph Booth20, un agnostico inglese che si era accostato alla fede attraverso il protestantesimo radicale, di cui era divenuto un attivista missionario. Nelle sue peregrinazioni, sia geografiche che religiose, aveva finito per 17

Lanternari 1961, 1967, 2003 18 Lanternari 2003: 47-118. 19 Lanternari 2003: 51.73.85 20 Nel 1897 J. Booth aveva scritto un libro programmatico intitolato “Africa for the Africans” nel quale esprimeva una critica radicale al colonialismo europeo e presentava la sua visione radicalmente egualitaria della società africana. Rotberg 1965: 63.

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entusiasmare diversi africani già cristianizzati ma in conflitto con le missioni del protestantesimo storico, che nel Malawi era rappresentato dalla Free Church of Scotland, a causa del sentimento di superiorità europea che queste missioni veicolavano; in particolare aveva coinvolto John Chilembwe che nel 1915 fu l’anima di una rivolta anche armata, Elliot Kawama e Charles Domingo, che infiammarono le popolazioni con la loro predicazione apocalittico-millenarista centrata sull’anno 1914, nel quale Cristo, secondo la dottrina della Watch Tower Society21, sarebbe tornato e avrebbe abolito le tasse e il regime coloniale. Chilembwe, Kamwana e Domingo furono i primi ‘profeti’ africani del Malawi; Booth il loro mentore europeo. Il movimento Bacitawala22 da loro suscitato si estese, a partire dal 1918, a tutte le regioni limitrofe e quindi anche all’altopiano del nord dello Zambia, dove uno degli epicentri fu proprio il Distretto di Chinsali che sarà anche l’epicentro, 35 anni dopo, del fenomeno Lumpa. I leader dei Bacitawala predicavano la fine imminente del mondo retto dai bianchi, l’arrivo di un nuovo mondo, una Nuova Gerusalemme, in cui i neri avrebbero avuto accesso ai beni dei bianchi e i bianchi sarebbero stati costretti a tornarsene da dove erano venuti, o in cui i bianchi sarebbero addirittura diventati gli schiavi dei neri. La seconda importante ‘modalità’ dei movimenti religiosi di protesta fu invece quella che partiva da un elemento culturale decisamente interno alla cultura dei popoli africani: la lotta antistregonesca; sono i movimenti che Lanternari definisce “tradizionalisti”23. Questi tipi di movimenti sono di carattere più autoctono, proprio perché legati maggiormente alla cultura ancestrale. Nel 1934, negli anni della grande depressione

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Watch Tower = Torre di Guardia: si tratta dei Testimoni di Geova. 22 Il termine Bacitawala è composta da Ba (prefisso che indica un termine plurale di rispetto, come ‘i signori’) e Citawala, termine questo che altro non significa che Watch Tower: il Ci sta per ‘Watch’ e tawala per ‘tower’. Quindi bacitawala significa ‘i signori Watch Tower”. In Congo venne invece chiamato Kitawala. 23 Lanternari 1967: 174-176.

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economica mondiale, in Zambia sorse il movimento dei Bamucapi24. Il culto anti-stregonesco dei Bamucapi fu descritto dall’antropologa inglese Audrey Richards, presente sul campo in quegli stessi anni25. I leaders del culto Bamucapi effettuavano una purificazione di massa villaggio per villaggio, usando uno specchio per scoprire i colpevoli e indurre la gente a consegnare tutti i loro amuleti. A coloro che erano stati identificati come responsabili di stregoneria, dopo aver fatto pubblicamente abbandonare i propri oggetti di magia distruttiva, veniva fatto assumere il mucapi, una bevanda di polvere di legno rosso, chiamata Lesa wa panshi (‘Dio in terra’), la quale era ritenuta mortale per coloro che, dopo averla bevuta, fossero tornati ad usare la fattucchieria26. Una contaminazione fra queste due modalità può essere osservata nel violento movimento generato da Tomo Nyirenda, detto Mwana Lesa, figlio di Dio. Questo movimento, infatti, metteva insieme sia la predicazione millenaristica Bacitawala che la tradizionale lotta alla stregoneria, che terminava quasi sempre, a differenza dei Bamucapi, con la messa a morte dei presunti ‘stregoni’. Mentre i Mucapi intendevano ‘purificare streghe e stregoni’, Mwana Lesa li voleva annientare per ‘purificare il territorio’. Dopo aver costellato il suo percorso di innumerevoli morti nei territori del Katanga (Congo) e del Copperbelt (Zambia), era stato infine impiccato dall’amministrazione coloniale inglese nel 1925. Un altro movimento religioso importante che precedette il movimento lumpa e che era anch’esso pienamente autoctono dell’altopiano

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Il termine Bamucapi, come il precedente è composto dal titolo onorifico Ba e dal vocabolo Mucapi, che è il nome di una sorta di medicina magica che veniva somministrata ai presunti colpevoli di stregoneria con valore purificatorio se si abbandonava definitivamente la stregoneria, oppure mortale in caso di ricaduta. I Bamucapi quindi erano “i signori che somministravano il Mucapi”. Essi si presentavano nei villaggi come i ‘farmacisti’ europei usando una specie di camice bianco. 25 Richards 1935: 448-461. 26 Così pure, secondo la dottrina Lumpa, sarebbe avvenuto per chi, dopo aver ricevuto il Battesimo, fosse poi tornato ad usare la stregoneria.

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bemba, fu quello delle Nchimi e Mutumwa Churches (le chiese dei guaritori erbalisti), una realtà a metà strada fra il movimento antistregonesco e una vera e propria chiesa sincretista. Le chiese Nchimi risalgono agli anni trenta e nascono nel distretto di Isoka (a nord-est del distretto di Chinsali). I membri di queste chiese praticavano la divinazione contro la stregoneria e la cura mediante le erbe. Tipici di questi movimenti tradizionalisti di purificazione sono i racconti di ‘iniziazione profetica’ dei loro fondatori, i loro miti di fondazione se così possiamo dire. Troviamo, infatti, quasi sempre il racconto di un’esperienza religiosa iniziale, i cui paralleli con la profetessa Lenshina sono strettissimi: un’esperienza di malattia, morte e resurrezione, accompagnata da una chiamata alla missione di guarigione che comprende sia la liberazione dalla stregoneria che le guarigioni da ogni male curabile con la medicina tradizionale27. Nei quattro casi descritti da Dillon-Malone la chiamata avviene da parte di ‘spiriti ancestrali’, mentre in Lenshina da parte di ‘Gesù’ o ‘Lesa’. In Lenshina abbiamo senza dubbio elementi di sincretismo molto più avanzato. Dalle zone minerarie del Sudafrica e dello Zimbabwe invece provenivano influssi dovuti alle due formazioni storiche delle chiese separatiste: le chiese etiopiste e le chiese sioniste28, mentre le strette relazioni con la regione congolese del Katanga, non potevano non far sentire l’influsso della grande effervescenza religiosa congolese, suscitata a partire dagli anni venti dal profeta Simon Kimbangu, strutturatasi poi, intorno agli anni Cinquanta, in organizzazione cristiana, la Église de Jesus Christ sur la terre par le profète Simon Kimbangu – in sigla EJCSK29. Perfettamente parallela alla Chiesa Lumpa fu la la nascita di un’altra chiesa separatista 27

Dillon Malone 1983: 455-474 28 Lanternari 2003: 73-82 29 Il profeta congolese Simon Kimbangu trascorse gli ultimi 20 anni della sua vita in carcere a Lubumbashi, capitale del Katanga, dove morì nel 1950. Il movimento kimbanguista nel frattempo si era esteso a tutto il Congo e non poteva non essere presente in questa grande regione mineraria, meta dell’immigrazione bemba. Per Simon

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dello Zambia: la Mutima Church30. Sorta da una scissione della Chiesa Cattolica causata da un ex seminarista, Emilio Mulolani, presenta, tra le sue caratteristiche principali, oltre ovviamente all’affrancamento dalla leadership missionaria, il rapporto paritetico fra uomo e donna che sarà anche una caratteristica tipica della Chiesa Lumpa. L’abbozzo veloce di questo quadro comparativo ci aiuterà a capire sia la peculiarità storica del ‘fenomeno Lumpa’, sia la sua innegabile parentela con fenomeni simili, generati dalla crisi coloniale e postcoloniale e volti al superamento di questa stessa crisi e alla sua possibile ‘guarigione’. Appare infatti innegabile che l’orizzonte di questi movimenti non sia semplicemente l’emancipazione politica, ma una visione ‘olistica’ dell’esistenza con al centro il problema del superamento di tutto ciò che affligge la persona e la sua comunità. Se nei primi decenni del secolo XX il problema più pressante era il superamento delle miserabili condizioni di vita generate dal sistema di tassazione, dall’espropriazione delle terre e dalle condizioni di lavoro degli indigeni; se dopo la seconda guerra mondiale era la conquista dell’indipendenza, la costruzione di una società nazionale, il controllo africano sulle istituzioni e sullo stato; nell’epoca post-coloniale, quando queste cose erano state grosso modo politicamente acquisite, restava pur sempre il problema di tutte le altre innumerevoli situazioni di sofferenza, in tutti gli aspetti della vita, che richiedevano ‘guarigione’ e ‘salvezza’, cioè quel di più che non può essere assicurato dalla laica politica, ma per cui la cultura olistica tradizionale, sincretizzata con i nuovi valori importati, aveva ancora molto da dire attraverso il terreno proprio dei movimenti religiosi e delle chiese. Da qui la persistenza e continua espansione di questi movimenti nelle attuali chiese indipendenti africane (AIC). Kimbangu e il variegato fenomeno del Kimbanguismo, vedere Lanternari 2003: 55-70 e Visca 2007: 23-110. 30 Il nome completo sarebbe Catholic Church of the Sacred Heart of Jesus, ma venne poi chiamata semplicemente Mutima – che in lingua bemba significa ‘cuore’ – e i suoi aderenti BaMutima.

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La storia della Chiesa Lumpa La profetessa Alice Lenshina Alice Lenshina, una delle poche ‘profetesse’ generatrici di movimenti di vasto successo31, è stata anche una delle ultime grandi figure ‘profetiche’ dell’Africa, che ha operato in un tempo, l’ultimo decennio prima della conquista generalizzata delle indipendenze nazionali, nel quale si affermarono ed operarono movimenti propriamente politici. Parallelo al sorgere del nazionalismo propriamente detto quindi, il fenomeno lumpa si poneva, al contrario, come ‘epigono’ dei tanti movimenti religiosi dei decenni precedenti, rispetto ai quali, seguendo le rotte della comunicazione possibile tra l’altopiano bemba e gli ‘epicentri’ degli sconvolgimenti socio-politici e culturali da cui questi emergevano, appariva quasi un fenomeno di sintesi, che riprendeva e rielaborava elementi vari. Alice Lenshina si chiamava in realtà Mulenga Lubusha ed aveva circa trent’anni, nel settembre del 1953, al tempo della sua esperienza mistica. Secondo il Rapporto della commissione d’inchiesta32 sui fatti di sangue dell’agosto 1964 relativi alla soppressione della Chiesa Lumpa, era nata infatti nel 1924. Apparteneva ad una famiglia imparentata con 31

Il primo movimento profetico che incontriamo in Africa ebbe come protagonista una donna: Donna Beatrice del Congo, o, secondo il suo nome africano, Kimpa Vita, che operò nel Basso Congo intorno agli anni Sessanta del XVII secolo. Cerri 2007: 241-286. La più recente ‘profetessa’ africana è invece Alice Lakwena che ha operato in Uganda alla fine degli anni Ottanta. Visca 2004. Lanternari riporta il caso della profetessa Marie Dahonon, detta Lalù, fondatrice del culto Deima nel 1942 in Costa d’Avorio, morta nel 1951. Lanternari 2003: 96. 32 Report 1965: 3. La Commissione d’inchiesta era stata voluta nel 1965 dal governo della neo-nata nazione zambiana per appurare l’effettivo svolgimento dei fatti che avevano portato al sanguinoso epilogo della Chiesa Lumpa nel 1964 a cui era seguita la messa al bando della chiesa stessa e la promulgazione dello stato di emergenza che durerà fino al 1991. Per tutti i 27 anni del regime di Kenneth Kaunda, questa relazione ha offerto la versione ufficiale dei fatti, versione sempre ripresa e mai, in nessun caso, messa in discussione dagli studiosi che si sono occupati della vicenda in tutti quegli anni.

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il clan reale dei Bena Ngandu. Nel 1953 viveva con suo marito e i suoi cinque figli nel villaggio di Kasomo, a poche miglia da Lubwa. Prima della ‘chiamata’ Mulenga Lubusha era stata catecumena presso la missione protestante di Lubwa, ma ne aveva abbandonato le istruzioni per negligenza. Pur avendo avuto quindi contatti con la missione cristiana, proveniva da una famiglia ancora legata alla religione tradizionale, tanto più in quanto il clan reale era il custode geloso di quella tradizione. L’avvenimento centrale della vita di Mulenga Lubusha, una ‘ordinaria donna di villaggio’, come viene da più fonti definita, è rappresentato dalla sua straordinaria esperienza religiosa, che la futura profetessa affermava di aver vissuto in uno stato di morte da cui sarebbe poi risorta; una esperienza visionaria nella quale credeva di aver visto e parlato direttamente con Lesa 33. In seguito alla visione, Mulenga Lubusha riprese i contatti con i missionari di Lubwa, precedentemente interrotti, e nel novembre del 1953 venne battezzata con il nome di Alice. Alice Mulenga, fin dall’inizio, cominciò a coagulare attorno a sé un movimento di gente attirata dalla notizia della sua straordinaria esperienza religiosa di morte e resurrezione, esperienza che costituiva un ‘pattern’ specifico degli iniziatori di movimenti di purificazione e guarigione nella regione in questione34. In accordo con i responsabili della missione 33

I missionari protestanti avevano identificato il biblico Yahvè con l’essere supremo dei Bemba Lesa, a cui però questi tradizionalmente non prestavano alcun culto. I missionari cattolici invece, almeno fino agli anni Sessanta, usavano il termine swahili Mulungu per non confonderlo con Lesa. Successivamente, con il venir meno della fase più acuta dell’ostilità con i protestanti, anche i cattolici assumono il termine bemba Lesa. Oger 1995: 37. Mulungu è l’essere supremo dei Bantu, dai caratteri uranici, che era già stato ampiamente identificato con il Dio cristiano dai missionari. Cfr. Visca 2002: 262. 34 Molti iniziatori di movimenti religiosi, proprio in questo contesto regionale, avevano accampato la stessa pretesa esperienza: così era stato, negli anni trenta, sia per Kamwende del Malawi, l’iniziatore del movimento Bamucapi, che per Sikaonga della tribù dei Tumbuka, viciniori dei Bemba, il fondatore della Nchimi Church e per almeno altri due casi riferiti da Dillon-Malone. Interessante che queste esperienze di morte

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di Lubwa, la donna iniziò ad organizzare regolarmente incontri di preghiera nel proprio villaggio, Kasomo, e mantenne, per un anno, ottimi rapporti con la stessa missione che la considerava l’animatrice di un fenomeno di revival. Ad attirare e coagulare la gente a Kasomo in questa prima fase fu soprattutto una particolarità: gli inni che venivano cantati durante gli incontri di preghiera, e che la profetessa affermava di aver ricevuto direttamente dalla visione, inni dalle tonalità straordinariamente calde e simili a quelle dei canti tradizionali bemba, con cui si trasmetteva la cultura orale. Per contrasto sappiamo che, se la liturgia cattolica era ancorata al ‘latino’, la liturgia presbiteriana era radicata sugli austeri canti tipici della madre patria scozzese, che nulla concedevano alla emotività popolare. Nel giro di un anno, il movimento che aveva iniziato a ruotare attorno al villaggio di Kasomo aveva raggiunto dimensioni di gran lunga maggiori di quelle del movimento che gravitava attorno alla missione di Lubwa. Con la partenza del Rev. Fergus Macpherson, il missionario europeo che aveva accolto con apertura e lungimiranza il nuovo ‘fenomeno’, cominciarono ad emergere da subito contrasti e rivalità tra la donna e i responsabili africani della missione, in special modo il rev. Paul Mushindo, uomo di grande cultura (stava traducendo in quegli anni la Bibbia nella lingua bemba) ma profondamente ligio ai dettami tradizionali della Free Church of Scotland: contrasti che finiranno per portare alla rottura fra la missione presbiteriana e il nuovo movimento. Nel frattempo, il carattere ‘africano’ del movimento, inizialmente legato solo ai canti utilizzati, si andava progressivamente accentuando: Alice Mulenga Lubusha infatti aveva cominciato ad affrontare in maniera

e resurrezione sono sempre riferite non a ‘profeti’ di più evidente sincretizzazione cristiana, ma a personaggi di movimenti più legati a tradizioni culturali africane (bamucapi, guaritori erbalisti, ecc.). L’esperienza religiosa di Lenshina apparteneva dunque ad un ‘modello’ comune degli iniziatori di movimenti di purificazione collettiva. Dillon-Malone 1983

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‘nuova’ il tema della stregoneria35 e a chiedere, a tutti coloro che si recavano a Kasomo, l’abbandono di amuleti e feticci della magia sia aggressiva che protettiva. Pian piano si formò una montagna di questi oggetti sotto un ‘grande albero’ posto all’entrata del villaggio, nei pressi del quale si svolgeva il culto. Il movimento attorno alla donna diventò del tutto ‘indigeribile’ per i responsabili della missione, che vi vedevano confluire sia i fuoriusciti dalla missione stessa che coloro che ne erano stati espulsi in seguito a cattiva condotta. La goccia che fece traboccare il vaso fu la questione delle offerte raccolte nelle cerimonie religiose a Kasomo, che non venivano più messe a disposizione della missione e da ultimo, verso la fine del 1954, il fatto che Alice Mulenga Lubusha cominciasse a ‘battezzare’ in proprio.

Nascita della chiesa indipendente Il 1955 fu l’anno della rottura con la missione. Alice nel frattempo veniva sempre più chiamata con il nuovo nome di Lenshina, che significa ‘regina’, e il movimento che si raccoglieva attorno a lei, come Lumpa, il ‘migliore’, quello ‘che va più lontano’: due nomi che sembravano costituire un programma. Lo stesso villaggio di Kasomo veniva sempre più chiamato Sione dal biblico nome di Gerusalemme36. Sappiamo quanto siano profonde le risonanze del nome ‘Sion’ all’interno di specifiche 35

Le credenze nella stregoneria non sono mai state prese sul serio dagli europei, siano essi missionari (protestanti o cattolici) che la consideravano pura superstizione, o amministratori coloniali che produssero il Witchcraft Act per impedire gli aspetti esteriori della violenza implicata nelle accuse di stregoneria, senza però comprenderne il profondo radicamento nel sistema religioso-simbolico di rapporto con la malattia e la morte. Il risultato fu che le pratiche della stregoneria ‘passarono in clandestinità’ ed ogni qualvolta si affacciava un movimento antistregonesco diventava subito fenomeno di massa. Buseyi Tegera 1994: 98. 36 Ipenburg 1992: 236-237. Nella lingua bemba in genere ogni consonante deve avere la sua vocale, e pertanto ‘Sion’ diventa Sione. Più avanti si parlerà di Tempile, dall’inglese ‘Temple’, per la stessa ragione. Ugualmente la pronuncia Lenshina per ‘Re-

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tradizioni protestanti e movimenti cristiani: dal nome della sede centrale della Christian Catholic Apostolic Church in Zion fondata nel 1896 nell’Illinois, matrice delle chiese cosiddette sioniste del Sudafrica, al villaggio sacro dei Kimbanguisti nel Basso Congo, Nkamba, che lo stesso Kimbangu chiamò ‘Gerusalemme’. Se Lenshina indica una funzione all’interno del movimento, Lumpa esprime una autocoscienza comparativa rispetto a tutte le altre realtà presenti sul territorio e Sion denota il progetto messianico-millenarista sotteso al nascente movimento, sulla falsariga di altri movimenti simili, le cui ‘risonanze’ erano state riportate in patria dagli emigranti stagionali. Davanti a questa evoluzione del gruppo ‘revivalistico’, i responsabili della missione presbiteriana, non potendo più gestire la situazione, espulsero Alice e suo marito Petros – divenuto ormai il braccio organizzativo del movimento – e avviarono inopportunamente una campagna volta alla riaffermazione della fede ‘ortodossa’ della missione, campagna che si doveva concludere con una scelta definitiva pro-missione o pro-Lenshina. Il risultato fu che di circa 3.000 cristiani ne ‘tornarono’ solo 40037. La missione di Lubwa era stata letteralmente decimata. Per contro, nel corso del solo 1955 almeno 60.000 persone si erano recate a Kasomo38. Queste persone tornavano nei loro villaggi e diffondevano il nuovo messaggio della profetessa. Sorgevano ‘cappelle’ lumpa un po’ ovunque. Nel 1958 il Registrar of Societies registrava almeno 150 chiese lumpa sparse sul territorio.

gina’ dipende dal fatto che in bemba le lettere ‘l’ e ‘r’ sono intercambiabili e la ‘g’ seguita dalle vocali ‘i’ oppure ‘e’, diventa quasi sempre ‘nsh’, per cui ‘gi’ si tramuta in ‘nshi’. 37 Calmettes 1978: 124-125; Ipenburg 1992: 238-239. 38 Roberts 1970: 535. Secondo la relazione della commissione di inchiesta governativa, “by 1955 the movement had spread to Kasama, Isoka, Chinsali, Mpika and east to Lundazi. Through lack of proper records exact membership is not known, but from the evidence given to the Commission, it is quite clear that the vast majority of the people in the Chinsali District and considerable numbers in neighbouring districts were Lenshina adherents” Report 1965: 4.

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Il messaggio della profetessa consisteva essenzialmente in un tentativo di sradicamento della stregoneria e raccoglieva nel profondo le inquietudini di queste popolazioni le quali, in accordo con la loro cultura ancestrale, interpretavano le nuove problematiche sociali, causate dall’impatto coloniale e missionario, come frutto del moltiplicarsi della stregoneria protetta, a loro dire, dalle autorità coloniali che col famoso Witchcraft Act del 1914 impedivano ai capi tradizionali di combatterla. Il movimento Lumpa dunque si presentava, a questo punto, come una nuova ventata Bamucapi. Ma la sincretizzazione con il cristianesimo appariva molto più profonda (erano passati vent’anni) e il movimento aveva preso la forma di una ‘chiesa’ che non mirava ad una episodica purificazione dei villaggi, ma alla costruzione di uno ‘spazio’ permanentemente libero dalla stregoneria, nella speranza millenaristica della creazione di un nuovo mondo esente da qualsiasi forma di male. Accanto allo sradicamento della stregoneria, però, il messaggio della profetessa mirava anche alla ristrutturazione di un modello di vita familiare che facesse perno soprattutto sulla donna e sul recupero del suo antico ruolo di tramite con l’alterità39. Si entrava nella comunità lumpa attraverso la rinuncia definitiva alla stregoneria sia offensiva che difensiva e il battesimo, ottenuto dopo aver confessato i propri ‘peccati’ e aver ripudiato, se poligami, le mogli aggiuntive. I fedeli lumpa partecipavano, tre volte alla settimana, alle liturgie presso le cappelle che in ogni villaggio avevano sostituito i tradizionali sacrari dedicati agli antenati, e prestavano obbedienza ai ‘diaconi’, i leader scelti dalla profetessa. Negli anni del successo montante, la stragrande maggioranza dei villaggi, soprattutto quelli retti da normali capivillaggio (più problematico appariva l’adesione dei villaggi

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Hinfelaar 1994: 73-100. cfr. Report 1965: Appendix A, Lumpa Church Rules: rifiuto della poligamia e dell’obbligo di ‘purificazione’ delle vedove; libertà per le vedove di potersi risposare a piacimento, libertà per le ragazze di non sottoporsi ai riti di iniziazione.

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misumba dove risiedevano i capi tradizionali40) avevano abbracciato in blocco il nuovo ‘verbo’ di Lenshina. I legami tra le tante comunità sparse sull’intero territorio erano tenuti dalla rete dei diaconi, dai periodici pellegrinaggi collettivi a Sione, dal sistema di valori veicolato dagli inni che costituiva l’amalgama in cui tutti si riconoscevano. Nato all’interno della popolazione bemba, il movimento aveva poi conquistato anche persone di altre etnie, generando una nuova identità che superava l’idea stessa di appartenenza tribale per sentirsi membri di un popolo nuovo, i Bena Lesa41. Il movimento si era dotato di una sorta di ‘carta costituzionale’ formata dalle regole della Chiesa Lumpa, che sembravano voler ricostruire l’integrità del popolo e del territorio delineando una comunità antitradizionale, disillusa dalla incapacità della tradizione di ‘salvare’ la popolazione dall’attacco esterno del colonialismo, e che pertanto rifiutava molti degli elementi tradizionali centrali come il culto degli antenati, l’iniziazione femminile, la poligamia, la purificazione delle vedove, le feste della birra, per assumere quasi totalmente la nuova moralità veicolata e promossa dalle missioni cristiane. Assistiamo insomma al tentativo di ricostruire, sulle macerie coloniali, un popolo

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Musumba (plu. misumba) è il villaggio dove risiede uno mfumu (capo tradizionale, non semplice capovillaggio, in inglese headman). 41 Questo popolo nuovo, dopo la messa al bando della chiesa e quindi della stessa parola ‘Lumpa’, finirà per chiamarsi il popolo dei Bena Lesa, ‘la tribù di Dio’. “The Lumpa gave allegiance to deacons, not chiefs; they had long lost their land, but identified ‘Zion’ as their homeland. They had become Bena Lesa, the people of God, no longer Bemba or Zambians; most importantly, they transformed individual suffering into a sign of group identity”. Gordon 2009: 206. In questa definizione c’è tutto il rifiuto delle mitologie ancestrali: il rapporto con i propri antenati, i quali erano considerati gli intermediari della sacralità in quanto vicini al popolo della propria discendenza, veniva saltato a piè pari per agganciarsi direttamente a Lesa, l’antico deus otiosus sincretizzato dai missionari cristiani con il Dio biblico che ora diventa in un certo senso l’Antenato mitico del nuovo popolo.

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coeso e nuovo, in grado di competere con gli europei assimilandone alcuni valori e di rivalutare, in un certo senso, la tradizionale cultura vincente e dominatrice dei Bemba: Lumpa vuol ben dire ‘migliore’! Di questo progetto ‘millenaristico’ fu senz’altro segno forte la costruzione avviata nel 1956 e conclusa nel 1958 della grande cattedrale di Kasomo, la Kamutola42, ridotta oggi alla sola pavimentazione, dopo che nel 1972 Kenneth Kaunda, ancora ossessionato dal ‘fantasma’ del potere di Lenshina, l’aveva fatta radere al suolo. Nel 1949 la missione cattolica di Ilondola aveva inaugurato la sua grande cattedrale, la seconda in grandezza per tutto il paese. Nel 1958, appena nove anni dopo, Lenshina inaugurò la sua cattedrale del tutto simile a quella di Ilondola, con una particolarità: era di qualche metro più lunga e più larga. Sembra, come afferma Calmettes, che i lumpisti fossero andati nottetempo a misurare la chiesa di Ilondola per essere certi di costruirne una più grande43. E’ probabile che le maestranze che lavorarono alla chiesa di Kasomo fossero le stesse precedentemente impiegate per quella di Ilondola. Ma ciò che fa meraviglia è che dietro alla realizzazione della cattedrale cattolica c’era stato un potente ordine missionario, mentre quella di Kasomo fu innalzata con le sole risorse messe a disposizione della gente dei villaggi. La grande chiesa venne realizzata grazie al lavoro offerto da interi villaggi che a turno si recavano a ‘Sion’ per prestare il loro servizio. Il messaggio, rivolto in primis ai missionari europei, ma in definitiva a tutto il mondo coloniale ed occidentalizzato, compresi i nazionalisti, era chiaro: noi, gente ‘illetterata’ di villaggio, con i nostri mezzi e la nostra cultura, possiamo fare le stesse cose e meglio di voi.

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Kamutola è il nome che diedero alla grande cattedrale costruita a Kasomo; il termine significa ‘la piccola cosa che ti porta in alto’. 43 Calmettes 1978: 22.

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Caratteristiche socio-culturali del successo Gli anni 1958 e 1959 furono gli anni di massima espansione della Chiesa Lumpa in tutto lo Zambia e anche fuori, nelle stesse nazioni vicine: Tanzania, Malawi, Zimbabwe, R.D.Congo. La diffusione sembra aver seguito le vie dell’emigrazione delle popolazioni che parlavano o capivano la lingua bemba44. Ma oltre a questo fattore ‘linguistico’, che in un certo senso stabiliva i confini della sua massima espansione, da chi era formato il grosso dei seguaci? Si trattava di un fenomeno di massa che attirava soprattutto il mondo ‘illetterato’45 e quindi la stragrande maggioranza della popolazione. Sebbene, ovviamente, tra i suoi leader ci fossero anche persone alfabetizzate (diversi erano gli ex-maestri o ex-catechisti), chiunque poteva diventare ‘diacono’ (responsabile) o shimapepo (prete-predicatore). La conoscenza della Bibbia non era richiesta e quindi non c’era alcuna necessità di saper leggere e scrivere46. Il sistema di valori del movimento passava attraverso l’innario di Lenshina, come da tempo immemorabile la cultura bemba era passata attraverso lo stesso mezzo ‘fonico’, ‘sonoro’, ‘orale’ e quindi accessibile a tutti. Era dunque una reazione contro la nuova cultura europea inevitabilmente ‘classista’ e contro gli africani europeizzati (i Mushindo, i Kakokota, ma anche i Kaunda, i Kapwepwe, i Makasa, ecc.) 44

Roberts 1970: 535. Louis Oger fa rilevare come la stessa prima espansione Lumpa segua i villaggi lungo il sacro fiume Chambeshi, il fiume dei Bemba. “The movement spread over all the district of Chinsali, the major part of Mpika district and even Kasama. Curiously, it followed the river Chambeshi, the river of the Bemba”. Oger 1960: 4. 45 Roberts 1970: 537. 46 Nelle missioni protestanti la cosa in assoluto più importante era proprio la conoscenza della Bibbia ed era esattamente per poter avviare alla conoscenza della Sacra scrittura che queste missioni istituivano scuole di alfabetizzazione, generando come conseguenza una spaccatura artificiosa tra i nativi: la ‘casta’ degli ‘educated’ e la massa degli ‘uneducated’. Per lottare contro questa artificiosa divisione della comunità quindi bisognava rendere superflua la stessa Bibbia.

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che avevano acquisito potere grazie a questa ‘magia’ straniera e si erano distinti dagli altri47. Questo era talmente vero, che ci fu un momento in cui alcuni lumpa ‘alfabetizzati’ vennero addirittura espulsi dalla chiesa per una controversia sull’interpretazione della Bibbia, di cui essi si sentivano più esperti perché gli unici a poterla leggere. La conclusione fu che vennero addirittura ritirati i bambini lumpa dalle scuole; e questo costituì uno dei fattori scatenanti la violenza finale48. Altra grossa componente del movimento erano soprattutto le donne. Il mondo femminile era quello che aveva risentito in misura maggiore degli sconvolgimenti coloniali, come abbiamo visto (v. supra, p. 175); ma era quello che soffriva di più anche nel mondo tradizionale. Pur trattandosi, infatti, di una società matrilineare, a predominare erano sempre gli uomini: se non i mariti, i fratelli. Se il movimento di Lenshina era rivoluzionario dal punto di vista delle ‘opportunità’ sociali rimesse nelle mani della gente comune, lo era senz’altro ancor più per la situazione della donna. Qui Lenshina si avvicinava molto ai nuovi valori cristiani favorevoli alla donna. Come abbiamo visto, venivano proibite la poliginia, la necessità di sottoporsi ai rituali di iniziazione, la costrizione per le vedove di essere ‘purificate’ da un parente del marito defunto che erano poi costrette a sposare. Le donne inoltre erano, più degli uomini, le depositarie della religione ancestrale popolare, quella legata agli ngulu territoriali, in parte soppiantata prima dall’avvento del culto del clan reale e in seguito definitivamente affossata dal maschiocentrismo della nuova 47

Il distinguersi dagli altri non per meriti tradizionali (ad esempio perché si è capi, mfumu, o incaricati del culto shimapepo, ecc.), è il tipico segno della stregoneria secondo la mentalità di queste popolazioni. Calmettes 1978: 66 nota 81. Il Rev. P. Mushindo era il ministro africano di Lubwa; Father P. Kakokota era il primo prete cattolico bemba; K. Kaunda, S. Kapwepwe e R. Makasa erano tre ex maestri di Lubwa datisi alla politica nazionalistica. Tutti e cinque quindi degli ‘intellettuali’. 48 Roberts 1970: 556. Scrive Ipemburg: “In 1960 some of the more educated members of Lumpa were expelled. This strengthened the profile of Lumpa as a movement of the uneducated” Ipemburg 1992: 258 nota 1. Jan Kees Van Donge (Van Donge 1990) vede in questo l’aspetto maggiormente esplicativo del fenomeno.

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religione europea. Nella Chiesa Lumpa alle donne si aprivano le stesse possibilità di leadership degli uomini49. Molti ricordano come Lenshina fosse la prima donna a parlare dal pulpito di una chiesa, riprendendosi quel ruolo femminile che il mondo coloniale, sia in veste missionaria che in veste politico-economica, aveva completamente logorato. Scrive O. Sichone: “Like any independent African Church, Lenshina’s Lumpa sought to indigenize Christianity. Whereas most male-led churches promoted polygamy, Lenshina outlawed polygyny and widow inheritance, a decree Zambian feministes are still battling against today”50. Un terzo fattore determinante il grande successo della chiesa fu la ritrovata importanza del villaggio sulla città. La nuova cultura ‘cittadina’ aveva gettato nello sconforto e nel disagio il tranquillo mondo tradizionale. Certamente si erano costituite comunità lumpa in tutte le principali città del Copperbelt, la regione mineraria e urbanizzata, ma il grosso del movimento aveva soprattutto caratteri rurali ed è presumibile che le comunità lumpa cittadine vivessero una condizione di diaspora nei confronti di quelle rurali. Il villaggio aveva riacquistato la sua importanza primaria. Era insomma nato un potente soggetto popolare con un proprio progetto di ricostruzione e di superamento della crisi generata dal colonialismo; un soggetto che veniva percepito come destinato a durare sulla scena nazionale51. Tutti coloro che scrissero prima del precipitare del conflitto finale hanno dato in genere una immagine positiva di Lenshina. Il suo atto di separazione dalla Free Church of Scotland per una ‘indipendenza religiosa’ aveva ricevuto l’approvazione di molti zambiani. La costruzione di una rete di congregazioni nelle aree più remote e 49

Ipenburg 1992: 244. Una riprova di questo l’abbiamo nel fatto che attualmente le tre denominazioni che si rifanno alla Chiesa Lumpa, e cioè la New Jerusalem, la Jerusalem in Christ e la Uluse Kamutola, sono rette da tre donne: due sono figlie di Lenshina e la terza è una delle sue ex segretarie personali. 50 Sichone 2005: 805. 51 Rotberg 1961: 63.

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dimenticate della Rhodesia del Nord aveva suscitato una grande ammirazione e costituiva in fondo il primo tentativo di unificazione del paese e in un certo senso di modernizzazione delle aree rurali. L’edificazione della grande cattedrale di Kasomo, deliberatamente più grande di quella cattolica di Ilondola, veniva vista come un esempio della capacità africana di sviluppo indipendente. La composizione degli inni aveva permesso alle popolazioni zambiane una capacità linguistico-espressiva propria nel campo della ritualità e del rapporto con il sacro. Tutte queste attività avrebbero potuto e dovuto ispirare l’intero movimento di liberazione nazionale. Uno dei fattori del successo iniziale fu infatti senza ombra di dubbio il nascente spirito nazionalistico ed antioccidentale all’insegna del motto “Africa for Africans”, che non poteva non riconoscersi in una chiesa puramente africana, la quale si affrancava dal potere dei missionari europei, sognava una Bibbia ‘nera’ e aveva inventato una liturgia molto più vicina ai rituali tradizionali che a quelli cristiani europei. La storia andò invece diversamente: finirono per prevalere le conflittualità generate dalle rivalità mimetiche.

L’insorgere di una rivalità a tutto campo Abbiamo già visto come la rivalità fosse un elemento introdotto nella regione dalle due formazioni missionarie europee in competizione fra loro52 e come essa avesse determinato il distacco del movimento revivalistico dalla missione presbiteriana di Lubwa, finendo per dar vita ad una chiesa secessionista polemicamente definita ‘migliore’: lumpa. In realtà questa rivalità sembrò costituire il ‘peccato originale’ dell’intera storia, dall’inizio alla fine, determinandone nascita, sviluppo e morte. Ben presto, infatti, la Chiesa Lumpa entrò in competizione con tutti gli altri soggetti forti dell’altopiano bemba, che si videro minacciati dal successo

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Sulla rivalità fra le due missioni vedere il capitolo ‘Encroachment, Rivalry, Intrigues. Denominational Antagonism’, in Oger 1991: 64-80.

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di questo nuovo movimento: le missioni cattoliche dei Padri Bianchi, le autorità tradizionali dei capi, l’amministrazione coloniale inglese. Le missioni cattoliche furono prese particolarmente di mira dalla propaganda lumpa come covo di stregoneria, sviluppando la vecchia polemica antisacramentalista protestante rimodellata dentro la radicale opposizione antistregonesca53: fra le montagne di oggetti rifiutati come carichi di stregoneria, figuravano, infatti, anche medaglie, rosari e crocifissi. Da un altro punto di vista, invece, le missioni cattoliche sembrarono costituire un modello per la Chiesa Lumpa: basti pensare alla costruzione della Kamutola e alla considerazione dei villaggi lumpa come misumba, cosa che era stata già fatta dalle missioni cattoliche54. Le autorità tradizionali, dopo una prima entusiastica adesione al movimento, ben presto si resero conto che Lenshina e i suoi diaconi erano diventati i loro diretti rivali. La gente abbandonava i capi tradizionali per prestare obbedienza a questi nuovi capi lenshinisti. L. Oger riferisce l’opinione di un catechista lumpa, il quale affermava essere credenza di tutti i seguaci della profetessa che “Lenshina will rule over all the chiefs”: il che era come dire che questa avrebbe assunto il compito di capo supremo del popolo bemba, sostituendosi al Chitimukulu55. Il movimento lumpa appariva come un ‘movimento di rivitalizzazione’ della cultura ancestrale bemba nel nuovo contesto modificato dall’av53

L. Oger riferisce una serie di accuse che venivano rivolte ai missionari cattolici, fra cui “the worse of these calumnies is the following: these catholic priests are the greatest sorcerors in the country”. Molte di queste accuse riguardavano fantasiose interpretazioni delle varie parti della messa e di altri sacramenti, “Some of these accusations against the Catholics priests are Protestant and Watch Tower accusations as well”. Oger 1960: 7-10. 54 Le missioni cattoliche avevano assunto questo termine relativo ai villaggi dove era presente uno mfumu, per autopresentarsi come la nuova fonte di autorità sacra. Come le misumba-missioni, luoghi della nuova religiosità cristiana, erano sorte fuori dai misumba tradizionali, lo stesso avverrebbe per i misumba lumpa, che si separavano dal mondo del male per costruire nuove comunità di fede. 55 Oger 1960: 50.

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vento della cultura occidentale56. Ricostruendo in maniera autonoma l’antico sistema gerarchico che affondava le sue radici nella tradizione, il movimento lumpa si poneva però in aperto e diretto conflitto con il suo modello: il network dei capi tradizionali i quali, seppure del tutto indeboliti sotto la forma della Native Authority, costituivano ancora formalmente le autorità sul territorio. Nei confronti delle autorità coloniali, il movimento lumpa ha vissuto una costante ambiguità: all’affermazione statutaria che “the Lumpa Church is not a political organization”57, faceva riscontro il fatto che, almeno all’inizio, essa aveva coagulato attorno a sé i sentimenti nazionalisti di molta parte della popolazione. L’amministrazione coloniale comunque non ha mai costituito per Lenshina un potere realmente rivale, e quindi un modello da imitare, come sarà invece per il movimento nazionalista. La Chiesa Lumpa si atteneva piuttosto ad un atteggiamento di distanza dalla politica, non per una sorta di distinzione laica tra la sfera religiosa e quella politica, ma al contrario per una concezione ‘olistica’ tipica della cultura tradizionale e delle formazioni millenaristiche58. Partecipare alla vita politica avrebbe significato l’accettazione di una visione occidentalizzata delle cose. Questo atteggiamento di distanza però sarebbe diventato automaticamente conflittuale allorquando all’amministrazione coloniale venne a sostituirsi il partito nazionalista che, sorto negli stessi anni e negli stessi luoghi, costituiva il vero soggetto direttamente rivale.

La Chiesa Lumpa e l’emergere del nazionalismo A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, un po’ ovunque i vecchi assetti coloniali cominciarono a mettersi in movimento per trovare nuove soluzioni politiche alle unità amministrative locali. In questa vasta 56

Per il concetto di ‘movimento di rivitalizzazione’ vedere Wallace 1956: 264-281 57 Report 1965: Appendix A Lumpa Church Rules 58 Roberts 1970: 541. Si trattava di un atteggiamento simile a quello espresso dai Jeovah’s Witnesses.

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regione dell’Africa, acquisita all’impero inglese nell’ultima decade del secolo XIX, divisa amministrativamente in Rhodesia del Sud, Rhodesia del Nord e Nyasaland, cominciò a farsi strada, tra la popolazione europea, l’idea di una Central African Federation che sostituisse l’amministrazione coloniale britannica con una amministrazione coloniale locale totalmente in mano ai bianchi, in modo da mantenere la popolazione africana nella stessa posizione di subalternità. Gli unici africani che potevano comprendere la pericolosità di questo progetto erano gli insegnanti delle missioni, soprattutto protestanti. La missione di Lubwa era stata fondata nel 1905 da un giovane catechista nyasa proveniente da Livingstonia (Nyasaland, oggi Malawi), David Kaunda. Nel 1924, lo stesso anno di nascita di Mulenga Lubusha, la futura profetessa Alice Lenshina, era nato anche l’ultimo figlio di David Kaunda, Kenneth, il futuro primo presidente dello Zambia. Mulenga Lubusha e Kenneth Kaunda si erano trovati inizialmente nella stessa classe scolastica, quasi subito però abbandonata da Mulenga, che sembra sia rimasta analfabeta per tutta la vita. Kenneth invece arrivò a completare la formazione secondaria nell’unica scuola superiore aperta, allora, agli africani: la Munali Secondary School di Lusaka; e si era avviato alla carriera di insegnante proprio durante gli anni in cui maturava il progetto della Federazione. Fu soprattutto tra il personale insegnante che, in occasione di un convegno di associazioni africane tenutosi nel 1948 presso la Munali Secondary School, venne fondato il primo partito nazionalista, l’African National Congress, a cui Kenneth Kaunda aderì immediatamente. Tornato a Lubwa come maestro della locale scuola, Kaunda fondò nel 1949 l’ANC nella Northern Province, insieme ad altri sui colleghi insegnanti, i quali si ritroveranno poi tutti, quindici anni dopo, ai vertici del neonato stato zambiano59. Nonostan-

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Sarà infatti tra gli insegnanti di Lubwa che scaturiranno i quadri superiori del partito nazionalista UNIP (United National Independence Party) che prenderà il potere al momento dell’indipendenza: il presidente Kenneth Kaunda, figlio del fondatore

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te che dal 1949 al 1953 ci fosse stata una intensa campagna nazionalista contro la progettata Federazione, nell’agosto del 1953 la Central African Federation fu inesorabilmente varata, con grave disappunto di questi circoli nazionalisti, i quali entrarono profondamente in crisi e lasciarono tra la popolazione una diffusa sensazione dell’impossibilità, per gli africani, di farsi valere60. Fu a questo punto che emerse, tra la popolazione ‘analfabeta’, il fenomeno lumpa: nel settembre dello stesso anno, Mulenga Lubusha ebbe la sua esperienza religiosa che la portò a diventare ‘la profetessa Lenshina’ e a fondare la chiesa, coagulando attorno a sé, nel nome di un discorso ‘religioso’, anche le frustrate ambizioni politiche dei nazionalisti, molti dei quali passarono al suo movimento, come ad esempio uno dei fratelli Kaunda, Robert, il fratello maggiore di Kenneth. Kenneth Kaunda, nello stesso anno, era stato richiamato a Lusaka dai vertici del partito per assumere la carica di segretario generale e per alcuni anni non parteciperà agli sviluppi che ebbero luogo nella sua missione di origine. Durante questo periodo di crisi, in seno al movimento nazionalista si scontrarono due anime: quella moderata rappresentata dal presidente dell’ANC, Harry Nkumbula, e quella radicale rappresentata dal segretario del partito Kenneth Kaunda. La posta in gioco era il tipo di rivendicazioni nei confronti del potere coloniale: Harry Nkumbula mirava a strappare la più alta rappresentatività possibile per gli africani entro una strategica accettazione, per ora, del potere bianco; Kenneth Kaunda invece riteneva giunto il momento di rivendicare direttamente la conquista dell’indipendenza. A questo scontro delle due componenti, che potremmo definire della missione stessa, il vicepresidente Simon Kapwepwe, il responsabile regionale del partito Robert Makasa. Ipenburg 1989: 63-67. 60 In realtà la Federazione finirà con il disilludere gli stessi Europei perché non furono acquisiti gli obiettivi previsti, bensì altri: invece di proteggere contro l’avanzata delle rivendicazioni dei neri, finì con lo stimolare il nazionalismo nero che portò, dopo 10 anni, alla presa del potere da parte loro sia in Nyasaland che in Northern Rhodesia. Roberts 1976: 211.

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‘gradualista’ e ‘insurrezionalista’, si sovrapponevano però anche ragioni di carattere etnico: Harry Nkumbula era originario del Sud e qui aveva la sua forza politica, Kenneth Kaunda era invece originario del Nord dello Zambia, e qui avrebbe dovuto trovare i maggiori consensi per la sua battaglia. La rottura fra queste due componenti maturò nel 1958, nel momento in cui venne varata nella Northern Rhodesia una nuova costituzione che aumentava la quota di rappresentatività della popolazione nera, mantenendola però sempre in assoluta minoranza61. Mentre per i moderati dell’ANC questa costituzione sembrava rappresentare il miglior compromesso possibile al momento e, sulla sua base, si apprestavano a partecipare alle elezioni, per i radicali essa era assolutamente da respingere e, rifiutandosi di partecipare alle elezioni, fondarono un nuovo partito nazionalista, lo UNIP (United National Independence Party), con una leadership quasi completamente bemba, formata dagli ex insegnanti di Lubwa datisi alla lotta nazionalista. Il nuovo partito nazionalista doveva dimostrare la sua forza sul campo, e fu così che la rivalità tra le due anime dell’ANC si trasferì, soprattutto a partire dal 196162, sul territorio della Northern Province, dove questa nuova formazione politica avrebbe dovuto cercare di radicarsi e di ricavarsi una propria roccaforte. Qui però trovava già in campo 61

Questa nuova costituzione offriva il diritto di voto a 25.000 africani, i quali avrebbero potuto eleggere 8 membri al Legislative Council formato da 26 membri; praticamente sarebbero stati sempre in minoranza. Da notare che in questi anni erano presenti 70.000 europei contro 3.000.000 di africani. 62 Kenneth Kaunda, dopo aver fondato il nuovo partito, che inizialmente aveva chiamato ZANC (Zambian African National Congress), era stato arrestato e messo in prigione, da dove uscì nel 1961 per riprendere la leadership del nuovo partito che nel frattempo aveva assunto il nome di UNIP (United National Independence Party). Il rientro in campo del leader, che l’esperienza della prigionia aveva trasformato in eroe del nazionalismo, mise finalmente in moto il progetto del partito indipendentista, che abbandonò la vecchia politica non violenta tradizionale dell’ANC per assumere atteggiamenti decisamente più aggressivi e violenti, sulla falsariga dei movimenti della tradizione rivoluzionaria europea.

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il quartier generale della Chiesa Lumpa, in quegli anni alla sua massima espressione. Essa, come abbiamo detto, non era aliena da sentimenti nazionalisti, anche se li inglobava in un progetto di carattere ‘olistico’ che aveva assunto la forma di un millenarismo religioso. In un primo tempo, perciò, l’entrata in campo del movimento insurrezionalista fece piuttosto pensare ad una possibile doppia militanza e larga parte della popolazione già lumpa aderì al tesseramento del nuovo partito, che nella sua ‘propaganda politica’ ripresentava la stessa impostazione manichea della Chiesa Lumpa, con la sola differenza che ora il male assoluto riceveva un nome proprio: l’amministrazione coloniale63. Del resto i leader del nuovo partito non andavano per il sottile e la consegna era che tutta la popolazione della Northern Province dovesse obbligatoriamente tesserarsi, anche con la forza. Questa prima fase aveva coinciso con l’assenza della ‘profetessa’, la quale, a partire dall’inizio del 1961, si era trasferita nel Copperbelt per promuovere il suo movimento nella regione mineraria. Rientrata, verso la metà del 1962, nella sua Sion, Alice Lenshina trovò una situazione profondamente mutata e cercò di riorganizzare il suo movimento, destabilizzato dall’entrata in campo dello UNIP, rendendo incompatibile la doppia militanza. Facendo leva sulla sua popolarità sempre indiscussa, chiese ai suoi fedeli di tenersi lontani dalla politica e di bruciare le tessere del partito nazionalista. In realtà, con questo gesto di rottura, non faceva altro che riprendere e imitare una campagna simile che lo UNIP aveva condotto l’anno precedente contro l’amministrazione coloniale stessa, campagna che consisteva appunto nel bruciare pubblicamente le carte di identità coloniali attestanti il colour bar – l’appartenenza razziale – e quindi simbolo particolarmente odioso di discriminazione. Nello stesso contesto, la Chiesa Lumpa da parte sua cominciò a distribuire proprie tessere che verranno chiamate “passaporti per il cielo” 64.

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Gordon 2008: 50. 64 Scrive D.Gordon: “The destruction of party cards was a potent act of rebellion

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Per lo UNIP, consapevole dell’enorme influenza della profetessa sulla popolazione, questo smarcamento della Chiesa Lumpa dalla politica appariva estremamente pericoloso e rischiava di vanificare tutto il proprio sforzo di fare della Northern Province la roccaforte del partito che nelle prossime decisive elezioni (fine anno 1962), svolte per la prima volta con una costituzione realmente rappresentativa, si giocava il potere di guidare l’intera Northern Rhodesia verso l’indipendenza. La reazione fu pertanto dura e violenta: vennero bruciate le cappelle lumpa nei vari villaggi e impedite le celebrazioni domenicali; queste dovevano essere sostituite con la partecipazione obbligatoria ai comizi del partito, modellati sulla falsariga delle stesse celebrazioni. Le violenze ai danni dei lumpa e le rappresaglie di quest’ultimi si moltiplicarono; gli animi si esacerbarono e si estremizzarono: la divisione fra Lumpa e UNIP passava nelle stesse famiglie e nelle stesse parentele, tra la stessa gente degli stessi villaggi, con gli uomini tendenzialmente più verso lo UNIP e le donne tendenzialmente più verso i Lumpa65. Queste continue e ripetute violenze portarono la Chiesa Lumpa, lungo il corso del 1963, a concepire e realizzare un progetto radicalmente e geograficamente separatista: la costituzione di villaggi lumpa separati dai villaggi ormai dominati dallo UNIP. Questo fenomeno toccava però against UNIP. The burning of the colonial identity documents, the fitupa, had been one of the most significant acts of UNIP resistance. Instead of fitupa people had to buy UNIP party cards; instead of colonial poll tax, UNIP membership fees were paid. Party cards not only signified membership of a political party; they were an alternate form of identity that expressed and broadcast the authority of UNIP in place of the colonial administration. Burning this new form of identification was a radical rejection of UNIP authority. In their place, the Lumpa offered their own card, which they called ‘passports to heaven’.” Gordon 2008: 53-54. Le ‘tessere di partito’ o i ‘passaporti per il cielo’, erano una specie di ‘feticcio’: mettevano in gioco le rispettive identità. La tessera costituiva un oggetto di identificazione, modellato su un elemento di occidentalizzazione; il fatto che i Lumpa rifiutano la tessera dello UNIP, ma si inventano delle loro tessere, rientra sempre in quel gioco delle rivalità in cui in palio c’è la conquista dei valori occidentali. 65 Gordon 2008: 53ss.

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solo la Northern Province (l’altopiano bemba) e non le altre comunità sparse nelle altre zone del paese. Si formarono una quarantina di misumba lumpa con una popolazione di circa 20.000 persone. Molti di questi villaggi si fortificarono con alte palizzate, divennero inaccessibili sia agli avversari politici che alle autorità coloniali e svilupparono una decisa impronta millenarista. Mentre si consumava questo processo separatista della Chiesa Lumpa, il partito dello UNIP accedeva invece alla grande politica nazionale. In seguito ai risultati delle elezioni del 1962 era nato, infatti, il primo governo coloniale a maggioranza nera, formato da una coalizione UNIP-ANC, che decretò la fuoriuscita dalla Federazione, stilò una nuova costituzione e portò il paese a nuove elezioni per eleggere un nuovo governo nazionale che avrebbe avuto il compito di creare le condizioni per l’indipendenza del paese. In questa seconda tornata elettorale lo UNIP, grazie anche alla violenza della sua propaganda, conquistò il potere assoluto, formò da solo l’ultimo governo ancora sotto l’egida dell’amministrazione coloniale e stabilì l’inizio dell’Indipendenza nazionale per il 24 ottobre 1964. A questo punto la rivalità fra i due movimenti, emersi all’interno della società bemba come tentativo di soluzione della crisi ingenerata dal colonialismo e sotto la pressione di categorie importate (il ‘religioso’ e il ‘politico’), aveva generato due proposte radicalmente diverse e contrapposte, che però condividevano la stessa cultura ‘olistica’ tradizionale di fondo e la stessa impostazione manichea. Si produsse così un reciproco processo di satanizzazione. La comunità lumpa, ‘millenaristicamente’ radicalizzata, non riconosceva alcuna autorità al di fuori di sé; il primo governo nazionale africano non poteva accettare lo scacco di un settore della popolazione al di fuori del proprio controllo. Nessuna mediazione venne dall’ancora presente autorità coloniale britannica in via di smantellamento66.

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Gordon 2008: 58.

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Dopo ripetuti tentativi da parte degli antichi maestri di Lubwa divenuti massimi dirigenti della nuova nazione – il Primo Ministro Kenneth Kaunda e il suo vice Simon Kapwepwe – di ottenere dalla loro antica compagna di scuola, la profetessa Alice Lenshina, e dai suoi Diaconi lo smantellamento dei villaggi lumpa e il ritorno della gente nei rispettivi villaggi di provenienza dominati dai nazionalisti, alla fine di luglio vennero mandati sul campo due battaglioni dell’Esercito Rhodesiano che attaccarono, uno dopo l’altro, tutti i villaggi ribelli, operando un vero e proprio massacro della popolazione lumpa che cercò invano di difendersi con archi e frecce contro i fucili automatici67. Difficile stabilire l’entità del massacro: migliaia furono le persone uccise negli scontri; almeno altrettante, successivamente, le morti tra coloro che si erano dati alla macchia, per le ferite riportate, la fame, le malattie, l’attacco di bestie feroci. Circa 4.000 persone, arresesi, si ritrovarono per qualche anno sottoposti ad un duro regime di rieducazione in due distinti campi di prigionia. La maggior parte dei superstiti del massacro preferì invece prendere la strada dell’esilio e compiere un viaggio di almeno 500 kilometri attraverso le foreste dell’altopiano per rifugiarsi in Congo68. Qui, la comunità degli esiliati si stabilì in una località chiamata Mokambo, posta strategicamente davanti ad uno dei più importanti centri minerari della provincia zambiana del Copperbelt, Mufulira, dove c’era una grossa comunità lumpa non coinvolta, come tutte le comunità del Copperbelt, nella ribellione e nei massacri. La Chiesa Lumpa, nel frattempo, era stata messa al bando e ogni manifestazione che la richiamasse in vita severamente punita. Progressivamente, soprattutto dopo la chiusura dei 67

La storiografia ufficiale zambiana, almeno per tutto il periodo del regime di Kaunda, parlerà sempre di “lumpa uprising”, di ribellione lumpa, addossando alla chiesa la maggiore responsabilità dell’accaduto. David Gordon invece, nel suo recente saggio, intitolato significativamente “Rebellion or Massacre?”, grazie sia all’accesso alla documentazione archivistica, sia alle sue ricerche sul campo tra i reduci lumpa, preferirà parlare di vero e proprio ‘massacro’ operato dalle autorità. Gordon 2008. 68 Gordon 2008: 60-69.

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campi di prigionia, la gente lumpa rimasta in Zambia prese la strada dell’esilio e verso il 1968 si registrava la presenza di almeno 20.000 profughi oltre il confine69. La profetessa Lenshina, consegnatasi spontaneamente alle autorità nel corso delle operazioni militari dell’estate 1964, fu tenuta in detenzione praticamente fino alla sua morte, avvenuta il 7 dicembre 1978. Durante tutto il periodo della sua prigionia riuscì però a mantenere costanti rapporti con la comunità degli esiliati che, soprattutto nei primi anni, si era andata radicalizzando nella propria fede millenaristica. Fino alla morte della profetessa non vennero mai meno la speranza in una sua liberazione miracolosa e l’attesa di un suo ritorno per guidare la comunità verso la Musumba Celeste, la Nuova Gerusalemme. “New Jerusalem” è infatti uno dei nomi che la Chiesa Lumpa si è data dopo il suo rientro in Zambia, a parecchi anni dalla morte della profetessa. Questo rientro si è accelerato a partire dalla fine del regime di Kenneth Kaunda, nel 1991, quando i gruppi superstiti di fedeli poterono ricominciare a sperare in una ricostruzione della comunità e in un eventuale ritorno a Sion, l’antico villaggio sacro. A Kasomo, infatti, la profetessa aveva voluto essere sepolta all’interno del perimetro della Kamutola fatta radere al suolo da Kaunda nel 1972, nel punto esatto da cui era solita parlare alla sua gente. La sua tomba oggi è meta di un pellegrinaggio annuale. Alle prese con problemi di leadership (si trova diviso in tre fazioni: New Jerusalem, Jerusalem in Christ e Uluse Kamutola), il movimento suscitato da Lenshina negli anni Cinquanta, nonostante il terribile massacro del 1964 e i quasi 40 anni di esilio in Congo, è tuttora presente nel panorama del paese, come piccola chiesa indipendente, retta dalle figlie della stessa profetessa, a testimonianza ancora oggi del ruolo preminente delle donne in queste movimento70.

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Gordon 2008: 70-74. 70 Gordon 2008: 75-76.

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Le diverse letture del fenomeno Lumpa Dopo aver delineato, a grandi linee, la storia della Chiesa Lumpa sino ai nostri giorni, è necessario ora presentare brevemente le diverse letture che, da più parti, ne sono state date. La prima importante lettura è stata senz’altro quella degli osservatori contemporanei, soprattutto di coloro che non appartenevano ai campi ‘rivali’: la missione presbiteriana di Lubwa, quella cattolica di Ilondola, il campo nazionalista71. Tutti coloro che scrissero prima del precipitare del conflitto finale danno in genere un’immagine positiva di Lenshina e della Chiesa Lumpa72. Questa immagine positiva venne totalmente eclissata, nell’opinione pubblica, dalla successiva ‘normalizzazione’ governativa. L’immagine ‘ufficiale’ trasmessa dalle agenzie nazionaliste e continuamente ripresa dalla stampa, fu quella di un fenomeno di ‘fanatismo’ e di ‘primitivismo’, riferito soprattutto ai presunti comportamenti che sarebbero stati assunti durante l’ultima fase, quella che venne descritta come la ‘guerra santa’ contro il governo. Le fonti riportano l’accusa dell’impiego di ‘ripugnanti armi magiche’ che i Lumpa avrebbero utilizzato per difendersi dalle armi governative; ma si tratta di pura propaganda avversaria che, ai fini del processo di satanizzazione del nemico73, utilizzava uno stereotipo abbondantemente rinvenibile altrove: dalla guerra dei Maji-Maji contro i tedeschi negli anni

71

Lehmann 1961: 248-268; Taylor 1959: 305-312; Rotberg 1961: 63-78. 72 J.V. Taylor, in particolare, così descrive la donna dopo il suo primo incontro con lei: “She is one of the most relaxed and inwardly happy Africans I have met in this tension-ridden territory. She is completely sincere and very impressive. She obviously has had a very real ecstatic experience which has given her a deep sense of vocation, especially to the task of cleansing the Church of witchcraft”. 73 “Il processo di satanizzazione ha lo scopo di ridurre il potere degli avversari e di screditarli. Sminuendoli, umiliandoli, rendendoli subumani, si afferma la propria superiore potenza morale” così Mark Juergensmeyer, in Terroristi in nome di Dio, dove analizza gli intrecci tra terrorismo e fondamentalismo, una categoria non estranea alla nostra storia. Juergensmeyer 2003: 201.

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1905-1906 alle Holy Spirit Tactics della ‘guerra santa’ di Alice Lakwena in Uganda negli anni Ottanta74.

Un movimento contadino di resistenza. Una lettura totalmente diversa è invece quella dell’olandese W. M. J. Van Binsbergen che fa della Chiesa Lumpa un movimento rivoluzionario. Dalla sua prospettiva ideologica di stampo marxista, questo autore presta molta attenzione alla realtà socio-economica e ai processi di formazione delle classi sociali. Egli vede la vicenda lumpa come un episodio di antagonismo di classe nel contesto della relazione campagna/ città, il tentativo del mondo contadino di resistere alla propria forzata incorporazione nello stato moderno e nell’economia capitalistica del neo-colonialismo. Il conflitto fra movimento nazionalista e movimento lumpa si sarebbe configurato come un conflitto fra due diversi modelli di ‘ricostruzione strutturale’, quella del proletariato urbano e quella del proletariato rurale: le due specifiche situazioni di classe generate dal colonialismo75.

La ricostruzione di un mondo passato. Su questa lettura ‘marxista’ di Van Binsbergen si è registrato un ampio dibattito. Anche il missionario cattolico J.-L. Calmettes, nel suo lavoro del 1978, fa una lettura ‘sociologica’ della vicenda a partire dalla formazione e dallo scontro delle classi, ma rifiuta la lettura ‘rivoluzionaria’ di Van Binsbergen. Secondo lui, Lenshina aveva in realtà ricostruito l’antico mondo ‘tributario’, proprio della vecchia società bemba, con le stesse contraddizioni di classe tra capi e popolazione rurale. Anche lui 74

Visca 2004: 94-95. 75 Van Binsbergen considera il governo nazionalista di Kaunda come espressione della nuova borghesia nazionale e pertanto ‘riformista’, la quale non poteva non combattere e distruggere le forze ‘rivoluzionarie’ espressione di una diversa progettualità sociale. Van Binsbergen 1976: 110.

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finisce dunque per parlare di scontro di classe, riconducendolo tuttavia non alla dialettica tra ‘campagna’ e ‘città’, ma all’interno della stessa comunità lumpa, ove i capi avrebbero costituito la classe degli ‘sfruttatori’ e i membri comuni la classe degli ‘sfruttati’. Secondo tale interpretazione, la defezione di circa l’80% dei seguaci, all’inizio degli anni Sessanta, dalla Chiesa Lumpa verso il partito dello UNIP fu causata da questo conflitto di classe. Il conseguente tentativo di Lenshina di bloccare l’emorragia dei membri della sua Chiesa sarebbe stato motivato dalla difesa dei privilegi di classe del suo gruppo di potere. Le cause del conflitto finale andrebbero dunque cercate nelle contraddizioni di classe interne allo stesso movimento lumpa76.

La rivincita degli ‘analfabeti’. Anche Jan Kees Van Donge contesta l’analisi di Van Binsbergen e preferisce richiamare l’attenzione su un diverso fattore. Il movimento nazionalista aveva il suo zoccolo duro nella classe dei maestri formatisi presso le missioni protestanti europee, dove la scolarizzazione costituiva uno dei principali pilastri della stessa evangelizzazione. Tutte le Chiese indipendenti africane esercitavano invece una forte attrazione sulla popolazione ‘illetterata’, in quanto erano le sole ad offrire opportunità di avanzamento sociale senza bisogno di passare attraverso l’istituzione scolastica. Le posizioni gerarchiche all’interno delle comunità, e le imprese economiche collettive basate su queste comunità, erano accessibili a tutti indistintamente. Queste Chiese indipendenti africane offrivano pertanto la possibilità di una ricostruzione integrale della società senza la discriminante costituita dall’educazione europea. Ciò che avrebbe generato la Chiesa Lumpa non sarebbe stata dunque la dialettica fra città e villaggi, ma una dialettica tutta interna all’acculturazione: fra gli ‘euro-

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Calmettes 1978: 191-197.

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peizzati’, ai quali si aprivano tutte le nuove opportunità, e la popolazione ‘analfabeta’, che rivendicava il proprio protagonismo sociale77.

Una rivolta al femminile. Per Hugo Hinfelaar78 il movimento lumpa sarebbe invece, in primo luogo, l’espressione di una ‘rivolta femminile’ attraverso la quale le donne hanno cercato di riprendersi l’antico ruolo socio-religioso centrale nella cultura delle popolazioni dell’altopiano prima dell’invasione della cultura luba dei dominatori Bena Ngandu e della forzata ‘mascolinizzazione’ della società causata dall’arrivo della dominazione europea. La nuova economia, instaurata dall’avvento del colonialismo, aveva stravolto completamente la vita delle famiglie. Su questo sfondo di sofferenza soprattutto femminile, Hinfelaar rilegge la storia della Chiesa Lumpa, un movimento che ha soprattutto nelle donne il suo nerbo portante. A parte la funzione di leadership della profetessa, le donne avevano accesso a tutte le cariche all’interno della Chiesa, come non era mai successo in nessun altro movimento di questa regione dell’Africa. Questa lettura ‘femminista’ del movimento lumpa, introdotta dallo studio di Hinfelaar, ha ricevuto recentemente altri sostenitori, come David Gordon e Owen Sichone, i due studiosi che stanno attualmente lavorando ad una rilettura del fenomeno lumpa79.

77

Van Donge 1990. Jan Kees van Donge, esperto olandese di politiche sociali, ha insegnato in diverse università africane, fra cui alla University of Zambia di Lusaka dal 1971 al 1978. 78 H. Hinfelaar ha scritto una interessante tesi di laurea sulla evoluzione della figura femminile in Zambia, poi pubblicata nel 1994 (Hinfelaar 1994). Il capitolo V intitolato “Women’s Protest: The Lumpa Church”, era però già stato pubblicato a parte (Hinfelaar 1991) con il titolo “Women’s Revolt: The Lumpa Church of Lenshina Mulenga in the 1950s”. Il termine ‘rivolta femminile’ dunque è dello stesso Hinfelaar. 79 Sichone 2005: 805.

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Un esempio di cristianesimo inculturato. Se all’inizio i missionari, soprattutto cattolici, avevano accusato Alice Lenshina di ‘eresia’ perché mescolava la credenza africana nella stregoneria con il battesimo cristiano e postulava una speciale rivelazione per gli Africani, successivamente, già agli inizi degli anni Sessanta, gli stessi cominciarono a vedervi un esempio di inculturazione. Alcune ‘lezioni’, soprattutto in campo liturgico (inni, canti e danze locali), furono prese a modello dalle altre chiese. In seguito alle nuove prospettive provenienti dal Concilio Vaticano II, oltre a questa lezione di carattere pastorale, venne preso in considerazione anche l’aspetto ‘soteriologico’ sotteso al messaggio della profetessa. A partire da una autocritica sul fallimento della predicazione missionaria a riguardo delle credenze tradizionali, rimaste sempre vive come ombra onnipresente sulle missioni, il missionario L. Oger si chiede se non sia il caso di cambiare radicalmente rotta e di assumere, in un certo senso, proprio la prospettiva magico-religiosa africana per farne un luogo privilegiato “de la rencontre du Christ dans la foi”, come recita il sottotitolo di un suo scritto80. Si cominciava a capire che la peculiarità dell’esperienza religiosa di Lenshina era consistita nell’accostarsi al cristianesimo a partire dalla propria cultura interpretativa del mondo, in base alla quale contestualizzare il cristianesimo stesso: valga per tutto il discorso sulla lotta antistregonesca, nella quale Lenshina sembra reinterpretare e contestualizzare il dato soteriologico cristiano81.

80

Oger 1960: 22-23. Oger 1995. 81 Ma se la riflessione di L. Oger è più su una linea pastorale, troviamo un altro missionario teologo che invece riflette sulla vicenda lumpa dal punto di vista della teologia dogmatica: il missionario salesiano belga Jean-Luc Vande Kerkhove, oggi preside della Facoltà Teologica di Lubumbashi in Congo (Katanga), nel 1983 dedica il suo lavoro di Laurea in Teologia alla ‘Soteriologia’ in Africa: “Le mystère du salut dans le contexte de l’Afrique Centrale”, ma fa questo, come recita il sottotitolo, con una “Reflexion à partir du message de la Lumpa Church d’Alice Lenshina” a cui in realtà dedica i 2/3 del suo lavoro. Cfr. Vande Kerkhove 1983.

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La ‘nuova tribù’ dei Bena Lesa. David M. Gordon, che basa la sua ricerca su una mole documentaria prima inaccessibile e su un’ampia serie di interviste condotte con esiliati lumpa per la maggior parte sopravvissuti al massacro del 196482 e solo di recente tornati in Zambia, pone attenzione per la prima volta alla narrazione interna della storia della comunità lumpa. I suoi lavori si inseriscono in un nuovo filone di ricerca che studia la costruzione identitaria delle comunità etniche in situazioni di stress, come ad esempio le comunità dei rifugiati, analizzando in particolare l’apporto dei fattori religiosi, in genere sottovalutati dai ricercatori, nella costruzione delle nuove entità etniche. Egli ritiene che nel contesto dell’esilio ed in contatto con etnie diverse la comunità lumpa, attraverso la memoria di sé basata sulla narrazione interna della propria storia di sofferenze, ricostruita ed interpretata entro la cornice della propria cultura ancestrale e delle molteplici influenze del cristianesimo sia indigenizzato che missionario, abbia finito per forgiare una forte identità di gruppo basata sul fattore religioso ma in grado di raggiungere la forza dei legami etnici. “Out of the Lumpa approach to salvation emerged a history of suffering and of faith that mobilized a distinctive identity. The Lumpa gave allegiance to deacons, not chiefs; they had long lost their land, but identified “Zion” as their homeland. They had become Bena Lesa, the people of God, no longer Bemba or Zambians83” Insomma dal movimento lumpa di Lenshina sembra essersi generata una nuova tribù di carattere religioso più che etnico. Come si è visto, abbiamo potuto registrare un ampio dibattito attorno al modo di interpretare questo movimento. Il tipo di lettura ovviamente risente della propria impostazione sia ideologica che disciplinare. Il sociologo, lo storico, il teologo, il missionario: ognuno rilegge la storia dal suo angolo visuale e può gettare una particolare luce sulla stessa vicenda 82

Gordon 2009: 191-209. 83 Gordon 2009: 206.

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analizzata. Sono stati toccati molti aspetti che possono essere considerati complementari e tutti assieme possono dare una visione globale della vicenda. C’è però un aspetto che, seppure emerso più volte in diversi autori, sembra essere rimasto alquanto nell’ombra o per lo meno non sviluppato come tema centrale da nessuna lettura in particolare: quello del ‘sincretismo’. Vorrei offrire un mio personale contributo all’interpretazione della vicenda lumpa, adottando un approccio tipicamente storico-religioso alla vicenda.

Approccio storico-religioso alla vicenda Lumpa Nel 1967 Vittorio Lanternari, parlando di Alice Lenshina, aveva scritto che “l’elemento centrale della nuova religione era l’esperienza visionaria e liberatrice della profetessa”84. A conferma del fatto che Lanternari aveva visto giusto, riportiamo l’affermazione trovata in un lungo articolo pubblicato il 4 maggio 2008 dal settimanale zambiano The Sunday Post con il titolo “Retracing Lenshina’s followers”. In esso l’autore – Mwala Kalaluka – riferendo le parole di alcuni leaders di una delle attuali formazioni lenshiniste da lui intervistati, scrive che “the group of church leaders present during the visit said they have kept up to Lenshina’s vision because they want to be saved”85. L’esperienza religiosa sembra dunque rappresentare, senza ombra di dubbio, il cuore e il motore dell’intera vicenda: il suo mito di fondazione86. E’ alla luce di questa categoria storicoreligiosa che intendo dunque dedicare l’ultima parte del mio saggio a un’analisi dei racconti relativi all’esperienza visionaria della profetessa. 84

Lanternari 1967: 209. 85 Kalaluka 2008: 12. 86 Per il concetto di mito ‘fondante’ cfr. Brelich 2003: 11. Utilizzo qui questo importante concetto storico-religioso alla stessa maniera con cui lo utilizza Visca per l’Holy Spirit Movement generato dall’altra ‘profetessa’ di nome Alice, la ugandese Alice Lakwena. Visca 2004: 96-97.

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Il ‘mito di fondazione’ La vicenda di cui ci stiamo occupando è nata e si è sviluppata in anni recenti e in un ambiente altamente acculturato; per questo motivo disponiamo di un’ampia documentazione relativamente alle sue origini e in particolare all’esperienza mistica della profetessa. Questi documenti possono essere divisi in tre categorie: testimonianze dirette o indirette di incontri con Lenshina negli anni 53-5987; testimonianze dell’ambiente circostante tra il 1955 e il 196088; testimonianze rielaborate successivamente89. Bisogna però fare una ulteriore precisazione: mentre le prime due categorie riguardano ‘testimonianze esterne’ alla Chiesa Lumpa e sono relative ai primi anni del movimento, la terza appartiene alla ‘narrativa interna’ e riflette la situazione successiva alla messa al bando della chiesa. Non avendo lo spazio per poter esaminare analiticamente questi diversi racconti, ne offro di seguito una sintesi schematica, evidenziando in corsivo la ‘versione base’ del Rev. Macpherson90.

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Sono le testimonianze dirette riportate in Macpherson 1958, Lehmann 1961, Taylor 1959, Rotberg 1961, alle quali vanno aggiunte le testimonianze indirette di Mushindo e Kakokota, riportate: la prima in Lehmann 1961 e la seconda in Oger 1960. Con ‘testimonianza diretta’ intendiamo la circostanza in cui l’autore ha incontrato direttamente la profetessa; mentre nella ‘testimonianza indiretta’ l’autore riferisce la testimonianza diretta di un’altra persona. 88 Gli autori che riferiscono testimonianze dell’ambiente circostante sono: Oger 1960, Stone 1958 e Hudson 1999. 89 Kampamba 1998 e Gordon 2008. 90 Il Rev. Fergus Macpherson era il ministro responsabile della missione di Lubwa e fu il primo a raccogliere la testimonianza della donna che si era rivolta direttamente a lui, per ordine dello stesso ‘signore della visione’, come da lei affermato. La sua pertanto viene ritenuta la testimonianza diretta più vicina al fatto. La stessa profetessa successivamente cambierà versione in non pochi punti.

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Sintesi dell’esperienza visionaria Prima dell’esperienza visionaria. Mulenga Lubusha afferma di essere morta e risorta tre volte prima dell’ultima esperienza abbinata alla visione (Macpherson). Fin da ragazza ha delle trance sotto il ‘grande albero’ Museshi (Oger, Kakokota); è soggetta a possessione ed è considerata una ngulu (Oger, Kakokota, Mushindo, Lehmann).

Malattia, morte e resurrezione. L’ultima morte e resurrezione avviene in casa, testimone la gente del villaggio raccolta per il suo funerale (Macpherson); avviene in casa ma senza la presenza di alcuno, le persone vengono radunate dopo dalla stessa Mulenga che racconta l’evento (Mushindo); il fatto accade durante una delle sue trance presso il grande albero (Oger); avviene nel bosco dove Mulenga era andata da sola a raccogliere funghi e poi lei stessa racconta l’evento alla gente (Rotberg); avviene mentre stava partorendo (Rotberg). Durante lo stato di morte. Durante lo stato di morte Mulenga sente solo la chiamata ad andare al fiume (Macpherson). Essa viene trasportata dagli angeli in cielo dove ha una prima visione, incontra e parla con Dio (Oger, Mushindo), e anche con S. Giovanni Battista (Kampamba). Si ritrova su una roccia nel mezzo dell’oceano (Gordon, Kampamba); attraversa l’oceano miracolosamente su una corda (Gordon, Kampamba); oltre l’oceano, dove incontra Gesù, c’è una grande città (Gordon, Kampamba). Dopo il ritorno in vita. Dopo il suo ritorno in vita si reca a piedi al fiume, respingendo la folla che vorrebbe seguirla (Macpherson); si reca presso il grande albero (Mushindo). Visione. La visione è unica e avviene al fiume (Macpherson); è duplice e avviene la prima volta in cielo e una seconda volta presso il grande albero (Oger, Mushindo, Kampamba). La visione è difficile da descrivere e da interpretare (Kakokota, Hudson, Rotberg). In essa Mulenga vede un personaggio incredibilmente luminoso, uno Mfumu (Rotberg, Hudson). Il personaggio viene identificato con Dio (Oger, Kakokota, Kampamba), con Gesù (Macpherson, Mushindo), si usa solo il termine ‘Lord’ sottin212

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tendendo che si tratti di Dio o di Gesù (Hudson, Rotberg). Il personaggio è attorniato dalla sua gente (Macpherson), dagli angeli (Mushindo, Kampamba), da Giovanni Battista (Kampamba); è il sovrano di una grande città (Gordon, Kampamba). Le parole della visione. Sente la voce di Gesù che dice in lingua locale ‘alla sua gente’ presso il fiume: “Rimandatela indietro, il suo tempo non è ancora giunto” (Macpherson); la stessa frase viene detta in cielo ‘agli angeli’ (Mushindo, Rotberg); ma anche oltre l’oceano, nella grande città (Gordon, Kampamba). Le vengono insegnati degli inni (Macpherson e tutti gli altri). Le viene mostrato, ma non dato, il ‘Libro della Vita’ (Macpherson, Hudson); presso il grande albero le vengono dati due libri, ma poi le vengono tolti per colpa dell’intervento di alcune donne che la credevano una ngulu, ma il contenuto è stato spiegato a Mulenga che lo comunicherà oralmente (Mushindo, Kampamba); i libri sono tre, due vengono ritirati, il terzo viene lasciato a Lenshina che però è la sola a poterlo leggere pur essendo analfabeta (Oger). La missione affidatale. Nella visione non viene affidata a Mulenga alcuna missione specifica (Macpherson, Kakokota); Mulenga riceve l’ordine di recarsi dai missionari europei per ascoltare un messaggio per lei (Macpherson), per farsi battezzare (Kakokota). L’ordine non specificava a quali missionari rivolgersi, se Lubwa o Ilondola (Kakokota). Nella visione a Mulenga viene assegnato il compito di ‘costruire sulla roccia’ (Rotberg); le viene assegnata la missione di lottare contro malattia e stregoneria (Oger). Deve portare un messaggio ai missionari di Lubwa (Mushindo); Dio desidera offerte in denaro (Mushindo, Kampamba). Le viene assegnata la missione profetica di predicare conversione e penitenza come Giovanni Battista (Kampamba). Le viene assegnato un nuovo nome: Lenshina (Kampamba). Dopo la visione. Mulenga si reca alla missione di Lubwa per chiedere consiglio ai missionari (Relazione Commissione); Mulenga si reca alla missione di Lubwa per portare al ministro africano un messaggio per i missionari ricevuto nella visione, come ripiego incontra il ministro europeo (Mushindo); Mulenga vuole parlare espressamente e in privato con 213

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il missionario europeo per ricevere il messaggio, come ordinatole dalla visione (Macpherson, Kakokota). La prima cosa che colpisce è la grande varietà delle tradizioni contrastanti, racconti ritenuti dal mondo missionario ridicoli91, irresponsabili92 o vera e propria frode93. Grazie ad un approccio storico-religioso, invece, possiamo vedere qui in atto un processo di superfetazione di elementi ‘mitici’, dovuto al fatto che l’esperienza visionaria della profetessa diventa da subito il ‘mito di fondazione’ del movimento sorto attorno a lei, e come tale si adegua e conforma ai suoi sviluppi.

La realtà ‘attuale’ fondata dal mito. A partire dalla versione base, man mano che il movimento cresce e si affrontano nuove sfide e nuove situazioni, il ‘mito’ si viene modificando in modo da riuscire a fondare la nuova situazione attuale della Chiesa94. Facciamo solo un esempio. L’ambientazione del colloquio con il ‘signore della visione’ è in Macpherson “il fiume” e questo può benissimo corrispondere al primo stadio del movimento, quello più legato alla cultura mitica ancestrale. Ma poi si comincia ad affermare che Lenshina è stata portata “in cielo”, dove intervengono “angeli”, “cori angelici”. E questo rappresenta lo stadio successivo della ‘attualità’ lumpa: la vera e propria costituzione della Chiesa95. 91

Oger 1960: 2. 92 Report 1965: 3. 93 Greschat 1968: 8-13. 94 Il concetto di ‘attualità’ qui è preso nel senso datogli dalla Scuola romana di Storia delle religioni come concetto che si oppone al ‘mito’: mentre il ‘mito’ rappresenta non la realtà, ma la sua ‘fondazione’ extratemporale, un racconto del perché le cose sono così come sono, la ‘attualità’ rappresenta il mondo come è effettivamente e come viene esperito dalla comunità umana che si richiama a quel mito. 95 Possiamo osservare anche che a questo modificarsi del mito, corrisponde una diversa comprensione della stessa leader del movimento, la ‘Profetessa Lenshina’. Come

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L’esigenza di fondare sulla visione la prassi della chiesa finisce per inglobare in essa la maggior parte degli elementi caratteristici di cui si componeva l’esperienza quotidiana delle comunità che avevano aderito al messaggio della profetessa: la possibilità di una espressione di sé profondamente coinvolgente tramite l’attività ‘canora’; la concreta rinuncia alla stregoneria come metodo di offesa e di difesa; la prassi battesimale; l’aspettativa di una guarigione profonda; la ricostruzione della famiglia tramite il protagonismo femminile; il nome dal cielo come simbolo della vita nuova; la fertilità della terra; il lavoro comune, l’organizzazione del nuovo popolo lumpa. E poi ancora: il culto, presieduto dalla profetessa, che si celebrava a Sione, dove si arrivava in massa dopo un lungo pellegrinaggio; il rigorismo morale ripreso dalla chiesa madre presbiteriana, ma portato alle estreme conseguenze da chi si sente ‘lumpa’, migliore, più avanti. Tutto questo come ‘fondato’ su quella Lenshina’s Vision a cui ancora oggi fanno riferimento i fedeli della profetessa “because they want to be saved”. Se adottiamo questa prospettiva di lettura, le diverse ambientazioni dell’esperienza religiosa (il grande albero, il fiume, la foresta, il villaggio

abbiamo visto, il primo titolo dato ad Alice Mulenga Lubusha non è stato quello di ‘profetessa’, ma quello di origine cattolica di ‘regina’, poi diventato nome proprio come ‘Lenshina’. Questo ‘titolo’ è comparso quasi subito in relazione al formarsi iniziale di una aggregazione nuova attorno alla donna e può essere facilmente interpretato considerando da una parte il titolo cattolico, che circolava nell’ambiente: ‘regina del cielo e madre della chiesa’; e dall’altra ricorrendo alla mitologia fondatrice della cultura bemba dove si parlava espressamente dell’antenata mitica come di una ‘regina piovuta dal cielo’, ‘madre dei fondatori del popolo bemba’. L’attribuzione di questo titolo ad Alice Mulenga Lubusha, testimonierebbe la fase originaria del movimento lumpa, quella più legata alla cultura ancestrale. Il termine ‘profetessa’ invece sembrerebbe arrivare successivamente, quando si afferma la consapevolezza di essere diventati una ‘chiesa nera indipendente’. A questo punto, in analogia a paralleli ormai conosciuti – come Simon Kimbangu e altri personaggi simili considerati ‘profeti’ per i loro rispettivi popoli – dai quali erano state generate appunto chiese africane indipendenti, la stessa Lenshina si sarebbe vista attribuire lo status profetico sia da parte dei propri seguaci che da quella degli osservatori esterni.

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ed infine la missione stessa) non appaiono più come incongruenze dei vari narratori, ma come luoghi di vita fisici e sacri che acquistano senso e significato esistenziale, facendo dell’esperienza religiosa della profetessa una ermeneutica delle condizioni concrete di esistenza delle masse che la seguivano. Luoghi di vita fisici in quanto, a ben guardare, queste ambientazioni costituiscono la totalità del mondo concreto di una comunità africana in zona rurale di quegli anni. Ma anche luoghi di vita ‘sacri’, resi densi di significati dagli spiriti degli antenati che vi sono vissuti e dalla mentalità magico-sacrale che tutto pervade e che costituisce la cultura interpretativa del vivere di queste popolazioni. Una cultura però già pervasa e sincretizzata dagli influssi provenienti dai centri della nuova cultura straniera, influssi che, non essendo ancora predominanti, vengono essi stessi reinterpretati a partire da quella stessa cultura tradizionale di base. Il ‘grande albero’ museshi è in genere associato agli spiriti e alle trance da essi indotte; esso richiama la religione territoriale degli ngulu, ma rimanda anche all’epopea dei Bemba, essendo anche il significato del nome del capo supremo, Chitimukulu. La ‘foresta’ è l’ambiente tipico dell’incontro con il mondo extraumano e sovrumano, ma anche il luogo in cui è apparsa in terra l’antenata mitica del clan reale. Al ‘fiume’ e al suo ‘attraversamento’ è legato il mito fondatore dei Bemba in generale e del clan dei Bena Ngandu in particolare con l’epopea del Chitimukulu I. Il ‘cielo’ è il luogo delle forze sovrumane, dell’essere supremo Lesa, e il luogo da cui l’antenata mitica, la regina celeste Mumbi Mukasa Liulu, proviene. Il ‘villaggio’ è il luogo dove concretamente il mondo sovrumano si manifesta nell’esperienza quotidiana delle persone. La ‘missione cristiana’ è invece il nuovo luogo ‘mitico-rituale’ che ha introdotto i nuovi spiriti più potenti di quelli ancestrali, l’ambiente che costringe il mondo ancestrale alla ridefinizione di sé, all’integrazione sincretica con la nuova religione.

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La ‘crisi’ e la ‘persistenza’ del mito L’ipotesi che la grande varietà dei resoconti dell’esperienza visionaria della profetessa, provenienti da ‘testimonianze esterne’ alla comunità, vada interpretata come espressione della adattabilità del mito di fondazione alle diverse situazioni ‘antropologiche’ nelle quali veniva narrato e per le quali doveva costituire il fondamento, viene avvalorata dall’analisi della ‘narrativa interna’ che oggi circola nelle comunità lenshiniste. Questa ‘narrativa interna’, come dimostra lo studio di David Gordon, si è formata nel fuoco della dura esperienza del massacro subito, dell’esodo forzato attraverso le foreste e del successivo status di rifugiati in Congo: situazioni del tutto nuove che richiedevano anch’esse una fondazione nel mito originario, se si voleva continuare a dar senso alla realtà vissuta. Che ne era stato, infatti, del mito di fondazione nella situazione di crisi profonda, apocalittica, nella quale le promesse della profetessa sembravano essere state clamorosamente smentite? Contrariamente a quanto ci saremmo aspettati, esso non è entrato affatto in crisi, ma ha continuato a ‘funzionare’ come generatore di senso, come fondazione di nuove situazioni. Il mito è stato, ancora una volta, trasformato in modo da sovrapporre la storia della comunità perseguitata alla stessa esperienza religiosa della profetessa, passata attraverso la sofferenza, la morte e la risurrezione. L’‘attraversamento del fiume’ con cuore puro, elemento presente nel racconto-base, riletto sin dall’inizio come rito battesimale, viene rivissuto ora nell’attraversamento del massacro e delle foreste verso la salvezza in Congo. Ma questa stessa epopea condurrà sempre più ad una ‘lettura biblica’ dell’intera vicenda. La storia del mito di fondazione si intreccia così anche con la storia di uno dei simboli più intriganti, quello del ‘libro della vita’ che Lenshina avrebbe visto/ ricevuto all’inizio di tutta la storia. Così pure l’‘albero sacro’, il luogo primigenio della manifestazione degli spiriti ngulu e della visione stessa, che aveva costituito il primo ‘tempio’ lumpa sostituito poi, nel tempo del successo, dalla grande Kamutola, si trasforma nell’idea del Musumba Celeste, nella ‘Nuova Gerusalemme’ attesa nella nuova terra. 217

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All’analisi del contenuto sincretico di questi simboli particolarmente importanti nella Lenshina’s vision, dedicheremo le nostre pagine finali.

Una triplice simbologia: l’albero, il fiume, il libro. Hans-Jurgen Greschat nel suo studio storico-critico sulle ‘fonti’ relative alla visione di Lenshina, apparso su Africana Marburghensia nel 1968, fa rilevare, all’interno della selva di elementi leggendari presenti in questi racconti, l’importanza, per le idee inconsce della profetessa, di alcuni simboli ricorrenti; in particolare il ‘fiume’, il ‘libro’ e il ‘grande albero’96. Attraverso questi tre simboli possiamo avvicinarci al senso e al significato espressi dal nucleo originario dell’esperienza di Lenshina; cogliere la ‘risonanza’ delle idee religiose inconsce non solo sue, ma anche della sua gente. In essi possiamo scorgere, in un certo senso ‘in atto’, il processo di sincretizzazione dell’esperienza religiosa a cui è andata incontro Lenshina. Questi tre simboli, infatti, testimoniano le tre tradizioni religiose stratificate sul territorio che vengono amalgamate: il ‘culto territoriale’ delle popolazioni bashimatongwa che abitavano l’altopiano prima dell’arrivo dei Bemba (l’albero, gli spiriti ngulu e le loro possessioni); il ‘culto regale’ dei Bena Ngandu (il fiume, gli spiriti degli antenati, i mipashi, e l’epopea fondatrice della loro organizzazione sociale) e la ‘nuova religione’ coloniale (il libro, la figura di Gesù e il cristianesimo dei missionari).

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In realtà Greshat parla di due simboli fondamentali, il fiume e il libro. Pur registrando infatti che il terzo simbolo, quello del grande albero, è presente in almeno tre fonti come luogo della stessa esperienza religiosa, preferisce attribuirlo piuttosto ad una intenzione eziologica. Ritiene invece che le fonti che parlano dell’esperienza di morte e risurrezione ‘nella casa’ (Macpherson e Mushindo) preservino “more historical data”. Ma sembra dimenticarsi di notare che in queste due testimonianze, la vera esperienza di visione avviene nel primo caso (Macpherson) ‘al fiume’; e nel secondo caso (Mushindo) presso ‘l’albero’. Perciò io ritengo che anche il grande albero faccia parte della simbologia essenziale dell’esperienza visionaria. Greschat 1968: 12.

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Riprendiamo dunque questi tre elementi – espressione della stratificazione socio-culturale e simbolica delle popolazioni dell’altopiano bemba – che si fondono nell’esperienza visionaria sincretica di Lenshina.

L’albero delle possessioni ‘ngulu’ Il “grande albero” museshi dove si raccoglievano le migliaia di pellegrini in cerca del battesimo di Lenshina, dove la stessa Lenshina aveva ricevuto all’inizio la visione celeste o addirittura era morta e risorta, è un albero tradizionalmente legato agli spiriti ngulu. In diverse delle fonti che abbiamo preso in considerazione, Lenshina viene definita una ‘ngulu’. Il termine ngulu significa primariamente uno spirito territoriale, ma con lo stesso termine viene anche identificata la persona ‘posseduta’. Dunque possiamo comprendere il ‘fenomeno Lenshina’ inizialmente come fenomeno di possessione e quindi ricollocarlo all’interno del mondo carismatico della religione popolare. Il movimento lumpa nella sua fase iniziale considera il ‘grande albero’ come il proprio tempile e tutto si svolge davanti ad esso. In una seconda fase invece il culto lumpa si svolgerà tra due polarità: accanto al grande albero viene costruito un nuovo ‘tempio’, una semplice capanna simile ai tradizionali sacrari di villaggio dedicati al culto degli spiriti antenati. Lenshina ‘recupera’ e ‘sincretizza’ per il suo movimento religioso non solo un tipico luogo sacro del culto degli ngulu come il grande albero, ma anche il tipico luogo sacro del culto dei mipashi come il sacrario di villaggio. Ogni villaggio aveva un santuario che costituiva in un certo senso la sua ‘fondazione’97, in cui solo il capovillaggio o una 97

Per il culto reale, il sacrario o santuario di un villaggio bemba aveva sempre un riferimento storico: era stato fondato alla morte del primo capo di clan reale avvenuta in quel villaggio. Questi luoghi di culto dunque erano strettamente legati alla religione dei mipashi. Da essi differivano invece i luoghi di culto degli ngulu che erano sempre legati ad elementi naturali: una grotta, una cascata, un albero, ecc. Storicamente sembra ci sia stata una certa tensione fra i santuari degli ngulu e i santuari dei mipashi; la stessa tensione che c’era fra il popolo sottomesso e il popolo dominatore. Hinfelaar riporta

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persona anziana da lui incaricata si recava per invocare gli spiriti ancestrali o per consultare gli antenati per cose riguardanti la sicurezza del villaggio, la salute della gente, l’agricoltura o la caccia. I missionari avevano tentato tutto il possibile per sradicare queste usanze, condannando tutta la cultura in blocco e ottenendo l’effetto opposto. Ma dove i missionari avevano fallito, il movimento di Lenshina aveva avuto un travolgente successo: nei villaggi scomparivano i santuari tradizionali e comparivano le cappelle lumpa. In base a quanto abbiamo detto precedentemente, in questa sostituzione dei santuari dei mipashi con le cappelle Lumpa possiamo dunque vedere una sorta di rivincita della religione popolare sulla religione dominante. Secondo la nostra scelta interpretativa, infatti, l’esperienza religiosa visionaria di Lenshina parte da una esperienza possessiva ngulu che poi si amplifica e si trasforma sincretizzandosi con le altre due tradizioni religiose di cui assume di volta in volta contenuti e/o forme. E’ chiaro che il nuovo luogo di culto lumpa, nel mentre sostituisce il tradizionale sacrario di villaggio, assume anche il modello della ‘cappella’ cristiana, che i missionari sia cattolici che protestanti costruivano in ogni villaggio in cui riuscivano a mettere piede, per le funzioni religiose, le attività catechistiche e le stesse attività propriamente scolastiche. Questa tendenza a imitare la chiesa cristiana si fa del tutto palese nel momento in cui il secondo tempile – una semplice capanna -, costruito sulla falsariga del santuario di villaggio accanto al grande albero, viene sostituito da una grande chiesa costruita in mattoni sul modello stesso della cattedrale cattolica di Ilondola. Appaiono dunque del tutto evidenti le due tensioni

il fatto che alcuni Paramount Chiefs fino alla fine del 19° secolo avevano cercato di sopprimere questa religione popolare distruggendo i loro santuari. Hinfelaar 1994: 26-27. Questo potrebbe voler dire che la pronta risposta delle masse a Lenshina anche nella sostituzione dei santuari tradizionali con le cappelle lumpa potrebbe avere radici in questo latente e secolare conflitto. Il successo di Lenshina là dove i missionari avevano fallito era pertanto dovuto al fatto che lei offriva una risposta del tutto africana all’introduzione del nuovo.

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sincretiche: la ripresa e risemantizzazione dei vecchi modelli religiosi, e la loro integrazione nel nuovo modello cristiano. Ma come è stato possibile passare da un culto territoriale legato a un fenomeno di possessione e a un santuario naturale (il grande albero), ad un grande movimento strutturato? “Ecco una bella domanda per storici ed antropologi” dichiara il missionario Louis Oger98. Per tentare una risposta a questa domanda ci soffermiamo sull’analisi del portato mitologico del secondo elemento simbolico: ‘il fiume’.

Il ‘fiume’ del mito fondatore dei Bena Ngandu Il simbolo del ‘fiume’ è presente in una sola fonte, che è però quella determinante (Macpherson) e che abbiamo definito la ‘testimonianza base’. Nelle altre tradizioni l’incontro di Lenshina con Gesù presso ‘il fiume’ è stato sostituito da una diversa localizzazione: ‘il cielo’. In alcune delle tradizioni emerge la figura di Giovanni Battista, il profeta biblico che battezzava al fiume Giordano. Nella formula battesimale primitiva della Chiesa Lumpa, le persone venivano battezzate “in the waters of the Jordan”99. Dunque, se è vero che l’elemento ‘fiume’ e il suo ‘attraversamento’ scompare ben presto dai racconti sulla visione fondante, è perché esso viene da subito fortemente sincretizzato con il battesimo e con la simbologia biblica ad esso attinente, in particolare con il fiume Giordano. Ma se ci chiediamo, come fa H.-J Greschat, quale risonanza potesse avere ‘il fiume’ e ‘attraversare il fiume’ nella cultura tradizionale, veniamo immediatamente proiettati al cuore della mitologia bemba. Ed è esattamente nel mito fondatore della dinastia dei Bena Ngandu che troviamo il riferimento più preciso al fiume e all’attraversamento del fiume. Ma una volta accostatici al mito fondatore, notiamo tutta una serie di rife98

Afferma infatti Oger: “Incidentally, this might be a point for historians and anthropologists to reflect upon: how a territorial cult, or, as it is called, a cult of affliction, could develop into a Christian cult or religion”. Oger 1995: 141. 99 Oger 1960: 4.

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rimenti tra l’esperienza visionaria di Lenshina e questo mito fondatore della dinastia bemba.

Il mito fondatore della dinastia. Tutti i Bemba fanno risalire le proprie origini ai Padri fondatori della dinastia del clan reale dei Bena Ngandu, due prìncipi fuggiti dal regno Luba del Congo. Questo dà l’impressione che la storia delle popolazioni bemba si riassuma di fatto nella storia del clan dominante, quando storicamente ciò non è esatto, anche se è vero che parte delle popolazioni che parlano i dialetti bemba provengono in più ondate dal territorio oltre il fiume Luapula, che oggi segna il confine fra il Congo e lo Zambia. Diversi sono gli studi su questo mito fondatore e diverse sono anche le sue versioni100; io ne offro qui una veloce sintesi. Tanto tempo fa viveva nella terra di Kola il popolo Luba sotto il loro capo Mukulumpe MuBemba. Un giorno, mentre il capo stava cacciando nella foresta, incontrò una bellissima donna, Mumbi Mukasa Liulu, che disse di essere una regina caduta dal cielo e di appartenere al clan del coccodrillo (Ngandu). Il capo terrestre e la regina celeste si unirono in matrimonio ed ebbero tre figli maschi, Katongo, Nkole e Chiti ed una figlia, Chilufya Mulenga. Ma i figli regali, con il loro comportamento sconsiderato, causarono danni al popolo luba e il loro padre prese a perseguitarli. Due di essi, Chiti e Nkole, si diedero alla fuga con un gruppo di seguaci e attraversarono il fiume Luapula, senza sapere che direzione prendere. Un mago bianco chiamato Luchele Nganga apparve nei momenti cruciali per guidare i migranti con le sue divinazioni; egli, in una prima apparizione, consigliò di andare verso Est e successivamente, in una nuova apparizione, consiglierà la terra dove stanziarsi. Dopo aver attraversato il fiume Luapula, Chiti prese possesso del territorio conficcando la sua lancia in un grande albero e cantando un canto di trionfo. Gli emigranti conquistarono molte tribù in battaglia e altre ne sottomi100

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Labrecque 1968: 249-329; Maxwell 1983: 36-51; Buseyi Tegera 1994: 9-13.

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sero. Verso la fine della migrazione attraversarono il fiume Chambeshi e stabilirono la loro capitale a Ng’wena, ‘il posto del coccodrillo’. Essi chiamarono i loro re Chitimukulu, “il grande albero”, sul nome del loro primo capo. I primi due Chitimukulu furono i due prìncipi luba fuggiti dal regno del loro padre. Il terzo Chitimukulu, primo dei capi supremi stanziali, fu il frutto di un incesto, figlio di una loro sorella, Chilufya Mulenga, e di un altro fratellastro. Tutti i Chitimukulu derivano dalla madre celeste Mumbi Mukasa101.

Mito fondatore ed esperienza visionaria. Ma quali suggestioni questo mito fondatore getta sulla esperienza religiosa di Lenshina? Innanzitutto il passaggio da una terra da cui si fugge perché perseguitati, ad una terra dove vivere liberi, grazie all’attraversamento di un fiume, anzi di diversi fiumi, di cui i più significativi sono il Luapula ad ovest dell’attuale territorio bemba e il Chambeshi nel cuore dello stesso. Il fiume e il suo attraversamento quindi come ‘luogo’ mitico della salvezza, della vita nuova. Lenshina incontra il ‘signore della visione’ al fiume, e il canto insegnatole parla dell’attraversamento del fiume, che simbolizza il passaggio dal mondo della stregoneria ad un mondo libero da essa. In secondo luogo l’enfasi sul ‘grande albero’. La colonna portante della religione tradizionale bemba, basata sulla venerazione dei mipashi, cioè degli antenati capi, i veri proprietari della terra e della sua fertilità, era il Chitimukulu, il capo supremo reincarnazione di tutti i capi e soprattutto di Chitimukulu I, il mitico fondatore della dinastia, l’eroe della grande migrazione. Chiti significa ‘albero’ e mukulu significa ‘grande’. La presa di possesso della nuova terra, dopo aver attraversato il fiume, avvenne nel momento in cui Chiti conficca la sua lancia nel tronco di un grande albero al di qua del fiume. Secondo alcune tradizioni, Lenshina muore e risorge, oppure ha la sua visione, sotto il 101

Ho evidenziato in corsivo, nel testo riassuntivo del mito, tutti quegli elementi che ritroviamo anche nell’esperienza religiosa visionaria di Lenshina.

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grande albero. Il grande albero diventerà uno dei centri della cerimonia lumpa. In terzo luogo gli ‘inni’: Chitimukulu I, dopo aver attraversato il fiume ed aver preso simbolicamente possesso del territorio, esplode in un canto di trionfo, cosa che ripeterà in un secondo momento ad un’altra tappa decisiva. Questi due inni di Chitimukulu I sono ancora oggi conosciuti e cantati; costituiscono anzi i primi due inni dell’innario tradizionale bemba. Essi parlano appunto dell’attraversamento del fiume e del grande albero102. Presso il fiume, il signore della visione insegna a Lenshina inni che parlano di attraversamento del fiume e di esserne degni. Uno di questi inni definisce Gesù “il grande albero”103. In quarto luogo il tema del ‘cielo’. Per una popolazione matrilineare riveste grande importanza l’antenata mitica e qui l’antenata mitica è Mumbi Mukasa, la regina caduta dal cielo, madre dei primi due Chitimukulu mitici responsabili dell’esodo e della madre del terzo Chitimukulu, il primo dello stanziamento definitivo. Lenshina, in alcune tradizioni incontra il signore della visione in cielo, dove viene trasportata dagli angeli. E soprattutto il nome Lenshina significa “Regina” ed esattamente “regina del cielo”, perché si tratta del titolo cattolico per la Madonna. Infine il

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Questo è il testo del primo inno: “My name is ‘Chiti’ (Tree) from Lubaland, / The ‘Tree’ that is as strong as a Lion, / He who quietened the country. / He who crossed the lake (bemba) first, / The great one that discovered the dwelling place”; e questo il testo del secondo inno: “I am the ‘Big Tree’ (Chitimukulu), / He who quietened the country. / The faggot of firewood that maims people when it is dropped / The husband of Kasuba, the sun, in Bembaland / The young conqueror who became their great leader, / The ‘tree of the plain country’ and the travelling leg that quietened the country”. Chinyanta 1989: 80-84. 103 L’immagine del grande albero ritorna almeno una volta in uno degli inni di Lenshina, riferito a Cristo. La Lehmann ha esaminato 24 inni di Lenshina: in essi Gesù viene menzionato sette volte e almeno una volta viene definito ‘grande albero’: “Great Tree, a shade to make us all happy”. In questo stesso inno, fra l’altro, troviamo l’immagine di Gesù sul ‘lago’ con la barca che chiama i suoi discepoli ad ‘andare con lui sul lago’. Questo inno di Lenshina sembra contenere alcuni punti in parallelo con l’inno di Chitimukulu. Lehmann 1961: 258.

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tema del ‘mago bianco’ che indica la direzione ai migranti. Nel primo racconto base appare evidente il coinvolgimento del missionario europeo a cui il signore della visione rimanda Lenshina. Sarà infatti il missionario europeo che indicherà inizialmente alla futura profetessa il da farsi: ricevere il battesimo e costituire un gruppo di preghiera, da cui tutto partirà. Questi diversi accostamenti non permettono un richiamo diretto fra la visione di Lenshina e il mito fondatore bemba, ma è come se costituissero lo strato simbolico di fondo della visione stessa, il suo linguaggio. Possiamo allora pensare che, nella mente dei suoi seguaci che la raccontavano, l’esperienza religiosa di Lenshina costituisse una sorta di parallelo di quello stesso mito fondatore, un nuovo mito fondante quindi. Un mito dove si tratta di nuovo di abbandonare un territorio simbolico per conquistarne un altro: abbandonare il territorio dominato dai baloshi104, dal male in tutte le sue forme, dalla stregoneria quindi, secondo la cultura profonda africana, per conquistare un territorio reso di nuovo integro, liberato appunto da ogni sorta di pratica magica e di male. Lenshina diviene allora la nuova ‘antenata’ del nuovo popolo lumpa, il migliore, quello che va più lontano (il biblico ‘popolo messianico’). Nella forma estrema, questo ‘nuovo mito fondante’ porterà all’abbandono dei villaggi ordinari, sentiti come ‘morti’105, per fondarne di nuovi, totalmente indenni dalla stregoneria, puri e quindi ‘vivi’. E infine, al tempo dell’esodo e dell’esilio, questo mito motiverà il concepimento della millenaristica attesa di una città celeste, la quale finirà per trasformarsi nella più concreta appartenenza ad un popolo nuovo, non più ‘bemba’ e tantomeno ‘zambiano’, ma popolo dei Bena Lesa, dei figli di Dio.

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Baloshi: persona che usa oggetti magici (singolare Muloshi) 105 I Bemba praticavano un tipo di agricoltura che potremmo definire ‘itinerante’: non avendo di che concimare i terreni, perché non disponevano di bestiame grosso, ed essendo il terreno scarsamente fertile, all’incirca ogni cinque anni dovevano cambiare territorio, abbandonare i vecchi villaggi e costruirne di nuovi. Di qui l’opposizione fra villaggi ‘morti’ e ‘vivi’. 225

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Il ‘libro della vita’ Il terzo simbolo importante nelle tradizioni relative alla visione di Lenshina è quello del ‘libro’. Il libro rappresentava un po’ la quintessenza della nuova cultura europea. Dillon-Malone ci informa che nel distretto di Isoka, a John Sikapizye, uno dei profeti Nchimi di cui si raccontava che fosse anche lui morto e risorto, nella visione avuta durante questa esperienza risalente al 1943, il ‘signore della visione’ si sarebbe presentato come un ‘teacher’ che dava un ‘libro da leggere’ a lui che era analfabeta106. Questo parallelo con Lenshina è tanto più importante in quanto non troviamo, in questo caso, nessuna interpretazione ‘cristiana’ del tipo ‘Gesù Cristo che dà la Bibbia’: evidentemente il libro rappresenta di per sé un potente oggetto magico, di quella stessa potenza magica degli europei della quale si vorrebbe entrare in possesso. Negli stessi anni in cui inizia la vicenda lumpa, la missione di Lubwa era impegnata nella traduzione della Bibbia in lingua bemba: ad essa stava lavorando il ministro africano Rev. Paul Mushindo, che la completò nel 1956107. Che cosa poteva rappresentare, per l’immaginario di gente analfabeta, la traduzione della Bibbia in lingua bemba? Non si trattava solo di rendere disponibile, nella lingua dei padri, ‘il libro’ per eccellenza, ma soprattutto di entrare nella prospettiva della lingua scritta. In fondo, fino a quando la Bibbia non fu tradotta, il messaggio cristiano arrivava comunque alla gente, mediato da una persona che la raccontava ‘a voce’. La scrittura restava una magia dei bianchi: ai neri il messaggio continuava ad arrivare alla maniera ancestrale, tramite l’oralità. Ma è nel momento in cui si rende disponibile ‘il libro’ scritto nella lingua parlata, che si impone un mutamento di categorie mentali. Innanzitutto la ‘traduzione’, destinata idealmente a tutti, in realtà finisce con il generare un nuovo potere all’interno della comunità africana: emerge una nuova classe, la classe degli ‘scolarizzati’, i soli che possono accedere 106

Dillon Malone 1983: 461 107 Ipenburg 1992: 233 nota 1.

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al ‘libro in lingua bemba’. E sappiamo quanto questo emergere sugli altri sconvolga il mondo tradizionale poiché, ovviamente, nello stesso tempo si finisce per declassare, d’un sol colpo, la cultura tradizionale in quanto inadeguata sul suo stesso terreno. La visione di Lenshina, con la questione del libro dato e non dato, sembra prendersi una rivincita: la rivincita della calda e vitale ‘magia’ dell’oralità tipicamente africana – vedi l’immenso fascino generato dagli inni che fondono insieme canto, danza e musica –, sulla fredda ‘magia’ della scrittura tipicamente europea. Il libro mostrato, dato o comunque spiegato a Lenshina è un libro ‘orale’, che non divide la comunità e la cui comprensione può avvenire a partire dal mondo semantico tradizionale: è il vero libro destinato a tutti, un libro vivo perché vive solo nelle persone vive che lo attualizzano, non un oggetto morto – la scrittura -, che deve ricevere vita dalla ‘magia’ di pochi esperti. Contemporaneamente però, con il tempo e con gli sviluppi della vicenda stessa, prevalgono sempre più le identificazioni ‘bibliche’ della comunità lumpa con il popolo ‘eletto’ e la sua storia: alla guerra santa/ Armagheddon, seguono le situazioni dell’esodo e dell’esilio, la nuova attesa del millennio e della celeste New Jerusalem, della liberazione della profetessa, dell’arrivo del Messia; e poi ancora la delusione per la nuovamente mancata realizzazione di queste promesse, la cui ‘colpa’ viene attribuita al comportamento dei capi o dei fedeli. E infine, in questi anni, il ritorno dall’esilio, la volontà di riprendere il nome ‘Lumpa’, di ricostruire il villaggio sacro e la cattedrale di Sione. Il modello sarà sempre più quello biblico, fino a quando, dopo la morte di Lenshina, nel contesto della ricostruzione delle comunità lenshiniste, la Bibbia non verrà anche ufficialmente adottata in maniera esplicita nelle liturgie, com’è il caso per tutte le chiese cristiane, anche indipendenti ed indigene108. Si chiude così, anche simbolicamente, un percorso che ha portato il movimento, nato per risolvere la crisi ingenerata dal 108

Gordon 2006: 22; cfr. Kampamba 1998: 154.

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colonialismo integrando alcuni dei nuovi valori entro la propria ancor viva cultura ancestrale, a doversi invece integrare sempre più nel quadro delle categorie elaborate ed offerte dall’occidente che tutto omologa a se stesso.

Conclusione L’approccio storico-religioso che abbiamo adottato utilizzando una delle categorie chiave della storia delle religioni – il mito di fondazione -, unitamente alla lettura socio-culturale dei tre simboli ricorrenti dell’universo visionario lumpa – l’albero, il fiume e il libro – con i loro riferimenti incrociati alle tre tradizioni presenti sul territorio antropologico dello Zambia, è stato non solo un percorso attraverso l’amalgama sincretico della ‘mitologia’ della Chiesa Lumpa, ma anche attraverso le modificazioni avvenute nel tempo in questo stesso amalgama sincretico. Il sincretismo di Lenshina non è quello di movimenti e chiese che cercano di conciliare, ad esempio, cristianesimo e poligamia, oppure cristianesimo e culto degli antenati. Lenshina rifiuta decisamente sia la poligamia sia il culto degli antenati. Il tipo di cristianesimo che emerge appare in fondo molto più in linea con la sua originaria versione protestante di quanto non sembri a prima vista. George Bond, riferendosi all’affermazione di Roberts secondo cui il sincretismo della Chiesa Lumpa mescolava elementi della tradizione europea ed africana, ritiene che più che questo modello di sincretismo, è importante l’aspetto di sintesi creativa operata dal movimento lumpa muovendosi tra queste diverse tradizioni: sincretismo di sintesi, dunque, e non di giustapposizione 109. La sincretizzazione fra cristianesimo e lotta antistregonesca, infatti, altro non sembra che la contestualizzazione della soteriologia cristiana sul

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Bond 1979: 14.

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‘suolo culturale’ africano, dove la stregoneria è la categoria interpretativa del male. Un sincretismo che, seguendo il percorso che abbiamo fatto – un percorso quasi biografico della profetessa – a) affonda le sue radici nella spiritualità carismatica della religione tradizionale degli ngulu, spiritualità di ‘possessione’ fondata su quella ‘pietra’ della società matrilineare che è la donna come mediatrice dell’alterità; b) passa per il recupero di una nuova mitologia fondatrice intesa a riconquistare l’integrità di una nuova comunità e di un nuovo territorio, mitologia che si richiama alla tradizione del culto regale, centrato sull’organizzazione della comunità, per sostituirlo; c) approda ad un radicalismo cristiano di marca protestante che si pone in antitesi non solo con la società coloniale (l’aspetto nativista e anti-europeo del movimento), e con il mondo missionario (l’aspetto indipendentista e anti-missionario), ma anche con la società tradizionale africana (l’aspetto riformista e anti-tradizionale) e la presunta nuova società zambiana del partito nazionalista che agli occhi lumpa appariva invece solo una continuazione del colonialismo, poiché ne ereditava la cultura110. Questa triplice caratterizzazione del sincretismo lumpa appare come una stratificazione al tempo stesso simbolico-religiosa e socio-antropologica. Credo che la grande intuizione religiosa di Lenshina sia stata, mi si passi la metafora, quella di ‘conquistare’ il territorio cristiano con le proprie ‘armate’ semantiche africane. Fuori di metafora: la profetessa usa il mondo simbolico-espressivo, il linguaggio e le categorie africane per accostarsi al cristianesimo reinterpretandolo e risemantizzandolo all’interno di queste categorie, e superare così la crisi generata dal colonialismo inglobandone la religione. Un processo sincretico che in fondo non è diverso da quanto avvenuto in precedenza, in occasione della

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“These people in UNIP are saying that they want to defeat the white men and take over the running of country from them, yet they continue getting instructions from them”. Kampamba 1998: 71.

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conquista di una etnia su un’altra, come ad esempio quando i Bemba hanno conquistato l’altopiano abitato dalle popolazioni bashimatongwa. Da quanto abbiamo visto, possiamo inoltre dire che questo sincretismo ha subìto un’evoluzione per la quale, a partire da forme molto prossime alla cultura ancestrale, è venuto progressivamente avvicinandosi alle forme più ortodosse di cristianesimo. Se l’avviluppo mortale con la politica nazionalistica non avesse causato la sua involuzione e messo fine a questa esperienza nel 1964, probabilmente oggi avremmo una grande Chiesa ufficialmente riconosciuta dal World Council of Churches come è successo per la EJCSK congolese. Di fatto, le attuali sparute e disperse formazioni lenshiniste che si stanno lentamente riorganizzando in Zambia dopo il rientro dall’esilio e il definitivo abbandono di ogni velleità millenaristica, non possono che omologarsi sempre più allo standard delle cosiddette African Independent Churches di carattere carismaticopentecostale111. Per concludere con una interessante prospettiva sul sincretismo, mi piace citare l’affermazione di un grande teologo latino-americano: “La cattolicità, come sinonimo di universalità, è solo possibile e realizzabile a condizione di non rifuggire dal sincretismo, anzi, al contrario, di farne il processo di produzione della stessa cattolicità”112. Così scrive Leonardo Boff, teologo brasiliano della Liberazione, nel suo libro Chiesa: carisma e potere, in un capitolo espressamente dedicato al sincretismo113. Potrebbe sembrare che ‘cattolicità’ e ‘sincretismo’ siano due grandezze simboliche di opposto valore: così ritiene un certo pensiero cattolico di tipo dogmatico. Boff pensa invece che “il cristianesimo è un grandioso sincretismo” perché al di là della fede rivelata (credenza irrinunciabile per il cristiane111

Per la nuova situazione delle comunità tornate dall’esilio, vedere Gordon 2009. Per una panoramica sulle chiese indipendenti africane su scala continentale vedere Anderson 2001. 112 Boff 1984: 154-184. 113 Leonardo Boff vive in Brasile e lo sfondo del suo scritto è l’esperienza religiosa altamente sincretista della cultura afro-brasiliana.

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simo stesso) esso tuttavia si presenta, e aggiungiamo noi – in base al metodo comparativistico proprio della storia delle religioni – non può che presentarsi, come una qualsiasi religione che si è costruita storicamente assumendo elementi appartenenti alle religioni e alle culture dei popoli che ha incontrato sul suo percorso. Gli stessi testi ‘fondanti’ dell’Antico e del Nuovo Testamento “si compongono ugualmente di scritti sincretici che assimilano gli influssi ambientali della cultura propria e altrui”114. Trattandosi di uno scritto di carattere teologico e non storico-religioso, Boff si preoccupa della “fondazione teologica del sincretismo religioso”, trovandola nel dogma cristiano dell’offerta universale della salvezza e della sua necessaria storicizzazione attraverso il dogma dell’incarnazione. La ‘religione’ appare così come la necessaria espressione sincretistica della ‘fede’ e la ‘cattolicità come identità della pluralità’, per cui è proprio il sincretismo che si rende capace di produrre la cattolicità stessa. Il teologo propone alla Chiesa cattolica, ma possiamo dire a tutte le Chiese cristiane, il coraggio di una vera conversione per un nuovo sincretismo115. Sappiamo che Leonardo Boff non rappresenta propriamente il sentire dei vertici cattolici e neanche della corrente teologia maggioritaria, ma resta pur sempre una voce ‘profetica’ del cattolicesimo progressista. In un’analisi storico-religiosa non interessa certamente l’aspetto teologico della legittimazione del sincretismo, ma il fatto in sé del sincretismo come fattore essenziale della storia delle religioni. Il riconoscimento da parte di un teologo cattolico, seppure in contrasto con l’ortodossia vaticana, della realtà ‘sincretica’ della religione stessa che più di ogni altra vorrebbe rimanere immune da ogni ‘contaminazione’ religiosa, è però di per sé notevole. In ogni caso, la questione qui posta da Leonardo Boff, anche se in maniera più radicale, è quella della cosiddetta ‘incul114

Boff 1984: 159. 115 “Una conversione che solo è possibile se la fede cristiana abbia il coraggio di rinunciare al suo stesso sincretismo, con le glorie culturali e teologiche che esso ha accumulato, per prendersi il rischio di un nuovo sincretismo, che assuma, assimili, integri, purifichi i valori delle religioni afro-brasiliane”. Boff 1984: 183.

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turazione’, cifra importante dell’attuale teologia missionaria soprattutto cattolica. Del resto, come scrive D. Visca, “l’inculturazione è di fatto – se ci si consente l’espressione – un ‘sincretismo in progress’, la cui analisi richiede il medesimo approccio storico-comparativo che si applica tanto ad ogni altra particolare formazione sincretica storicamente data, quanto al problema del sincretismo in sé116

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Visca 2002: 371.

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DONNE “PRETI” Storia di Gaudencia Aoko e della sua Maria Legio

Il Kenya è uno degli stati africani più importanti per lo studio dei nuovi movimenti religiosi di matrice cristiana. Si pensi soltanto che, in rapporto all’insieme della popolazione, il 31% dei keniani si dichiara cattolico, il 27% appartiene a denominazioni protestanti che hanno rapporti istituzionali con Chiese europee o nord americane e ben il 28% è membro di Chiese indipendenti1. Tra di esse, poi, più di un terzo ha avuto origine all’interno di un solo gruppo etnico, i luo2, e di queste più del 90% in ambito carismatico pentecostale. Fa eccezione, ed è quindi di estremo interesse, una Chiesa sorta in ambito cattolico nel 1963: la Maria Legio3. 1

Nelson 1984: XIV. Le ultime stime riportano un totale di circa 8.000 Chiese ufficialmente registrate presso il governo (Majtenyi @ 2008) e altre 6.000 in attesa di riconoscimento (Mosota @ 2007). 2 I luo (secondo gruppo etnico del Kenya dopo i kikuyu, balzato agli onori della cronaca perché ne fa parte – attraverso la nonna paterna – anche il presidente americano B. Obama) rappresentano il limite meridionale delle grandi migrazioni delle tribù nilotiche dal Sudan verso l’interno del continente africano cominciate nel 997 – 1090 d.C. e conclusesi con la divisione territoriale di Kenya e Uganda in distinti distretti amministrativi da parte dell’amministrazione coloniale britannica nel 1902. 3 Chiamata anche in altri due modi: Legio Maria of African Church Mission e Maria Legio of Africa Church. Mentre la prima parte dei nomi compare, da sola, in larga parte della letteratura che riguarda il movimento, la definizione di Chiesa missionaria è molto recente e compare per la prima volta nella Costituzione del movimento del 1975, probabilmente perché la Chiesa volle attribuirsi una tendenza missionaria ed espansiva

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Sviluppatasi nella provincia di Nyanza, attorno al Lago Vittoria, e rimastavi etnicamente confinata4, la Legio è infatti l’unica “Chiesa cattolica indipendente” d’Africa ad aver mantenuto una struttura gerarchica identica a quella romana. Il suo nutrito numero di fedeli – stimato variabilmente tra 20mila e un milione di persone5 – raggruppati in diocesi, riconosce quindi l’autorità di suore, diaconi, sacerdoti, vescovi, arcivescovi, cardinali e di un pontefice indigeni6. Oltre alla peculiarità dell’aspetto organizzativo, anche a livello liturgico il conservatorismo dei legionari lascia stupiti, orientato com’è verso un mantenimento degli aspetti esteriori del culto cattolico preconciliare (la lingua latina7, che, di fatto, non ebbe. Qui si userà il termine Maria Legio (o in alternativa l’abbreviativo Legio) perché è quello in cui si riconosceva il movimento prima dell’abbandono di Gaudencia (di cui ci accingiamo a parlare). Gli adepti della Chiesa sono noti col nome di ‘legionari’. 4 Basti pensare che i luo compongono il 95% dei fedeli. Va sottolineato, che la maggior parte dei movimenti sorti in Kenya – e nel resto del continente africano – in ambito tribale rimangono principalmente circoscritti ad esso, dando vita ad una “nuova forma di etnicità” (Cfr. Shorter-Njiru 2000: 94-97). Malgrado ciò, piccole congregazioni di legionari, nate in seguito agli spostamenti migratori dei luo, sono rintracciabili anche al di fuori dei confini nazionali in: Tanzania, Uganda, Burundi, Rwanda, Zaire, Zambia ed Etiopia. 5 Quest’ampia forbice numerica è dovuta ad alcune variabili non sempre calcolabili al momento delle stime, come il computo o meno dei bambini e di coloro che partecipano saltuariamente alle funzioni domenicali. 6 Attualmente siamo al terzo pontefice, quarto se si considera anche Simeon Ondeto (1964-1991), fondatore della Chiesa, assurto però in breve tempo al ben più importante ruolo di Messia: Papa Timothy Blasio Ahitler (1991-1998), Papa Maria Pius Lawrence Chiaji Adera (1998-2004), Papa Raphael Titus Otieno (2004 – ancora in carica). 7 Il latino è considerato dai legionari una “lingua rivelata dal Paradiso” (Perrin Jassy citata in Dirven 1970: 247), “mistica e santa” (Ritchie 1998: 2), ed è elemento identitario centrale, al punto da essere divenuto col tempo elemento discriminante rispetto al “resto” dei cattolici. “I legionari sono come i cattolici. Non c’è differenza, eccetto che per la santa messa in latino”, sosteneva Alexius Owuoth – cattolico figlio di una legionaria – di fronte a N. Schwartz (Schwartz 1994: 134). Il latino è anche

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i paramenti sacri, i gesti liturgici, alcune particolari formule di saluto, come Dominus vobiscum, ecc.). Ciò che colpisce maggiormente, però, è la capacita della Legio di assorbire all’interno di questo corpo cattolico – sede principale della sua identità religiosa8 – un’anima pentecostale e recuperare attraverso di essa tutti quei caratteri della religione e della cultura tradizionale “che non sono stati sufficientemente tenuti in considerazione dalle Chiese missionarie” e sono legati principalmente al “bisogno di sicurezza e protezione contro ogni sorta di mali fisici, morali e sociali”9 proprio di ogni società africana. A fianco del Gloria e del Credo cantati in lingua latina e del Kyrie declamato in greco, di una liturgia della parola basata sulle Scritture del giorno stampate sui vecchi messali arrivati con i missionari10 e dell’intero servizio condotto, al pari della la lingua con cui comunica lo Spirito santo: se i fedeli smettessero di usarla scomparirebbero automaticamente anche i carismi di cui essi beneficiano (Onyango 1998). Un’ultima annotazione: D. Visca nella sua analisi della Maria Legio scriveva: “Sarebbe interessante indagare se quest’adesione all’antica lingua liturgica non derivi eventualmente anche dall’interiorizzazione di un indottrinamento missionario che, nel nostro contesto occidentale, definiremmo tradizionalista” (Visca 2002: n.222, 97). Ci sentiamo di poter affermare che fu realmente così. Il latino era insegnato in tutti i seminari ed in parte delle scuole del Nyanza come lingua cattolica e la diffusione molto ampia di tali istituzioni nell’area (495 scuole sulle 1876 totali nel Kenya) contribuì notevolmente a veicolare adeguatamente tale idea. Un solo ma significativo episodio raccontatoci da J. Baur: “Quando il Delegato apostolico venne in visita a Mukumu […] rimase certamente impressionato del fatto che gli studenti lo salutarono in latino ed egli dovette chiedere al rettore il permesso per poter rispondere in inglese” (Baur 1991: 108). 8 Il legionari tendono spesso a rimarcare la propria provenienza dalla Chiesa di Roma e le affinità che hanno con essa. “Il fondatore della nostra Chiesa Baba Messiah Ondeto si allontanò dalla Chiesa cattolica dopo una lite col papa di Roma. Comunque, egli istruì i suoi fedeli a valorizzare lo stile di culto dei cattolici. Noi usiamo la stessa Bibbia, gli stessi sacramenti, prima di pregare bruciamo incensi e accendiamo candele nei luoghi di culto per purificarli” (vescovo legionario Mathews Aquino, citato in Harries 2006: 2). 9 Lanternari 1988: 205. 10 La Maria Legio non ha mai pubblicato alcun materiale liturgico di produzione propria. Utilizza esclusivamente manuali cattolici in lingua latina, eccezion fatta per

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liturgia eucaristica, in latino (in linea con il cattolicesimo tridentino11), trovano quindi posto esorcismi, riti di guarigione mediante preghiera12, glossolalia e altri fenomeni tipici delle Chiese carismatiche – che si modellano sulla falsariga di quella delle origini – in un tutt’uno sincretico e affatto funzionante. Al di là, quindi, di un’esclusiva appartenenza cattolica di facciata (di cui l’uso di grandi croci e rosari multicolore come mezzi di identificazione è l’aspetto più appariscente, ancorché non peculiare al movimento), i legionari hanno saputo assorbire quanto ritenessero necessario dall’intero panorama cristiano del Kenya. Non solo, a dispetto di una possibile e presunta “confusione” dottrinale, la Maria Legio è riuscita a creare nel corso degli anni un sistema di pensiero solido, in cui la progressiva influenza delle vicine Chiese protestanti, con la loro assoluta centralità dello Spirito santo, non ha portato ad un ridimensionamento della figura della Vergine Maria – decisiva sia nel momento della fondazione della Chiesa, sia in quello della sua cristallizzazione nella forma attuale – e nemmeno del cattolicissimo culto dei santi (ritenuto teologicamente privo di fondamento da ogni chiesa riformata), grazie al mantenimento dei legami con un sostrato tradizionale che non ha perso completamente la sua funzionalità risemantizzando, in chiave cristiana, i pilastri della propria struttura di pensiero: operatori rituali, racconti, personaggi e luoghi legati ai miti fondanti la realtà luo. L’artefice principale di tale “opera sincretica” è stato uno dei due alcuni testi come il Kitaplemo, un libro di preghiera in lingua dholuo pubblicato dai Padri Mill Hill a Kisumu (edizione del 1957), e il Weche mag Madongo Chi Krion Machon, le “Storie dell’Antico Testamento” in dholuo, pubblicate dalla missione cattolica di Kisumu. 11 Con il viso rivolto all’altare e le spalle ai congreganti (Kuhn 2001: App. 1, 7). Allo stesso modo viene rifiutata qualsiasi africanizzazione del culto: non ci sono danze, percussioni o altri elementi tradizionali durante le funzioni religiose (Schwartz, 1994: 166). 12 “Durante i servizi viene posta grande enfasi sulla guarigione. Si beve e sputa acqua santa, viene usato olio santo, c’è l’imposizione delle mani […] vengono esorcizzati diavoli” (Mwaura 1999: 5).

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fondatori della Chiesa, Gaudencia Aoko. A dispetto, però, di quanto si possa pensare fu soltanto l’altro leader, Simeon Ondeto, a sopravvivere nella memoria dei fedeli della Chiesa. Della prima e, a nostro avviso, più importante figura del movimento non vi sarà più traccia nell’arco di un decennio. Sarà nostro compito capire perché.

Una situazione in movimento All’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, il Nyanza era nel pieno di due processi storici, distinti ma complementari, che stavano trasformando il volto dell’intera Africa. Il primo, cominciato in Ghana nel 1957, stava portando uno dopo l’altro tutti i domini britannici africani verso l’indipendenza. Il secondo, connaturato al contatto religioso tra cristianesimo e ‘culture primitive’, aveva reso ormai disfunzionale il sistema di credenze tradizionali favorendo la risemantizzazione di alcuni suoi elementi in ardite soluzioni sincretiche, organizzate, grazie a profeti o messia più o meno ‘ispirati’, in strutture ecclesiali di vario tipo. L’impatto con l’Occidente aveva distrutto le società tradizionali. Urbanizzazione, industrializzazione, detribalizzazione, deculturazione (prima che acculturazione e inculturazione) e cristianizzazione furono solo gli aspetti più vistosi di quello che Latouche chiama “sradicamento planetario”13. Un processo che fu subìto con enorme violenza proprio dagli stati che, come Sud Africa, Rhodesia, Congo e Kenya, ebbero una massiccia e diretta presenza coloniale. Non è una caso che furono proprio queste stesse nazioni a vedere il fenomeno dell’indipendenza religiosa esplodere con maggiore veemenza14. La regione dei Grandi Laghi non fu certo un’eccezione, anzi. La dipendenza politica dal sistema coloniale britannico15, le forti pressioni 13

Latouche 1991: 65 e sgg. 14 Cfr. Barrett 1968: 19 e sgg. e 64-76. 15 Brevemente potremmo dire che il sistema di governo diretto che scelse la Gran

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economiche e il nuovo sistema educativo, l’affermarsi della morale e delle credenze cristiane furono tutti problemi che afflissero i luo che vi abitavano. Fu messa in discussione, e quindi lentamente disintegrata, la stabilità dello schema familiare tribale: poligamia, levirato, divorzio, prezzo della sposa vennero considerate ‘illegali’. Sotto sempre nuove tensioni, le strutture, i valori, le relazioni e le gerarchie tradizionali collassarono, ma tutto ciò, per converso, non produsse un nuovo stile di vita. I luo, ammassati in città come Kisumu o costretti ad emigrare fuori dal territorio nazionale, vennero rifiutati dalla società coloniale e condannati a vivere in una specie di limbo identitario: privati della propria cultura e ancora incapaci di appropriarsi di quella europea. Inoltre, l’introduzione del sistema monetario e l’obbligo del pagamento di tasse e rette scolastiche, al pari del bisogno di denaro per l’acquisto di prodotti di prima necessità, spinsero i luo verso la ricerca di ‘liquidi’, ottenuti sia vendendo le decime dei raccolti, sia per mezzo del lavoro migratorio nelle fattorie coloniche, nelle tenute, nelle città. Si assistette così ad un’urbanizzazione forzata che ebbe effetti dirompenti sulla società tradizionale. La figura paterna e maschile scomparve dai compound familiari; intere famiglie furono spinte fuori dal Nyanza, perdendo in tal modo il contatto con la propria linea parentale (con cui cercavano di riallacciarsi al momento della morte ma spesso, a causa delle spese eccesive per il trasporto dei cadaveri da una zona all’altra del Kenya, neanche questo fu possibile); le istituzioni tribali non ebbero più ‘presa’ né autorità sui giovani migranti, ormai membri di un’altra cultura; l’abbandono delle colture nelle piantagioni familiari (almeno quelle rimaste in mani indigene) comportò il progressivo impoverimento dell’area. Bretagna, l’occupazione dei territori più fertili, l’imposizione della divisione della terra degli antenati in unità amministrative funzionali alla sola esigenza di controllo militare del territorio, la nomina di capi unici accondiscendenti verso Sua maestà, distrussero il sistema politico egualitario luo fondato sui consigli degli anziani e privarono gli stessi luo del sistema di riferimento territoriale su cui poggiava il loro sistema di pensiero ed attorno a cui si strutturava la loro identità.

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Ciò nondimeno proprio il lavoro migrante consentì ai luo di entrare in contatto con i nuovi movimenti religiosi presenti negli stati limitrofi (come Uganda e Tanzania), con le molte denominazioni protestanti che affollavano la zona e, a seguito dell’arruolamento nell’esercito durante le due Guerre mondiali, con le contraddizioni del mondo occidentale. Allo stesso tempo alcune élite poterono studiare nelle università degli stati coloniali, dando inizio alla creazione di una futura classe dirigente. Ognuno di questi fattori influì, a suo modo, nella determinazione di una nuova presa di coscienza collettiva che spinse verso la ricerca di soluzioni alternative. In questo processo di rinnovamento incisero molto anche le scuole missionarie, arieti della nuova visione del mondo arrivata dall’Europa. I luo riutilizzarono le conoscenze che andavano acquisendo non solo nella lotta politica, ma anche sulla via di un’indipendenza religiosa che gli si era rivelata possibile: “Sorsero movimenti che professarono il loro antioccidentalismo cercando … un sincretismo tra elementi cristiani … e autoctoni”16. Le Chiese indipendenti fornirono risposta al desiderio di un cristianesimo ‘africano’ e al problema dell’emarginazione sociale, creando nuovi modelli di aggregazione e di partecipazione attiva alla vita ecclesiale. Contemporaneamente, la rilettura cristiana di antiche pratiche e credenze tradizionali produsse un’aspra lotta contro chi cercava di mantenerle in vita nella loro forma originaria, con la conseguenza, in particolare, di feroci campagne antistregonesche. Del resto ogni superamento storico presuppone una distruzione del passato. Nelle zone rurali del Nyanza ed in ambito cattolico questa complessa situazione fu acuita, se possibile, dalla totale inadeguatezza missionaria ad affrontare l’enorme numero di nuovi fedeli. La percentuale di sacerdoti per numero di abitanti era bassissima e, come se non bastasse, molti missionari preferirono concentrarsi a tempo pieno su programmi educativi e scolastici. Andò a finire che anche i pochi, migliori catechisti luo preferirono abbandonare il loro ruolo per dedicarsi alla carriera politica o 16

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a impieghi più remunerativi, con la conseguenza di uno scollamento tra gerarchie ecclesiastiche e fedeli cui fece eco l’emergere di un’esigenza di ‘autogestione ecclesiale’, parzialmente soddisfatta, a partire dagli anni ’40 del novecento, dall’arrivo dei movimenti laici (Legio Mariae su tutti)17. Il basso livello di istruzione religiosa poi, assieme all’esclusione dai sacramenti a causa di una situazione matrimoniale ‘irregolare’, finirono per creare un’ampia schiera di ‘cattolici nominali’, di emarginati dalla fede, pronti ad aderire a progetti nuovi che li vedessero come protagonisti. Gran parte della popolazione luo voleva diventare cattolica ma, nonostante ciò, non venne ammessa al battesimo. Poligamia, mancata volontà di seguire il lungo periodo di catecumenato e impossibilità di pagare l’onerosa tassa battesimale in denaro: questi in motivi. A completare il tutto ci pensò l’attitudine paternalista propria di molti missionari che, forti dell’idea di un mondo africano fermo all’età della pietra, non permisero all’iniziativa indigena di trovare uno sfogo all’interno delle strutture ufficiali18. Nel 1968 si contavano appena 29 preti africani in tutto il Kenya; 10 di essi dovevano occuparsi dei 300mila cattolici luo19. Ma la divisione del cristianesimo non era un problema solo della base cristiana. L’usuale rivalità tra cattolici e protestanti, la loro lotta per “le anime”, attiva anche in Nyanza, coinvolgeva i vertici ecclesiastici ed era 17

Fondata nel 1921, a Dublino, da Francis Duff, questa associazione, portatrice di una grande devozione mariana – e in qualche modo ‘a monte’ del fenomeno luo di cui trattiamo -, aveva come scopo la santificazione dei propri membri per mezzo della preghiera e la cooperazione attiva nell’apostolato sotto la guida ecclesiastica. Il primo gruppo giunse in Kenya sotto la guida di Edel Quinn nel 1937 (Baur 1991: 43). La Quinn (beatificata il 15 dicembre 1994 da papa Giovanni Paolo II) riuscì a diffondere la sua Legione in tutto lo stato. 18 “Il luo percepiva nei missionari la mancanza di amore, del sentimento di uguaglianza, della comprensione e dell’ascolto simpatetico” (Dirven 1970: 130). La cosa era stata sottolineata con forza anche da Barrett che vi individuò una delle cause principali della nascita dei movimenti scismatici in Africa (Barrett 1968: 154 e sgg.; il capitolo è intitolato significativamente “A failure in love”). 19 Cfr. Dirven 1970: 63; Baur 1991.

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amplificata dall’altissima densità di denominazioni in competizione tra di loro20. L’esempio separatista offerto dalla cristianità fu visto nell’ottica di una legittimazione delle pretese indipendentiste in campo religioso che ebbero il loro banco di prova al momento dell’arrivo del Revival evangelico21, a metà degli anni ’30 del secolo scorso. Nacquero così tutta una serie di movimenti spinti dal ‘soffio dello Spirito’ che attraversava il Kenya via Uganda. I grandi raduni pubblici, le assemblee pentecostali, i fenomeni carismatici, il carattere emozionale delle nuove formazioni e la loro affinità con alcuni tratti della religione tradizionale, esercitarono una grande attrazione. In Nyanza si registrò il maggior numero di

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Avventisti del Settimo Giorno, Quaccheri della Friends’Africa Mission, rappresentanti dell’AIM (Africa Inland Mission), del PAC (Pentecostal Assemblies of Canada), anglicani, Balokole del Revival evangelico, cattolici (Padri di Mill Hill e Passionisti), per riportare solo i più importanti. 21 Il Risveglio evangelico sorse nel 1927 in Ruanda e da lì, attraverso la Chiesa anglicana ugandese, arrivò in Nyanza nel 1937. Le principali caratteristiche del movimento furono: una struttura molto fluida – che permise un’ampia autonomia comportamentale e organizzativa – e l’importanza data al concetto di salvezza individuale e mondana, raggiunta grazie al sangue versato da Cristo sulla croce e alla reale comprensione della Sua presenza nella vita del fedele che è condizione necessaria per una rinascita spirituale. Un ruolo centrale venne svolto anche dalla confessione pubblica dei peccati, interpretato come vero e proprio atto di purificazione dal peccato. I Brethren, come gli appartenenti a tale movimento intesero chiamarsi, ‘nascendo di nuovo’ attraverso una profonda esperienza di conversione personale che passava per l’accettazione di Cristo come proprio salvatore personale, raggiungevano la condizione di ‘salvati’ e ricevevano una rassicurazione alle loro preoccupazioni terrene di tipo religioso cristiano. Dio, attraverso il sacrificio di suo Figlio sulla croce, li aveva certamente perdonati per i loro peccati e per il passato pagano, tanto condannato dai missionari. Ogni aspetto della loro vita diveniva puro come il loro cuore: da adesso in poi sarebbero vissuti nella giustizia. Il risveglio revivalista giocò un ruolo importante, decisivo nello sviluppo successivo delle Chiese protestanti, indipendenti, pentecostali ed anche della Chiesa cattolica in Nyanza. La sua diffusione, sostiene Barrett, “cambiò la vita delle persone e rinnovò la vita delle Chiese ad un livello profondo” (Cfr. Welbourn-Ogot 1966; Barrett 1968; Khun 2001).

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Chiese indipendenti per numero di abitanti22 ed anche i disaffezionati cattolici cominciarono a pensare che era possibile cercare una ‘terza via’ alternativa sia a quella missionaria che a quella tradizionale. Parallelamente, i leader emergenti africani compresero subito e appieno la portata sovversiva e rivoluzionaria delle nuove Chiese e, funzionalmente al loro progetto di indipendenza politica, cercarono di ottenerne la cooperazione attirandole a sé con l’idea, poi rivelatasi inapplicabile, di una Chiesa nazionale. Uhuru (= indipendenza) divenne la parola d’ordine non solo dei guerriglieri che si nascondevano nella giungla per assaltare gli inglesi o i villaggi lealisti durante la lotta per l’indipendenza, ma anche di chi accarezzava la prospettiva di un cristianesimo africano. In sostanza il bisogno di una leadership locale si faceva sentire sia in ambito politico che religioso. “L’eventuale alleanza delle sette con i nuovi poteri politici, più che rispondere a ragioni strumentali ed empiriche risponde a cause profonde che risalgono ad una comune origine storica […] l’ormai maturo bisogno d’integrale emancipazione politica nonché religiosa dei popoli nativi”23. L’esperienza religiosa di Gaudencia Aoko va inserita appieno in questo dinamico contesto storico.

Un ajuoga cattolico Gaudencia nacque nel 1943 tra i luo di un piccolo villaggio della Provincia di Nyanza, Awasi. Appartenente ad una famiglia ancora fortemente legata alla religione tradizionale, sposò nel 1957 Simeon Owiti, cattolico convertitosi anni prima a Njoro, luogo in cui viveva. Tre anni

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Nel 1966 erano già trentuno, un anno dopo oltre quaranta, nel 1968 sessantuno con un numero totale di membri pari a quello dei cattolici e degli anglicani (Barrett 1968: 14 e 295). 23 Lanternari 1967: 122.

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dopo le nozze, Gaudencia fu costretta ad emigrare a Wagire24, in Tanzania, dove il marito aveva trovato lavoro. Conosciamo poco degli avvenimenti occorsi nei primi anni del loro matrimonio. È certo, comunque, che i due giovani coniugi frequentassero assiduamente la missione di Tatwe, all’epoca affidata ai fratelli della Maryknoll Society 25. Fu qui che Gaudencia, esclusa dalla vita sacramentale per la propria appartenenza religiosa, decise di battezzarsi cattolica e svolse il lungo periodo di catecumenato previsto dalla Chiesa. Così, dopo aver pagato l’onerosa tassa imposta per l’iscrizione nei registri parrocchiali, sostenne l’esame ed entrò a far parte a pieno titolo della comunità dei ‘credenti’ il 19 maggio del 1962. Di lì a poco, però, la sua vita sarebbe cambiata tragicamente. All’inizio del 1963, infatti, Gaudencia perse, in circostanze oscure e nell’arco di ventiquattr’ore, i suoi due figli, di uno e quattro anni. L’evento, di per sé sconvolgente, ma non certo infrequente in società precarie come quelle africane, venne attribuito all’operato di uno stregone, lo janawi, molto temuto dai luo perché ritenuto il principale responsabile sia delle morti improvvise, sia di quelle avvenute al di fuori del territorio tribale26. Malgrado ciò, tale identificazione di causa trovò la ferma opposizione di Gaudencia che, in breve tempo, cadde in uno stato di profonda prostrazione e malessere a seguito del quale iniziò ad avere sogni e

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Wagire si trova nel distretto di Nord Mara, poco distante dal confine col Kenya. La scelta, non certo casuale, fu dovuta alla forte presenza di comunità luo stanziatesi nell’area (l’ultima ad essere interessata dall’ondata migratoria di questa tribù conclusasi attorno al 1730; Ochieng’ 1985: 9). 25 Questo gruppo di missionariato, originario degli Stati Uniti d’America, fu fondato nel 1911 durante il 21° Congresso Eucaristico di Montreal. I missionari arrivarono nel nord della Tanzania nel 1946 in aiuto dei Padri Bianchi, il cui numero era troppo esiguo per gestire la vita della numerosa comunità religiosa. 26 Per uccidere una persona, lo stregone versava dell’acqua all’interno di una particolare bacinella, recitava alcune formule atte a far comparire sulla sua superficie l’immagine della vittima e, dopo aver pronunciato a voce alta il suo nome, la colpiva con una daga (Onyango-Ogutu e Roscoe 1974: 23).

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visioni ricorrenti27. Continui mal di testa, senso di impotenza, perdita di appetito e debolezza furono chiari segni di ciò che le stava accadendo: era vittima di un juok, uno degli spiriti della religione tradizionale. Nella società luo di allora, l’evangelizzazione cristiana aveva già detonato da tempo tutta la propria prorompente forza deculturativa mandando in frantumi l’intero sistema religioso tradizionale. La complessa cosmologia luo, che affollava il mondo di spiriti e potenze extraumane, aveva lasciato spazio alla totalizzante presenza di Nyasaye (‘colui che è adorato’): un Essere supremo frutto più dell’esigenza missionaria di predicazione in lingua dholuo e della volontà di trovare un po’ ovunque quei semina Verbi sparsi dall’Altissimo nel mondo, che della reale elaborazione culturale indigena. Così com’era, epigona del Dio giudaico-cristiano, la figura di Nyasaye finì per incarnarne tutti i caratteri qualificanti: onniscienza, onnipotenza, bontà. Fu proprio l’eticizzazione di questo nuovo, monoteistico referente religioso a condannare, giocoforza, ogni altra entità al ruolo negativo di potenza maligna e agli spiriti tradizionali, presi in blocco nella loro pluralità di caratteri e bollati come demoniaci, venne opposto un nuovo, più potente, Spirito santo. Serviranno altri anni ed un Concilio ecumenico per permettere alla Chiesa cattolica di elaborare, e applicare diffusamente, una strategia inculturativa tale da rendere possibile la riabilitazione almeno degli antenati (accomunati ai santi)28, ottenuta attraverso la rimozione dei loro caratteri più ambigui29, attribuiti ad altre entità religiose. Così, tra i luo, al fianco dei buoni kwere (= antenati; s.m. koth), troveranno posto i temibili jochiende (s.m. jachien), spiriti dei morti portatori di epidemie 27

Bisogna tenere presente che in tutte le culture tradizionali, ancorché già evangelizzate, i due termini – come noto – si riferiscono alla medesima realtà. 28 Per un approfondimento sul tema del rapporto tra cristianesimo e culto degli antenati in Africa si veda: Visca 2002: 401-462. 29 Comunque funzionali ad una possibilità di controllo sociale attraverso la riaffermazione dei valori tradizionali per mezzo delle inevitabili esperienze umane della malattia e della morte.

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e catastrofi, e gli juogi (s.m. juok), spiriti liberi che abitano la natura, capaci di possedere e far ammalare l’uomo. Come abbiamo visto Gaudencia venne attaccata, apparentemente senza motivo, da uno di questi juogi e cadde ammalata. A dire il vero, da un punto di vista medico-psicanalitico, chiaramente estraneo all’orizzonte indigeno, potremmo affermare che la giovane luo cadde in uno stato depressivo a seguito dell’evento luttuoso occorsole e cercò di spiegarselo in base al proprio modus cogendi. È quanto fanno, più o meno esplicitamente, gran parte degli studiosi che si sono occupati dell’Aoko. In realtà, sappiamo bene che nelle società tribali l’origine della malattia non riguarda né un sapere scientifico, inesistente, né un ordine di fattori casuali di origine naturale: “La malattia è in sé stessa un segno da decifrare. Un significante il cui significato deve essere ricostruito e individuato […] e si colloca nell’ordine del simbolismo magico-religioso o legato a riferimenti della tradizione, ossia al mondo degli antenati”30. Quindi, assodato che non fu un caso se Gaudencia venne attaccata proprio da uno juok, resta da capire il perché. Intraprendere una tale ricerca di senso su un fenomeno concernente una cultura ‘altra’ è arduo e molto spesso conduce a conclusioni arbitrarie ed etnocentriche31. Se dovessimo attenerci alla documentazione in nostro possesso propenderemmo infatti per una lettura “cristiana” del fenomeno in termini di semplice possessione diabolica, teologicamente o psicologicamente intesa che sia: la giovane luo ha appreso che gli spiriti della tradizione sono figli di Satana e, in crisi col proprio ruolo di donna – legato principalmente alla procreazione –, attribuisce il proprio 30

Cfr. Lanternari 1994: 179. La malattia viene ritenuta dipendere proprio da infrazioni (individuali o di membri della famiglia) ai valori tradizionali, o dall’opera di una persona esterna (stregone), o da una chiamata dello spirito possessivo. 31 Influenzate, per un verso, da fonti etnologiche nella maggior parte dei casi orientate confessionalmente e per l’altro da una tradizione africana che “non esiste […] stricto sensu, senza influssi cristiani e in generale europei, se non in senso utopistico e letterario” (Lanternari 1988: 149).

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malessere all’attacco di uno spirito demoniaco. Del resto è questa la lettura che dà padre Dirven – cui dobbiamo il primo lavoro di ampio respiro sulla Maria Legio, The Maria Legio, The Dynamics of a Breakaway Church among the Luo in East Africa – sostenendo che il fenomeno della possessione da parte degli juogi (da lui stesso definiti “evils”) riguarda “specialmente giovani donne e giovani mogli che soffrono per le dure pressioni cui sono sottoposte a causa della propria infertilità o di aborti spontanei”32 e che sono convinte di essere possedute perché vittime di malattie di natura nervosa33. Il discorso – ripetiamo – potrebbe anche essere corretto, ma non risponde ancora alla domanda fondamentale da cui siamo partiti. O meglio, cerca di tenere conto di un principio causale della possessione, ma trae l’origine stessa di questo principio da elaborazioni di tipo medico e antropologico non appartenenti alla cultura cui pretende di riferirsi. In sintesi: fino a che punto possiamo affermare che Gaudencia – e in questo contesto, per estensione, le altre donne luo possedute da juogi – sia semplicemente ‘impazzita’ o ‘indemoniata’ e fino a che punto siamo certi che la perdita dei figli – e quindi, per altri versi, il non avere prole – sia un evento solo socialmente distruttivo per la donna luo? Affermare entrambe le cose presupporrebbe la certezza di una comprensione della dimensione femminile luo tale da poter asserire che, in questo sistema culturale, la donna è riconoscibile e riconosciuta socialmente solo in quanto ‘madre’. In nostro aiuto possono venire alcune considerazioni fatte da un intellettuale luo, Onyango-Ogutu, intorno al problema della definizione degli juogi stessi. Nel suo testo Keep My Words. Luo Oral Literature, infatti, dopo aver (cristianamente) sottolineato l’importanza della figura di Nyasaye, come unico vero dio della religione dei suoi avi, e aver messo bene in evidenza come i kwere siano “i Suoi amici” che, “in una potente comunione con i santi, sono intermediari presso di Lui delle richieste del-

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Dirven 1970: 31. 33 Dirven 1970: 125.

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le persone”34, egli pone l’accento sulla natura degli juogi. Dal suo punto di vista, però, questa categoria di spiriti non è per niente malvagia, anzi. È agli jochiende, con cui spesso vengono confusi, che Onyango-Ogutu attribuisce tutti i caratteri negativi del mondo spirituale: sono portatori di malattie, pestilenze, morte, trombe d’aria, vivono nell’inabitato (nella boscaglia) e attaccano l’uomo all’improvviso. Lo juok, all’opposto, è un “good spirit” e non può non esserlo dal momento che, nella cultura di cui è parte, juogi sono anche gli antenati clanici. Un luo di Alego appartenente al clan di Mur, per esempio, aveva Mululu, l’antenato mitico fondatore del clan in questione, come juok. Non solo, anche ogni singolo membro della tribù poteva avere il proprio juok personale35. Ma non sono soltanto questi caratteri a permettere la qualificazione degli juogi come spiriti benefici, c’è un altro loro elemento distintivo – ben più importante per noi – a dover essere tenuto in considerazione: essere posseduti da uno juok, ci dice lo studioso luo, era “prerequisito indispensabile per diventare divinatore, ajuoga; figura importantissima nella società luo”36. A questo punto appare chiaro come la stessa condizione di posseduto possa essere connotata in maniera opposta: frutto di una malattia isterica per Dirven, frutto di una ‘malattia culturale’ per Onyango-Ogutu. A interessarci, per ovvie ragioni, è quest’ultima lettura, soprattutto perché (questa sì) ci permette di spiegare tutte le contraddizioni e i dubbi sollevati finora. Innanzitutto, partiamo dagli juogi. Sembrerebbe che prima dell’evangelizzazione cristiana, che determinò una riorganizzazione e riformula-

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Onyango-Ogutu e Roscoe 1974: 12. L’esempio del ricercatore luo ci mostra palesemente “come anche un africano, per rivendicare la dignità della propria cultura possa, forse inconsapevolmente, ri-leggere le proprie tradizioni adeguandosi […] al modello concettuale dell’occidente” (Visca 2006: 118). 35 Altre fonti luo ci fanno sapere inoltre che “the first major ritual in a Luo person’s life is called Juogi, the naming ceremony” (Aa.Vv. @ 2009). Tra la nascita e i due anni di vita, un antenato poteva comparire in sogno ad un membro adulto della famiglia indicando il suo legame con il nascituro che, da quel momento, ne prendeva il nome. 36 Onyango-Ogutu e Roscoe 1974: 16.

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zione del discorso religioso luo, gli juogi avessero un forte legame anche con ‘il mondo degli antenati’ e con le singole unità territoriali dei clan, gli oganda, di cui erano spiriti tutelari ed in cui avevano sede, in luoghi ed elementi naturali (rocce, alberi, montagne e soprattutto fiumi, laghi, corsi d’acqua) o in particolari animali (camaleonti, pitoni, lucertole). Essi poi, a seconda del luogo in cui risiedevano, potevano assumere specificazioni nominali diverse (juok Mumbo, solo per citare il più famoso, era lo spirito-pitone che abitava il lago Nyanza)37. Non solo, gli antenati stessi venivano spesso chiamati juogi e addirittura l’Essere supremo aveva legami con un loro particolare gruppo, i nieseche38 (tanto che, per evitare ogni problema interpretativo, Onyango-Ogutu suggerisce di definire “the Luo High God” direttamente col termine Juok39). Insomma, in maniera simile a quanto accade per i vicini acholi, possiamo affermare che esisteva in passato un’unica categoria atta a comprendere l’intera 37

Questo spirito nel 1913 comunicò un messaggio a Onyango Dunde, luo di Alego. Egli, dispiaciuto per la presenza europea in Nyanza, denunciava il marciume della religione cristiana e annunciava l’imminente espulsione dei coloni bianchi, che sarebbero stati trasformati in scimmie, e l’accesso ad enormi ricchezze materiali per chi lo avesse seguito. Il Mumboismo fu il primo movimento religioso luo sorto a seguito dell’impatto con l’occidente. L’enorme seguito di fedeli e la speranza millenaristica che alimentò generarono scontri col governo britannico e numerosi incidenti (rivolte nelle piantagioni, distruzione di missioni). Espulsioni di massa e arresti ridimensionarono definitivamente ogni pretesa mumboista anche se, al momento della nascita del Kenya (1963), si contavano ancora più di 800 fedeli. Per approfondimenti: Welbourn-Ogot 1966; Lanternari 1967; Barrett 1968; Schadle 2002. 38 Forma plurale proprio di nyasaye e peraltro – a dimostrazione dell’assoluta arbitrarietà nella scelta missionaria nella traduzione del loro Dio – spiriti ritenuti molto pericolosi e accomunati agli jochiende. La cosa sembra talmente contraddittoria agli occhi degli stessi luo che “alcuni anziani dicono che i nieseche non esistevano prima dell’arrivo dei missionari cristiani. Furono essi, convinti di trovare una religione politeista, ad imporli” (Onyango-Ogutu e Roscoe 1974: 13). L’affermazione, volta a nobilitare la propria religione (pensata come monoteista ab initio) agli occhi occidentali, va chiaramente ribaltata. 39 Onyango-Ogutu e Roscoe 1974: 12.

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sfera dell’extraumano, gli juogi, all’interno della quale specifici spiriti, o categorie di spiriti, andavano poi a ricoprire distinte sfere della realtà40. Il rapporto positivo con questo ‘mondo’ sovrannaturale – da cui, indistintamente, dipendevano eventi fasti e nefasti (pioggia/siccità, successo/insuccesso nella caccia e nella pesca, fertilità/infertilità, salute/ malattia ecc.) – era regolamentato da tutta una serie di pratiche, obblighi rituali delegati a vari tipi di operatori, divisibili in due gruppi: coloro che dovevano il proprio ruolo alla posizione parentale occupata e coloro che, invece, lo ricevevano in virtù di un rapporto ‘speciale’ instaurato con le entità spirituali41. Al primo gruppo appartenevano: il ruoth (capo clan)42, il quale – oltre ad esercitare un’azione di controllo e compiti di tipo politico sull’oganda, assieme al buch piny (il consiglio degli anziani) e all’osumba mrwayi (una specie di comandante dell’esercito)43 – svolgeva funzioni rituali comunitarie legate all’antenato clanico44 (sa40

Di questa categoria facevano parte anche gli antenati, come detto. Soltanto in seguito l’esigenza “missionaria di distinguere la venerazione […] per i defunti dal comportamento rituale riguardante gli spiriti” ha portato “all’affermazione di distinte categorie di esseri sovrannaturali che non ha riscontro” nel sistema di pensiero luo e che “risponde, semmai, alla necessità missionaria di disporre di una religione tradizionale comprensibile – e gestibile – ai fini dell’evangelizzazione” (Cerri 2006: 155). 41 Oppure, in maniera ugualmente vicina alla realtà: coloro che operavano comunitariamente e coloro che, invece, lo facevano in forma privata (in qualità di ‘specialisti’). 42 Si potrebbe perfino tradurre ‘re’ (le funzioni che svolge sono infatti simili a quelle dei ‘re sacri’). A favore di questo termine deporebbe l’uso fattone per esprimere la sovranità del Dio biblico chiamato, appunto, Ruoth. 43 L’organizzazione politica luo rientra nel “modello segmentario” teorizzato da Evans-Pritchard. 44 Il patrimonio orale luo tramanda i nomi dei clan, dei rispettivi antenati mitici e il loro ordine di stanziamento. Il primo ad arrivare in Nyanza fu il clan Joka-Jok (la gente di Jok!) nei pressi di Ramogi Hill. Il clan passò nelle mani del figlio di Jok, Ramogi da cui si divisero vari altri gruppi (tutti legati a luoghi geografici – colline, monti, laghi – che essi fondano), il più importante dei quali fu il Joka-Dimo (Dimo risulta espressamente indicato come “primo ruoth” – cosa molto interessante dal punto di vista storico religioso – cui successe Nyathuon, fondatore del primo buch piny, e Anam Osunga,

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crifici, libagioni, preghiere) da cui egli discendeva e da cui dipendeva il benessere del territorio, legato soprattutto alle precipitazioni (il ruoth era anche un ‘facitore di pioggia’)45; gli anziani (maschi), per i quali può essere fatto un discorso simile riportandolo a livello del lignaggio e delle singole unità familiari; le anziane (donne), depositarie del patrimonio orale luo, che avevano il compito di istruire i giovani attraverso la narrazione dei miti nel siwindhe 46. Del secondo gruppo facevano invece parte: il jajuok (una sorta di stregone che aveva potere “sul fuoco” e sugli animali ed attendeva le persone nel bosco per ucciderle), il già citato janawi, il jabilo (un tipico medicine man), il jalango (esperto negli esorcismi) ed infine l’ajuoga, il divinatore. Anche su questa distinzione dei vari ‘specialisti religiosi’, individuati in passato da etnologi e missionari, si potrebbe discutere a lungo, ma non lo faremo. Si tratta ancora una volta di un frazionamento generato dal tentativo di far entrare l’alterità religiosa luo in griglie classificatorie proprie della nostra cultura (se cura è medicine man, se predice il futuro è divinatore ecc.) e influenzato, in una maniera che risulterà ormai chiara, da principi etico-cristiani (se usa la “magia nera” è stregone, se usa la “magia bianca” è divinatore-guaritore). Proprio in rapporto all’ultimo gruppo considerato, quello che qui ci interessa per via di Gaudencia, si trova la maggiore arbitrarietà nella separazione delle figure. Un solo caso può già primo capo coloniale nel 1898. Attualmente sono individuati dodici clan, ma la loro divisione rispecchia più le aree geografiche divise dall’amministrazione coloniale che quella originaria: Jo-Gem, Jo-Ugenya, Jo-Seme, Jo-Kajulu, Jo-Karachuonyo, Jo-Nyakach, Jo-Kabondo, Jo-Kisumo, Jo-Kano, Jo-Asembo, Jo-Uyoma, Jo-Sakwa (Ogot: 1967). 45 Emerge, qui, la divisione – tutta occidentale – tra competenze politiche e religiose, evidentemente inoperante nella società luo. 46 Il siwindhe era un capanno circolare diviso in due sezioni (maschile e femminile) dal tetto conico e le pareti decorate da pitture di animali (probabilmente i protagonisti mitici dei racconti che ivi venivano narrati). Il pavimento era disegnato con motivi geometrici tagliati da radici di agave sisalana. Al suo interno, in un apposito focolare, ardeva un fuoco che non doveva essere mai spento. (Onyango-Ogutu-Roscoe 1974: 24).

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essere esemplificativo. La figura del jabilo viene ‘individuata’ in rapporto a tutta una serie di capacità che dovrebbero essergli peculiari ma che, nella realtà dei fatti, non lo sono. Egli cura malattie, è dottore e mago (e fin qui ci potremmo essere), ma predice anche il futuro, è indovino, giudice, consigliere del capo e, per le sue capacità divinatorie, arbitro finale nelle dispute. Viene addirittura sottolineato come egli debba il proprio potere agli spiriti che lo posseggono e che – al termine di un complesso percorso terapeutico/iniziatico – sono asserviti ai suoi comandi. Sembra quasi che tra questa figura e l’ajuoga – al quale vengono attribuiti identici caratteri – non vi siano differenze. Di più: esse sono accomunate nel mito luo che fonda la figura dell’ajuoga stesso47. Citiamo brevemente: Il protagonista – Obondo, figlio di un jabilo e profondamente afflitto per la sua morte – un pomeriggio ebbe la visione abbagliante di un arcobaleno. “Allarmato corse fuori di casa […] in uno stato di frenesia, corse selvaggiamente per tutto il territorio come un bufalo impazzito inseguito dai cacciatori. Nessuno poteva raggiungerlo. Alla fine annegò nel Lolwe (Lago Vittoria, ndr.), penetrando nelle sue profondità per vivere con Min Reach48, la madre dei pesci che domina anche su tutte le altre creature acquatiche. Ippopotami, coccodrilli e serpenti non potevano spaventare O., perché il suo juok (lo spirito da cui era posseduto) li addomesticava49. Mentre era nel lago, Min Reach gli rivelò tutti i segreti degli eroi e delle potenti ceneri (cioè, gli insegnò il patrimonio orale luo e come curare con erbe e infusi). Al termine dell’ammaestramento O. era pronto per lasciare il lago per sempre. Un pescatore lo trovò sulla riva magro e debole [...] O.

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Onyango-Ogutu, al contrario, presenta il mito dicendo che esso racconta di “un modo meno convenzionale per diventare ajuoga” (Onyango-Ogutu-Roscoe 1974: 18). 48 Questa figura, chiamata anche Alas, era di importanza centrale nella cultura luo e compariva in moltissimi miti. 49 In maniera simile a quanto abbiamo detto che facevano gli stregoni ‘malvagi’ capaci di controllare la volontà degli animali e a quanto è chiamato a fare l’ajuoga nel momento in cui ci fosse stato bisogno di “trattare” ritualmente con essi.

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offrì sacrifici non solo per ringraziare di essersi salvato, ma anche per ciò che aveva appreso. Visse e morì ricco e rispettato da tutti ”50. Sembrerebbe esserci confusione tra le figure che qui stiamo analizzando, ma a ben guardare, come per gli spiriti da cui vengono possedute, possiamo semplicemente affermare l’esistenza di un’ampia categoria di persone, gli jojuogi appunto51, individuabile in base ad un rapporto stabile con le entità sovrannaturali a cui è connessa (lo stesso termine jojuogi significa ‘figli degli juogi’)52. Queste persone erano chiamate in causa dai luo ogniqualvolta c’era bisogno di ‘trattare’ con spiriti: in caso di malattie o altri eventi negativi (per scoprire la causa della loro ira e porvi rimedio); quando ci si apprestava ad un viaggio, ad una battuta di caccia o pesca (per chiederne la protezione); nei casi in cui un animale ad essi legato fosse entrato nel centro abitato (p.e., venivano compiute libagioni in onore di una lucertola trovata in casa); ma anche quando si desiderava uccidere una nemico grazie al loro potere o costruire un amuleto per prevenire tale eventualità. Insomma, l’ajuoga era il potente intermediario tra il mondo degli juogi, cui aveva accesso in maniera esclusiva, e quello dell’uomo. Proprio per questo suo potere straordinario, che poteva essere usato per uccidere come per guarire53, egli era temuto e rispettato. Ai fini del nostro discorso è fondamentale porre in evidenza un’ultima cosa: buona parte di questi operatori erano donne e ciò indipendentemente dai tipi di juok con cui esse avevano a che fare. Non c’era, cioè, una categoria di spiriti propri delle donne o legati a malattie connesse con il

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Onyango-Ogutu-Roscoe 1974: 18-19. 51 Forma plurale di ajuoga. 52 Nella lingua dholuo, il prefisso Jo significa “figlio di” (Schwartz 1989: n.9, 493) ed è usato spesso per designare l’appartenenza ad un gruppo religioso. I legionari, ad esempio, sono chiamati JoLegio. 53 Si veda il caso, illuminante, della ugandese Alice Lakwena che introdusse nel suo movimento di matrice cristiana proprio l’ambivalenza tipica degli juogi e della figura dell’ajuoga (Visca 2004: 77 e sgg.).

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loro (ascritto) ruolo sociale di riproduttrici: lang’o o jochiende piuttosto che nam54 o mumbo, non faceva differenza. Essere possedute da uno juok dava loro accesso ad un ruolo sociale nuovo ed importantissimo (in particolar modo all’interno di una struttura patriarcale qual’era quella luo) che garantiva una posizione di prestigio, altrimenti avuta soltanto da anziana (pim) all’interno del siwindhe, da cui poter trarre anche ingenti benefici economici (per il compenso delle loro prestazioni). Ora, il juok ‘sceglieva’ la persona con cui stabilire un rapporto – spesso considerata ‘anomala’ già in precedenza55 – inviandole chiari segni della sua volontà: sogni/visioni, ma anche malattie, crisi o possessioni selvagge56, e perfino sventure di enorme gravità (come la morte di uno o più figli!). In questi casi la famiglia del posseduto (o della posseduta) chiamava un divinatore (o una divinatrice) che, avendo superato un’esperienza analoga57, era in grado di comunicare con lo spirito comprendendone le intenzioni e

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I primi sono spiriti di guerrieri morti durante la guerra tra lang’o e luo avvenuta nel 1900, i secondi spiriti che abitavano i corsi d’acqua (Hoehler-Fatton 1996: 112113). 55 È ovvio che questa anomalia, comportamentale o fisica, era giudicata positivamente dalla società proprio perché indizio di un carisma particolare (Lanternari 1988: 164). 56 I segni della possessione erano facilmente individuabili: intensi e incessanti mal di testa, tremori, convulsioni, capacità di parlare lingue sconosciute ed incomprensibili, perdita di appetito, magrezza e debolezza, attacchi di panico, rutti continui spezzati spesso da imprecazioni e mugugni, crisi che portavano a corse forsennate. È palese il parallelo col caso di Obondo: la morte del padre, il malessere che gli fa vedere l’arcobaleno (‘simbolo’ celeste del pitone, animale legato agli antenati), le crisi possessive, il rapporto col proprio juok e infine con Min Reach che lo inizia a tecniche terapeutiche e a nuove, oscure conoscenze. 57 Poiché, parafrasando quanto dice Lanternari riguardo alla komenle tra gli nzima del Ghana, “la salvezza propria non esaurisce il campo d’azione della vocazione, la quale viene automaticamente socializzata nei suoi effetti. Così chi è salvato corre a salvare gli altri. Fare la [ajuoga] significa infatti soprattutto guarire, salvare, ripetere su altri l’esperienza vissuta in prima persona” (Lanternari 1988: 167).

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le richieste. L’ajuoga 58, in stato di trance, interrogava lo spirito danzando e cantando mentre anche le altre persone presenti nella casa, principalmente le donne della famiglia, lo seguivano intonando canzoni sacre, i wend juogi, capaci di attirarne l’attenzione. Quando alla fine, in una specie di colloquio mistico, lo spirito dell’ajuoga riusciva a comunicare con quello del malato, che accettava di essere placato, il posseduto poteva compiere le azioni rituali richiestegli per ristabilire l’ordine infranto o per iniziare un trattamento intensivo volto a sancire un solido rapporto con il ‘suo’ spirito59. A questo punto, sembrerà che ci siamo allontanati oltremisura dalla nostra Gaudencia ed invece, proprio alla luce di quanto detto finora, risulteranno molto più chiari sia la natura della sua possessione, sia il legame religioso che unì gli eventi di cui la donna fu protagonista in quell’inizio di 1963. È palese, infatti, che la sua vicenda segue un modello ben definito, conosciuto e diffuso in tutta l’Africa e che tra i luo abbiamo visto essere proprio dell’ajuoga: quello dei culti di afflizione. La morte dei figli costituisce il banco di prova, l’elemento di crisi che impone di trovare una via di salvezza e serve a meglio definire la ‘vocazione’; in seguito interviene la malattia, intesa come possessione, a determinare tramite la visione il destino personale della giovane donna. 58

Trasportando uno scudo piccolissimo, due ligangla, specie di daghe appuntite, sui fianchi, una lancia, una pagaia e un recipiente di zucca, il divinatore si presentava a casa del malato col corpo cosparso di ocra, colorata in varie tonalità che andavano dal rosso al blu, dal marrone al nero, ed ornato con collane di perline o erbe intrecciate, dette bwombwe; intorno al collo poteva avere una catena fatta di vertebre di un pitone sacro. Spesso dei campanelli bianchi gli pendevano dalle braccia o erano assicurati ai piedi. Una bella documentazione fotografica è visibile nel sito del Pitt Rivers Museum: http:// photos.prm.ox.ac.uk/luo (in linea, però, con un’idea maschile di sacerdozio propria dei missionari e degli antropologi che scattarono le foto all’inizio del ‘900, i soggetti sono prevalentemente uomini). 59 Il rito prevedeva il sacrificio di capre bianche e galline e si concludeva, tramite l’apposizione di alcune strisce di pelle al polso e al dito medio, con l’ingresso nel nuovo status di ajuoga.

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Fin qui nulla di estraneo all’orizzonte luo, sennonché i sogni ricevuti da Gaudencia furono completamente ‘diversi’ rispetto a quelli avuti dagli jojuogi tradizionali. Ella non vide, infatti, né Min Reach, né tantomeno gli spiriti di Mumbo o Lang’o: vide la Madre e il Padre della stirpe cattolica cui lei, ora, apparteneva: Gesù e la Vergine Maria, nuovi antenati, juogi cristiani. La prima manifestazione di questi fenomeni onirico-visionari, avvenuti tutti durante le ore notturne, fu di rivoluzionaria importanza nella vita di Gaudencia: ritte di fronte a lei, le più importanti figure del cristianesimo le ordinarono di fondare un nuovo movimento religioso e di chiamarlo ‘Maria Legio’. Alcuni giorni dopo la donna udì una voce che le ordinava di uscire di casa: appena fuori vide Cristo, in piedi su una pietra, che le indicava con la mano il Paradiso. In un’altra visione Gesù disse di volerle consegnare “sei libri”, il cui contenuto andava appreso ed insegnato ad altri. Gaudencia non si decise tuttavia a compiere alcun atto concreto fino al momento in cui la Madonna non la sollecitò ad adempiere il compito affidatole e, a conferma della veridicità della sua missione e per fugare ogni suo residuo dubbio o resistenza60, le chiese di toccare la gamba ferita di un uomo ed essa istantaneamente guarì. Va detto che Gaudencia non rappresentò un caso unico tra i luo. È documentato che prima di lei e in aree prossime alla sua, altre due ragazze e un ragazzo avevano ricevuto la visita della Vergine Maria: la prima era una catecumena della missione di Asumbi, la seconda Maria Ragot (1952) della missione di Mawego61, il terzo John Owigo (1960) della missione di Kadem62. Queste eccezionali esperienze – quella di Gaudencia compresa – presero vita nutrendosi del ricco humus mariano 60

Il rifiuto della ‘chiamata’ è un altro elemento tipico dei culti di afflizione (e delle chiamate ‘profetiche’ in generale). Non possono non tornare in mente, ancora una volta, il ‘prototipico’ Obondo e le conoscenze segrete (comparabili ai sei libri di Gaudencia) da lui acquisite assieme alla capacità di guarire. 61 Della cui importanza per Gaudencia parleremo in seguito. 62 Dirven 1970: 111.

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che aveva fertilizzato la zona centro-meridionale del Kenya63 e si era vieppiù potenziato grazie all’apostolato laico della Legio Mariae irlandese64, alla proclamazione da parte di Pio XII, nel 1950, del dogma dell’Assunzione di Maria e alla promulgazione, nel 1954, dell’anno mariano per celebrare il centenario della dichiarazione di un altro dogma, quello della Immacolata Concezione di Maria, cui seguì l’arrivo a Kisumu, nel 1955, della Family Rosary Crusade65. Le missioni furono travolte da ondate di entusiasmo: celebrazioni liturgiche, processioni, fiaccolate notturne, prediche e sermoni incentrati sulle apparizioni della Vergine a Lourdes e a Fatima, recite pubbliche del rosario contribuirono a creare un clima di esaltazione religiosa che si andava a combinare con le esigenze di rinnovamento ecclesiale dei fedeli africani. A Nyabururu si tenne un raduno per celebrare l’anno mariano cui partecipò una folla di 16mila persone; a Kisumu furono ancora di più, 20mila secondo le stime. Per farsi un’idea delle cifre, pensiamo che a Maseno, il più grande raduno del Revival Evangelico, si contarono 12mila fedeli. Inoltre la Peregrinatio Mariae, a metà degli anni ’50, creò una nuova ondata di conversioni. In questo ambiente può destare poca sorpresa il fatto che qualcuno cominciò a considerarsi beneficiato da apparizioni della Madonna. Per tornare a Gaudencia, sembrerebbe quindi che ella si apprestasse a divenire un ajuoga di nuovo genere, diremmo quasi un ‘ajuoga cattolico’. 63

Ed anche il resto dell’Africa: tutti i missionari di fatto nutrivano una forte devozione mariana e tutte le missioni erano poste sotto l’egida della Vergine (cfr. Visca 2002). 64 La Madonna era il perno della fede e della pratica legionarie. Si tenga presente che nella Chiesa cattolica il ruolo dello Spirito Santo non era altrettanto centrale che nei contemporanei movimenti di matrice evangelico-pentecostale presenti nella zona dei Grandi Laghi, e la sua azione, il suo soffio, attentamente schermato e filtrato dal clero, di rado sconvolgeva la vita dei fedeli. I legionari trovarono un ‘rimedio’ a quello che poteva essere inteso come un handicap cattolico facendo appunto perno sul ruolo di mediatrice proprio della Madonna. 65 Fondata da p. Patrick Peyton, la Crociata aveva come scopo l’evangelizzazione delle famiglie tramite la diffusione del rosario.

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E infatti, di comune accordo col marito e i suoi familiari (ed in linea con l’iter tradizionale), decise di rivolgersi ad un guaritore esperto che potesse liberarla dai mali che l’affliggevano. Dietro il probabile suggerimento di un suo cognato66, venne scelto un profeta di grande fama tra i luo che operava allora a pochi chilometri da dove abitavano67: Simeon Ondeto. Simeon era nato68 nei pressi della missione cattolica di Nyabondo, vicino al villaggio di Awasi ove Gaudencia trascorse l’infanzia, e ove fu battezzato da adulto il 12 ottobre del 1952. Il suo indottrinamento non fu facile – tant’è che dovette ripetere quattro volte l’esame per il battesimo –, ma attirò ben presto l’attenzione dei luo cristianizzati per le sue innate capacità spirituali. All’accoglimento entusiastico della nuova religione, infatti, Ondeto accompagnava tutta una serie di fenomeni – balbuzie, tic nervosi ricorrenti, capacità di avere ‘sogni’ – che “nell’insieme gli conferivano, presso gli indigeni, un rispetto sacrale”69 e al tempo stesso facevano ipotizzare ad alcuni catechisti ‘uno squilibrio mentale’ attribuibile alla possessione di qualche juok70. La sua predisposizione a ricoprire un ruolo rituale, che non poteva più essere espressa in termini tradizionali ma nemmeno – almeno per il momento – istituzionali, trovò

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Johannes Muga, divenuto poi vescovo della Chiesa della Maria Legio (Dirven 1970: n.38, 126). 67 Proprio questa vicinanza spaziale non ci permette di escludere che i due leader religiosi si conoscessero, se non direttamente almeno per “popolarità”. 68 La data è molto incerta, si ipotizza il 1916 (Schwartz 1994: 146; Aa.Vv. @ 2007). 69 Lanternari 1967: 203. 70 Allo stesso modo, non è da escludersi che alcuni rintracciassero in Simeon i caratteri propri dell’operatore rituale tradizionale. Abbiamo il racconto del momento in cui egli venne ‘posseduto’ dallo juok, secondo uno schema affatto rispondente a quello religioso luo: “Un giorno, sulla strada per la chiesa, Simeon trovò un animale morto: nel momento in cui tentò di rimuoverlo dalla strada, cominciò a rabbrividire ed ebbe un atroce mal di testa, tale da non permettergli di insegnare. Decise di tornare a casa. Sulla via del ritorno, però, mise il piede su un uovo abbandonato dietro una staccionata: ciò lo rese malato e lo fece sanguinare molto dal naso e dalla bocca. Questi eventi sono apparentemente connessi con la sua vocazione” (Aa.Vv. @ 2007).

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espressione nell’associazionismo laico della Legio Mariae cattolica ed egli poté così convogliare il suo fervore religioso nella predicazione. Il grande carisma di cui era dotato lo portò ad avere un discreto successo come legionario e in breve tempo riuscì a raccogliere attorno a sé un nutrito numero di seguaci. Compratasi una tonaca col primo stipendio da assistente catechista, all’inizio del 1963 Simeon si unì al Praesidium71 della Legio Mariae di Kadem e partì per andare a Suna, nella missione di Oruba, vicino Migori. Questo gruppo viveva, in realtà, una situazione del tutto particolare. Si era sottratto, infatti, al controllo ecclesiastico – peraltro assente in quella che era una delle aree più povere e legate alla religione tradizionale del Kenya – intraprendendo tutta una serie di iniziative autonome. I legionari, cui peraltro era stato dato il permesso di indossare speciali uniformi, cominciarono a ritenersi un corpo separato in seno alla Chiesa finendo per assomigliare molto agli avventisti che popolavano, numerosi, la zona. Gli JoLegio si rivolgevano gli uni agli altri chiamandosi ‘fratelli’ e ‘sorelle’ anche al di fuori delle riunioni e delle altre attività ecclesiali, intendendo i termini in maniera sempre più ‘clericale’, al punto di arrivare a “trascurare le proprie responsabilità familiari”72 per dedicarsi anima e corpo alla propria vocazione. I membri viaggiavano in piccoli gruppi di villaggio in villaggio e si fermavano nelle case dei fedeli per pregare per i malati e svolgere compiti di assistenza spirituale, coprendo in tal modo la deficitaria cura pastorale73. Anche quando restavano nelle loro stazioni l’obbligo del lavoro settimanale, che il regolamento legionario stabiliva della durata di un paio d’ore, divenne quotidiano al pari di quello presbiterale. Insieme ai suoi compagni, Ondeto girò per i villaggi dell’intera zona esorcizzando gli spiriti maligni, “togliendo gli incantesimi e pregando 71

Cellula locale dell’organizzazione (comprendente dai 4 ai 20 membri) di cui sembra sia perfino diventato presidente. 72 Dirven 1970: 120. 73 È probabile che alcuni di essi mirassero a ‘prendere il posto’ dei sacerdoti missionari. Il caso della Maria Legio confermerà, in parte, tale ipotesi.

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contro gli incubi”74, chiedendo in cambio dei suoi servigi solo del cibo per sopravvivere. Durante questo periodo le sue visioni, così come il suo ruolo, si definirono meglio in senso cristiano. In uno dei suoi sermoni sulla sofferenza di Cristo egli affermò di aver visto il Paradiso: non c’erano membri di altre religioni in cielo, disse, solo cattolici, da cui comunque andavano esclusi tutti i preti ad eccezione del vescovo Brandsma e di padre Bouma75. In cielo riconobbe Giacobbe, Davide e Abramo – “erano là, praticando la poligamia come avevano fatto sulla terra” – che gli comunicarono la liceità del battesimo anche per i poligami. Una notte, mentr’era in Paradiso, sentì una gran voce che gli ordinava: “Esorcizza gli juogi dalle persone e prega fervidamente per loro, rinuncia al peccato, alle danze, al tabacco e agli alcolici. Il tuo movimento si chiamerà ‘Legio Maria’”76. L’apostolato e la predicazione cominciavano a stare stretti a Simeon: iniziò a battezzare e si autoproclamò Jahulo (‘colui che annuncia’, il profeta) – ma anche questo ruolo, ben presto, verrà superato. Da quanto emerso finora appaiono già chiaramente alcune differenze nel percorso religioso di Simeon e Gaudencia, ormai in procinto di incontrarsi. Entrambi, è vero, stavano dando corpo all’esigenza di un cattolicesimo più africano, ma in maniera molto differente. Alla base delle loro esperienze c’era un sostrato tradizionale comune e riferimenti simili alla dottrina e alle pratiche cattoliche, eppure i due sembrano riferirsi a modelli religiosi distinti. Ondeto si ispirò a quelli, ben definiti, del prete, del profeta, del messia, africanizzandoli con il chiaro intento di operare un rinnovamento ecclesiale dall’interno, mentre indirizzava la propria vita religiosa verso il conseguimento di un ruolo riconosciuto 74

Onyango: 1998. 75 Si vede qui la tendenza diffusa tra i cristiani africani di idealizzare e glorificare i primi missionari, in questo caso cattolici. Padre Bouma fu infatti il primo di essi ad arrivare in Nyanza (a Kisumu nel 1903), mentre il vescovo Brandsma fondò, sempre in quella città, il più grande centro per catecumeni nel 1913 all’interno della Chiesa di Santa Teresa, poi divenuta cattedrale della Diocesi di Kisumu (Baur 1991: 91 e sgg.). 76 Aa.Vv. @ 2007.

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nella e dalla Chiesa: catecumeno, catechista, legionario, presidente del Praesidium. Gaudencia, invece, cristianizzò il modello dell’ajuoga, in un tentativo di integrazione luo dell’orizzonte cattolico compiuto all’esterno della Chiesa stessa. La cosa non è di poco conto, e ci consente di ipotizzare che a monte della sua scelta possa esserci stata l’impossibilità di aderire ad una concezione esclusivamente maschile del sacerdozio qual’è quella della Chiesa di Roma: vedremo in seguito se potremo convalidare tale ipotesi. Per ora è interessante porre in evidenza un’ultima cosa: anche i sogni/visioni avuti dai due luo seguivano lo schema ora proposto. Infatti, mentre a Gaudencia apparvero gli juogi cattolici di Gesù e della Vergine, Simeon venne ‘rapito in cielo’, per usare un espressione biblica77, vide i grandi uomini dei racconti veterotestamentari e udì un messaggio provenire direttamente da Dio. Anche a livello onirico sembrano scontrarsi due modi distinti di avvicinamento alla realtà extraumana giunta col cristianesimo: uno più luo, l’altro più canonico.

Nascita di una Chiesa cattolica africana: la Maria Legio Il periodo che Gaudencia passò con Simeon, dall’aprile al maggio del 1963, fu centrale nella storia personale dei due leader e in quella religiosa del Kenya. Circa le modalità in cui si svolse il loro incontro non sappiamo nulla di certo, ma conosciamo bene quali furono i suoi esiti. La giovane donna, ormai guarita dai mali che l’affliggevano grazie al percorso iniziatico

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2 Corinzi 12, 4. Non sappiamo quanto le prediche e l’istruzione missionaria influirono su tali fenomeni visionari, ma dalla documentazione a nostra disposizione essi appaiono diffusi e abbastanza stereotipati. Prima di Simeon, solo per fare un esempio, Yohana Owalo, primo fondatore di una Chiesa indipendente luo nel 1914, la Nomiya Luo Church, dichiarò di essere stato ‘trasportato’ in cielo e aver visto tre Paradisi (il primo abitato dai veri fedeli, il secondo dagli angeli, il terzo da Dio) e aver ricevuto, dal Padre, il compito di fondare una propria Chiesa. Cfr. Ndeda 2000.

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in cui l’aveva guidata il nuovo profeta dei luo78, riuscì a stabilire un rapporto mistico diretto con i propri juogi cristiani (ottenendo da essi la capacità di battezzare e di curare i posseduti da juok) ed assurse al prestigioso ruolo sacerdotale che abbiamo definito ‘ajuoga cattolico’. Contemporaneamente, il Praesidium di Kadem, con a capo Ondeto, si separò ufficialmente dalla Legio Mariae cominciando un percorso di definizione istituzionale e dottrinale che, in breve tempo, lo avrebbe portato ad essere un vero e proprio movimento autonomo dotato di una struttura unitaria capace di racchiudere in sé le anime diverse e indipendenti dei suoi due leader. Insomma, stava prendendo vita una nuova Chiesa, indipendente da quella cattolica, che, seguendo le indicazioni date dalla Madonna a Gaudencia, fu chiamata Maria Legio79. Dopo il loro incontro a Migori, i due decisero di separare le proprie strade in base ad una strategia di diffusione che, concordata da entrambi, lasciava ad ognuno ampi spazi di autonomia operativa: Simeon si sarebbe occupato della parte meridionale del Nyanza, Gaudencia di quella centrale. Così, lasciata la Tanzania assieme a suo marito, l’Aoko tornò nell’area di Akwanyi–Migere (vicino al luogo in cui era nata), mentre Ondeto rimase nella zona in cui maggiore era il suo seguito di fedeli, a più di 160 km di distanza; alla prima fu affidato il compito di fare proseliti ed espandere il movimento, al secondo quello di consolidarlo istituzionalmente. Notiamo come i rispettivi ruoli, di evangelizzatrice e capo/guida religiosa, erano del tutto complementari, in una continuità – o meglio coerenza – con la separazione sessuale dei compiti propria della cultura luo che, allora, era improponibile trasferire nel rigido schema cattolico80. Quando sarà 78

È significativa la scelta di Gaudencia di affidarsi non già ad un guaritore tradizionale (logicamente ritenuto inadatto), ma ad un ‘operatore rituale’ cattolico che godeva di capacità taumaturgiche. 79 L’importanza della distinzione tra i nomi ‘comunicati in sogno’ ai due leader (Maria Legio e Legio Maria) si dirà oltre. V. infra, p. 311. 80 Simeon, abbandonata ogni esaltazione mistica, agiva quasi da ruoth, lasciando all’ajuoga Gaudencia il compito di ‘trattare’ con gli spiriti.

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quest’ultimo modello ad imporsi con forza anche all’interno della Legio, gli equilibri verranno cancellati di colpo. Fin dal primo periodo, però, le differenti sensibilità ed esperienze di vita, il diverso background culturale e religioso e le diverse aspettative dei due leader – cui abbiamo in parte accennato – emersero in tutta la loro lampante chiarezza e finirono per contaminare il diverso modus operandi dell’uno e dell’altra, spingendoli presto verso ipotesi ecclesiastiche ed ecclesiali diverse. Dal suo quartier generale di Migori, Simeon cercò subito di dare un’organizzazione stabile alla propria Chiesa partendo da quelli che sembravano, ai suoi occhi, punti fermi dell’identità cattolica: il clero, i riti sacramentali, la lingua latina. Si prodigò, quindi, nella formazione di sacerdoti luo capaci di celebrare messa nella ‘lingua di Dio’ e di amministrare i sacramenti, dando il via a un processo di strutturazione autonoma del movimento che portò alla definitiva rottura con un mondo missionario che, da parte sua, ancora non aveva preso piena coscienza di che cosa stesse accadendo in Nyanza. ‘L’illuminazione’ non tardò ad arrivare: la cosa divenne infatti improvvisamente chiara a tutti quando il prete della missione di Rapogi, recatosi a Kadem per il servizio domenicale e per tentare di correggere il comportamento eterodosso dei legionari – sempre più agguerriti nella loro predicazione antimissionaria –, ricevette un’accoglienza così ostile da indurlo a recarsi alla polizia. In tale occasione, i legionari dichiararono pubblicamente che non avrebbero più accettato né le direttive dei missionari, né il loro ruolo di rappresentanti della Chiesa di Roma81. La Maria Legio diventava ufficialmente un ‘problema’ di rilevanza nazionale. Forte della missione a cui era stata chiamata dalla Madonna, Gaudencia, dal canto suo, dopo aver convertito al proprio messaggio i parenti e la gente del suo clan82 ed aver battezzato, durante il suo viaggio verso nord, 81

Per molti studiosi – soprattutto quelli di estrazione cattolica – questo evento è ritenuto essere l’atto di fondazione del movimento. 82 A tal proposito è interessante notare come molti luo del clan Sidho – quello cui apparteneva Gaudencia – la seguirono perché convinti che fosse protetta dal loro ante-

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un primo gruppo di persone nella scuola di Migori, si spinse nelle piane di Kano e Nyakach svolgendo una feroce campagna antistregonesca, battezzando quanta più gente possibile, scacciando i ‘diavoli’ dai malati mediante esorcismi83 e liberando dagli juogi le molte donne possedute che le si raccoglievano intorno. Ella, “con un crocifisso stretto in mano ed il rosario attorno al collo […] curava i malati recitando preghiere e canti fino ad indurre nei pazienti uno stato di trance. Questo le diede un grande potere e i doni che aveva ricevuto attirarono molte persone”84. L’ampiezza ed il successo delle sue attività furono tali, che i suoi seguaci cominciarono ad essere conosciuti come JoGaudencia o JoAoko. Solo nella parte orientale di Alego riuscì a far erigere 15 nuove chiese. Gaudencia stava diventando la voce più ascoltata del neo-movimento. Vediamo allora, in dettaglio, quale fu l’operato della leader religiosa di Awasi. Ella andava di villaggio in villaggio, battezzando ed esorcizzando gratuitamente quanti lo chiedessero: “La Chiesa cattolica – affermava – esige tributi dalla gente per riti e battesimi. Io credo che nessuno debba chiedere soldi per un dono conferitogli da Dio. La nostra gente è così povera che non può pagare per liberarsi dall’assalto dei demoni”85. Tuttavia, chiunque volesse poteva fare un’offerta volontaria, destinata alla costruzione degli nato comune, Lwanda Magere (guerriero famoso per la sua invincibilità protagonista di molti miti luo; cfr. Onyango-Ogutu – Roscoe 1974). 83 Su questo punto va fatta una precisazione. La precedente disamina sulla natura degli juogi non deve far dimenticare che la divisione cristiana tra spiriti cattivi e spiriti buoni era, comunque, operante. Al fianco degli juogi di Gesù, Maria e (soprattutto in seguito) dei santi cattolici si trovavano gli spiriti ormai demonizzati della natura che andavano ‘cacciati’, al contrario dei primi con cui si stabiliva un rapporto stabile. 84 P. Jassy in Aa. Vv. @ 2007. 85 Citata in Lanternari 1967: 204. L’accusa di cupidigia mossa ai missionari era “diffusa capillarmente tra gli indigeni cristianizzati”, come precisa Visca (Visca 2002: n. 213, 95) e si fondava tanto sul tradimento degli insegnamenti evangelici, quanto sulla denuncia dell’ingannevole contrapposizione, reclamizzata dal clero, tra le pratiche religiose tradizionali, per le quali era necessario pagare, anche salatamente, e i nuovi, gratuiti riti cristiani.

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edifici ecclesiastici. Spesso, per far fronte alle molte persone che le si presentavano, la donna veniva aiutata da alcune ‘catechiste’ appositamente istruite da lei. Per accedere alla comunità cristiana non era più richiesta alcuna preparazione preliminare, né venivano poste condizioni di tipo morale o sociale. Vennero battezzati i poligami e le loro mogli – rifiutati in precedenza tanto dalle missioni cattoliche, quanto da quelle protestanti – così come i bambini figli di ‘pagani’, per i quali si facevano garanti vecchie donne già convertite. Ai neo battezzati veniva imposto soltanto l’obbligo di recarsi alla missione più vicina per essere catechizzati. Nei fatti, però, le cose non si dimostrarono così semplici come immaginato da Gaudencia e coloro i quali seguirono i suoi dettami ebbero un’amara, quanto prevedibile sorpresa nel momento in cui tornarono nei centri missionari: il battesimo impartito loro era ritenuto del tutto privo di valore. Le autorità ecclesiastiche stabilirono che quanti avessero voluto diventare cattolici a tutti gli effetti si sarebbero dovuti fermare nella scuola per intraprendere il normale percorso di catechesi e pagare la tassa battesimale richiesta. I poligami non vennero nemmeno presi in considerazione e immediatamente ‘rispediti al mittente’. A fare presa sulle masse luo furono però, senza alcun dubbio, soprattutto le capacità carismatiche di Gaudencia. La sua rilettura cristiana dell’ajuoga forniva una risposta, comprensibile dal punto di vista indigeno e compatibile con la nuova religione dei bianchi, al bisogno di protezione da ogni sorta di mali fisici, morali e sociali, ancor più accentuatisi con la crisi seguita allo scontro con l’Occidente. Una protezione che, in virtù del ruolo cristiano della guaritrice, divenne salvezza: fine imminente di ogni male, miseria, ingiustizia, sofferenza e oppressione. Il raggiungimento di questo ‘bene totale’ – legato ad una visione apocalittica subito abbandonata86 – era condizionato da alcuni precetti, elencati da Gaudencia alla fine 86

E non sappiamo quanto indotta dagli stereotipati modelli mariofanici della Chiesa cattolica (Crf. Visca 2002). Gaudencia, infatti, in una delle sue visioni ebbe questo messaggio dalla Madonna: “Tutti dovranno smettere di peccare, smettere di peccare ed interrompere le pratiche che sono malvagie agli occhi di Dio. Al mondo sta per

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delle sue performance: la conversione al cattolicesimo, la preghiera assidua e l’abbandono dei vizi, in primis fumo, alcool e danze87. Inevitabilmente, però, l’impiego sincretistico del cristianesimo quale religione più prestigiosa – e dunque più ‘potente’ – pose l’Aoko in concorrenza, e quindi in aperto contrasto, con le forme tradizionali di stregoneria. Gaudencia si fece promotrice di un’imponente campagna anti-stregonesca fondata su tre precisi capi d’accusa: gli stregoni non possedevano alcun potere sovrannaturale; la loro richiesta di onerosi compensi per le cure ai malati era soltanto, al pari della tassa battesimale dei missionari, un’ingiusta estorsione di denaro; la situazione di crisi vissuta dal popolo luo era dovuta principalmente alla loro pervicace ostinazione a mantenere in vita pratiche e credenze legate alla religione tradizionale88. terminare ogni cosa” (Schwartz 1989: 76). L’apocalisse venne inizialmente prevista per il 12 dicembre 1964, primo anniversario dell’indipendenza del Kenya. 87 Tre divieti tipici dei nuovi movimenti religiosi (si vedano i casi sotto riportati della Lumpa Church o del Dini ya Ragot), strettamente connessi con la religione tradizionale. Gli anziani luo, infatti, avevano il diritto di fumare lo ndawa (un tipo di tabacco) nelle loro pipe (di ferro quelle degli uomini, di legno di canna quelle delle donne), in virtù del particolare legame che li univa con gli spiriti degli antenati. Il consumo di birra, limitato anch’esso agli anziani di lignaggio, era permesso esclusivamente in cerimonie particolari (come le offerte primiziali) e nelle libagioni per gli antenati. La danza era legata a riti o momenti di particolare importanza sociale/religiosa (funerali, matrimoni, guerre e le cerimonie di cui sopra; Cfr. Ochieng’ 1985). In relazione a quanto detto, è interessante notare come, ancora oggi, la Legio mantenga una lista molto ampia di proibizioni collegabili all’orizzonte religioso tradizionale. Ad esempio, è vietato mangiare: ojiuri/kijuri (una salsa fatta con chimo e succo pancreatico usata in passato dagli jojuogi nelle sessioni terapeutiche); carne cucinata durante i funerali (come invece era uso fare tra i luo); akejo (un tipo di arbusto connesso agli antenati) e tutti i vegetali usati in passato dai guaritori tradizionali; animali e pesci connessi agli juogi (quaglie, scoiattoli, serpenti ecc.) o a pratiche tradizionali (come i grilli, cibo esclusivo dei suonatori tradizionali che accompagnavano la narrazione dei miti, jothum). 88 A ben guardare l’attribuzione del ‘male’ all’esclusiva dimensione stregonesca serve proprio alla conservazione, per dissociazione, di quanto di buono c’è nella religione luo. L’indottrinamento ‘dualista’ missionario – per cui il buono è esclusivamente pertinente alla religione del Cristo, mentre l’intero sistema di credenze tradizionali è ‘paganesi-

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Salda nelle sue convinzioni, Gaudencia convocò raduni pubblici durante i quali fece condurre al suo cospetto gli stregoni tradizionali obbligandoli a consegnarle tutti i loro oggetti rituali (conchiglie, zucche, ossa, bastoni, copricapo), che poi distrusse: in tal modo ella mostrava ai fedeli l’inutilità degli operatori rituali che attaccava privandoli dei simboli stessi del loro desueto mondo spirituale. Il nuovo, vero e più efficace potere era nelle mani degli juogi cristiani con cui ella era in contatto. Gaudencia era lì per dimostrarlo: con una procedura del tutto simile a quella di altri guaritori carismatici, afferrava e scuoteva i malati, recitando preghiere e canti fino ad indurli in uno stato di trance, cingeva loro il collo con dei grandi rosari, roteando il suo sulle loro teste, e cercava di afferrare i diavoli che li possedevano urlando finché non avevano abbandonato il loro corpo89. A siffatte azioni facevano seguito aspre prediche che si aprivano con attacchi nei confronti di missionari e stregoni, dipinti come individui avidi di denaro e per niente interessati al benessere dei propri correligionari. Alcuni recepirono il messaggio e si convertirono alla Legio. Più di tutti, però, a seguire Gaudencia furono le donne. Alla base di tale successo ‘al femminile’ ci furono due ragioni fondamentali. Innanzitutto, le donne luo subivano in maniera peggiore l’impatto con il nuovo modello occidentale che si stava imponendo. Esse persero, in un solo colpo, il loro ruolo di mogli (vista la ‘vedovanza’ forzata cui le costringeva sia l’emigrazione dei loro mariti, sia la proibizione della poligamia); l’autorità di cui godevano come anziane (a causa della distruzione del sistema parentale in cui erano inserite); il

mo’, e perciò male – viene sfumato dai nativi attraverso la conservazione della propria identità culturale e la contemporanea espulsione dell’intera dimensione di quanto ‘non gradito a Dio’ in una particolare categoria sociale: gli stregoni/streghe, appunto. Tale categoria, spesso inventata nella sua accezione esclusivamente negativa, è vittima (come è noto e come in questo caso) di vere e proprie ‘campagne antistregonesche’. Per approfondimenti si veda il caso degli ewe del Ghana e dei mai-mai congolesi in: Visca 2006: 123-153. 89 Reporter di Nairobi, numero del 17 agosto 1964; Dirven 1970: 204; Visca 2002: 97.

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compito di ‘educatrici’, quali narratrici di miti nel siwindhe90 (ruolo pedagogico passato nelle mani dei missionari), e quella complementarietà economica che le vedeva necessarie, come coltivatrici, al fianco dei loro mariti allevatori91 (la nuova economia monetaria, soprattutto in caso di inurbamento, creò una situazione di dipendenza totale dagli uomini). In secondo luogo, furono private, da una Chiesa androcentrica quale quella cattolica, anche della possibilità di ritagliarsi una dimensione religiosa, garantitagli – come juojuogi – nella società tradizionale. Non è un caso se, tra i luo, le donne seguirono in massa le nuove Chiese indipendenti di matrice protestante, in cui ritrovarono, oltre che un ruolo centrale, anche un’esaltazione carismatica vicina alle antiche pratiche tradizionali (possessioni, esorcismi ecc.)92. In ambito cattolico le alternative offerte alle donne erano due: farsi suora o aderire all’azionariato laico. Mentre quest’ultimo tipo di scelta – all’inizio accolta con entusiasmo solo da alcune (che all’interno della Legio Mariae trovarono un nuovo spazio di azione) – si andò seppur lentamente affermando a partire dagli anni ’6093, la prima, caldeggiata tra i luo dalle Francescane missionarie di San Giuseppe94, si rivelò sin da subito un fallimento e fu abbandonata95. Molto probabilmente le don90

Questo compito aveva una forte valenza ‘religiosa’ e solo una lettura etnocentrica del fenomeno ha permesso di assimilare la figura della pim (la donna più anziana cui spettava la narrazione mitica) alla nostra “bambinaia”. 91 A livello simbolico tale complementarietà era rappresentata al momento dell’edificazione della casa. L’uomo doveva occuparsi dell’intelaiatura di legno, la donna della costruzione in fango delle pareti (Ayodo 1996: 30) 92 Cfr. Lanternari 1967: 149 e sgg.; Barrett 1968: 146-150. Un’alta percentuale di donne si riscontra, notoriamente, anche tra i fondatori stessi di nuove Chiese indipendenti. 93 Con il movimento olandese del Grail, stabilitosi a Kibuye e Kisumu (Baur 1991: 116). 94 Vale a dire le suore di Mill Hill (Baur 1991: 105). 95 J. Baur, uno studioso che si è occupato della storia della Chiesa cattolica in Kenya, definisce il rapporto tra le suore europee e le professe luo “un Purgatorio per entrambe le parti” (Baur 1991: 106). Per vedere il primo progetto concreto e stabile

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ne luo non accettarono la disparità religiosa esistente tra preti e suore, convinte forse, in quei primi anni di evangelizzazione, che la figura del sacerdote, intermediario tra le potenze sovraumane e il mondo umano, fosse assimilabile a quella dell’ajuoga e quindi accessibile a tutti coloro i quali fossero stati chiamati a tale compito, donne comprese. Ce ne dà dimostrazione la stessa Gaudencia quando, parlando del momento in cui si recò da Simeon per essere guarita, disse:“« Sta per arrivare il momento in cui battezzerai ed esorcizzerai gli juogi». Furono Gesù e la Vergine Maria a consegnarmi questo messaggio. Quando mi trasferii non ero pazza, Li vidi realmente […] la Vergine Maria mi disse: «Vai, va’ e battezza quelle persone». Gesù mi disse: « Sei un apostolo, vai, va’ e dà a quelle persone il battesimo, esorcizza da loro gli juogi». Ed io partii […] andai da Simeon […] e mi ordinarono prete: «Vai ad accoglierle, va’ e battezza quelle persone»”96. Molte donne vennero ‘ordinate’ dall’Aoko in quel periodo e, così come aveva fatto lei, attraverso un percorso di malattia e guarigione, assunsero un nuovo status. Il loro compito era dire messa, aiutare la loro leader nel compiere esorcismi e battezzare, dar vita a riunioni di preghiera in cui si recitava soprattutto il rosario, alimentare la devozione mariana, presiedere alle sessioni di cura, aiutare i padri della Legio nei loro percorsi missionari. La cosa, però, sarebbe durata poco. Assume rilevanza, di conseguenza, l’ipotesi fatta in precedenza: Gaudencia creò un modello religioso nuovo, quello dell’ajuoga cattolico, e in rapporto ad esso consentì

bisognerà attendere il 1968 quando le Suore francescane di Sant’Anna, originarie di Oudenbosch in Olanda, crearono una comunità mista, afro-europea, che aveva come scopo principale la cura dei malati e dei non vedenti. Questo ordine, come molti altri prima e dopo, fu spinto alla sua missione dall’enciclica Fidei donum, scritta da papa Pio XII il 21 aprile 1957 e rivolta soprattutto all’Africa, nella quale si esortavano tutti i membri della Chiesa a compiere un nuovo sforzo nell’evangelizzazione delle popolazioni indigene poiché “falsi pastori seducono gli spiriti con falsi miraggi, seminando la ribellione nei cuori” (Baur 1991: 112). 96 Schwartz 1989: 74.

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ai luo – soprattutto alle donne97– di accedere, da protagonisti, alla nuova fede. Non solo: attraverso la tangibile continuità del nuovo modello con la religione tradizionale, seppur risemantizzata in termini cristiani, ella al tempo stesso riuscì a garantire l’inserimento nella Chiesa di tutta una serie di pratiche che, proprie del mondo protestante-pentecostale, erano ancora lontane dall’essere accolte nella Chiesa di Roma98. “La trance, la possessione spiritica, la glossolalia, l’esorcismo […] diedero risposta a molti bisogni, fondendo le caratteristiche della religione tradizionale con le componenti più spettacolari dei revivalisti cristiani o dei pentecostali presenti in gran numero nell’area”99. L’importanza della Maria Legio sta proprio nel suo essere il primo esperimento compiuto in tal senso: la prima ‘Chiesa indipendente cattolica’. A dire il vero, prima di Gaudencia c’era stato un altro importante movimento indipendente e cattolico con un’alta componente femminile: il Dini ya Mariam100. Un legame diretto tra i due gruppi, anche se non dimostrabile direttamente, è ipotizzabile alla luce di tutta una serie di analogie e da alcune testimonianze di fedeli101. La ‘religione di Maria’ venne fondata nel 1952 da una donna luo, Maria Ragot102, in seguito ad un messaggio ch’ella disse di aver ricevuto direttamente dalla Vergine e la cui veridicità trovava conferma nella casa costruitale dagli angeli e 97

Tant’è che questo ‘nuovo’ ajuoga era significativamente chiamato, all’interno della Legio, ‘prete donna’. V. infra, p. 309. 98 A tal proposito è interessante notare come i legionari ritengano di aver influenzato loro i carismatici cattolici (JoKanyo, giunti in Kenya negli anni ’80) in tutte quelle condotte (discesa dello Spirito, guarigioni mediante preghiera, glossolalia ecc.) che, ovviamente, praticavano ben prima di essi (Schwartz 1989: 522). 99 Dirven 1970: 150. 100 Chiamato anche Dini ya Ragot. La parola swahili Dini può essere tradotta con ‘religione’, ‘fede’, ‘credo’. 101 Molti legionari, dal momento che fu una delle prime persone cui comparve la Vergine, considerano Maria Ragot una precorritrice del loro movimento, quando non una delle prime e più importanti fedeli (Cfr. Schwartz 1989). 102 Barrett 1968: 11, 295.

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nei miracoli di guarigione che riusciva a compiere. Da quel momento la donna diede inizio a una predicazione dal carattere fortemente antimissionario e anticoloniale: sosteneva, in particolar modo, che la comunione col papa di Roma fosse possibile anche senza il ministero dei preti, avidi di denaro. Annunciando per imminente la fine del mondo, impartiva ella stessa il battesimo – gratuito e per tutti – e accentuava fortemente le forme di devozione mariana, soprattutto preghiere da rivolgere alla Vergine in particolari momenti della giornata103. Maria cominciò a predicare, con l’aiuto del marito Paul, nella missione di Mawego ma, visto il rapido successo, allargò ben presto le sue attività nelle vicine Nyabondo e Nyakach. Anche in questo caso, furono soprattutto le donne a seguire la guaritrice e a partecipare ai riti esorcistici che compiva. Il prete di Nyabondo, inquieto per il numero crescente dei fedeli della Ragot104, denunciò immediatamente la situazione alle autorità e il governo non impiegò molto tempo a proscrivere il movimento e ad arrestare Maria, trasferendola a Nairobi. Nel 1955 Maria fu autorizzata a tornare a casa, agli arresti domiciliari, e rientrò silenziosamente nella Chiesa cattolica. Nel 1958, però, lei e il marito ripresero in mano le redini del movimento e, arrestati di nuovo per aver tenuto riunioni illegali, furono condannati ad un mese di prigione. Scarcerati, i due ricominciarono le loro predicazioni e furono costretti ancora agli arresti domiciliari, da scontare non più nella loro abitazione ma nella stazione missionaria di Nyamira, a Kisii, da cui, comunque riuscirono a controllare e gestire la vita del movimento fino al momento del loro rilascio, avvenuto nel 1960. Nello stesso anno il movimento confluì nella protestante Dini ya Roho105. La decisione creò lo scontento di parte dei 103

Visca 2002: 95. 104 Nell’agosto 1954 padre Mc Intyre, di Mawego, dichiarò che a seguito della sua attività, a messa non andava più nessuno (Dirven 1970: 112). 105 Questo movimento di matrice pentecostale sorse nel 1917 in seno alla Chiesa anglicana grazie ad Alfayo Odongo Mango e vi rimase fino alla morte del suo fondatore, avvenuta nel 1934, strutturandosi poi indipendentemente da essa. Come tutti i gruppi

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fedeli che tornarono in seno alla Chiesa cattolica. Nonostante ciò, un gruppo di donne continuò a mantenere in vita il ‘movimento di Mariam’, mentre la profetessa visse tranquillamente nella sua casa vicino Oyugis. Maria Ragot fu un modello religioso, soprattutto per Gaudencia. Le apparizioni della Madonna, l’uso del rosario, l’esasperata devozione mariana, il divieto di bere alcolici e fumare, il bisogno di battezzare quanta più gente possibile senza chiedere denaro in cambio, per toglierla dalla situazione di peccato in cui versava, la cura dei malati tramite preghiera, la possessione, l’accusa nei confronti del ‘corrotto’ mondo missionario sono tutti caratteri comuni alle due visionarie. Gaudencia abitava a soli cinquanta chilometri da Maria, era una ragazza di quindici anni quando quest’ultima infiammava la zona con sua predicazione, non può non averne subito il fascino. Non sappiamo quanto ella influenzò le scelte di Gaudencia, ma l’ipotesi di un legame tra le due non è da escludere se non altro perché, come afferma Perrin Jassy, una studiosa francese che si è occupata della situazione religiosa nel Nyanza meridionale: “Paul e sua moglie seguirono […] la Legio quando ebbe inizio, portando con sé molti dei loro discepoli”106. Quando l’Aoko avrà le sue prime visioni e si sposterà da Tatwe a Migori, molte delle ex compagne di Maria la seguiranno, soprattutto quelle che non avevano voluto aderire alla Roho. Il loro passato religioso cristiano si era reincarnato in una nuova figura carismatica. Nel frattempo Simeon Ondeto era impegnato, anima e corpo, nell’opera di consolidamento della Chiesa nel Nyanza del sud. Nuovo jahulo d’Africa, egli stava cambiando profondamente in senso messianico il tono della sua predicazione. Dichiarò che Cristo era ‘uscito’ dall’eucarestia e camminava di nuovo sulla terra nella sua persona. “Di tanto in tanto chiamava sé stesso il Secondo Cristo. Insegnava che sorti in seguito al Revival evangelico, il Dini ya Roho fonda la sua dottrina sull’assoluta centralità dello Spirito santo (Roho appunto) e sui carismi che esso dispensa. (Barrett 1968: 10-11; Kuhn 2001: 26). 106 Citata in Schwartz 1989: 504.

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Cristo non era più nei tabernacoli dei cattolici […] era uscito dalla Chiesa e aveva preso posto sul Monte Calvario, una collina chiamata in precedenza Got Kwer, nei pressi della missione di Kadem”107. La scelta di questo luogo non fu casuale, e segnò un importante elemento di continuità con la religione tradizionale. Il Got Kwer era la ‘collina degli antenati’, sulla cui sommità gli anziani luo compivano i riti sacrificali. D’allora in poi sarebbe stato il luogo da cui il nuovo antenato cristiano e luo, Ondeto, aveva annunciato al mondo la propria venuta e su cui sarebbe stata eretta la Basilica di Santa Maria108. Il villaggio che sorse lì intorno, in cui vennero costruite esclusivamente case per i legionari, venne chiamato ‘Nuova Gerusalemme’109. Baba110, come cominciò ad essere chiamato Simeon, si impegnò anche ad abbozzare un nuovo apparato gerarchico per la Maria Legio, reso poi definitivo in un momento successivo. Vennero nominati i primi vescovi e ordinati i primi sacerdoti. I ministri di quella che sembrava ormai una nuova Chiesa cattolica dovevano seguire un corso obbligatorio di due settimane tenuto da Simeon in persona. A lui, il vertice, era riservato il titolo di ‘papa’, in una confusione di ruoli funzionale ad un assoluto accentramento del potere religioso nelle sue mani. La creazione di un clero specializzato e la costruzione di nuovi edifici spinsero Simeon ad imporre, anch’egli, una tassa battesimale, che poteva oscillare dai cinque ai dieci scellini a seconda dell’area e della ricchezza 107

Tratto dalla lettera indirizzata dal vescovo di Kisii, Otunga, a Dirven nel 1964 (Dirven 1970: 142). 108 Luogo ove i legionari si recano due volte l’anno in pellegrinaggio alla tomba di Ondeto. 109 La storia cristiana è piena di città sante in cui si raccolgono coloro i quali, aderendo ad un messaggio di riforma, ritengono di appartenere alla nuova comunità dei ‘salvati’ (si pensi, ad es., a Münster, in Westfalia, designata dagli anabattisti proprio come nuova Gerusalemme nel 1534). 110 Il termine swahili Baba (padre) è usato dai legionari in senso onorifico per indicare in Simeon il fondatore della Chiesa e rimarcare, contemporaneamente, l’assimilabilità della sua carica con quella del papa di Roma.

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della popolazione convertita. Appariva ormai chiaro che il modello della Chiesa di Roma non serviva solo da fonte d’ispirazione. Fedele alla tradizione maschile dei suoi correligionari europei, Simeon dette inizio, infatti, a un totale riassetto del movimento. Ad attirare in modo particolare la sua attenzione furono le seguaci e le aiutanti di Gaudencia. Alcuni sacerdoti legionari furono mandati a nord per adempiere, nelle zone convertite proprio dall’Aoko, tutte quelle funzioni di cui dovevano tornare esclusivi possessori. Il rito battesimale e la messa erano una prerogativa sacerdotale ed andavano eseguiti esattamente così come era stato stabilito dalla Chiesa cattolica ed indicato nei suoi libri di preghiera111. Le JoAoko legionarie vennero rinchiuse di nuovo nella stagnante dimensione di un azionariato laico da cui Gaudencia, e prima di lei Maria Ragot, le avevano affrancate: tornarono ad essere le assistenti dei sacerdoti, sebbene in una nuova Chiesa. Simeon stava tagliando le gambe ad ogni possibile pretesa femminile di sacerdozio. Tale processo non fu, comunque, repentino e Gaudencia ebbe ancora tempo e supporti per opporsi strenuamente sia alla pretesa identità messianica di Simeon, sia alla creazione di una gerarchia ecclesiastica maschile su modello cattolico. Infatti, ella proseguì, almeno inizialmente, nel tentativo di mandare i fedeli da lei battezzati ad istruirsi nelle missioni cattoliche e, per un certo periodo, provò perfino a distogliere Simeon dall’idea di entrare in aperto conflitto con la Chiesa di Roma. Intanto la sua opera evangelizzatrice la portava verso ovest, ad Alego e Sakwa. La Maria Legio si stava diffondendo velocemente in tutto il Nyanza, coinvolgendo ogni area in cui vivevano gruppi luo: zone rurali, villaggi, grandi città come Nairobi, Mombasa, Tororo, Jinja, Kampala e Musoma. I membri passarono rapidamente da 10mila a 60mila e, alla fine del 1964, arrivarono a 90mila. Aderirono al movimento persino 111

“Il battesimo dei neoconvertiti poteva quindi, in via ipotetica, anche essere considerato valido nell’opinione dei preti cattolici” (Dirven 1970: 144). In realtà ciò, come ovvio, non avvenne. Ondeto e i suoi preti non avevano, per la Chiesa cattolica, alcun ruolo sacerdotale e, quindi, i loro riti erano privi di ogni valore.

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alcuni gruppi bantu: kuria e kisii, ma soprattutto samia, facilitati dal fatto di parlare anch’essi la lingua dholuo e di aver avuto intensi scambi matrimoniali ed economici con i luo stessi. Le principali zone di diffusione furono tre, tutte legate alla figura di Gaudencia: Kano, sua sede operativa (ma anche luogo in cui Simeon fu battezzato ed ebbe le prime esperienze religiose); Alego, ove ella ebbe maggior seguito; e Ugenya, in cui operava Raphael Odhiambo, battezzato a Kano nel 1940 da Gaudencia e persuaso da quest’ultima ad aiutarla nella sua opera di diffusione del messaggio cristiano-legionario. A questo punto appaiono chiare, in tutta la loro portata, le differenti prospettive religiose dei due leader. Gaudencia si diresse verso una cristianizzazione della sua religione africana nella certezza di potersi ritagliare un ruolo importante all’interno della sua nuova religione, un ruolo affatto rispondente a quello della tradizione luo – tanto che ne manteneva invariato più di qualche aspetto (chiamata, iter iniziatico, sogni, funzioni, ecc.) – ma allo steso tempo nuovo, grazie alla sua rilettura cristiana. Questo punto di vista sembra confermato dall’avversione di Gaudencia a uno scontro di ruoli con l’establishment religioso (prima missionario, poi legionario). Molto probabilmente riteneva che la sua figura, e quella delle fedeli che la seguivano, fossero complementari a quella dei missionari e dei preti legionari. Simeon, al contrario, sapeva benissimo che la Chiesa cattolica non avrebbe mai accettato né il suo ruolo profetico, né quello più tradizionale di Gaudencia, né tantomeno tutte le pratiche, battesimali o di altro tipo, cui si stavano dedicando. L’aver vissuto all’interno di un’associazione come la Legio Mariae, a stretto contatto con le gerarchie e le istituzioni cattoliche, gli permise di comprendere che l’alternativa era tra restare nella Chiesa, alle sue condizioni, o uscirne del tutto. Tertium non datur. Simeon, quindi, non cercò di trovare un compromesso: l’esempio delle altre Chiese indipendenti della zona gli fu d’aiuto. Prendendo a modello la struttura cattolica, l’unica che conoscesse bene, stabilì una sede centrale e un ministero gerarchico affinché il rituale cattolico della messa e dei sacramenti potesse essere continuato, divise il territorio in diocesi con a capo vescovi di sua fiducia, nominò i 278

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primi arcivescovi e si impegnò a creare strutture cittadine o di villaggio autonome e con a capo sacerdoti legionari. Specularmente a Gaudencia, Ondeto puntava direttamente ad un’africanizzazione del cristianesimo. È interessante notare come, almeno nel periodo di gestazione della Maria Legio, questo modello, di matrice cattolica e fortemente androcentrico, fosse ancora perdente. Il seguito di Simeon fu abbastanza esiguo e limitato, per la maggior parte, ai membri del suo Presidium e ai fedeli che gravitavano attorno ad esso. A voler essere ancora più precisi, Ondeto mostrò di avere maggior influenza sulle élite politico-economiche luo che sulla popolazione comune. Convertire le masse era compito di Gaudencia e fu suo il merito di aver accresciuto il movimento in lungo e in largo. Il caso di Alego è significativo al riguardo: Gaudencia vi arrivò nel novembre del 1963 e vi battezzò, durante grandi raduni pubblici, circa l’80% degli alunni della missione cattolica e moltissime altre persone, conducendo una massiccia campagna antistregonesca in un’area che era molto legata alla religione tradizionale e restia all’evangelizzazione. Evidentemente il suo messaggio arrivava in maniera più diretta e comprensibile a tutti rispetto a quello cattolico-missionario. Gaudencia offriva una via tradizionale di accesso al cattolicesimo ed in molti la percorsero: al contrario, Simeon offriva un’altra Chiesa cattolica, sebbene africana. Le due differenti scelte di riferimento determinarono anche una differenziazione del seguito dei fedeli: uomini, catechisti, élite cittadine o rurali da un lato; donne, giovani, bambini e masse contadine dall’altro. Certo, all’interno di ogni schematizzazione esistono sfumature, ma crediamo che tale distinzione fu realmente operante. Ne erano consapevoli gli stessi protagonisti nel momento in cui si ‘divisero’ i compiti. A questo punto occorre illustrare quali furono i motivi alla base dello sbalorditivo sviluppo della Maria Legio. In sintesi, potremmo indicare: il carattere anti-stregonesco del movimento, i suoi aspetti terapeutici, la sua capillare campagna battesimale e la sua capacità di rispondere ai bisogni particolari di una comunità di fedeli che prima di essere cattolica si sentiva senza dubbio africana. Come disse uno dei primi vescovi legionari, Maria Thomas Ayieta, “Noi siamo ancora cattolici sebbene non 279

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abbiamo niente a che fare con i cattolici romani perché siamo cattolici in Africa e non cattolici a Roma. C’è una grande differenza tra l’Africa e l’Italia”112. All’interno di un sistema tradizionale che stava andando in frantumi, Gaudencia e Simeon, ma come loro molti altri in ambiti e tempi diversi, usarono il collante del cristianesimo che avevano appreso per rimetterne insieme i pezzi. La Chiesa cattolica non aveva ancora adottato una strategia inculturativa consapevole, tale da permetterle di incorporare, risemantizzandoli in senso cristiano, gli elementi portanti della cultura luo. Compressi in un sistema religioso reso, ormai, inoperante da una cultura occidentale cristiana che aveva fagocitato le coscienze e le aspirazioni delle nuove generazioni di studenti delle missioni, e incapaci, come ovvio, di accogliere in pieno un cattolicesimo quanto mai distante dal loro mondo, i luo trovarono nella Maria Legio una soluzione per uscire da questo stato d’impasse. Gaudencia e Simeon cristianizzarono tutta una serie di elementi religiosi africani e allo stesso tempo li inserirono in un quadro istituzionale di tipo cattolico romano che, nel tempo, avrebbe lasciato sempre più spazio a tinte pentecostali di matrice protestante. Insomma, essi furono capaci di creare un ponte tra il vecchio e il nuovo. In questo furono decisive la loro sinergia e le loro differenti personalità. Mentre uno costruiva la tela e dava un fondo di cattolicesimo (pur sincretico quanto si vuole), l’altra dipingeva a tinte forti, africane, un cristianesimo luo accessibile e fruibile da tutti. I luo come sistema culturale compatto e legato alla tradizione in cui erano nati e di cui erano il prodotto, non avrebbero potuto saltare – come gli veniva chiesto dai missionari – il vuoto religioso che avevano tra sé e la nuova Chiesa, negando totalmente se stessi. L’adesione alla nuova fede fu possibile nel momento in cui venne offerta ad essi una via, cristiano-sincretica certo, ma praticabile qual era quella di Gaudencia: “I missionari stranieri non riescono proprio a capire il cuore degli africani”113, disse.

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Citato in Dirven 1970: Appendice III, 16-19. 113 Citata in Dirven 1970: Appendice III p.16. 280

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La Maria Legio, però, aveva altri aspetti che attrassero ‘l’interesse’ della popolazione luo. Alcuni furono sicuramente spinti dalla possibilità e facilità con le quali potevano essere raggiunte posizioni di leadership all’interno della nuova gerarchia ecclesiastica. Questa opportunità fu sfruttata soprattutto dai giovani, che si ritagliarono un ruolo sociale ‘moderno’ in una nazione che li aveva relegati nelle bidonville. La struttura del movimento, poi, era modellata su quella, assai felice, della Legio Mariae. Venivano organizzate piccole comunità indipendenti, spesso di villaggio, in cui tutti i membri potevano usufruire di compagnia e aiuto reciproco. L’intimità e la solidarietà di ciascuna comunità era rafforzata, inoltre, da grandi raduni occasionali in cui i membri potevano sentirsi integrati in una compagine più ampia e rinsaldare i propri legami. L’appartenenza religiosa, in sostanza, fu vissuta come una nuova forma di aggregazione laddove non esisteva più una rete di rapporti di tipo parentale o sociale; l’abbandono dei missionari, troppo pochi per occuparsi di tutto, trovò una soluzione soddisfacente. Un altro elemento che contribuì alla diffusione del movimento fu, senza dubbio, il vigoroso proselitismo dei suoi evangelisti. Non solo Gaudencia Aoko, ma molti sacerdoti freschi di nomina viaggiarono in lungo ed in largo per il paese fermandosi ovunque trovassero persone disposte ad ascoltarli: nelle strade delle città, lungo i sentieri di campagna, alle fermate dell’autobus, nei mercati. Invitavano il pubblico a fare domande, ad interrogarli su questioni di fede e non solo. Infine, i tabu sull’alcool, sul tabacco, su determinati tipi di cibo, la ripetizione di tutta una serie di azioni rituali e l’uso di simboli esteriori contribuirono a consolidare l’identità e la coesione di gruppo e, di conseguenza, rafforzavano un senso di ‘santità’, tipico anche dei revivalisti, fondato sulla certezza di trovarsi nel giusto114.

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E proprio di ogni religione ‘rivelata’. È Dio che ha consegnato un messaggio al suo profeta e Dio non può certo sbagliare.

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Vittoria del ‘modello cattolico’ e cacciata di Gaudencia Fu la necessità di sempre nuovi edifici, oggetti di culto e paramenti sacri, tali da soddisfare il crescente numero di fedeli – assieme alla convinzione veicolata dai leader politici che l’indipendenza dal giogo coloniale, avvenuta il 12 dicembre 1963, fosse presupposto per l’indipendenza totale anche dalle Chiese missionarie – a spingere molti legionari a tentare di appropriarsi dei beni ecclesiastici con la forza. Gli episodi, sebbene sporadici115, si accompagnarono a più frequenti furti di articoli religiosi (abiti e oggetti liturgici, icone, croci, rosari, libri di preghiere, ostie, santini e quant’altro potesse essere utile) dagli edifici di culto e dai negozi specializzati, sollevando un vero e proprio vespaio all’inizio del 1964. Il fatto che la maggioranza dei membri della Legio non avesse né i soldi, né l’opportunità di comperare ciò di cui necessitava la propria Chiesa non interessò molto le autorità diocesane e il governo. Per evitare ulteriori complicazioni, venne vietata la vendita di articoli religiosi a chiunque non fosse autorizzato dal vescovo, molte missioni misero al sicuro i propri beni e, adducendo motivi di ordine pubblico, si vietarono incontri e riunioni all’aperto (in tal modo, in realtà, si intendeva precludere ogni possibile, ulteriore crescita del movimento, che faceva proseliti proprio grazie a meeting di massa116). I poteri ufficiali capirono, insomma, che era arrivato il momento di reagire all’espansione di quella nuova ‘sètta’. La Chiesa di Roma sentì la necessità di prendere le distanze e chiarire la sua posizione nei confronti di un movimento che affermava esplicitamente la propria identità cattolica. Simeon e Gaudencia vennero scomunicati117 e l’attività della Legio Mariae canonica venne severamente regolamentata: nessun incontro si sarebbe più tenuto senza la presenza del parroco, i membri ‘indegni’ rimossi, l’opinione pubblica informata 115

Furono assaltate la missione di Nandi, Miwani, Ugenya, Kano. 116 Prendendo a modello i grandi raduni del Revival evangelico avvenuti negli anni 1948-1956 (i più importanti dei quali a Maseno). 117 Aa.Vv. @ 2002.

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circa la differenza fra la Legione cattolica di Maria e la setta di Ondeto, alcuni Presidii, considerati più esposti al pericolo di ‘contagio’, chiusi. Il governo e la polizia, da parte loro, dovevano per forza prendere atto di ciò che stava succedendo ed evitare, per quanto possibile, disordini e scontri aperti tra le varie Chiese, indipendenti o meno che fossero. La stampa nazionale fece da eco, quando non fu cassa di risonanza, ad ognuna delle diverse preoccupazioni118. I legionari furono accusati, ad esempio, d’immoralità sessuale, un topos nelle critiche mosse alle nuove formazioni religiose. Il vescovo cattolico Otunga119 sottolineò sulle pagine dei quotidiani: “A Got Kwer, il loro centro, ragazzi e ragazze condividono un unico dormitorio. Le donne sposate abbandonano il tetto coniugale per seguire i seguaci di Ndeto per giorni […] la Legio porta via, da casa e da scuola, le donne e i figli per fargli vivere una vita di dissolutezza”120. La Maria Legio, dal canto suo, rifiutava di registrarsi ufficialmente, continuava a tenere raduni illegali e, cosa molto pericolosa agli occhi dei kikuyu al potere con Kenyatta, riusciva a compattare ‘religiosamente’ gran parte dei luo, seconda etnia del paese. I suoi membri ed i due leader, inoltre, mostravano una generale disattenzione per le questioni di pubblico interesse: i bambini non venivano mandati alle scuole missionarie o governative; le cure mediche e le vaccinazioni venivano evitate – nella convinzione che il potere dello Spirito santo fosse sufficiente a guarire ogni male –; i piani di sviluppo governativi non trovavano alcuna adesione. Si temeva lo scoppio di un nuovo mumboismo e questo bastava per fare della Chiesa un potenziale nemico per gli interessi dello stato121,

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Il primo articolo riguardante la Maria Legio comparve il 24 aprile 1964 sull’East African Standard di Nairobi. 119 Otunga, eletto nel 1960 per la diocesi di Kisii, fu il primo vescovo africano del Kenya. 120 Dirven 1970: 154. 121 J.H.Okwanyo, eletto nel seggio di Migori, il 5 aprile del 1964 durante un intervento parlamentare, definì la Legio “una minaccia per la sicurezza nazionale”: East African Standard, numero del 6 aprile 1964.

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sebbene i vertici ecclesiastici si dichiarassero “fedelmente legati” al KANU (il partito di governo). Dunque, fu stabilito di colpire duramente ogni nuovo atto di ribellione con decise azioni di polizia. Il 16 aprile del 1964 ebbe luogo una processione non autorizzata a Kisii, e ventiquattro membri della ‘sètta’, compresi tre dei leader principali, furono imprigionati. Una settimana più tardi si tenne un altro raduno, questa volta a Kisumu: quando ai fedeli fu detto di separarsi ed essi ignorarono l’ordine, la polizia reagì con violenza, usando i lacrimogeni e facendo altri arresti. In manette finì anche Baba, processato il 13 maggio dalla Corte di Kisumu e imprigionato assieme a trentotto legionari. Nessuno, però, almeno ufficialmente, si preoccupò di considerare che cosa stesse facendo e dove fosse Gaudencia. Questa ‘svista’, dovuta probabilmente all’opinione diffusa che guidasse un movimento autonomo da quello di Simeon (infatti nell’aula giudiziaria si parlò solo di Dini ya Legio, per sottolinearne l’origine dal presidio di Kadem, non di JoAoko), le permise di sfuggire agli arresti di massa a Kisii e prendere, assieme a suo marito Simeon Owiti – nel frattempo nominato cardinale –, la guida del movimento garantendone la sopravvivenza. I legionari cominciarono a sentirsi ingiustamente perseguitati: “Gesù disse che devi portare la tua croce. La nostra croce è questa ingerenza (del governo, ndr)”, ebbe a dichiarare la stessa Gaudencia122. Ma il sogno di sostituirsi alla Chiesa di Roma sul suolo keniano si stava lentamente trasformando in disillusione. Il movimento cominciava ad assumere un assetto definitivo e a smorzare le proprie spinte eversive cercando di rafforzare la propria struttura. I leader cominciarono ad essere consci della necessità di ottenere il favore del governo, almeno per mantenere la propria presenza sul territorio e ritagliarsi uno spazio autonomo, non più ‘sostitutivo’, all’interno del panorama cattolico. Il tempo di Gaudencia si stava esaurendo ed ella cercò di giocarsi un’ultima carta.

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Citata in Dirven 1970: 171.

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L’11 e il 12 luglio del 1964 a Gem Rae, nella zona di Kano, la donna decise di partecipare come unico rappresentante della Maria Legio (Baba era ancora in carcere) a una tavola rotonda con Kivuli, il fondatore dell’African Israel Church Nineveh123. L’incontro aveva lo scopo di porre le basi per la creazione di un organismo autonomo che avrebbe racchiuso in sé tutte le Chiese indipendenti africane allora esistenti in Kenya: i due movimenti, l’uno di origine cattolica (Legio) e l’altro pentecostale (Nineveh), dovevano dimostrare la realizzabilità dell’esperimento. Probabilmente Gaudencia guardava già al mondo protestante, come prima di lei aveva fatto Maria Ragot, per salvaguardare una leadership che cominciava ad essere messa seriamente in discussione da alcuni vescovi legionari e, indirettamente, dallo stesso Simeon124. Come affermò Ochwatta, convocato quale intermediario tra le parti: “Quest’unione delle Chiese africane indipendenti in Kenya è solo il principio. Essa si diffonderà in tutta l’Africa. È l’inizio di un movimento pan-africano”125. L’esperimento durò fino al ritorno al comando di Ondeto, un mese dopo, quando prese parte a un altro incontro allo scopo di far accogliere la Legio nelle East African United Churches, con sede a Nairobi. L’8 agosto 1964 la richiesta fu accettata, annullando la precedente: anche questo esperimento, però, non diede esiti duraturi. Dalla dichiarazione a mezzo stampa rilasciata dalla segreteria generale di questo ‘concilio’ all’annuncio dell’ingresso della Maria Legio nelle 123

Un movimento separatosi da Pentecostal Assemblies canadesi. Attivo nel promuovere un clima ecumenico tra le varie Chiese indipendenti africane, ma anche fra queste e le Chiese storiche, Kivuli aveva la non celata ambizione di diventare il leader spirituale del nuovo Kenya indipendente parallelamente a quanto aveva fatto l’allora “capo secolare”, Kenyatta, in ambito politico (Cfr. Welbourn-Ogot 1966: 73-112). 124 Abbiamo visto prima come egli, fin dall’inizio, avesse posto sotto il controllo sacerdotale i seguaci di Gaudencia. 125 Reporter, numero del 17 luglio 1964. In realtà i tentativi keniani di dar vita a movimenti ecumenici, panafricani, o nazionali fallirono subito a causa di un radicato denominazionismo e di una forte tendenza alla preservazione della propria identità etnico-religiosa.

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fila dell’EAUC, possiamo trarre alcuni elementi utili a comprendere l’immagine che l’opinione pubblica aveva di Gaudencia e compagni: “È scoraggiante sentire che certa gente collega la Legio alla Chiesa Lumpa della Rhodesia del Nord. La Maria Legio è un’associazione cristiana […] crede nella pace e nell’armonia tra gli uomini e le donne, incurante delle differenze religiose […] la violenza, il tribalismo e la delinquenza non vi hanno spazio […] è una delle autentiche Chiese indigene africane”126. La Legio veniva quindi associata alla Chiesa di Lumpa, creata nel 1953 da Mulenga Mubisha (o Lubusha), ribattezzata poi Alice Lenshina127, e considerata allora uno dei più pericolosi ed eversivi movimenti africani. Il parallelismo non doveva sembrare troppo azzardato e in effetti, a ben guardare, c’erano parecchie analogie tra Lumpa e Legio. Innanzitutto le rispettive fondatrici: Lenshina e Gaudencia erano entrambe donne che dichiaravano di aver avuto visioni di Cristo e della Madonna e di averne ricevuto il compito di creare una nuova Chiesa, impartivano il battesimo senza esigere tributi e alcuna particolare preparazione, conducevano una feroce campagna contro la stregoneria tradizionale, vietavano alcool e tabacco e nutrivano una forte devozione mariana. In secondo luogo il carattere dei due movimenti: avevano entrambi ingaggiato uno scontro con la Legio Mariae, da cui pure avevano preso in prestito alcuni libri di preghiera e inni; rifiutavano la registrazione, la partecipazione a progetti governativi ed il pagamento delle tasse; il rapporto della Legio con il KANU riecheggiava quello iniziale della Chiesa Lumpa con il partito UNIP128; la ‘Nuova Gerusalemme’ legionaria sembrava proprio un prototipo di ‘città santa’ come la Sione lumpista129. A conferma di una congruenza non solo formale, ma anche sostanziale – in quanto rispondenti alle medesime esigenze, in primis di partecipazione femminile e 126

East African Standard, numero dell’8 agosto 1964. 127 Cfr. il saggio di Franco Pignotti contenuto nel presente volume. 128 In realtà l’adesione al KANU della Legio era determinata esclusivamente dai vincoli esistenti tra i luo e il loro leader politico Oginga Odinga. V. infra p. 287. 129 Lanternari 1967: 206-211.

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africanizzazione del cristianesimo – alcuni studiosi legano allo stesso filo concettuale Lumpa, Legio e Dini ya Maria di Maria Ragot130. Anche alla luce di pericolosi e troppo simili precedenti (in Kenya – Mumbo – e fuori – Lumpa), il governo strinse le proprie maglie attorno a Simeon e a Gaudencia, ponendoli di fronte ad un bivio: registrare il proprio movimento, dotandolo di un assetto definitivo, o vederlo soppresso con la forza. Ondeto scelse e impose la prima via, segnando il destino della Chiesa. Per giungere al riconoscimento nel più breve tempo possibile, infatti, il leader luo e i suoi consiglieri – i vescovi legionari Karilus Mumbo e Johannes Muga – si legarono ancor più indissolubilmente a Oginga Odinga, ministro degli Interni del governo Kenyatta e il più importante uomo politico di etnia luo. Verso la fine di gennaio del 1965 il movimento fu ufficialmente inserito nei registri governativi, con il nome di Maria Legio of Africa131. Per consentire tale operazione fu necessario mettere nero su bianco, ufficialmente, gli scopi, le norme, parte della dottrina e le cariche ecclesiastiche di cui il movimento si dotava. Venne formulata la prima “Costituzione e norme”, in cui fu dichiarato il carattere cristiano della Legio “secondo la forma romana di culto”, e venne ribadita la centralità di “Cristo come mediatore, dello Spirito santo e dell’intero patrimonio delle Sacre Scritture”132. Il movimento sottolineò di voler essere riconosciuto come una Chiesa cattolica africana in posi130

Cfr. Dirven 1970: 176; Hastings 1971: 178. È molto interessante notare come anche alcuni legionari sposino tale punto di vista (Schwartz 1989: 37). Anche Barrett sottolinea come molti movimenti indipendenti, con spiccati tratti in comune, siano stati fondati da donne, “partendo da Fumaria e Beatrice intorno al 1700 fino a […] Madre Jane di Freetown e la sua Martha Davies Confidential Association, l’Eglise Déimatiste (1922) di Lalou, la Cherubim and Seraphim Society (1925) di Christiana Abiodun, la St. Jhons Apostolic Faith Mission fondata dalla profetessa Ma Nku, la City of God vicino Umtali (1952) fondata da Mai Chaza, la Lumpa Church di Alice Lenshina (1954), e la serie di secessioni cattoliche keniane cominciate con Maria Ragot nel 1952 e Gaudencia Aoko nel 1963” (Barrett 1968: 148). 131 Dirven, 1970: 174. La registrazione è datata 26 gennaio, 1965, protocollo n. 3626. 132 Dirven, 1970: 175. 287

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zione complementare, non oppositiva, alla Chiesa cattolica romana, operante in altre zone e valida limitatamente ad esse. Quanto a Gaudencia, la sua ascendenza nel movimento appare ancora forte, inserita com’è in posizione del tutto centrale anche nell’organigramma ecclesiastico: “Ci dovranno essere nove cariche ecclesiastiche nella Maria Legio e due leader straordinari Baba Simeo Ondeto e Rev. Mama Gaudencia Aoko”133. Ciò nondimeno, essere una Chiesa riconosciuta legalmente dallo stato comportò, oltre al diritto di essere difesi ufficialmente, anche l’obbligo di attenersi a tutta una serie di disposizioni. Dopo un 1965 trascorso senza problemi, la mancata comprensione di questo punto condusse la Chiesa ad una profonda crisi che segnò anche le sorti di Gaudencia. Ad inizio 1966, l’amministrazione della Maria Legio si rifiutò di pagare le tasse governative sugli edifici nel frattempo costruiti sul Got Kwer, ora ribattezzato Monte Calvario (alcune case, uffici e la Basilica di Santa Maria) e perdippiù vietò l’ingresso, all’interno del complesso edilizio, del personale medico giunto a seguito dello scoppio di un’epidemia di vaiolo. Le preghiere, fu risposto agli ispettori governativi inviati per controllare la situazione, avrebbero restituito la salute a tutti gli ammalati più delle vaccinazioni e delle cure mediche loro imposte. Alla fine, ogni edificio della montagna sacra infettato – Basilica compresa – fu incendiato dalla forza pubblica, e i legionari furono costretti alla vaccinazione. Nessuno poté fare nulla: anche l’appoggio di Oginga Odinga stava venendo meno per problemi interni al KANU134. In attesa di riedificare la Basilica, la sede del movimento fu spostata nella Chiesa del cardinale Mumbo a Ugenya135. Il Kenya si stava trasforman133

Il testo fu steso in data 26 agosto 1964 (Schwartz 1989: 535). 134 Il politico luo – allora vicepresidente del Kenya – era in rotta di collisione con Kenyatta. Durante la conferenza di Limuru, Odinga passò all’opposizione, raggruppatasi nella nuova Kenya People’s Union (KPU), di ispirazione socialista, e venne seguito da larga parte dei luo, legionari compresi (Cfr. Ogot – Ochieng 1996: 99-102 e 192194; Sabar 2002: 79). 135 Il quale, a scanso di complicazioni, si affrettò ad affermare che “i suoi seguaci

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do sempre più in una ‘dittatura democratica’ e i legionari cominciarono a pagare la propria appartenenza etnica, politica e religiosa. Il 1967 e il 1968 trascorsero tra i continui appelli del governo alla legalità e i suoi tentativi di diffamazione a mezzo stampa136. Le tensioni politiche keniane esplosero, ben presto, anche all’interno della Legio. Infatti, dopo l’uscita dal governo di Oginga, alcuni legionari si erano rifiutati di seguirlo nel suo nuovo partito e, durante un incontro domenicale tenutosi a Kisumu l’11 novembre ‘68, Simeon decise di espellerli accusandoli di “aver introdotto la politica nelle questioni della Chiesa”137. La notizia, di per sé, potrebbe essere per noi di secondario interesse, se non fosse che nella lista degli ‘epurati’ finì anche Gaudencia. Nella dichiarazione firmata, rilasciata prima di essere costretta ad abbandonare la Chiesa, la fondatrice e leader spirituale della Maria Legio (come era indicata nella Costituzione) chiese ai legionari di continuare a predicare la pace in Kenya e di sostenere il governo “che molti di noi scelsero nel 1963, quando eleggemmo il keniota Mzee Jomo come leader nazionale”138. Terminava così la storia di Gaudencia all’interno del movimento che proprio a lei la Madonna aveva chiesto di fondare. Non possiamo essere del tutto certi, però, che siano state solo le differenti scelte politiche139 a spingere Simeon all’espulsione dell’Aoko. appoggiavano in tutto e per tutto il governo, il presidente keniota e il KANU” (Daily Nation, numero del 1° ottobre 1966). 136 La Maria Legio fu accusata di osteggiare lo sviluppo economico dello stato. Il segretario del KANU del Nyanza meridionale, Philemon Wire, in un discorso tenuto a Homa Bay, dopo aver ‘avvertito’ i leader della Legio di tenersi fuori dalla politica, raccomandò ai presenti di non unirsi ad una ‘sètta’ che, col pretesto della preghiera e della pietà, promuoveva soltanto pigrizia e povertà e induceva i propri seguaci ad abbandonare figli, malati, fattorie, condannando la regione al sottosviluppo (Daily Nation, numero del 14 ottobre 1967). 137 Dirven, 1970: 193. 138 Daily Nation, numero dell’12 novembre 1968. 139 Peraltro chiarissime anche prima di quel momento e mai messe in discussione, al punto che la Legio continuerà a fare propaganda ai vari partiti di Oginga Odinga

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Sembra piuttosto che, una volta conclusisi i processi di espansione, organizzazione e consolidamento della Chiesa, non si sentisse più la necessità di riconoscerle un ruolo centrale come quello dei primi anni. Anzi, man mano che la Chiesa si istituzionalizzava in termini ‘cattolici’, la centralità di quella singolare ajuoga rappresentava sempre più un problema da risolvere. Gaudencia continuava ad opporsi all’intera gerarchia di cardinali, arcivescovi, vescovi e preti della Legio, rivendicando un ruolo centrale all’esperienza religiosa delle proprie seguaci, via via relegate al ruolo ancillare di sorelle140. Lei stessa, d’altro canto, era stata coinvolta nel processo di accentramento maschile del potere tipico della Chiesa di Roma, venendo progressivamente respinta ai margini della gerarchia: da Mama, posta al vertice della gerarchia legionaria assieme a Simeon nella prima Costituzione141, era stata infatti declassata a Madre Superiore in quella del 1967. Il titolo attribuitole ci aiuta a comprendere quanto la concezione cattolica del ruolo della donna si fosse ormai imposta come unico modello di riferimento. Gaudencia era una donna cattolica integrata nelle istituzioni ecclesiali della sua confessione e quindi era ormai ovvio che la si identificasse come suora. Certo, le veniva concesso di essere la più importante di esse, ma si trattava pur sempre di una posizione ancillare rispetto alla gerarchia maschile, ora dominante. Il suo posto al fianco di Simeon venne preso da Timotheo Atila, ‘figlio spirituale’142 del Messia, designato come suo successore ufficiale alla guida del movimento. La figura di Gaudencia Aoko, visionaria, guaritrice, evangelizzatrice di folle, fustigatrice dei costumi pagani, leader indiscussa per migliaia di fedeli,

(la cui foto vestito con gli indumenti da prete legionario, assieme ai capi della Chiesa, comparirà sulle prime pagine del Daily Nation di Nairobi). 140 “Sembrano esserci buone ragioni per affermare che l’Aoko cercò di uscire dalla Legio perché avversa all’istituzionalizzazione di una gerarchia modellata su quella cattolica romana”, sottolinea ad esempio Nancy Schwartz nel suo studio sulla Maria Legio (Schwartz 1989: 78). 141 Schwartz 1989: 535. 142 Schwartz 1994: 140.

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si era spenta nel congelamento ‘romanocentrico’ della Chiesa di Simeon, novello papa circondato da fedeli uomini di potere, e nel sogno di una nuova Chiesa di Stato appoggiato da Odinga. Gli entusiasmi carismatici erano stati inglobati, regolamentati e organizzati secondo modelli noti. Il richiamo di Gaudencia ad una Chiesa più africana era ormai inutile143. La Chiesa cattolica africana c’era già: era la Maria Legio. Anche il nome sarebbe rimasto per poco in questa sua forma. Ci sembra quindi che Gaudencia, al momento della sua ‘cacciata’, volesse soltanto rimarcare la sua fedeltà al governo in un momento in cui Kenyatta aveva deciso di porre un freno al fenomeno dell’indipendenza religiosa che, proprio perché dilagante, era divenuto incontrollabile144. Pensò insomma di giocarsi la carta del lealismo, nella speranza – rivelatasi presto vana – di riuscire a far riconoscere la Chiesa che intanto progettava di organizzare attorno a sé, la Maria Legio Orthodox Catholic Church145. Nel frattempo “dichiarò di essere la vera fondatrice della Maria Legio e avviò procedimenti legali contro Ondeto, Muga, e Atila”146, senza successo. Un anno dopo tentò, di nuovo, di registrare un proprio movimento, stavolta col nome di Holy Church of Africa147, ma non ci fu niente da fare. Bisognerà attendere il 1971 per vedere finalmente accettata la richiesta di riconoscimento governativo di Gaudencia per una propria Chiesa, la Communion Church of Africa. Barrett, nel suo studio sulle Chiese indipendenti in Kenya, ne parla in questi termini: 143

Ironia della sorte, si chiudeva un cerchio partito dall’esigenza di trovare un modo tradizionale per abbracciare il cattolicesimo e chiusosi con una cattolicizzazione totale di ciò che esso aveva prodotto. 144 Il governo decise che, dall’agosto del 1968, sarebbe cominciato un piano di “pulizia” religiosa. Le registrazioni sarebbero state molto più selettive ed anche i movimenti registrati sarebbero stati revisionati. Si discusse sulla possibilità di cancellare dal registro anche la Maria Legio. 145 Schwartz 1989: 54. 146 Barrett 1973: 186 e 243. 147 Schwartz 1989: 54. I bandi governativi sui movimenti religiosi indipendentisti, spesso potenti catalizzatori di malcontento sociale, erano frequenti in tutta l’Africa.

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la Chiesa “all’inizio mostrò tendenze cattoliche” anche nelle gerarchie, “ma successivamente le sostituì con cariche secolari (presidente, vicepresidente, ecc.) […] conta 400 membri adulti e più di 1200 in totale. L’attuale (1971, ndr) vicepresidente è Christopher Otonglo”148. La sede della Chiesa era, ed è, ad Awasi. La Chiesa di papa Simeon, dal canto suo, non sarebbe implosa, ma non avrebbe neanche conosciuto un’altra fase espansiva149. Potremmo dire che si accontentò di occupare un posto di secondo piano nella storia del Kenya per tutto l’arco dei governi di Kenyatta e Moi. La dichiarazione di fedeltà politica e religiosa che si scambiarono Ondeto e Odinga sarebbe stata avventata per qualsiasi Chiesa dalle pretese universalistiche ma servì, nel conteso luo, a compattare l’ambiente ed a cristallizzarlo nel momento storico in cui l’offensiva kikuyu era più forte. Soltanto in occasione del tentato assassinio del presidente Kenyatta in visita in Nyanza nel 1969 e dei due falliti colpi di stato nel 1971 e nel 1982 la Legio sarebbe stata tirata in ballo per i suoi possibili legami con i cospiratori (cosa scontata dal momento che dietro entrambi gli episodi c’erano i luo ed i partiti d’opposizione dello stesso Odinga). Intanto, all’inizio di settembre del 1991, la Chiesa perse il suo Messia. Fu seppellito in un mausoleo eretto sul Got Kwer-Kalafari, il monte Calvario della Legio, e sulla lapide venne inciso il seguente epitaffio: “Il Divino Leader e Fondatore della Legio Maria of Africa Mission, Messiah Simeon Melkio Santamariam Hosea Lordficus Immanuel Taya”150. Di Gaudencia, figura 148

Barrett 1973: 140 e 186. In realtà, per ottenere la registrazione, nell’atto del 26 febbraio 1971 Otonglo venne dichiarato presidente del movimento; soltanto a dicembre dello stesso anno Gaudencia riuscirà a far modificare lo statuto e a figurarvi lei quale presidente (Schwartz 1989: 519-520). Nel censimento governativo del 1989 la Communion Church risulterà avere 812 membri adulti. 149 Interessante, dal nostro punto di vista, l’ipotesi di H.W. Turner, secondo cui la presa sui luo della Legio era in declino (egli scrive nel 1974) a causa delle tensioni interne al movimento riguardanti “the stature of the highly charismatic Gaudencia” (Turner 1974: 617). 150 Kigame @ 1998.

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centrale e co-fondatrice del movimento, si era ormai persa ogni traccia ufficiale. Nella memoria dei legionari era stata sostituita da Bikira Maria, la Vergine Maria; la Costituzione in vigore, datata 1975, non la citava neppure; quella del 1964 era stata giudicata un falso.

Fondatrice storica e fondatrici ‘riconosciute’ A questo punto, però, dobbiamo ammettere che difficilmente un legionario riconoscerebbe la validità della nostra trattazione. Di fatto, il misconoscimento della centralità della giovane Aoko al momento della nascita della Maria Legio è tale da rendere ‘falsa’, agli occhi dei fedeli, qualsiasi ricostruzione dei fatti compiuta tenendo conto solo della documentazione storica ed etnologica. La realtà emergente dalle fonti, siano esse primarie o secondarie, diverge spesso da quella accettata e condivisa da chi, involontariamente o meno, si trova ad essere oggetto di studio, e ciò non stupisce. Eppure, se fino a poco meno di cent’anni fa questa ‘opposizione’ era figlia di uno scontro culturale in atto tra occidente e culture tradizionali, oggi la definitiva occidentalizzazione di buona parte del mondo ha avvicinato a tal punto le categorizzazioni del reale che la battaglia, per gli etnologi e gli storici delle religioni interessati a fenomeni contemporanei, si gioca interamente sullo stesso piano interpretativo. In parole povere, quelli che antropologicamente erano definiti ‘gli altri’ hanno ben interiorizzato le nostre categorie e le usano per offrirci una versione più comprensibile della catena degli eventi da essi ritenuti ‘importanti’ (o ‘fondanti’), una rilettura in chiave storica del complesso background socio-culturale in cui affondano le loro radici. Proprio questa volontà di conferire verità in senso occidentale alle proprie credenze religiose, ancorandole alla storia in virtù di dati storiografici oggettivi, ha spinto i legionari verso una totale ricostruzione del loro passato151. Tale processo ha permesso di dare coerenza logica 151

Questa ricostruzione, avvenuta grazie ad una lunga sequenza di ‘rivelazioni’

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e funzionalità alla loro ‘storia sacra’, da un lato riassorbendo elementi culturali indigeni in un contesto universale-cristiano e assumendo contemporaneamente elementi occidentali in un contesto tradizionale152, e dall’altro garantendo alla Legio la possibilità di ‘appropriarsi’ di figure ed eventi ritenuti politicamente o religiosamente centrali – che nulla avevano a che fare con essa153 – scartando al contempo personaggi e fatti ‘scomodi’ del proprio passato. Vittima eccellente di siffatta epurazione della memoria fu proprio Gaudencia. Vediamo allora che cosa pensano di questa, ormai presunta, figura del loro passato i fedeli di oggi. Per molti di essi, ella è semplicemente una seguace della Chiesa che, dopo aver ricevuto ‘il potere’ da Baba e dalla Santa Madre Maria154, ha contribuito alla diffusione della Legio nel Nyanza centrale. Su questa linea di pensiero, l’uscita di scena di Gaudencia viene vista come un evento determinato dalla perdita dei suddetti poteri. Altri, con intenti più diffamatori, sostengono che Aoko sia stata cacciata a causa della sua richiesta di compensi in denaro per i battesimi, o per aver fabbricato birra e averla bevuta, o ancora per aver praticato la ‘medicina tradizionale’: tutte cose tacciate di anatema dai legionari e dalla stessa ex-leader luo. Per quanto concerne, invece, la sua attuale posizione nel panorama religioso luo, si tende a sottolineare come Gaudencia sia stata circuita da un non meglio definito “big man”155, che l’avrebbe spinta a creare una Chiesa indipendente per far soldi, ma sia dello Spirito santo, è un processo perennemente in fieri che consente ai legionari di aggiungere sempre fatti nuovi. 152 V. infra (p. 298) il rapporto tra Maria e Alas. 153 È il caso, solo per fare un esempio, di Dedan Kimathi, ritenuto una delle ‘manifestazioni’ terrene di Baba Simeon Ondeto. Kimathi fu uno dei principali leader della rivolta mau mau, iniziata nel 1952 dai kikuyu contro il governo coloniale britannico, capo del Land and Freedom Army. 154 Vediamo come qui sia ormai pienamente operante la sostituzione del Cristo e della Madonna ‘missionari’ (che apparvero a Gaudencia) con Ondeto e Mama Maria (venerati dai legionari). 155 Anche se certuni legionari fanno intendere che si tratti di suo marito Simeon Owiti.

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poi finita in miseria. Alcuni fedeli sostengono, al contrario, che l’Aoko sia tornata nella Legio e viva nei pressi del Got Kalafari, o abbia deciso di tornare per ‘confessarsi’ ma non lo abbia ancora fatto. Solo pochissimi legionari, per ovvie ragioni, parlano di Awasi, il villaggio della sua famiglia in cui la Communion Church ha il quartier generale, ed un numero ancor minore di essi le attribuisce il ruolo che, nei fatti, ebbe156: per tutti la Chiesa fu fondata dall’azione congiunta della Bikira Maria e di sua santità Baba Messiah Ondeto. Sappiamo già molto di Ondeto uomo, come pure ‘conosciamo’ la Madonna cristiana, ma qui occorre vedere chi essi siano, chi rappresentino, per i seguaci della Legio. Andiamo con ordine. I legionari sostengono che “Baba è Cristo tornato dal Paradiso sulla Terra. Egli venne con la Vergine Maria” perché “tutte le genti della Terra erano sulla strada dell’Inferno”157. Essi raccontano che Maria e Cristo/Ondeto, preoccupati per le sorti dei loro figli africani, decisero di discendere nel mondo degli uomini. Fu la Vergine a convincere suo figlio della necessità di salvare i luo dal peccato. I due si incamminarono sull’arcobaleno ma, siccome era viscido, scivolarono e caddero in Nyanza. La Bikira precipitò nel Lago Vittoria, fu raccolta da un povero pescatore, con cui visse per un po’ e, dopo varie peregrinazioni158, riapparve tra i luo per annunciare la venuta del Messia159. A detta dei fedeli di Baba, il ritorno della Vergine in Nyanza fu necessario perché i bianchi si rifiutarono di svelare il ‘Terzo segreto di Fatima’, contenente proprio la profezia dell’indipendenza dell’Africa

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Non sono molti ad affermare, come fa Laurende Rateng (acculturato dipendente di una multinazionale di Nairobi), che “La Maria Legio ebbe inizio nel 1962 con la cacciata dei diavoli. Una donna, allora, era in posizione predominante. Gaudencia Aoko” (Schwartz 1989: 44). 157 Schwartz 1994: 145. 158 Alcuni fedeli raccontano che ella si recò in Europa, “at the Island of Fatima” (Schwartz 1989: 442). 159 Ella, infatti, “chiamò a raccolta la gente, dicendo di andare sul monte Calvario” (Schwartz 1989: 451).

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dal giogo coloniale e della fondazione della Legio grazie all’arrivo di Ondeto. Egli, al contrario, scese sulla terra assumendo l’aspetto di un ragazzo luo e fu trovato da un uomo della tribù watombori160, Ombimbo Misumbaor, o, secondo alcune versioni del racconto, dalla sua anziana moglie Margaret Aduwo; visse con loro ad Angoro, un villaggio della parte meridionale della provincia e, ancora bambino, operò tutta una serie di miracoli161 lasciando casa, a dodici anni162, per andare a lavorare come migrante. Il Messia crebbe e, dopo aver partecipato alla rivolta mau-mau163, nel momento in cui stava per nascere la nuova Repubblica del Kenya, si manifestò al mondo sul monte Calvario, dando poi vita alla sua nuova chiesa. Per quanto ci interessa, non occorre andare oltre nella narrazione di questa ‘storia’ legionaria (peraltro lunghissima e ricca di episodi)164. Quanto detto sopra circa l’interazione tra orizzonte ‘mitico’ e orizzonte ‘storico’ apparirà, adesso, più chiaramente (se non altro perché esemplificato), ma dobbiamo anche prendere coscienza di un’interessante discordanza tra le due figure più importanti della Legio. In effetti, mentre nel momento in cui parlano di Simeon i legionari si riferiscono sempre al suo agire ‘storico’, ogniqualvolta nei loro resoconti compare la Vergine Maria, essi tendono inevitabilmente a collocarla in un passato che si connota come 160

I watombori sono un gruppo bantu che ha intessuto intense relazioni con i luo. 161 Riuscì, ad esempio, a resuscitare alcuni animali morti (Kigame @ 1998) o a far ‘scendere’ cibo dal cielo. 162 L’età della maturità per i luo. 163 Il supporto luo alla guerriglia contro il dominio coloniale fu piuttosto scarso e li fece dipingere, per un certo periodo, come lealisti. A indipendenza acquisita, quando ci fu l’eroizzazione dei guerriglieri (soprattutto bantu, kikuyu in testa) i luo si affrettarono a trovare anch’essi i propri valorosi combattenti contro il nemico britannico. Ondeto, in veste di Messia (storicamente, infatti, non partecipò ad alcuna rivolta) fu – col nome di Dedan Kimathi (V. nota 153) o di Sergente Maggiore Onyango – uno di questi. Alcuni legionari dichiarano invece che egli, pur non partecipando fisicamente, donò forza ai guerriglieri grazie al suo Muya, il suo soffio divino (Schwartz 1994: 149). 164 Riportati con dovizia di particolari in Schwartz 1989 e Schwartz 1994.

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‘mitico’. Fa eccezione soltanto il resoconto della discesa nel mondo di Ondeto e Maria, antenati cristiani dei legionari, che è l’unica narrazione di questo genere165 in cui compaiono entrambi. Per il resto, la rilettura cristiana del patrimonio orale luo coinvolge unicamente la Bikira Maria. Solo per fare un esempio: abbiamo visto che ella cadde nel Lago Vittoria e di lì venne ‘ripescata’: “Quel giorno stava piovendo […] Bikira cadde nel Lago e un pescatore chiamato Nyamgondho […] la catturò con una rete da pesca […] era una donna anziana. N. la portò a casa sua […] era povero, ma quando la Vergine raggiunse il luogo in cui egli viveva gli disse di costruire un recinto per le mucche. N. allora le chiese: «Perché dovrei farlo? Io non ho mucche» […] dopo un giorno molte mucche, pecore e galline comparvero a casa del pescatore […] e divenne molto ricco. Egli, però, cominciò ad offendere Maria […] che se ne andò e N. tornò povero”166. Questo resoconto di come la Vergine ‘giunse’ sulla terra ferma assomiglia, con tutta evidenza, al mito luo chiamato “Nyamgondho figlio di Ombare”167. L’unica differenza è che lì, al posto della Bikira, 165

È interessante porre in risalto come all’interno del racconto dell’arrivo dei fondatori sulla Terra non sarebbe priva di significato – come nulla nel mito – nemmeno la presenza dell’arcobaleno, elemento associato nella religione tradizionale a Pitone, in quanto sua manifestazione ‘celeste’ legata all’accoglimento delle richieste di pioggia fatte agli antenati. 166 Schwartz 1989: 450-451. Anche la Communion Church, a conferma della funzionalità della rilettura cristiana di Alas, ha la propria Vergine ‘ripescata’ dal lago, situato però in Tanzania (dove Gaudencia, ricordiamo, ebbe le sue esperienze visionarie). 167 “A Gwasi, nella terra luo, viveva un povero scapolo chiamato Nyamgondho, figlio di Ombare. Era un pescatore […] Un pomeriggio, scese al lago e trovò tutte le sue reti da pesca vuote […] Allora pregò […] Quando andò ad ispezionare la rete il giorno dopo fu disgustato nel trovare non pesce, ma una vecchia strega avvizzita. La vista di lei lo disgustò e si girò per scappare. Ma la donna lo fermò dicendo con voce calma: «Per favore non lasciarmi. Sono umana come te». Queste parole gentili commossero N. e lo meravigliarono. Decise di liberare la strega e portarla a casa … svegliandosi, stupito, trovò mucche, pecore, capre, anatre e pollame […] N. divenne ricco”. Un giorno, però, N. venne invitato ad una festa dagli anziani del clan, per assaggiare la prima birra dell’anno e si ubriacò. “Tornato a casa, trovò la porta chiusa a chiave. Chiamò molto,

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compare Alas, una delle entità extraumane più importanti proprio per i luo. Alas (la donna del lago), chiamata anche Min Reach (‘madre dei pesci’), era infatti la ‘creatrice’ e signora di tutti gli animali acquatici (nonché la detentrice della conoscenza delle tecniche di guarigione)168 e viveva nel lago Nyanza: un’entità femminile dispensatrice di ricchezze, di fertilità e di doni che probabilmente fu ritenuta la più adatta per innestare sincreticamente la Vergine cattolica. L’assoluta permutabilità delle due ‘Marie’ è tale da aver reso possibile il riassorbimento di tutte le narrazioni che riguardavano la prima169 nella storia cristiana di cui è protagonista la seconda (censurando, ove necessario, gli aspetti più problematici della figura di Alas, come la sua orribile bruttezza piuttosto che il suo carattere vendicativo). Specularmente, dovendo tornare al presente storico, i legionari non hanno problemi nel dire che tra la Bikira caduta in fondo

ma nessuno gli aprì finché, arrabbiato, disse: «Da quando le schiave si rifiutano di aprire al loro padrone? Anche una strega che ho pescato dal lago non vuole sentirmi!» [...] Alas sentì i suoi insulti chiaramente e andò alla porta di cattivo umore: «Rimprovera le tue mogli più giovani, non me. Io sono tua madre. Io sono gli occhi con cui vedi». Queste furono parole sconvolgenti per N. «Cosa? Tu mia madre! Una disgustosa mendicante che ho pescato dal lago! Una schiava!». Le parole trafissero il cuore della vecchia donna come una spina. «N. vedo che sei arrogante ed ingrato [...] oggi ti lascio. Sarai di nuovo povero, rotolerai per il mondo come una pietra » […] All’alba la vecchia donna si alzò. Si preparò a tornare nelle profondità del lago dove una volta abitava nella ricchezza e nella gloria. Quando partì, gli animali domestici se ne andarono con lei […]” (Onyango-Ogutu – Roscoe 1974: 139-143). 168 Lo abbiamo visto in riferimento ad Obondo (V. supra, nota 48). 169 Come quello chiamato “La perlina della migrazione”, ritenuto di centrale importanza nella cultura luo poiché fonda l’esistenza delle varie tribù nilotiche e la loro necessità di separarsi, migrando dal Sudan meridionale, dove si trovavano, in Kenya o quello di “Simbi Nyaima”. (Cfr. Onyango-Ogutu – Roscoe 1974). Proprio il primo di questi miti può essere utile per dare conferma all’ipotesi testé avanzata. Durante un’intervista ad un legionario N. Schwartz, dopo aver ascoltato la narrazione del mito de “La perlina”, chiese delucidazioni su chi fosse la vecchia donna che ne era protagonista. La risposta fu: “Fu un miracolo. Era Mama Maria. Ella volle separare i propri figli così che non si uccidessero più a vicenda” (Schwartz 1989: 446).

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al lago Vittoria e la Vergine canonica, manifestatasi a Fatima, Lourdes o innanzi a Maria Ragot, non vi sia differenza. Ondeto, al contrario, vive interamente in una dimensione ‘storica’170. Le sua azioni hanno a che fare con persone e fatti documentati e documentabili ed anche quando i fedeli si sbilanciano in ardite identificazioni del loro Messia con Melchizedek, Maometto o Buddha, questi sono considerati sempre in rapporto al loro essere stati fondatori storici di altri importanti movimenti religiosi. Appare dunque chiaro che la differenza principale tra i due fondatori della Chiesa risiede nella loro disuguale collocazione. La Vergine Maria è posta ad una profondità diversa rispetto a Ondeto, in una dimensione che, in base alle nostre categorizzazioni, diremmo senza dubbio ‘mitica’. Ciò nonostante, in rapporto a particolari eventi, come la stesura della Costituzione del 1975, alcuni legionari tentano di identificare Mama Maria con una persona in carne ed ossa, nelle fattispecie con l‘anziana madre di Ondeto (peraltro già morta all’epoca)171. In un articolo del Daily Nation di Nairobi del 1 agosto del 1971, è lo stesso leader luo a sposare tale associazione di persone mostrando una foto di sua madre Margaret al giornalista che chiedeva se avesse un’immagine della Santa Madre che con lui aveva fondato la Legio. Evidentemente Ondeto, costretto a dare un’identità alla persona che compare nella costituzione della sua Chiesa 170

Tanto umana che l’unica controversia ‘teologica’ intorno alla sua persona fu quella riguardante la possibilità di una sua generazione divina, indotta probabilmente dall’obbligo di adeguarsi al modello imposto dall’altro Cristo, quello dei bianchi. Il problema fu talmente sentito da portare, al momento della morte di Ondeto nel 1991, ad uno scisma e alla proclamazione di un antipapa, Wilson Owino Ombimbo, interessato in realtà, come fratello di Simeon, ad ereditare il suo ruolo di leader della Chiesa (Daily Nation, numero del 20 settembre 1991). 171 Schwartz 1994: 167. “Mama Maria Margaret divenne una fedele e rispettata seguace della Legio dopo che suo figlio la fondò. Morì nel 1966 e fu seppellita a Effessos”. Effesos, come è stato ribattezzato (logicamente!) Nzoia, è il villaggio nel distretto di Siaya in cui fu seppellita la madre di Ondeto, ed è luogo di pellegrinaggio per i fedeli (Harries 2002).

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– quindi a dare ‘carne e sangue’ alla sua Bikira – non può che indicare lei (in quanto madre del Messia). “Ella nominò suo figlio, Baba Ondeto, a capo della Chiesa”. Scrive il giornalista. “La Santa Madre Maria morì a novant’anni nel 1966172 e fu seppellita ad alcuni metri dal fiume Nzoia a Effessos […] Riguardo a Gaudencia Aoko, una donna di circa trent’anni di Kano, ritenuta da molti la fondatrice e leader della setta, Baba disse: «Lei era la figlia che benedii perché andasse a portare la luce col battesimo e l’esorcismo dagli spiriti malvagi. Se ha detto qualcosa a proposito del suo coinvolgimento come leader della Chiesa è nel torto»”173. Simeon, quindi, intervistato poco tempo prima di morire, torna sul suo rapporto con Gaudencia ufficializzando la posizione, poi diffusasi ampiamente174, che la donna fosse stata soltanto una semplice fedele cui egli aveva ‘dato potere’, escludendo in tal modo ogni debito nei suoi confronti. Sembra quasi che nella Maria Legio esistano due ‘Madonne’, diverse l’una dall’altra non in base alla loro identità – la Vergine cattolica non può che essere una sola – ma al campo di azione temporale in cui agiscono. Mentre la Bikira-Alas agisce entro un orizzonte cronologico conchiuso e le sue azioni sono limitate ad esso (anche in riferimento alla storia occidentale, in cui torna nella sua forma ‘canonica’ – Lourdes ad esempio), Mama agisce in rapporto al mondo luo175. A questo punto rientra in gioco Gaudencia, con cui entrambe hanno un rapporto diretto. L’agire della prima, infatti, garantisce ai legionari la possibilità di annullare ogni debito nei confronti dell’Aoko per quanto concerne l’atto di fondazione – non c’è più bisogno né del tramite della sua esperienza visionaria, né del messaggio che ella ha ricevuto – allo stesso modo in cui quello di Mama permette la cancellazione della sua ‘vita’ legionaria, cioè dei frutti del suo agire storico all’interno della Chiesa (ad esempio le Costituzioni 172

A tale notizia si riferisce anche Barrett, in Barrett 1973: 246. 173 Daily Nation, numero del 1 agosto 1971. 174 V. supra, p. 291. 175 L’epiteto di Mama usato in riferimento a Gaudencia stessa nel testo della prima Costituzione passa quindi a connotare la madre di Ondeto o una generica ‘vecchia signora’.

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di cui fu cofirmataria o il sacerdozio femminile di cui diremo a breve). Al fianco della Bikira/Maria/Mama ci doveva essere spazio solo per Simeon, attore unico del ‘dramma legionario’. La fondatrice storica aveva lasciato ormai spazio a nuove fondatrici, ufficialmente ‘riconosciute’.

La scomparsa del sacerdozio femminile legionario Abbiamo analizzato gli avvenimenti storici e le motivazioni che spinsero Gaudencia ad uscire dalla Legio ed illustrato il processo di riscrittura del proprio passato operato dai legionari per rimuovere la sua figura dalla storia ‘ufficiale’ del movimento. Ella venne privata del suo ruolo fondamentale di ‘tramite’ tra la Vergine Maria e la Maria Legio, del suo agire storico, e venne sostituita da nuove figure. Nello stesso momento, si assistette al progressivo eclissarsi di ogni possibilità di sacerdozio femminile e all’emarginazione delle legionarie, sempre più lontane dal ruolo di protagoniste cui le aveva condotte la visionaria di Awasi. Le cose sembrarono andare di pari passo al punto che, dovendo indicare le peculiarità della sua Communion Church of Africa rispetto alla Legio, l’Aoko – intervistata nel 1989 da Nancy Schwartz – pose in evidenza soprattutto tre aspetti, tutti legati al recupero di una leadership femminile perduta. Il primo era l’uguaglianza tra i membri della Chiesa – laici o sacerdoti, uomini o donne non faceva differenza – tutti, senza distinzioni, “possono indossare il berretto bianco che nella Legio hanno soltanto i cardinali”176; il secondo, la maggiore presenza femminile nei quadri gerarchici e, come terzo punto, Gaudencia ribadì la possibilità per le donne di dire messa, a patto che fossero adeguatamente alfabetizzate e ad esclusione del periodo mestruale. 176

Citata in Schwartz 1989: 78. Comunque, la sua Communion Church ha degli offici gerarchici che seguono il modello romano cattolico usato dalla Legio, un simbolismo esterno simile al suo, alcune canzoni comuni, la messa in latino, ma elimina la figura papale sostituendola con un presidente.

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Ognuna di queste peculiarità trova fondamento nella concezione, più volte emersa, di un sacerdozio non solamente maschile ma, in linea con la tradizione luo dell’ajuoga, accessibile a quanti – uomini e donne – fossero ‘chiamati’ a svolgere tale compito. Gaudencia aveva sostenuto tale punto di vista sin dall’inizio della sua avventura religiosa dichiarando, a chiare lettere, di essersi recata da Simeon per essere “ordinata prete”: “Quando partii non ero impazzita […] la Vergine mi disse: «Va’ e battezza quelle persone». Gesù mi disse: «Sei un apostolo, va’ e liberali dagli spiriti». Ed io andai […] da Baba e […] mi ordinarono prete”177. Del resto, il ministro del culto cattolico e l’ajuoga non erano intermediari tra il sovrannaturale (Dio/spiriti) e l’uomo in maniera simile? Nel momento in cui la visione cattolico-romana della struttura gerarchica della Chiesa fu interiorizzata e riproposta in maniera assoluta anche nella Legio, questa domanda però divenne ‘scomoda’. Non c’era più bisogno né di jojuogi cattolici, né dell’Aoko, che venne cacciata. Ciò nondimeno la donna cercò di mantenere in vita nel proprio nuovo movimento il modello ecclesiale da lei ambito, aprendo al mondo protestante – per quel processo che Barrett chiama “convergenza verso il Protestantesimo”178 – pur mantenendo a livello esteriore e devozionale alcuni legami col cattolicesimo (culto della Vergine, uso dei rosari, nomi di alcune cariche, vestiario, libri di preghiera). Prima di lei lo aveva fatto Maria Ragot. Proprio il parallelo tra le due figure femminili più importanti del panorama religioso cattolico luo ci offre ancora lo spunto per un’ultima riflessione. Abbiamo visto che, nel momento in cui Maria decise di aderire alla Roho Church, le sue fedeli più ‘radicali’ seguirono Gaudencia nella Legio. Vediamo invece che cosa fecero le JoAoko quando persero la loro guida. Molte, ovviamente, la seguirono ad Awasi all’interno della Communion Church; altre, invece, accettarono di rimanere con Simeon, serbando per sempre il ricordo di un passato in cui agivano da figure

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Schwartz 1989: 76-77. 178 Barrett 1968.

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di spicco e non solo da comparse. “Oggi gli uomini sono di più […] quando la Legio era giovane, quando persuadevamo la gente ad aderire alla Legio le donne dicevano messa”179: una situazione non più tollerata o tollerabile perché appartenente ad un passato caotico. “Quando stai tirando su una nuova casa, la costruisci in modo veloce e rozzo. Poi cerchi di sistemarla meglio”180: questo fu il pensiero approvato dai nuovi vertici ecclesiastici. Un pensiero poco condiviso se, malgrado l’espulsione di Gaudencia, un buon numero di “donne continuò, secondo alcuni, a dire messa in qualche chiesa della Legio o, molto più spesso, nelle loro stesse case o in quelle di altri fedeli. Secondo i legionari l’ultima data in cui una donna appartenente alla Legio ha detto messa è stato il 1974 ”181. La motivazione addotta per precludere alle donne il sacerdozio fu tanto ovvia, quanto diffusa: esse erano affette “dalla malattia delle donne” (tuo gi tuo mar mon). Per i legionari lo stato d’impurità connesso al sangue mestruale non avrebbe permesso loro di svolgere adeguatamente compiti che sono, per definizione, ‘santi e puri’. Del resto l’idea dell’inadeguatezza religiosa femminile nel periodo del mestruo era talmente radicata da essere condivisa, come abbiamo visto, dalla stessa Gaudencia, nella cui Chiesa, però, determinava solo una ‘pausa’ nell’attività sacerdotale, non la sua negazione (com’era il caso, invece, per l’analfabetismo, ostacolo alla lettura della Bibbia). Una legionaria, Evangeline Agot, ci conferma che questa era stata, in verità, anche la posizione iniziale del suo movimento: “A quei tempi erano le Madri che dicevano messa […] erano molte in Kenya. Dicevano messa con il potere dello Spirito santo. Nella Legio abbiamo visto molti miracoli. Ma poi Baba interruppe questa pratica 179

Dorea Oyil citata in Schwartz 1989: 66. La stessa studiosa americana, in apertura del suo paragrafo sulla posizione della donna nella Legio e malgrado contesti con forza la centralità sacerdotale delle legionarie all’inizio del movimento, è costretta ad ammettere: “women did act as priest, saying mass, hearing confession, and administering the sacraments at the start of Legio” (Schwartz 1989: 64 e sgg.). 180 Herina Ochieng’ citata in Schwartz 1989: 64. 181 Schwartz 1989: 65.

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perché c’erano le giovani che avevano il mestruo e non potevano salire sull’altare.”182 Altre legionarie, invece, forse influenzate da una lettura maschilista del racconto biblico di Adamo ed Eva, parlarono della loro perdita di importanza ecclesiastica nei termini di un ‘problema di Eva’. C’è, però, anche chi attribuì l’interruzione del sacerdozio femminile semplicemente alla gelosia degli uomini, laici o preti che siano. Fatto sta che il ruolo religioso delle donne all’interno della Maria Legio si ridusse, col tempo, ad una specie di ‘ordine mariano’. Oggi infatti, in virtù del rapporto che le lega alla Vergine, esse assumono il ruolo di ‘madri’, organizzano le riunioni di preghiera, le recite del rosario, le funzioni all’interno dei Presidii e tutti gli altri aspetti del culto mariano così come fanno, specularmente, gli uomini per la messa, anche se i preti mettono bene in evidenza la differenza esistente tra i rispettivi compiti: “La Messa di Dio – precisano – è più importante delle altre preghiere. Ha un potere più grande delle preghiere delle madri”183. Notiamo qui una gerarchia che, apparentemente basata su una divisione sessuale egualitaria (padri e madri, peraltro già esistente agli inizi del movimento), è sbilanciata a favore degli uomini per motivi sacramentali. Solo dopo l’uscita di scena di Gaudencia, quindi, il modello materno di Maria si impose pienamente nella sua connotazione sia sessuale, sia ecclesiale. Per comprendere meglio, diamo un breve sguardo all’odierna Chiesa. La struttura organizzativa della Legio – che, come abbiamo visto in più occasioni, fu imposta e modificata nel corso degli anni da Simeon – segue fedelmente lo schema cattolico, almeno per quanto concerne il suo lato ecclesiastico. Come mette bene in luce Dirven, “la struttura centralizzata e clericale della Chiesa Cattolica dei primi anni ’60 è parzialmente modificata perché il movimento possa venire incontro ai 182

Madre Agnetta citata in Schwartz 1989: 70. Allo stesso tempo, c’è chi sottolinea come la disposizione di Baba fosse solo temporanea – e dovuta al numero troppo elevato di donne che ricevevano l’ordinazione sacerdotale agli inizi del movimento – e solo in seguito divenne prassi diffusa. 183 Schwartz 1989: 66.

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propri bisogni”184. La trasformazione ha luogo tuttavia solo a livello laicale, cosicché, sebbene la Chiesa abbia la propria spina dorsale nel clero, i membri laici assumono un’enorme importanza. Sia il primo sia i secondi si strutturano e organizzano attorno ad un’esperienza di chiamata che, come da tradizione, si definisce attraverso i sogni. Proprio in quella che noi chiameremmo ‘vocazione’, infatti, si trova l’elemento più forte di continuità con la religione luo. Le cariche vengono assegnate non per scelta, ma perché lo Spirito ha voluto così (allo stesso modo in cui si era ajuoga perché prima posseduti da uno juok e poi guariti ritualmente). Alla base di questa esperienza vocazionale, di ‘chiamata’, si trova una complessa ‘teologia cromatica’185 che riflette il mondo spirituale tradizionale degli juogi cristianizzandoli e mantiene viva l’importanza della dimensione onirica quale luogo di definizione identitaria. L’argomento è complesso: diremo solo che per i legionari Cristo, la Vergine Maria e i santi (in questa categoria vengono inseriti anche alcuni personaggi biblici) possono entrare in contatto con i fedeli attraverso lo Spirito santo. Questo, scendendo su di essi, induce fenomeni di tipo onirico-visionario il cui contenuto, debitamente interpretato, determinerà il ruolo occupato nella Chiesa, i doni carismatici di cui saranno in possesso, i vestiti e gli oggetti rituali che potranno portare. Ognuno di questi elementi, poi, sarà associato ad uno specifico colore. “Ogni membro della Chiesa dice di avere un angelo e crede che lo spirito di quest’angelo si prenda cura della sua persona e possa essere usato anche per aiutare gli altri fedeli della Chiesa […] Molti membri della Chiesa credono che questi angeli […] abbiano dato loro enormi poteri ed in base a questi indossano tuniche e abiti di colori differenti”186. La rilettura in chiave cristiana del rapporto tra luo e juogi è qui del tutto evidente187. 184

Dirven 1970: 232. 185 Cfr. Schwartz 2005. 186 Harries @ 2000. Gli abiti multicolore dei legionari sono, da sempre, l’elemento che attira di più l’attenzione degli osservatori. 187 E esemplificativo dell’identificazione santi/antenati ormai in atto tra molte po-

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Faremo un solo esempio. Se un legionario viene ‘chiamato’ dallo Spirito santo ed in sogno ‘riceve la visita’ dell’Arcangelo Michele sa benissimo che il suo destino è quello di divenire JoMikael e il dono che riceverà sarà la capacità di esorcizzare i diavoli e di rimuovere la stregoneria188. Una volta riconosciuta la veridicità del sogno189, egli sarà obbligato a vestire esclusivamente in rosso190, ad usare rosari di tale colore, a compiere esor-

polazioni africane e di cui abbiamo più volte parlato. Proprio in riferimento a ciò, può essere utile parlare del Kit Mikayi. Questo ammasso roccioso, che si trova sulle colline Nandi, ha al suo interno numerose grotte – in una delle quali scorre un rivolo d’acqua ‘sacro’ – precedentemente legate al culto degli antenati clanici (che ivi erano seppelliti ed avevano i simboli del loro potere: la sedia, la lancia, lo scudo, la canoa). Bene, dopo essersi impossessati con la forza del luogo (strappandolo al clan dei Kakello; Ngungikame @ 2000), i legionari l’hanno trasformato in una sorta di ‘cattedrale naturale’ per i loro santi, ad ognuno dei quali viene attribuita una grotta specifica. Le piccole insenature in cui i divinatori andavano per entrare in contatto con gli juogi (soprattutto in caso di siccità prolungata), si sono trasformate in ‘cappelle’ in cui i legionari comunicano con i propri santi protettori. La cavità in cui scorreva l’acqua è divenuta – per ovvie similitudini – una nuova Lourdes ed il ‘miracoloso’ liquido che ne viene estratto è usato pressoché in tutti i riti di guarigione della Legio. 188 Schwartz 1989: 526; Khun 2001: App.1, 15. La ‘scelta’ dell’Arcangelo Michele come protettore degli esorcisti deriva dalla sua immagine tradizionale di antagonista di Satana. Negli stessi termini si possono comprendere le scelte di Abramo (colore giallo – capacità profetiche e divinatorie), Bernadette di Lourdes e Santa Lucia (colore verde – capacità di guarire i malati), Santa Teresa e Daniele (colore marrone – capacità di interpretare i sogni), Sant’Agata (colore rosa – capacità di risolvere i problemi legati alla riproduzione). Questi pochi esempi bastano, inoltre, a mostrare come l’evangelizzazione missionaria sia passata anche attraverso i canali dell’agiografia e dell’iconografia popolare. 189 Nella Maria Legio i sogni devono essere interpretati da figure specializzate, i jaloko lek, che hanno ricevuto a loro volta questa capacità (carismatica) con un esperienza onirica. 190 I legionari indossano lunghe e pesanti tuniche chiamate kanzu (pl. kandhe, in swahili) la cui foggia è influenzata dagli abiti ecclesiastici, se chi ne usufruisce è un uomo, e da quelli indossati dalle suore cattoliche, se donna, ma non va sottovaluta l’importanza che può aver avuto la vecchia pittografia religiosa, soprattutto le Bibbie

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cismi durante le cosiddette “messe rosse” (che si tengono il martedì ed il venerdì)191, a trasportare particolari simboli associati al suo juok (spade, bastoni e, recentemente, riproduzioni giocattolo di mitra o pistole). Grazie ai doni carismatici si viene a creare, quindi, quasi una struttura ecclesiastica trasversale che opera all’interno di quella cattolica senza peraltro metterla mai in discussione. Il modello rappresentato da Gaudencia sembra quasi essersi diluito in una moltiplicazione di figure carismatiche. In maniera simile a quanto gli antropologi hanno fatto con gli jojuogi tradizionali, i legionari frantumano l’ajuoga cattolico dell’Aoko in decine di operatori rituali differenti. Questa operazione riesce a disinnescare la possibilità di una contestazione delle figure clericali senza, tuttavia, annullare lo scalino che le separa dai laici. Infatti – e questo ci riporta al nostro discorso principale – esistono delle eccezioni all’egalitarismo spirituale appena illustrato e sono rappresentate proprio dai preti e dalle madri. Questi “non hanno bisogno di agire come i laici per entrare in contatto col mondo spirituale, poiché hanno avuto visioni personali di Maria o di Gesù e Maria che gli hanno conferito il potere di guarire e di trattare col mondo degli spiriti”192. I sacerdoti, cioè, rispetto ai laici, hanno avuto la visione degli juogi più importanti della loro religione e, al pari dei fondatori storici della loro Chiesa, hanno ricevuto da essi poteri taumaturgici e capacità di mediare i rapporti col mondo sovrannaturale: da ciò deriva il loro status particolare. Uno status a cui accedono, con ogni evidenza, anche le donne e che sembra essere un residuo della struttura iniziale della Chiesa (sancito da Gaudencia nella Costituzione del 1964) di cui sopravvivono, malgrado l’operazione di pulizia ecclesiastica

scolastiche illustrate. Le donne sono tenute a coprirsi il capo con il kitamba, un velo identico a quello delle suore. 191 Dai dati raccolti potremmo ipotizzare una divisione liturgica della settimana (lunedi e giovedi: messe di guarigione, martedi e venerdì: messe di esorcismo, mercoledì e sabato: messe per la Madonna, domenica: messa del Signore). 192 Aa. Vv. @ 2002.

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compiuta da Simeon, tracce significative. Vediamo come sono divisi i ruoli nella Chiesa odierna193: Baba Messiah Simeo Ondeto e Mama Maria; Papa (Baba Mtakatifu, Pop)194; Cardinali (Kardinal, Kadinol); Arcivescovi (Askofu mkuu, Achbisop); Vescovi (Askofu, Bisop); Preti (Padri, Fadha, Jaduong’); Diaconi (Shemasi, Diakon) e Madri (Madha); Chierichetti (Ototo misa) e Mama Lejio; Maestri (Japuonj), presidenti e presidentesse dei comitati (Jakom); Fratelli (Bradha); Sorelle (Susta).

Se togliessimo le cariche stabilite in seguito da papa Simeon, osserveremmo che il modello luo fondato sulla divisione sessuale dei compiti è tenuto bene a mente. Da un lato ci sono le sorelle, le Mama Lejo, le Madri, e tutte fanno capo a Mama Maria. Dall’altro i fratelli, gli Ototo misa, i Padri, che seguono Baba. Anche i compiti svolti da ognuna di queste persone sono speculari a quelli dell’altro sesso195. Potremmo quasi dire che sembrano esserci due strutture identiche per carica ma differenti per funzione cultuale. Fatto sta, però, che esistono delle convergenze di difficile interpretazione proprio tra le uniche due categorie che vengono poste in situazione di disparità: preti e madri196. Entrambi hanno visioni di Gesù e della Vergine e per l’eccezionalità di tale evento sono al di fuori

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Schwartz 1989: 69. 194 In tutte le cariche ecclesiastiche riportate i nomi vengono indicati in italiano (pl.) – swahili (s.m.) – luo (s.m.). Per luo si intende, però, non la lingua dholuo ma quella che la Schwartz chiama ‘inglese luoizzato’ in cui è evidente l’intenzione di tradurre termini occidentali con mezzi linguistici propri. 195 Le Mama Lejo, ad esempio, svolgono gli stessi compiti di preparazione alle funzioni religiosi che, in chiesa, sono a carico degli Ototo misa. 196 Sintomaticamente e solo recentemente accomunate ai diaconi.

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da ogni associazione cromatica (i loro colori sono il bianco ed il nero); durante i funerali le seconde, al pari del clero maschile, hanno diritto di vestire gli abiti “da prete”197; e, cosa più importante, rispetto alle altri figure femminili della Chiesa, le madri vengono ordinate198. Nella sua tesi di dottorato N. Schwartz riporta, in appendice, anche il documento di ordinazione rilasciato ad una madre direttamente da Baba, significativamente nel 1967 (quando Gaudencia era ancora al comando della chiesa), su cui è scritto: “Ella ha ricevuto il potere di una Sister-Priest (altro nome usato per designare le donne con ruolo sacerdotale) […] ed è stata ordinata dal Vescovo Philipo Korneli Wanyama”199. Madre Agnetta, una legionaria vissuta nella missione di Ragla a Ugenya, descrive così il momento del suo ingresso nella Legio: “Il vescovo disse messa per noi. Quando disse la messa, mi coprì con il ‘trofeo’ (il suo abito, ndr). Aveva un cappello a due punte e la luce di Gesù (una candela bianca, ndr). Il vescovo mi unse con l’olio santo. Egli diffuse lo Spirito su di me, l’olio mi fu messo sulle mani in forma di croce. Una madre ordinata non è forse come un prete?”200. Potremmo rispondere affermativamente: cioè, per meglio dire, potremmo affermare che una volta (al tempo di Gaudencia) era così. Allora le madri erano chiamate anche padri madhako, ‘preti donna’201. Adesso che non possono più impartire alcun sacramento sono tornate semplici madri. Il mantenimento della loro figura all’interno della Legio ha quindi una funzione simile a quella del carismatismo laico: incanalare istituzionalmente ogni possibile 197

Schwartz 1989: 526. Per quanto concerne le vesti talari il clero della Legio segue fedelmente la tradizione cattolica. 198 “Che cos’è una madre della Chiesa? È come un prete. Una sorella non ha potere. Chi è unto con l’olio santo ha potere”. Madre Brigit Odunga, citata in Schwartz 1989: 67. 199 Schwartz 1989: 531. 200 Citata in Schwartz 1989: 69. A nostro avviso non basta quindi attribuire tale “pratica … a vescovi ignoranti che non sapevano che era in vigore il divieto di ordinare le donne”, come fa la stessa studiosa americana. 201 Ancora oggi alcune fedeli continuano ad usare tale termine per riferirsi alle madri, assieme al meno diffuso sister-padri (Schwartz 1989: 530).

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spinta “rivoluzionaria” ed anti-istituzionale convogliandola in forme accettate collettivamente. Pagina dopo pagina, è emerso come l’impatto con l’occidente cattolico abbia vissuto in Nyanza due fasi: la prima propositiva (durante la quale nacquero nuovi movimenti sincretici capaci di creare un ponte tra vecchio e nuovo), la seconda adattativa (durante la quale i medesimi movimenti si standardizzarono prendendo a modello la Chiesa di Roma o le denominazioni protestanti presenti nell’area). Gaudencia si trovò a vivere e operare nel momento della risacca tra un’onda e l’altra. Nata ad Awasi, crebbe nel momento di massimo fermento religioso dell’intera regione. Bambina quando migliaia di Balokole si affollavano a Maseno e cominciavano la loro entusiastica predicazione per tutto il Nyanza, quando il processo di creazione delle Chiese indipendenti era irreversibilmente avviato, Aoko visse in prima persona, da adolescente cattolica, l’esplosione della devozione mariana, il successo del movimento di Maria Ragot, il diffondersi dei fenomeni visionari. L’esigenza di un’africanizzazione del messaggio cristiano, della creazione di un clero nativo, dell’emancipazione dal giogo coloniale era forte e sentita da tutti quando, diciassettenne e appena sposata, fu costretta ad emigrare con la famiglia in Tanzania. Lì, attraverso una rilettura in chiave cristiana dell’iter tipico dell’ajuoga della religione tradizionale, riuscì a creare una via luo al cattolicesimo. Una via che, grazie ai nuovi juogi cristiani, avrebbe permesso alle donne di recuperare quella dimensione religiosa e taumaturgica di loro pertinenza che l’androcentrica Chiesa missionaria aveva cancellato. Migliaia di persone la seguirono – tantissime le donne – e, in un’area ancora fortemente ‘pagana’, aderirono ad un messaggio cristiano, finalmente comprensibile e fruibile. Simeon capì bene la cosa. Già indirizzato verso una propria Chiesa, autonoma da quella cattolica, il presidente dei legionari di Kadem offrì i suoi servigi a Gaudencia, curandola nei termini della loro cultura dal male che l’affliggeva e affidandole il compito di evangelizzare il Kenya, ma in cambio ottenne un’investitura divina che gli permise di inserire il suo progetto di riforma ecclesiale in un quadro provvidenziale rico310

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noscibilmente cattolico. Le visioni mariane di Gaudencia diedero una luce tutta nuova alla condenda Chiesa di Ondeto, altrimenti confinata in un eclettismo religioso che ben poca presa avrebbe fatto sui luo cattolicizzati, oppure ridotta ad una ‘pretestuosa’ rivolta contro le rigide e ‘bianche’gerarchie della Chiesa di Roma. Per fare un parallelo del tutto improponibile storicamente ma calzante comparativamente, Simeon fece come molti prìncipi delle corti rinascimentali italiane che, per dare lustro alla propria città e legittimare religiosamente le proprie azioni, facevano entrare nella propria famiglia le cosiddette ‘sante vive’, donne carismatiche e visionarie soggette ad essere protagoniste di fenomeni miracolistici e profetici202. Ovviamente non va dimenticato che anche Ondeto aveva un ruolo connotato religiosamente, era jahulo203, guaritore ed esorcista ma, dopo la divisione dei compiti decisa di comune accordo con l’Aoko nel corso del loro incontro, la sua principale attività divenne quella sacerdotale-papale. Ondeto non era stato ancora riconosciuto come il Messia, ma si configurava come il leader del nuovo movimento, della nuova Chiesa, che di fatto aveva preferito il nome comunicato dalla Madonna a Gaudencia a quello da lui “udito” in Paradiso. Entrambe i nomi, Maria Legio e Legio Maria, richiamavano l’omonimo movimento cattolico a cui entrambi palesemente s’ispiravano, ma la scelta del primo dei due titoli servì a porre in maniera esplicita la Vergine a fondamento della Chiesa, e non l’associazione cattolica. Insomma, Ondeto guadagnò “la chiave del Paradiso da Gesù, non da Roma”204 e divenne papa, mentre Gaudencia ricevette, tramite l’ordinazione sacerdotale, una struttura isti-

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Cfr. Zarri 1990. 203 Profeta. Siamo consapevoli che la ‘profetizzazione’ dei personaggi analizzati nel corso degli anni dalle discipline storiche e antropologiche, ma anche dagli studi di matrice confessionale, è un’operazione occidentale che risponde ad esigenze occidentali di classificazione dell’alterità (Cfr. Visca 1995), ma è pur vero che, per quanto riguarda Simeon, la categoria del ‘profeta’ era stata ben assimilata. 204 Come disse la stessa Gaudencia (Dirven 1970: App.III, 16).

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tuzionale cattolica all’interno della quale valorizzare le proprie capacità (tradizionalmente o sincreticamente intese che siano). Man mano che la il movimento si strutturava come Chiesa, però, la situazione cambiò drasticamente e Gaudencia, assieme alle sue seguaci, finì per soccombere al progetto ecclesiastico romano contro cui fino ad allora aveva resistito. Le ordinazioni arcivescovili, episcopali e sacerdotali esclusivamente maschili operate da Simeon furono un chiaro segno dei tempi che cambiavano. Gaudencia fu relegata alle funzioni di Madre superiora, responsabile dei gruppi femminili della Chiesa (ormai non altro che suore mariane) e il ruolo di co-fondatrice ch’ella aveva ricoperto fin allora le venne sottratto, per essere assunto da Mama Maria. Tutto questo venne messo nero su bianco nella costituzione del 1967. Pochi mesi dopo la Aoko sarebbe stata espulsa e la sua figura cancellata dalla storia della Legio. Avrebbe fondato una sua Chiesa e l’avrebbe intesa cattolica. Tuttavia, per poter rivendicare per sé e per le sue JoAoko un ruolo ecclesiastico attivo al suo interno, fu costretta a protestantizzare la sua creatura. Eppure nel 1989, all’incontro con la Schwartz, Gaudencia non si presentò con il kanzu femminile, come la studiosa americana s’aspettava di vederla comparire vestita, ma – pervicacemente – con gli abiti di un jaduong’, cioè di un prete205. Scomparsa o meno dall’orizzonte legionario, gli stessi fedeli di Simeon sono da sempre costretti, non meno degli studiosi, ad ammettere che “Gaudencia Aoko è un personaggio la cui posizione nella Legio ha destato” – e desta ancora – “enorme interesse”206. Eppure, rispetto ad altre protagoniste della storia religiosa africana, a livello accademico di Gaudencia si parlerà veramente poco. Il motivo, a nostro avviso, risiede probabilmente nel suo essere stata un personaggio affatto scomodo non solo per Simeon e i vertici ecclesiastici da lui nominati, ma anche per gli studiosi occidentali che, dovendosi avvicinare alla ‘cattolica’ Maria Legio, trovarono di difficile 205

Il termine dholuo jaduong originariamente significa ‘anziano’, ma è stato poi usato per connotare i preti. 206 Schwartz 1989: 72.

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soluzione il problema di quella donna africana sottrattasi al ‘controllo maschile del sacro’. Padre Dirven e la Schwartz, cui dobbiamo gli unici due lavori di ampio respiro sulla Legio, sono un ottimo esempio di come missionari e studiosi del movimento si siano avvicinati alla figura dell’Aoko. Il primo – interessato, in periodo post-conciliare, principalmente alle questioni interne al mondo missionario (cura pastorale e necessità inculturative) – liquida la questione della predominanza femminile nei primi anni della Maria Legio rintracciandone l’origine in un’astratta necessità delle donne luo di abbracciare la nuova fede in maniera più semplice per trovare, attraverso di essa, una risposta alla crisi sociale e culturale di cui erano vittime (come madri o mogli)207. Gaudencia, in questo senso, grazie alla sua personalità carismatica, non fu altro che la principale ‘portavoce’ di tali esigenze. La seconda – protesa esclusivamente verso un’analisi dei contenuti ‘dottrinali’ della Legio – analizza soltanto la situazione delle odierne ‘madri’ ed è costretta ad interessarsi alla nostra visionaria soltanto perché sollecitata di continuo, nel corso della sua ricerca sul campo, dalle legionarie più anziane. Ma anziché approfondire il discorso sulla necessità espressale dalle donne luo di uno spazio religioso in cui agire e approfondire le motivazioni delle analogie tra preti e madri che andavano emergendo nel suo lavoro, ella archivia il tutto come semplice frutto di ‘rivendicazioni’ di tipo femminista agevolate dall’ignoranza dei vertici ecclesiastici legionari208. Rivendicazioni che rintracciarono in maniera simile anche altri studiosi, come Barrett e Obbo209, interessati al fenomeno della partecipazione femminile ai nuovi movimenti religiosi.

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Crisi che dava origine, secondo lo stesso Dirven, al malessere psicologico alla base – dal suo punto di vista – dei fenomeni possessivi di cui abbiamo ampiamente parlato e per cui le donne cercavano soluzione nella Legio, che infatti “offered an escape from the real world, the harsh world, especially for the […] exhausted woman” (Dirven 1970: 151). 208 Schwartz 1989: 73). 209 Barrett 1968: 13, 139, 149, 295; Obbo 1980: 112. Ma anche da Juma, riportato in Harries @ 2000 e da Davis @ 2000. 313

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Ognuno di essi, però, facendo propria l’immagine ‘d’esportazione’ della donna indigena, stereotipata come moglie sottomessa (che ‘femministicamente’ cerca il proprio riscatto sociale), o imprigionata nel ruolo di madre210 (avvalorato e ribadito dall’analogo modello mariano cattolico211), si è scontrato così, inevitabilmente, con la realtà del tutto diversa rappresentata da Gaudencia: un ajuoga che, in continuità con la propria cultura, ha saputo ritagliarsi un nuovo spazio religioso cristiano (seppur sincretico) in cui agire da protagonista. E allora, alla luce di quanto emerso, potrebbe essere stato il misconoscimento missionario e antropologico di uno spazio consueto, perché culturalmente riconosciuto, di ‘gestione femminile del sacro’ nella società tradizionale luo, a far sì che l’interessante esperienza religiosa di Gaudencia (e dei ‘preti donna’ che la seguivano) fosse ricondotta, grazie a chiare concettualizzazioni di matrice occidentale, a modelli più rassicuranti (perché subalterni, in quanto oppositivi o ancillari, a quelli maschili) e talmente diffusi in Africa da diventare – mi si perdoni la forzatura – ‘normali’. L’unicità della sua esperienza all’interno del rigido e maschile mondo cattolico, quindi, si è trasformata in un motivo di esclusione – ancora un’altra – anche dall’orizzonte accademico.

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Eppure Barrett – che significativamente intitola “The Women Revolt” uno dei paragrafi del suo Schism and Renewal in Africa – sottolineava come “in molte culture africane, le donne avessero posizioni di primo piano […] e potere religioso”, salvo poi ridurre nei due esempi presentati tale centralità (di nuovo) alla sfera della fertilità e della procreazione: “le donne giocano un ruolo importante nel culto della madre terra” e hanno rapporti col mondo degli antenati, ma “al momento del concepimento”, quando possono sognare chi si “reincarnerà” nel proprio figlio (Cfr. Barrett 1968: 146 e sgg). 211 Interiorizzato dai legionari e riflessosi poi, come abbiamo visto, anche nella strutturazione gerarchica della loro chiesa. A tal proposito N. Schwartz afferma, significativamente, che l’odierna situazione di compromesso “delle Madri legionarie è un ottimo esempio di come le donne luo possano mostrare deferenza verso gli uomini senza nulla togliere al loro ‘strong character’” (Schwartz 1989: 71). 314

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Itinerari di ricerca storico-religiosa Collana diretta da Danila Visca

–1– Danila Visca Nera ma bella Per un’analisi storico-religiosa del culto mariano in Africa –2– Alessandro Saggioro Sardinia – ’Ιχνουσσα Questioni di metodo per una storia religiosa della Sardegna –3– Claudia Santi Alle radici del sacro Lessico e formule di Roma antica

–6– Danila Visca Sulle tracce del diavolo La scoperta di Satana in Africa –7– Nicola Mapelli Oceania Oltre l’orizzonte dei Mari del Sud –8– Alessandro Cerri – Nicola Mapelli Leornardo Sacco – Claudia Santi Il New Age Volti dal passato, nel presente e per il futuro

–4– Danila Visca La strega e il terrorista Religione e politica in Uganda

–9– Nicola Mapelli L’Assoluto e la Storia Oriente e Occidente a confronto

–5– Leonardo Sacco Kamikaze e Shahīd Linee guida per una comparazione storico-religiosa

– 10 – Danila Visca Dei profeti dell’Occidente Tre variazioni sul tema del profetismo in antropologia storica

– 11 – Alessandro Cerri Nicola Mapelli – Danila Visca Oltre il New Age Il futuro della religione e le religioni del futuro – 12 – Danila Visca La scoperta del tabu – 13 – Alessandro Cerri “I, Too, Sing America” Dagli spirituals al blues: per un’analisi storico-religiosa della cultura musicale nero-americana – 14 – Nicola Mapelli Storia delle religioni Una prima introduzione alla disciplina