Le donne sono umane? 9788842096795

Nel 1948 la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo ha sancito a cosa un essere umano ha diritto. Sono passa

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Le donne sono umane?
 9788842096795

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Sagittari Laterza 184

Catharine A. MacKinnon

Le donne sono umane? a cura di Antonella Besussi e Alessandra Facchi

Editori Laterza

© 2012, Gius. Laterza & Figli per l’edizione italiana Traduzioni di Pia Campeggiani (saggi 2-6) e Francesca Pasquali (saggi 1 e 7-9) Prima edizione 2012 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2012 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9679-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione all’edizione italiana di Antonella Besussi e Alessandra Facchi*

1. Del femminismo, e di quel che ha da dire sulle donne e alle donne, si ha l’impressione di sapere tutto, anche troppo. La vicenda di questo sapere teorico e politico è così lunga e stratificata da farlo apparire ormai consumato. Sembra davvero difficile ritrovare la vitalità originaria di un pensiero capace di misurarsi su esperienze e di risponderne in modo accessibile e persuasivo, vedendo quel che c’è da vedere – anche se non corrisponde a quel che si vorrebbe ci fosse. Per quanto quel pensiero sia stato capace di toccare linguaggi e pratiche degli esseri umani, i suoi punti di arrivo attuali appaiono sfocati, fiacchi, incapaci di conquistare ascolto se non da parte di chi li ha già da sempre frequentati, estranei a tutti gli altri. Sullo sfondo appena descritto, la scelta di proporre una raccolta di scritti come questa potrebbe apparire incongrua o almeno datata. Per quanto si tratti di interventi relativamente recenti – collocabili in un arco temporale che va dagli anni Ottanta del Novecento al 2006 – Catharine MacKinnon, poco nota in Italia se non nell’ambito del diritto, potrebbe essere scambiata per un reperto storico, per un’ennesima figura iconica di importazione cui rivolgersi in cerca dell’ispirazione perduta. Perché non è così lo si può anticipare in questi termini: originalità di sguardo, pensiero forte, retorica felice. Nata nel 1946 nello Stato del Minnesota, avvocata e filosofa del diritto, MacKinnon è una pensatrice radicale con mentalità riformatrice. Questioni di principio diventano per lei battaglie legali (ad esempio: suo è il quadro interpretativo sulla base del quale la Corte Suprema riconosce nel 1986 che le molestie sessuali sul luogo di * Antonella Besussi firma il primo paragrafo, Alessandra Facchi il secondo.

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lavoro sono discriminazione sessuale; sua è, dal 1992, la rappresentanza legale delle donne bosniache e croate contro i serbi accusati di genocidio). Del resto le questioni teoriche – e anche di teoria «alta» – si pongono per disporre di categorie praticamente efficaci. Il suo vuole essere un femminismo «non modificato», che non si adatta, cioè, ai gerghi e ai canoni della tribù femminista stessa né alle tradizioni normative politicamente paradigmatiche: non il marxismo, per quanto presente nella sua formazione, né il liberalismo, con il quale mantiene una relazione di rispettoso antagonismo. Nei passaggi migliori del suo lavoro MacKinnon offre un contributo davvero singolare e difficilmente classificabile negli schieramenti convenzionali. Il suo limite, su cui molto i critici insistono, sembrerebbe però quello di ritenere troppo disinvoltamente che una teoria è cattiva se non funziona in pratica e che la passione morale deve essere messa al servizio di una causa cui qualsiasi altra considerazione deve essere sacrificata. La dimensione militante del lavoro di MacKinnon è in effetti innegabile, e talvolta eccessiva. Il punto non è di attitudine: infatti molti giuristi liberali e conservatori (e quasi tutti i più interessanti, come Ronald Dworkin e Richard Posner) contravvengono alla neutralità disinteressata tradizionalmente considerata caratteristica del linguaggio del diritto. In questo MacKinnon non fa eccezione: il diritto non è un piatto freddo e la giustizia richiede di distribuire ragioni e torti, quindi è inevitabilmente anche uno strumento di riforma politica. Se mai, l’eccesso militante di cui parlo – che potrà essere autonomamente riscontrato da chi legge – diventa problematico quando la porta a condizionare la forza delle sue intuizioni al loro più facile rendimento pratico, offuscandola in modo iperbolico e paradossale. La coincidenza troppo stretta che qualche volta si avverte nel suo argomento tra politica e «questioni di potere» rende meno credibile il linguaggio normativo della collera morale che lo sostiene. L’impressione, però, è che le critiche, significativamente provenienti tanto da quartieri liberali che da quartieri radicali, tanto dal modernismo che dal postmodernismo, tanto dal punto di vista dell’eguaglianza delle donne quanto dal punto di vista della differenza delle donne, siano rivolte soprattutto alle intuizioni in se stesse. Ricostruirò qui alcuni passaggi del suo argomentare in cui il carattere innovativo e peculiare di tali intuizioni appare più evidente. Anzitutto un punto teorico o su cosa vuol dire fare teoria per rendere giustizia a qualcuno. Si tratta della questione fin troppo

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familiare sull’impossibilità di essere oggettivi se si vuole assumere una prospettiva situata, quella delle donne, non quella di chiunque, quella di soggetti materiali e specifici, non quella di individui astratti e virtuali. Citando Virginia Woolf, MacKinnon parla di «visuale» o «criterio». La sua tesi in proposito si afferma districandosi con abilità dai luoghi comuni della contrapposizione tra universalismo e particolarismo. L’oggettività deve essere rifiutata in nome della realtà quando implica di rappresentare un modo distorto in cui le cose stanno come fosse vero perché rende le nostre categorie cieche all’ingiustizia, e dunque parziali. C’è una realtà in cui gli uomini sono soggetti e le donne oggetti, ci sono fatti a mostrare che il genere decide in tutte le società umane, sulla base del sesso, subordinazione delle une e dominio degli altri. Epistemologia, il modo in cui si conosce, e ontologia, il modo in cui le cose stanno, non sono distinguibili se si vuole capire quali fatti contano – e come – per stabilire il modo in cui uomini e donne sono realmente trattati. Il che significa poi capire quali fatti dovrebbero contare, ma invece sono ignorati o mascherati, per stabilire l’inaccettabilità dei maltrattamenti reali che le donne subiscono. Il genere – l’essere uomini e donne – è un fatto del mondo, un fatto naturale che fissa differenze di valore traducendole in differenze di potere: le relazioni tra uomini e donne sono gerarchiche, dividono superiori da inferiori, sessualizzano una diseguaglianza, fermo restando che modi e forme del dominio maschile possono mutare e la biologia non è essenziale a condizionare disposizioni maschili e femminili. Che esistano uomini e donne egualmente differenti gli uni dalle altre non spiega perché uomini e donne siano diversamente potenti, cioè, in poche parole, diversamente esposti e vulnerabili a essere creature di cui altri decidono. Una teoria femminista deve quindi insistere su questa spiegazione mancante, sfidando una realtà distorta che tende a imporsi come l’unica realtà vera e possibile. È per questa ragione che è sempre molto difficile tracciare una linea netta tra quel che le donne esprimono in quanto danneggiate dal dominio e quel che le donne esprimerebbero nel caso in cui il danno fosse riparato. In entrambi i casi, infatti, quel che le donne fanno e dicono è reale. Il tono di MacKinnon su questo punto non è moralistico. Siamo quelle che siamo state fatte essere e non c’è da stupirsi se l’effetto cumulativo di una storia di dipendenza, soggezione, svantaggio sistematico ci porta a confondere esiti costruiti dal dominio con dati

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immutabili, attribuendo noi stesse, in piena autonomia, la forza di differenze empiriche e di fatti osservabili a stereotipi fabbricati per farci sedere in seconda classe. Anche se descrive accuratamente le donne come sono, la realtà del dominio maschile è vera e falsa nello stesso tempo: siamo quello che siamo – docili, deboli, incompetenti o indisciplinate, forti, sapienti ma nello stesso quadro, dove è in virtù di quel che altri stabiliscono dobbiamo essere che ci definiamo diversamente. Tuttavia siamo o potremmo essere qualcosa di più e di diverso perché questa realtà distorta non esaurisce il reale e constatarla non vuol dire arrendersi al fatto che quello che c’è esaurisce tutte le possibilità («le donne sperimentano come muri i muri che le hanno contenute – e qualche volta ci passano attraverso»). Il riferimento a un criterio di realtà è dunque importante per capire il modo in cui MacKinnon si orienta nel paesaggio complicato e qualche volta rarefatto delle teorie femministe1. La sua posizione è realista non solo nel senso ordinario del termine, come quando afferma che le donne devono prendere atto della realtà e non raccontarsela, ma anche in senso filosofico: c’è un mondo là fuori che esiste indipendentemente da noi e resiste ai nostri tentativi di cancellarlo. In linea con il suo stile pragmatico, però, di questa tesi filosofica le interessano soltanto i risvolti politici, soprattutto quando la usa contro una posizione che considera rivale, e che vede sintetizzata nella volontà di negare ci sia una differenza tra quello che si crede il mondo sia e quello che è davvero. Per farla breve, si tratta di una posizione – in senso lato etichettabile come postmodernista – secondo la quale allontanarsi da «qualunque cosa reale» ipotizzando che tutto sia linguaggio o discorso favorisce la libertà dei soggetti, liberando anche le teorie dall’impegno di dare riferimenti forti, strutturati, ambiziosi. Non ne deriva soltanto una forma di indifferentismo che impedisce di giudicare cosa è giusto e cosa è sbagliato. Il vero obiettivo è sostenere che «là fuori» non c’è niente se non quello che ci mettiamo. Anche se quello che ci mettiamo può acquisire per noi status di realtà non c’è modo di stabilire se è vero o falso tranne che nella nostra testa. Ma questa idea è credibile, dice MacKinnon, solo se il mondo «non ti colpisce in faccia». La realtà è infatti alquanto determinata per chi deve portarne il peso. Non è qualcosa che c’è e non c’è, non è questione contingente e vaga. Conoscere la realtà di quello che è (stato) fatto alle donne, la materialità del danno che subiscono, la densità tangibile e corporea della loro esperienza di

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subordinazione, vite vissute e non immagini filosofiche, vuol dire conoscere qualcosa che accade e c’è. Non si tratta insomma di qualcosa che vede solamente chi guarda da una prospettiva situata e particolare, quella di donne, la nostra, inaccessibile a chi non la condivide. Si tratta invece di scoprire qualcosa che è sempre stato là anche quando nessuno lo vedeva e che ci sarebbe anche se nessuno lo vedesse – e cioè la fattualità di un regime in cui le donne sono a disposizione, in ostaggio delle aspettative di altri anche quando credono di scegliere da sé (in questo senso sono illuminanti le riflessioni, per altro controverse, dedicate alla riflessione sull’aborto nel quinto saggio). Parlando di «donne» MacKinnon è del tutto consapevole che rischia il ridicolo, data la piega che potremmo definire anti-realista presa dal femminismo negli anni in cui scrive. In quegli anni, che sono quelli della cosiddetta «terza ondata» del femminismo, «donna» e «femminile» sono infatti considerati nomi, non fatti. La donna, intesa come categoria che descrive qualcuno che esiste, è una finzione priva di qualsiasi essenza. Non ci sono proprietà che tutte e solo le donne hanno, e senza le quali non sarebbero quello che sono. Pensarlo vorrebbe dire costringere ancora una volta la donna nella camicia di forza di una identità naturale, oppressiva perché la fa coincidere con aspettative consolidate su quel che deve pensare o fare, ed esclusiva, perché non tiene conto della varietà e pluralità dei soggetti singolari cui si applica. Respingendo l’idea che sia l’interpretazione culturale (genere) di una costante biologica (sesso) a offrire un utile strumento concettuale e critico, si sposta l’attenzione sui sistemi di rappresentazione e sulle pratiche attraverso le quali le «donne» sono prodotte, costruite, modellate. Va notato che anche a questo proposito la posizione di MacKinnon riesce a distinguersi come peculiare. Per lei si è donne semplicemente in quanto si condivide l’esperienza della subordinazione sessuale, ci si assomiglia perché si è immerse in una realtà distorta che legittima una disparità di dignità, rispetto, risorse, credibilità. Si è donne in quanto la realtà del dominio stabilisce che si vale meno, non in quanto si condividono speciali qualità e disposizioni. Rielaborando un’intuizione anticipatoria di John Stuart Mill si insiste sul fatto che nessun gruppo dominato ha mai intrattenuto rapporti di intimità così profondi e continuativi con i propri dominatori, concludendo quindi che, proprio perché erotizzata, la disparità garantisce che le inferiori siano viste e si vedano come oggetti destinati a soddisfare aspettative dei superiori.

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È la multidimensionalità del danno che questa relazione gerarchica produce a far esistere le donne e a farle esistere come non-soggetti: sono lo stupro (etnico e non), la pornografia violenta, le molestie sessuali, la svalutazione sistematica a provare che le donne esistono. Come qualcuna chiedeva: se «donna» è soltanto una categoria vuota, perché ho paura ad andare in giro da sola di notte?2 Questa forma di essenzialismo negativo – sulla base del quale la donna è reale in quanto non è – permette anche di misurare tutta la distanza che separa MacKinnon dal pensiero della differenza. Dal suo punto di vista celebrare la dissomiglianza ribadisce un confine già tracciato dagli uomini, di cui sono in questo caso le donne a stabilire il valore, riconducendo a un’interpretazione radicalmente interna alla vita femminile, intraducibile a chi non sappia da sé cosa descrive, il rapporto cognitivo e affettivo che le donne intrattengono con il mondo. Rivendicare il merito specifico di questo senso di realtà, valorizzando come qualità essenziali del femminile tutte quelle sue caratteristiche che il dominio maschile ha classificato come mancanze, significa però trascurare che è uno squilibrio di potere a renderlo possibile, mascherandolo come un «guanto di velluto» su un pugno di ferro. Se la differenza delle donne dipende dalla loro subordinazione sessuale, esaltarla vuole dire consentire di vedere le donne come gli uomini le vedono, e cioè come «esseri da fottere» (è forse superfluo specificare che qui il significato del verbo è ben più ampio di quello letterale). Il ripudio della differenza femminile, d’altra parte, non segnala affatto un rapporto tranquillo di MacKinnon con l’idea di eguaglianza. A suo giudizio, infatti, entrambi gli standard prendono gli uomini a unità di misura. Pretenderci eguali agli uomini – quello che puoi fare tu posso farlo anch’io, e meglio – non ci rende tali, trattarci come se fossimo eguali non cancella la realtà di una dissomiglianza che non è questione di discriminazione, ma di dominio. Il punto è che qualsiasi rivendicazione di eguaglianza per le donne è fasulla se non registra il modo in cui la sessualità è definita da una gerarchia di genere. Dato che il sesso è questione di dominio, il problema non è la differenza di genere, ma la differenza che il genere fa in termini di potere: eguaglianza non è non-discriminazione, cioè non essere trattate diversamente quando si è simili, ma non-subordinazione, cioè essere libere di sottrarsi alle prestazioni che altri hanno deciso per noi, facendole diventare le prestazioni che vogliamo dare. Sola-

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mente se la questione dell’eguaglianza è ridefinita come questione di distribuzione del potere, le donne potranno smettere di criticare il femminile e di resistere ai suoi condizionamenti. Solamente in quel caso, infatti, sarà possibile per loro avere uno sguardo «innocente» su se stesse («toglieteci i piedi dal collo e allora sentiremo in che lingua le donne parlano»). Non a caso, una delle conclusioni più radicali del femminismo di MacKinnon riguarda la liberazione dal sesso come condizione di libertà. Se nella realtà distorta dal dominio essere di sesso femminile vuol dire adeguarsi al proprio valore relativo e strumentale, sottrarsi al fare sesso che questo implica vuol dire cominciare a vedersi come umane, difendendo la propria inviolabilità. Non a caso è un dubbio sull’umanità delle donne quello sollevato dal titolo del breve saggio che abbiamo scelto come apertura, adottando poi lo stesso titolo per questa raccolta di scritti. Dal punto di vista di MacKinnon «donna» non descrive ancora un modo dell’umano, se avere umanità vuole dire essere qualcuno che decide, e non qualcuno di cui si decide condizionandolo a credere il contrario. Ma tutto il suo lavoro mostra che la comprensione stessa dell’umano non sarà completa finché le donne non contribuiranno a farla comprendere. 2. Sia sul terreno teorico, sia sul terreno pratico, MacKinnon è una combattente, una donna che ha fatto dell’impegno intellettuale, declinato dalla lotta di classe alla lotta di sesso, una costante di vita. I rapporti tra i sessi sono un conflitto che contrappone noi e loro, femmine e maschi, un conflitto che in forme diverse attraversa tempi e luoghi, trasversale a tutti gli altri conflitti, su un campo di battaglia universale: il corpo e la sessualità delle donne. Nel tempo – dai primi scritti degli anni Ottanta agli ultimi del nuovo millennio – cambiano i riferimenti teorici, cambia il quadro storico, ma non cambia l’assunto di base: le donne sono assoggettate agli uomini e la sessualità è il luogo primario di esercizio del potere maschile. La convinzione che la sessualità costituisca il luogo principe di controllo e sfruttamento delle donne da parte degli uomini e determini la struttura dei rapporti di potere tra i sessi rimane inalterata fino agli scritti più recenti. Nei due saggi pubblicati sulla rivista «Signs: Journal of Women in Culture and Society», MacKinnon costruisce il suo femminismo in analogia con il marxismo, ma spostando il fulcro dello sfrutta-

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mento dal lavoro alla sessualità. Marxismo e femminismo sono teorie che trattano dell’ineguale distribuzione di potere. Anche negli anni successivi il terreno su cui fioriscono le analisi e proposte di MacKinnon è una visione sociologica conflittualista, post-marxista come lei stessa la definisce, nella quale donne e uomini sono gruppi sociali tra loro antagonisti, mentre determinanti biologiche e opzioni individuali passano in secondo piano. «Maschio» è aggettivo, precisa MacKinnon, «maschile» una categoria che corrisponde a un assetto di potere, a un modello che normalizza la violenza sulle donne: non necessariamente tutti i soggetti maschi condividono l’esercizio di questo potere in egual misura, così come anche una donna può occasionalmente esercitare il potere maschile. Il conflitto tra i sessi attraversa i conflitti teorici come quelli storici. MacKinnon penetra e attacca correnti teoriche dominanti, prima liberali, poi critiche del liberalismo, come il postmodernismo e il multiculturalismo, mettendo in luce come si tratti comunque di ideologie che traducono, sostengono, giustificano l’oppressione e lo sfruttamento delle donne. Nelle sue argomentazioni scavalca dicotomie consolidate3 e oltrepassa approcci critici all’universalismo dei diritti, all’essenzialismo, al biologismo, al maternalismo richiamandosi, questo sì, ma rielaborandole in forme originali, a categorie classiche della tradizione femminista. La differenza di genere, con tutte le sue implicazioni, non interessa MacKinnon, o meglio le interessa in quanto ideologia che contribuisce al dominio maschile, allo sfruttamento, alla subordinazione femminile. È il potere maschile che genera la differenza sessuale «così come la conosciamo» e il dominio maschile si rafforza attraverso la differenza. Nel suo percorso incontra paradigmi, critiche, correnti prendendo ciò che le interessa e rifiutando ciò che non corrisponde alla sua linea. Attinge alla filosofia classica come a quella contemporanea, alla dottrina giuridica come ai dati statistici. Il ricorso a dati empirici è la forza che permette di tenere insieme l’astrattezza dei suoi discorsi alla realtà. MacKinnon li usa come clave. Quei dati spesso espulsi dalle teorie femministe, considerati ovvi, sono invece quelli che restituiscono alle sue analisi radicali, in cui spesso sembra prevalere l’elemento della provocazione, un’immediatezza, un riscontro di fronte al quale viene da pensare: forse ha ragione lei;

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forse è veramente una guerra talmente diffusa, stratificata, radicata, multiforme, antica che non la percepiamo neppure. E il diritto in tutto ciò? MacKinnon è prima di tutto una giurista, un avvocato, impegnata nella pratica del diritto, nella riforma legislativa. Il diritto è un’arma – una sovrastruttura – e come tale dipende da chi la costruisce e la usa. Il diritto vigente riflette il potere maschile, codifica relazioni oppressive che nasconde sotto un linguaggio e un metodo neutro rispetto al genere. MacKinnon applica la sua lente critica a giurisprudenza, dottrina, legislazione, princìpi di diritto nazionale e internazionale. Il primo passo è l’analisi di sentenze, norme e categorie consolidate della scienza giuridica, mettendone in luce la portata ideologica in un esercizio di costante demistificazione che si fonda sull’assunto dell’impossibile neutralità del diritto. MacKinnon è tra le prime a mettere in discussione le dicotomie universale-particolare, soggettivo-oggettivo. Se il punto di vista oggettivo è il punto di vista del soggetto socialmente maschio, di fatto «il maschio occupa sia la posizione neutrale sia la posizione maschile». Nonostante il comune approccio decostruttivo di categorie politiche e giuridiche liberali, quando MacKinnon argomenta contro la neutralità del diritto, più che precorrere le strade del postmodernismo, appare sviluppare le sue premesse conflittualiste. La sua critica al diritto non è tuttavia mai totalizzante, non conduce al ritiro, al ripiegamento su una differenza femminile, estranea all’ambito della giuridicità, ma serve ad andare avanti, a riscrivere le norme e a reinterpretare i princìpi. Il diritto è un’arma che le donne devono imparare ad usare. Nel saggio Differenza e dominio MacKinnon riprende il tradizionale confronto tra l’approccio dell’identità e quello della differenza. Se il primo ha dei limiti manifestatisi da tempo, anche il secondo non si sottrae alla sua critica: il primo per uniformarsi, il secondo per distinguersi, hanno – sottolinea – quale riferimento comune il modello maschile. Sul piano giuridico neutralità di genere e speciale protezione, benché si propongano come strategie contrapposte, hanno uno stesso referente: la mascolinità. All’approccio identità/ differenza, cui comunque riconosce grandi meriti, propone di affiancare un approccio critico fondato sul dominio. Un approccio «più giurisprudenziale che definitorio», che si concentri sugli abusi legati alla differenza sessuale, e, accomunando violenze, sfruttamenti e discriminazioni, consideri fatti, pratiche e norme non soltanto co-

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me violenze ad alcune donne, ma anche come elementi di un sistema complessivo di diseguaglianza. Per riformulare il diritto, soprattutto se in via giurisprudenziale, prima che con le norme bisogna confrontarsi con i princìpi. Magistrale è il percorso argomentativo con cui, nel saggio Privacy vs eguaglianza, affronta la giurisprudenza statunitense sull’interruzione di gravidanza. La nota sentenza Roe vs Wade – che ha dichiarato non perseguibile la scelta femminile di abortire in nome del diritto alla privacy – insieme a quella Harris vs MacRae – che ha negato l’obbligatorietà del sostegno pubblico all’intervento di interruzione di gravidanza – costituiscono per MacKinnon un’ennesima affermazione del potere maschile sul corpo delle donne. Secondo la sentenza Roe vs Wade l’autolimitazione dello Stato nella sfera privata, e specificamente sessuale, porta ad astenersi dal condannare le scelte che ne conseguono. Essa ribadisce l’intangibilità della sfera privata, e cioè proprio quella sfera in cui si dispiega la violenza maschile e la sopraffazione sulle donne. Si tratta dunque di una sentenza che non è neutrale rispetto al genere, anzi «traduce l’ideologia della sfera privata nel diritto individuale della donna alla privacy per subordinare le esigenze collettive delle donne agli imperativi della supremazia maschile» (Privacy vs eguaglianza, v. infra p. 69). La liberazione dalla gravidanza che si raggiunge attraverso l’aborto e la contraccezione, presentata come una grande conquista femminile, diventa nella visione conflittualista di MacKinnon soprattutto una liberazione per l’aggressione sessuale maschile, un «favore che alcuni uomini fanno ad altri uomini», almeno fino a quando le donne non controlleranno la loro sessualità. La distinzione pubblico-privato ha un ruolo essenziale anche in un’altra battaglia condotta da MacKinnon insieme ad Andrea Dworkin: quella per ottenere il divieto di diffusione di immagini pornografiche che rappresentino la subordinazione femminile, l’«erotizzazione del dominio e della sottomissione». La dottrina che sottrae tutta la pornografia alle restrizioni dello Stato si fonda sulla protezione del Primo emendamento, ma ad essere protetta, secondo MacKinnon, non è la libertà d’espressione, quanto la libertà maschile di imporre alle donne la pornografia nel privato. In Non una questione morale MacKinnon si concentra sull’analisi della dottrina giuridica statunitense e sullo scarto tra dottrina dell’oscenità, determinata da parametri maschili, in nome della quale è

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limitata la pornografia, e dottrina dell’eguaglianza, in nome della quale dovrebbe essere limitata. Dal punto di vista dei princìpi costituzionali il divieto di un certo tipo di pornografia si fonda per MacKinnon sul principio d’eguaglianza e sulla libertà d’espressione femminile che andrebbe protetta non tanto nei confronti del potere dello Stato, quanto nei confronti del potere maschile. Dal punto di vista della dottrina giuridica la sua prospettiva richiede di abbandonare un modello di nesso causale lineare e atomistico a favore di una visione più pervasiva che vede il danno provocato dalla pornografia come un danno alle donne in quanto gruppo sociale. La pornografia infatti non è «soltanto parole», come vorrebbe la sua difesa in nome della libertà d’espressione, ma è costituita da atti espressivi performativi. Atti di potere che fanno male non solo alle donne singolarmente coinvolte, non solo alle vittime di reati sessuali, ma che – avallando una certa immagine di subordinazione femminile – hanno ripercussioni sociali che si traducono per tutte le donne in minor retribuzione, discriminazioni, violenze in casa ecc. La norma in quanto qualificazione giuridica di un atto ha una funzione essenziale nella visione di MacKinnon. A differenza di molta teoria femminista, affida al diritto un ruolo centrale nella trasformazione dei rapporti tra i sessi, perché ne vede la capacità di dare un nome ai comportamenti e attraverso quel nome di legittimarli o delegittimarli socialmente. La questione è quella, fondamentale sia sul piano di teoria sia su quello di politica del diritto, del rapporto tra diritto e trasformazione sociale. Nel saggio Molestie sessuali: i primi dieci anni in tribunale MacKinnon prende esplicitamente posizione. I comportamenti ora qualificabili come molestie sessuali, prima di una legge che li sanzionasse e desse loro un nome, non erano percepiti come lesioni. Sapere che qualcuno reagirà ad un atto, o anche solamente sapere che dovrebbe reagire, permette alle vittime di sentirsi tali, di sostituire alla percezione di un atto come normale la sua percezione come abuso, rendendolo non solo legalmente, ma anche socialmente illegittimo: «Specialmente quando fai parte di un gruppo subordinato, la tua definizione delle offese che subisci è potentemente influenzata dalla possibilità che ritieni di avere di indurre qualcuno a fare qualcosa in merito, compreso qualcosa di ufficiale. Si è realisti per necessità e a comandare è la voce della legge» (Molestie sessuali, p. 79). La nuova dottrina che propone MacKinnon ha il compito di sve-

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lare le derivazioni del dominio maschile, rielaborando le categorie giuridiche, in particolare modo quelle penalistiche, in modo da assumere il punto di vista delle vittime. Da questo punto di vista le molestie sono un’offesa. Da questo punto di vista la pornografia è una violazione di diritti. Da questo punto di vista si ha violenza sessuale anche quando non c’è costrizione fisica. Ciò che il punto di vista maschile considera accettazione volontaria nella gran parte dei casi non è tale, è invece violenza, che talvolta non è percepita come violenza neppure dalle stesse donne violate. Assumere il punto di vista della vittima non basta perché bisogna che la vittima abbia la capacità di sentirsi tale. È questo uno dei punti più problematici e discussi della posizione di MacKinnon, poiché può tradursi in una sottrazione di autonomia alle singole donne in nome di una visione collettiva del male (e del bene). Molestie, pornografia, violenze sessuali, stupro sono considerati come la manifestazione estrema della sessualità maschile. Dal punto di vista maschile il sesso comprende la violenza, considerata lecita se esercitata a certe condizioni che costituiscono per gli uomini la normalità. La qualificazione giuridica di un atto è dunque essenziale per la sua percezione sociale, per farlo emergere da una normalità che impedisce di vedere la lesione. Dunque «il diritto non è tutto, ma non è nemmeno niente» (Molestie sessuali, p. 93). Quest’approccio si ripropone anche sul piano del diritto internazionale, nel cui ambito MacKinnon si è più impegnata negli ultimi decenni. Dalla scena statunitense a quella mondiale il punto non cambia: la sessualità è l’ambito costante di violenza e oppressione delle donne. Allargare lo sguardo al di là dei confini nordamericani non fa che allargare il campo di battaglia mostrando conflitti ancor più sanguinosi. Il saggio La sessualità del genocidio mostra – anche attraverso crudi resoconti – come le violenze sessuali siano e siano sempre state uno strumento consolidato e «perfetto» di genocidio, inteso come «atti [...] commessi con l’intenzione di distruggere [...] un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso»4. Il diritto dunque non deve fare altro che prendere atto della realtà e se lo stupro è compiuto come atto di genocidio, renderlo giuridicamente un atto di genocidio. Genocidio è, secondo la definizione del diritto internazionale, quanto viene fatto a gruppi etnici, razziali, religiosi e nazionali «in quanto tali», ma è anche «ciò che è stato fatto alle donne ‘in quanto tali’ da tempo immemore» e che «viene fatto di norma alle donne

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ovunque, ogni giorno, sulla base del loro sesso». Le donne sono il più grande gruppo perseguitato, in quanto tale. Su questa base si fonda anche L’11 settembre delle donne, dove l’obiettivo di MacKinnon è il riconoscimento da parte del diritto internazionale del ginocidio, un genocidio che non conosce frontiere nazionali. Ciò significa collocarlo in uno stato di eccezionalità che permetta di predisporre norme e strumenti specifici che prescindono da confini e diritti nazionali, così come ha fatto l’Amministrazione Bush forzando il diritto internazionale per la lotta al terrorismo dopo l’11 settembre. Nei saggi più recenti MacKinnon adotta il lessico dei diritti umani, qualificando violenze e discriminazioni nei termini della loro violazione e il femminismo nei termini di una loro revisione e dell’affermazione di diritti delle donne. Benché ritenga che storicamente i diritti umani non siano mai stati diritti delle donne, né nella teoria, né nella realtà5, non rinuncia al loro potere legittimante e alla possibilità che offrono di dare nomi comuni alle persecuzioni, alle discriminazioni e alle violenze che subiscono le donne in tutto il mondo. Certo anche i diritti umani devono incorporare il punto di vista delle donne e diventare strumenti contro la loro oppressione. Uno snodo fondamentale in questa direzione è la revisione del loro antagonista rispetto alla tradizione liberale: i diritti delle donne vanno definiti, tutelati e promossi non tanto nei confronti dello Stato, quanto nei confronti delle famiglie e delle comunità, cioè dei poteri da cui primariamente proviene l’oppressione femminile6. I diritti umani svolgono tuttavia un’altra essenziale funzione nella prospettiva al contempo realista e, per così dire, performativa di MacKinnon. Nell’ultimo saggio qui pubblicato sono proprio i diritti umani ad essere contrapposti al postmodernismo, corrente teorica eterogenea, le cui affermazioni non sono soltanto inconsistenti, confuse, vaghe, copiate (spesso a partire dal femminismo), ma sono anche dannose e lo sono specialmente in quanto negano che si possa parlare di una realtà, o almeno ne distolgono l’attenzione. La realtà esiste, per MacKinnon, ed è una dura realtà di abuso, sfruttamento e discriminazione che le donne nel mondo, «indipendentemente da ciò che esse pensano», vivono in varie forme dall’infanzia alla vecchiaia. Le virgolette non l’alleggeriscono, la narrativa non ne elimina il dolore. Le donne hanno questo in comune, malgrado tutte le loro differenze, e il femminismo non presuppone nessuna

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cultura come privilegiata, semplicemente perché tutte sono dominate dal potere maschile: «Il potere maschile, in pratica, appare sempre sotto spoglie locali. Il fatto che siano locali non le rende migliori». Il postmodernismo, e una certa versione di multiculturalismo, ostacolano dunque la realizzazione dei diritti umani delle donne non perché ne mettono in discussione l’universalità, ma perché negano la realtà della loro violazione. La loro colpa è ancora più grande poiché intervengono proprio quando si sta avviando un cambiamento dello standard di umanità che inizia a comprendere le donne. Quando «includendo nel diritto civile e nel diritto umanitario ciò che viola le donne, il significato di ‘cittadino’ e ‘umano’ inizia ad avere un volto femminile» (Postmodernismo e diritti umani, p. 155). L’accesso effettivo delle donne ai diritti umani coincide con la revisione dello status di umanità. MacKinnon affida dunque al diritto, e in particolare al diritto internazionale, una grande responsabilità: contribuire a rendere le donne umane.

Le donne sono umane?

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Le donne sono umane?*

La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo definisce che cosa è un essere umano1. Nel 1948, essa disse al mondo ciò cui una persona, in quanto persona, ha diritto. Sono passati cinquant’anni. Le donne sono umane? Se noi donne fossimo umane, saremmo trasportate come merce pronta a essere venduta dalla Thailandia ai bordelli di New York2? Saremmo schiave sessuali, usate a fini riproduttivi? Saremmo allevate come bestie, costrette a lavorare per tutta la nostra vita senza essere pagate, bruciate nel caso i soldi della nostra dote non siano abbastanza, o nel caso gli uomini si stanchino di noi, fatte morire di fame quando i nostri mariti muoiono (se sopravviviamo alla loro pira funebre), vendute per sesso, perché non siamo apprezzate per nient’altro? Saremmo date in sposa ai sacerdoti, in cambio di denaro per espiare i peccati della nostra famiglia, o per migliorarne le prospettive terrene? Nel caso ci fosse concesso di lavorare dietro retribuzione, saremmo costrette a svolgere i lavori più umili e saremmo sfruttate fino al punto di essere ridotte alla fame? I nostri genitali sarebbero tagliuzzati per «purificarci» (le membra dei nostri corpi sono impure?), per controllarci, per marcarci e per definire le nostre culture? Saremmo smerciate come cose destinate all’uso e all’intrattenimento sessuale, in tutto il mondo, e in qualunque forma resa

* Questo contributo è stato pubblicato per la prima volta in Barend van der Heijden e Bahia Tahzib-Lie (a cura di), Reflections on the Universal Declaration of Human Rights. A Fiftieth Anniversary Anthology, The Hague-Boston-Cambridge, Mass., 1999, pp. 171 sgg.

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possibile dall’attuale tecnologia3? Ci sarebbe impedito di imparare a leggere e a scrivere4? Se noi donne fossimo umane, avremmo così poca voce in capitolo nelle decisioni pubbliche e nel governo dei paesi in cui viviamo5? Saremmo nascoste dietro a veli e imprigionate nelle case, ci lapiderebbero o ci sparerebbero, perché ci rifiutiamo? Saremmo picchiate a morte, o quasi, dagli uomini con i quali siamo intime? Saremmo sessualmente molestate all’interno delle nostre famiglie? Saremmo stuprate durante i genocidi per terrorizzare, espellere e distruggere le nostre comunità etniche, o stuprate durante la guerra non dichiarata che si svolge ogni giorno e in ogni paese del mondo nel cosiddetto tempo di pace6? Se le donne fossero umane, la nostra violazione sarebbe goduta dai nostri violatori? E, se fossimo umane, e queste cose accadessero, non ci sarebbe praticamente nulla da fare in proposito? Ci vuole un bel po’ d’immaginazione – e un’attenzione risolutamente concentrata sulle eccezioni privilegiate – per vedere una donna reale dietro alle maestose garanzie di «ciò cui ognuno ha diritto». Dopo più di mezzo secolo, quale parte di «ognuno» significa noi? L’altisonante linguaggio dell’articolo 1 incoraggia ad agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Dobbiamo essere uomini perché questo spirito ci includa? Ma forse questa è un’interpretazione troppo letterale. Se tutti dovessimo comportarci, gli uni verso gli altri, in spirito di sorellanza, gli uomini capirebbero che questo riguarda anche loro? L’articolo 23 prevede, in modo incoraggiante, un’adeguata retribuzione per chiunque lavori. E continua affermando che questo assicura una vita umanamente dignitosa per lui e per la sua famiglia. Le donne non sono pagate per il lavoro che svolgono all’interno delle loro famiglie: perché non sono ognuno, o perché ciò che fanno per le loro famiglie non è lavoro o, più semplicemente, perché noi non siamo lui? Le donne non hanno famiglie o le donne non possono avere una famiglia senza un lui? Se quel qualcuno che non è pagato affatto, o che è pagato molto meno rispetto alla giusta e favorevole remunerazione garantita, è quella stessa qualcuna che, nella vita reale, è spesso responsabile per il sostentamento della sua famiglia, quando è privata della possibilità di assicurare alla sua famiglia una vita umanamente dignitosa, non è umana? E ora che, a partire dalla promulgazione della Dichiarazione universale, ognuno ha ottenuto il diritto di partecipare al governo del proprio paese, perché la maggior parte dei governi sono gestiti degli uomini? Le

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donne rimangono in silenzio nelle stanze del potere perché non abbiamo una voce umana? Un documento che adotta misure specifiche per la formazione dei sindacati, e a favore di ferie periodiche e retribuite, avrebbe potuto appellarsi alla specificità delle donne non soltanto per fare riferimento, ogni tanto, alla maternità, che tutto sommato è più riverita che tutelata. Se le donne fossero umane, la violenza domestica, l’abuso sessuale dalla nascita alla morte, prostituzione e pornografia incluse, e la sistematica denigrazione e reificazione sessuale delle donne e delle ragazze sarebbero state semplicemente omesse dal linguaggio ufficiale di questo documento? Certo, la discriminazione sessuale è proibita. Ma come è possibile che sia stata proibita per tutto questo tempo, anche se solo come aspirazione, e che, ciononostante, tutte queste condizioni non siano state ancora concretamente immaginate come parte integrante di ciò cui ha diritto un essere umano, proprio in quanto umano? Perché il diritto delle donne di vedere la fine di queste condizioni è tuttora apertamente dibattuto sulla base di diritti culturali, diritti di espressione, diritti religiosi, libertà sessuale, libero mercato – come se le donne non fossero altro che significanti sociali, discorsi da ruffiani, feticci sacri o sessuali, risorse naturali, beni di consumo, tutto tranne che esseri umani? Le omissioni della Dichiarazione universale non sono semplicemente semantiche. Essere una donna «non è ancora il nome di un modo di umanità»7, nemmeno in questo che è il più visionario tra i documenti sui diritti umani. Se misuriamo la realtà della situazione delle donne in tutta la sua varietà sulla base delle garanzie della Dichiarazione universale – anche se la maggior parte degli uomini non fa nemmeno questo – è molto difficile intravvedere, nella sua visione dell’umanità, il volto di una donna. Le donne hanno bisogno di un pieno stato umano nella realtà sociale. Perciò, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo deve interpretare le modalità attraverso cui le donne sono deprivate dei diritti umani come una deprivazione di umanità. Affinché il glorioso sogno contenuto nella Dichiarazione universale si avveri, affinché i diritti umani siano davvero universali, sia la realtà che essa sfida, sia gli standard che essa afferma devono essere cambiati. Quando le donne saranno umane? Quando?

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Questo convegno, per quanto ampia sia la sua ispirazione, sofisticata la concezione, impeccabile l’organizzazione ed elaborata l’articolazione, non mi pare sia stato strutturato in modo da potenziare il dibattito. La discussione è soltanto intermittente. Quelli di noi che salgono sul palco tengono il cosiddetto discorso, che in realtà viene letto. Lo consideriamo un work in progress, mentre nella maggior parte dei casi si tratta di lavori che hanno già una veste definitiva. Poi voi intervenite con le cosiddette domande, che però sono per lo più delle asserzioni. L’evento si presenta come se fosse un dialogo, ma si svolge piuttosto in una serie lineare di discorsi. Veniamo presentati come se fossimo impegnati in un processo, quando di fatto siamo qui per realizzare un prodotto. Siamo coinvolti in un ciclo di produzione e consumo il cui ricavato sarà il libro che raccoglierà gli atti. La vostra partecipazione silente al dialogo fa sì che la nostra suoni come un applauso a una mano sola. E penso che sia un applauso sinistro per chiunque abbia una formazione di sinistra. Se può servire, a seguito di queste considerazioni ho intenzione di parlare e non di leggere quello che ho scritto. Suppongo che quanto dirò si qualificherà comunque come un testo. All’inizio farò riferimento ad alcuni miei lavori già pubblicati. In questo modo mi sarà più facile esporre in modo conciso i termini principali di quella che, come deduco dalle reazioni della gente ai miei scritti, è una questione piuttosto complessa. Il tema diventerà un po’ più fruibile

* Questo discorso è stato pronunciato in occasione della conferenza sul marxismo e l’interpretazione della cultura, tenutasi l’11 luglio 1983 presso l’università dell’Illinois, a Champaign-Urbana.

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se affrontato nei punti essenziali. Vi chiedo anche di intervenire. Considererò le vostre «interruzioni» come segno di partecipazione. Mi hanno detto che posso sentirvi anche senza che usiate quei microfoni fallici. Dico tutto questo ora perché una volta che avrò cominciato potrebbe non essere così chiaro che ci sia spazio per i vostri interventi. Quello che vorrei faceste è alzare la mano o dire «Faccia un esempio» o «Ripeta lo stesso concetto con altre parole» oppure «Avanti, che differenza fa?». Pubblico: Non è così semplice riuscirci. C.M.: Lo so. Grazie. Le buone maniere sono spesso prese più sul serio della politica. E anche questa è una questione politica. Avrei voluto che ci suddividessimo in piccoli gruppi dopo che Ellen Willis ha completato la sua critica, ma sono stata dissuasa dal farlo. Tuttavia posso riproporlo, se volete. Mi hanno detto che è importante che questo convegno sia reso accessibile alle persone che non possono essere presenti. Questo mi ha motivata. In altre parole, gli organizzatori vogliono registrare la nostra conversazione. Se ci disperdessimo in piccoli gruppi non sarebbe possibile. Pubblico: Ma non sarebbe la stessa conversazione. C.M.: È vero, sarebbe diversa. E per fare sì che in parte lo sia egualmente, voglio provare a fare riferimento, piuttosto che alla letteratura critica e ai dibattiti specialistici che hanno avuto luogo altrove e che sono stati già adeguatamente ripercorsi dai relatori che mi hanno preceduta, alle osservazioni che sono state sollevate nell’ambito di questo convegno e a utilizzarle per esemplificare gli snodi teorici che vi propongo. Penso di poter contare sul fatto che questo convegno sia un’esperienza condivisa dalla maggioranza di noi. Terrò conto delle discussioni avute con alcuni di voi, delle domande che avete formulato dalla platea e delle idee che sono state avanzate da questo palco. Mi interessa specialmente rivolgermi a chi di voi ha menzionato il mio lavoro senza sapere che ero seduta al tavolo vicino o nella fila di fronte. Con queste scelte espositive vorrei rendere, per quanto possibile, il mio intervento più dialogico e fruibile. Un’altra cosa a proposito della politica di questo convegno e del mio ruolo in questo contesto. Diamo ad intendere di voler cambiare le cose, ma parliamo in modo tale che nessuno ci comprende. Sappiamo che i dibattiti seguono la moda: attualmente vanno di moda certi discorsi, tra qualche anno ne andranno di moda altri, diversi da quelli di dieci anni fa.

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Siamo abbastanza consapevoli da non pensare che ciò dipenda da un mero avanzamento del sapere. Aderiamo a queste mode, ne siamo coinvolti, ma non le stabiliamo noi. Mi preoccupa in modo particolare il fatto che quando si «parla alla moda» di realtà complesse – e quanto abbiamo detto qui è di centrale importanza rispetto a problemi reali – spesso si hanno conversazioni altamente cifrate. Non soltanto unilaterali, ma cifrate. Quali sono i requisiti richiesti per accedere al più aggiornato cifrario? A volte penso a me stessa: MacKinnon, tu scrivi. Ma ti ricordi che la maggioranza degli analfabeti nel mondo sono donne? Che cosa fai? Me lo chiedo soprattutto quando penso alla ragione per cui siamo qui, al fatto che vogliamo realizzare i cambiamenti di cui parliamo. Quando biasimiamo qualcuno perché parla in gergo, tendenzialmente supponiamo che noi, invece, ci esprimiamo in modo chiaro e cristallino. Non è per sottrarmi a questa critica, ma per dire che questa critica mi sembra fondamentale per sviluppare una politica del linguaggio che sia tanto costruttiva quanto decostruttiva. Il mio intervento si divide in tre parti. Svilupperò la prima in forma di argomento, illustrando che cosa intendo per femminismo. Prenderò lo spunto dagli articoli che ho pubblicato su «Signs» e li discuterò con voi. Mi assumo il compito di definire il femminismo e invito tutti a fare lo stesso. Vorrei aprire un dibattito su che cosa significa femminismo, piuttosto che su chi crediamo di essere per poterlo definire. In altre parole, voglio parlare delle cose piuttosto che di chi abbia l’autorità di parlarne. Lo faccio nella consapevolezza critica che ognuna delle nostre biografie limita l’esperienza a partire dalla quale formuleremo tale definizione sostantiva; sapendo che nessuna di noi individualmente ha l’esperienza diretta di tutte le donne, ma che insieme ce l’abbiamo, dunque questa teoria deve essere costruita collettivamente. Siamo qui per impegnarci a farlo. Qui ed ora. Questa è la ragione per cui la struttura gerarchica di questo convegno rappresenta un problema. Che tipo di teoria può essere costruita in questo modo? Nella seconda parte del mio intervento proverò ad esaminare e approfondire alcune implicazioni dell’argomento che avrò inizialmente presentato in forma dichiarativa e sintetica. Sarò più discorsiva. Svilupperò le implicazioni che l’argomento iniziale ha rispetto ad alcuni nuclei concettuali centrali della teoria marxista, inclusa

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l’aspirazione ad una teoria unificata della diseguaglianza sociale, e le indirizzerò principalmente su questioni di metodo. Concluderò con quelle che considero alcune questioni urgenti della nostra agenda. Non che non ci siano altre questioni urgenti rimaste senza risposta, ma voglio concludere con problemi cui non mi sono ancora dedicata in modo adeguato. L’autorità che rivendico per parlarvi di queste cose deriva dal fatto che sono convinta di quello che dico. Non è per ficcarvi tutto in testa, ma per assumermi la responsabilità della mia posizione. Prima questione. Dal mio punto di vista la sessualità sta al femminismo come il lavoro sta al marxismo (chi di voi conosce i miei lavori sa che sto riprendendo il primo articolo che ho pubblicato sulla rivista «Signs»)1. Con questo intendo che sia la sessualità sia il lavoro riguardano ciò che è più proprio di ciascuno, ciò che più di ogni altra cosa rende ciascuno l’individuo a cui la teoria si rivolge e ciò che è in primo luogo annichilito da quanto la teoria vuole criticare. Secondo questa teoria siamo quello che siamo proprio in virtù di ciò che ci viene sottratto dalle relazioni sociali che esse criticano. Nella teoria marxista la società è descritta come costituita essenzialmente dalle relazioni che le persone intrattengono quando producono e realizzano quanto è necessario per sopravvivere decentemente. Il lavoro è il processo sociale di formazione e trasformazione del mondo materiale e del mondo sociale, il processo che costituisce gli individui come esseri sociali nella misura in cui le loro interazioni creano valore. La teoria interpreta il lavoro come l’attività che conferisce alle persone la loro identità sociale. La classe rappresenta la struttura sociale del loro lavoro, la produzione il processo, il capitale un prodotto compiuto. La questione principale, che la teoria marxista contesta e di cui noi ci interessiamo, è quella del controllo, che ha prodotto quelle relazioni che Marx, con i suoi scritti, ha tentato di modificare. Un argomento corrispondente è implicito nel femminismo. Dal mio punto di vista – noterete che identifico il mio punto di vista con il femminismo – tale argomento rileva il fatto che la formazione, l’orientamento e l’espressione della sessualità organizzano la società secondo la separazione dei sessi, donne e uomini. Questa divisione sottende la totalità delle relazioni sociali; è strutturale e pervasiva quanto lo è la classe nella teoria marxista, sebbene, ovviamente, la struttura e la qualità della pervasività siano differenti. La sessualità è il processo sociale che crea, organizza, esprime ed orienta il desiderio.

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Il desiderio, nella teoria femminista, corrisponde al valore nella teoria marxista: non si equivalgono, ma occupano una posizione teorica analoga. Si crede che il desiderio abbia un’essenza naturale o che sia un impulso presociale, mentre è in realtà il frutto delle relazioni sociali e, nello specifico, delle relazioni gerarchiche. Questo processo crea gli esseri sociali che conosciamo come donne e uomini allo stesso modo in cui le relazioni che essi intrattengono costituiscono la società. La sessualità per il femminismo, come il lavoro per il marxismo, è socialmente determinata e, allo stesso tempo, determinante. È un’attività universale, ma sempre storicamente definita, e coinvolge congiuntamente il corpo e la mente. Come la classe dei lavoratori è definita dall’espropriazione organizzata del lavoro di alcuni a vantaggio di altri, così il sesso femminile è determinato dall’espropriazione organizzata della sessualità di alcuni per il vantaggio di altri. Della sessualità, l’eterossessualità rappresenta la struttura predominante, il genere il processo sociale, la famiglia un prodotto compiuto; i ruoli sessuali sono le sue qualità genericamente applicate a due persone sociali e la riproduzione è una conseguenza (i teorici talvolta dimenticano che uno per riprodursi deve di solito avere avuto un rapporto sessuale). Il controllo è anche una questione di genere. In quest’analisi, sia il marxismo sia il femminismo sono teorie del potere e della sua distribuzione ineguale. Entrambe forniscono un resoconto di come un ordinamento (con «ordinamento» non intendo in alcun modo suggerire che esso sia scelto con l’eguale consenso di tutti) sociale sistematicamente diseguale sia internamente coerente, razionale e pervasivo, ma ingiusto. Entrambe sono teorie totali, cioè sono teorie della totalità, dell’intero, teorie del fondamento critico ed essenziale dell’intero che esse si figurano. Il problema della relazione tra la teoria marxista e la teoria femminista diventa allora quello di come entrambe possano essere vere allo stesso tempo. Nel tentativo di affrontare questo problema mi concentrerò sulla relazione tra questioni di potere e questioni di conoscenza, vale a dire sulla relazione tra la dimensione politica e quella epistemologica così come ognuna delle teorie le concepisce. Parlerò della teoria femminista del potere, della teoria femminista della conoscenza e delle conseguenze che esse implicano per una serie di questioni metodologiche marxiste. Dirò infine quale credo sia la relazione tra marxismo e femminismo. Per «politico» intendo qui questioni di potere. Secondo la teo-

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ria femminista del potere, la sessualità è connotata dal genere e al genere è attribuito un ruolo sessuale (a questo proposito si veda il mio secondo articolo pubblicato su «Signs»)2. In altre parole, il femminismo è una teoria di come l’erotizzazione del dominio e della sottomissione crea il genere, la donna e l’uomo nelle forme sociali in cui li conosciamo. Per questo, la differenza sessuale e la dinamica dominio-sottomissione si definiscono reciprocamente. Erotico è ciò che definisce il sesso come una diseguaglianza e quindi come una differenza significativa. Questo secondo me è il significato sociale della sessualità e la visione specificamente femminista della diseguaglianza di genere. La teoria femminista della conoscenza comincia assumendo la prospettiva di tutte le donne sulla vita sociale e prende le mosse dalla posizione critica secondo cui il punto di vista maschile sulla vita sociale ha costituito sia la vita sociale sia il tipo di conoscenza che di essa abbiamo. In altre parole, la teoria femminista della conoscenza è inestricabile dalla critica femminista del potere maschile perché la prospettiva maschile, per conoscere il mondo, si è imposta su di esso e continua a farlo. L’epistemologia risponde alla domanda: come si conosce? Che cosa vi fa credere che conoscete? Non indaga tanto sulle ragioni per cui io dovrei credere a voi, ma sulla vostra spiegazione del perché la vostra descrizione della realtà è una descrizione vera. Il contenuto della teoria femminista della conoscenza inizia con una critica del punto di vista maschile mettendo in discussione la posizione che nel pensiero politico occidentale ha assunto «colui che conosce». Si tratta della posizione neutrale, che chiamerò oggettività, vale a dire, il punto di osservazione non-situato e astratto. Io sostengo che, in società, questo coincida con il punto di vista maschile e voglio spiegare perché. Argomenterò che la relazione tra il punto di osservazione oggettivo, da cui il mondo viene conosciuto, e il mondo come in questo modo viene compreso è una relazione di reificazione. L’oggettività è la posizione epistemologica di cui la reificazione rappresenta il processo sociale, di cui il dominio maschile è politica e pratica sociale manifesta. Ovvero: guardare oggettivamente il mondo significa oggettivarlo. L’atto del controllo, di cui ciò che ho ora descritto rappresenta il livello epistemologico, è esso stesso erotizzato dalla supremazia maschile. In questo senso, dire che le donne sono oggetti sessuali è ridondante. Con la supremazia maschile la reificazione in chiave sessuale è ciò che definisce le donne come sessuali e come donne.

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Vorrei ora sviluppare alcune implicazioni di questa tesi. In primo luogo, che cosa è il genere; poi, che cos’è la sessualità; infine, in quale tipo di analisi consista questo femminismo – nello specifico, perché la reificazione è specificamente maschile. Farò una breve digressione sul tema del soggetto e dell’oggetto. Di seguito tratterò delle conseguenze che una fondazione teorica di questo tipo ha rispetto ai problemi della falsificabilità e dell’incertezza e discuterò del verbo «essere» nel dibattito femminista. Il genere qui è una questione di dominio, non di differenza. Le femministe hanno notato che le donne e gli uomini sono egualmente differenti, ma non egualmente potenti. Spiegare la subordinazione delle donne agli uomini, una condizione politica, non ha nulla a che fare con la differenza, in nessun senso fondamentale. Di conseguenza, dal momento che l’ideologia della differenza ha avuto un ruolo centrale nell’imposizione di questa subordinazione, essa ha molto a che fare con la differenza. In altre parole: ciò che noi conosciamo come differenza sessuale non esisterebbe – e tanto meno esisterebbe come questione sociale, tanto meno avrebbe il significato sociale che ha acquisito – se non fosse per il dominio maschile. A volte la gente mi chiede: «Significa che pensi non ci sia alcuna differenza tra donne e uomini?». L’unica risposta che so dare è: naturalmente esiste una differenza; la differenza è che gli uomini hanno potere e le donne no. Voglio semplicemente dire che gli uomini non sono dominanti per natura, né le donne sono subordinate per natura; il fatto che socialmente lo siano genera la differenza sessuale così come la conosciamo. Intendo suggerire che il significato sociale della differenza – e in essa includo la différance – si basa sul genere. Se pensate che io stia facendo solo della retorica, specificherò i fatti cui mi riferisco. Quando parlo di dominio maschile, lo intendo in senso concreto e fattuale. E i fatti hanno a che fare con la percentuale di stupri e tentati stupri delle donne americane, che ammonta al 44 per cento. Se si chiede ad un gruppo di donne scelto a caso se sono mai state stuprate o se sono state vittime di un tentativo di stupro, includendo anche gli stupri subiti dal marito, questi sono i numeri3. Circa il 4,5 per cento delle donne è vittima di incesto ad opera del padre e un altro 12 per cento ad opera di altri componenti maschili della famiglia, fino a raggiungere un totale del 43 per cento delle donne sotto i diciotto anni, se consideriamo gli abusi sessuali subiti sia all’interno sia all’esterno dell’ambiente familiare. Questi

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dati, d’altra parte, sono elaborati sulla base delle dichiarazioni delle donne e dunque dipendono dalla fiducia che a loro si accorda, fiducia che Freud non ha avuto. Sapete che la teoria dell’inconscio fu concepita per spiegare come le donne riuscissero ad inventare esperienze di abuso sessuale infantile, perché Freud, in fondo, non credeva che potessero avere avuto davvero luogo? Se chiedete alle donne se sono state molestate sessualmente negli ultimi due anni, circa il 15 per cento dichiarerà di aver subìto violenze molto gravi o addirittura fisiche; circa l’85 per cento di tutte le donne che lavorano riferirà di molestie sessuali subite nel corso della propria carriera. Quasi un quarto delle donne è vittima di percosse da parte di uomini in famiglia. Se passiamo ai dati sugli omicidi, tra il 60 per cento e il 70 per cento dei casi le donne assassinate sono state uccise dal marito, dall’amante o dall’ex amante. Lo stesso non vale per gli uomini assassinati (gli uomini molto spesso si uccidono anche tra di loro). Le donne americane, in una percentuale di circa il 12 per cento, sono prostitute o lo sono state. La prostituzione, insieme con la professione dell’indossatrice, è l’unica attività per cui si giudica che le donne debbano essere pagate – dagli uomini – più degli uomini. Anche se poi la maggior parte delle prostitute non avrà mai il denaro perché lo prende il magnaccia. L’industria pornografica, esemplare sintesi dell’erotizzazione del dominio e della sottomissione con lo scopo del profitto capitalistico, è valutata otto miliardi di dollari l’anno, con un numero di punti vendita superiore di tre o quattro volte a quello dei ristoranti McDonald’s4. Interpretare questi dati nei termini della «differenza sessuale» rinforza, oscurandoli, i fatti del potere maschile che, come documentato da quegli stessi dati, sono sistematici. In ogni caso, intendo la parola maschio come un aggettivo. L’analisi del sesso è sociale, non biologica. Non lo dico per assolvere alcuni uomini o per valorizzare tutte le donne, ma per fare riferimento alla prospettiva di chi compie le azioni violente che ho documentato, che le rende invisibili, divertenti, affascinanti e normali. Per maschi, dunque, intendo gli apologeti di questi dati; mi riferisco all’atteggiamento costitutivo di queste azioni, al modello che le ha normalizzate e le definisce come espressioni di mascolinità, al ruolo sessuale maschile, al modo in cui questo atteggiamento ha occultato il proprio genere ed è diventato «il» modello. Questo è ciò che intendo quando parlo del punto di vista maschile o del potere maschile. Gli uomini non hanno tutti eguale accesso al potere maschile, né potranno mai

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assumere completamente la prospettiva femminile. Se occasionalmente lo fanno, la pagano; e possono sempre rivendicare il potere maschile, che appartiene loro in automatico a meno che non venga coscientemente rinnegato. Anche una donna può assumere la prospettiva maschile o esercitare il potere maschile, sebbene rimanga sempre una donna. Il nostro accesso al potere maschile non è automatico come nel caso degli uomini; non siamo nate per questo né a tale scopo veniamo educate. Possiamo aspirarvi. Per esempio, io che sono qui in piedi e vi sto parlando: socialmente questo rappresenta una forma di esercizio del potere maschile. Sto occupando una posizione gerarchica, dominante e autoritaria. Voi ascoltate, io parlo; io sono attiva, voi passivi. Io mi esprimo; voi prendete appunti. Ci si aspetta che le donne siano guardate, non ascoltate. Pubblico: Non è gerarchico e dominante anche il rapporto tra madre e figlio? C.M.: In un certo senso sì, ma non si tratta esattamente della stessa cosa. Acquisisce alcuni aspetti gerarchici e autoritari con la supremazia maschile, che riunisce donne e bambini in una comune condizione di assenza di potere. In breve, non concordo con l’analisi Chodorow-Dinnerstein5 secondo cui il rapporto madre-figlio spiega il dominio maschile. Penso invece che sia solo in un contesto in cui il potere maschile esiste già che la relazione tra madre e figlio può essere caratterizzata come una relazione di potere, nel senso che può diventare un rapporto di orrore, angoscia, tradimento, crudeltà e, ciò che è cruciale, erotismo. Non credo che questa relazione sia il motivo per cui la supremazia maschile esiste. Pubblico: Ma non è questa la condizione in cui ci troviamo – il dominio maschile? C.M.: Certo il dominio maschile è realtà e io sto cercando di spiegarla. La relazione tra la madre e il figlio descritta in termini di dominio è una conseguenza della supremazia maschile, non la sua causa. Le cure materne non spiegano l’erotizzazione della gerarchia e nemmeno il fatto che essa sia basata sul genere. Non spiegano perché le femmine non crescano dominando altre donne. Se non fosse erotizzata dalla dominante sessualità maschile penso che la gerarchia non avrebbe il significato che ha, non esisterebbe laddove invece esiste, e tanto meno sarebbe legata al genere, e dunque alla madre, che è sempre una donna. Non credo che le cure materne siano una causa del dominio maschile; penso piuttosto che le donne e i bambini

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si trovino insieme in una condizione di assenza di potere, erotizzata dal dominio maschile. Pubblico: E il potere femminile? C.M.: Poiché penso che sia, socialmente parlando, una contraddizione in termini, riprenderò il filo del mio discorso; spero che diventerà chiaro perché penso che «potere femminile» sia un’espressione impropria. Se non mi seguite interrompetemi. Ora vorrei affrontare il tema della sessualità. Non interpreto la sessualità come un contenitore transculturale, come qualcosa di essenziale e storicamente immutabile, né come Eros. Definisco sessualità qualsiasi cosa sia erotizzata nell’ambito una data società. La sessualità è ciò che la sessualità significa. La mia prospettiva è politica ed ermeneutica. L’ermeneutica si occupa della questione del significato. In questo senso, la sessualità è essenzialmente un prodotto sociale e relazionale, non è una «cosa» – il che comunque non vuol dire che non sia materiale, nell’accezione femminista di materialità. Siccome la sessualità si presenta in forma di relazioni sotto l’influsso del dominio maschile, non sono le donne a stabilire i suoi principali significati. Nella società in cui viviamo il contenuto della sessualità è lo sguardo che rende le donne oggetto del piacere maschile. Attingo alla pornografia per la sua forma e il suo contenuto, per lo sguardo che erotizza ciò che è disprezzato, avvilito, reso accessibile, pronto all’uso, servile, infantile, passivo e animale. Ecco il contenuto della sessualità che definisce il genere femminile in questa cultura e la reificazione visiva è il suo metodo. Prima Michelle Barrett ha chiesto come mai le donne finiscono per volere ciò che non è nel loro interesse (sto riformulando, ma credo che questa fosse la sostanza della sua domanda). Penso che, almeno in questa cultura, il desiderio sessuale nelle donne sia socialmente costruito come desiderio del nostro auto-annientamento. La subordinazione è erotizzata nelle donne e come caratteristica femminile; infatti in una certa misura godiamo di questa subordinazione, seppure mai quanto ne godono gli uomini. Questa è la nostra posta in gioco all’interno del sistema e non va a nostro vantaggio; questa è la nostra posta in gioco all’interno del sistema e ci sta uccidendo. Sto dicendo che interpretiamo la femminilità come il modo in cui finiamo per desiderare il dominio maschile, che meno di ogni altra cosa è nel nostro interesse. Tale critica della complicità non deriva da una teoria individualistica.

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Il tipo di analisi che sostanzia questo genere di femminismo – segnatamente, il criterio in virtù del quale viene accettato come valido – in gran parte dipende dai criteri di adeguatezza adottati in una teoria. Se il femminismo è una critica del punto di osservazione oggettivo in quanto punto di vista maschile, allora rifiutiamo anche le tradizionali norme scientifiche come criteri di adeguatezza della nostra teoria, nella misura in cui la prospettiva scientifica coincide con il punto di osservazione oggettivo che critichiamo. In altre parole: la nostra critica del punto di osservazione oggettivo in quanto maschile è una critica della scienza in quanto approccio specificamente maschile alla conoscenza. Con ciò rifiutiamo i criteri maschili di verifica. E nemmeno ricerchiamo la verità nella controparte femminile di questo approccio perché anch’essa è stata plasmata dal potere maschile. Non glorifichiamo l’elemento soggettivo. Iniziamo col ricercare la verità del genere e nel genere, che ha prodotto tutto questo. Perché la prospettiva oggettiva è specificamente maschile? Prima di tutto, noti a chiunque sono la specificità sociale, la particolarità, il carattere socialmente situato del pensiero. L’essere socialmente situato del pensiero si esprime attraverso i concetti che le persone elaborano per dare un senso alla propria condizione. O il genere è una condizione sociale oppure no. Se lo è, le teorie concepite da chi vive l’esperienza sociale degli uomini, più in particolare da chi non è cosciente del fatto che il genere sia una circostanza sociale specifica, saranno come minimo esposte all’eventualità di essere teorie maschili. Sarebbe difficile che non lo fossero, ci vorrebbero uno sforzo e una consapevolezza non indifferenti. Torno a dire: la mia non è una teoria biologica del genere, non penso che ogni forma espressiva di una persona biologicamente determinata nel proprio genere sia di conseguenza socialmente strutturata secondo il genere. Sto dicendo piuttosto che ci è familiare il fatto che le condizioni sociali modellano tanto il pensiero quanto la vita. E il genere è una condizione sociale oppure non lo è. Io credo che lo sia. Il punto di osservazione oggettivo può essere assunto solo da un soggetto. Questo è molto interessante sul piano verbale. Soltanto un soggetto riesce ad assumere la prospettiva oggettiva, lo sguardo limpido sull’oggetto, il punto di vista che non è un punto di vista. Un soggetto è un sé. Un oggetto è altro da quel sé. Chiunque si sia in qualche modo interessato al problema del genere, dopo aver letto Simone de Beauvoir, sa che, socialmente, gli uomini sono i soggetti

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e le donne sono altro, sono oggetti. Così chi ha l’accesso sociale a quel sé che assume la prospettiva cui è consentito essere oggettiva è un soggetto, è socialmente maschio. Quando prima abbiamo parlato di queste cose, David Kennedy mi ha detto che il soggetto oggettivo non deve essere necessariamente maschio e che dunque non capiva come mai si caratterizzasse secondo il genere. Potrebbe essere chiunque, ha detto. Beh, sì: ma io dico che, di fatto, non è chiunque; di fatto nel mondo si caratterizza secondo il genere. Se qualcosa, per caratterizzarsi secondo il genere, dovesse essere caratterizzato secondo il genere, chi di noi si impegna per un cambiamento sociale potrebbe fare le valige e andarsene... dove? Comunque rinunceremmo a modificare il genere. È ovvio che il soggetto oggettivo potrebbe essere chiunque. È il fatto che potrebbe esserlo ma non lo è, che dovrebbe esserlo ma non lo è, che lo rende un problema politico. Possiamo osservare che, nel linguaggio come nella vita, il maschio occupa sia la posizione neutrale sia la posizione maschile. Detto altrimenti, la neutralità dell’oggettività e quella della mascolinità sono linguisticamente coestese, mentre le donne occupano la posizione contrassegnata dal genere, diversa, eternamente femminile. Un’altra espressione della specificità sessuale dell’oggettività a livello sociale è il fatto che le donne siano state «natura». Vale a dire: gli uomini si sono distinti come conoscitori, come le menti, mentre le donne sono state l’oggetto da conoscere, la materia, ciò che deve essere controllato e assoggettato, ciò su cui si agisce. Naturalmente questo è un problema sociale; ma noi viviamo in società, non nel mondo naturale. In questo contesto, la questione della falsificabilità assume un altro aspetto. Una conseguenza del rifiuto, da parte delle donne, del modello positivistico della scienza è il rifiuto della teoria verificazionista basata sulla conta delle teste. Le verità strutturali sul significato del genere possono o meno produrre grandi numeri. Per esempio, dire che non sono solo le donne a vivere una certa esperienza, in risposta ad una descrizione dell’esperienza delle donne, significa suggerire che, perché qualcosa sia davvero caratteristico di un sesso, debba essere un attributo esclusivo di quel sesso. Analogamente, dire che non sono tutte le donne a vivere una certa esperienza, intendendo con ciò disconoscere la specificità sessuale, significa suggerire che, perché qualcosa sia caratteristico di un sesso, debba essere vero

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per il 100 per cento degli appartenenti a quel dato sesso. In entrambi i casi si tratta di criteri sessuali implicitamente biologici: unicità ed esclusività. Non importa che il sesso biologico non consista di due poli opposti e reciprocamente escludenti; questo rimane il modo in cui la biologia di genere viene ideologicamente concepita. Le assunzioni metodologiche hanno conseguenze politiche. Un risultato della nozione implicitamente biologica della specificità sessuale è che le differenze tra le donne (e si notino, di nuovo, le differenze), come, inevitabilmente, la razza e la classe sociale, sembrano indebolire il significato o addirittura la realtà del genere. Se dico che una certa cosa è vera per le donne e qualcuno replica che, tuttavia, essa non vale per tutte le donne, con ciò non intende tanto mettere in luce le caratteristiche che costituiscono la specificità sessuale di questa data cosa quanto indebolire la mia affermazione. Se il genere è una categoria sociale, allora coincide con il proprio significato sociale. Tutte le donne saranno colpite o meno dalla realtà del genere in vari modi, la totalità dei quali costituirà poi il significato di genere come categoria sociale. In altre parole, sottolineare che un’osservazione o un’esperienza non sono le stesse per tutte le donne prova soltanto che questa osservazione e questa esperienza non sono determinate su basi biologiche, bensì sulla base del genere. Allo stesso modo, dire che non sono solo le donne ad avere esperienza di una certa cosa – per esempio, lasciare intendere che siccome alcuni uomini vengono stuprati lo stupro non è un atto di dominio maschile – significa soltanto che lo status delle donne non è biologico. Anche gli uomini possono essere femminilizzati e sanno che ciò accade quando vengono stuprati. Il fatto che in alcuni casi anche i bianchi siano stati fatti schiavi non significa che la schiavitù dei neri non avesse matrici razziste. Il fatto che alcuni non-ebrei, come gli zingari o gli omosessuali, siano stati vittime della Shoah non rende la Shoah meno antisemita. Credo che ciò che sappiamo della riduzione dei neri in schiavitù – cioè il razzismo dei bianchi – e ciò che sappiamo della Shoah rendano impossibile presentare degli isolati, per quanto significativi, contro-esempi come se potessero minare il significato specifico delle atrocità subite da quei gruppi che venivano definiti dal fatto stesso di subirle. Il fatto che molti bianchi siano poveri non significa che la povertà dei neri non abbia nulla a che fare con il razzismo dei bianchi. Significa solo che le relazioni sociali non possono essere comprese nei termini di un’analogia con

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le macchine, con i corpi, con la termodinamica e nemmeno con la meccanica quantistica. Si è supposto che gli uomini che provano sentimenti simili a quelli espressi dalle donne, in quanto donne, potrebbero dirci qualcosa riguardo ai sentimenti indotti nelle persone dal trovarsi al gradino inferiore degli ordinamenti gerarchici. Per esempio, la precaria posizione sociale dello studente, per quanto temporanea, fa sì che molti uomini si sentano come in generale si sentono le donne, tranne per il fatto che gli uomini tendono a sentirsi così quando hanno perso una posizione migliore. Non c’è nulla che meglio della femminilità nobiliti l’indegnità facendone un’identità. Né è vero che le donne e gli uomini acquisiscono lo status di «studente» allo stesso modo. Le donne, in quanto donne, sono state messe a tacere: ci hanno detto che siamo stupide perché siamo donne, che i nostri pensieri sono banali perché siamo donne, che le esperienze che abbiamo vissuto come donne sono inesprimibili, che le donne non parlano in modo sensato; gli uomini si sono appropriati delle nostre idee e quelle idee sono poi improvvisamente diventate valide, persino creative. Alle donne, in quanto donne, è stata preclusa l’istruzione scolastica. Questo non vuol dire che siamo le uniche a cui l’educazione scolastica è stata preclusa, bensì che la storia specifica di quest’esclusione per noi in quanto donne ci conduce ad una struttura come quella di questo convegno – nel quale dal podio è pronunciato un discorso autorevole che il pubblico riceve in silenzio – che specialmente per noi è intimidatoria ed ha risonanze escludenti. Di fronte a quelli di voi che ieri lo hanno negato io affermo la specificità sessuale di questo aspetto della nostra esperienza qui. La prossima questione che intendo affrontare è quella metodologica dell’incertezza. Vorrei sapere cosa ne pensate voi, in particolare su questo punto. Sto cominciando a pensare che, siccome gli uomini esercitano il potere sulle donne, queste pervengono ad istanze epistemologiche strutturate in modo tale da illuminare piuttosto distintamente il modo in cui gli uomini si sono interrogati sul problema della indeterminatezza e della determinatezza. Prendiamo il problema: esiste la realtà e come faccio ad essere certo di conoscerla? Esiste un là, là? Come affrontiamo il dubbio cartesiano, aggiornato in chiave esistenzialista? Noi donne sappiamo bene che il mondo là fuori esiste. E lo sappiamo perché ci colpisce forte in faccia. Letteralmente. Veniamo stuprate, picchiate, sfruttate per produrre

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pornografia, descritte con la forza da un mondo che si sviluppa interamente fuori da noi. Non importa che cosa ne pensiamo, come cerchiamo di immaginarlo diverso da com’é, in una forma diversa, per poter farne parte: il mondo resta reale. Provateci. Il mondo esiste indipendentemente dalla nostra volontà. E ne siamo sicure, perché – nonostante tutto quello che facciamo – non riusciamo ad uscirne. Il potere maschile è per noi, e quindi è, un fatto di questo tipo. Per come la vedo io, il fine della scienza è stato quello di rimpiazzare l’opinione con la certezza, la religione e la fede con la materia empirica. La scienza sociale consegue tale fine lavorando in analogia con il mondo fisico: come si muovono le cose, così si muove la società. Con le leggi del movimento rende la società prevedibile e controllabile, o almeno prova a farlo. Comunque quest’analogia tra la società e il mondo fisico, che sta alla base dell’intero progetto della «scienza della società», che io considero specificamente maschile, non è mai stata esaminata approfonditamente per verificare se funziona. Noi donne, nell’ambito di questo progetto, per una scienza sociale implicitamente maschile, siamo state «mondo». Veniamo considerate come oggetti da conoscere, come parte di quel mondo che deve essere trasformato e controllato. Il dubbio cartesiano – l’angoscia circa il fatto che il mondo sia davvero lì, indipendentemente dalla nostra volontà o dalle nostre rappresentazioni; se posso dubitarne, forse il mondo non esiste – è un lusso che si può permettere chi occupa una posizione di potere, in virtù della quale può trasformare il mondo come pensa che sia o come vorrebbe che fosse. Questo, per la precisione, è il punto di vista maschile. Non è possibile individuare la differenza tra ciò che si pensa e il mondo com’è davvero, né stabilire che cosa venga prima, se la posizione in cui si pensa e in cui ci si trova è una posizione di potere sociale. Prendiamo come esempio la simulazione dell’orgasmo. Gli uomini temono che le donne simulino l’orgasmo. Consideriamo l’orgasmo femminile come esempio di qualcosa riguardo cui è possibile avere un dubbio cartesiano. «Come posso sapere» se lei è soddisfatta? Consideriamo ora il perché le donne simulano l’orgasmo, piuttosto che preoccuparci di quanto sia triste che gli uomini non sappiano farlo e che di conseguenza siano diseguali rispetto a noi. Scommetto che se avessimo noi il potere che hanno loro, imparerebbero. Voglio dire che il potere degli uomini di plasmare il mondo diventa in questo caso potere di indurci a plasmare il mondo dei loro

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rapporti sessuali con noi nella forma che desiderano. Vogliono che noi abbiamo un orgasmo; in tal modo sono dimostrate la loro virilità, la loro prestanza e la loro forza. Forniamo loro quest’immagine, che per noi sia vera o no. Ci facciamo addirittura coinvolgere. La nostra realtà è che fingere, vivere una vita intera di soddisfazione simulata, è per noi molto meno dannoso e pericoloso che pretendere da loro una soddisfazione reale. Dal loro punto di vista siamo «mondo» per la loro conoscenza del mondo. Il dubbio cartesiano si giustifica perfettamente: il potere che hanno di forzare le cose per rendere il mondo così come lo vogliono implica che si dovranno chiedere per sempre che cosa sta davvero succedendo là fuori. Il principio di indeterminazione di Heisenberg si avvicina a questa consapevolezza. Se si conosce il mondo è attraverso questo intervento, sollevando il velo, formulando osservazioni penetranti e analisi incisive... bene, l’assenza di potere sociale delle donne ci procura il problema opposto. Continueremo a chiederci se esiste qualcosa di diverso dalla realtà del mondo prodotto dagli uomini. Se esiste almeno una dimensione del mondo che corrisponda alla nostra volontà, al nostro pensiero. Le donne sono travolte dal dubbio, ma al nostro dubbio non è mai stata riconosciuta la credibilità di quello di Cartesio. Molto prima della nostra conoscenza, è la nostra realtà ad essere in dubbio. Per questo penso che l’indeterminatezza che si genera nella teoria discorsiva e nel testo sociale descriva qualcosa in cui, come genere, siamo situate in modo ineguale. Per chi non determina la realtà, la sua indeterminatezza e la sua mobilità sono molto meno evidenti. Il vostro mondo è molto determinato; è troppo stabile. Non può affatto essere in un modo o nell’altro. Vorrei ora dire qualcosa riguardo all’uso del verbo «essere» nella teoria femminista. Se l’analisi che vi ho proposto è giusta, essere realistici riguardo alla sessualità nel mondo sociale significa assumere il punto di vista maschile. Essere femministe significa assumere il punto di vista maschile con la consapevolezza critica di quello che si sta facendo. Questo spiega perché le analisi femministe siano spesso tacciate di replicare l’ideologia maschile, perché le femministe vengano definite «condiscendenti con le donne», mentre ciò che noi facciamo è descrivere e spiegare come le donne diventano oggetto di accondiscendenza. Dato che il potere maschile ha prodotto quel mondo cui si rivolge, quando è accurata, l’attenzione femminista, il nostro resoconto saprà cogliere quella realtà, descrivendola

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semplicemente e per la prima volta come specificamente maschile. Per esempio, gli uomini dicono che tutte le donne sono delle puttane. Noi sosteniamo che gli uomini hanno il potere di fare sì che questa diventi la nostra condizione essenziale. Così il femminismo rileva l’impossibilità di distinguere tra prostituzione, matrimonio e molestia sessuale. Vedete, una donna «è» quello che voi avete fatto «essere» le donne. Questo «è» la donna, come la pensano gli uomini. Hanno il potere di farlo; lo fanno – altrimenti il potere non avrebbe nessun significato. Si tratta di un «essere» molto empirico. Gli uomini definiscono le donne come esseri sessuali; il femminismo comprende che la femminilità «è» sessuale. Gli uomini vedono lo stupro come rapporto sessuale; le femministe sostengono che molti rapporti sessuali «sono» stupri. Gli uomini dicono che le donne desiderano essere degradate; le femministe considerano il masochismo femminile come il successo definitivo del dominio maschile, tanto che si stupiscono quando viene meno. Se il potere maschile rende il mondo come esso «è», teorizzare questa realtà richiede che essa sia rilevata al fine di essere sottoposta a critica e quindi a cambiamento. Le femministe dicono che le donne non sono individui. Replicare che invece lo «siamo» non ci renderà tali; anzi, metterà in ombra la necessità di cambiare le cose in modo da farci diventare tali. Replicare alla denuncia femminista che le donne non «sono» eguali dicendo «oh, tu pensi che le donne non siano eguali agli uomini» significa agire come se dire che «siamo» eguali fosse sufficiente a farci diventare eguali. Il risultato a cui invece tale replica ha condotto e tuttora conduce è la legittimazione dell’idea che già «siamo» eguali. Che questa vita come la viviamo ora sia per noi eguaglianza. Una replica del genere implica che lo scopo del discorso sia descrivere la realtà come vorremmo che fosse, come se già fosse tale, come se questo contribuisse a farla diventare tale. Può funzionare in un romanzo, ma non in una teoria. Piuttosto, se questa è la realtà non c’è bisogno di alcun cambiamento: questa è la libertà, questo è quello che scegliamo. Per quanto mi riguarda tale risposta è una negazione ed è il contrario del cambiamento. Vedo due correnti nel metodo marxista; non è monolitico. Una è la corrente più oggettivista, che pretende di assumere la posizione neutrale. L’altra, cui io mi richiamo, è più consapevole del fatto che il proprio punto di vista è necessariamente situato. Questa seconda corrente si propone di descrivere come pensiero il flusso della sto-

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ria e si autocomprende – in modo tipicamente lukacsiano – come riflessiva, parte di un processo in corso e ad esso, in qualche modo, inscindibilmente legata, necessariamente autocritica e grazie a ciò in grado di cogliere la verità dello stato delle cose. Si è spesso pensato che il femminismo comprenda l’orientamento del femminismo liberale, del femminismo radicale e del femminismo socialista. Troppo spesso il femminismo socialista o marxista ha applicato al problema delle donne il metodo marxista nella sua variante oggettivista e lo ha chiamato femminismo marxista. Il femminismo liberale ha applicato al problema delle donne la stessa forma di oggettivismo che il marxismo condivide con il liberalismo, risolvendosi in un’applicazione del liberalismo. Questo, specialmente quando si tratta di questioni relative alla sessualità, significa rimanere sostanzialmente legati alla visione da cui ci si vuole discostare, a causa della mascolinità dello statuto epistemologico che condividono. Quello che io chiamo femminismo include almeno quegli aspetti del femminismo radicale che rifiutano il determinismo biologico e adottano invece un approccio sociologico. Questo femminismo, da un punto di vista metodologico, è post-marxista. Rappresenta un tentativo di risolvere la relazione tra marxismo e femminismo sul piano del metodo. Metodologicamente, un’analisi post-marxista considera le donne come gruppo sociale e non in termini individualistici, naturalistici, idealistici, moralistici, volontaristici o armonicistici (in questi termini siamo già tutti eguali e a livello sociale viviamo una relazione tra i generi naturalmente armoniosa che necessita di essere riequilibrata solo marginalmente). Ho notato che per molti le concezioni liberali della sessualità, considerata in termini individualistici, naturalistici, idealistici, moralistici e volontaristici, possono tranquillamente coesistere con prospettive marxiste. Invece io non credo che un femminismo degno di questo nome possa non essere metodologicamente post-marxista. Come esempio di femminismo post-marxista voglio soffermarmi sul problema, spesso sollevato, se «tutte le donne» siano oppresse dall’eterosessualità. Tale problema viene posto come se la pratica sessuale fosse una questione di scelte non condizionate. Se l’eterosessualità è la forma dominante, strutturata sul genere, della sessualità, in una società in cui il genere opprime le donne attraverso il sesso, sessualità ed eterosessualità sono essenzialmente la stessa cosa. Ciò non elimina il fenomeno dell’omosessualità; significa solo

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che anche in quella forma la sessualità potrebbe essere strutturata sul genere. L’eterosessualità sta alla base dell’oppressione delle donne oppure no. La maggior parte della gente pensa che la sessualità sia individuale, biologica e volontaria; la vede cioè nei termini della mitica struttura politicamente e formalmente liberale. Se applicassimo un’analisi del genere al tema del lavoro – e chiunque pensi che non sia un parallelo valido dovrebbe pensare a questo esempio particolarmente suggestivo – potremmo convenire sul fatto che, in analogia con quanto la gente dice circa l’eterosessualità, un lavoratore sceglie di lavorare? Un lavoratore può realmente scegliere la propria occupazione o il proprio luogo di lavoro? Se le condizioni di lavoro migliorassero, potremmo dire che il lavoratore non è oppresso? Se il mio lavoro è relativamente buono, semplice, soddisfacente o ben pagato, se addirittura mi piace, significa forse, da una prospettiva marxista, che il mio lavoro non è sfruttato? Chi pensa che, in condizioni che la rendono una scelta obbligata, l’eterosessualità sia comunque frutto di una scelta dovrebbe spiegare perché non è una scelta obbligata oppure perché può continuare ad aver senso usare il termine scelta. E vorrei che vi poneste un problema che, credo, pochi qui si porrebbero rispetto al posto di lavoro, al lavoro o ai lavoratori: se una buona scopata è di qualche compensazione per essere stati fottuti. E perché tutti capiscono cosa questo significa. Come produrre un cambiamento. Il marxismo insegna che lo sfruttamento e la degradazione in qualche modo generano resistenza e rivoluzione. È stato difficile spiegare perché. Quello che ho imparato dall’esperienza delle donne con la sessualità è che lo sfruttamento e la degradazione producono una forma di grata complicità, in cambio della sopravvivenza. Producono una ripugnanza di sé che conduce all’auto-annullamento, mentre è il rispetto per se stessi che rende concepibile la resistenza. Il problema non è perché le donne si adeguano, ma perché non facciamo altro che adeguarci. Vorrei che ci soffermassimo su questo punto in particolare, per trovare una spiegazione e per organizzarci. La seconda questione urgente ha a che fare con la classe e con la razza. Vorrei verificare alcune osservazioni sulla connessione tra la teoria della sessualità che ho delineato, le forme di possesso dei beni e di proprietà e l’erotizzazione della degradazione razziale e del denaro. Un terzo argomento scottante

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riguarda la relazione tra quello che ho detto e tutte le forme di ineguaglianza. Sto descrivendo una sola forma di ineguaglianza all’interno di un sistema più ampio oppure questo è il sistema, o ancora, mi sto ponendo una domanda troppo astratta? Sono convinta che il nostro lavoro non possa essere svolto nel modo in cui è stato svolto se quello che dico viene preso sul serio. Non possiamo parlare di estetica senza occuparci del problema della pornografia. Non possiamo riflettere sulla sessualità e sul desiderio senza prendere in considerazione la normalizzazione dello stupro – e non intendo lo stupro come eccesso di repressione. Non possiamo fare né criticare la scienza senza parlare della mascolinità delle sue premesse. Non possiamo parlare della vita quotidiana senza comprendere le divisioni operate sulla base del genere, né dell’egemonia senza considerare il dominio maschile come una delle sue forme. Non possiamo parlare di produzione senza fare luce sul fatto che la divisione sessuale, così come le molestie sessuali e la prostituzione (e i lavori domestici), costituiscono e consolidano il mercato del lavoro. Non possiamo parlare del fallo in un modo che cela il pene e non possiamo parlare della donna come significante in modo tale da perdere di vista la donna come significato. Abbiamo bisogno di capire in maniera sistematica, per poterla sottoporre a critica e cambiarla, invece che riprodurla, la connessione tra il fatto che i pochi hanno comandato e abusato dei molti nel proprio interesse e per il proprio piacere e profitto e il fatto che quei pochi sono stati uomini.

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In che cosa consiste una questione di genere? In che cosa consiste una questione di ineguaglianza? Entrambe le domande sottendono alle applicazioni del principio di eguaglianza alle questioni di genere, ma raramente vengono formulate in modo esplicito. Ritengo che si possa ricondurre al modo in cui il genere ha strutturato pensiero e percezione il fatto che la teoria giuridica e morale dominante tacitamente fornisca la medesima risposta ad entrambe le domande: si tratta di questioni di somiglianza** e differenza. La dottrina dominante sul diritto contro la discriminazione sessuale che ne deriva è, dal mio punto di vista, ampiamente responsabile del fatto che la legge sull’eguaglianza tra i sessi sia stata totalmente inefficace nel procurare a noi donne ciò di cui abbiamo bisogno e ciò che ci è socialmente impedito di ottenere sulla base di una condizione di nascita: l’opportunità di vivere una * Le occasioni che più meritano di essere ricordate nelle quali ho pronunciato una versione di questo discorso sono: il 24 ottobre 1984 alla Harvard Law School di Cambridge (Mass.); il 19 ottobre 1984 alla «Conference on the Moral Foundations of Civil Rights Policy» al Center for Philosophy and Public Policy dell’università del Maryland, College Park (Maryland); e la «James McCormick Mitchell Lecture» presso l’università statale della Buffalo Law School di Buffalo (New York), il 19 ottobre 1984. Ringrazio gli studenti della Harvard Law School per la loro reazione a tanti miei pensieri iniziali. **  Traduciamo con “somiglianza” il termine “sameness” utilizzato da MacKinnon in questo saggio e presente in tutto il dibattito femminista su “sameness”/ “difference”. Le alternative diffuse nelle traduzioni italiane (“eguaglianza” o “identità”) ci sono sembrate entrambe inadeguate: la prima perché si confonde con l’eguaglianza (“equality”) come principio normativo e la seconda perché in italiano si confonde con “identità” in quanto insieme delle caratteristiche che rendono un soggetto riconoscibile per quello che è (Nota delle curatrici).

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vita produttiva e ragionevolmente sicura, la possibilità di esprimerci e di auto-comprenderci, un minimo di rispetto e di dignità. Nel presente lavoro illustrerò la teoria dell’eguaglianza sessuale basata sull’opposizione somiglianza/differenza, mostrerò brevemente come tale teoria sostanzi il diritto e la politica contro la discriminazione sessuale e come sia la causa della loro inadeguatezza, e proporrò un’alternativa che potrebbe funzionare. L’approccio all’eguaglianza tra i sessi che è prevalente in politica, nel diritto e nella percezione sociale considera l’eguaglianza come un’equivalenza, non come una distinzione, e il sesso è una distinzione. Il mandato giuridico dell’eguale trattamento – che è sia una norma sistemica sia una dottrina giuridica specifica – si risolve nel trattare gli eguali in modo eguale e i diversi in modo diverso; e i sessi sono definiti in quanto tali dalla loro reciproca dissomiglianza. Detto altrimenti, sul piano epistemologico il genere è socialmente costituito come differenza; sul piano dottrinale la legge contro la discriminazione sessuale delimita l’eguaglianza di genere attraverso la differenza. Tra questa concezione dell’eguaglianza, che presuppone somiglianza, e questa concezione del sesso, che presuppone differenza, sussiste una tensione strutturale. L’eguaglianza tra i sessi viene così a essere una contraddizione in termini, una sorta di ossimoro, ed è forse questa la ragione per cui facciamo così fatica a realizzarla. Ad un’indagine più attenta, nell’ambito di questo approccio dominante, emergono due percorsi alternativi per l’eguaglianza delle donne, che approssimativamente corrispondono ai due poli della tensione. Il principale è: siate come gli uomini. Nella dottrina, questo percorso è indicato con il nome di neutralità di genere e, in filosofia, con il nome di standard unico. A testimonianza di come, nel diritto, la sostanza si converta in forma, questo canone è considerato eguaglianza formale. Poiché riflette l’ideologia della sfera sociale tale approccio viene considerato astratto, privo di sostanza; per la medesima ragione si ritiene non solo che esso non costituisca lo standard, ma che non sia neppure uno standard. Finora l’orientamento principale è quello di utilizzare l’espressione «eguale a» come equivalente all’espressione «lo stesso che» – senza specificare il referente di entrambi. Alle donne che vogliono l’eguaglianza, e tuttavia si sentono differenti, la dottrina fornisce un strada alternativa: siate diverse dagli

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uomini. Questo eguale riconoscimento della differenza in ambito giuridico è chiamato principio del beneficio speciale o della speciale protezione e in ambito filosofico doppio standard. È visto con qualche sospetto. Come la gravidanza, che sempre lo richiama, è in qualche modo un motivo di imbarazzo dottrinale. Considerato un’eccezione alla vera eguaglianza e niente affatto un principio giuridico, rappresenta l’unico luogo in cui il diritto contro la discriminazione sessuale ammette di riconoscere qualcosa di sostanziale. Si pensa che l’azione positiva abiti qui, insieme alla Bona Fide Occupational Qualification (BFOQ) – l’unica eccezione ammessa dal regime dell’Equal Rights Amendment fondata su una caratteristica fisica – alla legislazione compensativa e al risarcimento sensibile al sesso concesso in specifiche controversie1. La filosofia alla base dell’approccio della differenza è che il sesso è una differenza, una divisione, una distinzione, sotto la quale giace uno strato di comune identità umana. L’ambizione morale del versante dottrinario che assume a riferimento la somiglianza è conformare il diritto alla realtà empirica garantendo alle donne l’accesso a ciò cui gli uomini hanno accesso: nella misura in cui non siamo diverse dagli uomini meritiamo ciò che loro hanno. Il versante differenzialista, che è generalmente giudicato paternalistico, ma necessario se non si vuole cadere nell’assurdo, esiste per valorizzare, o per risarcire, le donne per ciò che sono o per ciò che sono diventate specificamente come donne (cioè, diversamente dagli uomini) nelle condizioni date. Non mi interessa quale di queste vie per l’eguaglianza tra i sessi sia preferibile nel lungo periodo o più appropriata rispetto ad un dato problema, sebbene gran parte del dibattito sulla discriminazione sessuale ruoti intorno a tale questione come se tutto si riducesse ad essa. Il mio punto è logicamente precedente: affrontare le questioni di eguaglianza tra i sessi come se fossero questioni di somiglianza e differenza significa già scegliere un approccio particolare. Lo definisco approccio della differenza perché è ossessionato dalla differenza sessuale. Il motivo principale della fuga musicale è «siamo simili, siamo simili, siamo simili». Il tema del contrappunto (in un registro più alto) è «ma siamo diversi, ma siamo diversi, ma siamo diversi». Sotto sotto la storia è: il primo giorno, fu differenza; il secondo, sulla base di questa differenza fu creata una distinzione; il terzo giorno, sono state sollevate irrazionali istanze di dominio. La distinzione

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può essere razionale o irrazionale. Il dominio può sembrare, o in effetti essere, giustificato. La differenza è. È una questione politica. Il modo effettivo in cui l’uomo è diventato misura di tutte le cose viene dissimulato. Sulla base dello standard di somiglianza, le donne vengono valutate in base alla corrispondenza con l’uomo, la nostra eguaglianza è giudicata in base alla nostra prossimità all’unità di misura maschile. Sulla base dello standard della differenza veniamo valutate in base alla mancanza di corrispondenza con l’uomo, il nostro essere donne è giudicato in base alla distanza rispetto all’unità di misura maschile. La neutralità di genere è dunque, semplicemente, il canone maschile e lo standard della speciale protezione è, semplicemente, quello femminile; ma non fatevi ingannare: la mascolinità, l’essere maschio, è il referente di entrambi. Pensateli come se fossero modelli di anatomia in una facoltà di medicina: il corpo umano è quello maschile; tutte le cose in più che caratterizzano il corpo femminile si studiano in ginecologia. Si tratta davvero di una situazione in cui il più diventa il meno. Affrontando la discriminazione sessuale in questo modo – come se ciò che è legato al sesso fosse questione di differenza e ciò che riguarda l’eguaglianza fosse questione di somiglianza – si forniscono al diritto due modi di vincolare le donne a uno standard maschile chiamandolo eguaglianza tra i sessi. Avendo giudicato molto severamente la risposta della differenza alle questioni dell’eguaglianza sessuale, riconosco comunque che solleva un problema davvero importante: come garantire alle donne l’accesso a tutto ciò che è stato loro precluso e, al contempo, come valorizzare tutto ciò che sono o che è stato loro consentito di diventare o che hanno sviluppato in conseguenza della lotta intrapresa per non essere escluse dalla maggior parte delle occupazioni della vita o per essere prese sul serio nei termini che ci è stato permesso essere i nostri termini. Mette in campo quello che siamo riuscite a fare rispetto agli uomini. L’espressione dottrinale più forte della sua idea di somiglianza, tradotta sul piano giuridico come la necessità di adeguare gli standard normativi alla realtà esistente, dovrebbe escludere di prendere in considerazione il genere in qualsiasi maniera. La sua convinzione ispiratrice è: siamo brave quanto voi. Qualsiasi cosa sappiate fare, sappiamo farla anche noi. Semplicemente, levatevi di mezzo. Devo ammettere che sono sinceramente affezio-

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nata a questo approccio. Ha procurato alle donne accesso al lavoro2 e all’istruzione3, alle occupazioni pubbliche, inclusa la carriera accademica4, professionale5, militare6 e al lavoro manuale7; ha reso loro possibile un accesso non formale all’atletica8. Ha contribuito a modificare l’idea che non fossimo capaci di fare nulla e ha dimostrato che la presunta impotenza fisica delle donne non era altro che il risultato di un allenamento molto duro alla passività e alla debolezza forzata. Talvolta viene da piangere a pensare che quella di ottenere il permesso di lavorare, di acquisire la dignità di svolgere mansioni di cui tante altre persone non volevano nemmeno sentir parlare sia dovuta diventare la missione di molte donne. La questione dell’inclusione delle donne nel servizio di leva9 ha mostrato tutta l’ingenua dignità e complessa equivocità della risposta della somiglianza al problema dell’eguaglianza sessuale. Come cittadina, dovrei rischiare di essere uccisa tanto quanto voi. Le conseguenze della mia resistenza a questo rischio dovrebbero contare come le vostre. La sostanza è: qual è il problema, non volete che impari ad uccidere... come sapete fare voi? A volte mi immagino questo dialogo tra donne nell’aldilà. La femminista dice alla soldatessa: «Abbiamo combattuto per la vostra eguaglianza». E la soldatessa risponde: «Oh, no, noi abbiamo combattuto per la vostra eguaglianza». Le femministe hanno la brutta abitudine di contare i corpi e di rifiutarsi di non notarne il genere. Nella misura in cui è stato applicato, il criterio di somiglianza ha per lo più assicurato agli uomini il beneficio di quelle poche cose che storicamente hanno avuto le donne – per quello che ci sono servite. Praticamente tutti i casi di discriminazione sessuale arrivati alla Corte Suprema e vinti sono stati sollevati da uomini10. Sotto il regime della neutralità di genere, la legge di custodia e divorzio è stata modificata e ha procurato agli uomini eguali possibilità di ottenere l’affidamento dei figli e gli alimenti11. Gli uomini spesso, secondo le regole della neutralità di genere, sembrano «genitori» migliori per quanto riguarda il reddito e la presenza di una famiglia nucleare perché fanno più soldi e (come dicono loro) avviano la costituzione di unità familiari12. Di fatto, la ragione per cui gli uomini vengono preferiti alle donne è che la società li avvantaggia prima che arrivino in tribunale e il diritto non può prendere in considerazione questa preferenza perché farlo significherebbe prendere in considerazione il genere. Alle realtà di gruppo che rendono le donne più bisognose degli alimenti non è

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riconosciuto alcun peso, perché contano solo i fattori individuali, considerati da un punto di vista neutrale rispetto al genere. Così il fatto che le donne vivranno la loro vita da individui come membri del gruppo donne, con le opportunità che hanno le donne in una società che discrimina sulla base del sesso, non conta nulla, oppure è discriminazione sessuale. Il principio di eguaglianza in questa forma mette in gioco l’idea che per ottenere qualcosa per le donne la si debba procurare agli uomini. Gli uomini ne hanno. E le donne? Ancora noi non abbiamo un eguale salario13 o un eguale tasso di occupazione14, tanto meno abbiamo un eguale salario per un’eguale occupazione15 e, grazie a questo approccio, siamo prossime a perdere territori separati come le scuole femminili16. Ecco il perché. Questo approccio non è altro che idealismo liberale che si parla addosso e non mette a fuoco la realtà dei fatti: in questa società per ognuna delle caratteristiche che distinguono gli uomini dalle donne esiste virtualmente una forma di compensazione. La fisiologia degli uomini qualifica la maggior parte degli sport17; le coperture assicurative sull’automobile e sulla vita sono plasmate sulle loro esigenze; le loro biografie, socialmente programmate, definiscono le aspettative e i modelli professionali di successo; sono le loro prospettive e preoccupazioni a determinare l’eccellenza scolastica, le loro esperienze e ossessioni definiscono il merito, la loro oggettivazione della vita definisce l’arte, il loro servizio militare la cittadinanza; è la loro presenza che qualifica la famiglia, la loro incapacità di andare d’accordo – le loro guerre e le loro regole di governo – definiscono la storia, la loro immagine maschile definisce dio e i loro genitali definiscono il sesso. Per ognuna delle caratteristiche che distinguono gli uomini dalle donne viene attuato ciò che equivale ad un programma di azione positiva, altrimenti noto come la struttura e i valori della società americana. Ma ogni volta che le donne, in base a questo standard, risultano «diverse» dagli uomini e pretendono che ciò non vada a loro svantaggio, ogni volta che una differenza viene sfruttata per mantenerle in seconda classe e loro si oppongono, il diritto sull’eguaglianza subisce uno sconvolgimento di paradigma e la dottrina entra in crisi. A quanto sembra, questa dottrina non intende ciò che ci capita come diseguaglianza sessuale. La legge contro la discriminazione sessuale che ne è derivata sembra voler contrastare solo quei modi della repressione che non si sono mascherati da differenza – auten-

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tica, imposta o immaginata che sia. Iniziamo con le differenze originarie: che cosa fare a proposito della capacità, che le donne hanno e gli uomini ancora no, di portare avanti una gravidanza. Questa è dunque una differenza. La dottrina della differenza sostiene che è discriminazione sessuale dare alle donne ciò di cui abbiamo bisogno, perché solo le donne ne hanno bisogno. Invece, non dare alle donne ciò di cui abbiamo bisogno non è discriminazione sessuale, perché in questo modo le donne soltanto non avranno ciò di cui abbiamo bisogno18. Passiamo alle differenze imposte: come affrontare il fatto che la maggior parte delle donne è segregata nell’ambito di impieghi sottopagati che non vengono svolti da uomini. Sospettando che la parità retributiva potrebbe sovvertire l’intera struttura del mercato, la dottrina della differenza afferma che, non essendoci un uomo a fissare uno standard rispetto a cui il trattamento delle donne rappresenti una deviazione, non si tratta di discriminazione sessuale, ma soltanto di differenza sessuale. Non importa che la ragione per la quale non c’è nessun uomo con cui istituire un paragone sia che nessun uomo farebbe quel lavoro, se potesse scegliere – e, naturalmente, un uomo, in quanto tale, può in effetti scegliere19. Passiamo ora alle conseguenze indirette della categoria delle differenze imposte, alla realtà di fatto. Nel caso della maggior parte delle occupazioni la persona, senza specificazione di genere, che viene giudicata qualificata non deve essere la principale responsabile di un bambino in età prescolastica20. Notare che ciò solleva una questione di carattere sessuale in una società in cui ci si aspetta che siano le donne a occuparsi dei bambini viene interpretato come il primo passo verso la strutturazione delle professioni sulla base del genere. Farlo sarebbe una violazione della regola che impedisce di dare rilievo alle differenze situazionali generate dalla differenza di genere. Di conseguenza, non emerge mai che il momento in cui si è tenuto conto del genere è stato quando il lavoro è stato strutturato in modo tale che la figura professionale qualificata non avesse responsabilità genitoriali. Ammetto invece che la dottrina è in grado di far fronte alle differenze sessuali immaginarie – come quelle tra candidati maschi e candidati femmine a ruoli dirigenziali o tra maschi che invecchiano e muoiono e femmine che invecchiano e muoiono21. Ammetto anche che ci sono molte differenze tra donne e uomini. Intendo dire, ci si può immaginare di promuovere metà di una popolazione, sminuire l’altra metà e produrre una popolazione di

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identici? Quello che il criterio di somiglianza non riesce a vedere è che le differenze degli uomini rispetto alle donne equivalgono alle differenze delle donne rispetto agli uomini. Qui c’è una eguaglianza. Ciononostante i sessi non sono socialmente eguali. L’approccio della differenza trascura il fatto che la gerarchia di potere produce differenze reali, oltre che immaginarie, e che queste differenze sono anche diseguaglianze. Ciò di cui l’approccio della differenza non si accorge è quanto Aristotele ha mancato di mettere in luce nella sua nozione empirista dell’eguaglianza come trattamento eguale per gli eguali e diverso per i diversi e che nessuno da allora ha mai messo in discussione. Perché devo essere come un uomo per ottenere ciò che lui ottiene semplicemente perché è un uomo? Perché l’essere maschio procura un titolo originario, incontestato sulla base del suo genere, tanto che sono le donne – donne che dell’ineguale trattamento vogliono fare un problema in un mondo che gli uomini hanno costruito a propria immagine (questo è, nello specifico, ciò che è sfuggito a Aristotele) – a dover dimostrare di essere in effetti, sotto ogni aspetto rilevante, uomini sfortunatamente scambiati per donne a causa di un accidente di nascita? Le donne avvantaggiate dalla neutralità di genere – alcune ce ne sono – illustrano i presupposti di questo approccio con il massimo rilievo. Si tratta prevalentemente di donne che sono riuscite, almeno sulla carta, a costruirsi una biografia che si approssima al modello maschile. Sono donne qualificate, quelle che meno sono vittime della discriminazione sessuale. Quando è loro negata un’opportunità che a un uomo è concessa, ciò viene chiaramente percepito come pregiudizio sessuale. Più la società diventa diseguale, meno a queste donne è consentito di esistere. Ne consegue che più la società diventa diseguale, meno è probabile che la dottrina della differenza sia in grado di farci qualcosa, perché la diseguaglianza di potere produce sia l’apparenza sia la realtà delle differenze sessuali nello stesso modo in cui produce le sue diseguaglianze sessuali. I benefici speciali promossi dall’approccio della differenza non hanno risarcito dello svantaggio di essere di seconda classe. La regola dei benefici speciali è l’unica dimensione della dottrina egualitaria dominante che ci consenta, per quanto solo apparentemente, di identificarci come donne senza che ciò implichi la rinuncia a qualsiasi pretesa di eguale trattamento. Grazie al doppio standard le donne che si trovano a ereditare qualcosa quando i mariti muoiono hanno ottenuto

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una piccola riduzione della tassa di successione, come conseguenza dell’eloquenza del giudice Douglas a proposito delle difficoltà economiche di tutte le donne22. Se dobbiamo essere stigmatizzate come diverse, sarebbe carino se ci fosse almeno compensazione per la disparità. Le donne hanno inoltre ottenuto, rispetto agli uomini, tre anni di tempo in più prima di dover essere promosse o espulse dalla gerarchia militare, come compensazione del fatto che il combattimento, cioè il modo tradizionale per salire di grado, è loro precluso23. Inoltre le donne non possono, nelle prigioni maschili, svolgere mansioni che implicano un contatto con i reclusi perché potrebbero essere violentate: la Corte si è espressa sulle opportunità di lavoro delle donne assumendo il punto di vista dello stupratore ragionevole24. Siamo anche protette escludendoci da molti lavori a causa della nostra fertilità. La ragione è che se un dato impiego comporta rischi per la salute, qualcuno che un giorno potrebbe essere una persona e che di conseguenza potrebbe intentare una causa – cioè un feto – rischia di subire dei danni se le donne, che apparentemente non sono persone e dunque non possono fare causa né per aver corso rischi per la propria salute né per la perdita di un’opportunità di lavoro, vengono assunte in ambiti lavorativi che sottopongono il loro corpo ad un possibile danno25. Escludere le donne è sempre un’opzione, qualora l’eguaglianza entri in tensione con una data professione. Non pensano mai di escludere gli uomini. Prendiamo il caso del combattimento26. Immaginarci là fuori, in una buca di appostamento o in trincea, in qualche modo svilisce la gloria e il cameratismo. Viene da pensare che abolirebbero il servizio di leva, che potrebbero addirittura non fare più la guerra piuttosto che doverla combattere con noi. Il doppio standard di queste regole non conferisce alle donne la stessa dignità dello standard unico e nemmeno, com’è il caso anche dello standard della differenza, sopprime il genere del proprio referente, che è ovviamente quello femminile. Devo confessare di essere un po’ affezionata a questo standard. Il lavoro di Carol Gilligan sulle differenze di genere nel ragionamento morale27 gli conferisce molta dignità, più di quanta ne abbia mai avuta; francamente più di quanta ho mai pensato che potesse avere. D’altra parte, in questo modo Gilligan realizza, con riguardo al ragionamento morale, quanto la regola della speciale protezione realizza nel diritto: la valutazione positiva piuttosto che quella negativa proprio di ciò che ha distinto le donne dagli uomini, facendo apparire queste caratteristiche, e le loro conseguenze, come davvero nostre, e non come ciò che

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la supremazia maschile ci ha ascritto per i propri scopi. Per le donne, affermare la differenza quando essa significa dominio, come accade nel caso del genere, significa rivendicare le proprietà e gli attributi dell’assenza di potere. Le donne hanno fatto delle cose buone ed è bene riconoscerle. Penso che le coperte trapuntate siano arte. Penso che le donne abbiano una storia. Penso che creiamo cultura. Però so anche che non solo siamo state escluse dal produrre ciò che è stato considerato arte, ma che i nostri artefatti non sono stati considerati in alcun modo nel processo di individuazione dei criteri in base ai quali l’arte è arte. D’accordo, le donne hanno una storia, ma è una storia sia di ciò che è stato loro consentito di essere sia di ciò che non lo è stato. Per questo sono critica rispetto all’affermare ciò che siamo state, che necessariamente è ciò che ci è stato permesso di essere, come se fosse un nostro, delle donne, patrimonio. Come se l’eguaglianza, nonostante tutto, esistesse già ineluttabilmente. Sono molto rigida su questo punto e lo sarò ancora di più. Non credo che il modo in cui le donne articolano il ragionamento morale sia moralità espressa «con voce diversa»28. Penso che sia piuttosto una moralità espressa in un registro di voce più alto, quello femminile. Le donne valorizzano la cura perché gli uomini ci hanno valorizzato in relazione alla cura che noi diamo loro e probabilmente potremmo trarne profitto. Le donne pensano in termini relazionali perché la nostra esistenza è definita in relazione agli uomini. Inoltre, quando sei impotente non parli semplicemente in modo diverso. Di fatto, non parli. Il discorso non è semplicemente articolato in modo diverso, è messo a tacere. Scartato, eliminato. Non sei solo deprivata di un linguaggio con il quale esprimere la tua particolarità; sei deprivata di una vita che generi capacità espressiva. Il non essere uditi non è soltanto un fattore dipendente dalla mancanza di riconoscimento, non deriva solo dal fatto che nessuno sappia come ascoltarti, sebbene sia anche questo; è il silenzio profondissimo, il silenzio di coloro a cui è impedito di avere qualcosa da dire. A volte è permanente. Sto dicendo che il danno procurato dal sessismo è reale e che reificarlo mascherandolo da differenza è un insulto alle nostre possibilità. Finché i problemi saranno inquadrati in questo modo, sembrerà sempre che le istanze egualitarie mirino ad ottenere eguaglianza nelle due forme: da una parte, di un trattamento eguale quando siamo eguali e, dall’altra, di un trattamento diverso quando siamo diverse.

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Ma questo è il modo in cui gli uomini ottengono eguaglianza: eguali e anche diversi. Ricevono un trattamento identico a quello delle donne quando sono e desiderano essere eguali a loro e diverso dalle donne quando sono e vogliono essere diversi da loro, cosa che di solito avviene. Eguali e anche diversi significherebbe solo parità29. Ma in una società a supremazia maschile, mentre ci dicono che otteniamo eguaglianza in entrambi i modi, sia perché ci fanno partire in vantaggio sia perché ci danno pari opportunità nella corsa, perché ci è concessa la capacità di essere donne e anche persone, poche donne traggono qualche beneficio da entrambi. C’è un approccio alternativo, che si fa strada nel diritto esistente e esprime, credo, la principale ragione per cui esiste il diritto dell’eguaglianza. Fornisce una seconda risposta, dissidente nel diritto e nella filosofia, sia alla questione dell’eguaglianza sia a quella del genere. Secondo questo approccio, una questione di eguaglianza è una questione di distribuzione di potere. Anche il genere è una questione di potere; nello specifico, di supremazia maschile e di subordinazione femminile. Il problema dell’eguaglianza, dal punto di vista di ciò che serve per ottenerla, è essenzialmente un problema di gerarchia, la quale – nella misura in cui è il potere a costituire la percezione e la realtà sociale – diventa di conseguenza una distinzione categoriale, una differenza. Nel primo giorno che conta è stata conquistata la posizione di dominio, probabilmente con la forza. Nel secondo giorno deve essere stata fissata in modo piuttosto rigido la conseguente divisione. Il terzo giorno, se non prima, le differenze sono state demarcate, insieme ai sistemi sociali che le hanno ingigantite nella percezione e di fatto, perché la distribuzione sistematicamente diseguale dei benefici e delle privazioni imponeva che non si commettessero errori riguardo all’individuazione di chi fosse chi. Relativamente parlando, gli uomini da allora si sono riposati. Il genere potrebbe anche non codificarsi come differenza, potrebbe non trasformarsi, sul piano epistemologico, in una distinzione, se non fosse per le sue conseguenze in termini di potere sociale. Chiamo questo approccio del dominio ed è sulla base di esso che critico la dottrina giuridica dominante. L’obiettivo di questo approccio dissidente non è fare sì che le categorie giuridiche corrispondano allo stato delle cose e lo riconfermino, né elaborare norme che si adeguino alla realtà. Esso critica la realtà. Il suo compito non

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è formulare modelli astratti che producano risultati determinati in casi specifici. Il suo progetto è più sostanziale; più giurisprudenziale che astrattamente definitorio ed è per questa ragione che il discorso dominante ha difficoltà a dargli dignità come approccio alla dottrina e a considerarlo come un principio giuridico. Esso si propone di esplicitare, per cambiarlo, ciò su cui le donne hanno avuto scarsa possibilità di scelta se non quella di adeguarvisi. L’approccio del dominio si concentra sugli abusi più strettamente legati alla differenza sessuale che le donne come genere hanno subìto, su quegli abusi che il diritto sull’eguaglianza sessuale nella sua veste differenzialista non ha saputo affrontare. Si basa su una realtà, della cui natura sistematica si è saputo ben poco prima del 1970, che rende più che mai necessaria una nuova concezione del problema della diseguaglianza sessuale. Questa nuova informazione non riguarda soltanto l’ampiezza del già noto fenomeno della povertà legata alla segregazione sessuale e la difficoltà di gestirlo, ma quell’insieme di questioni, finora sconosciute, denominate violenza contro le donne. L’approccio del dominio combina la disperazione materiale delle donne, derivante dall’essere relegate ad ambiti lavorativi non remunerativi, con l’altissimo tasso di stupri e tentati stupri (subiti dal 44 per cento delle donne) per cui non si è fatto praticamente nulla30; con le aggressioni sessuali dei bambini (il 38 per cento delle bambine e il 10 per cento dei bambini), che paiono essere endemiche nella famiglia patriarcale31; con le violenze domestiche, che si verificano sistematicamente in quasi un terzo delle nostre case32; con la prostituzione, che delle donne è la condizione economica principale, ciò a cui siamo costrette quando tutto il resto fallisce (e per molte donne, in questo paese, per tante donne tutto il resto spesso fallisce)33; con la pornografia, il traffico di carne femminile, che trasforma in sesso la diseguaglianza sessuale con un profitto di otto miliardi l’anno che va in gran parte a beneficio del crimine organizzato34. Questi elementi sono stati espunti dalla definizione differenzialista dell’eguaglianza sessuale principalmente a causa del fatto che riguardano esclusivamente le donne. Capite bene: per questa ragione si ritiene che essi non sollevino la questione dell’eguaglianza sessuale. Siccome sono trattamenti riservati quasi unicamente alle donne, implicitamente vengono trattati come una differenza, la differenza sessuale, quando siamo invece di fronte alla subordinazione

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socialmente situata delle donne. Il punto chiave del confinamento sociale delle donne come genere in una posizione di inferiorità sta proprio nel fatto che, nella gran parte dei casi, tutto ciò non riguarda gli uomini, i quali non vengono pagati la metà di quanto vengono pagate le donne per fare lo stesso lavoro sulla base della loro eguale differenza. Le cose che toccano non perdono di valore solo perché le hanno toccate. Quando subiscono delle percosse, si tratta di aggressione. Quando subiscono una violenza sessuale, questa non viene semplicemente tollerata, considerata divertente oppure difesa in nome della struttura necessaria della famiglia, del prezzo della civiltà o di un diritto costituzionalmente sancito. Questa differenza descrive la differenza sessuale? Forse sì. Di fatto descrive il sistematico confinamento di un intero gruppo di persone in una condizione di inferiorità e lo attribuisce alla loro natura. Se questa differenza fosse biologica, forse andrebbe considerato un intervento di tipo biologico. Se fosse evolutiva, forse gli uomini dovrebbero evolvere in modo diverso. Ma siccome penso che sia una differenza politica, ritengo che sia proprio questa politica a modellare la struttura profonda della società. Gli uomini che non violentano le donne non hanno niente che non va a livello ormonale. Gli uomini che sono disgustati dalla pornografia e che non eroticizzano la propria repulsione non sono sottosviluppati. Questa nostra condizione sociale, in cui possiamo essere usate e abusate, ridicolizzate e umiliate, comprate, vendute e scambiate, invitate a stare al nostro posto e costrette a sorridere come se tutto ciò ci piacesse, non è certo quello che alcune di noi intendono per eguaglianza sessuale. Questo secondo approccio – che non è astratto, che confligge con la realtà socialmente imposta e dunque non sembra uno standard, secondo lo standard degli standard – divenne il modello implicito di giustizia razziale che le corti applicavano negli anni Sessanta. Da allora è decaduto, mentre decadeva anche l’impegno della magistratura per l’eguaglianza razziale. Si fondava sulla consapevolezza che la condizione dei neri, nello specifico, non dipendesse da una diversificazione, razionale o irrazionale, operata sulla base della razza, bensì, essenzialmente, dalla supremazia dei bianchi, che aveva trasformato le differenze razziali in elementi discriminanti35. Al fine di considerare il genere secondo la medesima prospettiva, è bene ricordare che come le donne sono diverse dagli uomini, così anche gli uomini sono diversi dalle donne e che tuttavia i sessi non hanno

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lo stesso potere sul piano sociale. Essere sul gradino più alto di una gerarchia è certamente molto diverso che starne alla base, per quanto metterla su questo piano significhi di fatto sminuire la faccenda e confonderne i termini, dal momento che una gerarchia è qualcosa di più di una scala. Se il genere si riducesse a una questione di differenza, la diseguaglianza sessuale sarebbe soltanto un problema di sessismo, di diversità fraintese, di inaccurata categorizzazione degli individui. Questo è ciò cui pensa l’approccio della differenza e ciò cui è sensibile. Ma se il genere è prima di tutto diseguaglianza, strutturata come una distinzione socialmente rilevante allo scopo di venire conservata, allora le questioni di diseguaglianza sessuale sono questioni di dominio sistematico, di supremazia maschile, qualcosa che non è affatto astratto e non è per nulla un errore. Se la differenziazione operata tramite una classificazione è essa stessa discriminazione, così come la interpreta la dottrina della differenza, il ricorso al diritto per intervenire sulle diseguaglianze sociali basate sul gruppo di appartenenza diventa problematico, se non addirittura contradditorio. Questo perché il gruppo la cui situazione deve essere cambiata va necessariamente identificato e delineato giuridicamente, ma fare questo è considerato fondamentalmente in contrasto con le garanzie contro l’ineguaglianza giuridicamente sanzionata. Se ogni differenziazione è considerata come discriminazione, anche quando si tratta di azioni positive e di una modifica giuridica della diseguaglianza sociale, lo stesso non deve valere anche per le diversità sociali esistenti che si traducono in diseguaglianza? In altre parole, nella prospettiva che mette sullo stesso piano differenziazione e discriminazione cambiare uno status quo di diseguaglianza è discriminazione, ma permettere che esista non lo è. Uno sguardo reciproco dell’approccio del dominio su quello della differenza, e viceversa, può servire a far luce su alcuni punti di tensione che nel dibattito sull’eguaglianza sessuale rimangono altrimenti poco chiari. Dal punto di vista dell’approccio del dominio è evidente che l’approccio della differenza adotta, rispetto allo status dei sessi, la prospettiva della supremazia dei maschi. Dal momento che la realtà esistente viene assunta implicitamente e acriticamente come standard, l’approccio della differenza accetta le condizioni del dominio maschile. In questo senso esso è maschilista, per quanto possa essere espresso con voce femminile. L’approccio del dominio,

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invece, nella misura in cui guarda alle diseguaglianze sociali dal punto di vista della subordinazione delle donne, è femminista. Se osserviamo il mondo con le lenti dell’approccio della differenza, ma così come lo descrive l’approccio del dominio – ovvero: se cerchiamo di individuare le diseguaglianze reali da un punto di osservazione che rende difficile riconoscere la diseguaglianza in quanto tale se essa appare anche come differenza – siamo portati a considerare la richiesta di una redistribuzione del potere come una richiesta di speciale protezione. Questo perché gli unici strumenti offerti dal paradigma della differenza per comprendere la disparità rendono equivalente il riconoscimento di una linea di genere con l’ammissione di una mancanza di titolo all’eguaglianza giuridica. Dal momento che questo approccio affronta le questioni di eguaglianza principalmente in termini di corrispondenza empirica36 – vale a dire, con l’obiettivo di adeguare le norme giuridiche (implicitamente modellate sul canone maschile) alla realtà di fatto (anch’essa implicitamente modellata sul canone maschile) – per essere degni di eguale trattamento ogni differenza esistente deve essere negata. Tanto riguardo alla questione etnica quanto a quella di genere, per la dottrina dominante sulla discriminazione è essenziale impedire l’esistenza di una reale diversità tra eguali o di una reale eguaglianza tra diversi. Secondo l’approccio della differenza, da ciò segue che ogni tentativo di modificare il mondo com’è si configura come una questione morale che richiede un giudizio separato in merito a come le cose dovrebbero essere. Questo approccio si pone la seguente domanda disinteressata cui si può dare una risposta neutrale rispetto ai gruppi: per contrastare il peso, dovremmo trattare alcuni come se fossero eguali ad altri anche quando potrebbero non averne titolo perché non sono conformi allo standard? Poiché l’approccio del dominio smaschera questo modo di inquadrare il problema, che dunque dal suo punto di vista non viene sollevato, esso non considera morali i propri fondamenti. Se le diseguaglianze sessuali sono affrontate come questioni di status imposto, che è necessario cambiare se si vuole dare un senso al mandato giuridico a favore dell’eguaglianza, la questione se le donne dovrebbero essere trattate in modo ineguale significa semplicemente se le donne dovrebbero essere trattate come fossero di minor valore. Quando è esposta come una nuda e cruda questione di potere non c’è nessuna questione separabile su ciò che dovrebbe essere. L’unica vera questione è che cos’è e cosa non è una questione di genere. Se nessun

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tipo di differenza giustifica il fatto che le donne siano trattate come se fossero subumane, il diritto dell’eguaglianza deve servire ad impedire tale trattamento. In questo mutamento di paradigmi, le proposizioni sull’eguaglianza non riguardano più il bene o il male, bensì il potere e l’assenza di potere; non sono disinteressate nelle premesse che assumono o neutrali nelle conclusioni cui giungono più di quanto non lo siano i problemi che affrontano. C’è stato un momento nella storia del movimento per l’eguaglianza dei neri in questo paese in cui il problema della schiavitù non è più stato quello di cercare di giustificarla, ma di trovare il modo di abolirla. Le disparità razziali senz’altro esistevano, altrimenti il razzismo sarebbe stato inoffensivo, ma a un certo punto – non ancora raggiunto per quanto riguarda la questione sessuale – nessun tipo di differenza di gruppo ha più avuto importanza. Si tratta di quel punto in cui le caratteristiche del gruppo, incluse quelle empiriche, sono entrate a far parte di ciò che si reputa pienamente umano, piuttosto che rappresentare un’eccezione o comunque qualcosa di diverso rispetto a esso. Misurare in modo unilaterale le differenze di un gruppo su uno standard fissato da un altro incarna standard parziali. Il momento in cui le caratteristiche specifiche di qualcuno divengono parte del canone in base al quale si valuta l’umanità è di importanza epocale. Per riassumere: considerare questioni di eguaglianza sessuale nei termini di una classificazione, ragionevole o irragionevole che sia, è parte del modo in cui il dominio maschile si è espresso nel diritto. In virtù del mutamento di prospettiva che propongo, dal genere come differenza al genere come dominio, il genere si trasforma da distinzione presumibilmente valida in un danno che è presumibilmente sospetto. L’approccio della differenza tenta di rappresentare la realtà; l’approccio del dominio tenta di sfidarla e di cambiarla. Con l’approccio del dominio, la discriminazione sessuale cessa di essere una questione morale e diventa una questione politica. Potete chiedere se il vostro standard per misurare l’eguaglianza è la somiglianza, se la mia critica della gerarchia vi sembra una richiesta dissimulata di speciale protezione. Non lo è. Essa immagina un cambiamento che per la prima volta renderebbe possibile, semplicemente, un’eguale opportunità. Definire come differenza la realtà del sesso e come somiglianza la garanzia dell’eguaglianza è sbagliato in entrambi i sensi. Il sesso, in natura, non è un’opposizione di due

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poli, ma un continuum. È reso bipolare in società. Una volta che ciò è avvenuto, richiedere che qualcuno sia lo stesso di coloro che hanno fissato lo standard di riferimento – che sono anche coloro rispetto ai quali questo qualcuno è già socialmente definito come diverso – non significa altro se non concepire l’eguaglianza sessuale in modo tale da non realizzarla mai. Quelli che più di tutti avranno bisogno di un equo trattamento saranno socialmente i meno simili a coloro che sulla base della propria condizione fissano lo standard con cui misurare il diritto di ciascuno a ricevere l’equo trattamento. Per dirla in termini dottrinali: nei casi più gravi di diseguaglianza sessuale le donne non saranno riconosciute come «situate in modo simile»37 rispetto agli uomini. Tanto meno la pratica della diseguaglianza sessuale avrà bisogno, per essere giudicata in quanto tale, che gli atti compiuti siano intenzionalmente discriminatori38. Tutto ciò che si richiede è che si mantenga lo status quo. Come strategia per conservare il potere sociale, prima la realtà viene strutturata in modo ineguale, poi si richiede che il diritto di alterarla sia fondato sull’assenza di diversità situazionale; prima si influisce sulla percezione sociale in modo che diverso equivalga a inferiore, poi si stabilisce che la discriminazione, per essere tale, debba venire operata da menti malefiche che sanno di trattare da inferiori persone che sono eguali. Io dico: si dia alle donne un eguale potere nella vita sociale. Si faccia in modo che ciò che diciamo conti qualcosa e noi discuteremo di questioni morali. Toglieteci i piedi dal collo e sentiremo in che lingua parlano le donne. Finché l’eguaglianza sessuale è contenuta nei limiti della differenza sessuale, che piaccia o no, che la si apprezzi o che si tenti di negarla, che la si difenda come fondamento per il femminismo o che la si occupi come territorio della misoginia, le donne nasceranno, saranno umiliate e moriranno. Ci accontenteremmo di quella eguale protezione delle leggi grazie a cui una potrebbe nascere, vivere e morire in un paese in cui protezione non sia una parolaccia e eguaglianza non sia uno speciale privilegio.

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[...] Pornosez, la sottosezione del Reparto Finzione che produceva e distribuiva fra i prolet materiale pornografico di infimo livello. Quelli che ci lavoravano [...] la chiamavano «il letamaio». [...producevano] libretti – che venivano poi distribuiti in pacchi sigillati – con titoli come Racconti licenziosi o Una notte in un collegio femminile, che poi i giovani prolet avrebbero comprato di nascosto, con l’illusione di compiere un’azione illegale. George Orwell, 1984

Una critica della pornografia1 sta al femminismo come la sua difesa sta alla supremazia maschile. Giocando un ruolo centrale per l’istituzionalizzazione del dominio maschile, la pornografia non può essere emendata, soppressa o proibita. Può solo essere cambiata. La dottrina giuridica dell’oscenità, che rappresenta il modo più diretto in cui lo Stato ha affrontato la questione della pornografia, ha trasformato il Primo emendamento2 in un ostacolo a questo processo. * Questo discorso fu tenuto la prima volta al «Morality Colloquium» dell’università del Minnesota il 23 febbraio 1983. Le idee alla base sono state discusse anche alla «National Conference on Women and the Law», il 4 aprile 1983, e alla «Conference on Media Violence and Pornography» dell’Ontario Institute for Studies in Education, il 4 febbraio 1984. Il titolo (in originale: Not a Moral Issue) nasce da un gioco di parole su Not a Love Story, un film del 1983 contro la pornografia prodotto dalla Canadian Film Board.

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Ciò è in parte dovuto al fatto che gli avvocati dei pornografi hanno persuasivamente fondato la loro difesa sull’assolutismo del Primo emendamento3, presentandolo come un fatto giuridico, cosa che invece non è mai stata. Ma se la sono cavata così (e fino a questo punto) in parte perché l’astrattezza del concetto di oscenità, situato all’interno di un approccio egualmente astratto alla libertà di parola espresso dalla dottrina del Primo emendamento, ha reso le intenzioni espressive dei pornografi indistinguibili da quelle di chiunque altro, la loro libertà indistinguibile dalla nostra e ha fatto sì che ciò sembrasse credibile, condivisibile, necessario, inevitabile e fondato su principi4. Smascherare l’assenza di una critica del concetto di genere5 in quest’ambito della giurisprudenza significa mettere in luce sia il silenzio forzato delle donne sia i limiti del liberalismo. In questo breve commento preliminare mi concentrerò sullo standard di oscenità allo scopo di esaminare alcune delle più ampie implicazioni che una critica femminista della pornografia ha per la teoria del Primo emendamento. Questo è l’argomento. La legge sull’oscenità ha a che fare con la morale, segnatamente con la morale vista nella prospettiva maschile, ovvero dal punto di vista del dominio maschile. La critica femminista della pornografia rappresenta un approccio politico ed è specificamente elaborata dal punto di vista delle donne, ovvero dalla prospettiva della loro subordinazione agli uomini6. Moralità significa bene e male; politica significa potere e assenza di potere. L’oscenità è un’idea morale; la pornografia è una pratica politica. Quello di oscenità è un concetto astratto; la pornografia è reale. I due concetti rappresentano due cose completamente diverse. La nudità, l’impudicizia, l’eccesso di candore, l’eccitamento o l’eccitazione, la lascivia, l’innaturalezza – queste sono le caratteristiche di cui si interessa la legge sull’oscenità quando il sesso viene descritto o rappresentato. Sono stati inclusi anche l’aborto, la politica informativa per il controllo delle nascite e le cure per «recuperare la prestanza sessuale» (di chi, secondo voi?)7. Il sesso imposto a donne reali perché sia venduto con profitto per essere imposto ad altre donne reali; corpi di donna legati, mutilati, stuprati e resi oggetti da maltrattare, da procurarsi e da violentare e il fatto che tutto ciò sia presentato come la natura delle donne; la coercizione visibile e quella che è diventata invisibile – di queste e di molte altre cose si occupano le femministe quando si tratta di pornografia. L’oscenità in quanto tale probabilmente non è così dannosa8; la pornografia,

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invece, provoca atteggiamenti e comportamenti violenti e discriminatori che caratterizzano la condizione di metà della popolazione e il trattamento a essa riservato9. Per chiarire meglio le conseguenze giuridiche e filosofiche di questa distinzione ripercorrerò la critica femminista della pornografia, criticherò in quest’ottica la legge sull’oscenità e discuterò infine la posizione critica secondo cui la pornografia «de-umanizza» le donne per differenziare la morale maschile del liberalismo e della legge sull’oscenità dalla critica politica femminista della pornografia10. Quest’indagine fa parte di un progetto più ampio, che vorrebbe dar conto della diseguaglianza di genere nel contesto della relazione socialmente costituita tra il potere – la politica – da una parte e la conoscenza della verità e della realtà – l’epistemologia – dall’altra11. Per esempio, la candida descrizione che il giudice Stewart una volta ha dato del criterio con cui valuta l’oscenità, «la riconosco quando la vedo»12, rivela molto più di quanto di solito si pensa se la si considera come un’affermazione che collega l’epistemologia al potere. Se mi chiedo, dal punto di vista dell’esperienza delle donne, se lui riconosce ciò che riconosco io quando vedo quello che vedo, scopro di dubitare che sia così, considerato quanto compare sui giornali. Come fa il suo punto di vista a mantenere là quello che è là? Per i critici liberali, l’ammissione del giudice Stewart ha rivelato la relatività, la parzialità e l’insufficiente astrattezza dello standard di oscenità. Non essere vacuamente universali e mostrare la propria concretezza per gli uomini è un peccato. Il loro problema con la formulazione del giudice Stewart è che essa implica che qualsiasi cosa potrebbe essere arbitrariamente soppressa. Hanno ragione solo per metà. Il mio problema riguarda più l’altra metà: riguarda il significato di quello che il suo modo di vedere autorizza e che si rivela tutt’altro che arbitrario. Anzi, è perfettamente sistematico e determinato. Trovo che la sua affermazione sia precisamente descrittiva e accurata; è stata la sua ingenuità ad attirare così tante critiche13. Il giudice Stewart è finito nei guai perché ha detto a voce alta quello che sempre succede; e nel far ciò, da una parte lo ha fatto succedere e, dall’altra, gli ha dato uno statuto dottrinale, anche se solo nella forma di una dichiarazione. Vale a dire che lo standard di oscenità – e non solo esso – è misurato sui parametri fissati dalla prospettiva maschile. La mia tesi è che lo stesso vale per la pornografia. In questo modo la legge sull’oscenità

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riproduce il punto di vista pornografico sulle donne al livello della giurisprudenza costituzionale. Per il pensiero femminista la pornografia è una forma di sesso coatto, una pratica di politica sessuale, un’istituzione dell’ineguaglianza di genere. In questo senso la pornografia non è una fantasia innocua o il travisamento alterato e confuso di una sessualità altrimenti sana e naturale. Insieme allo stupro e alla prostituzione, di cui partecipa, la pornografia istituzionalizza la sessualità della supremazia maschile, che fonde l’erotizzazione del dominio e della sottomissione con la costruzione sociale del maschio e della femmina14. Il genere è sessuale e la pornografia rappresenta il significato di questa sessualità. Gli uomini trattano le donne in conseguenza di come le vedono; la pornografia li induce a vederle in un certo modo. Il potere degli uomini sulle donne implica che il modo maschile di vederle definisca il loro modo di essere. La pornografia è il modo maschile di vedere le donne. Nella pornografia le donne desiderano l’espropriazione e la crudeltà. Gli uomini, a cui è consentito di mettere in bocca alle donne le parole (e non solo quelle), creano scene in cui le donne chiedono disperatamente di essere legate, percosse, torturate, umiliate e uccise. O semplicemente prese e usate. Questo, dal punto di vista maschile, è erotico. La sottomissione stessa, insieme a un’estatica rinuncia all’autodeterminazione, è il contenuto del desiderio sessuale delle donne ed è ciò che le rende desiderabili. Le donne sono là per essere violentate e possedute, gli uomini per violentarle e possederle – sullo schermo, con una telecamera o con una penna – per conto dello spettatore. Si può essere favorevoli o contrari a questo tipo di pornografia senza andare oltre il liberalismo. Per esempio, la posizione critica, seppure formalmente liberale, di Susan Griffin considera l’erotismo come sano e naturale, ma alterato e confuso dalla «mente pornografica»15. La pornografia distorce l’Eros, che preesiste e che persiste nonostante la «rivincita» pornografica che su di esso si prende la cultura maschile. L’Eros, inspiegabilmente, perdura. La pornografia lo fraintende, lo equivoca, lo falsa. Non si tratta di una critica della realtà, ma solo di obiezioni a come essa viene interpretata; non si tratta di una critica di quella realtà che la pornografia impone alla vita vera delle donne, quella vita che è così compiutamente coerente

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con la pornografia che quest’ultima può essere difesa in modo credibile come semplice riflesso della realtà. Confrontiamo questa posizione con l’analisi femminista di Andrea Dworkin, secondo cui la sessualità è essa stessa un costrutto sociale interamente basato sul genere. Il dominio maschile, qui, non è la copertura artificiale di un sottostante e inalterabile sostrato di sessualità essenziale ed incorrotta. La sessualità libera dal dominio maschile richiederà un cambiamento, non una ri-concettualizzazione, un ripensamento o un approfondimento. La pornografia non è la rielaborazione immaginaria di una realtà costruita altrove. Non è una distorsione, un riflesso, una proiezione, un’espressione, una fantasia, una rappresentazione né un simbolo. È realtà sessuale. In Pornography: Men Possessing Women16 Dworkin propone una teoria sessuale dell’ineguaglianza di genere di cui la pornografia è una pratica essenziale e costitutiva. Il modo in cui la pornografia produce il suo significato costituisce e definisce gli uomini e le donne in quanto tali. Il genere è ciò che significa17. Non ha fondamento alcuno se non nella realtà sociale costituita dalla sua egemonia. Il processo che conferisce alla sessualità il suo significato maschilista coincide dunque con il processo attraverso il quale l’ineguaglianza di genere diventa una realtà sociale. In quest’analisi la difesa liberale – da parte di femministe, di avvocati o di neo-freudiani18 – della pornografia come liberazione sessuale dell’essere umano, come affrancamento dalla repressione, è una difesa non solo della violenza e del terrorismo sessuale, ma della subordinazione delle donne. In una prospettiva femminista, la liberazione sessuale liberale promuove l’aggressione sessuale maschile. Quello che un liberale vede come amore e romanticismo per una femminista somiglia molto di più all’odio e alla tortura. Il piacere e l’erotismo diventano violazione. Il desiderio si palesa come brama di dominio e di sottomissione. La vulnerabilità di quella che si pensa sia la disponibilità sessuale delle donne – quella forma di agire che ci è concessa: chiedere che su di noi si agisca – è vittimizzazione. Il gioco si adegua ai ruoli del copione, la fantasia esprime l’ideologia, non ne è esente, e l’ammirazione della bellezza fisica naturale diventa reificazione. L’esperienza del pubblico (smisuratamente) maschile che fruisce della pornografia19 non è quindi fantasia, simulazione o catarsi20, ma realtà sessuale: il livello di realtà sullo sfondo della quale il sesso

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stesso in gran parte accade. Per capirlo non si deve necessariamente rilevare che le attrici pornografiche sono donne vere a cui vengono fatte cose reali21, né si deve fare un’indagine sul fatto che la sessualità pornografica è sistematicamente inflitta alle donne22, per quanto ciò aiuterebbe. L’estetica stessa della pornografia, il modo in cui essa procura ciò che i suoi fruitori desiderano, ne è la lampante dimostrazione. Quando la pornografia esplicita non censurata – vale a dire, la più pornografica – mostra tutto, tutto è ciò che un osservatore distaccato riferirebbe riguardo a chi ha fatto cosa a chi. Questo è ciò che eccita. Perché l’osservazione del sesso mostrato in modo oggettivo induce lo spettatore maschio a esperire la propria sessualità? Perché il suo erotismo è, socialmente, qualcosa che si vede. Se l’oggettività è la posizione epistemologica di cui la reificazione rappresenta il processo sociale23, il modo in cui uno stato percettivo si incarna in una forma di potere sociale, le immagini e le descrizioni sessualmente più potenti ne sarebbero le più oggettive e dettagliate rappresentazioni. La pornografia gioca un ruolo nell’erotismo del suo pubblico perché crea un oggetto sessuale accessibile, nel possesso e nel consumo del quale consiste la sessualità maschile, mentre quella femminile consiste nel suo essere posseduto e consumato. In questo senso il sesso nella vita non è meno mediato di quanto lo sia nell’arte. Gli uomini fanno sesso con l’immagine che hanno di una donna. La crescente spudoratezza, «il superamento dei limiti della decenza»24, è l’estetica della pornografia non perché essa rappresenta il sesso oggettivato, ma perché consente l’esperienza di una sessualità essa stessa oggettivata. Non è che la vita e l’arte si imitino a vicenda; per quanto riguarda la sessualità, la vita e l’arte sono la stessa cosa. Il diritto sull’oscenità25, l’approccio principale dello Stato26 alla sua versione della questione della pornografia, non ha davvero niente in comune con questa critica femminista. La loro oscenità non è la nostra pornografia. Un commentatore ha detto: «l’oscenità non è in primo luogo vietata per la protezione degli altri. In gran parte è vietata per conservare la purezza della ‘comunità’. In realtà l’oscenità non è un crimine. L’oscenità è un peccato»27. Questo, a un certo livello, è del tutto esatto. Gli uomini sono eccitati dall’oscenità, dal fatto che sia vietata, nello stesso modo in cui sono eccitati dal peccato. Animata dalla moralità della prospettiva maschile, che

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erotizza l’oltraggio delle regole e delle donne, la legge sull’oscenità sembra procedere in accordo con gli interessi del potere maschile, nascondendosi dietro alla maschera di un bene e di un male neutrali dal punto di vista del genere. La moralità nella sua forma specificamente liberale (sebbene, com’è il caso della maggior parte delle sfere del dominio maschile, la differenza tra la sinistra e la destra sia più formale che sostanziale) ruota intorno a una serie di distinzioni parallele che possono essere significativamente rintracciate grazie alla legge sull’oscenità. Sebbene l’approccio di questa legge al problema sia cambiato nel tempo, le sue norme fondamentali rimangono costanti: pubblico è opposto a privato, così come lo è l’etica rispetto alla morale, e il fattuale è opposto alle determinazioni di valore. Con la supremazia maschile queste distinzioni si basano sul genere: il femminile è privato, morale, fondato sui valori, soggettivo; il maschile è pubblico, etico, fondato sui fatti, oggettivo28. Se tali concetti strutturati secondo il genere sono prodotti dell’esperienza maschile, imposti alla società dal punto di vista maschile, la moralità liberale esprime una politica maschilista. Vale a dire che un discorso condotto in termini di bene e male che non riveli i presupposti, basati sul genere, di tali concetti rimane inconsapevole della posizione di potere in cui affonda le proprie radici e contribuisce a mascherarla e a rinforzarla. Per esempio, il diritto sull’oscenità ha lo scopo di verificare che cosa del sesso può essere pubblicamente mostrato e come. In pratica, il suo criterio si basa su quelle caratteristiche che il femminismo identifica come centrali per la sessualità maschile: l’erezione e la penetrazione29. Storicamente, il diritto sull’oscenità ha avuto problemi con le restrizioni da imporre a certe descrizioni quando si trattava di proteggere i capolavori della letteratura (nessuno ha mai pensato di proteggere le donne). Risolto il problema dispensando le opere di riconosciuto valore dalle restrizioni sull’oscenità30, il conseguente rilassamento – qualcuno potrebbe chiamarlo collasso – delle restrizioni nell’ultimo decennio rivela un significativo cambiamento. Le vecchie regole private sono diventate le nuove norme pubbliche. Secondo il vecchio diritto che regolava la pornografia essa doveva essere proibita pubblicamente, ma fruita e realizzata privatamente: in privato e impunemente fate alle donne quello che volete, dietro a un velo di pubblico diniego e civiltà. Ora invece la pornografia è fruita pubblicamente31. Questa vittoria della teoria freudiana sull’affranca-

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mento dalla repressione non ha probabilmente alterato più di tanto il trattamento che le donne subiscono. Le donne erano sesso e lo sono ancora. Sono diventati necessari nuovi e maggiori sforzi di brutalità per erotizzare i tabù – e ognuno di questi è gerarchia mascherata – nella misura in cui il limite del proibito svanisce non appena lo si supera. Detto altrimenti, è diventata necessaria una violenza sempre maggiore perché il fruitore, progressivamente desensibilizzato, continui ad eccitarsi all’idea che il sesso sia (e che egli stesso sia) audace e pericoloso. Dichiarare «non consentito» il sesso con i deboli è un modo di definire il «me la sono fatta» come un atto di potere, un’affermazione della gerarchia. Inoltre la pornografia è ormai onnipresente. Il terrorismo sessuale è stato democratizzato. Inevitabilmente, per la prima volta nella storia l’accesso alla pornografia è realmente consentito alle donne. Mostratemi una qualsiasi atrocità che si può perpetrare contro una donna e io ve la ripresenterò erotizzata in pornografia. Questo fondamentale meccanismo della subordinazione sessuale, questo modo di organizzare in sistema la definizione delle donne come classe sessuale, è ora a disposizione delle sue vittime, che possono esaminarlo e analizzarlo come sistema pubblico accessibile a tutti, non solo come abuso privato e segreto32. Speriamo che questo sia stato un errore. Riesaminando il diritto sull’oscenità alla luce della critica femminista della pornografia che è ora possibile elaborare, diventa chiaro che la moralità maschile considera buono ciò che rinsalda il suo potere e cattivo ciò che lo destabilizza, lo limita o ne mette in discussione l’assolutezza. I mutamenti cui, nel tempo, è stato sottoposto il diritto – come, per esempio, la liberalizzazione della dottrina dell’oscenità – sono il riflesso del cambiamento del gruppo di uomini al potere o del cambiamento della loro idea di quale sia la miglior strategia di mantenimento del potere maschile – probabilmente di entrambe le cose. Ma bisogna che funzioni. Il risultato, analizzato in termini descrittivi, è che la legge sull’oscenità proibisce quello che considera immorale, che da un punto di vista femminista è di solito relativamente innocuo, mentre protegge quello che considera morale, che da un punto di vista femminista, invece, è dannoso per le donne. Si tratta quindi di un’azione politica, per quanto non si presenti come tale. Quello che secondo la morale maschile è male, vale a dire ciò che minaccia il suo potere, nella politica femminista è relativamente inoffensivo. Quello che la politica femminista considera centrale per

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il processo della nostra subordinazione – l’erotizzazione del dominio e della sottomissione – è per la morale maschile relativamente innocuo e difeso in nome della libertà di espressione. Nel 1973, oscenità venne a significare, per legge, ciò che «secondo l’individuo medio che applica gli standard attualmente condivisi dalla comunità eccita, nel complesso, l’interesse lascivo», ciò che «dipinge o descrive, in modo esplicitamente offensivo, un comportamento sessuale specificamente determinato dalle leggi dello Stato che sono in vigore; e, nel complesso, manca di valore letterario, artistico, politico o scientifico»33. Il femminismo dubita che l’individuo medio, non caratterizzato secondo il genere, esista davvero; ha più problemi con il contenuto e il processo di definizione degli standard comuni che con le deviazioni rispetto a essi; si chiede perché la lascivia abbia importanza e l’assenza di potere no e perché le sensibilità siano maggiormente protette dall’offesa di quanto le donne non lo siano dallo sfruttamento; definisce la sessualità, e dunque la sua violazione ed espropriazione, più ampiamente di quanto non lo faccia una qualsiasi legge dello Stato e si chiede se di un corpo di leggi, che non riconosce in pratica alcuna differenza tra lo stupro e il rapporto sessuale, ci si possa fidare quando distingue tra pornografia e non-pornografia. Secondo il diritto sull’oscenità un rapporto sessuale avvenuto all’angolo della strada non è legittimato dal fatto che le persone sono «simultaneamente impegnate in un valido dibattito politico»34. Ma, in una prospettiva femminista, il requisito che un’opera sia considerata «nel suo complesso» legittima qualcosa di molto simile a pubblicazioni del livello di «Playboy»35. Le prove empiriche stanno cominciando a dimostrare quello che le vittime sanno da tempo: i criteri di legittimità sminuiscono l’offesa qualora essa sia percepita come inflitta alle donne, delle quali contestualizza la futilità e la riduzione ad oggetti36. Inoltre, se una donna è sottomessa, perché dovrebbe contare qualcosa il fatto che l’opera per altri versi abbia un valore37? Forse ciò che per un uomo riscatta il valore di un’opera è ciò che aggrava il danno che essa infligge alle donne. Gli standard letterari, artistici, scientifici e politici oggi in vigore sono, da un punto di vista femminista, perfettamente coerenti con lo stile, con il significato e con il messaggio pornografico. Infine e soprattutto, un approccio femminista rivela che sebbene il contenuto e la dinamica pornografica riguardino le donne – la sessualità delle donne e le donne come sessualità – allo stesso modo in cui la gran

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parte delle «oscenità» fanno riferimento specificamente al corpo femminile, la nostra invisibilità è tale che la legge sull’oscenità non ha mai considerato la pornografia come un problema delle donne38. Eccitare «l’interesse lascivo»39 significa, suppongo, procurare a un uomo un’erezione. Gli uomini hanno paura di consentire che alcuni uomini – perché detengono il potere – dicano agli altri uomini a che cosa possono o non possono avere accesso sessualmente. Se non lasci loro questo potere, loro potrebbero non lasciarti il tuo. Questa è la ragione per cui l’indefinibilità della pornografia – la relatività del giudizio di ciascun uomo su cosa sia pornografico40 – gioca un ruolo così centrale nella definizione della pornografia. Non è perché siano liberali, bensì perché qualsiasi cosa alcuni di loro facciano agli altri, anche gli altri potrebbero farla a loro – e questa è la ragione principale per cui il principio liberale è quello che è. Nella misura in cui, in tutto ciò, coloro che sono l’oggetto della contesa rimangono invisibili, resta nell’ombra il fatto che la disputa sulla definizione di oscenità sia una disputa tra uomini riguardo al miglior modo di garantire il potere maschile come sistema. Il punto è: di chi sono le pratiche sessuali che minacciano questo sistema e che possono essere sacrificate a favore del suo mantenimento per tutti gli altri? È meno probabile che l’accesso sessuale pubblico, da parte degli uomini, a qualcosa di diverso dalle donne sia protetto dalla libertà di parola. Questo non significa che l’accesso sessuale maschile a chiunque – bambini, altri uomini, donne con donne, oggetti, animali – non costituisca il sistema reale. Il problema è fino a che punto quel sistema sarà reso pubblico; le leggi sull’oscenità, la definizione che ne viene data e i modelli di applicazione giocano un ruolo importante nel regolarne la pubblicizzazione. Il vincolo imposto dal criterio dell’«interesse lascivo» si basa sulla circostanza che, di fatto, qualcuno ammetta di essere sessualmente eccitato da un certo tipo di materiale41, ma al contempo l’eccitazione sessuale maschile segnala l’importanza di proteggere tale materiale. Si impongono da soli questo vincolo e poi si stupiscono di non riuscire a trovare un accordo. A volte penso che, alla fin fine, sia considerato osceno ciò che non eccita la Corte Suprema, o ciò che maggiormente disgusta i giudici – cosa rara, dato che la repulsione viene erotizzata; a volte penso che osceno sia considerato ciò che eccita quegli uomini che gli uomini al potere ritengono di poter ignorare; a volte penso che in parte dipenda dal fatto che ciò che a loro sembra osceno è quanto li induce, anche solo

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per un momento, a considerarsi come potenziali vittime di un’aggressione sessuale maschile; a volte penso che il vero problema sia che la sessualità maschile viene presentata come se a una donna si potesse fare qualsiasi cosa e che osceno sia il sesso che fa apparire la sessualità maschile in una luce negativa42. Le difficoltà che le corti incontrano quando formulano criteri praticabili per distinguere un interesse sessuale «lascivo» da altri tipi di interesse sessuale, lo sfruttamento commerciale dal materiale pubblicitario, il discorso sessuale dal comportamento sessuale e l’oscenità dalla grande letteratura spiegano l’argomento femminista. È stato impossibile fissare queste linee di demarcazione nel diritto perché esse non esistono nella vita. Il sesso commerciale somiglia all’arte perché entrambi sfruttano la sessualità delle donne. Il pendio scivoloso dei liberali è, per le femministe, la totalità. Qualsiasi cosa possa fare l’oscenità, la pornografia viene a coincidere con descrizioni e rappresentazioni convenzionalmente più accettabili proprio come lo stupro viene a coincidere con il rapporto sessuale nella misura in cui entrambi esprimono lo stesso rapporto di potere. Nello stesso modo in cui è difficile riconoscere la letteratura o l’arte in un quadro generale, e in un contesto, di reificazione, è difficile distinguere la libertà sessuale in un quadro generale, e in un contesto, di coercizione sessuale. Ciò non significa che non sia possibile farlo, bensì che i criteri legali saranno praticamente inapplicabili, che riprodurranno il problema invece che risolverlo finché non affronteranno direttamente la questione fondamentale dell’ineguaglianza di genere. Definire il pornografico come «evidentemente offensivo» induce a fraintendere ulteriormente i danni che esso causa. Pornografia non significa cattive maniere o scelta di un pubblico scadente; oscenità sì. Inoltre, la pornografia non è un’idea, l’oscenità sì. Pochi sono stati ingannati dalla finzione giuridica per cui l’osceno «non è parola»43 ed essa ha efficacemente evitato il compito di definire l’eziologia sociale della pornografia. Ma il diritto sull’oscenità ha capito bene una cosa: la pornografia ha a che fare più con la pratica che con la teoria. Il fatto che la pornografia, in una prospettiva femminista, promuova l’idea politica dell’inferiorità sessuale delle donne non rende la pornografia in sé un’idea politica. Il fatto che si possa esprimere l’idea rappresentata da una certa pratica non significa che quella pratica sia un’idea. La pornografia non è un’idea più di quanto lo sia la segregazione, sebbene entrambe istituzionalizzino l’idea

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dell’inferiorità di un gruppo rispetto ad un altro. La legge considera l’oscenità deviante e antisociale; se produce danni, si tratta di azioni antisociali, di azioni contro l’ordine sociale44. In una prospettiva femminista, la pornografia rappresenta l’essenza di un ordine sociale sessista, la sua più tipica azione sociale. Se la pornografia è un atto di supremazia maschile, il danno che produce è quello prodotto dalla supremazia maschile, reso difficile da vedere a causa della pervasività, dell’efficacia e del successo con cui ha reso il mondo un posto pornografico. Nello specifico, il danno non può essere riconosciuto dal punto di vista oggettivo perché è parte di «quello che è». Le donne vivono nel mondo che la pornografia crea. Viviamo questa bugia come se fosse realtà. Come ha detto Naomi Scheman, «le bugie sono quello che abbiamo vissuto, non solo quello che abbiamo detto e nessuna spiegazione della corrispondenza con la realtà ci renderà capaci di distinguere la verità dalle bugie»45. Così il punto non è se la pornografia sia dannosa, ma in che modo il danno che essa produce possa diventare visibile. In confronto a cosa? Nella misura in cui plasma la realtà sociale, la pornografia come danno diventa invisibile. Sosterrò che il liberalismo impedisce la percezione del successo della pornografia, e quindi del danno da essa prodotto, e che di conseguenza tale danno non è stato definito secondo l’usuale approccio e i valori fondamentali e principali protetti dal Primo emendamento. La dottrina del Primo emendamento, in base alla quale gran parte della pornografia è protetta dalle restrizioni governative, deriva da postulati liberali46 che non riguardano la situazione delle donne. La dottrina del Primo emendamento, come praticamente ogni altra teoria giuridica liberale, ritiene valida la distinzione tra pubblico e privato: il «ruolo della legge è quello di segnalare e garantire il confine tra la sfera del potere sociale, organizzato nella forma dello Stato, e quella del diritto privato»47. Su queste basi, le corti distinguono tra l’oscenità in pubblico (che può essere regolamentata, anche se alcuni tentativi in questo senso falliscono perché le rappresentazioni sono pubbliche)48 e il possesso privato di materiale osceno nell’ambiente domestico49. Il problema è che non solo il pubblico, ma anche il privato è una «sfera del potere sociale» sessista. Sulla carta e nella vita la pornografia è imposta, nelle loro case, a donne che non lo vorrebbero50. La distinzione tra il pubblico e il privato non separa

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sfere identiche per le donne e per gli uomini51. Ad essere protetto è il diritto degli uomini di imporre alle donne la pornografia nel privato. Inoltre, secondo la dottrina liberale che informa il Primo emendamento la libertà di parola, pornografia inclusa, contribuisce a scoprire la verità. La censura limita la società a verità parziali. Come mai, dunque, ora ci troviamo – con a disposizione più pornografia di quanta non ne abbiamo mai avuta – sepolti sotto tutte queste bugie? Quella del laissez faire potrebbe essere adeguata come teoria delle precondizioni sociali della conoscenza in una società non gerarchica. Ma in una società che discrimina sulla base del genere, la parola del potente impone al mondo il proprio punto di vista, celando la verità di chi non ha potere sotto un velo di disperata remissività, che produce l’apparenza del consenso e rende ogni protesta tanto impercettibile quanto rara. La pornografia può inventare le donne perché ha il potere di plasmare la realtà secondo la propria prospettiva, che in questo modo è spacciata come oggettivamente vera. Così il Primo emendamento, mentre difende la pornografia sulla base dell’idea che il consenso e il progresso siano facilitati dalla messa a disposizione di tutti i punti di vista, per quanto divergenti e non ortodossi essi siano, manca di prendere atto che la pornografia (come il razzismo, nel quale includo l’antisemitismo dei nazisti e del Ku Klux Klan) non è affatto un punto di vista divergente o non ortodosso. La pornografia è l’ideologia dominante. Il femminismo, la corrente dissenziente, viene da essa soffocato. Così, mentre chi difende la pornografia sostiene che la messa a disposizione di tutti i tipi di discorso, compreso quello pornografico, lascia la mente libera di realizzarsi, dal punto di vista delle donne la pornografia è libera di assoggettare la loro mente e, inseparabilmente, il loro corpo, normalizzando un terrore che costringe al silenzio. Secondo i liberali, la libertà di parola non deve mai essere sacrificata a vantaggio di altri obiettivi sociali52. Ma il liberalismo non ha mai capito che la libertà di parola degli uomini riduce al silenzio quella delle donne. Il fine sociale è il medesimo, le persone no. Questi sono i termini di una diseguaglianza reale, di un conflitto reale, di una disparità reale. La dottrina del Primo emendamento interpreta la libertà di espressione, in astratto, come sistema, ma manca di comprendere che anche il sessismo (e il razzismo), nel concreto, sono sistemi. È difficile dimostrare empiricamente il fatto che la pornografia inibisce la possibilità che le donne hanno di esprimersi perché il silenzio non esprime nulla. Tuttavia, neppure esistono prove più

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efficaci a favore dell’argomento in base al quale il divieto della pornografia potrebbe impedire un discorso legittimo. La logica del Primo emendamento, com’è il caso di quasi t­utti i ragionamenti giuridici, ha difficoltà a comprendere ogni tipo di ­danno che non sia sintetizzabile nell’espressione «John ha picchiato Mary». L’idea è che le parole o le immagini possono essere dannose solo se producono un danno che possa essere ricondotto ad un’azione. Le parole riguardano i modi di pensare, le azioni, il comportamento. Le parole non sono dannose in sé – nonostante la diffamazione, l’invasione della privacy, il ricatto, la corruzione, la cospirazione o la maggior parte delle molestie sessuali. Ma ordinare «uccidi» a un cane da guardia addestrato è una parola o un’azione? E il fatto di averlo addestrato? E un cartello con la scritta «solo bianchi»? Si tratta dell’idea o della pratica della segregazione? Una donna è stuprata da un modo di pensare o da un comportamento? L’eccitazione sessuale è un’idea o un’azione? Ricordiamoci che l’idea specifica di causalità che informa la legge sull’oscenità risale più o meno a quando l’impossibilità di dimostrare che la pornografia produce un danno fu «dimostrata» per la prima volta53. Invece della causalità più complessa che è implicita negli esempi sopra riportati, l’idea che passò fu quella che la pornografia deve provocare un danno nello stesso modo in cui la negligenza provoca un incidente stradale, altrimenti i suoi effetti non sono classificabili come danni. Il problema con questa particolare concezione atomistica, lineare, individualizzante, causalistica – in una parola, positivistica – del danno è che il modo in cui la pornografia prende di mira le donne e le destina all’abuso e alla discriminazione non funziona così. Infatti essa danneggia gli individui, non come individui presi uno alla volta, ma come membri del gruppo «donne». Il danno è procurato a una determinata donna piuttosto che a un’altra allo stesso modo in cui alla roulette viene estratto un numero piuttosto che un altro. Ma a livello di gruppo, come donne, il processo di selezione è assolutamente preciso e sistematico. In esso la causalità è essenzialmente collettiva, totalistica e contestuale. Riaffermare la causalità lineare e atomistica come condicio sine qua non del danno – non si subisce un danno se non si verifica questa eziologia – significa rifiutare di comprendere la vera natura di questa tipologia specifica di danno. Tale rifiuto deve essere spiegato. Morton Horowitz sostiene che la questione della causalità nella disciplina del danno sia «una

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delle idee centrali in un sistema di pensiero giuridico che ha cercato di separare il diritto privato dalla politica e di proteggere il sistema giuridico dalla minaccia della redistribuzione»54. Forse la causalità nella questione della pornografia è un tentativo di privatizzare il danno che la pornografia procura alle donne allo scopo di proteggere il medesimo sistema dalla minaccia dell’eguaglianza di genere, che è, anch’essa, una forma di redistribuzione. Si sa che le donne sono brutalmente costrette ad avere una parte nelle rappresentazioni pornografiche55. Ma finora è stato solo nel caso dei bambini, di solito bambini maschi, che le corti hanno giudicato che le parole dei pornografi fossero la vita di qualcun’altro56. Le corti, le commissioni, le assemblee legislative e i ricercatori hanno cercato e ricercato, generalmente invano, il danno prodotto dalla pornografia nella mente del fruitore (maschio) o nella «società» o nelle correlazioni empiriche tra le variazioni del livello delle azioni «antisociali» e la liberalizzazione delle leggi sull’oscenità57. La libertà di parola può essere regolamentata «nell’interesse degli spettatori impreparati, del pubblico involontario, dei bambini piccoli e in altri casi affini»58, ma il normale livello di violenza sessuale – violenza che non è riconosciuta in quanto tale perché è inflitta alle donne ed è chiamata sesso – non è mai stato un problema politico. Fino a pochi anni fa la ricerca sperimentale non aveva mai affrontato la questione se gli stimoli pornografici possano provocare aggressioni sessuali sulle donne59 o se la violenza possa essere sessualmente stimolante o avere ricadute sessuali60. Soltanto negli ultimi mesi i ricercatori di laboratorio hanno cominciato ad apprendere quali sono, per le donne, le conseguenze delle rappresentazioni sessuali cosiddette consensuali, che mostrano come normali il dominio e la sottomissione61. Ancora non possediamo questo tipo di dati per quanto riguarda l’impatto della nudità solo femminile o delle rappresentazioni di specifici atti quali la penetrazione o persino del sesso consensuale in un contesto sociale di ineguaglianza di genere. L’assunto fondamentale del Primo emendamento è che socialmente l’espressione sia libera. Il Primo emendamento recita «il Congresso non può limitare la libertà di parola». La libera espressione esiste. Il problema del governo è quello di evitare di limitare ciò che, in assenza di restrizioni governative, è libero. Ciò significa presupporre che nella società intere fette di popolazione non siano sistematicamente ridotte al silenzio prima dell’intervento governativo. Tale

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presupposto è insostenibile alla luce del ruolo che la pornografia gioca rispetto alla diseguaglianza tra i sessi e ogni approccio di questo tipo alla nostra libertà di espressione è del tutto inutile. Per le donne, l’urgente questione della libertà di parola non si risolve in primo luogo nell’evitare l’intervento dello Stato, bensì nell’istituire azioni positive che garantiscano la libertà di espressione a coloro cui è stata negata. Al di là del disgusto e della lascivia, dire che la pornografia è «de-umanizzante» significa tentare di descrivere con precisione il danno che essa produce. Ma quello di «essere umano» è un concetto sociale polisemico. Criticherò ora alcuni significati morali liberali attribuiti al termine «persona» e formulerò un’analisi politica femminista degli effetti della pornografia sulle donne, mostrando come l’inadeguatezza della critica liberale della de-umanizzazione rifletta l’inadeguatezza del sottostante concetto di persona. In una prospettiva femminista, la pornografia de-umanizza le donne in un senso culturalmente specifico ed empiricamente descrittivo – non morale e liberale. La pornografia espropria le donne del potere di cui, al contempo, investe gli uomini: il potere della definizione sessuale e, quindi, di genere. Forse essere umano è, ai fini del genere, chi controlla la definizione sociale di sessualità. Una persona, kantianamente, è un agente libero e razionale la cui esistenza è non un mezzo, ma un fine in sé62. Nella pornografia, le donne esistono per il fine del piacere maschile. L’essere umano, secondo Kant, è contraddistinto dalla razionalità astratta universale, senza differenze individuali o di gruppo, e deve essere considerato come un «paniere di diritti»63. La pornografia pretende di definire che cosa sia una donna e lo fa su basi di gruppo, anche quando eleva qualità individuali a stereotipi sessuali, come fa Playboy con la strategia della «coniglietta del mese». Penso anche che la pornografia ricavi molto del proprio potere sessuale dall’assunto implicito che la nozione kantiana di persona descriva di fatto la condizione delle donne nella nostra società e che in base a questo assunto parzialmente si giustifichi. Sulla base di un presupposto del genere, se esistiamo, siamo libere e razionali, mentre il punto è che le donne – in pornografia e in parte a causa della pornografia – non hanno questo diritto. Tra le altre immagini della persona c’è quella di Wittgenstein, secondo cui «la migliore immagine dell’anima umana» è data dal cor-

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po64. Credo che tutto dipenda da quale immagine di corpo umano si abbia in mente. Negli scritti marxiani compaiono diverse concezioni di persona, deducibili dalla critica delle varie forme di organizzazione produttiva. Una persona è definita dalle condizioni materiali cui la società riconosce valore; in una società borghese, persona potrebbe essere un proprietario di beni65. Il problema è che le donne sono la proprietà che costituisce la personalità, la mascolinità, degli uomini nella società capitalistica. Proseguendo il ragionamento in linea con la teoria marxiana mi sono chiesta se le donne, nella pornografia, sono da concepirsi come feticci o come oggetti. La pornografia conferisce sembianze vitali a cose morte – come nel caso del feticismo – o mortifica le cose vive – come nel caso della reificazione? Immagino che dipenda, a seconda che le donne, nella società, siano più vive o più morte. Con la concezione humeana della persona come fascio o insieme di percezioni sensoriali, tanto che il sentimento della propria identità nel tempo è un’illusione persistente66, abbiamo finalmente una visione dell’umano che coincide con la visione della donna nella pornografia; vale a dire, all’immagine empirista della persona corrisponde l’immagine pornografica delle donne. Nessuna critica del dominio e della sottomissione, né tanto meno una critica della reificazione, può fondarsi su una visione della realtà secondo cui tutte le percezioni sensoriali sono solo percezioni sensoriali. Questo è uno dei modi in cui un’epistemologia oggettivista difende l’ineguale detenzione ed esercizio del potere in una società in cui la persistente illusione di sé di metà della popolazione è materialmente sostenuta e promossa a spese dell’altra metà. Sto dicendo che a chi è socialmente consentito di avere un’identità è concesso anche il lusso di postularne l’illusorietà e di vedere per di più riconosciuta alla propria posizione una dignità filosofica. Qualsiasi sia la loro identità, non la perdono dicendo che è illusoria. Anche se non è particolarmente esplicativa, quest’ideologia maschile, presa in sé, è spesso finemente descrittiva. Così Hume definisce l’umano negli stessi termini in cui il femminismo definisce la de-umanizzazione delle donne: in pornografia, l’identità delle donne è precisamente un’illusione persistente. Bernard Williams, filosofo contemporaneo del linguaggio ordinario, sostiene che «persona» comunemente significa cose come l’attribuzione di valore al rispetto di sé e il sentimento del dolore67. La definizione del sé, il tipo di rispetto ad esso portato, gli stimoli del

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piacere e, in una certa misura, anche gli stimoli e la soglia del dolore sono variabili culturali. In pornografia le donne si eccitano quando vengono mortificate e godono del dolore. Lo vogliamo; imploriamo e lo otteniamo. Sostenere che ciò sia de-umanizzante non significa per forza considerare il rispetto come un assoluto a-storico o stimare il significato sociale del dolore come invariabile o uniformemente negativo. Piuttosto, significa affermare che è l’accettazione della definizione sociale di questi valori – l’accettazione del rispetto di sé e della fuga dal dolore come valori – a permettere, in pornografia, l’erotizzazione dei loro contrari – lo svilimento e la tortura. È soltanto nella misura in cui ognuno di questi valori è accettato in quanto umano che la loro negazione diventa una qualità della donna ed è in quanto tale erotizzata. Solo quando il rispetto di sé è valutato come umano lo svilimento diventa erotico e femminile; solo quando la fuga dal dolore è valutata come umana la tortura diventa erotica e femminile. In tal modo la sessualità delle donne così com’è espressa in pornografia nega la loro stessa condizione umana. Ma c’è di più: in pornografia, proprio ciò che è considerato degradante per un essere umano, qualsiasi sia la sua definizione sociale, è sessualmente eccitante dal punto di vista maschile, proprio come chi lo subisce è la ragazza indipendentemente dal sesso. In tal modo proprio le donne vengono ad essere ciò che la pornografia identifica con e attraverso la sessualità, mentre il degradante è qualificato come erotico. Caratterizzare il pornografico come qualcosa di violento, e non sessuale, come tendenzialmente avviene nelle analisi morali liberali, significa banalizzare ed evitare la sostanza di questa critica dando invece l’impressione di esprimerla. Come nel caso dello stupro il problema non è la presenza o l’assenza di violenza ma che cosa sia il sesso in quanto distinto dalla coercizione68, la questione della pornografia è che cosa sia l’erotismo in quanto distinto dalla subordinazione delle donne. Non è una domanda retorica. Con il dominio maschile, sesso è qualsiasi cosa ecciti un uomo. In pornografia la violenza è il sesso. L’ineguaglianza è il sesso. La pornografia senza gerarchia non è sessualmente efficace. Se non ci sono diseguaglianza, stupro, dominio e violenza non c’è eccitazione sessuale69. La legge sull’oscenità fa un grosso favore ai pornografi oscurando la dinamica fondamentale della pornografia sotto il velo della discreta astrazione, neutrale dal punto di vista del genere, dell’«interesse lascivo».

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La legge sull’oscenità conferisce inoltre il fascino della proibizione statale – uno strumento di dominio – a qualsiasi cosa essa includa. La definizione – bandiera di molte associazioni antistupro e antipornografia70 – dello stupro e della pornografia come violenti, e non come sessuali, è un tentativo di sostenere che le donne non trovano che lo stupro sia piacevole o che la pornografia sia eccitante evitando però di affermare questo rifiuto come il punto di vista delle donne. La concessione all’istanza della reificazione, il tentativo di guadagnare credibilità nascondendo la specificità del proprio punto di vista, non solo astrae dalla nostra esperienza, ma su di essa mente. Le donne e gli uomini sanno che per gli uomini lo stupro è sesso e la pornografia è erotica. Di conseguenza, questo è. Sappiamo anche che la sessualità comunemente è violenta, senza per questo essere meno sessuale. Negarlo fa sì che si pensi che l’analisi femminista cada in contraddizione quando le donne sono eccitate dalla violenza sessuale, nel senso che la esperiscono come propria sessualità. Ma essa non è contraddetta, bensì dimostrata. La definizione maschilista della sessualità femminile come desiderio dell’annientamento di sé ha avuto il sopravvento. Sarebbe sorprendente, l’analisi femminista sarebbe errata e il sessismo sarebbe una banalità se ciò capitasse solo eccezionalmente. (Qualcuno potrebbe a questo punto chiedersi non tanto perché alcune donne pratichino il sadomasochismo, ma perché non lo facciano tutte.) Per rifiutare il sesso imposto in nome del punto di vista delle donne è necessario un resoconto dell’esperienza femminile della violenza subita attraverso atti che entrambi i sessi hanno appreso come naturali, appaganti ed erotici, dal momento che non è stata consentita alcuna critica, alcuna alternativa e pochissime trasgressioni. La critica della de-personalizzazione, con l’idea della «violenza, non sesso», mette in luce il doppio criterio della pornografia ma non colpisce il maschilismo dei criteri che la pornografia fissa per definire la persona e il sesso. Le critiche sono perciò utili, in una certa misura anche decostruttive, ma eludono questioni più profonde sul ruolo della pornografia nella sessualità e della sessualità nella costruzione della definizione e della condizione delle donne, perché trattano le donne come se fossero «persone» per interpretazione, come se l’idea di persona non fosse, nella società reale, definita dagli uomini in termini maschili e agli uomini riservata e come se la sessualità non fosse essa stessa un prodotto del potere maschile. Fare

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questo significa comportarsi come se la pornografia non esistesse o come se non avesse potere. Più profonda della questione della persona e della questione della violenza, è quella del meccanismo di causalità sociale attraverso cui la pornografia costruisce le donne e il sesso, stabilisce il significato di «donna» in relazione con quello di sessualità e viceversa. Il diritto sull’oscenità a volte afferma che l’espressione sessuale è soltanto discorso e, dunque, non può essere in sé dannosa. E, persino, che è importante tutelare il discorso pornografico. Se la pornografia è una pratica dell’ideologia71 dell’ineguaglianza di genere, e se il genere è una forma di ideologia, se la pornografia è sesso e il genere è sessuale, la questione della relazione tra la pornografia e la vita è niente di meno che la questione della dinamica di subordinazione delle donne agli uomini. Se «la reificazione [...] non è mai banale»72, le ragazze sono rovinate dai libri73. Per comprendere questo processo sarà necessario elaborare una nuova teoria della causalità sociale – dell’ideologia nella vita, della dinamica di mente e corpo nel potere sociale – che leghi punto di vista e politica. Lo sviluppo di tale analisi è stato ostacolato dal timore dell’uso repressivo, da parte dello Stato, di ogni critica delle forme espressive, dal potere della pornografia di creare le donne secondo l’uso cui le destina e dal potere dei pornografi di generare un clima ostile ad ogni indagine sul loro potere e sul loro profitto. Tutto ciò per dire questo: la legge sull’oscenità e la pornografia, sia in superficie sia in profondità, vanno nella stessa direzione. Superficialmente, entrambe hanno a che fare con la morale: regole concepite e violate a scopo di eccitazione sessuale. Di fatto entrambe riguardano il potere, l’equazione tra l’erotico e il controllo delle donne da parte degli uomini: donne concepite e violate a scopo di eccitazione sessuale. Sembra essenziale alla forza della pornografia che essa vada in qualche modo contro le regole, senza essere mai davvero indisponibile o davvero illegittima. Così la legge sull’oscenità, come quella sullo stupro, salvaguarda il valore di ciò che intende disprezzare e proibire, senza ostacolare il suo perseguimento. La legge sull’oscenità contribuisce a rendere sexy la pornografia mettendo il potere statale – la forza, la gerarchia – dietro al presunto divieto di ciò cui gli uomini possono avere accesso sessuale. La legge sull’oscenità sta alla pornografia come la pornografia sta al sesso:

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una mappa che dà ad intendere di essere uno specchio, una legittimazione, un’autorizzazione, una serie di direttive e orientamenti che si proiettano sulla realtà sociale mentre pretendono di riflettere soltanto la sua immagine. La pornografia si presenta come fantasia, illusione o idea che può essere buona o cattiva, accurata o inaccurata, mentre di fatto, quindi accuratamente, distribuisce il potere. La morale liberale non sa gestire le illusioni che costituiscono la realtà perché la sua teoria della realtà, che difetta di una critica sostanziale della distribuzione del potere sociale, non riesce ad andare al di là del mondo empirico, della verità come corrispondenza. Apparentemente sia la pornografia sia la legge sull’oscenità hanno a che fare con il sesso. Di fatto a essere in gioco è lo status delle donne.

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In una società in cui le donne fossero libere di accettare o rifiutare il rapporto sessuale, in cui una sana contraccezione fosse un’autentica priorità sociale, non esisterebbe un «problema dell’aborto» [...]. L’aborto è violenza [...]. È la conseguenza, e continuerà a essere il momento di accusa, di una violenza molto più diffusa: la violenza dello stupro. Adrienne Rich Nato di donna (1976)

Con il caso Roe vs Wade1 è stato garantito il diritto di scegliere l’aborto, subordinatamente ad alcune considerazioni compensative, nella misura in cui l’aborto è stato concepito come una scelta privata, riconducibile all’esercizio del diritto, costituzionalmente garantito, alla privacy. Nella mia critica di quella decisione voglio prima di tutto contestualizzare l’aborto e il diritto di abortire nell’esperienza delle donne. Il mio argomento è che l’aborto sia inseparabile dalla sessualità, supponendo che l’analisi femminista della sessualità coincida con la nostra analisi della diseguaglianza di genere. Criticherò poi la scelta dottrinale di ricondurre il diritto di abortire alla legge sulla privacy, con l’argomento che la dottrina della privacy riafferma

* Ho discusso queste idee alla «Conference on Persons, Morality, and Abortion» presso l’Hampshire College di Amherst, Massachusetts, il 21 gennaio 1983 e alla «Planned Parenthood Conference» intitolata Who Governs Reproduction?, tenutasi a New Haven, Connecticut, il 2 novembre 1985.

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e rinforza ciò che la critica femminista della sessualità critica, vale a dire la separazione tra pubblico e privato. Il significato politico e ideologico della privacy come dottrina giuridica è strettamente connesso con le concrete conseguenze che la separazione tra pubblico e privato ha sulla vita delle donne. Alla luce di quest’analisi il caso Harris vs McRae2, in occasione del quale si stabilì che l’erogazione di finanziamenti pubblici per l’aborto non fosse obbligatoria, sembra coerente con il più ampio significato del caso Roe. Non mi occuperò di due importanti questioni, che desidero tuttavia delineare per sommi capi. La prima: che cosa sono i bambini per gli uomini? Da una parte gli uomini reagiscono al diritto delle donne di abortire come se si trovassero di fronte alla propria potenziale non-esistenza – come se fossero, nientedimeno, nelle mani delle donne; dall’altra, al loro rapporto con i bambini (così come con molto altro) sottendono l’aspirazione alla potenza e alla continuità come compensazione della mortalità e l’esigenza di esprimersi e dar corpo alla propria immagine nel mondo. Non rilevare il significato che l’aborto ha per gli uomini in quanto uomini significa trascurare fondamentali istanze politiche, strategiche e teoretiche e mancare di individuare l’origine di gran parte dell’opposizione all’aborto. Della seconda questione cui vorrei accennare, a differenza di quanto è avvenuto per la prima, si è ampiamente discusso nell’ambito del dibattito sull’aborto: si tratta del problema della giustezza morale dell’aborto in sé. Credo che la scelta di abortire debba essere legalmente disponibile e debba essere attribuita alle donne, ma non perché il feto non sia una forma di vita. Nell’argomentare comune la scelta di abortire viene fatta dipendere dal fatto che il feto sia o non sia una forma di vita. Non voglio rimanere su questo piano. Perché le donne non dovrebbero poter prendere decisioni sulla vita e sulla morte? Questo ci riconduce alla prima questione. I temi che affronterò non sono mai stati discussi nei termini in cui ho intenzione di discuterli e credo che ciò sia dipeso dal fatto che la difficile necessità delle donne di sopravvivere in un mondo ostile alla nostra sopravvivenza ci ha precluso la possibilità di interrogarci su tali problemi così come sto per fare io ora. In altre parole: la prospettiva da cui abbiamo affrontato il tema dell’aborto è stata plasmata e limitata dalla situazione medesima in cui il problema dell’aborto ci pone e che ci richiede di affrontare. Non siamo state in grado di elaborare la nostra riflessione da un punto di vista personale per-

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ché il punto di vista ci è stato imposto. L’obiettivo del femminismo consiste nel tentativo di comprendere la situazione delle donne osservandola dalla nostra prospettiva. Impegnarsi in questo tentativo è rischioso; ma nella nostra condizione è rischioso anche il non farlo. Dunque: prima il femminismo, poi il diritto. Nella gran parte dei casi, le donne che scelgono di abortire sono rimaste incinte durante un rapporto sessuale. La maggioranza di loro non intendeva né desiderava rimanere incinta. In contrasto con questo dato di fatto dell’esperienza femminile, con questa convergenza della sessualità con la riproduzione e il genere, il dibattito sull’aborto è stato incentrato sulla separazione del controllo della sessualità dal controllo della riproduzione e sulla separazione di entrambi sia dal genere sia dalle opzioni di vita dei sessi. I liberali hanno difeso la disponibilità della scelta di abortire come se la donna si imbattesse nel feto per caso3. La destra politica, presupponendo che il rapporto sessuale prima del concepimento sia generalmente volontario, esorta all’astinenza, come se il sesso dipendesse dalle donne, e al contempo difende l’autorità maschile contemplando, nello specifico, il dovere della moglie di prestarsi al rapporto sessuale. In base alla medesima logica molti di coloro che si oppongono ai finanziamenti statali per l’aborto, come per esempio i sostenitori di una qualche versione dello Hyde Amendment, sarebbero d’accordo a erogare i medesimi finanziamenti qualora la gravidanza risultasse da uno stupro o da un rapporto incestuoso4, facendo così eccezione per quei casi speciali in cui presumono che le donne non abbiano potuto controllare il sesso. Da tutto ciò deduco che sostenitori e oppositori dell’aborto condividono il tacito presuppposto che le donne certamente controllano il sesso. Le indagini femministe danno un’altra versione. Non si può presumere che il rapporto sessuale, che è ancora la più comune causa di gravidanza, sia deciso in modo eguale dall’uomo e dalla donna. Il femminismo ha scoperto che le donne si sentono costrette a conservare la parvenza – parvenza che, se agita, diventa realtà – di una direzione maschile dell’espressione sessuale, come se l’iniziativa maschile fosse proprio ciò che vogliamo, come se fosse quella a farci eccitare. Tutto ciò ci è imposto dagli uomini. Si tratta di quello che gli uomini vogliono in una donna sopra ogni altra cosa ed è quanto viene erotizzato dalla pornografia e fornito dalle prostitute. Lo stupro – vale a dire, il rapporto sessuale imposto con la forza, rico-

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nosciuta in quanto tale – è giudicato non in base alla violenza che l’uomo esercita, bensì in base al grado di intimità tra le parti. Più una donna è intima con il suo stupratore, meno è probabile che una corte riconosca che quanto accaduto è uno stupro. Spesso, indice del grado di intimità è il rapporto stesso. Se un «no» può essere considerato un «sì», quanto può essere libero un «sì»? In tali condizioni spesso le donne non usano contraccettivi a causa del loro significato sociale, un significato che non hanno contribuito a produrre. Ricorrere all’uso dei contraccettivi significa riconoscere e pianificare la possibilità del rapporto, accettare la propria disponibilità sessuale e apparire non spontanee. Significa presentarsi disponibili alle incursioni maschili. Di una donna che utilizza regolarmente i contraccettivi si può presumere che sia sessualmente disponibile e, tra le altre cose, che sia possibile stuprarla con una certa garanzia di impunità. (Se pensate che ciò non sia vero riflettete sui casi di stupro in cui il fatto che una donna avesse il diaframma è stato considerato come segnale che quanto accaduto era un rapporto consensuale e non uno stupro: «Perché portavi il diaframma?».) Gli studi compiuti nelle cliniche abortive dimostrano che le donne che ripetutamente scelgono di abortire (e mi riferisco alle criminali recidive che occupano i primi posti della lista dei cattivi stilata dalla destra, che rappresentano il suo miglior argomento per opporsi all’aborto come forma di irresponsabilità femminile), alla domanda sulle ragioni di questa loro decisione, rispondono generalmente «il sesso è capitato». Più o meno ogni notte per due anni e mezzo5. Mi chiedo come si possa pensare che una donna controlli l’accesso alla propria sessualità se si sente incapace di interrompere il rapporto per mettere il diaframma; o peggio, se non desidera nemmeno farlo, consapevole di rischiare una gravidanza indesiderata. Pensate che fermerebbe un uomo per altre ragioni, come, per esempio – il vero tabù – la mancanza di desiderio? Se pensate di no, come potete considerare il sesso, e, insieme, le sue conseguenze come davvero volontario per le donne? Le regole sul ritmo sessuale e sul romanticismo che vengono percepite come disturbate dalle esigenze delle donne sono costruite contro gli interessi delle donne. Il sesso non sembra molto libero quando sul piano normativo il prezzo del rischio di una gravidanza indesiderata e di una procedura spesso dolorosa, traumatica, pericolosa, talvolta illegale e potenzialmente mortale sembra più basso di quello di una protezione preventiva. Ciono-

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nostante la politica dell’aborto non è mai stata affrontata tenendo presente come le donne rimangono incinte, ovvero in conseguenza di un rapporto sessuale avvenuto in condizioni di diseguaglianza di genere; vale a dire, la questione dell’aborto non è mai stata trattata come un problema di sesso imposto. Veniamo al diritto. Nel 1973, con il caso Roe vs Wade si stabilì che la legge che proibiva il ricorso all’aborto in tutti casi escluso quello in cui era a rischio la vita della madre violava il diritto, costituzionalmente garantito, alla privacy 6. Il diritto alla privacy era stato precedentemente elevato a principio costituzionale in occasione della decriminalizzazione della prescrizione e dell’uso dei contraccettivi7. Notate che le corti hanno fatto uso della categoria di privacy per istituire, mediante la privacy, una connessione tra la contraccezione e l’aborto nello stesso modo in cui io l’ho istituita mediante la sessualità. Nel caso Roe il diritto alla privacy fu giudicato «sufficientemente ampio da comprendere la decisione della donna se interrompere la gravidanza». Nel 1977 tre giudici osservarono: «nel caso dell’aborto, abbiamo sostenuto che il diritto alla privacy protegge la donna da un’indebita intrusione dello Stato e da un’ingerenza esterna nell’ambito delle sue scelte personali»8. Nel 1981 la Corte Suprema, nel caso Harris vs McRae, stabilì che questo diritto alla privacy non implicava il fatto che i programmi federali di assistenza medica finanziassero gli aborti necessari per ragioni mediche. La privacy, sostenne la Corte, doveva essere garantita in merito alla «decisione della donna se interrompere o meno la gravidanza». Poi la Corte permise al governo di appoggiare una decisione piuttosto che l’altra, sostenendo con finanziamenti pubblici la prosecuzione della gravidanza e non le interruzioni volontarie. Affermando che la privacy decisionale rimaneva nondimeno costituzionalmente intatta, la Corte asserì che «sebbene non debba ostacolare l’esercizio della libertà di scelta della donna, il governo non è tenuto a rimuovere gli impedimenti a questo esercizio di cui non sia esso stesso la causa»9. Apparentemente c’è poca differenza tra dire che il governo ha un dovere di non intervenire e dire che il governo non ha alcun dovere di intervenire. L’idea di privacy, se interpretata come il confine ultimo dei limiti posti alle azioni di governo, esprime una tensione tra la preclusione di una pubblicizzazione o di un’intrusione governativa, da una parte, e l’autonomia intesa come protezione della sfera d’azione persona-

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le, dall’altra. Si tratta propriamente di una tensione, non delle due facce di una stessa medaglia. Nello stato liberale questa tensione viene risolta tracciando un confine tra la sfera in cui allo Stato è lecito penetrare e l’ambito considerato libero per definizione: la sfera privata. In questo modo lo Stato garantisce agli individui quella che è stata denominata «una personalità inviolabile» assicurando la cosiddetta «autonomia o controllo sugli aspetti più intimi dell’identità personale»10. Lo Stato garantisce tutto ciò autolimitandosi sulle questioni riguardanti il corpo e la casa, specialmente la camera da letto. Mantenendosi al di fuori del matrimonio e della famiglia, notoriamente distinguendo la sessualità – vale a dire, l’eterosessualità – dalla contraccezione, attraverso la pornografia fino alle decisioni riguardanti l’aborto, la legge sulla privacy si propone di garantire agli individui l’integrità fisica, l’esercizio personale della propria intelligenza morale e libertà nella sfera dell’intimità11. Ma se qualcuno si chiede se i diritti delle donne a questi valori siano stati garantiti sembra proprio che la legge sulla privacy operi una traduzione dei valori sociali tradizionali nella retorica dei diritti individuali al fine di subordinare tali diritti ad imperativi sociali specifici12. In termini femministi sostengo che la logica del caso Roe, coronata dal caso Harris, traduce l’ideologia della sfera privata nel diritto individuale della donna alla privacy per subordinare le esigenze collettive delle donne agli imperativi della supremazia maschile. Questa è la mia analisi retrospettiva del caso Roe vs Wade. La riproduzione è sessuale, gli uomini controllano la sessualità e lo Stato sostiene gli interessi degli uomini come gruppo. La sentenza del caso Roe non contraddice tutto ciò. Perché dunque l’aborto è stato legalizzato? Perché ci si è addirittura immaginati che le donne abbiano un diritto alla privacy? Non è un’accusa di malafede rispondere che gli interessi degli uomini come gruppo sociale convergevano con la definizione di giustizia incarnata, nel diritto, in ciò che io chiamo il punto di vista maschile. Il modo in cui il punto di vista maschile costruisce un evento sociale o un’esigenza giuridica sarà anche il modo in cui quell’evento sociale o esigenza giuridica verrà elaborato dalle politiche statali. Per esempio, nella misura in cui il possesso è la sostanza del sesso, lo stupro sarà illegale in quanto sesso con una donna che non è vostra, a meno che l’atto stesso non la renda vostra. Se parte dell’eccitazione che la pornografia suscita dipende dall’erotizzazione di ciò che si presume proibito, la pornografia illegale

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– l’oscenità – verrà proibita tanto quanto serve per mantenerla attraente, senza mai renderla veramente illecita o indisponibile. Se, dal punto di vista maschile, maschio è la definizione implicita di umano, la mascolinità sarà il criterio implicito in base al quale la legge sulla discriminazione valuterà l’eguaglianza tra i sessi. In altri termini la possibilità dell’aborto esprime ed è espressa dalle condizioni che gli uomini decidono tra di loro per garantire alle donne la legittimità di controllare le conseguenze riproduttive del rapporto sessuale. Fin dai tempi di Freud il problema sociale posto dalla sessualità è stato percepito come problema della repressione del desiderio innato per il piacere sessuale operata dai vincoli della civiltà. In tale contesto l’ineguaglianza dei sessi si presenta come problema solo nell’educazione repressiva alla passività e alla freddezza (la cosiddetta frigidità) che le donne subiscono, nella cosiddetta desessualizzazione delle donne e nelle svariate conseguenze biologiche del sesso, vale a dire nella gravidanza. Chi definisce che cosa è sessuale e dunque che cosa sia la sessualità, quali stimoli siano erotici, per chi siano tali e perché, e chi definisce le condizioni in cui la sessualità si esprime – tali questioni non vengono nemmeno prese in considerazione. La risposta che la «civiltà» dà a queste domande mette insieme, nella definizione di che cosa è una donna, la nostra capacità riproduttiva con la sessualità che ci è ascritta. Siamo definite come donne in base all’uso cui gli uomini ci destinano. In tale contesto diviene chiaro come mai la lotta per la libertà procreativa non abbia mai incluso il diritto della donna di rifiutare il sesso. In base a questa nozione di liberazione sessuale, la questione dell’eguaglianza è stata presentata nei termini di una lotta volta a consentire alle donne di fare sesso con gli uomini alle stesse condizioni degli uomini: «senza conseguenze». In questo senso il diritto di abortire è stato inteso come libertà dalle conseguenze riproduttive dell’espressione sessuale e la sessualità è stata definita come incentrata sul rapporto genitale eterosessuale. È come se, più che le relazioni sociali, fossero gli organismi biologici a perpetuare la specie. Ma se ciò di cui vi preoccupate non è quanta più gente possa fare più sesso, ma chi definisce la sessualità – sia il piacere sia la violenza – allora il diritto di abortire si situa all’interno di una problematica ben diversa: segnatamente, la problematica sociale e politica della diseguaglianza tra i sessi. Come disse Susan Sontag: «Fare sesso in sé non è liberatorio per le donne. E nemmeno lo è fare più sesso [...]. Il punto è: di quale sessualità le

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donne dovrebbero essere libere di poter godere?»13. Per affrontare tale questione è necessario riformulare il problema della sessualità non più nei termini della repressione degli impulsi prodotta dalla civilizzazione, ma in quelli dell’oppressione delle donne ad opera degli uomini. Nell’agenda politica femminista, gli argomenti a favore dell’aborto si sono basati sul diritto a esercitare un controllo sul proprio corpo – un corpo neutrale dal punto di vista del genere. Sono convinta che questo argomento sia sembrato convincente per le medesime ragioni per cui si rivela inadeguato: a livello sociale, il corpo femminile non è appartenuto alle donne; non abbiamo esercitato un controllo sul suo significato e sul suo destino. Le femministe hanno cercato di rivendicare tale controllo senza correre il rischio di fare un passo avanti con l’idea che potrebbe essere in gioco qualcosa di più del nostro corpo, qualcosa di più simile ad una rete di relazioni all’interno della quale veniamo (per ora inevitabilmente) definite sulla base del genere14. Alcune femministe si sono accorte che il nostro diritto di decidere è stato sommerso dall’opprimente diritto di professionisti maschi a che le loro decisioni professionali non fossero giudicate dal governo15. Ma la maggior parte dei difensori dell’aborto ragionano in termini rigidamente e rigorosamente neutrali dal punto di vista del genere. Così, per esempio, l’argomento di Judith Jarvis Thomson, in base al quale una donna sequestrata non ha alcun obbligo di diventare lo strumento di mantenimento in vita di un famoso violinista, era volto a dimostrare che le donne non hanno alcun obbligo a mantenere in vita un feto16. Il parallelo non sembra pertinente. Nessuna donna che abbia la necessità di abortire – nessuna donna, punto – e nessun potenziale che la vita di una donna potrebbe contenere sono stimati preziosi quanto le illimitate possibilità di un famoso violinista il cui genere è indeterminato. I problemi di genere vengono così accentuati piuttosto che risolti o, per lo meno, affrontati. Inoltre il riconoscimento, implicito nella metafora, dell’origine del problema nello stupro – l’origine nella violenza, nel sequestro, che conferisce gran parte dell’ipotetico peso morale al problema – limiterebbe l’aborto ai casi in cui la violenza è riconosciuta in quanto tale, come lo stupro o l’incesto. L’applicabilità di questo argomento ai normali casi di aborto non è né riconosciuta né sconfessata, sebbene la metafora fosse intesa – così come, di solito, lo sono le politiche

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sull’aborto – per essere applicata ai casi comuni. Questa storia è precisamente concepita perché il dibattito abbia inizio dopo che il sesso è avvenuto, e ciononostante anch’essa, per avere senso, necessita di una discussione sulla relazione tra il rapporto sessuale, lo stupro e il concepimento. Poiché di questa questione si è accuratamente evitato di parlare nel caso dell’aborto, il fondamento diseguale su cui si costituisce la personalità di una donna rimane nell’ombra. Sullo sfondo di una critica sessuale alla diseguaglianza di genere, l’aborto non fa che assicurare alle donne la possibilità di fare sesso con gli uomini alle stesse condizioni riproduttive a cui gli uomini fanno sesso con loro. Finché le donne non eserciteranno un controllo sulla propria sessualità, l’aborto agevolerà la disponibilità eterosessuale delle donne. In altre parole, in condizioni di diseguaglianza di genere, la liberazione sessuale così intesa non libera le donne, bensì l’aggressione sessuale maschile. La possibilità dell’aborto rende inefficace l’unica scusa considerata legittima rimasta alle donne per rifiutare il sesso, a parte il mal di testa. Come ha detto Andrea Dworkin analizzando l’ideologia maschile sull’aborto: «In gioco era l’essere scopate»17. La Playboy Foundation ha sostenuto l’aborto fin dal primo giorno; e continua a farlo, nonostante i fondi sempre più ridotti, attribuendo alla questione un livello di priorità paragonabile a quello che attribuisce all’opposizione alla censura. La dottrina della privacy è il veicolo ideale per questo processo. Secondo l’ideale liberale del privato – e la privacy come ideale è stata formulata in termini liberali – gli individui autonomi interagiscono liberamente ed equamente nella misura in cui il pubblico non interferisce. Il concetto di privato è ermetico. Significa ciò che è inaccessibile, inspiegabile e non costituibile da qualcosa che sia altro da sé. Per definizione, non è parte di un sistema, né è condizionato da fattori esterni. È personale, intimo, autonomo, determinato, individuale, sorgente originaria e avamposto del sé, indeterminato rispetto al genere. In breve, esso è definito da tutte quelle cose che, come le femministe hanno dimostrato, non sono mai state concesse alle donne e da tutte quelle cose con cui le donne sono state identificate e definite sulla base della capacità maschile di appropriarsene. Denunciare nell’ambito pubblico la diseguaglianza insita in quello privato significa contraddire la definizione che i liberali forniscono di quest’ultimo. In questo senso, nessun intervento statale contribuisce a dar forma alle strutture del privato o a distribuire le sue forze

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interne e dunque lo Stato non dovrebbe intervenire. L’inviolabilità del privato da parte dello Stato, elaborata in forma di un diritto individuale, presuppone che il privato non sia già un suo strumento. In questo schema, si ritiene implicitamente che l’intimità garantisca la simmetria del potere. Un danno si verifica con la violazione della sfera privata, non all’interno o a causa della sfera privata. Nel privato si tende a supporre che ci sia consenso. È vero che una dimostrazione della coercizione rende nulla questa supposizione, ma il problema è far sì che qualcosa di privato sia percepito come coercitivo. La domanda sul perché qualcuno dovrebbe consentire che ci sia violenza nel privato – la domanda che viene rivolta alle donne vittime di percosse sul perché non se ne vanno – diviene urgente a causa del significato sociale del privato come sfera della scelta. Ma per le donne la misura dell’intimità è stata la misura dell’oppressione. Questa è la ragione per cui il femminismo ha dovuto demolire il privato, la ragione per cui ha affermato che il personale è politico. In questo senso, il privato non esiste, né sul piano normativo né su quello empirico. Il femminismo affronta il fatto che le donne non hanno una privacy da perdere o da garantirsi. Noi non siamo inviolabili. Non solo la nostra sessualità è violabile, ma è definita nella misura in cui viene violata, così come accade per noi. Affrontare il fatto che non abbiamo privacy significa affrontare l’intima degradazione delle donne come una questione di ordine pubblico. Sotto questa luce, il diritto alla privacy sembra un’offesa confezionata come fosse un regalo. La libertà dall’intervento pubblico difficilmente può coesistere con un diritto che necessita di presupposti sociali al fine di essere significativamente garantito. Per esempio, se la diseguaglianza è effettiva e socialmente pervasiva, per realizzare l’eguaglianza sarà necessario un intervento attivo, non astensivo. Ma non si ritiene che il diritto alla privacy richieda un cambiamento sociale; né si pensa che necessiti di presupposti sociali diversi dal non intervento pubblico. La ricaduta di tutto ciò sulla questione dell’aborto non implica né che il potere pubblico debba porre rimedio all’indigenza – che era lo specifico ostacolo ad una scelta effettiva nel caso Harris, né che lo Stato sia dispensato dall’affrontare la questione della distribuzione della ricchezza. Piuttosto, il punto è un altro: la presunzione, resa esplicita nel caso Roe vs Wade, che un non intervento governativo nella sfera privata promuova la libertà di scelta delle donne. Quando l’alternativa è il carcere, molto si può dire a

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favore di questo argomento; ma gli esiti del caso Harris confermano il significato profondo della privacy del caso Roe: il pubblico non garantisce alle donne nulla di più di quanto possano ottenere nel privato – ovvero, ciò che possiamo estorcere grazie alle nostre relazioni intime con gli uomini. Sono le donne privilegiate a ottenere dei diritti. Così le donne hanno ottenuto l’aborto come privilegio privato, non come diritto pubblico. Abbiamo ottenuto un controllo sulla riproduzione che è esercitato «da un uomo o dall’Uomo», da un singolo uomo, dai medici o dal governo. L’aborto non è stato decriminalizzato, ma legalizzato. Nel caso Roe il governo ha preparato il terreno per le condizioni alle quali le donne ottengono un accesso a questo diritto. Praticamente ogni oncia di controllo che le donne hanno acquisito in virtù di questa legalizzazione è finita direttamente nelle mani degli uomini – mariti, medici, padri – oppure è attualmente oggetto di una serie di tentativi volti a revocarlo attraverso una regolamentazione18. Questo è senz’altro quello che si intende quando si parla di una riforma. Essendo il diritto di abortire ricondotto al diritto alla privacy, non è contraddittorio che una donna che ha deciso di abortire non possa chiedere alcun sostegno pubblico, e che questa impossibilità non sia riconosciuta affatto come un ostacolo alla sua decisione. La privacy, concepita come un diritto contro l’intervento pubblico, e la pubblicizzazione, è il contrario del sostegno che con il caso Harris si è cercato di fornire alle donne. L’intervento dello Stato avrebbe fornito una scelta che le donne nel privato non avevano. Le donne coinvolte nel caso Harris erano donne il cui rifiuto sessuale aveva contato ben poco e avevano bisogno di qualcosa che rendesse effettiva la loro privacy19. La logica della reazione della Corte è simile alla logica in base alla quale si suppone che le donne acconsentano al sesso. Si precluda ogni alternativa e poi si chiami «scelta» l’unica opzione rimasta. Il problema è che le alternative vengono precluse prima che entri in gioco la dottrina giuridica prescelta. Vengono precluse a causa delle condizioni di sesso, razza e classe sociale – proprio quelle condizioni che la cornice della privacy non solo lascia sottintese, ma garantisce. Quando la legge sulla privacy limita le intrusioni nella sfera dell’intimità, impedisce il cambiamento nel controllo di quella intimità. La legge sulla privacy esiste precisamente per tutelare l’attuale distribuzione del potere e delle risorse nell’ambito della sfera

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privata. Probabilmente non è una coincidenza che proprio quegli elementi che il femminismo considera come centrali per la soggezione delle donne – il luogo, il corpo; le relazioni, quelle eterosessuali; le attività, il rapporto sessuale e la riproduzione; i sentimenti, quelli intimi – costituiscano il nucleo di quanto è ricompreso nella dottrina sulla privacy. Da questa prospettiva, il concetto giuridico di privacy può nascondere, e di fatto ha nascosto, lo spazio delle percosse, dello stupro coniugale e dello sfruttamento del lavoro femminile; ha conservato le istituzioni fondamentali per mezzo delle quali le donne vengono private della loro identità, della loro autonomia, della capacità di controllo e di autodeterminazione; ha protetto le attività principali in cui si esprime e si consolida la supremazia maschile. Allo stesso modo in cui la pornografia è giuridicamente protetta come libertà di espressione individuale – senza che si discuta di chi siano la libertà e l’espressione e a spese di chi siano esercitate – la privacy astratta tutela l’autonomia astratta senza preoccuparsi di chi sia la libertà di azione che essa autorizza e a spese di chi la autorizzi. Non riuscire a riconoscere il significato del concetto di privato nell’ideologia e nella realtà della subordinazione delle donne perché si cerca protezione in un diritto a quel tipo di privacy significa escludere le donne sia da un processo di verifica collettiva, sia dal sostegno statale. Credo che questo abbia molto a che fare con la ragione per cui le donne non riescono ad organizzarsi sulla questione dell’aborto. Quando le donne sono segregate nel privato, separate e sole, un diritto a questo tipo di privacy al contempo le isola le une dalle altre e dal sostegno pubblico. Il diritto alla privacy è il diritto degli uomini «a essere lasciati in pace»20 mentre opprimono le donne una per volta. Esso incarna e riflette l’attuale definizione di donna che vige nella sfera privata. Rappresenta un’istanza liberale chiamata femminismo, un liberalismo applicato alle donne come se fossimo persone, senza determinazioni di genere. Rafforza la separazione tra pubblico e privato, che non è neutrale dal punto di vista del genere e che, al contempo, mente riguardo all’esperienza condivisa delle donne e mistifica l’unità delle sfere in cui si esercita violenza sulle donne. Si tratta di una separazione molto materiale che mantiene il privato al di là della possibilità del pubblico di intervenire con una riparazione e che depoliticizza la soggezione delle donne che si compie al suo interno. Semplicemente, tiene alcuni uomini fuori dalle camere da letto di altri uomini21.

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Molestie sessuali: i primi dieci anni in tribunale*

Le molestie sessuali – l’evento – non sono un fatto nuovo per le donne. È la legge che le punisce a essere una novità. La pressione sessuale esercitata su qualcuno che non è in una condizione economica tale da poter esprimere il proprio rifiuto è divenuta discriminazione sessuale intorno alla metà degli anni Settanta1 e nell’ambito delle istituzioni educative subito dopo2. È diventato possibile difendersi per vie legali dalle molestie sessuali perché alcune donne hanno attribuito alle esperienze di violenza subite da altre donne un’importanza tale da costruirvi intorno una legge – come se quello che accadeva alle donne contasse qualcosa. Questo modo di procedere sembrò così sorprendente che le molestie sessuali furono dichiarate un’invenzione femminista. Le molestie sessuali – l’evento – non sono un’invenzione femminista: chi le attua lo fa senza alcun aiuto da parte nostra. Le molestie sessuali come fattispecie giuridica – l’idea che il diritto debba considerarle dal punto di vista delle vittime – sono certamente un’invenzione femminista. Le femministe per prime

*  La versione originale di questo discorso era parte di una tavola rotonda sulle molestie sessuali a cui partecipai con Karen Haney, Pamela Price e Peggy McGuinness alla Stanford University di Stanford, California, il 12 aprile 1983. In seguito diventò un intervento per la Equal Employment Opportunities Section dell’American Bar Association, tenutasi a New Orleans, Lousiana, il 3 maggio 1984 e per un laboratorio di preparazione alla conferenza nazionale della National Organization for Women che si tenne a Denver, Colorado, il 14 giugno 1986. Le idee si svilupparono ulteriormente quando feci parte del collegio di difesa di Mechelle Vinson nel dibattimento alla Corte Suprema nella primavera del 1986. Devo molto alle conversazioni con Valerie Heller. Questo contributo è stato pubblicato per la prima volta in Italia con il titolo Nei tribunali statunitensi una legge delle donne per le donne su «Democrazia e diritto», 2 (1993).

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hanno preso l’esperienza delle donne abbastanza sul serio perché si facesse luce sul problema, lo si concettualizzasse e lo si perseguisse giuridicamente. Questa rivendicazione giuridica sta proprio ora iniziando a consentire che siano riportati numerosissimi casi. Sono passati dieci anni ed «è possibile che le molestie sessuali siano ad oggi la questione più scottante del VII Titolo»3. È il momento di effettuare una ricognizione e di esprimere una valutazione di questo sviluppo. La legge contro le molestie sessuali è un tentativo pratico di porre fine a una forma di sfruttamento. Inoltre mette alla prova la politica sessuale come giurisprudenza femminista, le possibilità per le donne di ottenere una trasformazione sociale attraverso il diritto. L’esistenza di una legge contro le molestie sessuali ha influenzato sia il contesto di significato in cui si svolge la vita sociale sia la concreta erogazione di diritti attraverso il sistema giuridico. Alle vittime delle molestie sessuali è stato dato un nome con cui indicare la propria sofferenza e un’analisi che istituisca una relazione tra le molestie e il genere. È stato dato loro un tribunale cui appellarsi, la legittimazione a parlare, l’autorità di intentare cause e una via per una possibile riparazione. Prima, quanto accadeva loro era normale. Ora non lo è più. Questo conta. L’abuso sessuale riduce le vittime al silenzio, in società, attraverso la violenza stessa. Spesso chi compie l’abuso impone segretezza e silenzio; la segretezza e il silenzio possono essere parte di ciò che rende l’abuso sessuale così eccitante. Quando anche lo Stato nega uno spazio legittimo per fare denuncia e ottenere una riparazione per il torto subìto, esso suggella la segretezza e rinforza il silenzio. Il danno provocato da questo processo, il quale nega ogni possibilità di parola, di conseguenza diventa gravissimo. Se non esiste il posto giusto per andare a dire: questo mi ha ferita, allora una donna è semplicemente quella che si può trattare così e, come si dice in questi casi, non è stato fatto niente di male. In realtà, preferirei non dover impegnare tutta questa energia per fare sì che la legge riconosca come torti i torti subiti dalle donne. Ma sembra che legittimare come offese le offese che subiamo sia necessario per delegittimare la nostra vittimizzazione; finché non avremo raggiunto questo obiettivo è difficile fare un passo avanti. La battaglia per il riconoscimento giuridico delle molestie sessuali le ha rese, per la prima volta, non solo legalmente, ma anche socialmente

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illegittime. Se riuscite a immaginare un modo migliore per raggiungere un risultato simile, fatemi sapere. A proposito di questa interazione tra diritto e società, è necessario ricordare che le corti possono anche revocare la legittimità che forniscono. Questa preoccupazione sembra un po’ esagerata, in confronto alla possibilità di ottenere una riparazione laddove non ne esisteva alcuna, dal momento che le donne, in questo campo, hanno cominciato dal nulla. Un problema diverso è se la possibilità di ottenere una riparazione alteri i rapporti di potere che generano le molestie sessuali medesime e che consentono ai colpevoli di farla franca. La fattispecie giuridica delle molestie sessuali rappresenta la richiesta che l’autorità statale, in determinate situazioni che prima erano una prerogativa maschile, appoggi le donne che rifiutano l’accesso sessuale. Con il sessismo, c’è sempre il rischio che la nostra esigenza di autodeterminazione venga scambiata per una richiesta di protezione paternalistica e che dunque finisca per rinforzare il potere maschile piuttosto che indebolirlo. Questa preoccupazione sembra molto ragionevole, nella misura in cui la legge contro le molestie sessuali ha avuto origine dalla giurisprudenza casistica, senza una guida o una definizione legislativa. Il supporto istituzionale all’autodeterminazione sessuale è una vittoria; il paternalismo istituzionale consolida la nostra mancata autodeterminazione. Il problema è che lo Stato non ha mai effettivamente tutelato la dignità o l’integrità fisica delle donne. Si limita a dichiarare di farlo. La protezione che esso offre è insieme condiscendente e irreale: di conseguenza il protettore, che sia un individuo colpevole o lo Stato, si vede accresciute le opportunità di abusare a proprio piacimento della persona che protegge. Questa però non mi sembra una ragione per non avere una legge contro le molestie sessuali. È una ragione per pretendere che la promessa di una «eguale protezione delle leggi» sia mantenuta per noi, come avviene quando sono delle persone vere a subire una violenza. Inoltre, fa parte di una più ampia battaglia politica intrapresa al fine di valutare le donne più di quanto sia valutato il piacere maschile di usarle. Infine, tuttavia, la questione se l’azione statale favorisca le donne o piuttosto le svantaggi può essere risolta solo nella pratica, dato che finora l’effettiva protezione delle leggi che è stata fornita si riduce a poca cosa. Il riconoscimento giuridico delle molestie sessuali rappresenta, per quanto ne so, il primo momento nella storia in cui le donne han-

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no fornito una definizione giuridica delle offese subite dalle donne. Pensiamo a quanto è avvenuto con lo stupro. Noi non abbiamo mai definito il reato di stupro. Lo definiscono gli uomini, definendo ciò in cui ritengono consista questa violenza inflitta alle donne e basandosi, tra le altre cose, su ciò che personalmente ritengono di non fare. In questo modo lo stupro diviene un’azione compiuta da un estraneo (vale a dire, da un nero) a danno di una donna (bianca) che non ha mai visto prima. Per la gran parte, gli stupri sono intrarazziali e vengono compiuti da uomini che le donne conoscono bene4. Domandate a una donna se è mai stata stuprata e in molti casi vi risponderà: «Beh... non proprio». In quel silenzio tra il «beh» e il «non proprio», ha confrontato quanto le è accaduto con tutti i casi di stupro di cui ha sentito parlare e ha stabilito che in tribunale non potrebbe mai vincere. Specialmente quando fai parte di un gruppo subordinato, la tua definizione delle offese che subisci è potentemente influenzata dalla possibilità che ritieni di avere di indurre qualcuno a fare qualcosa in merito, compreso qualcosa di ufficiale. Si è realisti per necessità e a comandare è la voce della legge. Se la fattispecie di reato non contempla precisamente l’ingiustizia così come si è compiuta, come nel caso dello stupro, quella legge può compromettere la legittimità sociale, politica e anche giuridica dell’ammettere, persino a se stessi, che quanto è accaduto è davvero un’ingiustizia. Non è mai troppo presto per preoccuparsene, ma potrebbe essere troppo presto per scoprire se la legge contro le molestie sessuali ci sarà tolta, si rivelerà inutile o persino dannosa. Il punto è che, da ogni punto di vista, questa legge sta funzionando sorprendentemente bene per le donne, in particolare se la si confronta con le altre leggi contro la discriminazione sessuale. Se la domanda – e mi sembra una buona domanda – è se una legge elaborata dal punto di vista delle donne e amministrata attraverso questo sistema giuridico possa fare qualcosa per le donne, questa esperienza fornisce per ora una cauta e parziale risposta affermativa. È difficile fare a meno di pensare a ciò che si sa, ma c’è stato un tempo in cui gli eventi che ora sono classificati come molestie sessuali non lo erano. È un po’ com’era, fino a poco tempo fa, per i danni provocati dalla pornografia. Gli eventi che ora costituiscono un reato non avevano «esistenza» sociale, né forma, né chiarezza cognitiva e ancor meno generavano un riconoscimento giuridico. Semplicemente, erano qualcosa che ti capitava. Per le donne a cui

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sono capitati, non erano parte di qualcosa e tanto meno di qualcosa di ampio o di condiviso come il genere. Non erano ricompresi in alcuna categoria nota. Non si trattava di una regolarità, né di un’irregolarità. Nemmeno gli scienziati sociali se ne occupavano – e loro studiano qualsiasi cosa si muova. Quando il diritto ha riconosciuto le molestie sessuali come una pratica di discriminazione sessuale, le ha sottratte all’ambito dell’«e allora lui... e poi lui...» (il linguaggio primitivo attraverso il quale l’abuso sessuale vive in una donna) e le ha trasformate in un’esperienza dotata di forma, di eziologia, che si cumula e si associa ad altre. La configurazione, la struttura e la possibilità di generare associazioni: ognuno di questi elementi è politicamente fondamentale. Quando è diventato possibile fare qualcosa a proposito delle molestie sessuali, è anche diventato possibile saperne di più, perché per le vittime è diventato possibile parlarne. Ora sappiamo, al contrario di quanto avveniva prima che le molestie sessuali fossero rese illegali, che si tratta di un problema diffuso. E lo sappiamo non nel senso che non può non essere vero, ma perché è un fatto documentato. Tra un quarto e un terzo delle donne nella forza lavoro federale dichiara di aver subìto molestie sessuali, molte anche di tipo fisico, almeno una volta negli ultimi due anni5. Ciò significa che, in proiezione, l’85 per cento delle donne prima o poi subisce delle molestie sessuali nel corso della propria vita lavorativa. Tale percentuale si ottiene chiedendo alle donne se hanno mai subìto molestie sessuali – e non se si è verificato questo o quell’evento (domanda con cui, di solito, si arriva a una percentuale ancora più alta). I dati sulle molestie sessuali a danno delle studentesse sono paragonabili6. Di fronte a casi individuali di molestie sessuali, la prima domanda che il sistema giuridico poneva era se si fosse trattato di una questione personale. Sul piano giuridico, questo era per le corti un modo di stabilire se l’episodio fosse basato sul sesso, come doveva essere perché si potesse parlare di discriminazione sessuale. Sul piano politico, era una strategia per isolare le vittime stigmatizzandole come devianti. Mi sembrava anche assurdo che venisse fatta una distinzione tra questione personale e questione legata al genere, come se una donna, personalmente, non fosse una donna. Naturalmente, la sola frequenza statistica non è sufficiente a rendere un episodio non personale, ma la presupposizione che la pressione sessuale in contesti di disparità di potere sia una mania personale delle singole vittime

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è stata minata tanto dai numeri quanto dal fatto che questi numeri si ripartiscono secondo il genere. Prevalentemente sono gli uomini che molestano sessualmente le donne – molte donne. In effetti, è più corretto dire che gli uomini molestano le donne piuttosto che le donne subiscono le molestie. Si tratta di una descrizione del comportamento del molestatore, non del femminismo delle statistiche. Le molestie sessuali sono anche emerse come prodotto della gerarchia. Si presentano all’interno di quelle che definisco gerarchie tra uomini: strutture relazionali in cui alcuni uomini stanno al di sotto di altri, come avviene tra datore di lavoro e impiegato o tra insegnante e studente. Sul lavoro, sono frequenti i casi di molestie sessuali da parte di supervisori nei confronti di dipendenti; nell’ambito delle istituzioni educative, da parte di membri dell’amministrazione nei confronti di membri di livello inferiore e da parte del corpo docente nei confronti degli studenti. Ma accade anche tra colleghi, da parte di terzi e persino da parte di subordinati sul lavoro, uomini che occupano una posizione inferiore o pari a quella delle donne. In generale, gli uomini molestano sessualmente le donne indipendentemente dalle reciproche posizioni nella gerarchia formale. Credo che la ragione per cui le molestie sessuali sono state per la prima volta considerate un’istanza di abuso sistematico di potere nelle gerarchie tra uomini sia che questo è il potere che gli uomini riconoscono. Sanno per esperienza personale che un pericolo pende sul capo di chi non acconsente. Gli esempi di abusi orizzontali o gerarchicamente inversi7 suggeriscono che ci sia qualcos’altro, qualcosa che gli uomini non hanno appreso dall’esperienza personale perché hanno sempre dato per scontati i vantaggi che ne derivano: anche il genere è una gerarchia. Le corti non ricorrono a un’analisi di questo tipo, ma a volte si comportano come se la presupponessero8. È stato necessario mettere a punto la legge contro la discriminazione sessuale affinché ricomprendesse la realtà delle molestie sessuali. Come nel caso dell’istituzione di altri reati legati al genere, la legge non era stata scritta per tale realtà. Sul piano giuridico, perché qualcosa sia legato al genere deve accadere a una donna in quanto donna, non in quanto individuo. L’appartenenza a un genere è intesa come l’opposto dell’individualità, piuttosto che come una sua parte. Chiaramente, nel caso delle molestie sessuali non si può proprio dire che una donna venga trattata senza riguardo per il suo sesso:

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è proprio a causa del suo sesso che viene molestata. Ma il significato sociale attribuito alle donne come classe, per cui le donne sono definite come genere femminile in quanto sessualmente accessibili da parte degli uomini, non viene preso in considerazione dalle corti quando stabiliscono se un determinato episodio si è verificato a causa del sesso. Tipicamente, la legge contro la discriminazione sessuale giudica che un evento accada a causa del sesso quando capita a un sesso, ma non all’altro. Il procedimento iniziale è aritmetico: si tracci una linea di divisione tra i generi e si conti quanti membri di ciascun genere si trovano da una parte e dall’altra nella situazione in questione; alternativamente, si prenda la linea tracciata dalla pratica o dalla politica e si verifichi se corrisponde a quella che divide i sessi. Un effetto collaterale di questo calcolo squisitamente numerico è quella che definisco la difesa bisessuale9. Supponiamo che un uomo sia accusato di aver molestato sessualmente una donna. Può sostenere che le molestie non siano legate al sesso, perché lui indifferentemente molesta entrambi i sessi allo stesso modo. Inizialmente si è affermato che le molestie sessuali propriamente non costituivano un’istanza di genere nella misura in cui possono colpire entrambi i sessi. Abbiamo risposto che si trattava di una questione sostanziale da argomentare e dimostrare, una questione del tipo «lui l’ha fatto», piuttosto che una questione di diritto, del tipo «se lui avrebbe potuto farlo». Ma le corti hanno accettato l’argomento, creando così questa difesa kamikaze. Per quanto ne so, da allora nessuno se ne è mai servito10. Come suggerisce questo esempio, un calcolo squisitamente numerico può fornire una rapida topografia del territorio, ma si è rivelato troppo rozzo per poter distinguere tra un comportamento il cui significato è legato al genere e uno che ha altre chiavi di lettura sociale, specialmente quando a essere coinvolti sono solo due individui. Una volta che si è stabilito che le molestie sessuali sono qualcosa di più di una questione personale, il successivo quesito giuridico che le corti hanno affrontato è stato se fossero qualcosa di meno di una questione biologica. Affermare che le molestie sessuali hanno un fondamento biologico mi è parso qualcosa di estremamente negativo da dire riguardo agli uomini, ma gli imputati sembravano ritenere che ciò annullasse la responsabilità. Le querelanti sostenevano che le molestie sessuali non avessero nulla di biologico, visto che gli uomini che non molestano le donne non hanno niente che non va nei

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livelli di testosterone. Inoltre, se anche si dimostrasse che l’omicidio ha radici biologiche, rimarrebbe pur sempre un crimine. Così, nonostante si dichiarasse che il problema riguardava la dipendenza o meno degli atti dal genere, la questione implicita sembrava essere se l’impulso che spingeva a compiere tali atti fosse rilevante rispetto al danno che provocavano. Un’impostazione simile aveva l’accusa, rivolta alle donne offese dalle molestie subite, di essere ipersensibili. Non che non fosse successo nulla, però era irrazionale percepire l’accaduto come qualcosa di offensivo. Un danno del genere non dipende dal sesso, ma dall’isteria individuale. Di nuovo, l’inchiesta veniva condotta solo in apparenza come se si dovesse stabilire se gli atti compiuti erano legati al sesso, mentre il punto non era più quello di stabilire se l’episodio si fosse verificato, ma se il fatto verificatosi fosse o no rilevante; alla fine, la questione divenne se gli eventi potessero effettivamente procurare un danno. Solo, questa volta non si trattava più degli impulsi istintivi del molestatore che lo sollevavano dalla propria responsabilità, bensì della sensibilità della vittima che rendeva l’episodio del tutto inoffensivo. È stato fatto notare che le vittime delle molestie sessuali sono troppo numerose per essere considerate tutte isteriche. D’altra parte, nelle altre leggi che riguardano offese individuali, le vittime non vengono colpevolizzate; i colpevoli sono tenuti a prendere le vittime così come le trovano, nella misura in cui ci si aspetta che non debbano fare ciò che invece fanno. Una volta respinte queste giustificazioni, si cominciò a dire che le molestie sessuali non erano un problema legato all’impiego lavorativo – cosa che si rivelò difficile da sostenere quando era il proprio lavoro che una donna finiva per perdere. Se, infatti, si trattava di una relazione personale, probabilmente non si chiudeva lì, per quanto anche questo dovesse essere dimostrato, lasciando che il processo facesse luce sul vero significato dei fatti. Il molestatore poteva aver pensato che si trattasse solo di affetto, di amicizia o di divertimento, ma la vittima aveva vissuto qualcosa di odioso, pericoloso e offensivo. Gli esiti di casi del genere sono stati vari. Alcuni giudici hanno accettato la visione del molestatore; per esempio, un giudice ha ritenuto che le richieste formulate dall’accusato – come «che cosa mi dai in cambio?» – e le ripetute insistenze a «uscire» fossero «suscettibili di un’interpretazione innocente»11. Altri giudici, a proposito di eventi praticamente identici (per esempio, «quando farai qualcosa

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di carino per me?»12), hanno appoggiato la querelante. Per quel che vale, nel primo caso il giudice era un uomo e nel secondo una donna. Che le molestie sessuali rappresentino una forma di discriminazione legata al sesso sembra legalmente stabilito, almeno per ora13. In uno dei pochi casi recenti in cui si è discussa la questione del legame con il sesso, gli imputati hanno sostenuto che una causa non poteva essere ritenuta legata al sesso quando l’impiegata si lamentava di ingiurie a lei rivolte sul luogo di lavoro quali «mignotta», «puttana» e «fottuta troia» e «numerosi disegni a sfondo sessuale [erano stati] esposti sulle colonne e in molti altri luoghi ben in vista del magazzino» e riportavano le iniziali del nome della querelante, rappresentandola nell’atto di fare sesso con un animale14. La corte ha dichiarato che «il linguaggio e il comportamento sessualmente offensivo che è stato espresso sarebbe stato quasi irrilevante e sarebbe del tutto fallito nel suo brutale proposito se il querelante fosse stato un uomo. Non esito ad affermare che, se non fosse stato per il suo sesso, la querelante non avrebbe subìto le molestie che ha subìto»15. Spesso lo definiscono «ovvio» o «palesemente ovvio»16. Credo che questo significhi aver segnato un punto. Le molestie sessuali furono per la prima volta riconosciute come offesa legata al genere in quelli che chiamo episodi di qui pro quo (scambio di prestazioni). A volte si pensa che le molestie debbano essere ripetute. Non è così; ci sono casi in cui una volta può essere sufficiente. Tipicamente: una proposta viene fatta, rifiutata e ne segue una perdita17. Per un po’ è parso che questa concatenazione a tre livelli corresse il rischio di trasformarsi da situazione in cui possono verificarsi molestie sessuali in una serie di passaggi richiesti. In molti casi la donna è costretta a sottomettersi perché non è in grado di rifiutare la proposta. Così il problema è diventato il seguente: poniamo che una donna sia costretta ad avere un rapporto sessuale sul lavoro; si tratta di un tentativo fallito di qui pro quo o di un caso di molestie sessuali in cui l’imposizione del sesso costituisce l’offesa? Conosco due casi, uno avvenuto sul lavoro e l’altro nell’ambito delle istituzioni scolastiche, in cui donne costrette a sottoporsi a un rapporto sessuale hanno intentato una causa per molestie sessuali nei confronti di chi le ha obbligate; finora, solamente il secondo caso ha registrato una vittoria relativa alla qualificazione dei fatti18. L’esito del primo caso, negativo sulla qualificazione dei fatti, è stato capovolto in appello. Le pressioni per ottenere prestazioni sessuali

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furono considerate materia sufficiente per intentare una causa, indipendentemente dal fatto che la donna non fosse stata in grado di evitare di accondiscendere19. Non è chiaro se le avances indesiderate costituiscano, come dovrebbero, materia sufficiente per intentare una causa, indipendentemente dal fatto che possano o meno essere respinte; oppure se gli atti di imposizione del rapporto sessuale costituiscano, come pure dovrebbero, materia per una causa basata sull’offensività dell’ambiente al di là di qualsiasi qui pro quo. Nel caso avvenuto a scuola, il caso di Paul Mann, alle studentesse fu accordato il risarcimento dei danni per costrizione al rapporto sessuale20. Se le molestie sessuali non devono essere intese solo come attenzione sessuale imposta a una persona che non è nella posizione di respingerla, ma la respinge, le donne che vengono costrette ad avere un rapporto sessuale devono essere considerate non meno danneggiate, ma quanto e più di quelle che sono state in grado di rendere effettivo il proprio rifiuto. Ottenere un risarcimento per le donne che di fatto sono state sessualmente violate dall’imputato sarà una battaglia più grande. L’idea che le donne possano ottenere un risarcimento in denaro per i rapporti sessuali che hanno avuto viola la metafisica maschile secondo la quale il sesso è ciò per cui la donna è stata fatta. Come ha concluso un giudice: «Sembra essere fuori questione che la querelante non desiderasse avere rapporti con l’imputato, ma è anche del tutto evidente che abbia avuto con lui dei rapporti sessuali volontari»21. Che cosa possiamo pensare a questo punto? Soltanto che la donna non è stata fisicamente forzata al momento della penetrazione e che, trattandosi di sesso, deve averlo voluto. In questo caso la politica sessuale è che gli uomini non considerano come una vittima una donna che abbia avuto rapporti sessuali, quali che siano state le condizioni in cui tali rapporti hanno avuto luogo. Una parte del problema è se una donna che è stata sessualmente violata sia credibile. È difficile separare la credibilità dalla definizione dell’offesa, dal momento che un’offesa di cui non si crede che la donna sia stata vittima proprio perché ne è stata vittima non costituisce un reato, giuridicamente parlando. La questione sembra essere se una donna valga abbastanza da poter essere offesa, così che quanto le è stato fatto sia considerato un danno. Una volta che una donna abbia avuto rapporti sessuali, non importa se volontariamente o per forza, è considerata troppo danneggiata per poter subire un ulteriore danno, o qualcosa del ge-

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nere. A molte donne che sono state stuprate durante le molestie sessuali gli avvocati hanno consigliato di non fare menzione dello stupro perché ciò avrebbe distrutto la loro credibilità! Il fatto che gli abusi si fossero protratti nel tempo ha qualche volta suggerito agli inquirenti che fossero stati tollerati o addirittura voluti, sebbene le molestie sessuali che divengono una condizione di lavoro siano state riconosciute a pieno titolo come fattispecie giuridica22. Una volta stavo parlando con un giudice del caso che stava presiedendo, in cui alcune adolescenti nere sostenevano che nella loro scuola fossero state applicate delle procedure che violavano la loro privacy. Mi disse che, date le loro abitudini sessuali, non avevano alcuna privacy da perdere. A quanto pare, il giudice era venuto a conoscenza delle abitudini sessuali delle ragazze attraverso le testimonianze ammesse al processo, chiari esempi di violazione della privacy. Più un’offesa diventa grave, più cessa di esistere. Non capisco il perché, ma so come ciò avviene. Il momento in cui abbiamo maggior potere è sulla carta, quando formuliamo le nostre denunce; il momento peggiore è invece quando siamo in carne e ossa in tribunale. Abbiamo la massima credibilità (che rimane comunque scarsa) quando per loro rappresentiamo soltanto l’idea di noi stesse e della violazione che abbiamo subìto. In una certa misura, con le nostre affermazioni costruiamo la realtà; ma quando siamo faccia a faccia, il loro punto di osservazione ci inquadra in modo irrevocabile. In tribunale, abbiamo le mammelle, siamo nere; in una parola, siamo donne. Non che sia possibile liberarci di quest’immagine, ma nel momento in cui incarniamo fisicamente la nostra denuncia e loro possono vederci, il processo diventa davvero pornografico. Ho cominciato a pensare che le donne lo sanno e che questa sia una delle ragioni principali per cui molte di loro non sporgono denuncia per le molestie sessuali subite. Non possono sopportare che la propria esperienza di abuso sessuale venga ridotta a una fantasia di loro invenzione, usata per classificarle e per divertire gli inquirenti e il pubblico. Penso che abbiano una percezione precisa del fatto che i loro resoconti sono fonte di divertimento, che altre persone traggono piacere dal racconto in prima persona della sofferenza vissuta e in ciò consiste l’umiliazione che subiscono durante questi rituali. Quando le vittime di stupro dichiarano di sentirsi nuovamente stuprate quando sono sul banco dei testimoni e le vittime di molestie sessuali di sentirsi nuovamente molestate durante il giudizio non si

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tratta esattamente di una metafora. Nell’essere sessualmente umiliate in pubblico dal sistema giudiziario, così come lo sono state da parte dell’uomo che le ha violate, sento che sono diventate pornografia. Nel primo caso, la chiamano libertà; nel secondo, la chiamano giustizia. Se una donna è definita sessualmente – e ciò vale fondamentalmente per tutte le donne, ma la definizione è più forte se si è state vittime di abusi sessuali o se si è identificate come lesbiche, indelebile se si è prostitute – la possibilità che sia risarcita per l’abuso sessuale subìto si riduce proporzionalmente. Sto ancora aspettando che una donna vinca un processo contro un uomo che l’ha costretta ad avere un rapporto sessuale. Supponiamo che il querelante maschio che, in un caso di molestie sessuali, aveva affittato la stanza del motel in cui aveva avuto luogo il singolo incontro sessuale fosse stato una donna e l’accusato fosse invece un uomo [sic]. Una volta che la relazione è finita male, il fatto di aver affittato la stanza al motel non ha comportato, per lui, un problema di credibilità. Né è stata messa in questione la storia sessuale di lui. Neppure, a quanto pare, quando ha denunciato di essere stato licenziato perché la relazione era finita male è stato detto che «aveva voluto» la relazione. Il caso fu respinto in appello per ragioni giuridiche, ma l’uomo vinse il processo23. In casi del genere, il massimo che si può dire delle donne è che possono avere qualche possibilità quelle che hanno avuto rapporti sessuali, ma non con l’accusato. In un caso il giudice non ha creduto alla querelante che negava di aver avuto una storia con un altro collega, ma ha creduto che avesse subìto molestie sessuali da parte dell’imputato24. In un altro, la querelante aveva effettivamente una «intimità linguistica» con un altro uomo al lavoro e tuttavia è stata creduta quando ha affermato che ciò che le era stato fatto dall’imputato erano molestie sessuali25. Si tratta di casi miracolosi. La testimonianza di una donna su queste faccende è generalmente indivisibile. In un altro caso una donna ha accusato due uomini di molestie sessuali. Si era opposta e aveva rifiutato un uomo a cui in precedenza si era dovuta sottomettere, per lungo tempo, perché costretta. Lui stava per cacciarla dal lavoro quando il secondo uomo l’ha violentata. La linea difensiva del primo uomo fu che la loro relazione era andata avanti così a lungo che a lei non poteva non essere piaciuto. Quella del secondo uomo fu che lui aveva sentito che lei aveva avuto rapporti sessuali con il primo uomo e così aveva pensato che fosse aperta a queste cose26. Questa linea difensiva indecente si basa sulla premes-

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sa della definizione delle donne come puttane, intendendo con ciò quello che intendono gli uomini: una donna è qualcuno che esiste perché ci si possa fare sesso, per essere sessualmente disponibile alle condizioni dettate dagli uomini. Se si accetta questa definizione di donna, allora una donna che abbia avuto un rapporto sessuale, forzato o volontario, non può essere sessualmente violata. Una donna può essere considerata in questo modo perché in precedenza è stata vittima di uno stupro o per il linguaggio che usa. In un caso si sostiene che le testimonianze provano che «la condotta presumibilmente molesta è stata in sostanza benevolmente accolta e incoraggiata dalla querelante. Lei stessa ha attivamente contribuito a creare una situazione di disagio nell’ambiente lavorativo tenendo una condotta irriverente e sessualmente provocante»27. A quanto pare, la donna imprecava e partecipava a conversazioni sul sesso. Per questa ragione sarebbe stata, di fatto, a prova di molestie. Molte donne scherzano sul sesso per cercare di evitare l’aggressione sessuale maschile, per cercare di essere uno dei ragazzi nella speranza di essere trattate come tale. Questo ha lo scopo di scoraggiare gli approcci sessuali, non di incoraggiarli. In altri casi, i giudici hanno capito che «le querelanti non avevano gradito i commenti e [...] non li avevano graditi nemmeno molte delle altre donne»28. Un altro fattore è la misura in cui il lavoro di una donna viene sessualizzato. Se il suo lavoro non è vendere il sesso e il suo datore di lavoro le impone di indossare una divisa sessualmente provocante, qualora venisse ripetutamente molestata dalla clientela potrebbe intentare una causa contro il suo datore di lavoro29. Allo stesso modo, sebbene «possa esistere una limitata categoria di lavori (come l’intrattenimento per adulti) in cui le molestie sessuali possono essere la logica conseguenza del lavoro medesimo», una corte ha dichiarato di «non essere così pronta a sostenere che una femmina che va a lavorare in quello che evidentemente è un posto di lavoro prevalentemente maschile debba logicamente aspettarsi le molestie sessuali come parte del lavoro»30. A un certo punto, poi, potrebbe diventare difficile stabilire quali siano i lavori in cui si vende il sesso, dato che viene sessualizzata qualsiasi cosa faccia una donna. Inoltre, la credibilità sessuale, quello strano miscuglio di quanto conta la tua parola e di se e quanto sei stata danneggiata, viene ricondotta, nei casi di molestie sessuali, a una serie di regole tecniche: le testimonianze, l’esposizione e le prove a carico. Nel 1982 l’EEOC ha

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sostenuto che se una vittima aveva subìto molestie sessuali senza che un testimone lo confermasse, le prove non potevano per legge essere considerate sufficienti31. (Chi di voi si chiede in quale relazione tutto ciò stia con la pornografia pensi a questo: se non l’ha visto nessuno, non è successo.) La parola di una donna, anche se creduta, era giuridicamente insufficiente, per quanto l’uomo non avesse niente da contrapporle se non la propria parola e il fatto che le prove fossero a carico della querelante. Proprio come le donne che sono state stuprate, quelle che hanno subìto molestie sessuali dicono «ma non posso provarlo». Intendono che non hanno in mano nulla, se non la propria parola. Prova significa che quello che tu dici ha valore a fronte di quello che dice qualcun altro – e perché ciò sia possibile quello che dici deve prima di tutto essere creduto. Dire che per legge la parola di una donna è di per sé giuridicamente insufficiente significa ritenere che, unicamente nei casi di violenza sessuale, la negazione dell’imputato costituisce una prova. Dire che la parola di una donna non è una prova equivale a dire che è priva di valore. Di solito, l’unica cosa su cui un uomo può contare è la propria negazione. Nel 1983 l’EEOC sostenne un’accusa di molestie sessuali sulla base della sola parola della donna. Dichiarò che era sufficiente, senza creare distinzioni o annullare il caso precedente32. Forse si erano resi conto che le donne non possono scegliere di subire molestie sessuali in presenza di testimoni. La questione della storia sessuale precedente è un campo in cui il problema della credibilità sessuale si pone in modo diretto. Le testimonianze che dimostrano che l’imputato si è già reso colpevole di molestie sessuali nei confronti di altre donne nella medesima relazione istituzionale o nel medesimo ambiente sono sempre più spesso considerate ammissibili – come deve essere33. Altra questione è se possano essere prodotte o considerate ammissibili le prove riguardanti la precedente storia sessuale della vittima – come penso che, invece, non dovrebbe essere. I colpevoli spesso cercano vittime che abbiano caratteristiche, condizioni o situazioni comuni – per loro andiamo bene se ci riveliamo similmente accessibili – ma le vittime non scelgono in alcun modo di essere tali e il loro comportamento sessuale da non-vittime non è più rilevante, rispetto a un’accusa di violenza sessuale, della vita sessuale consensuale, quale che sia, dell’accusato. Finora nel caso principale, conformemente alle disposizioni della

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legge in materia di stupro34, si è stabilito che la storia sessuale della vittima con altre persone non è rilevante, sebbene possa esserlo l’eventuale storia consensuale con l’accusato. Con la legge contro le molestie sessuali ci stiamo assumendo il compito di de-istituzionalizzare, passo dopo passo, la misoginia sessuale. Alcuni degli avvocati difensori hanno chiesto che le querelanti fossero sottoposte, senza restrizioni, a una perizia psichiatrica35, cosa che potrebbe avere un rilevante effetto pratico sulla possibilità, per le vittime, di ottenere un risarcimento. Quante umiliazioni sessuali dovranno affrontare le vittime per rendere effettivo il proprio diritto a essere libere dall’umiliazione sessuale? Gran parte del danno prodotto dalle molestie sessuali consiste nella sessualizzazione pubblica e privata di una donna contro la sua volontà. Il costringerla a parlare della propria sessualità è parte usuale di questo processo, la soggezione la quale induce le donne a cercare riparazione attraverso i tribunali. Le vittime che scelgono di sporgere denuncia sanno che dovranno sopportare ripetute verbalizzazioni dell’abuso sessuale specifico che hanno denunciato. E si fanno carico di tutto ciò nonostante gran parte di loro lo viva come un’esacerbazione, per quanto inevitabile, dell’abuso originario. Per altre, la necessità di ripetere più e più volte gli insulti verbali, le allusioni e le proposte che hanno subìto rappresenta una ragione sufficiente per decidere che la giustizia non vale tanta umiliazione. Se i dati sono corretti, la maggior parte delle vittime di molestie sessuali non sporge denuncia. Molte di loro, che hanno subìto violazioni ignobili, provano una tale vergogna a renderle pubbliche che si sottomettono in silenzio, sebbene ciò distrugga il rispetto che hanno di sé e spesso anche la loro salute; oppure lasciano il lavoro senza sporgere denuncia, sebbene ciò metta a rischio la loro sopravvivenza e quella delle loro famiglie. Finché, in aggiunta al costo di rendere nota la violazione, cosa di per sé già dolorosa, le donne sapranno che verrà divulgata l’intera gamma delle loro esperienze sessuali, dei loro comportamenti, preferenze e pratiche, saranno portate avanti ben poche azioni legali di questo tipo, indipendentemente dalla gravità della violenza inflitta alle vittime. Di fronte alla scelta tra sesso obbligato al lavoro o a scuola, da una parte e divulgazione obbligata della loro sessualità, dall’altra, poche sceglieranno la seconda alternativa. Questo crudele paradosso finirebbe in effetti per annullare gran parte del progresso raggiunto in questo campo36.

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Detto altrimenti, parte del potere di chi compie abusi sessuali sta nella minaccia di rendere l’abuso di dominio pubblico. Funziona come ricatto, mette a tacere le vittime e fa sì che l’abuso possa continuare. È un fatto che la pubblicizzazione dell’abuso sessuale sia spesso più difficile da tollerare per chi lo ha subìto piuttosto che per chi l’ha compiuto e le vittime che decidono di sporgere denuncia hanno il coraggio di affrontare tutto questo. Aggiungere al peso che devono sopportare la possibilità di dover rendere pubblica la propria intera vita privata (che non ha nessuna attinenza con i fatti accaduti o con la loro gravità) significa rendere la legge implicitamente complice del ricatto che impedisce alle vittime di esercitare i propri diritti e garantire sempre più l’impunità dei colpevoli. In effetti, questo equivale a lasciare aperta la caccia contro chiunque non voglia mettere la totalità della propria vita privata a pubblica disposizione. In altri contesti, queste informazioni private sono state ritenute intrusive, irrilevanti, più pregiudiziali che probative37. Permettere che questi dati vengano rivelati quando si tratta di molestie sessuali è come pretendere che le donne subiscano un nuovo abuso prima di concedere loro il diritto a una riparazione per l’abuso che hanno subìto. E nemmeno capirò mai perché la gravità di una violenza, o persino la probabilità che ha di verificarsi, sia valutata in relazione alla personalità della vittima piuttosto che a quello che le è stato fatto. Nella gran parte dei casi di molestie sessuali di cui siamo a conoscenza, specialmente nelle decisioni basate su questioni di diritto piuttosto che su questioni di fatto, la tendenza è quasi uniformemente favorevole a confermare questo modo di ragionare. Almeno finora. Questo quasi certamente non rappresenta la realtà sociale. Forse non riflette nemmeno la maggior parte delle controversie giuridiche38. E potrebbero crearsi dei conflitti, per esempio, tra chi valuta i discorsi in astratto più di quanto valuti le persone nel concreto. Gran parte delle molestie sessuali sono parole. Le donne vengono chiamate «troia», «fica», «tette»39; vengono invitate a una festa aziendale con la precisazione: «portati il bikini (per le donne va bene uno qualsiasi dei due pezzi)»40; affrontano di fronte al manager l’uomo che le tormenta dicendo «mi hai chiamato fottuta puttana», solo per sentirsi rispondere: «No, non è vero. Ti ho chiamata fottuta troia»41. Una corte ha emesso un’ingiunzione contro le domande del tipo: «Ti sei fatta qualcuno durante il weekend?»42. In un caso

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si sostiene che laddove «una persona in posizione di assicurare o negare opportunità d’impiego si serva di tale autorità per tentare di indurre chi cerca o svolge un lavoro alle sue dipendenze a sottomettersi a proposte sessuali, prostituzione e intrattenimenti pornografici e vanta il potere di danneggiare chi non si piega al suo volere» si ammette che si possa procedere per molestie sessuali (e per l’imposizione intenzionale di angoscia emotiva)43. Le molestie sessuali possono anche essere fatte di immagini; la pornografia visiva, così come quella verbale, è comunemente usata come parte dell’abuso. Eppure un giudice ha sostenuto, apparentemente come questione di diritto, che la presenza pervasiva di pornografia nel luogo d’impiego non crea un ambiente lavorativo intollerabile perché «nel bene e nel male, l’America moderna mette in mostra aperte esibizioni di erotismo scritto e figurato. Centri commerciali, negozi di dolciumi e programmi televisivi dell’ora di punta espongono regolarmente corpi nudi e atti sessuali erotici reali o simulati. Vivendo in questo ambiente, l’americano medio non dovrebbe risultare giuridicamente offeso da immagini sessualmente esplicite»44. La querelante non ha detto di essere stata offesa, ma di aver subìto una discriminazione basata sul suo sesso. Se il fatto che un abuso sia diffuso lo rende non perseguibile, nessuna diseguaglianza sufficientemente istituzionalizzata da meritare una legge a sua persecuzione sarebbe punibile. Ulteriori esempi di questo conflitto sono emersi nell’ambito delle istituzioni educative. Al Massachusetts Institute of Technology c’era l’abitudine di mostrare materiale pornografico ogni anno durante le iscrizioni45. È giusto sostenere che in questo caso non si tratta di molestie sessuali, come invece sosteneva un gruppo di donne, perché l’adesione è volontaria, entrambi i sessi sono presenti, si è vagliati per gruppi e non individualmente, nessuno è chiamato in causa in modo diretto e si tratta di immagini e di parole? Oppure si tratta di molestie sessuali perché la condizione delle donne e il trattamento loro riservato, che si presumono tutelati dalla discriminazione sessuale, vengono danneggiati, inclusi quelli delle donne non presenti, offendendo gli individui e minando l’eguaglianza sessuale; e dunque immagini e parole sono i mezzi attraverso i quali si compie la discriminazione sessuale? Per la giurisprudenza femminista, il tentativo di riconoscimento giuridico delle molestie sessuali lascia pensare che se un’iniziativa giuridica è costruita bene fin dal principio, se cioè si parte dalle reali

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esperienze di violenza subita dalle donne, questo fa la differenza. Fino a un certo punto l’esperienza femminile può trovare forma scritta nel diritto, anche con qualche tensione con la corrente struttura dottrinale. Le donne che vogliono resistere alla propria vittimizzazione per vie legali, che non la immaginino inevitabile, possono contare su qualche possibilità, che è sempre più di quanto abbiano avuto finora. Sotto questo aspetto, il diritto non è tutto, ma non è nemmeno niente46. Forse la lezione più importante è che la montagna si può smuovere. Quando abbiamo cominciato, in giurisprudenza non esisteva alcun precedente che permettesse una causa di discriminazione sessuale per molestie sessuali. A volte persino il diritto fa qualcosa per la prima volta.

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Nemmeno quelli che commettono un genocidio si dimenticano che, per distruggere un popolo, si devono distruggere le donne. Andrea Dworkin1 Non ho paura delle granate e delle bombe che possono cadere sulla mia casa. Non chiedono il mio nome. Ho paura dei soldati che entrano nella mia casa e uccidono e feriscono in modo molto personale, e commettono atrocità davanti ai miei figli. Una donna musulmana bosniaca2

Per distruggere un popolo dovrebbe bastare un eccidio di massa. Di fatto, i genocidi dimostrano il contrario. Lo sterminio distrugge i popoli, ma i popoli sono distrutti anche da atti diversi dall’uccidere. In particolare, le violenze sessuali sono divenute facilmente riconoscibili come connesse al genocidio, per la prima volta, in Croazia e * Questo saggio nacque originariamente come Otto Mainzer Lecture, tenuta l’11 aprile 2002 alla New York University, e fu pubblicato in Melissa S. Williams e Stephen Macedo (a cura di), Political Exclusion and Domination, New York 2005, pp. 313 sgg. Gli sponsor generosi della Lecture sono stati dei modelli memorabili per il sostegno, la disponibilità, la cortesia e l’incitamento dimostrati. Sono molto grata agli utili commenti da parte di Ken Harvey, Melissa Williams, Lisa Cardyn, Daniel Rothenberg, Jose Alvarez, Ryan Goodman e Jessica Neuwirth, nonché alla ricerca e all’assistenza tecnica di Ron Levy, Hillary Cameron, Lisa Cardyn, Leila Masson, John Stoltenberg e alla biblioteca di Diritto dell’università del Michigan.

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in Bosnia-Erzegovina, tra il 1991 e il 1994. Là, insieme a un eccidio di massa, i serbi, che intendevano espellere e distruggere i non-serbi in quanto popolo, hanno abusato sessualmente e su vasta scala delle donne e di alcuni uomini3. Da questo cruciale momento bosniaco, guardare indietro alla Shoah della seconda guerra mondiale e in avanti al Ruanda, dove gli hutu hanno perpetrato violenze sessuali di massa contro i tutsi, durante il genocidio del 1994, mette a fuoco la domanda: che cosa fa il sesso nel genocidio? In varie forme, la sessualità può esprimere, mobilitare e dispiegare le aspirazioni sterminatrici di un gruppo con particolare efficacia, come suggerisce l’esame del ruolo che essa ha avuto in questi tre casi di genocidio. Ma cosa rende alcune forme di abuso sessuale utilizzabili per fini connessi, in modo specifico, al genocidio? Quali funzioni legate al genocidio svolge la sessualità? In altre parole, perché la sessualità può diventare uno strumento di genocidio e come funziona nella distruzione di un popolo in quanto popolo? Si assume qui che, quando una violenza è sessuale, tale fatto sia un’informazione rilevante, in base all’idea che il comportamento sociale non sia casuale e che le sue regolarità costituiscano prove. Per intenderci, quando invece di picchiare si stupra, si sceglie uno specifico mezzo di dominio, si trasmettono un messaggio e un significato ben precisi, si rafforza un particolare modello sociale, ci si affida a una specifica forma di potere, si esprime e si mette in atto una peculiare dinamica di gruppo. Quando gli uomini stuprano e non uccidono, o stuprano e poi uccidono, o uccidono e poi stuprano, la stessa dinamica è messa in atto nel genocidio. Si può anche presumere che mezzi di dominio volti a imporre gerarchie sociali siano scelti, in parte, per la loro efficacia: se non funzionassero, o se si pensasse che non possono funzionare, non sarebbero utilizzati. Stando ai precetti dell’economia diagnostica, la scelta di una specifica arma indica anche che essa può fare qualcosa che non si può fare in nessun altro modo. In base al diritto, per essere considerati atti di genocidio, specifici atti devono essere intrapresi con l’intento di distruggere un gruppo razziale, etnico, religioso o nazionale «in quanto tale»4. Ad ogni modo, ai fini dell’analisi sociale, non è necessario che i singoli responsabili, alla fine della catena di comando, sappiano perché si adoperino mezzi sessuali o perché essi risultino distruttivi (sebbene spesso lo sappiano), per infliggere questo tipo di violenza e perché

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questa violenza promuova finalità legate al genocidio. L’obiettivo di questo saggio non è qualificare alcune situazioni come casi di genocidio mostrando che si verificarono certi atti per certi motivi specifici. Non si suggerisce che alcune violenze sessuali siano più gravi o peggiori di altre. Si indagano e esaminano le violenze sessuali che sono state in gran parte ignorate in noti casi di genocidio. Sulla base di questi assunti e di queste osservazioni, e in vista di questo fine, l’uso ricorrente di violenze specificamente sessuali per distruggere popoli ha origini, significati e implicazioni. Questo saggio le guarda attraverso lenti bosniache. I Le violenze sessuali sono clamorosamente emerse durante il genocidio bosniaco; senza dubbio, si è acuita la consapevolezza a riguardo. Durante la primavera del 1992, gli uomini serbi, che per anni avevano vissuto porta a porta con le donne musulmane, indossarono le loro divise e stuprarono le loro vicine in nome della Grande Serbia, il nuovo equivalente del Lebensraum. Quando le forze militari serbe, regolari e irregolari, si raggrupparono e presero il controllo di città dopo città, le donne musulmane e croate furono prima stuprate e poi massacrate come animali, sgozzate con coltelli, sulle colline, nei cortili, nei loro stessi campi. Ragazze adolescenti strappate alle loro famiglie, giovani spose musulmane rapite insieme ai loro figli furono rinchiuse in quelli che un tempo erano bar o alberghi ai lati della strada o baracche per animali, riconvertiti in bordelli, e violentate in serie dai soldati, per mesi, fino a che non riuscivano a scappare o morivano. Così come le popolazioni non-serbe furono assassinate o sequestrate o deportate, le donne non-serbe furono raggruppate dalle forze serbe e internate nelle case o in quelli che un tempo erano edifici pubblici per essere chiamate fuori, notte dopo notte, e stuprate. Epiteti, ingiurie e insulti violentemente anti-musulmani e anti-cattolici accompagnavano di norma questi stupri. Alcune donne furono tenute prigioniere e ripetutamente utilizzate a fini sessuali in campi di concentramento che erano principalmente per uomini, dove le donne cucinavano e ripulivano dopo la tortura dei prigionieri di sesso maschile. Alcune furono ingravidate, trattenute per parecchi mesi, fu impedito loro di abortire e furono rilasciate, in occasione di scambi di prigionieri, solo quando abor-

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tire era ormai pericoloso. In alcuni dei campi di stupro/sterminio, anche gli uomini venivano torturati sessualmente, con violenze simili al linciaggio, che includevano violenze pubbliche sui loro genitali. Le forze serbe stupravano donne di etnia musulmana e croata per procreare, così dicevano, quelli che immaginavano sarebbero stati bambini serbi, utilizzando il sesso come mezzo di riproduzione su base etnica, con lo scopo di produrre un’etnia dominante. Parte integrante della politica serba di «pulizia etnica» (l’eufemismo di questi carnefici per tale genocidio)5, queste violenze sessuali coordinate furono organizzate con l’obiettivo di distruggere le popolazioni di etnia non-serba e creare uno stato serbo etnicamente omogeneo6. Centinaia di migliaia di persone furono uccise e decine di migliaia di donne e ragazze furono stuprate7. Quando scoppiarono le ostilità in Bosnia, lo stupro e altre forme di violenza sessuale furono utilizzate anche come spettacolo connesso al genocidio. Lo stupro pubblico serviva come rituale di degradazione delle donne musulmane. Per esempio, le guardie serbe obbligavano gli uomini ad abusare sessualmente dei membri della loro famiglia e obbligavano altri familiari a stare a guardare8. I serbi filmavano le donne non-serbe che venivano violentate da soldati serbi; questi filmati sono là fuori, da qualche parte9. La sessualità fu anche arruolata per svolgere una funzione propagandistica più convenzionale. Prima dello scoppio di violente ostilità, la pornografia aveva sessualizzato l’abuso delle donne non-serbe, erotizzando l’etnia per denigrare i bersagli, desensibilizzando i violentatori alla violenza contro di loro, caricando sessualmente il gruppo dei carnefici per mettere in atto la violenza sessuale10. Con uno sviluppo senza precedenti, le donne che avevano subìto violenze sessuali sulla base di una combinazione tra discriminazione sessuale e discriminazione etnica/religiosa/nazionale denunciarono pubblicamente, mentre il genocidio era ancora in corso, ciò che veniva fatto alle donne. In Bosnia, le violenze sessuali furono rese pubbliche dopo un periodo storico nel quale lo stupro era stato pubblicamente riformulato come un oltraggio politico ai danni delle donne, favorendone la denuncia. Si potrebbe dire che il mondo arrivò a capire che l’offensiva serba aveva il carattere di un genocidio (e non di una guerra civile) comprendendo che gli stupri che lo accompagnavano erano reali ed erano sistematicamente diretti contro donne non-serbe. In modo ancora più netto, nella furia bosniaca, la

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sessualità, compresi il sesso forzato e la gravidanza forzata, diventò arma intenzionale e organizzata di una politica di genocidio11. O, almeno, gli osservatori divennero nettamente consapevoli che la sessualità era adoperata per questo scopo, e così raccolsero e collegarono tra loro le prove. Diversamente dallo scenario bosniaco, le atrocità sessuali non sono state in primo piano nella Shoah, il genocidio paradigmatico. Quando la Convenzione sul genocidio, scritta immediatamente dopo, elencò come parte della definizione di genocidio ciò che i nazisti avevano fatto con l’intento specifico di distruggere gli ebrei in quanto popolo, le atrocità sessuali non furono esplicitamente incluse nell’elenco. Questo, comunque, non perché non si fossero verificate atrocità sessuali, e non perché la Shoah non presentasse rilevanti dimensioni sessuali12. Piuttosto, con i sopravvissuti reticenti e il resto del mondo contento di essere relativamente dimentico e compiacente, fu possibile minimizzare le violenze sessuali sia nel numero sia nella rilevanza e trascurare la funzione integrale della violenza sessuale nella distruzione connessa al genocidio13. Guardare indietro alla Shoah dopo la Bosnia permette di riconfigurare alcuni aspetti della sua storia che, in precedenza, non potevano essere colti con chiarezza. Come osserva Dagmar Herzog, «i nazisti [...] usavano la sessualità per consolidare la propria forza di attrazione»14. L’ostilità verso gli ebrei fu sessualizzata nella propaganda dell’odio nazista, una documentazione che sopravvive nello stesso materiale. Il ben noto strumento propagandistico di Julius Streicher, «Der Stürmer», presenta immagini erotizzate e parole di intensa ostilità verso gli ebrei. I disegni e i testi con riferimenti sessuali comunicano, tra le altre cose, che gli ebrei dovrebbero essere distrutti, perché gli uomini ebrei si impossessano delle donne «ariane» quando fanno sesso con loro. Descritto come «spesso osceno e disgustoso» dal tribunale di Norimberga15, sebbene appaia appena sessualmente esplicito rispetto agli standard desensibilizzati di oggi, «Der Stürmer» è violentemente antisemita. La sua denigrazione sessualizzata dello stereotipo dell’ebreo sfrutta l’eccitamento sessuale al servizio dell’aspirazione al genocidio16. Tuttavia, il Terzo Reich è solitamente ritratto come refrattario al sesso, tanto che George Mosse arriva ad affermare che il nazismo è ostile a «tutto il materiale a stampa che [...] potesse provocare effetti erotici»17. Per nulla. Proprio questo materiale fu utilizzato dai nazisti per scopi di genocidio.

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Durante tutto il loro genocidio, i nazisti utilizzarono il diritto per controllare l’attività sessuale, sia consenziente sia non consenziente, delle donne e degli uomini. Sotto il Terzo Reich, le relazioni eterosessuali tra il gruppo che il genocidio cercava principalmente di distruggere, gli ebrei, e coloro che cercava di insediare come razza suprema, i cosiddetti ariani, erano proibite dalla Legge per la protezione del sangue e dell’onore tedesco, entrata in vigore nel 193518. Il cosiddetto crimine di Rassenschande19, o di contaminazione della razza, letteralmente il disonore della razza o lo stupro razziale, era diretto anzitutto contro le relazioni sessuali consenzienti tra i due gruppi, sulla base di ragioni contrarie all’incrocio razziale. Proprio come le leggi contro l’incrocio razziale negli Stati Uniti furono scritte solo per impedire ai cosiddetti bianchi di sposare persone di origine africana, senza fare nulla per le donne nere che venivano stuprate da uomini bianchi (che era la norma e normalmente tollerato), così il Rassenschande non fu formalizzato come crimine per proteggere le donne ebree dagli stupri degli uomini tedeschi. Su un enorme striscione a un raduno nazista di massa campeggiava la scritta: «Donne e ragazze! Gli ebrei sono i vostri seduttori!»20, rivolta palesemente a donne e ragazze tedesche «ariane». Il punto era serbare le donne tedesche «ariane» per gli uomini tedeschi «ariani», creare un pretesto per perseguitare le persone ebree e stigmatizzare la sessualità degli ebrei, uomini e donne, per de-umanizzare ulteriormente il gruppo. La legge a tutela del sangue e dell’onore fu, secondo i casi, applicata o ignorata, rendendo gli uomini ebrei vulnerabili a denunce arbitrarie, mentre gli ebrei, uomini e donne, venivano stigmatizzati sessualmente con successo21. Assicurare il trionfo della razza padrona richiedeva non soltanto di impedire che il «sangue» si mescolasse con quello degli «indesiderabili», ma anche di promuovere la procreazione di bambini razzialmente desiderabili. Così, sotto il Terzo Reich, la sessualità fu messa attivamente al servizio della riproduzione. L’obiettivo del progetto Lebensborn di Himmler consisteva nel fare in modo che gli uomini tedeschi «ariani» si riproducessero con donne che avessero dotazioni razziali ariane22. Si stima che circa 20.000 bambini nacquero nelle case allestite per il programma Lebensborn in Germania e nella Norvegia occupata dai nazisti; ce ne erano altre in Francia, Belgio e Lussemburgo23. Non è ancora chiaro se il programma Lebensborn si occupasse di procurare gravidanze o sem-

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plicemente di offrire ospitalità a donne già incinte. Infatti, rimane piuttosto oscuro se le donne facessero volontariamente sesso con i nazisti e fossero dopo calorosamente accolte o avessero la fortuna di capitarvi o se fossero condotte con la forza nelle case di maternità del Lebensborn dopo concepimenti illegittimi; se le donne fossero ingravidate consensualmente o forzatamente, se fossero rapite o abbindolate da promesse romantiche. Altrettanto oscuro è il grado in cui la partecipazione non fisicamente forzata (anche delle donne tedesche «ariane») fosse ottenuta attraverso manipolazione o attraverso pressioni da parte del programma ufficiale; e se i bambini nati fossero stati rapiti o abbandonati o sterminati dai tedeschi. Ci sono prove a sostegno di ognuna di queste tesi24. Il Lebensborn intendeva chiaramente stimolare e promuovere la propagazione di una razza padrona attraverso metodi riproduttivi. Che il programma di per sé comprendesse o meno relazioni sessuali, esse dovevano avere luogo affinché il programma potesse procedere. Ma né i pubblici ministeri di Norimberga, che hanno esaminato in modo abbastanza completo il progetto, né gli storici, preoccupati di evitare provocazioni sessuali25, hanno indagato le condizioni sessuali delle gravidanze implicate nel progetto. L’acquisizione di bambini promossa dal Lebensborn convergeva senza dubbio con la fecondazione di donne non tedesche da parte di soldati tedeschi. Migliaia di donne francesi furono messe incinte dai militari tedeschi di occupazione, sollecitando lo scrutinio razziale dei nazisti che rinchiudevano le donne e i bambini se considerati desiderabili o li sterminavano in caso contrario26. Tuttavia, sembra non sia mai stato accertato, né allora né in seguito, se qualcuna di queste donne fosse stata stuprata. Le donne scandinave che avevano concepito con soldati tedeschi erano spesso brutalmente stigmatizzate come traditrici all’interno delle loro stesse comunità e i loro figli erano fatti sparire per essere allevati da genitori tedeschi, o sterminati – ancora una volta in base al giudizio dei nazisti in merito al loro valore razziale. Sebbene si riconosca comunemente che l’occupazione nazista nei paesi scandinavi si fondasse sul terrore e sulla repressione della popolazione e alcune rivendicazioni siano state alla fine avanzate per conto dei bambini abbandonati del Lebensborn27, non è ancora emersa alcuna informazione concreta che chiarisca se fossero forzate o consensuali le relazioni sessuali tra donne scandinave o di altra nazionalità con militari tedeschi che portarono a queste

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nascite. La maggior parte delle fonti presuppone, in modo piuttosto evasivo, quest’ultima interpretazione28. I resoconti dei pubblici ministeri di Norimberga rispetto alle pratiche eugenetiche naziste, consistenti negli aborti forzati di donne non tedesche che lavoravano come schiave, sono al contrario ricchi di dettagli, decisamente franchi e concettualmente piuttosto sottili rispetto alle stesse questioni: I nazisti formalmente aderivano all’idea che tutti gli aborti fossero volontari, ma ovviamente non era così. Queste donne sfortunate, che lavoravano come schiave in condizioni terribili, in un paese ostile, erano soggette a ogni tipo di pressione diretta o indiretta. Vivevano e lavoravano in condizioni che non avrebbero consentito loro di prendersi cura dei loro figli. Inoltre, ogni gravidanza doveva essere riferita alla temuta Gestapo. La proposta di un aborto da parte di tale organizzazione non ammetteva certo proteste da parte di donne polacche e russe. [...L’aborto] non era che un’altra tecnica per perpetrare il crimine di genocidio e la germanizzazione29.

Durante l’occupazione le donne vivevano in condizioni di estrema costrizione – sotto le quali si suppone comunemente che abbiano avuto brevi relazioni senza impegno. A oggi, la mancanza di interesse per le condizioni sessuali nelle quali le donne concepirono con i soldati tedeschi, durante l’occupazione militare, va di pari passo con la mancanza di ricerche su come le donne ridotte in schiavitù e costrette ad abortire fossero rimaste incinte. Non si sa né se avessero concepito con uomini della loro stessa nazionalità, né se l’atto sessuale che aveva condotto al concepimento fosse consenziente. Un recente studio basato su documenti dell’epoca e su interviste ai testimoni e ai sopravvissuti convalida la tesi degli aborti forzati e delle uccisioni dei neonati delle lavoratrici forzate polacche in Germania, ma rispetto agli atti sessuali legati al loro concepimento, questo è tutto ciò che viene detto: «Molti dei bambini erano figli di uomini del posto che avevano approfittato sessualmente di queste giovani donne straniere, che non avevano diritti né avvocati»30. Quando si tratta, però, dei rapporti sessuali, non sono nemmeno menzionate «le terribili condizioni in un paese ostile», nelle quali le donne ridotte in schiavitù «erano soggette a ogni tipo di pressione diretta o indiretta». Se le donne non potevano

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prendersi cura dei bambini che concepivano e dovevano informare la temuta Gestapo delle loro gravidanze, si può ritenere che la loro iniziativa o il loro controllo sulle relazioni sessuali nelle quali rimasero incinte, anche con uomini del loro stesso gruppo, fosse in qualche senso decisiva? Che dire di quelle gravidanze provocate da uomini tedeschi? Se l’aborto in simili condizioni era germanizzazione e nient’altro «che un’altra tecnica per perpetrare il crimine di genocidio», che cos’era il sesso che lo precedeva? Inoltre, supporre che non ci fosse sesso forzato tra donne ebree e uomini tedeschi, perché il sesso tra loro era illegale, una proibizione che senza dubbio in qualche caso ha funto da deterrente, non è soltanto fraintendere l’obiettivo primario della legge sulla Rassenschande, che consisteva nel proibire rapporti sessuali reciprocamente volontari tra ebrei e «ariani». È anche confondere sesso consensuale e non consensuale, minimizzare la misura in cui la sessualità è stata sfruttata dal Terzo Reich per il genocidio e scambiare congetture per prove. I resoconti relativi a donne ebree stuprate da uomini tedeschi durante la Shoah sono scarsi; un gran numero di studiosi ne enfatizza l’eccezionalità. Per gli ebrei che sopravvissero e per le comunità dei loro discendenti, l’identificazione di fatti relativi alla violenza sessuale – anche se la vergogna ricade giustamente su chi li ha commessi – sembra implicare l’identificazione con quei fatti, rendendo la loro relativa oscurità non sorprendente. Il fatto che le violenze sessuali, anche in circostanze più favorevoli, non sempre siano denunciate, unito alla totale assenza di autorità sensibili e disponibili alle quali rivolgersi, combinato con gli schiaccianti problemi della fame e degli omicidi di massa che richiedono priorità, suggerisce che queste prove, nella misura in cui esistono e possono essere reperite, potrebbero essere solo la punta di un iceberg. Le relazioni sessuali che violavano le linee di separazione tra i gruppi, e che contraddistinsero la Shoah, erano un crimine quando volontarie, ma sembra probabile che fossero ufficialmente ignorate quando imposte con la forza dai membri del gruppo dominante, e in particolare dai militari, ai membri del gruppo subordinato. In realtà, le denunce in merito al sesso forzato sembrano più prominenti nei resoconti dell’epoca rispetto a quanto avvenuto in seguito. Un libro pubblicato nel 1943, contenente testimonianze in prima persona rese a Varsavia nel 1940, afferma semplicemente: «I princìpi razzisti delle leggi di Norimberga non erano sempre rigorosamente

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applicati dai tedeschi agli ebrei della Polonia. Questo era vero in particolare a proposito del principio razzista che proibisce la mescolanza di sangue ariano con sangue ebreo. I nazisti facevano irruzione nelle case degli ebrei e stupravano le donne ebree, e addirittura delle ragazzine ebree. La loro brutalità in questi casi raggiungeva l’apice»31. Si hanno resoconti di ragazze nubili e di giovani donne stuprate prima di essere assassinate nelle azioni degli Einsatzgruppen32. Un rapporto ben documentato riferisce che il ministero della Sanità nazista ordinò allo Judenrat del ghetto di Varsavia di allestire un bordello di cinquanta donne ebree per i soldati tedeschi: «Non lasciatevi intimidire dalle leggi razziali», disse, stando a quanto riferito, un ufficiale nazista. «La guerra è guerra, e in una situazione simile tutte le teorie svaniscono»33. Nel 1942, il «New York Times» pubblicò la traduzione di alcuni estratti di una lettera inviata da una studentessa ebrea di Cracovia che riportava la sua intenzione, condivisa da altre novantadue delle sue compagne, di suicidarsi con il veleno, piuttosto che prestarsi alla prostituzione che, di lì a poco, sarebbe stata imposta loro con la forza dai soldati tedeschi34. Raul Hilberg segnala un documento d’archivio del 1943 il quale riporta che «i dirigenti di un’azienda privata tedesca schiavizzavano sessualmente le donne ebree» nella regione galiziana della Polonia35. Non potendo sapere per certo e a posteriori se gli atti fossero volontari o ottenuti con la forza, interpretando i documenti relativi al periodo della guerra, Birgit Beck stima che tra il 50 e l’80 per cento delle SS e delle forze di polizia di stanza nell’Europa dell’est contravvenne alle norme delle leggi razziali attraverso atti che coinvolgevano rapporti forzati36. Alcune donne ebree dissero di essere state stuprate dai gentili nei loro nascondigli37, ma «le Anna Frank che sopravvissero allo stupro non scrivono le loro storie»38. I campi di concentramento offrono ulteriori resoconti. Una sopravvissuta riferì che suo zio disse di aver assistito a uno stupro di massa di ragazze ebree poi sepolte vive nelle fosse comuni che loro stesse erano state costrette a scavare39. Un’altra sopravvissuta sentì raccontare da una madre che, in un campo di lavoro forzato, «fu costretta a spogliare la figlia e a guardare mentre la ragazza veniva violentata dai cani che i nazisti avevano specificamente addestrato per questo passatempo» e che «questo accadeva ad altre ragazze»40. Una sopravvissuta, dopo aver descritto le ragazze ebree trascinate fuori dai loro blocchi per essere stuprate, disse: «Lo stupro di ragaz-

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ze ebree era consentito. Quello non era Rassenschande»41. E il sincero: «Sono stata stuprata ad Auschwitz»42. Una delle conseguenze del fatto che queste azioni fossero legalmente proibite sembra essere stata che le donne erano di solito uccise dopo essere state stuprate43. Dato che tante di queste donne furono comunque uccise, gli abusi sessuali contro di loro vennero sommersi dalla marea di omicidi. Gli storici che giudicano raro lo stupro sotto il Terzo Reich semplicemente non stanno pensando ai bordelli in questi termini44. Dopo il 1939, sotto i nazisti, la prostituzione era legale, istituzionalizzata e ufficialmente gestita dal Reich45. Sembra che i nazisti abbiano pensato che sfruttare sessualmente le donne servisse a motivare gli uomini a combattere e a lavorare più duramente46. Furono organizzati bordelli gestiti dallo Stato e dalla polizia all’interno di comunità per civili, furono allestiti bordelli militari per la Wehrmacht, donne straniere furono stipate nei bordelli per i lavoratori stranieri schiavizzati e le prigioniere furono usate nei bordelli dei campi di concentramento e di sterminio dai prigionieri e dal personale di quei campi. Questi bordelli erano organizzati in linea con le direttive del genocidio in due sensi. Le persone ai livelli più bassi della gerarchia sociale nazista, che potevano soltanto sfruttare o essere sfruttate dai loro pari nei bordelli, erano sessualmente sottoposte alle leggi razziali. L’élite delle SS ignorava tali leggi (così come fece generalmente la Wehrmacht, almeno fino al 1942)47, rendendo i bordelli semplicemente un altro modo per distruggere le donne ebree. Su risoluta istigazione di Himmler, c’erano almeno nove bordelli nel sistema dei campi di concentramento alla fine della guerra, come Christa Paul ha stimato48. Molte donne imprigionate a Ravensbrück furono rinchiuse o reclutate in essi, così come nei bordelli dell’esercito e delle SS49. Prima che i nazisti facessero propria la prostituzione, decine di migliaia di prostitute furono spedite nei campi di concentramento come «asociali»; alcune di loro, insieme alle donne rinchiuse per Rassenschande, furono costrette a lavorare nei bordelli, venendo così a essere sfruttate due volte a livello sessuale50. Alle donne che si offrirono «volontarie» fu detto che sarebbero state nutrite, che non avrebbero dovuto lavorare e che sarebbero state rilasciate dopo sei mesi di «servizio ai clienti»51. «Si sapeva che gli uomini delle SS ‘testavano’ una volontaria prima di prendere una decisione sulle sue qualifiche»52. Alcune donne dei bordelli erano tedesche, polacche, cecene, russe e ungheresi; quelle nei bordelli per

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stranieri erano della stessa nazionalità dei lavoratori schiavi. Ad ogni modo, dieci donne reclutate a Flossenburg per il bordello furono descritte da un prigioniero sopravvissuto come «più che altro ebree e zingare»53. Nei campi di lavoro forzato, dove le visite ai bordelli erano concesse come premi per l’eccezionale produttività sul lavoro, si tenevano registri delle visite e il pagamento avveniva attraverso buoni-lavoro54. In cambio di cibo per sopravvivere, per ottenere lavori migliori e protezione da altre aggressioni sessuali, molti giovani uomini divennero una specie di gigolò per i kapò e altri detenuti privilegiati, i quali abusavano sessualmente di loro ogni notte55. Gli uomini che usavano le donne dei bordelli dei campi erano principalmente ebrei56, ma approfittavano di loro anche i capi dei blocchi e i kapò (molto inferiori in numero, e spesso non ebrei). Le donne ebree venivano imprigionate in bordelli speciali riservati alle guardie dell’élite delle SS57. Il resoconto di una donna sopravvissuta, che fu trattata in questo modo, riporta che, durante la prima selezione ad Auschwitz, alle donne attraenti «si ordinava di uscire dalla fila» e che venivano in seguito «usate per gli scopi più licenziosi, mantenute in vita solo per soddisfare i vili istinti dei numerosi nazisti sadici e brutali»58. Un documento del tempo conferma che le donne destinate ai bordelli «sarebbero state selezionate dal medico e dal comandante, fatte salire sui convogli, le migliori per le SS e gli ufficiali, quelle di qualità inferiore per i prigionieri»59. Una sopravvissuta ricorda: «Malgrado le teorie naziste sulla contaminazione razziale, sapevamo che alcune delle detenute più attraenti erano selezionate per questi bordelli»60. Christa Paul conclude: «Non ci sono più dubbi che, malgrado il divieto di avere relazioni con le ebree, le donne ebree furono deportate nei bordelli militari [...]. Le donne dovevano accontentare sessualmente i soldati sotto minaccia di morte»61. Fu così che i nazisti istituzionalizzarono la violazione delle loro stesse leggi razziali sul sesso. Le donne nei bordelli dei campi e dell’esercito furono costrette a offrire sesso in cambio di cibo e libertà62; come spesso accade nella prostituzione, lo scambio non andò a loro vantaggio. La maggior parte fu sterminata. Questo non impedì che più tardi si insinuasse che ogni donna sopravvissuta si fosse prostituita63. Sebbene le esperienze variassero secondo il tempo e il luogo, questi bordelli, nei quali lo stupro seriale fu organizzato sotto forma di prostituzione, costituirono parte integrante del genocidio.

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I racconti dei sopravvissuti del periodo offrono un più ampio contesto nel quale la vita quotidiana delle donne appartenenti al gruppo bersaglio del genocidio contiene elementi di prostituzione. L’estrema vulnerabilità degli ebrei sotto le condizioni del genocidio, affamati e disperati, minacciati dalla morte in ogni angolo, significava che il sesso poteva essere, e quindi era, estorto in cambio della vita. I racconti dei sopravvissuti del tempo, dentro e fuori i campi, offrono finestre su vite vissute in termini di prostituzione: stupro in cambio di sopravvivenza. «Le donne erano pronte a vendere i propri corpi in cambio di cibo»64. Ridotti alla fame, «il cibo era la moneta che pagava i privilegi sessuali»65. Forse meglio: il sesso era la moneta che consentiva di pagare il privilegio di rimanere vivi. Una donna cresciuta come ortodossa a Chełm descrisse lo sconcerto provato quando sua madre le disse: «Fa’ qualunque cosa ti chiedano, pur di salvarti la vita». Qualche mese più tardi, se ne ricordò quando «si trovò nella situazione di dover decidere, su due piedi, se concedere un favore sessuale in cambio di una temporanea salvezza dalle autorità tedesche»66. In una simile situazione, concedere intimità diventa, allo stesso tempo, valuta di scambio e mezzo di de-umanizzazione. Ogni barlume di umanità appare più distintamente nella narrativa che nella realtà storica riportata; presumibilmente, dove ci fu umanità, la sopravvivenza non si otteneva pagando un prezzo di natura sessuale. Durante la Shoah, una corrotta economia sessuale indirizzò le donne ebree alla prostituzione in tutte le sue forme, come integrazione al genocidio che distrusse il popolo ebraico. L’aggressione sessuale nei campi di concentramento, che approfittò della vulnerabilità dovuta al genocidio e favorì gli obiettivi del genocidio, non fu affatto limitata a rapporti eterosessuali. Al momento dell’arrivo nei campi, le donne erano costrette a spogliarsi e a stare in piedi su due sgabelli con i genitali esposti ed erano perquisite internamente e rasate nella zona genitale, mentre venivano sessualmente ridicolizzate. Un resoconto riporta che le donne erano costrette a giacere nude sul fianco, mentre venivano sondate nelle loro parti intime e gli ufficiali delle SS stavano a guardare inebetiti o le schernivano67. Un membro del Sonderkommando riferì che un ufficiale delle SS «aveva l’abitudine di mettersi sulla porta [...] e palpare le parti intime delle giovani donne che entravano nella camera a gas. Ci furono anche casi di SS, di tutti i gradi, che infilavano le dita negli organi sessuali di giovani donne carine»68. Dopo esser state

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gasate, le donne ebree venivano «perquisite per verificare che non avessero nascosto della gioielleria nelle loro parti intime»69. Come ha osservato Myrna Goldenberg, «non solo si abusò di loro mentre erano vive, ma furono violentate anche da morte»70. Gli ebrei erano pornografia vivente per i nazisti quando il capo delle SS di Auschwitz «fece trapanare dei buchi nelle stanze dei bordelli per sé e i suoi subalterni delle SS, per avere una buona visione della ‘vita amorosa’ dei loro prigionieri»71 e quando gli uomini ebrei, quasi morti negli esperimenti di congelamento, venivano buttati in un letto insieme a donne nude, per vedere se il «calore animale» li avrebbe rianimati72. L’abuso sessuale sulle donne ebree nei campi era organizzato come spettacolo sessuale pubblico quando erano costrette a fare esercizi nude, così che le guardie tedesche potessero guardare, o quando, appena prima di essere uccise nelle camere a gas, erano costrette a correre nude per essere filmate dalle guardie. I filmati sono rimasti73. Il modo in cui si abusò di loro all’epoca non è ancora di pubblico dominio. La de-umanizzazione e l’umiliazione di queste donne ebree era chiaramente sessuale, il nesso con i loro omicidi aumentava, al tempo stesso, la forza sessuale dei filmati e ne sottolineava il ruolo nel genocidio. In fondo, i più espliciti esempi di sadismo non erano Rassenschande; la tortura che implicava anche il sesso era consentita ed era sessuale proprio perché era inflitta dai tedeschi, considerati superiori, agli ebrei, considerati inferiori. Se si può rintracciare a posteriori uno schema nell’uso del sesso per distruggere un popolo sotto il Terzo Reich, non c’è bisogno di nessuna ricostruzione per vederlo nel genocidio ruandese avvenuto tra l’aprile e il giugno del 199474. Là, contestualmente al massacro di un numero di persone che va dal mezzo milione al milione in meno di quattro mesi, gli hutu stuprarono in massa o abusarono sessualmente in altro modo delle donne tutsi come parte del tentativo di distruggere un gruppo etnico in quanto tale75. In alcuni casi furono i capi, come Laurent Semanza, a ordinare queste uccisioni. Un testimone attendibile afferma che Semanza disse quanto segue: «Siate sicuri di non uccidere le donne e le ragazze tutsi prima di fare sesso con loro [...]. Dovete farlo e, se hanno qualche malattia, dovete farlo con dei bastoni»76. Gli uomini dell’Interahamwe attraversarono le donne tutsi come una falce attraversa i campi di grano. Gli osservatori dicono che non c’è una sola donna o ragazza tutsi sopravvissuta al conflitto che non abbia subìto violenza sessuale77. «Lo stupro era

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la regola e la sua assenza l’eccezione»78. La viziosa sessualizzazione e la denigrazione sessuale con la quale le donne tutsi venivano stereotipate sono state argomento di conversazione alla radio e sui giornali prima e durante le atrocità79. Si ha testimonianza anche di molte violenze sessuali intese come spettacoli pubblici80. Gli slogan anti-tutsi hanno reso evidente che il loro spirito e i loro obiettivi erano legati al genocidio81. Lo stupro e le altre violenze sessuali erano spesso accompagnate da «esclamazioni umilianti che indicavano chiaramente l’intenzione di sottolineare che ogni atto specifico era rivolto alla distruzione dell’intero gruppo dei tutsi [...come, per esempio] ‘l’orgoglio dei tutsi finirà oggi’»82. Ogni genocidio è unico, ma forse la Bosnia ha offerto o rivelato un nuovo modello rispetto alla strumentalizzazione di massa della sessualità a fini di genocidio. Senza dubbio, ha accresciuto la consapevolezza degli osservatori esterni rispetto alle atrocità sessuali nei genocidi. II Cosa spiega la presenza di atrocità sessuali nel genocidio? L’ubiquità dello stupro e di altri abusi sessuali nella vita sociale non spiega del tutto la loro particolare intensificazione e il loro deliberato impiego per fini specificamente connessi al genocidio. Né la violenza dei genocidi o la violenza in generale spiega del tutto le forme specificamente sessuali che assume quella violenza, quando ciò accade. Data l’ubiquità del dominio maschile e il ruolo che lo stupro ha in essa, senza dubbio gli uomini stuprano in parte perché, e quando, possono, così che qualunque cosa accresca opportunità, accesso e impunità, accresce la violenza sessuale. Ma né le ipotesi sul caos né l’opportunismo rendono completamente conto della decisione, della politica e della campagna programmata di abusi sessuali – inclusi lo stupro, sia eseguito sulla base di ordini sia genericamente permesso, gli spettacoli sessuali dal vivo e la pornografia – al fine di distruggere alcuni gruppi sulla base della loro connotazione razziale, etnica, nazionale o religiosa che è in primo piano nei genocidi. Forse, le ragioni che rendono l’abuso sessuale funzionale sono specifiche per ogni genocidio. Ma il ruolo sempre più pronunciato, o forse crescente, delle atrocità sessuali nei genocidi che hanno segnato la parte finale del ventesimo secolo fanno da sfondo alla domanda più generale: come e perché le violenze sessuali distruggono un popolo?

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Mentre l’utilità per il genocidio sembra ovvia a chi lo commette, il suo ruolo nel genocidio è stato per lungo tempo negato o eluso e continua a sfuggire ad alcuni osservatori che arrivano a cose fatte83. Comunque, far rientrare concettualmente la violenza sessuale nel genocidio non pone difficoltà come interpretazione giuridica (intesa qui come una costruzione ammessa dalla legge). In base alla Convenzione sul genocidio (1948) si ha genocidio quando una serie di atti è «commessa con l’intento di distruggere, completamente o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale»84. Gli atti riportati includono uccidere i membri del gruppo, causare loro gravi lesioni fisiche o psicologiche, infliggere loro in modo deliberato condizioni di vita pensate per distruggere fisicamente il gruppo e imporre misure intese a impedire le nascite all’interno del gruppo. In base alla consuetudine, il termine genocidio non è legalmente applicabile a meno che un elevato numero di persone siano trattate in questo modo e molte siano intenzionalmente uccise. In questo quadro, una volta che l’intenzione e il riferimento al gruppo sono accertati, ovviamente molti atti oltre allo sterminio contribuiscono alla distruzione di un popolo in quanto tale e sono, quindi, atti di genocidio85. Sebbene sia sempre stato un fatto legale (nonché reale) che non solo uccidere è una pratica di genocidio, il riconoscimento di tale fatto si è accresciuto in parte a causa della visibilità dello stupro nei genocidi, a partire da quello bosniaco86. Le atrocità sessuali rientrano senza difficoltà nelle sottocategorie della definizione. Alcune vittime sono stuprate a morte o subiscono violenze sessuali letali in altro modo (quali la penetrazione vaginale con machete o altri oggetti). Lo stupro infligge inevitabilmente danni fisici e mentali87. Lo stupro sistematico prolungato nel tempo, imposto come condizione di vita, è distruttivo sul piano fisico. Forse, le funzioni numericamente meno significative della sessualità nel genocidio sembrano facilmente riconosciute da molti: a ogni donna incinta di un bambino del gruppo assalitore è impedito di concepire un figlio che abbia una diversa eredità biologica. Ogni atto di abuso sessuale commesso con l’intento di distruggere (solitamente) le donne di un gruppo definito dalla sua nazionalità, etnia, religione e/o razza è, quindi, un atto di genocidio. Gli stupri commessi come parte di un genocidio sono infatti ritenuti atti di genocidio dal diritto88, come il tribunale del Ruanda ha riconosciuto nel caso Akayesu89.

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A molti livelli, lo stupro è stupro. Tuttavia, lo stupro nel genocidio può essere distinto, per esempio, dallo stupro durante una guerra sotto molti punti di vista. Anche se molti civili sono spesso uccisi in guerra proprio a causa della loro identità, e i genocidi possono essere eseguiti in parte attraverso la guerra, la guerra non sempre ha il carattere del genocidio. Lo stupro è pervasivo durante la guerra e ha spesso una componente etnica, come nel caso dello «stupro di Nanchino», durante il quale le forze militari giapponesi stuprarono in massa le donne cinesi90, o dello stupro delle donne tedesche da parte delle forze d’invasione russe alla fine della seconda guerra mondiale. In nessuna delle due situazioni, lo stupro aveva finalità di genocidio, perché nessuna delle due situazioni era un genocidio: non ci fu alcun intento di distruggere i popoli in quanto tali in base a caratteristiche stabilite. Allo stesso modo, lo stupro su base etnica o nazionale può essere ufficialmente organizzato durante la guerra, come nel caso delle cosiddette comfort women – l’uso organizzato da parte del governo giapponese di donne di varie etnie (principalmente coreane) come schiave sessuali al servizio dei militari giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Questa prostituzione forzata era stupro etnico ufficialmente organizzato, ma se era privo dell’intenzione di distruggere gruppi etnici in quanto tali, non aveva il carattere del genocidio. Come arma o strumento bellico, lo stupro durante la guerra mira a intensificare gli sforzi bellici, sia che si tratti di conquistare un territorio, un governo o un popolo, sia di placare o di motivare i soldati. Come effetto bellico secondario, lo stupro in tempo di guerra si mescola anche con la violenza maschile in guerra e in generale. Lo stupro durante la guerra è un crimine di guerra. Non ha il carattere del genocidio fino a che non fa parte dell’obiettivo di distruggere un popolo in quanto tale sulla base di una delle caratteristiche incluse nell’elenco riportato in precedenza. Gli stupri di donne ebree durante la seconda guerra mondiale sono comunemente travisati come effetti collaterali della guerra, sebbene abbiano il carattere del genocidio, come la Shoah del quale sono parte integrante. Il genocidio è una guerra contro popoli, che in termini giuridici non è affatto una guerra91. La linea di demarcazione tra il genocidio e la guerra non è sempre netta sul piano pratico, come dimostrano i conflitti quali quello in Guatemala, con la sua combinazione di guerra politica e violenze che avevano il carattere del genocidio

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contro i contadini Maya, comprese atrocità sessuali. Ma questa linea esiste. Un conflitto armato ha luogo, per definizione, tra combattenti, regolari e irregolari, e in vista del controllo su un territorio o su uno Stato. Il bersaglio dei genocidi sono i gruppi della società civile; l’obiettivo è la loro distruzione in quanto tali, non semplicemente il controllo su di essi. I genocidi si svolgono solitamente con una sola delle parti armata, come sotto il Terzo Reich e in BosniaErzegovina, mentre le vittime non dispongono di armi proprie. La guerra prevede combattenti su almeno due fronti; anche lo stupro in tempo di guerra è tipicamente bilaterale, essendo inflitto alle donne su entrambi i fronti del conflitto. Il genocidio è spietatamente unilaterale. Così come lo è lo stupro durante il genocidio, anche quando il genocidio è perpetrato attraverso la guerra e anche quando qualche stupro legato alla guerra si verifica su entrambi i fronti, come spesso accade (e come è accaduto in Germania e in Bosnia-Erzegovina). Se i bersagli del genocidio, alla fine, riescono a reagire, le vittime di tale reazione non diventano semplicemente perdite civili della guerra, facendo della questione in merito al ruolo dello stupro nel genocidio una versione del suo ruolo nella guerra. Le vittime degli stupri di guerra non sanno nemmeno quali soldati o quale parte le abbia stuprate92. Gli stupri connessi al genocidio non avvengono in questo modo. Nei genocidi, i carnefici e le vittime sanno chi sono in termini di identificazione di gruppo. Nessuno dei partecipanti si fa illusioni: la loro appartenenza sociale a un gruppo è il motivo per cui avviene lo stupro. Sul piano descrittivo, lo stupro in tempo di guerra (la cui funzione è senza dubbio compresa in modo ancora incompleto) mira a terrorizzare e a degradare, quindi a demoralizzare, gli sconfitti e a ricompensare e vendicare, simbolicamente e sessualmente, i vincitori, e/o a interrompere la continuità riproduttiva93. È stato utilizzato come un rituale di degradazione degli avversari, come una modalità per instillare il terrore, come una tattica di demoralizzazione, come un equivalente del saccheggio e come un rito di umiliazione per gli uomini dell’altra parte che non sono in grado (in termini virili) di proteggere le «loro» donne. Molti di questi atti fanno del corpo delle donne un mezzo per l’espressione degli uomini, uno strumento attraverso il quale un gruppo di uomini dice ciò che ha da dire a un altro gruppo. Oltre ad affermare la virilità, cosa che lo stupro fa sempre, lo stupro di guerra serve così da specifica tecnica di

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guerra psicologica e da metodo di comunicazione, procurando una ricompensa tanto simbolica quanto concreta e una vendetta tanto simbolica quanto concreta. Significa supremazia: noi siamo meglio di voi. E possesso: noi vi possediamo. Gli stupri durante il genocidio hanno gli stessi effetti, o almeno effetti simili, e spesso funzionano negli stessi modi, o in modi simili. Ma solo quando l’obiettivo, la vittoria, è la distruzione dei popoli di cui gli stuprati sono membri, solo quando il messaggio, così come il mezzo, è la distruzione di popoli in quanto tali, lo stupro assume il carattere del genocidio. Per questo non c’è bisogno che avvenga durante una guerra. Ciò che ulteriormente contraddistingue lo stupro in tempo di guerra, che generalmente si verifica per iniziativa di singole unità, è la sua qualità di essere per lo più fuori controllo. È ciò che gli uomini armati fanno quando non c’è nulla a fermarli. Lo stupro durante il genocidio è tutto fuorché stupro incontrollato. È stupro sotto controllo. Gli uomini lo fanno in gruppi, di solito perché viene detto loro di farlo, o perché sono incoraggiati a farlo, o perché è sistematicamente permesso o perché viene ordinato loro, sapendo che lo stanno facendo come membri della loro razza, etnia, religione o nazionalità. Accade intenzionalmente, non semplicemente con la funzione di fare del male ad alcune persone, o di fare sesso, o di piantare una bandiera, ma per distruggere popoli in quanto tali sulla base delle loro caratteristiche di gruppo designate. La distruzione dei popoli in quanto tali sulla base di caratteristiche di gruppo non è un effetto secondario dello stupro. È il suo fine. Il genocidio va oltre la guerra. Può avere luogo, e di fatto ha luogo, nella società civile e tra non-combattenti, al di fuori di un vero e proprio conflitto armato. Il suo scopo specifico di porre fine all’esistenza di un popolo contraddistingue le atrocità sessuali che lo accompagnano. In realtà, il genocidio è più vicino alla discriminazione che alla guerra: è una pratica violenta di discriminazione. È l’estrema ineguaglianza messa in atto attraverso la violenza sistematica – violenza che, a volte, è fieramente capeggiata dallo Stato e, a volte, praticata più blandamente dai membri delle forze armate o da forze militari non ufficiali. Anche se le atrocità sessuali fanno nei genocidi alcune cose che fanno anche nelle guerre, e anche se i genocidi sono perpetrati in parte attraverso la guerra, i genocidi, e gli atti di genocidio compiuti attraverso la violenza sessuale, rimangono fenomeni distinti94.

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III Il genocidio, sia nella realtà sia nella sua definizione convenzionale, si contraddistingue per l’intento di distruggere «gruppi in quanto tali». Se tutti i membri di un gruppo sono uccisi, si presume che il gruppo sia distrutto in quanto tale. Ma il genocidio si definisce in base allo scopo, non in base al successo, e anche atti che mirano a distruggere un gruppo in quanto tale sono atti di genocidio solo «in parte». La distruzione, in altre parole, è più dell’uccisione. Il senso cruciale di ciò che rende certi atti atti di genocidio sta nel significato di «in quanto» in relazione ai gruppi le cui caratteristiche sono messe al bando come motivo per la distruzione. Cosa significa essere uccisa o violentata in quanto membro del proprio gruppo – in quanto donna ebrea o donna tutsi – e come si può comprendere, dimostrare, identificare quella dimensione associativa con il gruppo? La stessa domanda sorge a proposito del diritto contro la discriminazione – per esempio, nel chiedere se una donna sessualmente molestata sia molestata perché è una donna, cioè, se l’abuso sessuale che ha subìto sia «basato sul sesso» o se sia molestata «sulla base della razza e del sesso». Nel diritto sul genocidio, non è stato finora attribuito un chiaro significato specifico all’espressione «gruppo in quanto tale», sebbene sia cruciale per distinguere il genocidio da altre atrocità di massa. La maggior parte dei crimini, inclusi quelli internazionali, sono tradizionalmente concepiti come atti di individui contro individui. Questo sembra rendere il carattere collettivo di alcuni crimini – che non sono di massa soltanto in termini meramente numerici, ma intrinsecamente fondati sul gruppo – di difficile comprensione e articolazione per il diritto. Di conseguenza, le autorità tendono a ridurre l’elemento del «gruppo in quanto tale» alla mens rea della «distruzione deliberata» o a trattarlo come un’appendice del calcolo numerico relativo all’espressione «completamente o in parte»95. Nel processo ad Eichmann, l’espressione indicava l’estensione o l’ampia portata del crimine – «la forma onnicomprensiva e totale che questo crimine rischia di assumere»96. Chiarire il linguaggio spesso porta a riformulare ciò che deve essere chiarito, anche se non è sbagliato, come quando la Commissione ad hoc sul genocidio (1948) ha affermato che «in quanto tale» significa «come gruppo»97 o come quando il Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia (TPIJ) ha affermato che «il significato dell’espressione ‘in quanto tale’» è che

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le prove devono dimostrare che «è stato identificato il gruppo come bersaglio e non semplicemente i singoli individui all’interno di quel gruppo»98. Sebbene indiscutibilmente cruciale per distinguere il genocidio da altri crimini, l’elemento dell’«in quanto tale» ha spesso funzionato come un riempitivo, che aggiunge poco e nulla di peculiare. Ma sotto altri aspetti invece è ben più di un semplice evidenziatore o di una precauzione. Arrivando vicina al cuore della questione, l’International Law Commission ha spiegato che, in base alla Convenzione sul genocidio, «l’intenzione doveva consistere nel distruggere il gruppo ‘in quanto tale’, il che significa in quanto entità separata e distinta, e non semplicemente alcuni individui a causa della loro appartenenza a un particolare gruppo»99. In modo ancora più pertinente, la Commissione degli esperti per i crimini di guerra nella ex-Jugoslavia ha spiegato che «in quanto tale» indicava che «i crimini contro un numero di individui devono essere diretti contro di essi nella loro collettività o contro di essi nel loro carattere o nella loro capacità collettiva»100. Il tribunale ruandese, nell’opinione sul caso Akeyesu, ha fatto un ulteriore passo avanti: «La vittima dell’atto è dunque un membro del gruppo, scelta in quanto tale, il che significa che la vittima del crimine di genocidio è il gruppo stesso e non soltanto l’individuo»101. In base a come questo spunto fu in seguito formulato in Rutuganda, «in quanto tale» significa che «la vittima del crimine di genocidio è il gruppo stesso e non l’individuo nella sua singolarità»102. Tentare di distruggere un gruppo «in quanto tale» significa attaccare, attaccando i membri del gruppo in quanto membri del gruppo, quell’aspetto del gruppo nel suo complesso che è più della somma delle sue parti individuali, quel carattere di collettività e identificazioni che costituiscono la sostanza e il collante della comunità che continua a vivere quando ne muoiono i singoli membri. In termini concreti, distruggere un gruppo, in particolare porgli fine per sempre, significa distruggere l’idea e il significato del gruppo stesso all’interno di e fra coloro che lo formano con le loro relazioni. Ora, notate che ciò che viene fatto per distruggere le donne di gruppi razzialmente, etnicamente, nazionalmente o religiosamente connotati viene fatto di norma alle donne ovunque, ogni giorno, sulla base del loro sesso. Tutte le atrocità sessuali che assumono il carattere del genocidio in un genocidio sono inflitte alle donne ogni giorno in condizioni di ineguaglianza sessuale. Si può dire che sono

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inflitte alle donne in quanto donne103. Lo stupro, la prostituzione, le gravidanze forzate, l’aborto forzato o precluso, gli umilianti spettacoli sessuali, la pornografia – tutto questo è inflitto alle donne non soltanto durante le guerre e i genocidi, ma anche al di fuori di essi, perché sono donne, spesso perché sono donne di una specifica razza, etnia, religione, nazionalità. In questa luce, l’analisi delle atrocità sessuali connesse al genocidio, come una potente forma di distruzione di gruppo al di là dello sterminio fisico, può chiarire l’elemento cruciale, sebbene legalmente oscuro, della distruzione «in quanto tale»104. Così le domande che chiedono perché la sessualità possa essere messa al servizio della distruzione legata al genocidio, e cosa significhi l’espressione «in quanto tale», possono avere più risposte contemporaneamente a portata di mano. Tenete presente che le atrocità sessuali, gli atti con i quali gli uomini dominano le donne sulla base del sesso, distruggono le donne in quanto tali, sia come individui sia come gruppo105. In base a questa analisi, le atrocità sessuali sono crimini intrinsecamente collettivi, diretti contro il gruppo attraverso la violenza contro i suoi membri, privi di senso senza il significato sociale relativo a essere una donna che essi distruggono (e distruggendo, in parte creano). Questa strada ben battuta diventa allora un ampio viale verso la distruzione di gruppi sulla base dell’etnia, della razza, della religione e della nazionalità, quando le donne di questi gruppi sono distrutte in quello stesso modo. Non tutti i giorni si cerca di porre fine all’esistenza del gruppo – donne – nel preciso senso dello sterminio proprio del genocidio, ma si preclude a tale esistenza la possibilità di essere umana. Molte donne sono uccise per motivazioni misogine106; si potrebbe dire che le atrocità sessuali ricerchino la distruzione del gruppo delle donne in quanto tale nel senso che avviliscono il loro stato umano o le creano a immagine di un sé socialmente distrutto. Proprio come un gruppo etnico può essere distrutto senza uccidere tutti i suoi membri, forse il gruppo delle donne mostra come un gruppo possa essere distrutto mentre si lasciano sopravvivere i suoi membri e li si lascia apparentemente intatti, subordinati come esseri umani inferiori, attraverso atrocità sessuali che svolgono chiaramente questa funzione. Se è così, lo stupro durante il genocidio – il genere combinato con l’etnia, la nazionalità o la religione nello stupro finalizzato al genocidio – fa alle donne e agli uomini, in base a una combinazione di sesso, razza, etnia, nazionalità e religione, ciò che

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lo stupro fa ogni giorno alle donne al di fuori di genocidi basati sul sesso e sul genere. Supponete inoltre che questo stesso comportamento di subordinazione sessuale, al di fuori della guerra e del genocidio, contribuisca anche a creare le donne come gruppo subordinato in condizioni di ineguaglianza sessuale definendole come gruppo, quindi singolarmente, sulla base della loro disponibilità sociale per l’uso e l’abuso sessuale107. Forse le donne sono distrutte come popolo in quanto tale da questo – al punto di non essere mai state concepite come un «popolo» in generale. Le donne sono così create come gruppo distrutto in parte attraverso l’abuso sessuale. In quest’ottica, la violenza sessuale distrugge le donne in quanto donne, inclusa la loro capacità di unirsi in quanto tali, proprio come lo stupro finalizzato al genocidio distrugge o cerca di distruggere i musulmani e i croati e i tutsi e gli ebrei, definendo, e così facendo in parte costituendo, i gruppi come popoli subordinati. Quotidianamente testato e praticato sulle donne in quanto tali con sbalorditiva efficacia, lo stupro può distruggere altrettanto efficacemente i popoli in quanto tali definiti su basi razziali, etniche, nazionali e religiose. Così, gli uomini fanno alle donne (e ad alcuni uomini), attraverso l’abuso sessuale al di fuori dei genocidi, ciò che alcuni uomini fanno durante i genocidi quando abusano sessualmente delle donne (e di alcuni uomini, specialmente di gruppi sessualmente definiti di uomini, come gli omosessuali) sulla base della loro etnia, religione, nazionalità o razza. Ovviamente molte violenze sessuali al di fuori dei genocidi sono, il più delle volte, connotate e motivate in senso etnico e razziale, proprio come gran parte della violenza razzista è sessuale108. Questa convergenza accentua la continuità tra lo stupro nel e al di fuori del genocidio, senza fare di ogni caso di stupro etnico uno stupro finalizzato al genocidio, dato che la relazione tra discriminazione e genocidio è una questione di gradi109. Negli Stati Uniti, le donne di origine africana schiavizzate, per esempio, venivano stuprate in quanto oggetti destinati a fini sessuali o riproduttivi, tra i quali accrescere la forza lavoro degli schiavi. Fin dai tempi della schiavitù, le donne afroamericane sono state stuprate dagli uomini bianchi per subordinarle sulla base della loro etnia combinata con il loro sesso, fondendo razzismo e sessismo. Questo processo, non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo, è stato particolarmente distruttivo per gli africani in America, anche in assenza dell’intenzione di distruggerli letteralmente in quanto tali,

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nel senso della definizione legale del genocidio110. In particolare, in una realtà che mette in luce l’artificialità del requisito dell’intenzionalità nella definizione di genocidio, questi stupri, per quanto fossero distruttivi per le donne e le comunità, non erano probabilmente finalizzati a distruggere un popolo, ma a schiavizzarlo e a usare, denigrare e subordinare le donne afroamericane in quanto donne. Ma perché la violenza sessuale distrugge i gruppi? Nello stupro finalizzato al genocidio, l’identità etnica, razziale o religiosa, combinata con il sesso, è la base per la violazione dell’intimità. A livello sociale, sessualità significa intimità; il sesso non consenziente viola la persona secondo modalità che, in quanto intime, sono viste ed esperite come particolarmente intrusive. Dato che il sesso è relazionale, le atrocità sessuali distruggono le relazioni. Forse a volte lo stupro è definito come «peggiore della morte» in parte perché è visto e sentito come distruzione della propria umanità e del proprio posto relazionale all’interno della propria comunità in modo indelebile e irreparabile, in modo che la vittima non possa più vivere come se non fosse successo111. Una testimone ruandese afferma che una donna che «fu creduta morta da quelli che l’avevano stuprata, in un certo senso era stata effettivamente uccisa»112. Le persone si identificano strettamente con la propria identità sessuale; in termini sociali, la sessualità è centrale rispetto all’identità di genere, sia per il soggetto sia per gli altri. Quando tale identità è vista come violata, il proprio sé è esperito come guastato, depredato, rovinato. In termini sociali, sessualità significa possesso; il sesso non consenziente significa che chi viene stuprato appartiene allo stupratore, invece che a se stesso o alle persone con le quali si identifica e alle quali si dà intimamente. Sono l’identità e l’identificazione a essere distrutte quando è violata, distrutta questa particolare forma che assume l’umanità nell’incarnarsi in un gruppo. Questo può, in parte, contribuire a spiegare perché lo stupro distrugge le donne in quanto tali: viola quella parte delle donne che si identifica con il femminile, un aspetto profondamente e intimamente custodito della concezione di sé che implica intrinsecamente l’identificazione con il proprio gruppo, e l’identificazione da parte degli altri con esso113. È un elemento intrinsecamente relazionale e collettivo dell’identità sociale e, quindi, personale. Quando le donne vengono stuprate perché sono donne musulmane o ebree o tutsi, lo stupro funziona allo stesso modo combinando ragioni diverse.

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Lo stupro finalizzato al genocidio assomiglia allo stupro al di fuori dei contesti di genocidio nel modo di combinare sistematicità e casualità. Le donne sono stuprate ogni giorno, sistematicamente, in quanto donne, e sono selezionate casualmente come individui all’interno di quel gruppo, a volte sistematicamente su base etnica o sulla base di un’altra caratteristica di gruppo. Il modo in cui funziona il genocidio è simile: le persone sono selezionate sistematicamente per il dominio in quanto popoli, scegliendo casualmente, all’interno del gruppo, alcuni per certe atrocità, a volte sistematicamente sulla base del sesso o di un’altra caratteristica di gruppo. Le atrocità contro ogni individuo sono funzionali a distruggere la solidarietà del gruppo, terrorizzando, controllando, assoggettando, cioè mettendone in atto la distruzione. Essendo relativamente casuale all’interno del gruppo, mentre è sistematico nei confronti del gruppo in quanto tale, lo stupro sotto il dominio maschile funziona nello stesso modo in cui funziona lo stupro finalizzato al genocidio nel genocidio: istituisce il dominio degli uomini di un gruppo su uomini e donne di un altro gruppo, distruggendo la definizione del gruppo bersaglio, la quale include dignità, sicurezza, autodeterminazione, e rimpiazzandola con paura, ripugnanza di sé e un’identità degradata. In termini funzionali, ciò che la violenza sessuale fa sulla base della razza, dell’etnia, della religione e della nazionalità è ciò che essa fa sulla base del sesso; crea un gruppo di persone intimorite, sottomesse, controllabili, terrorizzate e dissociate, che sanno che questo può essere fatto loro in qualsiasi momento, che provano vergogna a essere quelle che sono, che vogliono abbandonare il luogo in cui è avvenuto per non tornarci mai più, che possono odiare se stesse e disprezzare le altre persone che si identificano con loro in base alla loro comune possibilità di essere soggette, in ogni momento, a questa forma di abuso, che sono socialmente considerate come una forma di vita inferiore perché questo è qualcosa che può essere fatto ed è stato fatto loro, che possono identificarsi con i loro violentatori o addirittura idealizzarli anche quando, e spesso perché, li temono. Le persone che sono viste e si vedono come disonorate e stigmatizzate per essere state utilizzate sessualmente e per essere utilizzabili sessualmente faranno di tutto per evitare di essere trattate in questo modo. Quando e se questi effetti non si verificano, è perché la resistenza ha avuto successo. Ma questo non vuol dire che, soltanto

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perché la Shoah non è riuscito a distruggere gli ebrei in quanto tali, non è stato un genocidio. Tentare di evitare lo stupro, il che, in queste circostanze, significa evitare di essere gran parte di ciò che si è per sé e per gli altri, può essere una forma di resistenza, ma può anche creare una popolazione prigioniera e remissiva, con un pressante desiderio di compiacere i propri carnefici e di mostrare la propria soggezione. In mancanza di un vocabolario descrittivo migliore, tutti i segni di uno stress post-traumatico di massa, che include la negazione, la paura, la disidentificazione e, a volte, l’identificazione con l’aggressore114, caratterizzano un vasto numero di donne. Questi segni descrivono anche i membri di gruppi classicamente spodestati che sono stati soggetti, almeno una volta, a violenze finalizzate al genocidio. La dissociazione letteralmente intesa può operare in modo forte a livello interpersonale e sociale come a livello psicologico individuale. Forse l’esposizione pubblica di atrocità sessuali rende le donne che sopravvivono leali verso gli aggressori, gli unici che possono proteggerle da questo. (O forse sono gli aggressori a pensarlo.) Così, lo stupro è un eccellente mezzo di controllo sociale e di dominio, come dimostra in modo eloquente l’esempio delle donne – molte delle quali sono state violentate almeno una volta, limitandosi a una definizione tradizionale di ‘stupro’115, molte delle quali però hanno subìto violenze sessuali anche più volte. Non dovrebbe sorprendere che l’abuso sessuale funzioni anche per controllare e dominare popoli definiti etnicamente, razzialmente o religiosamente. In altre parole, se ciò che in effetti distrugge le donne in quanto tali (con o senza l’intenzione di farlo) è fatto a un gruppo etnico come parte di un genocidio, non saranno soltanto le donne di tale gruppo a essere distrutte sulla base combinata del loro sesso e della loro etnia; tali atti in questo modo funzioneranno per distruggere il gruppo etnico in quanto tale. Le donne sono un gruppo subordinato in tutto il mondo; la sessualità è utilizzata sia per creare il sesso delle donne in quanto tale, sia per distruggerle in quanto tali; la violenza sessuale subordina le donne una per una e, al tempo stesso, le mantiene subordinate come gruppo. Ciò che crea e definisce le donne come gruppo subordinato – la vulnerabilità alla violenza sessuale e la soggezione rispetto a essa – genera disidentificazione con le donne in quanto popolo, distruggendo le donne in quanto popolo. L’identificazione con l’identità che gli altri cercano di assoggettare e di

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corrompere può permettere di recuperare e ripristinare parte di ciò che lo stupro ha distrutto: la particolarità della propria umanità e il particolare significato dell’identità collettiva. Questo spiega, in parte, perché comprendere di essere stata violentata in quanto donna, non in quanto individuo – l’identificazione con le donne in tale senso – può essere vissuto come positivo e terapeutico. Può far progredire verso il ripristino di quella specifica parte della propria umanità che la violazione sessuale si è portata via. Le atrocità sessuali danno così uno specifico contenuto all’espressione «in quanto tale» nella definizione di genocidio. Proprio come le donne spesso vogliono lasciare il luogo dove sono state stuprate per non tornarci mai più, rendendo lo stupro un’utile arma per imporre la deportazione, si può capire che le atrocità sessuali possano produrre ripugnanza verso l’identità che designava la persona a seguito della violazione intima subita, facendo in modo che i violentati vogliano abbandonare per sempre chi essi sono. Quando l’identità condivisa a causa della quale si è violentati è umiliata, frantumata in se stessa e nelle relazioni tra se stessa e gli altri, la qualità di gruppo del gruppo così definita è distrutta. Sotto questo aspetto, come sotto altri, lo stupro funziona in modo molto simile a come possono funzionare le torture inflitte sulla base di caratteristiche di gruppo. Quando le donne ebree venivano sfruttate sessualmente nei bordelli dei campi di concentramento durante la Shoah, venivano sfruttate come donne ebree «in quanto tali», senza considerare chi altri fosse sfruttato insieme a loro116. Le atrocità sessuali mandano in frantumi la comunità, la capacità di relazionarsi e unirsi attraverso un’identificazione comune, di identificarsi reciprocamente. Come nella vita al di fuori del genocidio, questo risultato può essere aggravato o mitigato a seconda che gli uomini e le donne delle comunità colpite ripudino o sostengano coloro che sono violati sessualmente. È comune per le vittime essere ripudiate. Come ha detto una vittima di stupro durante il genocidio in Ruanda, «dopo lo stupro, non hai più valore all’interno della comunità»117. Qualunque sia la reazione, il potere distruttivo della violenza sessuale – che è una costante da cultura a cultura, anche se con alcune variazioni – sembra risiedere in ciò che lo stupro significa: le donne (di solito) sono state violate intimamente, soggiogate, reclamate dall’altro, sfruttate, degradate, guastate, umiliate. Proprio come le donne spesso non vogliono identificarsi le une

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con le altre, i membri delle comunità che hanno subìto violenza finalizzata al genocidio attraverso atrocità sessuali spesso non si identificano reciprocamente. Lo stupro è il codice umano per il dominio, per essere resi inferiori, per l’assoggettamento in sé; significa la violenza stessa, l’inferiorità in quanto tale. Anche se i membri sono lasciati in vita, la loro coesione, la loro reciproca identificazione, l’identificazione degli altri con loro può risultare distrutta. In questa luce, ciò che lo stupro fa nel genocidio è ciò che fa il resto del tempo: deteriora l’identità, segna chi tu sia come inferiore, come degradato, devasta quindi la comunità, il collante del gruppo. Distrugge la disponibilità a identificarsi con la designazione di gruppo, sulla cui base lo stupro ha avuto luogo, è quindi funzionale a distruggere il gruppo in quanto tale. Chi vuol essere uno di loro? Il termine «simbolico» è a volte utilizzato per descrivere questa funzione. Per quanto intangibili, le conseguenze sono altamente materiali: è ciò che fa sì che un gruppo sia un gruppo che viene distrutto anche se i suoi membri restano in vita. Distruggere un gruppo «in quanto tale» è attaccare la dimensione di gruppo del gruppo, il suo significato per i suoi membri e per gli altri. Le atrocità sessuali saccheggiano e lacerano il significato dell’identità di gruppo, rendendola oggetto di violazione, facendo in modo che, alla fine (come nel caso delle donne), il nome del gruppo significhi esso stesso violazione. Subire violenza sessuale per il fatto di essere una donna o una donna musulmana o una donna tutsi, essere stuprata da uomini che «ti chiedono il tuo nome»118, da quel momento in poi, macchia indelebilmente il nome del gruppo e diventa parte della definizione di ciò che essere un membro di quel gruppo significa. Dato che le donne non sono considerate un popolo, non c’è ancora un diritto internazionale contro la distruzione del gruppo delle donne in quanto tale. Il «sesso» non è nella lista delle caratteristiche legali sulla base delle quali la distruzione di un popolo in quanto tale è proibita. Per le donne in quanto tali, non c’è un equivalente legale del genocidio – la distruzione delle donne in quanto tali che Andrea Dworkin propose di chiamare «ginocidio»119 – presumibilmente perché è un luogo comune, incorporato nello stato relativo del sesso nella vita di tutti i giorni. Che la distruzione del gruppo delle donne spesso non sia intenzionale, come richiede la definizione convenzionale di genocidio, serve a sottolineare il fatto che nessuna legge è stata modellata sulle realtà della distruzione del gruppo delle

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donne, come nel caso della distruzione di alcuni gruppi definiti sulla base di qualche altra caratteristica. Dato che gran parte della forza legata al sesso è incorporata negli standard sociali esistenti su come la sessualità dovrebbe funzionare, le funzioni distruttrici delle atrocità sessuali sono più visibili quando rivolte contro gruppi sulla base dell’etnicità, della razza, della nazionalità o della religione insieme al sesso, rispetto a quando sono orientate soltanto sulla base del sesso. Andrea Dworkin ha osservato: «È molto più facile riconoscere lo stupro come ostile e detestabile quando lo stupro è nazionalista, o razzista o coloniale»120. Sulla base delle stesse caratteristiche di gruppo è stato più facile vedere lo stupro come distruttivo per i gruppi in quanto tali. Un parere giuridico ha identificato specifici tratti del «gruppo in quanto tale» che potevano anche descrivere il ruolo delle atrocità sessuali nel genocidio. In Krstic´, un processo per gli omicidi di massa di musulmani bosniaci a Srebrenica, il TPIJ ha affermato: «C’è una netta indicazione dell’intenzione di distruggere un gruppo in quanto tale nel nasconderne i corpi in fosse comuni, che sono stati in seguito dissotterrati, mutilati e riseppelliti in altre fosse comuni situate in zone ancora più remote, impedendo così una sepoltura decente, coerente con le usanze religiose ed etniche e causando una sofferenza terribile ai sopravvissuti in lutto, molti dei quali sono stati incapaci di superare il lutto fino a che la morte dei loro uomini non è stata accertata»121. Profanazione, dissacrazione, sofferenza per l’umiliazione della violazione attribuiscono significato concreto all’intenzione di distruggere un gruppo «in quanto tale». Se disotterrare e spostare i cadaveri fa questo, lo stupro fa la stessa cosa, per non parlare dello stupro sui cadaveri, che produce effetti simili sui membri dei gruppi che condividono con i violentati l’identificazione con le caratteristiche sulle quali si basano le atrocità. Questi sopravvissuti sono «incapaci di superare il lutto» perché in un certo senso il danno non ha mai fine. Quando, durante questi stupri, vengono concepiti dei bambini, questo diventa ancora più vero. Distruggere un popolo in questi modi, che sono diversi dall’uccidere tutti, dà nuovo spessore alla vecchia visione secondo la quale lo stupro è un destino peggiore della morte. Gli spettacoli sessuali pubblici sono particolarmente efficaci ai fini della distruzione. Nel genocidio del Ruanda, a una donna tutsi fu piantato un bastone dalla punta aguzza nella vagina dopo la sua morte e il suo cadavere fu lasciato per tre giorni, sul ciglio di una

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strada pubblica, trafitto dal bastone122. Nel Gujarat, proprio come durante la Shoah, «gruppi di donne [musulmane] furono denudate e costrette a correre per molte miglia, prima di essere sottoposte a stupri di gruppo e bruciate vive. In alcuni casi, furono incisi sui loro corpi dei simboli religiosi»123. Distruggere sessualmente le donne di questi gruppi in tal modo distrugge il gruppo. Quando le donne vengono uccise così, il senso del genocidio non sta tanto in ciò che tali atti fanno alle donne violentate che sono sacrificate per perpetrarlo, ma soprattutto in ciò che le atrocità dicono e fanno ai membri del gruppo che sopravvivono. In spettacoli di questo tipo, l’abuso sessuale mette in scena, e così facendo mette in atto, la distruzione dei popoli presi di mira. Mette in scena il genocidio. Le donne bosniache, musulmane e croate, che avevano subìto violenze sessuali, hanno spesso detto che, in quel genocidio, la Bosnia-Erzegovina veniva femminilizzata. Alla luce dell’analisi qui proposta, questa non era una metafora. La distruzione delle donne attraverso la violenza sessuale, comune al di fuori dei contesti di genocidio, è stata praticata là sia contro le donne sia contro gli uomini dai fascisti serbi su base etnica, religiosa e nazionale. Gli uomini dominavano gli uomini e le donne di gruppi etnici non-serbi nel modo in cui gli uomini dominano le donne sotto il dominio maschile. Il dominio maschile è stato così messo al servizio di fini di genocidio. Lo stupro con finalità di genocidio ha fatto alla razza, all’etnia, alla religione e alla nazionalità ciò che lo stupro al di fuori dei genocidi fa al sesso. Quando e nella misura in cui funziona, lo stupro distrugge gruppi nazionali ed etnici come distrugge le donne in quanto gruppo in condizioni di ineguaglianza sessuale. Rendendo concreto ed esprimendo il dominio, l’abuso sessuale fa nel genocidio ciò che fa nella misoginia; infatti, mette in campo la misoginia contro gruppi etnici. Contro qualunque gruppo sia rivolto, il fatto che questo particolare atto significhi violazione e sottomissione costituisce il suo danno specifico verso il gruppo. Come azione espressiva, ciò che fa e ciò che dice sono inseparabili. Che gli uomini detengano rispetto alle donne lo stato di essere il popolo che può fare questo e che siano quindi socialmente superiori è dato ampiamente per scontato, rendendo lo stupro sulla base del sesso sia comune sia largamente ritenuto inevitabile. Quando un gruppo etnico, razziale, religioso o nazionale – un gruppo che include uomini – perde la propria sovranità in questo modo, il gruppo e la caratte-

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ristica che lo contraddistingue possono fare in modo che le atrocità siano notate. Non è affatto una coincidenza che le atrocità sessuali dal diritto internazionale siano percepite prima come distruttive per i gruppi in situazioni nelle quali sono usate a fini di dominio razziale, etnico, o religioso124. Durante la Shoah, in particolare, il ruolo delle atrocità sessuali nel genocidio è stato in larga parte negato, dato che le donne in quanto tali erano invisibili, in termini relativi, tanto quanto lo è stato l’abuso sessuale contro di loro. È comprensibile che le donne sopravvissute alla Shoah non vogliono essere pornografia. Sebbene non sia facile, le atrocità sessuali possono essere mostrate e analizzate senza alimentarle. Senza dubbio, il fatto che le atrocità siano sessuali non significa che esse non debbano essere esaminate e studiate. Sopprimere l’abuso sessuale lo alimenta più del criticarlo apertamente. Si può supporre che nascondere le realtà dell’abuso sessuale nel genocidio ne ha accresciuto la carica erotica, promuovendo in parte l’illusione che la pornografia della Shoah sia una fantasia, non fascismo. È plausibile che l’esposizione pubblica dell’abuso sessuale come parte integrante dello sterminio di massa possa incrementare l’opposizione al suo attuale sfruttamento massiccio nella pornografia e al suo fascino in altre forme di spettacolo. Una volta che l’abuso sessuale nel genocidio sia portato allo scoperto in modo più completo, la sua funzione affrontata, la definizione legale di genocidio – incluse le caratteristiche di gruppo sulle quali si basa (il sesso dovrebbe essere aggiunto?), le sue sottoparti (le atrocità sessuali dovrebbero essere rese esplicite?), il suo elemento intenzionale (dovrebbe esserci, in generale? dovrebbe riflettere come funziona davvero la misoginia?) – così come l’opportunità di un protocollo o di una convenzione a parte per il «ginocidio» potranno essere riviste in un contesto fattuale e teorico più realistico. Elizabeth Heineman esorta ad analizzare «il modo in cui il sesso permette alle persone di commettere genocidio»125. Per quelli che sono venuti dopo, questo è stato un pezzo mancante del paradigma del genocidio. L’abuso sessuale, in realtà, è un perfetto strumento di genocidio. Fa a gruppi etnici, razziali, religiosi e nazionali in quanto tali ciò che è stato fatto alle donne in quanto tali da tempo immemore all’interno di uno dei più efficaci sistemi di dominio-per-sterminio della storia. Ai carnefici questo non è sfuggito.

8.

L’11 settembre delle donne. Ripensare il diritto internazionale del conflitto*

Il diritto internazionale, incentrato sugli Stati, non è stato originalmente pensato per affrontare un insieme di circostanze come quelle configurate da atti e attori dell’11 settembre 20011. Né gran parte

* Queste riflessioni hanno tratto grande beneficio dagli scambi avvenuti durante la loro presentazione nella forma iniziale: alla Northwestern University Law School (17 aprile 2002); alla conferenza su Diritto e terrorismo, tenuta alla Hofstra Law School di Nizza (17 luglio 2002); alla Barbara Aronstein Black Lecture della Columbia University Law School (17 settembre 2002); alla Hofstra Law School (5 dicembre 2002); alla Mellon Lecture della University of Pittsburgh Law School (14 aprile 2003); alla Ralph Spielman Lecture della Bucknell University (25 settembre 2003); alla Dewey Lecture presso la University of Chicago Law School (9 ottobre 2003); al Kalamazoo College (4 ottobre 2004); alla University of Denver Sturm College of Law (10 marzo 2005); alla Stanford Law School (14 aprile 2005); alla Golden Gate Law School presso l’università di Parigi-X, Nanterre (29 giugno 2005); alla New Scholarship in International Law Workshop della Harvard Law School (6 ottobre 2005); e all’Università di San Francisco (3 novembre 2005). Ringrazio tutti coloro che vi hanno partecipato per il loro impegno. Alcune parti sono già apparse nel mio State of Emergency: Who Will Declare War on Terrorism against Women?, in «Women’s Review of Books», XIX (marzo 2002) 6, pp. 7-8. José Alvarez, Tal Becker, Tom Bender, Karima Bennoune, Christine Chinkin, George Fletcher, Linda Gardner, Jack Goldsmith, Ryan Goldman, Jack Greenberg, Kent Harvey, Beth Nielsen, Jessica Neuwirth, Mary Ellen O’Connell, Michael Reisman, Diane Rosenfeld, Abe Sofaer ed Eric Stein hanno combattuto generosamente con stesure precedenti. Sono risultati straordinariamente utili tre commenti di tre recensori anonimi. La University of Michigan Law Library, Melanie Markowitz e specialmente Ron Levy hanno fornito assistenza alla ricerca. Emma Cheuse e Anna Baldwin hanno dato un eccellente ausilio tecnico. Sono estremamente grata al sostegno di tutte queste persone. Il Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences ha contribuito con un contesto idilliaco e stimolante nel quale scrivere su queste realtà terrificanti. Il saggio è apparso anche in «Harvard International Law Journal», XLVII (2006) 1, pp. 1-31.

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della violenza degli uomini contro le donne è stata presa in considerazione quando è stato formulato il diritto di guerra, il diritto internazionale umanitario2 e le garanzie dei diritti umani3. I paralleli formali e di sostanza tra i due casi – soprattutto la loro architettura giuridica orizzontale, l’ampio numero di vittime e l’ideologia maschile4 – fanno sì che entrambi gli schemi di violenza assomiglino a un conflitto armato diffuso, ma la risposta del mondo è stata incoerente. Dall’11 settembre, l’ordine internazionale si è per la prima volta mostrato disponibile a trattare gli attori non statali come Stati in quanto fonte di violenza, invocando il diritto del conflitto armato. Gran parte della comunità internazionale si è mobilitata con forza contro il terrorismo5. Questa stessa comunità internazionale, che dopo l’11 settembre ha cambiato rotta, malgrado importanti iniziative6, deve ancora intraprendere una revisione complessiva delle leggi e delle istituzioni internazionali in vista di un’efficace risposta strategica alla violenza contro le donne7 con tutte le forme di risposta disponibili proprio quando «la responsabilità di proteggere» dalla violenza di massa e sistematica si configura sempre più, in ambito internazionale, come un dovere positivo8. Lo slittamento di paradigma del post-11 settembre, che in alcuni casi consente una potente risposta alla violenza di massa non statale contro i civili, esemplifica, se non un modello da emulare, un adattamento flessibile a una sfida analoga. Mostra ciò che si può fare quando si vuole. Se in tensione con il quadro attuale uno dei due problemi può essere affrontato a livello internazionale, perché l’altro no? I Visto attraverso lenti di genere, sul fronte delle vittime l’11 settembre è stato marcatamente neutrale rispetto al sesso. Le donne, insieme agli uomini – se non in numero eguale a loro, si suppone a causa della discriminazione sessuale sul lavoro – quel giorno erano persone9. Al World Trade Center, uomini e donne insieme si affrettarono sempre più in alto per aiutare, scesero carponi sempre più in basso mentre venivano soccorsi, si gettarono nel vuoto in modo straziante, corsero ricoperti di paura e di cenere, divennero cenere. Poi, giorno dopo giorno, mese dopo mese, erano tutti, uno alla volta, sulle speciali pagine commemorative del «New York Times»10, spesso sorridenti,

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prima. Nel ricordo, erano individui, facevano le cose più svariate, avevano ogni possibilità. Poi, in un solo giorno distruttivo, sono stati vaporizzati senza nessun riguardo al sesso. Sul fronte dei responsabili, le atrocità sono state tutt’altro che neutrali rispetto al sesso o al genere. Animati da un ethos di dominio maschile, questa volta sotto le sembianze di una religione – di un particolare estremismo fondamentalista che ha messo a tacere le donne, le ha sottomesse nella vita privata ed escluse da quella pubblica – questi uomini, destinati alla gloria e al piacere, alcuni alle vergini del paradiso dei martiri11, hanno sterminato migliaia di persone per affermare un principio. Il resto del mondo sta ancora tentando di decifrare quale fosse, di preciso, questo principio. Ma questa aggressione, queste atrocità, questa propaganda a suon di fatti, hanno fatto dell’11 settembre un giorno esemplare della violenza maschile. Ogni altro giorno, e anche oggi, gli uomini, così come le donne, sono vittime della violenza degli uomini. Ma colpisce che il numero delle persone che sono morte per mano di questi uomini l’11 settembre, dalle 2800 alle 3000, sia pressoché identico al numero di donne che muoiono per mano degli uomini ogni anno in un solo paese, lo stesso in cui è avvenuto l’11 settembre12. Sarebbero bastate le donne uccise dai loro compagni per riempire un’intera torre del World Trade Center dei morti dell’11 settembre13. Questa parte di guerra contro le donne in un solo paese, ma variamente combattuta in tutti i paesi14, è ben lontana dall’essere sessualmente equa sull’uno o sull’altro fronte. Chiamare la violenza contro le donne «una guerra», specialmente in un contesto giuridico, è solitamente liquidato come metaforico, iperbolico e/o retorico. Dalla promulgazione dello Statuto dell’ONU, quando «guerra» ha cessato di essere il termine giuridico appropriato, il diritto internazionale parla di «conflitto armato» o di «attacco armato». Questo corpo di norme regola principalmente l’uso della forza tra gli Stati o al loro interno o l’uso della forza per controllare gli Stati15. Se una parte è armata e l’altra no, o se gli Stati non sono le unità o il centro del combattimento, non si dà conflitto. Che il combattimento abbia raggiunto il punto in cui il diritto e le istituzioni del tempo di pace collassano è un criterio prioritario. In questo sistema, la violenza contro le donne non assomiglia a una guerra, in parte perché non si vedono Stati a condurla e perché, in questa guerra, non si vedono eserciti che si scontrano all’interno de-

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gli Stati, tra gli Stati e per il loro controllo o per la loro definizione. Non riguarda il potere statale nel modo consueto. Né i sessi hanno l’aspetto che si pensa abbiano i gruppi combattenti. Si ritiene che nessuno dei due sessi sia in uniforme. Non si pensa che le regolarità del loro comportamento sociale siano organizzate, così il conflitto tra loro appare più caotico che ordinato. Le donne sono solitamente disarmate, molti strumenti utilizzati contro le donne non sono considerati armi e le donne tipicamente non contrattaccano. Perfino gli attacchi contro le donne da parte degli uomini che adoperano armi convenzionali non sono considerati «attacchi armati» o «uso o minaccia di forza» nel senso giuridico proprio del diritto internazionale16. La battaglia dei sessi semplicemente non ha l’aspetto che dovrebbe avere una guerra. Quindi, non ci sono Convenzioni di Ginevra a porre dei limiti. Non ci sono regole d’ingaggio, né regole di combattimento, se le leggi penali domestiche non contano – leggi così poco applicate che sembra non esistano17. Le donne non ottengono clemenza, arrendersi significa più forza. Dato che gran parte della violenza contro le donne ha luogo in quello che è chiamato tempo di pace, le sue atrocità non contano come crimini di guerra, a meno che, nel frattempo, non sia in corso una guerra tra uomini. Invece di essere considerati crimini di guerra – oltre ogni limite, anche se inevitabili in contesti eccezionali – gli atti di violenza contro le donne non sono considerati eccezionali, ma inevitabili, anche banali, in un contesto non eccezionale, quindi oltre nessun limite. In questa «guerra», nessuno è un non-combattente con uno stato di civile tutelato. Questi «combattenti» non possono essere distinti dai civili, contro i quali gli attacchi sono vietati, o per l’assenza di una struttura di comando o per il loro abbigliamento; nessun codice di abbigliamento qui, solo un abito socialmente prescritto che, gridando «femminile», fa delle donne un bersaglio e rende difficile correre. Né l’aggressione verso le donne conta come crimine contro la pace, come è chiamata l’aggressione contro gli Stati, dato che le donne non sono uno Stato. Tutto questo rende il detto «in guerra e in amore tutto è permesso» vero solo per metà: in guerra, non tutto è permesso. Gli atti di violenza contro le donne sono legalmente considerati crimini ordinari e, ovviamente, lasciati ai sistemi nazionali e ad altri sistemi locali. Per questo motivo, e perché in base allo Statuto dell’ONU gli attori sono Stati, non popoli18, l’uso della forza in risposta

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alla forza da parte dei popoli, incluse le donne, non è stata ritenuta autorizzata come autodifesa in base allo Statuto19. Le contromisure delle donne non sono di solito giudicate legittime come autodifesa in molti sistemi nazionali e statali20. Nella maggior parte degli Stati all’interno della confederazione nordamericana, norme parallele a quelle sull’immediatezza o sulla proporzionalità21, create avendo in mente i conflitti tra uomini22, sono applicate contro le imputate che si richiamano all’autodifesa, come se le donne avessero il potere che hanno gli Stati23. Gli standard dell’autodifesa sono raramente applicati in modo efficace alle nazioni: la loro sovranità è difesa attraverso la forza con relativa impunità giuridica, attraverso atti che a volte sono proporzionati e a volte no, e non si fa praticamente nulla in proposito24. Ma è probabile che le donne che si difendono dalla violenza maschile con forza letale finiscano per essere accusate di omicidio o nel braccio della morte25. In nessun caso – eccetto che de facto, per esempio, attraverso l’annullamento da parte della giuria o, al limite, se perdonate – sono trattate in modo paragonabile ai noncombattenti tutelati26. Questo non per suggerire che dovrebbe essere legale il fatto che gli uomini catturino e uccidano le donne, come sarebbe se la guerra contro le donne fosse considerata legalmente una guerra. Tuttavia, anche se lo fosse, lo stupro continuerebbe a essere un crimine di guerra. Anche se ignorato nella pratica, lo stupro è stato per lungo tempo considerato illegale nelle guerre degli uomini27 e inizia a essere condannato internazionalmente sulla base di regole sempre più severe, le quali riconoscono l’esistenza di un contesto di forza28 che nessuna legge nazionale ancora riconosce. Si tratta di osservare, invece, che, mentre la vita quotidiana continua quasi come se la violenza contro le donne fosse legale, la vita quotidiana è priva di quei benefici giuridici che uno stato di guerra riconosciuto conferisce ai non-combattenti. Se, nella vita di tutti i giorni, le donne non sono formalmente considerate combattenti, dotate dei diritti dei combattenti, esse non ricevono in modo efficace nemmeno i benefici che il diritto di guerra conferisce ai civili durante i combattimenti. Mentre i presunti responsabili dell’11 settembre (e quelli che sono trattati alla loro stregua) sono considerati, in modo contraddittorio, soldati e criminali in base al diritto degli Stati Uniti, sebbene non ricevano in modo coerente né i benefici del modello bellico né quelli del modello penale29, la maggioranza degli uomini che commettono violenza

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contro le donne non sono considerati a titolo legale né soldati né criminali, ma spesso ottengono l’effettiva impunità che è il beneficio pratico di entrambi. Se la violenza contro le donne fosse considerata una guerra all’interno di un paese, un conflitto armato «di carattere non internazionale», gran parte di ciò che accade alle donne, ogni giorno, in tutto il mondo, sarebbe proibito in modo esplicito dal chiaro linguaggio dell’articolo 3 della Convenzione di Ginevra30. Le tutele da esso previste a favore dei civili durante i conflitti che non si svolgono tra nazioni sono ritenute lo standard minimo di ciò che deve essere accessibile nel caso di atti riconducibili a conflitti armati. Proibisce la violenza contro la vita e contro la persona, specialmente l’omicidio, la mutilazione, il trattamento crudele, la tortura e l’oltraggio alla dignità personale, specialmente il trattamento umiliante o degradante31. Immaginate le vite quotidiane delle donne senza tutto questo. L’articolo 3 prevede perfino che le persone che non prendono parte alle ostilità debbano essere trattate senza discriminazioni fondate sul sesso. Il fatto che le donne in giro per il mondo, e al di fuori di quelle che sono chiamate zone di guerra, siano prive di queste tutele a favore dei non-combattenti durante la guerra pone le donne nella condizione pratica di essere combattenti nelle ostilità quotidiane, mentre, allo stesso tempo, sono generalmente disarmate e considerate criminali se contrattaccano. Messo in atto in quello che è chiamato tempo di pace, l’articolo 3 trasformerebbe le vite delle donne ovunque. Ma c’è bisogno di una guerra perché si possa applicare. II L’ostacolo giuridico a trattare a livello internazionale la violenza maschile contro le donne è che sia i responsabili sia le vittime sono persone private, denominate attori non statali. Ma anche Osama bin Laden e la sua rete al-Qaida – supponendo che ci siano loro dietro gli attacchi dell’11 settembre32 – sono privati cittadini. Sono state fatte supposizioni rispetto al coinvolgimento, a vari livelli, di uno Stato, al collegamento con uno Stato, al sostegno di uno Stato al loro complotto, ma, per quanto si sa, al-Qaida non stava lavorando per nessuno Stato. Al massimo, Osama bin Laden può aver dirottato l’Afghanistan, dato che il suo regime illegittimo lavorava per lui piuttosto che il contrario. Negli Stati Uniti, è stata suggerita a livello

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ufficiale una connessione di al-Qaida con il regime di Saddam Hussein ed è ampiamente ritenuta credibile, ma non è ancora emersa nessuna prova diretta33. In base al diritto di guerra, la condotta di persone o enti privati richiede qualche grado di controllo o di sostegno statale per essere attribuibile agli Stati34. Per quanto riguarda l’11 settembre, l’azione statale non solo non è stata dimostrata, ma è stata finora presunta in modo a mala pena credibile. Sul fronte delle vittime, in una guerra, il Pentagono sarebbe stato un obiettivo militare (sebbene non possa essere legalmente colpito con un velivolo civile), ma le torri del World Trade Center, che il signor Bin Laden sembrava considerare una qualche sorta di obiettivo ufficiale, erano edifici privati, pieni soprattutto di privati cittadini, che lavoravano per aziende private. Le torri gemelle erano certamente negli Stati Uniti, per alcuni erano il simbolo della nazione ed erano una popolare icona culturale, ma, a fini giuridici, non erano gli Stati Uniti. Non erano un obiettivo militare per il quale, in una guerra, sia legittima una risposta militare. In una guerra, sarebbero un obiettivo civile e sarebbe un crimine di guerra attaccarle, un crimine da perseguire legalmente. Prima, durante e dopo l’11 settembre, le vittime di al-Qaida hanno trasceso i confini nazionali, proprio come li trascendono le vittime della guerra contro le donne. Così, l’11 settembre, attori non statali hanno commesso violenza contro attori in maggioranza non statali (non governativi e civili). All’interno del sistema vestfaliano, era fondamentalmente inconcepibile che un simile atto potesse essere così dannoso o potesse costituire il presupposto del livello di risposta che ha determinato35. Tuttavia, a partire da quel momento, con un linguaggio che oscilla tra il giuridico e l’ordinario, tra il concreto e il retorico, gli Stati Uniti hanno detto al mondo: «Siamo in guerra»36. Senza che si potesse ancora scorgere uno Stato dietro l’aggressione, le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU sull’11 settembre implicavano che gli eventi di quel terribile giorno costituivano un «attacco armato»37. La NATO ha invocato la difesa collettiva per la prima volta nella sua storia38. Così, questa diventa una guerra – con tanto di crimini di guerra, tribunali militari, atti di autodifesa potenzialmente giustificati e prigionieri di guerra39. Il fatto che la vigente struttura del diritto internazionale non abbia in mente in modo primario un conflitto come questo non ha fermato la risposta da tempo di guerra, completa di mobilitazione militare, sovvenzioni, artiglieria, retorica

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e alleanze militari. Pochi hanno chiamato tempo di pace quello dopo l’11 settembre. Questo sforzo internazionale, la «guerra al terrorismo», chiama gli atti dell’11 settembre «terrore», un termine che ha una definizione molto meno salda di quella di conflitto armato40. Tuttavia, le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU l’hanno utilizzato ripetutamente con riferimento agli eventi dell’11 settembre, senza definirlo41, suscitando poche proteste. Chiaramente, gli atti di quel giorno rientrano in un significato ampiamente condiviso del termine. Gli elementi comuni includono premeditazione piuttosto che spontaneità, motivazioni ideologiche e politiche piuttosto che criminali, obiettivi civili (a volte chiamati «innocenti») e agenti collettivi subnazionali42. Che cosa riguardo alla violenza contro le donne non permette di qualificarla come «terrore»? Gran parte di essa è pianificata, compresi gli stupri di gruppo e gli omicidi seriali, gran parte dello stalking e delle molestie sessuali, gran parte della produzione di pornografia e la maggior parte dei traffici sessuali. Le donne sono in qualche senso non «innocenti», esistenzialmente colpevoli in quanto donne? Se il linguaggio della guerra rivela che di fatto le donne sono chiamate alle armi, sempre non-civili ma mai combattenti, il linguaggio del terrorismo mostra che di rado le donne sono sufficientemente innocenti. E, di preciso, che cosa dello stato delle donne rispetto agli uomini non è «politico»? Se il sesso è uno dei modi in cui il potere è socialmente organizzato, modellando una politica del sesso, la violenza sessuale è una pratica di quella politica, la misoginia è la sua ideologia43. Alcune definizioni di terrorismo richiedono anche che la violenza colpisca una parte terza (i civili, per esempio) per ricattare il principale obiettivo (per esempio, un governo, o un’organizzazione internazionale o intergovernativa)44. Malgrado scarse prove rispetto a ciò cui gli Stati Uniti furono costretti a fare45 dagli attacchi dell’11 settembre (a parte rinunciare al loro stile di vita), non si è detto che l’etichetta «terrorismo» non si applicava a quegli attacchi per questa ragione. Questo elemento definizionale serve a sottolineare ulteriormente che, insieme a ciò che qualifica una guerra, la presenza di entità ufficiali tende a essere ciò che conta. Quando si adotta questo elemento, gli attacchi contro le persone contano solo quando sono un mezzo per ricattare gli Stati, qualcosa che conta davvero. E la violenza contro le donne, tranne che nelle guerre, non è di solito praticata con il fine di ricattare gli Stati.

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Sebbene, per certi versi, la violenza contro le donne somigli molto al terrorismo, i cui atti possono anche essere atti nell’ambito di un conflitto armato, non è considerata di per sé un atto di guerra nel senso dello jus ad bellum, né è necessariamente ritenuta un crimine di guerra46. Ma il tentativo di controllare il terrorismo, malgrado non sia stato ancora definito dallo Statuto di Roma47 della Corte penale internazionale (CPI), ha prodotto decenni di dibattito a livello internazionale e una ventina di convenzioni internazionali48. Nei confronti della violenza maschile contro le donne, invece, non ci sono stati tribunali speciali ad hoc e non sono state nemmeno proposte, per non dire create, commissioni per la verità e la riconciliazione rivolte a far emergere la verità, risanare questa divisione sociale e ristabilire la giustizia – posti dove gli uomini si presenterebbero a confessare tutto quello che hanno sempre fatto alle donne, dove queste donne, se ci fossero aule abbastanza grandi per contenerle tutte, potrebbero decidere se concedere l’amnistia a chi ha abusato di loro49. In base al diritto internazionale umanitario, gli atti dell’11 settembre sono sicuramente crimini contro l’umanità, così come lo è gran parte della violenza contro le donne, il che rende sempre illegali entrambi, almeno in teoria, e non solo in guerra (e non solo in quanto crimini di guerra)50. Tuttavia, le norme sui crimini contro l’umanità sono state ampiamente sotto-implementate. La CPI, che l’11 settembre 2001 non era operativa, potrebbe diventare un luogo dove cercare giustizia per tutte le future atrocità di questo tipo (che dio ce ne scampi), potenzialmente anche per gli Stati che non l’hanno ratificata (come gli Stati Uniti)51. Per la violenza contro le donne nemmeno la CPI, che per molti versi rappresenta un miglioramento52, risolve completamente il problema. A parte che in quella dei crimini contro l’umanità, gli atti dell’11 settembre rientrano meglio in una categoria giuridica che, e questo è interessante, non è quasi mai invocata nei loro confronti: il genocidio, «l’uccisione volontaria dei membri di un gruppo nazionale [...] in parte, con l’intenzione di distruggere il gruppo in quanto tale»53. Una definizione suggestiva di terrorismo è «genocidio pezzo per pezzo»54. Se le donne fossero considerate un gruppo, suscettibile di essere distrutto in quanto tale, il termine genocidio sarebbe adeguato anche per la violenza contro le donne55. Ma questo è un grande «se». Alla luce di questa analisi, è la «guerra contro il terrorismo» a essere la metafora – per di più confusa, in termini giuridici – sebbene

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il suo scopo sia stato tutt’altro, e la violenza contro le donne a qualificarsi, proprio come gli eventi dell’11 settembre, come casus belli e come forma di terrorismo. III A coloro che ritengono che la violenza quotidiana degli uomini contro le donne dovrebbe essere riconosciuta come violazione del diritto internazionale – come alcuni di noi che lavorano su queste questioni stanno sostenendo, a vario titolo, da anni56 – è stato detto, in pratica, che non sanno di cosa parlano. Il diritto internazionale, comprese le norme sui diritti umani, si dice, è designato a controllare atti ufficiali; dunque, si applica principalmente a entità ufficiali, o ai rapporti tra Stati, o ai rapporti tra l’individuo e lo Stato. Le eccezioni riguardano principalmente il genocidio e i crimini contro l’umanità, che comunemente si pensa avvengano su una scala tale da richiedere, di solito, qualche tipo di sostegno ufficiale o, per lo meno, di condono ufficiale. Il diritto internazionale sulla guerra può rivolgersi a conflitti armati interni – vale a dire, a conflitti interni agli Stati, come nelle guerre civili, alla contestazione del potere statale da parte della guerriglia armata o alle guerre di liberazione nazionale – ma non a quelli che, di norma, sono chiamati atti individuali di violenza da parte di alcune persone all’interno della società civile verso altre persone, atti considerati sporadici e isolati, chiamati «privati». Anche quando la violenza contro le donne si verifica durante i conflitti armati di uomini contro altri uomini, tali per cui vale il diritto di guerra, ci sono voluti anni di lavoro prima di iniziare ad avere una risposta giuridica seria. Sebbene lo stupro durante la guerra sia illegale da molto tempo, le atrocità sessuali sono state ignorate a Norimberga, sono state considerate solo in parte durante i processi di Tokyo57, iniziano a essere considerate dal tribunale per la Jugoslavia58, sono prese in considerazione dal tribunale per il Ruanda59 e sono state codificate, in caso di guerra, dallo statuto della CPI60. Malgrado questi passi avanti, il diritto internazionale non riesce ancora a cogliere la realtà del fatto che i membri di una metà della società continuano a dominare i membri dell’altra metà, spesso con mezzi violenti, in una guerra civile costante, all’interno di ogni società civile e su scala globale – una vera e propria guerra mondiale che continua da millenni. Il diritto internazionale fatica a immaginare

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una guerra, o crimini di guerra o crimini contro la pace, che si verifichino senza che gli Stati in quanto tali siano o la fonte o il referente del potere violentemente esercitato, o l’oggetto da conquistare o la parte violata. Esso non prevede conflitti nei quali a essere attaccati o difesi non siano né i confini delle nazioni né la sovranità degli Stati, ma siano i confini della persona in quanto membro di un gruppo di persone a essere violati e la sovranità dei membri di un gruppo di persone sulla propria vita a essere infranta ogni singolo giorno – anche se si continua a considerarla vita normale. Non permette in alcun modo di immaginare lo scoppio di ostilità tra un fronte armato e addestrato e un altro al quale è stato insegnato a sottomettersi e a goderne, a piangere e a non brandire coltelli da cucina. Non si specifica perché il diritto internazionale non possa prendere in considerazione il conflitto di genere. Si dice non possa per ragioni storiche – il che significa che non può perché non lo ha mai fatto. Le donne non hanno Stato, non sono uno Stato e non cercano uno Stato – in questa discussione, questo è il momento in cui Virginia Woolf incontra l’11 settembre61. Dato che questa storia sembra non riuscire mai a includerci e che il genocidio non riguarda le donne discriminate sulla base del sesso62 e che i crimini contro l’umanità non sono stati perseguiti in nessun luogo prima della CPI (che continua a dare priorità all’applicazione da parte degli Stati), le donne sono violate dagli uomini per fare cosa? A livello internazionale, ciò che abbiamo fatto è stato lavorare per spingere gli Stati a rispettare, ampliare o indebolire i requisiti giuridici per l’azione ufficiale, essenzialmente la stessa strategia adottata rispetto ai requisiti per l’azione statale secondo il diritto costituzionale statunitense63. Lo sforzo consiste nel triangolare la connessione tra il cosiddetto singolo uomo, la donna e lo Stato, per assicurare che lo Stato sia ritenuto responsabile per ciò che l’uomo le fa. Ma cosa fanno esattamente gli Stati? Cosa fanno, di preciso, per rendere pressoché totale l’impunità degli uomini rispetto alla violenza contro le donne? A volte, gli attori statali commettono i crimini nelle loro funzioni ufficiali; a volte si adoperano per nasconderli. Ma, in termini quantitativi, questa è una goccia nell’oceano. Come si può affrontare un tale numero di leggi evidentemente e volutamente inutili, piene di trappole per le donne violate, chiamate «dottrina», fissate prima ancora che alle donne fosse consentito di votare, ora gelosamente custodite come precedenti? Come si può trasformare

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quel tipo di connessione nel nesso diretto, auspicabilmente cosciente e intenzionale, preferibilmente evidente e perfino cospiratorio che la legge (tra l’altro non scritta dalle donne) vuole vedere dimostrato prima che si possa fare qualcosa (e si è anche chiamate paranoiche perché si avanzano delle richieste)? Come si può intervenire nell’interminabile far nulla che permette qualcosa – uno schema che ci dicono spesso essere inazione e non azione? Lasciar morire può essere uccidere, si dice che gli spettatori di atrocità internazionali dall’altra parte del mondo siano complici, ma lasciare che gli uomini abusino delle donne in casa è di rado riconosciuto come abusare delle donne, e guardare mentre lo fanno, come nel caso della pornografia, è un diritto costituzionale in molti paesi e semplicemente permesso nella maggior parte degli altri64. Come si può rendere conto della più ampia realtà degli uomini che la fanno franca con la violenza contro le donne sapendo di poterla fare franca – una forza che opera tra i sessi come la gravità? Come si può includere il sostegno pervasivo verso gli uomini in quanto uomini (i ragazzi cresciuti in quanto ragazzi) nelle innumerevoli forme che, ci viene detto, sono sociali e culturali, non politiche e tantomeno criminali, quindi una forma di libertà (degli uomini), non una forma di coercizione (delle donne)? Quando gli uomini sono violati, in particolare certi uomini, si può eventualmente dar forma a una politica dei diritti umani. Quando le donne sono violate, si dice ancora cultura, l’ultima scusa per stare a guardare. Poi, l’11 settembre, per bocca del presidente Bush è arrivata una qualche risposta: «Non faremo alcuna distinzione tra i terroristi che hanno commesso questi atti e quelli che danno loro rifugio»65. Lo Stato offre loro rifugio. Fino ad ora, questa nozione di offrire rifugio non ha avuto tale preminenza in questo settore del diritto, sebbene spesso le convenzioni sui diritti umani, nel loro stesso linguaggio, ritengano gli Stati responsabili per le violazioni commesse sul loro territorio che essi non fermano66 e sebbene, ormai da qualche tempo, le giurisdizioni locali abbiano esteso in questa direzione la rete di responsabilità ufficiali rispetto alle violazioni dei diritti umani67. Tuttavia, dall’11 settembre, il moto internazionale in questa direzione nel campo della sicurezza è stato precipitoso. A livello della prassi istituzionale, il Consiglio di sicurezza dell’ONU si è affrettato a fare proprie le concezioni, prima considerate radicali, secondo cui gli atti non statali possono essere attribuiti agli stati che offrono rifugio ai terroristi e l’autodifesa, così come la minaccia alla pace, possono esse-

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re invocate, in base allo Statuto dell’ONU, se uno Stato offre rifugio a terroristi o, persino, in presenza della mera minaccia continua di azioni terroristiche68. Nel 2004, il Consiglio di sicurezza dell’ONU si è richiamato ai poteri conferitigli dal capitolo VII per richiedere agli stati di adottare e mettere in atto norme efficaci contro «qualsiasi attore non statale» che producesse o distribuisse armi nucleari, chimiche e biologiche «in particolare per fini terroristici»69. Questo, riescono a farlo. A livello della prassi statale, se i talebani non fossero esistiti, gli Stati Uniti avrebbero dovuto praticamente inventarsi la relazione dell’Afghanistan con al-Qaida per avere uno Stato da bombardare e invadere, per trasformare quelli che, altrimenti, sarebbero stati crimini contro l’umanità in risposta a crimini contro l’umanità, terrorismo di stato che si vendica di terrorismo non di stato, violenza maschile contro violenza maschile, in questa cosa chiamata guerra. Avendo demolito un santuario statale (e con esso parti del già martoriato Afghanistan), gli Stati Uniti si sono mobilitati per perseguire al-Qaida a livello mondiale, una rete di potenziali paesi ospitanti che, fino ad ora, si dice si estenda a ben sessanta paesi70. Il fatto che al-Qaida non sia organizzata in una nazione con eserciti e territorio non ha fermato questa risposta internazionale prima ancora che cominciasse. Nessuno ha affermato che più estesa è al-Qaida, meno si può fare contro di essa. Tuttavia, il fatto che il dominio maschile non sia organizzato come uno Stato, ma che, come al-Qaida, sia letteralmente transnazionale e pervada il mondo, è invocato, nel sistema internazionale, per evitare di opporsi alla violenza maschile contro le donne. Che gli uomini non siano stati (poco importa che governino praticamente tutti gli stati) sembra perfino consentire di trattarli come se non avessero alcun potere sulle donne. Che una qualche entità statale sia così centrale rispetto alla rete terroristica di al-Qaida da conferire al bersaglio l’aspetto appropriato, e quindi la potenziale giustificazione per una guerra, resta ancora da vedere. E resta ancora da vedere che gli uomini violenti, i quali operano in pratica impunemente in tutto il mondo e i cui bersagli sono le donne, siano considerati «protetti» dagli stati che effettivamente permettono, quindi condonano e sostengono, i loro atti o che la violenza contro le donne sia considerata abbastanza urgente da ignorare – o preferibilmente ristrutturare – il diritto internazionale così che possa occuparsene. Mettete a confronto la risposta all’11 settembre con i pretesti per

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non fare nulla rispetto alla violenza contro le donne. Dato che le radici dell’11 settembre affondano in profondità nella vita economica e sociale di tutto il mondo, nelle credenze e nell’identità, e si manifestano con atti tanto espressivi quanto mascolini, la guerra al terrore si fermerà mai? Si dirà che alcuni individui sono semplicemente violenti, così che non si può fare nulla? Il terrorismo sarà visto come una questione culturale e quindi protetto? Gli Stati Uniti lasceranno la presa quando apprenderanno che al-Qaida, come alcuni pornografi e altri trafficanti di sesso (il sesso che è tanto la loro religione quanto la loro attività), è organizzata in (ciò che per gli uomini sono) modi non convenzionali? Si pensa che la violenza contro le donne sia non statale, culturalmente specifica, comparabile ad atti espressivi di mele marce, in tutto il mondo, atti che sono difficili da fermare. Si dice che il terrorismo, che è tutte queste cose, sia così grave che non c’è scelta se non fermarlo, mentre occuparsi seriamente delle minacce alla sicurezza delle donne è evidentemente nient’altro che una scelta, dato che è appena all’inizio. Ecco la domanda: che cosa ci vuole perché la violenza contro le donne, questa guerra quotidiana, questo terrorismo contro le donne in quanto donne che continua giorno dopo giorno in tutto il mondo, questa quotidiana e sistematica minaccia alla pace, fondata sul gruppo, e crimine contro la pace, riceva una risposta nella struttura e nella pratica del diritto internazionale, una risposta che si avvicini al livello di preoccupazione e determinazione ispirato dagli attacchi dell’11 settembre? Assumere che le donne siano un gruppo, una collettività, sebbene non uno Stato, chiedere questo non è soltanto sostenere che, siccome la violenza contro le donne è sistemica e sistematica (come in effetti è), dovrebbe essere affrontata a questo livello di urgenza. Molte morti socialmente prodotte e mutilazioni gravi sono giuridicamente ignorate. Questo parallelo è più pertinente di quello con la morte sistemica di migliaia di bambini che ogni giorno muoiono per malattie che si possono prevenire71. E non si tratta di una questione morale: che questo è male e bisognerebbe fermarlo. È giuridica: sia l’11 settembre sia la maggior parte della violenza contro le donne sono atti compiuti da attori formalmente non statali contro bersagli non statali. È un punto analitico: entrambe sono violenze fondate sul genere. Ed è una questione empirica: la quantità di morti è dello stesso ordine, in un solo paese, in un solo anno72. Questo non significa sostenere che l’unica risposta efficace a una

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guerra sia una guerra. Significa chiedere: quando smetterà l’ordine internazionale di considerare proprio questa condizione come pace e si impegnerà, nel suo complesso, con buona volontà, a fare qualsiasi cosa necessaria per porvi rimedio, dando forma agli imperativi della risposta sulla base degli imperativi del problema? Significa chiedere perché uno sia rilevante e l’altro no. Perché l’ordine internazionale si mobilita e concentra le proprie forze per sopraffarne uno mentre sembra impensabile occuparsi dell’altro con fermezza e urgenza? Che la configurazione delle parti dell’11 settembre non si adattasse alla struttura e ai presupposti anteriori dell’ordinamento giuridico internazionale non ha affatto impedito la risposta. Che azioni come quelle intraprese dopo l’11 settembre abbiano prodotto la struttura e le premesse che sono diventate il diritto internazionale – diritto internazionale consuetudinario in via di formazione73 – è, nel bene e nel male, più vicino alla verità. A questo punto, è difficile non notare che il terrorismo minaccia il potere degli Stati, mentre la violenza maschile contro le donne no; si potrebbe dire che il potere statale è una forma di tale violenza. Posta in un altro modo: perché la condizione delle donne afgane, imprigionate per anni nei loro abiti e nelle loro case, fustigate se lasciano intravedere una caviglia, che, in base al sesso74, non possono accedere all’istruzione, al lavoro, alle cariche politiche, ai servizi sanitari, assoggettate a chissà quale altra violenza maschile, non è classificata come terrorismo e non assurge, nell’agenda internazionale, al livello di una minaccia di conflitto? Perché quelli che hanno lanciato l’allarme su come erano trattate sono stati ignorati? Perché, con tutte le violazioni del diritto internazionale e le ripetute risoluzioni del Consiglio di sicurezza, il loro trattamento da solo non è bastato come atto di guerra o come ragione per intervenire (sì, anche militarmente) un qualunque giorno, fino al 10 settembre 2001? Al suggerimento secondo cui le donne afgane dovrebbero, invece, far sentire la loro voce attraverso i meccanismi internazionali, immaginate come reagirebbero gli Stati Uniti se si suggerisse che, invece di rispondere con la forza agli atti dell’11 settembre, avrebbero dovuto sciogliere la loro riserva rispetto all’articolo 41 della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (CIDCP) e redigere una dichiarazione contro l’Afghanistan75. Tranne che per i pacifisti, alcune cose giustificano un intervento armato. Il modo in cui i governi trattano la propria popolazione, incluse le donne, non è tradizionalmente una di queste cose. Per

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esempio, in base all’approccio adottato negli anni Trenta del Novecento, fino a che Hitler mantenne lo sterminio degli ebrei all’interno della Germania, soltanto la Germania fu considerata propriamente coinvolta. È stato dopo che altri paesi furono attaccati che il resto del mondo si trovò coinvolto. L’approccio al trattamento delle donne è fermo ad allora, così che agli uomini, all’interno dei loro paesi, è consentito fare alle donne ciò che gli uomini non possono fare a donne di altri paesi? I dati confermano che qualcosa di simile è una regola operativa. Le vedove sono incenerite in India o vivono con la paura che questo possa succedere loro un giorno o l’altro76. Sono lapidate a morte per avere avuto rapporti sessuali al di fuori del matrimonio in Asia meridionale e in Africa. Muoiono per aborti mal eseguiti in alcune zone dell’America latina e in seguito a mutilazioni genitali in molte parti del mondo. Le femmine uccise alla nascita o lasciate morire di fame in tenera età, o abortite come feti perché femmine, sono documentate nell’ordine di milioni in Asia77. Se gli uomini facessero tutto questo in un paese straniero, si creerebbe uno stato di guerra? (Provate a pensarci, cosa fa il turismo sessuale in Thailandia?)78 La nazionalità dei responsabili ha poco a che fare con il danno inflitto alle donne. Mentre alcune di queste cose iniziano finalmente a essere considerate violazioni dei diritti umani, almeno in teoria79, si pensa che nessuna di esse costituisca un uso della forza in senso giuridico. Di per sé, ciò non ha ancora creato ciò che si percepisce come un’emergenza umanitaria o che giustifica un intervento militare. Le leggi e le istituzioni del tempo di pace, da parte loro, lungi dal venir meno e dal non riuscire a operare, di tanto in tanto, in questo contesto come previsto dal diritto sui conflitti armati, non hanno mai, e in nessun luogo, funzionato per le donne su larga scala. Ma queste atrocità prive di compensazione invece di essere riconosciute come conflitti armati, poiché accadono sempre, non solo ogni tanto, con relativa impunità, o forse perché non si verificano di fronte alle telecamere della televisione tutte in un solo giorno, provocano scarsa preoccupazione a livello internazionale. Che cosa rende di rilevanza internazionale gli atti compiuti dagli uomini all’interno del proprio paese? Come chiamiamo quella donna su quattro che, stando a una stima per difetto, viene stuprata, quella donna su tre che ha subìto abusi durante l’infanzia, quella donna su quattro che viene picchiata all’interno delle mura domesti-

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che (o torturata o anche bruciata), quel numero imprecisato di donne prostitute che vengono sistematicamente violentate e gettate via, di donne di colore o indigene che sono le più vittimizzate e le meno considerate: tutto quel numero di donne che negli Stati Uniti vivono in una situazione di terrore non metaforico e che non trovano rifugio effettivo nemmeno nelle loro case?80 Sebbene sia stata documentata e analizzata dalle sopravvissute e dagli scienziati sociali a partire dal 197081, riportata dagli osservatori negli Stati Uniti e altrove82, la pervasiva paura delle donne rispetto alla violenza non è stata nemmeno notata dalla letteratura sul terrorismo83, né tantomeno ha prodotto una sollevazione organizzata da parte della comunità internazionale o stimolato il ripensamento della struttura, del contenuto e delle priorità delle organizzazioni internazionali, arrivate a un bivio, come ha fatto l’11 settembre84. Le strategie internazionali globali per la pace e la sicurezza mondiale non hanno mai previsto un’approfondita indagine sulla violenza stessa come fenomeno di genere85. Atti di violenza contro le donne sono atrocità di massa, violazioni di massa dei diritti umani, attacchi diffusi e sistematici sulla base del sesso, crimini contro l’umanità pervasivamente non perseguiti. Ma non sono anche conflitti violenti, organizzati? Queste donne non contano come vittime in qualche guerra? I marines non sbarcheranno mai per loro? Si sta combattendo una sorta di guerra non riconosciuta all’interno di un conflitto che, si sospetta, sarebbe visto come tale se gli uomini non fossero gli aggressori e le donne le vittime86. Perché nessun modello internazionale – né la guerra, né il diritto penale, nemmeno i diritti umani – si applica in modo efficace a tutto questo in alcun luogo? Perché trovare modalità di intervento efficace non suscita il senso di urgenza internazionale? Per un breve momento, nella guerra americana contro i talebani, le donne hanno avuto una politica estera, o sono diventate, per un breve momento, parte del pretesto per una politica estera87. Ma quando gli uomini subordinano le donne all’interno di un singolo paese (e dove non lo fanno?), questo lo rende evidentemente non-internazionale, affar loro e di nessun altro, terreno meno legittimo per l’intervento internazionale di quanto lo siano state persino le guerre civili, anche nei luoghi in cui le donne non hanno la possibilità di ricorrere ai tribunali locali (e dove ce l’hanno?). Se non altro, l’11 settembre ha mostrato che la visione della sovranità limitata ai confini nazionali è un’illusione che

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non riesce a proteggere le persone al di là dei confini nazionali. Non protegge neanche le donne al loro interno. La guerra in Iraq ha portato queste questioni a un livello completamente nuovo. Al di là dell’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU88, la principale giustificazione degli Stati Uniti per l’invasione è stata l’autodifesa preventiva, che significa «dato che abbiamo paura di voi, vi possiamo uccidere». Oltre a non essere una giustificazione giuridica fermamente stabilita per l’autodifesa89, e a essere, nei fatti, ancora da dimostrare in questo caso, immaginate cosa potrebbero fare le donne agli uomini in base al principio secondo cui la paura giustifica l’aggressione preventiva, con secoli di fatti a suo sostegno. Inoltre, gli Stati Uniti non hanno invaso l’Iraq per fermare ciò che il regime di Saddam Hussein ha fatto ai curdi nel 1988, o agli sciiti dopo il 1991, o agli arabi delle paludi nel frattempo – tutti atti di genocidio analiticamente simili al trattamento delle donne in tutto il mondo, e per di più non riconosciuti come giustificazioni per il ricorso alla forza in base allo Statuto dell’ONU, in assenza dell’autorizzazione del Consiglio di sicurezza. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno di fatto istituito no-fly zones basandosi, in parte, su questa giustificazione e il Consiglio di sicurezza ha lasciato che ciò accadesse90, un livello e un’intensità di reazione mai messo in atto per le donne in nessun luogo. Mentre l’invasione dell’Iraq procedeva e le armi di distruzione di massa non si trovavano e il governo degli Stati Uniti continuava a insistere sulle atrocità di Saddam Hussein contro la sua stessa popolazione (meno sulla loro qualificazione giuridica), l’autodifesa è stata sempre meno sbandierata e sempre meno distorta, la liberazione del popolo iracheno (che certo ne aveva bisogno) sempre di più91. Questo cambiamento è avvenuto sullo sfondo dello Statuto dell’ONU, il quale, in base all’interpretazione convenzionale, consente l’uso della forza solamente per autodifesa come risposta a un attacco armato92, sebbene la «carità perfetta» sia stata una potenziale giustificazione per la guerra almeno a partire da Grozio93 e, sotto la denominazione di intervento umanitario in difesa di terzi, abbia acquisito un peso crescente come giustificazione per una forte risposta ad attacchi di massa94. Ma mai, fino ad ora, per le donne in quanto tali. Il punto qui è che non si è cercato di giustificare legalmente l’invasione dell’Iraq sulla base di continui atti di genocidio risalenti al passato e di crimini contro l’umanità, senza dubbio, almeno in parte,

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perché queste violazioni non sono sufficienti, in assenza dell’autorizzazione del Consiglio di sicurezza, a rendere legale un intervento armato95. Lo Statuto dell’ONU dovrebbe essere rivisto in modo tale che quelli considerati crimini umanitari in base allo jus in bello o le violazioni dei diritti umani possano anche innescare per lo jus ad bellum? Se questa domanda è sollevata sempre più spesso, fino ad ora, non si è mai suggerito che la violenza brutale e sistematica contro le donne, anche in caso ci sia impunità o partecipazione pubblica, possa legalmente giustificare il ricorso alla forza, a meno che non avvenga come parte di ostilità durante le quali gli uomini stanno anche attaccando altri uomini. Il nesso più esteso fra il trattamento delle donne da parte degli uomini e il trattamento degli uomini da parte di altri uomini va perso nel sistema internazionale. Quando sono comparse le fotografie dei soldati americani che umiliavano sessualmente i detenuti iracheni nella prigione di Abu Ghraib96, il fatto che nella pornografia atti identici siano compiuti quotidianamente contro le donne (e alcuni uomini) è stato menzionato, quando lo è stato, tipicamente per giustificare i crimini, non per mettere sotto accusa la pornografia97. La relazione non è sfuggita a un iracheno che, in prigione, aveva subìto abusi da parte degli americani. «Volevano che ci sentissimo come se fossimo delle donne», disse, «che sperimentassimo il modo in cui si sentono le donne, questo è il peggior insulto, sentirsi come una donna»98. Si faceva di solito rifermento alle foto, blande rispetto agli standard della pornografia, come a immagini di tortura99, ma chiamare tortura le immagini pornografiche è solitamente deriso come estremismo, paragonabile al chiamare guerra la violenza contro le donne. Neanche quando un giornale americano è stato indotto, con l’inganno, a pubblicare pornografia presentandola come atrocità di guerra100, l’opinione pubblica ha capito. Le persone erano sconvolte da ciò che vedevano – preoccupate dalle immagini che mostravano le donne mentre venivano stuprate – fino a che non hanno scoperto che si trattava di pornografia. Allora, il giornale raggirato si è scusato per la scarsa prova di giornalismo e per non aver indagato su come fossero state realizzate le foto101. Il mondo ha fatto un passo indietro e si è riallineato in risposta alle fotografie degli uomini arabi che subivano abusi sessuali da parte di americani, sono cadute delle teste e i processi si sono moltiplicati, ma i produttori di pornografia continuano allo stesso modo a trafficare con donne che subiscono violenze

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sessuali, che sono torturate e umiliate in tutto il mondo, in bella vista. L’indagine su come si produca quella pornografia non è sull’agenda pubblica o giornalistica o legislativa, interna o internazionale102. IV Tutto questo fa sì che si voglia guardare di nuovo ai volti sorridenti delle donne sulle pagine speciali del «New York Times» dopo l’11 settembre e chiedere: chi le ha fatto del male prima? Se fosse morta a causa della violenza maschile un qualche altro giorno, per mano di uomini a lei vicini, nella sua casa, il quotidiano se ne sarebbe accorto? La sua morte avrebbe avuto la dignità di una questione politica? La sua nazione avrebbe reagito? O è stata più eguale, sulla base del sesso, quel giorno rispetto a ogni altro giorno della sua vita? Se fosse sopravvissuta, sarebbe un cittadino degli Stati Uniti a pieno titolo come lo è stata da morta? In effetti, con i benefici della sua morte conteggiati al tavolo degli incassi maschili103, è economicamente più eguale da morta di quanto sarebbe mai stata da viva? Data la precedente applicazione della legge sulla violenza contro le donne negli Stati Uniti, quale sarebbe stato il suo tribunale? Particolarmente difficile da sopportare è il massacro sistematico, inserito nella vita di tutti i giorni, in crisi che si svolgono, silenziose e ignorate, nella normalità, ma in realtà consentite dalla maggior parte delle autorità, nazionali e transnazionali, mentre le crisi che si allontanano dalla normalità – gli eccezionali atti contro l’ordine stabilito, come l’11 settembre – mobilitano gran parte del mondo, con senso dell’oltraggio e determinazione, a marciare dritto attraverso muri giuridici. In questo, la situazione delle donne è lungi dall’essere isolata104. Come ha scritto una volta Walter Benjamin, «la tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola»105. In quest’ottica, né l’11 settembre né la violenza contro le donne sono «tragedie», come morire a causa dell’eruzione di un vulcano o colpiti da un fulmine, né sono un vacuo «male» soprannaturale, l’espressione preferita da quelli che si sentono a proprio agio più a condannare che a spiegare gli eventi. Entrambi i fenomeni hanno un’origine più politica e sociale, sono più contingenti – quindi modificabili – di quanto l’uno e l’altro termine suggeriscano. La relazione tra il trattamento delle donne da parte degli uomini e gli eventi

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dell’11 settembre non è in ultima analisi quella moralistica: il modo in cui le donne sono trattate ci dice quanto tutti noi siamo civilizzati. Né è quella opportunistica, per quanto accurata: ignorare come questi uomini hanno trattato le donne ha danneggiato tutti. È questa: ciò che questi uomini fanno alle donne, ogni giorno, è ciò che essi hanno fatto, sia alle donne sia agli uomini, quel giorno. Il comportamento degli uomini nei loro ruoli e nel loro stato di uomini è il vero contesto dell’11 settembre. In termini metafisici, chi essi sono per le donne coincide con chi essi sono. È difficile evitare l’impressione che ciò che è chiamato guerra sia ciò che gli uomini fanno gli uni contro gli altri e che ciò che essi fanno alle donne sia chiamato vita di tutti i giorni. Così, le guerre sono combattute in modo fratricida e si concludono fraternamente, mentre la vita di tutti i giorni non ha mai fine. Quel giorno, essere un uomo non è stata una tutela, da questo la risposta del mondo. Le perdite dell’11 settembre sono state vere perdite agli occhi del potere, in un modo in cui le perdite di donne non lo sono mai state. Mettendo in atto la stessa dinamica a livello domestico negli Stati Uniti, l’eguale protezione delle leggi è diventata all’improvviso reale agli occhi del potere, quando l’accesso degli uomini a qualcosa di reale per loro – la presidenza – era in ballo. Non era reale per le stesse persone appena pochi mesi prima, quando l’accesso delle donne alla giustizia per la violenza subita da parte degli uomini era in questione. Proprio come le barriere giuridiche all’azione si sono improvvisamente dissolte l’11 settembre, così il federalismo (vale a dire, i diritti degli Stati), che, come si è dimostrato, preclude l’accesso delle donne all’equa protezione delle leggi penali statali contro lo stupro e le percosse – che, come si è dimostrato in United States vs Morrison, richiede l’invalidazione del risarcimento per l’eguaglianza sessuale dei pubblici funzionari incluso nel Violence Against Women Act a livello federale106– si è semplicemente dissolto quando l’accesso di alcuni uomini all’equa protezione della legge statale elettorale era in ballo e la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Bush vs Gore ha insediato il presidente Bush107. Allo stesso modo, le azioni di polizia a livello mondiale, il multilateralismo, i cambiamenti di regime, la ricostruzione nazionale, i nuovi dipartimenti federali, la federalizzazione di quella che prima era forza lavoro privata e la travolgente autorità esecutiva – tutte

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cose che erano in precedenza contrastate, ridicolizzate dai loro attuali sostenitori – non sono più state un problema e sono divenute urgenti, perfino legali, dopo l’11 settembre. Quel giorno, per alcuni, «tutto è cambiato», conducendo, per il momento, all’invasione e all’occupazione dell’Iraq, che legalmente sono, nel peggiore dei casi, aggressione, nel migliore dei casi, autodifesa preventiva combinata con l’applicazione non autorizzata delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza in circostanze senza precedenti108. Sul fronte domestico, nelle aree della sicurezza nazionale, l’applicazione della legge negli Stati Uniti si concentra ora sulla prevenzione, un approccio alla sicurezza che le donne americane sollecitano da trent’anni. Durante questo periodo, innumerevoli donne hanno ottenuto, invece, infinite variazioni di ciò che la polizia disse a Linda «Lovelace» quando, da una stanza di albergo, chiamò dopo essere sfuggita al suo violento protettore: «Dice che la sta inseguendo con un AK 47? Signora, ci richiami quando è nella stanza»109. Questo non per sostenere che la guerra al terrore sia il modello giusto per opporsi alla violenza contro le donne. Ma per mettere in luce, piuttosto, i punti in comune tra i problemi che affrontano e quelli che ignorano, così come ciò che unisce le soluzioni che mettono in atto e i problemi che continuano a non riuscire a risolvere. Per chi è tutto cambiato l’11 settembre 2001?110 Una volta che gli uomini, molti di loro cittadini degli Stati Uniti, bianchi, della classe media, nel bel mezzo delle loro vite quotidiane, e quindi sulla base di caratteristiche rispettabili, sono diventati vittime, insieme a donne e uomini di tutti i colori, nazionalità e classi sociali, il fatto che la violenza fosse non statale – la stessa questione sotto il diritto internazionale di quella riguardante la legge costituzionale degli Stati Uniti sull’eguaglianza – non è stato ritenuto un fattore per ridurre l’11 settembre a omicidio di massa, un crimine meramente locale. Né ha prodotto un’azione di polizia internazionale conclusasi con processi penali di uomini stranieri sotto gli auspici nazionali, come nel processo a Eichmann, o in un paese terzo, come nel caso del bombardamento di Lockerbie111. Il governo degli Stati Uniti non ha detto ai suoi cittadini di aspettare a chiamare le forze della legge dai loro cellulari e di raccogliere dati nel frattempo, quando vedono un terrorista su un aereo. Nella fretta e nella determinazione a reagire il più velocemente e efficacemente possibile, lo stato non ufficiale delle parti è passato semplicemente inosservato. Ciò che è cambiato

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è questo: il pericolo era reale perché alcuni uomini erano spaventati. Sapevano di essere presi di mira per chi erano. Come ulteriore prova di questa dimensione reale del pericolo, nessuno ha ancora fatto dell’11 settembre una questione di sesso. Nessuno parla delle sue vittime e dei suoi danni tra virgolette timorose. (Dove sono finiti i postmodernisti?) Non si parla ancora di farsene una ragione. Dove le persone contano, ogni mezzo ritenuto necessario è utilizzato in modo energico, non importa se contro attori non statali che attaccano bersagli non pubblici, senza essere intralciati da leggi o vincoli istituzionali112. La struttura delle istituzioni internazionali è rimodellata per creare un approccio che si adatti alla forma e alla dimensione del problema113. Il quadro giuridico è interrogato con urgenza alla luce della realtà, non viceversa. Facendo convergere la legge sui diritti umani civili con il diritto umanitaria penale, si potrebbero introdurre considerazioni sul trattamento delle donne e sullo stato delle donne a tutti i livelli della discussione sull’intervento umanitario, inclusa la revisione dello Statuto dell’ONU. Si potrebbe mirare a un nuovo protocollo umanitario della Convenzione di Ginevra per affrontare le lacune riguardanti la violenza contro le donne, definendo alcune delle diffuse e gravi forme di tale violenza come conflitto violento in base al diritto di guerra. La discussione sul tema della violenza fondata sul genere potrebbe diventare parte dei dibattiti e della riflessione diplomatica sulle definizioni di terrorismo. Il Consiglio di sicurezza potrebbe prendere in considerazione, in base al capitolo VII, risoluzioni contro la violenza sulle donne che si esercita impunemente, ad opera dei peggiori responsabili statali, come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, forse iniziando dalle situazioni che sono internazionali in un senso più convenzionale. Uno sforzo di ristrutturazione internazionale potrebbe condurre verso una convenzione internazionale sulla violenza contro le donne che riconosca la sua esistenza transnazionale, che includa meccanismi di implementazione e il dovere positivo di proteggere dalla violenza sessuale, che preveda chiari standard, i quali, se non rispettati, possano alla fine innescare un intervento correttivo da parte delle forze transnazionali114. Una volta che questo tema sarà ripensato, emergeranno senza dubbio altre possibilità di profonda ristrutturazione. Strada facendo, si dovranno affrontare reali difficoltà. Che la prostituzione e i traffici legati al sesso aumentino in presenza di azioni

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di polizia internazionale e di coinvolgimento delle forze militari, così come nell azioni di polizia e nell’impiego di forze militari in ambito nazionale, rivela che la polizia e le forze militari sono un aspetto del problema, così come sono una parte potenziale della sua soluzione. Forse tutti i caschi blu in queste missioni dovrebbero essere donne. Dopo la fine dei conflitti, si evitano le azioni di polizia su piccola scala e l’applicazione della legge contro la violenza domestica per le stesse ragioni: i pericoli di un impegno casa per casa, accompagnati da un senso di futilità. Ma il fatto che chiunque possa scegliere se preferisca un combattimento armato in mimetica su un campo di battaglia ufficiale, piuttosto che un intervento in seguito al quale donne e bambini sopravvivono a stento, non raccomanda certo di mantenere lo status quo. Si può concedere che fermare migliaia di attori sia più complicato che deporre un grande leader o un’entità simbolica, ma anche la contro-insurrezione è complicata. Forse, a qualche livello, gli uomini hanno organizzato i loro conflitti come li hanno organizzati, per mantenerli semplici e per limitare i contendenti a quelli che già detengono le loro comode forme di potere. Forse l’11 settembre è emblematico, perché altri uomini hanno infranto quel codice e quell’accordo. Ad ogni modo, il fatto che la violenza maschile contro le donne faccia apparire al confronto la guerra convenzionale sicura e semplice e facile e fattibile non giustifica l’idea di abbandonare le donne ai loro aggressori. Si potrebbe chiedere, a quelli che si oppongono a operazioni di polizia a livello internazionale in questo contesto, se si oppongano anche ad azioni di polizia a livello domestico. Quelli che chiedono perché la violenza contro le donne, al di là dei meccanismi interni inefficaci, dovrebbe essere affrontata internazionalmente potrebbero domandare perché gli eventi dell’11 settembre siano affrontati a livello internazionale. Gli aggressori erano stranieri, ma non hanno attraversato i confini nazionali per commettere il fatto, quel giorno, ed esso non è stato ritenuto un attacco da parte dell’Arabia Saudita, il paese di origine della maggior parte degli aggressori. Entrambe le forme di violenza trascendono i confini nazionali: i confini statali sono irrilevanti per entrambe, anche se per ragioni diverse115. E se l’egemonia statale è minacciata dai terroristi, ma gli Stati degli uomini hanno un investimento nel dominio maschile, l’argomento a favore di un intervento internazionale indipendente potrebbe essere più forte nel caso della violenza contro le donne di quanto non sia

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nel caso del terrorismo, anche se le forze interne di polizia hanno bisogno di essere coinvolte e trasformate per affrontare uno o l’altro in modo efficace. Presumibilmente, una volta capito che l’intervento è una possibilità reale, gli Stati adotterebbero misure per evitarlo, mobilitandosi per correggere il problema. Come le donne in tutto il mondo hanno capito bene, si dovrebbe affrontare il protezionismo per impedire che l’intervento diventi soltanto un altro modo in cui le donne violate sono violate. Il punto è fermare l’abuso secondo modalità che attribuiscano potere agli ineguali piuttosto che incrementare il potere di chi è già potente. In assenza di simili iniziative, mentre il periodo che si apre a partire dall’11 settembre riconfigura in modo flessibile le regole, le norme e le strutture internazionali per rispondere alla forza, anche con la forza, noi donne rimaniamo irreali e sacrificabili per i sistemi sotto i quali viviamo. E il dominio maschile, comune a entrambi i problemi, e alle norme e alle strutture istituzionali degli attuali sistemi per rispondere loro, continua a essere ignorato. Tra le migliori risposte disponibili, le cosiddette strategie di ricostruzione nazionale post-conflitto116 presuppongono un modello operativo di pace che è l’altra faccia della medaglia maschile del conflitto armato. Se il conflitto è un’eruzione episodica di uomini che combattono altri uomini, qualcosa che come inizia finisce, allora la pace coincide con quei periodi in cui questo non accade. La violenza maschile contro le donne è tollerata in entrambi i casi, forse più nel secondo che nel primo. Come è possibile che la violenza maschile abbia termine, quando la stessa idea di pace la presuppone e la consente? Opporsi alla violenza contro le donne insegna che la costruzione della pace è un processo sociale attivo, non una mera assenza di conflitto aperto, tanto meno un rituale contrattuale che consiste nel firmare un documento, o nell’incrociare le braccia nello stesso letto mentre il potere prevale silenziosamente. Il ricorso alle armi infligge perdite sproporzionate alle donne e ai bambini117, ma lo stesso fa l’attuale tempo di pace. Chi calcola i suoi rischi? Dopo un secolo di crescente convergenza, in condizione e in numero, tra le vittime civili delle guerre e le vittime non-combattenti della pace118, è tempo di chiedere: che cosa si farà per le donne di tutto per le quali l’11 settembre può giungere un giorno qualsiasi?

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Postmodernismo e diritti umani*

Per una femminista americana [...] leggere The Newly Born Woman è come andare a dormire in un mondo e svegliarsi in un altro – andare a dormire in un reame di fatti, che si fa fatica a teorizzare, e svegliarsi nel regno della teoria, che si fa fatica a tradurre in fatti. Sandra M. Gilbert1

È passato più di un quarto di secolo da quando, secondo Mary Joe Frug, «MacKinnon [...] ha lanciato il femminismo nell’orbita della teoria sociale»2. Nel contesto della pratica del movimento delle donne, a quel tempo, il mio pensiero nell’occuparmi di questioni di metodo era che la situazione delle donne fosse priva di una propria teoria esaustiva, ne avesse bisogno, e che l’esperienza delle donne potesse dare un contributo peculiare alla teoria politica, anche sul piano epistemico. All’epoca, la mia idea era che la relazione tra conoscenza e potere fosse la questione centrale che la situazione delle donne e la teoria formale si ponevano reciprocamente, e che la sessualità fosse l’ambito in cui emergeva tale questione3. Quasi trent’anni dopo, la discussione aperta allora è ben lontana dall’essere conclusa.

* Queste riflessioni erano in origine un discorso tenuto al seminario su Femminismo e politica, svoltosi presso l’università internazionale Menendez y Pelayo (UIMP) di Valencia, in Spagna, il 4 luglio 1996 e pubblicate per la prima volta col titolo Points Against Postmodernism in «Chicago-Kent Law Review», 75 (2000), pp. 687 sgg.

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9. Postmodernismo e diritti umani

I Lo sviluppo del femminismo in quanto teoria è spinto dalle realtà della situazione delle donne. Le vite delle donne, come il movimento delle donne ha scoperto, hanno contorni con contenuto. Prima di tutto, si è scoperto che le vite delle donne sono state vissute principalmente in silenzio, un aspetto ignorato dalle teorie allora esistenti. L’abuso sessuale contro le donne da parte degli uomini è stato quasi completamente messo a tacere. A partire dai primi anni Settanta, l’esperienza diretta di questa realtà sociale – non realtà in astratto, ma questa realtà, tangibilmente danneggiata e socialmente marginalizzata – ha mostrato le regolarità, la diffusa estensione e il trauma dell’abuso sessuale durante l’infanzia, la pervasività dello stupro e di altre aggressioni sessuali, la tortura e la vergogna legate alle percosse, la quotidiana presenza di molestie sessuali, al lavoro, a scuola, in strada, e l’endemico abuso costituito dalla pornografia e dalla prostituzione. L’estensione e la natura di queste pratiche, il loro posto nella politica sessuale, e quindi in politica, sono state portate alla luce ed esaminate. Una volta stabilita questa genealogia e, più in generale, la sua contiguità con la sessualità, nulla è più sembrato come prima, dallo Stato ai gruppi di interesse, alla cultura, alle relazioni intime. Un’implicazione è stata che si è dovuto ripensare sia il conoscere sia la conoscenza per competere con il ruolo del potere maschile nella loro costruzione. Questo confronto pratico con le specifiche realtà della violazione fisica e sessuale ha dato vita alla teoria femminista, compresa la cosiddetta teoria alta, sia nella forma sia nel contenuto. Che queste realtà siano connotate dal genere non è stato assunto, postulato, inventato o immaginato. Il genere non si è impresso nelle nostre menti dopo aver letto libri di filosofia scritti da altri; non è stato una Verità che abbiamo deciso di stipulare, per porre fine a dispute accademiche, o per creare un campo di indagine o una nicchia, così che potessimo trovare un lavoro. Era ciò che è stato trovato là, dalle donne, nelle vite delle donne. Pezzo doloroso dopo pezzo doloroso, nell’articolare esperienze dirette, nell’opporre resistenza ai particolari rivelati, tentando di rendere lo status delle donne diverso da quello che era, è stata forgiata una teoria dello status delle donne e, con essa, una teoria del metodo adeguato: come dovevamo conoscere per riuscire a conoscere questo.

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Questa teoria particolare, costruita in questo modo, era una teoria della diseguaglianza sessuale e, in termini più generali, della politica sessuale. In questa esperienza, e a partire da questa esperienza vissuta da donna dopo donna, è emersa un’immagine sistematica, sistemica, organizzata, strutturata, nuovamente coerente, delle relazioni tra uomini e donne, un’immagine che si estendeva in modo visibile dalle relazioni intime a tutto il sistema sociale e allo Stato. Le nostre menti riuscivano a capire che era reale perché i nostri corpi, collettivamente, la sperimentavano di continuo. Quindi, aveva un’esistenza sociale. Né la sua eterogeneità minava la sua realtà: la costituiva. Abbiamo detto: questo accade. Il movimento è rapidamente diventato globale, in quanto le donne riscontravano ovunque l’ineguaglianza sessuale nella loro stessa esperienza e il suo ruolo nel negare loro la possibilità di una vita completa4. Questa particolare realtà uniforme non era un esempio di ciò che, facendo ricorso ai dati, ha prodotto un nuovo modo di pensare rispetto al conoscere o un nuovo angolo visivo; era una specifica realtà che, collettivamente cosciente, richiedeva un nuovo modo di pensare rispetto al conoscere. Tutto ciò che riguardava questa teoria, vale la pena di ripeterlo, era particolare. Non era generale. Era concreto. Non era astratto. Era specifico e ancorato a elementi tangibili. Non era un’unità uniforme e omogenea. Era un intero complesso. Il punto della discussione metodologica del mio Toward a Feminist Theory of the State consisteva nell’articolare le conseguenze di questa nuova conoscenza e il modo in cui la teoria poteva coglierle – in modo specifico, per il tipo di filosofia che pensava che un pensiero dovesse essere generale e astratto, intendendo libero dalla particolarità legata a una posizione o a un sostantivo contenuto sociale, non sperimentato nella pratica – per essere teoreticamente valido. E per connettere queste nuove informazioni su ciò che accadeva nelle vite delle donne, informazioni messe a tacere dalla teoria precedente, al diritto: diritto come una pratica dello Stato, una pratica che rivendica la propria validità imponendo generalità e astrazione a una particolare forma vissuta sostenuta dal potere e dall’autorità. Il punto era prendere l’esperienza delle donne abbastanza sul serio – sia il come sia il cosa di tale esperienza – da porre fine all’ineguaglianza. Il processo consisteva nel giungere alla base dei costrutti teorici che avevano nascosto e definito la sua realtà come teoricamente priva di validità ed empiricamente inesistente o,

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al limite, marginale, e avevano istituzionalizzato quella teoria e i suoi prodotti come norme regolatrici del diritto. «Donne» non era una categoria astratta. «Donne», per la teoria femminista, nei contorni e nel contenuto, era una questione teorica, in gran parte nuova a livello formale. Il suo contenuto era l’esperienza sostanziale che le donne possedevano, con tutte le loro particolarità e varianti. Non perché la teoria corrispondesse a questa realtà, ma perché la teoria era costituita da essa. Non era una teoria generale dei particolari, era una teoria fatta da questi particolari: una teoria particolare. Era costruita a partire dalle esperienze di abuso e violazione delle donne e rispondeva a queste esperienze. La sua costruzione, fondata su aspetti tangibili, e il suo responsabile impegno non erano una postura o una bandiera da sventolare. Erano ciò di cui era fatta, ciò che faceva. Non pretendeva di rappresentare l’unico vero resoconto di come tutto realmente è. Pretendeva di essere accurata e responsabile verso il mondo sociale che la costituiva. Era legata alla realtà che teorizzava in questo modo nuovo. Il femminismo ha richiesto, in effetti, di ripensare tutto. Un semplice esempio: si è scoperto che la distinzione tracciata, a partire dall’Illuminismo, tra l’universale e il particolare era falsa, perché ciò che era stato chiamato universale non era nient’altro che il particolare dal punto di vista del potere. Un altro esempio: si è scoperto che la distinzione soggettivo/oggettivo era falsa, perché la prospettiva oggettiva – o per lo meno questo è ciò che ho sostenuto in Toward a Feminist Theory of the State – era precisamente quella occupata a partire dalla posizione maschile di potere. Vale a dire, quelli che, a livello sociale, occupano ciò è chiamata la prospettiva oggettiva, che si impegnano anche nella pratica chiamata, da una simile prospettiva, reificazione – la pratica di rendere oggetti le persone in modo da renderle conoscibili – la loro prospettiva e questa pratica sono espressione della posizione sociale di dominio che è occupata dagli uomini. Questa prospettiva non è priva di coordinate o di uno specifico punto di vista, come pretende di essere; non è dotata soltanto di accuratezza ed equità, come molti credono; incorpora e asserisce una specifica forma di potere, una forma di potere che è stata invisibile per la politica e per la teoria, ma che, grazie al femminismo, è ora visibile come a esse sottostante. Questa teoria non era un’affermazione della particolarità femminile, in quanto opposta all’universalità maschile. Non era una ri-

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vendicazione della soggettività femminile o la ricerca di una simile soggettività. Considerava tali concetti, e la pretesa distinzione tra essi, come prodotti del potere maschile, che non può vedere né loro né molto altro. Fino a che non sono stati messi in mostra, questi concetti sono sembrati generali, privi di contenuto, universalmente disponibili per tutti, validi, meri strumenti, rispetto ai quali tutto il resto risultava inadeguato. Il femminismo ha rivelato come la teoria precedente fosse tautologica nei suoi propri termini di validazione e come difficilmente potesse essere universale, in quanto escludeva almeno metà dell’universo. Il femminismo non ha rivendicato, in modo preciso, nemmeno il territorio che era stato assegnato alle donne sotto questo sistema. Di più, era la sua richiesta verso di noi che abbiamo cercato di rinnegare. Non eravamo alla ricerca di una cella più elegante o di uno stereotipo più dignitoso. Non stavamo cercando di elaborare la particolarità femminile come se fosse nostra; avevamo vissuto all’interno delle sue mura per secoli. Non stavamo cercando di rivendicare la soggettività o la posizione di soggezione alla quale eravamo state relegate, non più di quanto cercassimo di opprimere altri ottenendo accesso al potere per reificare e dominare ciò che avevamo rivelato come tale. Tutto questo avrebbe lasciato ciò che tentavamo di sfidare saldamente al proprio posto; rispetto alla nostra agenda, sarebbe stato come giocare con le costruzioni e rimanere intrappolate all’interno delle costruzioni stesse. L’identità in quanto tale non era il nostro tema. Dentro di noi, sapevamo bene chi eravamo. L’identità di genere – il termine introdotto da Robert Stoller nel 1964 per indicare la rappresentazione mentale del sé in quanto maschile o femminile – situa il problema delle donne nel posto sbagliato5. La nostra priorità era ottenere l’accesso alla realtà della nostra esperienza collettiva, per comprenderla e cambiarla, per tutte noi, nelle nostre stesse vite. Il mio stesso lavoro offre solo un’illustrazione di come questo approccio filosofico alla teoria dal basso verso l’alto sia stato produttivo nella pratica. Questa teoria, applicata, ha prodotto la rivendicazione delle molestie sessuali come una rivendicazione giuridica rispetto alla discriminazione sessuale6. Così ora, quando una donna è sessualmente molestata e ne parla, non è più soltanto una donna che parla con una voce diversa o che narra la propria esperienza soggettiva in merito alla propria situazione. Sta raccontando ciò che le è successo. E ciò che le è successo, quando succede, è ora ri-

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conosciuto in modo autorevole nel diritto come un’ineguaglianza fondata sul sesso, vale a dire, come una violazione dei diritti umani delle donne. L’azione civile, in base al Violence Against Women Act, si è richiamata alla stessa logica per riconoscere che lo stupro o le percosse possono essere pratiche di discriminazione sessuale7. Allo stesso modo, la legge proposta da Andrea Dworkin e da me, secondo cui la pornografia dovrebbe essere considerata una pratica di discriminazione sessuale, si fonda sulle realtà delle esperienze delle donne violate attraverso la produzione o l’uso di pornografia. In base a essa, la testimonianza delle donne sull’abuso subìto tramite la pornografia sarebbe considerata una prova, in modo tale che si riconosca legalmente che la pornografia produce i danni che effettivamente produce nella realtà8. Lo stesso approccio ha prodotto l’argomento, adottato dal Second Circuit, secondo cui, quando lo stupro è di fatto un atto di genocidio, è un atto di genocidio per il diritto. Vale a dire, violare sessualmente le donne, perché sono donne di una particolare comunità etnica o religiosa, mira a distruggere quella comunità9. Solo questi pochi esempi della pratica di questa teoria mostrano una duplice trasformazione in atto. Includendo nel diritto civile e nel diritto umanitario ciò che viola le donne, il significato di «cittadino» e «umano» inizia ad avere un volto femminile. Dato che le attuali condizioni delle donne sono riconosciute come inumane, queste condizioni vengono modificate, richiedendo che esse soddisfino uno standard di cittadinanza e umanità che, prima, non si applicava, perché erano donne. In altre parole, noi donne abbiamo cambiato sia lo standard, non appena siamo state incluse in esso, sia la realtà che esso regola, ottenendo che si applicasse a noi. Questo processo democratico descrive non soltanto il diritto consuetudinario quando funziona, ma anche un principio cardinale dell’analisi femminista: le donne hanno diritto di accedere alle cose così come sono e anche di trasformarle in qualcosa che meriti di essere posseduto da noi. Così, noi donne stiamo trasformando la definizione di eguaglianza, non assimilandoci agli uomini, autorizzati a violare e mettere a tacere, né reificando le cosiddette differenze delle donne, ma stiamo insistendo sul fatto che l’eguale cittadinanza debba comprendere ciò di cui le donne hanno bisogno per essere umane, incluso il diritto a non essere violate o messe a tacere. Questo è stato fatto nel caso bosniaco, riconoscendo la particolarità etnica, non negandola. Adattando le parole del filosofo Richard Rorty, stiamo rendendo la parola

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«donna» un «nome di un modo di umanità»10. Stiamo sfidando e cambiando il processo del conoscere e la pratica del potere, al tempo stesso. In altre parole, tutto questo funziona. Il femminismo ha avanzato una richiesta ardita alla filosofia occidentale: noi donne possiamo accedere alla nostra realtà, perché la viviamo; in termini un po’ più generali, vivere in uno stato di subordinazione può dare accesso alla sua realtà. Non la realtà con la R maiuscola – questa particolare realtà sociale. Dato che le donne non stavano prendendo parte a giochi di potere, né provando ad avere la meglio in dispute accademiche, non abbiamo rivendicato nessun privilegio. Abbiamo semplicemente rivendicato la realtà dell’esperienza delle donne, come terreno sul quale stare in piedi e dal quale prendere le mosse, come base per un’azione politica cosciente. Come è stato dimostrato, una volta liberate dall’evidente invisibilità, le realtà delle donne possono spesso essere documentate attraverso modalità diverse, e praticamente tutti si sono dimostrati all’altezza di capirle, con un piccolo sforzo simpatetico. Le donne hanno trasformato le realtà dei senza potere in una forma di potere: la credibilità. E la realtà è stata dalla nostra parte. Ciò che dicevamo era credibile, perché era reale. Poche persone hanno affermato che le donne non erano violate secondo le modalità che scoprimmo o che non occupavano una posizione di secondo ordine nella società. Non in molti hanno apertamente messo in dubbio che ciò che avevamo scoperto, di fatto, esisteva. Ciò che è stato detto, invece, è che, nella società, niente esiste realmente. II Negli stessi venticinque anni durante i quali questa teoria e questa pratica si sono sviluppate, una tendenza teorica chiamata postmodernismo si è adoperata per sopprimerle. Il suo principale obiettivo è proprio la realtà. Il postmodernismo, tenterò di argomentare – o più strettamente, la centrale tendenza epistemica al suo interno sulla quale mi concentro – de-realizza la realtà sociale, ignorandola, rifiutandosi di rispondere a essa e, con una mossa in qualche modo innovativa, ripudiando ogni connessione con ‘essa’ attraverso l’affermazione che ‘essa’ non è là. Il postmodernismo è una bandiera sventolata da diverse fazioni, eterogenea perché l’assenza di unità è il loro credo e perché non sen-

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tono il bisogno di essere coerenti. Parte del problema nel fare i conti con il postmodernismo è che, fingendo di essere profondi quando invece sono semplicemente oscuri (molti si lasciano ingannare), ricoprendo i soggetti di parole, i suoi sedicenti specialisti, piuttosto spesso, non dicono molto in merito a niente11. Un altro aspetto del problema è che alcuni commentatori accreditano al postmodernismo alcune idee che sono state elaborate e messe in pratica da tradizioni critiche. Per esempio: «Balkin è stato uno dei pochi giuristi disposto a esplorare questioni postmoderne, quali la costruzione sociale della realtà, il ruolo dell’ideologia e il problema della critica sociale»12. In effetti, Jack Balkin esplora questi temi, definendo questo lavoro postmoderno, ma le femministe, in campo giuridico, li hanno esplorati in profondità per quasi trent’anni, così come i marxisti e alcuni giuristi realisti, iniziando molto prima, giusto per citare qualche caso. Un’ulteriore parte del problema è che il postmodernismo saccheggia il femminismo – affermando, per esempio, che la critica all’oggettività è un’intuizione postmoderna – e copre i propri furti interpretando il femminismo come una sottospecie del postmodernismo13. In ogni caso, la denominazione «postmodernismo» mette insieme una costellazione di recenti tendenze e posizioni teoriche. Per delimitare il mio tema specifico, analizzo tre questioni che sono centrali per le donne, la politica e la teoria, per vedere cosa il postmodernismo ha fatto delle rotture metodologiche del femminismo appena descritte. Queste tre questioni sono approssimativamente parallele alla discussione del postmodernismo da parte di Jane Flax, che lo descrive come incentrato sulla morte dell’uomo, sulla morte della metafisica e sulla morte della storia14. Non critico tutto quello che viene definito postmoderno, né difendo tutto ciò che dicono i suoi detrattori; in particolare, è possibile distinguere la variante americana, sulla quale mi concentro, da alcuni poststrutturalisti europei dei quali gli americani si appropriano per darsi una patina di autorità. Lungi dal voler fare di ogni erba un fascio, invito tutti gli interessati a prendere le distanze da ciò che descrivo, e a smettere di farlo in qualunque momento. A. Donne Il rifiuto degli universali da parte del postmodernismo è stato descritto da Lyotard, nel definire il postmodernismo, come «incredulità nei confronti delle metanarrazioni»15. Nella sua veste

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femminista, questo tema va sotto la critica delle «grandi narrazioni» da parte della teoria femminista16, che, in nome delle «differenze», domanda se le «donne» esistano e se sia possibile parlarne o se esse siano morte insieme all’«uomo». Questo punto è così articolato da Mary Joe Frug: «Sono favorevole a fratture localizzate. Sono contraria alla teoria totalizzante»17. L’antiessenzialismo è una faccia di questa obiezione: la visione secondo cui non c’è una cosa come le «donne», perché ci sono sempre altri aspetti delle identità delle donne e altre basi oltre al sesso per la loro oppressione. La difesa del multiculturalismo è un’altra faccia di tale obiezione: non c’è una cosa come «le donne» al singolare; ci sono soltanto donne al plurale, molte donne particolarizzate, localizzate, socialmente costruite e culturalmente modificate, secondo diverse modalità, quindi non le «donne» nel senso che i postmodernisti immaginano sia quello femminista. Se c’è qualcuno che fa «grandi narrazioni», io immagino di farle, così penso di poter dire che non so di cosa stiano parlando. Per quanto riguarda «totalità» – un termine borioso, amplificato a dismisura, ma anche stranamente vuoto – a cosa si è contrari se si è «contrari alla teoria totalizzante»? Perché nessuno dice che cosa si intende con questo termine? Perché non ci sono delle note in calce ad accompagnare l’accusa?18. Si immagina che sia un riferimento a Marx e a Freud. Apparentemente, è un sinonimo per «universale», ma, tanto per cominciare, nessuna analisi che sia predicata sulla base di una divisione di genere può essere un’analisi universale nel senso usuale. Per quanto ne so, il femminismo non ha mai avuto ciò che si chiama una narrativa «monocausale»19; per lo meno, io non ne ho. Non diciamo che il genere è tutto ciò che c’è. Non abbiamo mai detto che spieghi tutto. Abbiamo detto che il genere è importante e pervasivo, mai assente, che ha una forma, delle regolarità e delle leggi che ne governano il moto, e che spiega molto – molto di ciò che, altrimenti, non si potrebbe cogliere e rimarrebbe privo di spiegazione. È una caratteristica di quasi tutto, pervasivamente negata. Questo non significa che tutto si riduca al genere, che il genere sia l’unica regolarità o l’unica spiegazione, la singola causa di tutto, o l’unica cosa che esiste. È il caso di ripetere anche che, nel femminismo, la politica sessuale non è una teoria generale preesistente e dominante, alla quale ci si richiama per comprendere o spiegare, ma un’analisi

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costantemente provvisoria, all’interno del processo di fare e rifare le realtà sociali che la producono e l’hanno prodotta. La critica postmoderna al femminismo sembra presupporre che le «donne» della teoria femminista siano tutte eguali, omogenee, un’unità uniforme. Non so dove abbiano pescato questa idea. Non da me. Loro non lo dicono. Questa nozione secondo cui tutte dovrebbero essere eguali per avere accesso all’etichetta di «donne» non è un’idea che opera, per quanto ne so, all’interno della teoria femminista. Che l’uniformità sia una proprietà teorica abituale per una categoria, non significa che si applichi al concetto di donne proprio del femminismo. Nella teoria femminista, le donne sono concrete; non sono astratte. Non sono sesso o genere, ma sono contraddistinte e definite e controllate da esso. Nell’analisi femminista, si osserva che il genere è potentemente binario nella società, ma che non lo è in modo esclusivo; si osserva che le divisioni di potere esistono all’interno di gruppi definiti sulla base del sesso, così come tra essi, quindi anche nella teoria femminista del genere. In un certo senso, il femminismo ha dato inizio alla critica dell’universalità così come è attualmente praticata, mostrando come le donne siano lasciate fuori dalla conoscenza umana. Abbiamo condotto a una nuova profondità la critica della società come socialmente costruita, mostrando come persino qualcosa che gli altri spesso pensavano essere biologico – la sessualità – è sociale e disegna linee di potere. Il femminismo non «presuppone»20, ma piuttosto costruisce, le sue «donne» a partire dalle donne che esistono socialmente. Quando il femminismo costruisce le sue donne dal basso, dalle particolarità, dalla pratica, piuttosto che dall’alto, o a partire da astrazioni o dalla teoria precedente, il cosiddetto problema dell’essenzialismo non si pone21. L’affermazione secondo cui il femminismo è essenzialista serve anche a oscurare il ruolo formativo delle donne di colore e lesbiche, tra le altre, in ogni parte della teoria femminista. Esse, come ogni altra, e più della maggior parte, hanno creato le «donne» del movimento delle donne e del femminismo. Il postmodernismo blatera a proposito di come il femminismo privilegi il genere22, ma raramente dice che cosa questo significhi. Se privilegiare il genere significa che il femminismo pone il genere alla sommità di una qualche gerarchia delle oppressioni, l’accusa è falsa, per lo meno per quanto mi riguarda. Io non stilo gerarchie. Se questi critici intendono che le femministe pensano che il genere sia

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molto importante e spesso leggono le situazioni in termini di dinamiche legate alle gerarchie di genere e si rifiutano di tacere riguardo al genere come forma di dominio, hanno ragione. Dovrebbero dire perché, caso per caso, abbiamo torto a fare questo, perché il genere non merita il posto che gli assegniamo nella nostra analisi. La supremazia maschile «privilegia» il genere, noi lo critichiamo. Un argomento affine è che il femminismo «essenzializza» il genere. Un concetto di antiessenzialismo (ce ne sono molti) è definito da Tracy Higgins come «il rifiuto [...] dell’idea che le donne possano essere identificate con particolari caratteristiche invarianti nel tempo e tra culture»23. Mi sembra che questo rimandi a una questione empirica piuttosto che concettuale. Esistono caratteristiche che possono essere identificate con – vale a dire riscontrate nella realtà – lo status delle donne nel corso del tempo e in vari luoghi, anche da queste stesse donne? Le donne riportano l’esistenza di simili regolarità: l’ineguaglianza sessuale, per citarne una. O c’è o non c’è. Non ci si oppone all’osservazione che essa esista, in nome di un’idea che rifiuta di pensare che ci sia. Una volta scoperto che esiste, dire che non c’è mostra che non c’è – mostra, per esempio, che la mutilazione genitale femminile è un’illusione collettiva, che è innocua, o una pratica di eguaglianza. Le donne in tutto il mondo dicono che ogni società contiene pratiche che le trattano inegualmente rispetto agli uomini. Per contestare questo, trovate una società nella quale siano eguali, nella quale non ci siano pratiche ineguali. Per contestare la documentazione di caratteristiche comuni relative allo stato delle donne nel corso del tempo e in vari luoghi, mostrate che non ci sono. Di certo, la realtà sociale deve esistere per conseguire questo. Ciò che i postmodernisti sembrano dire qui è che non gradiscono l’idea che le donne siano diseguali dappertutto. Beh, neanche noi la gradiamo. Gran parte di ciò che ha animato la critica del cosiddetto essenzialismo della teoria femminista è la critica secondo cui il femminismo è razzista – che l’immagine del «femminile» nel femminismo, in base a questa critica, ha il volto di una donna bianca. Questa critica si applica al razzismo dell’accademia, che si definisce femminista, ma rifiuta di fornire le credenziali di teoriche alle donne di colore, o si appropria del loro lavoro come parte del suo pluralismo, mentre essa stessa non fa nulla di diverso da ciò che faceva prima. Si applica anche al razzismo dei mezzi di comunicazione, che si presentano

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solidali, ma non mostrano come, per esempio, le donne di colore abbiano contribuito al femminismo fin dal suo inizio e continuino ancora oggi a farlo. E, soprattutto, dà il meglio di sé nel criticare il volto femminista dell’elitismo liberal, che passa per femminismo in alcuni ambienti, anche nel movimento delle donne. Ma, diversamente da «essenzialismo», che suona come «stai facendo della sterile teoria», razzismo è una brutta parola, accademicamente impresentabile e politicamente rischiosa, una parola che irrita i bianchi. Così, invece di dire che qualcosa o qualcuno è razzista, come è spesso il caso, utilizziamo l’oscura parola «essenzialista», che filosoficamente suona come una bestemmia, o sentiamo dire che le femministe non prendono in considerazione la «differenza»24. Raffinata parola neutrale, differenza, e ha tutta quella credibilità francese. Non importa che le differenze possano essere semplicemente degli universali frammentati. Aggiungere più pezzi chiamati differenze non migliora la capacità di analizzare la gerarchia come prodotto sociale, se le differenze sono viste come biologicamente determinate, tanto per cominciare. Si può avere una teoria biologica della razza proprio come si può avere una teoria biologica del genere e, in entrambi i casi, non si andrà molto lontano rispetto allo smantellamento della gerarchia sociale. Per dirlo in un altro modo, se le donne non esistono, perché esistono soltanto donne particolari, forse neanche le persone di colore esistono, perché sono divise dal sesso. Probabilmente, nemmeno le lesbiche possono esistere, perché sono divise dalla razza e dalla classe sociale; se le donne non esistono, le donne che si identificano con le donne certo non esistono, se non nella loro testa. Siamo ridotte a individui che, guarda caso, è proprio come ci dipinge il liberalismo. Con la sua affermazione dei tratti comuni delle donne malgrado tutta la loro diversità, è il femminismo che rifiuta la visione secondo cui «donna» è una categoria presociale, cioè biologicamente determinata, e la nozione in base alla quale tutte le donne sono eguali. Il femminismo e l’essenzialismo non possono occupare lo stesso posto. L’attacco postmoderno all’universalità va anche fin troppo bene. Purtroppo il fatto della morte è un universale – quasi al cento per cento. Qualunque cosa significhi, in qualunque modo sia legato alla cultura e alla spiritualità, qualunque cosa accada dopo, accade. Con grande imbarazzo degli antiessenzialisti, che preferiscono i voli di fantasia alla cruda realtà, vita e morte è perfino una distinzione fon-

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damentalmente binaria – e neanche tanto sfumata, in particolare dal lato della morte, per lo meno quando la si guarda dalla prospettiva dei vivi, cioè per quanto ne sappiamo. Ed è perfino biologica sotto certi aspetti. Così, l’idea che non ci sia nulla di essenziale, nel senso che non ci sono universali umani, è un dogma. Andatelo a chiedere a tutti quelli che saranno fucilati all’alba. Il multiculturalismo è una versione politicamente normativa della nozione antropologica di relativismo culturale fondata sulla premessa che «tutte le culture sono egualmente valide»25. La versione postmoderna della critica multiculturale presume che chi parla assuma la propria cultura e i propri valori come validi e critichi le altre culture dalla prospettiva della propria cultura. Ad ogni modo, il femminismo mette in dubbio la validità culturale del sottomettere le donne agli uomini ovunque. Il femminismo non assume che «altre» culture26 debbano essere valutate in base alla validità della loro stessa cultura, perché il femminismo non assume che la cultura di qualcuno, inclusa la sua stessa, sia valida. Come potremmo? Le difese delle differenze locali, come sono chiamate27, sono spesso semplicemente una difesa del potere maschile nelle sue vesti locali. Il potere maschile, in pratica, appare sempre sotto spoglie locali; si potrebbe azzardare che non c’è altro che spoglie locali per il potere maschile. Il fatto che siano locali non le rende migliori. Due casi penali, nei quali fu utilizzata una difesa multiculturale, cosiddetta culturale, mostrano all’opera la dinamica di questo multiculturalismo, in particolare, nella cancellazione delle donne indigene. In Chen28, un immigrato cinese, che aveva picchiato a morte sua moglie con un piede di porco, è stato difeso richiamandosi al fatto che la sua rabbia e la sua violenza, in risposta all’immaginata infedeltà della moglie, erano normali nella sua cultura di origine. In un altro caso, Rhines29, un uomo afroamericano è stato accusato di stupro fisico e di abuso verbale ai danni di una donna afroamericana. La sua difesa è stata che credeva erroneamente che lei avesse acconsentito allo stupro, perché i neri sono di norma violenti e alzano la voce30. Si presume che il razzismo di queste assunzioni sia evidente, sebbene le difese siano state avanzate in nome dell’opposizione al razzismo della cultura bianca nel punire questi uomini per aver stuprato donne di colore e averle picchiate a morte. Nel caso di stupro, la donna afroamericana disse molto chiaramente di essere stata stuprata. Se gli afroamericani alzano la voce, sarebbe stata la prima a saperlo e non sarebbe stata messa a

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tacere con l’argomento che aveva agito come se volesse fare sesso o in modo da farglielo pensare. Vorrei anche sapere in quale cultura alcuni uomini non uccidono le loro mogli per presunta infedeltà (o semplicemente perché...) e in quale cultura gli uomini non sono spinti, attraverso modalità culturalmente specifiche, a credere che la forza sia parte del sesso. (Trasferiamoci lì.) Ciò che il postmodernismo ci offre, invece, è una difesa multiculturale per la violenza maschile – una difesa valida ovunque essa si manifesti, che è in effetti una difesa piuttosto universale. Anche la pornografia offre un’eccellente difesa culturale per lo stupro nella maggior parte delle culture occidentali: maggiore è il consumo di pornografia, maggiori sono le difficoltà che gli uomini incontrano nel capire che stanno usando la forza quando costringono le donne a fare sesso – così essi crederanno, culturalmente, che le donne acconsentano a fare sesso senza badare a quanta forza viene utilizzata31. Perché saltiamo fuori con una difesa multiculturale per ogni cultura nella quale agli uomini è specificatamente e particolarmente permesso di credere che lo stupro sia sesso, invece di guardare all’assunzione secondo cui lo stupro avviene nella mente di un uomo, piuttosto che sul corpo di una donna in tutte queste culture? Niente di tutto questo sarebbe possibile se si riconoscesse che tutte le donne dissenzienti di ogni cultura – le donne che dicono, sono stata stuprata – conoscono la realtà di ciò che è stato fatto loro. B. Metodo Così come è praticato, il postmodernismo si presenta come uno stile – petulante, che cavalca gli entusiasmi, più una posa che una posizione. Ma ha un metodo, il che rende la metafisica ben lontana dall’essere morta. Il suo approccio e la sua posizione, il suo atteggiamento verso il mondo e la sua visione di cosa è reale, è che è tutto mentale. Il postmodernismo immagina che la società si dia nella tua testa. In passato, in epoca moderna, questa posizione si chiamava idealismo. Nella sua continuità con questo metodo, per offrire un paio di esempi, il postmodernismo ha trasformato il pene nel «fallo», e si ritiene per lo più che questo sia molto significativo32. Le donne sono diventate «una continua pratica discorsiva»33 o, in modo onnipresente, «il corpo femminile»34, che è iscritto e significante, ma raramente, se non mai, violentato, percosso, o, in qualche altro modo, violato. Razzismo e omofobia sono «differenze» rimosse sotto mentite spoglie.

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Abuso è diventato «capacità d’agire» [agency] – o piuttosto le sfide all’abuso sessuale sono state rimpiazzate con invocazioni alla capacità d’agire, la violazione delle donne diventa la beffarda ferita di una «vittima» tra virgolette35. Invece di confrontarsi con ciò che è stato fatto a noi donne quando siamo violate, ci viene detto quanta libertà avessimo allora. (Per questo abbiamo bisogno del femminismo?) Nel lessico postmoderno, la capacità di agire sta per l’idea dei senza potere che esercitano potere; a volte significa libertà, a volte azione volontaria, a volte resistenza, a volte desiderio. Non ci viene detto quale di queste cose significhi di preciso o come una, o ognuna di queste cose, siano possibili date le circostanze. Sarebbe bene saperlo. Stranamente, ciò che manca in questo uso è un riferimento a ciò che l’agente è in termini legali: qualcuno che agisce per qualcun altro, il titolare, colui che manovra i fili. Il dominio, i postmodernisti sanno che esiste, ma non ci dicono né come, né dove, né perché. È qualcosa che nessuno fa o ha fatto loro ma, in qualche modo, porta con sé il «disequilibrio di genere»36. Ciò che eravamo soliti chiamare «ciò che le è successo» è diventato, nella sua forma più credibile, «narrativa». Ma il danno reale ha smesso di esistere. Così, interi capitoli di libri che riportano «pornografia» nei loro titoli possono essere scritti senza parlare neanche una volta di ciò che l’industria pornografica fa concretamente, di chi sono i pornografi, e di ciò che viene fatto a chi in quei materiali e con quei materiali37. Non c’è discussione in merito a come la pornografia sfrutti o produca abusi sessuali su vasta scala. Non c’è nemmeno un tentativo di estendere i primi lavori sulla pulsione scopica di Foucault, Lacan, Irigaray (che pure sono francesi) – un’analisi che è prontamente estendibile per descrivere l’aggressiva appropriazione e il traffico di donne nella pornografia38. Né ho visto i multiculturalisti là fuori opporsi alla diffusione della pornografia dalla Scandinavia, dalla Germania, dagli Stati Uniti sulla base dell’imperialismo culturale, e sta diffondendosi in tutto il mondo. Il punto del postmodernismo è allontanarsi il più possibile da qualunque cosa reale. Le femministe postmoderniste raramente prendono le mosse o fanno riferimento alle vite reali di donne reali; per lo più, prendono le mosse dal lavoro di uomini francesi, anche se in modo selettivo e spesso non particolarmente adeguato39. Foucault, per esempio, ha studiato alcune pratiche reali, anche se, per lo più, si è lasciato

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sfuggire il genere, che dal punto di vista del femminismo è una cosa piuttosto grande da lasciarsi sfuggire. Le femministe postmoderniste cercano continuamente di porre rimedio alla rimozione del genere da parte di Foucault, ma hanno totalmente abbandonato il suo effettivo impegno con la realtà – «Sono un empirista»40. Il postmodernismo femminista è molto, molto lontano dalle realtà della subordinazione delle donne. Tutte le donne dovrebbero essere così fortunate. C. Realtà A mio modo di vedere, è la relazione della teoria con la realtà che il femminismo ha modificato ed è, in parte, una regressione verso una relazione prefemminista della teoria con la realtà che il postmodernismo sta di nuovo imponendo. Questo non ha a che fare con la verità. La verità è una generalità, un’astrazione che ha una certa forma e qualità. Le realtà sociali sono qualcosa di ancora diverso. Il postmodernismo ha deciso che, dato che la verità è morta insieme a Dio, non ci sono fatti sociali. Il fatto che la realtà sia una costruzione sociale non significa che non sia là; significa che è là, nella società, dove viviamo. Secondo il postmodernismo, non ci sono fatti; ogni cosa è interpretazione, così, non ci possono essere bugie. Evidentemente, non si può sapere se la Shoah sia una bufala, se alle donne piaccia essere violentate, se le persone di colore siano intellettualmente inferiori rispetto ai bianchi per motivi genetici, se gli omosessuali siano molestatori di bambini. Per i postmodernisti queste cose, fondate sull’adorazione dei fatti, sono indeterminate, contingenti, in gioco, tutta questione di interpretazione. Allo stesso modo, se atti incestuosi succedano o meno, o se siano traumatici per i bambini, è avvolto nella nebbia di «dilemmi epistemologici», al di là della possibilità di pensiero o narrativa, al di là dell’intelligibilità, come «quest’evento che non è un evento» – come se i sopravvissuti non avessero spesso raccontato, in narrazioni intelligibili, che questi eventi sono di fatto accaduti e li hanno di fatto danneggiati41. Che la violazione spesso danneggi le capacità discorsive o la memoria non significa che uno non sia stato violato – al contrario. Ricordatevi quando Bill Clinton, interrogato in merito alla sua relazione sessuale con una giovane donna che svolgeva un tirocinio, ha detto che tutto dipende da che cosa significa «è»42. Il paese si è preso gioco del suo trucco epistemico come di un lampante e viscido sotterfugio per evadere la responsabilità: sii sincero. I postmodernisti sono stranamente ri-

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masti in silenzio. Ma non si possono commettere spergiuri se non ci sono fatti. Dove sono queste persone quando c’è bisogno di loro? Ciò che i postmodernisti vogliono, sono arrivata a pensare, a parte vivere nelle loro teste invece che nel mondo (quel vecchio trucco), è volteggiare metodologicamente fuori dal potere. Vogliono sconfiggere il dominio giocando il suo gioco, che è solitamente detto dominare. Vogliono avere la meglio in ogni discussione, prima che cominci. Tanto, se tutto è interpretazione, non ci si può mai sbagliare. Il femminismo ha imparato che si conosce ciò che è reale, non uscendo da ciò che ci determina (che comunque non si può fare), ma immergendoci in profondità al suo interno con molte altre persone che portano lo stesso giogo (o gli stessi gioghi). Abdicando a questo, che è la fonte di potere del femminismo, il postmodernismo ha inghiottito il punto di vista oggettivo, mentre proclamava di avere intrapreso una svolta metodologica. Poi, i postmodernisti sospirano e ammettono che potrebbero avere concesso troppo alla parzialità43, intendendo ammettere di conoscere solo in parte. Ancora una volta, qual era l’alternativa? La totalità? Cosa c’è di male nella parzialità – se non dalla prospettiva oggettiva, che pensa la parzialità significhi che non si possa avere ragione? Chi ha detto che non ci possa essere altro che il tutto o una parte? Il postmodernismo continua a diventare ciò che proclama di aver rimpiazzato44. Se il femminismo è modernista – il che è altamente problematico, perché è anche una critica al modernismo45 – e i postmodernisti vogliono essere post-femministi, devono prendere con sé il femminismo e andare oltre. Spesso, affermano di averlo fatto. Per essere postmoderni in questo senso, bisogna, mi sembra, fare proprio il sapere del modernismo e dei suoi critici in merito al sesso, alla razza, alla classe, prima che si possa andare oltre46. Invece di rimpiazzare questi saperi i postmodernisti di norma li negano in modi molto elaborati, li ignorano, si comportano come se non ci fossero. Questo è premoderno, come se il femminismo non fosse mai esistito. Rispetto alla questione della continuità, è anche il caso di chiedersi se il postmodernismo abbia da dire qualcosa che il modernismo non abbia già detto. La grande moderna, Gertude Stein, ha scritto nel 1946: «Non c’è nessuna risposta, non ci sarà nessuna risposta, non c’è mai stata alcuna risposta, questa è la risposta»47. In che modo il postmodernismo è «post» rispetto a questo? Ciò che intendo dire sulla questione della realtà nella teoria è

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questo: quando qualcosa accade alle donne, accade nella realtà sociale. La prospettiva dal punto di vista delle donne non significa che la realtà delle donne può essere vista soltanto da là e che è, dunque, inaccessibile a chiunque altro, o che non se ne possa parlare, o che non esista. Piuttosto, ciò che si può vedere dal punto di vista della subordinazione delle donne è stato là per tutto il tempo – per troppo tempo. Vorremmo che non esistesse, ma non può essere cancellato dall’esistenza. Chiunque può vederlo. Può essere scoperto. Può essere accertato. Può anche essere misurato, a volte. Può essere discusso. Prima di noi, è sfuggito, è stato trascurato, reso invisibile. In altre parole, il danno legato allo stato di esseri umani di seconda classe non pone una questione riguardante una realtà astratta. Nella vita sociale, c’è assai poco di rarefatto nella maggior parte degli stupri; non c’è nulla di complicato in un pugno che ti colpisce in faccia; non c’è niente di sfumato nel genocidio – sebbene, senza dubbio, si possano sollevare molte questioni sfumate su tutto questo. Queste realtà sociali, centrali per il femminismo, non sollevano questioni sulla realtà ultima o prima, non più. È la negazione della loro realtà sociale che è complicata e solleva difficili questioni filosofiche. Cercate di capire che la negazione della realtà di simili eventi è stata una posizione filosofica sulla realtà stessa. A meno che non sia efficacemente sfidato, e fino a che non lo sarà, solo a ciò che il potere vuole vedere come reale è garantito lo status di realtà. Realtà è uno status sociale. La realtà del potere non ha bisogno di affermarsi come reale per esistere, perché ha lo status di reale che il potere le conferisce; solo la realtà dei senza potere ha bisogno di affermarsi come reale. Il potere può anche stabilire l’irrealtà – come il carattere innocuo della pornografia o del fumo – come realtà. Questo non la rende innocua. Ma fino a che il potere non è efficacemente sfidato su queste bugie – e sono bugie – soltanto quelli danneggiati (e quelli che li danneggiano, i quali hanno ogni incentivo a occultare) sono in grado di sapere che lo sono. Così, c’è voluto tutto questo tempo, e un movimento che ha sfidato il potere maschile, per riuscire a capire che la realtà delle donne è anche una posizione filosofica: che la realtà delle donne, compresa la violazione negata delle donne, esiste e che, quindi, la realtà sociale esiste in modo separato dalla sua costituzione da parte del potere maschile o dalla sua convalida ad opera della conoscenza maschile. Questa analisi solleva in merito al postmodernismo questioni che

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non sono un semplice resoconto del mio attuale stato mentale: il postmodernismo può fermare lo stupro di bambini, quando ognuno ha la sua storia e si presume che ognuno eserciti sempre la propria capacità di agire? Il postmodernismo può identificare il fascismo, se il potere esiste solo in microcentri e mai in strutture gerarchiche sistematiche, fissate e determinate? Come è possibile opporsi a qualcosa che è sempre e solo per gioco? Come ci si può organizzare contro qualcosa che non è realmente là, ad eccezione di quando è pensato? Il postmodernismo può dimostrare le responsabilità di chi è colpevole di genocidio? Se il soggetto è morto, e abbiamo a che fare con atti senza agenti48, come dimostriamo le responsabilità dei colpevoli per i crimini che commettono? È possibile che la difesa culturale serba per lo sterminio di croati, musulmani bosniaci e albanesi kosovari sia dietro l’angolo? Se possiamo avere una difesa multiculturale per l’attuale genocidio, perché quello è il modo in cui i serbi lo vedono, perché non una difesa culturale tedesca per quello precedente? L’antisemitismo faceva parte della cultura tedesca. Infine, un’altra vecchia questione, se esisti solo per opposizione, se sei completo soltanto in opposizione al moderno49, il moderno ti ha determinato. Non hai bisogno di una spiegazione per mostrare che non stai semplicemente reiterando ciò che ti ha determinato? Dai postmodernisti non arriva ancora alcuna spiegazione. La corrosione postmodernista della realtà la rende così, non soltanto incoerente e inutile – la valida critica dei pragmatisti50 – ma anche regressiva, debilitante e collaborazionista. C’è realtà in molti dei concetti preferiti dai postmodernisti, sebbene ne parlino raramente. Prendete il loro «sé frammentato»51. Nel mondo materiale, con il quale si rifiutano di impegnarsi e che si rifiutano di incoraggiare, il sé frammentato è una personalità multipla. La molteplicità è creata attraverso torture estreme e, solitamente, sessuali, in tenera età52. I postmodernisti dovrebbero essere costretti a confrontarsi con il dolore umano legato alle idee che pensano essere tanto divertenti53. Prendete l’essere nomade. Le mie clienti bosniache sono rifugiate. Il soggetto nomade di Rosy Braidotti le aiuterà a sopravvivere un altro giorno?54 Essere un vero nomade può comprendere l’essere costretto a fuggire dal tuo stesso paese per sopravvivere, dopo che la tua famiglia è stata sterminata davanti a te. Il postmodernismo celebra l’interculturalità come un viaggio mentale liberatorio per la sua assenza di radici culturali e le sue multiple possibilità. L’esperienza concreta può essere qualcosa di ancora diverso.

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Ma, in fondo, Rosi ha detto che essere senza fissa dimora è divertente soltanto dopo essere diventata professore di ruolo55. Un ultimo esempio connette questi punti riguardanti il postmodernismo sulle donne, sul metodo, sul multiculturalismo e, quindi, sulla realtà sociale. Si concentra su una questione, ampia nella filosofia occidentale, riguardante se il mondo esista indipendentemente dalle nostre idee in proposito. Questo è stato un grande problema maschile. L’introduzione al volume collettaneo di saggi postmoderni Dominating Knowledge di Stephen Marglin l’affronta, affermando che il mondo materiale ha una realtà oggettiva, ma il mondo sociale no56. Il suo esempio è che, sebbene sappia che la terra è tonda (non dice come lo sa), le persone pensavano che fosse piatta; nella società umana, secondo lui, non c’è nessuna realtà, e quindi nessuna conoscenza, come quella57. L’idea è che, se si crede che l’equivalente sociale della terra è piatta – come, diciamo, che le donne sono inferiori agli uomini – questo è ciò che è. Nella società, non c’è alcuna realtà; c’è soltanto ciò che si pensa essere reale. Per mostrare questo, discute il soggetto di un «sacrificio umano» in una società che crede nella sua necessità: Immaginate che alla sacerdotessa venga chiesto di spiegare le conseguenze di non riuscire a sacrificare le vergini richieste, nella maniera richiesta. Potrebbe benissimo dire: «La società si disintegrerà. Le nostre donne e la nostra terra diverranno aride, perché i nostri uomini diverranno impotenti come amanti e inefficaci come coltivatori». E avrà ragione. Considerandosi impotenti a letto e inefficaci nei campi, gli uomini non saranno capaci di svolgere le proprie funzioni in nessuno dei due contesti. Il tasso di natalità diminuirà e il raccolto si guasterà. La società di fatto si disintegrerà, si sgretolerà [...]. Le credenze producono le condizioni che fanno in modo che tali credenze si avverino58.

Ciò che abbiamo qui è una razionalizzazione multiculturale, in termini sessuali ed economici, dell’assassinio di giovani ragazze. Abbiamo anche una situazione nella quale l’erezione degli uomini può dipendere dall’uccidere giovani fanciulle. L’impotenza maschile detiene lo stato di un fatto; le erezioni, immagino, esistono. Ciò che voglio dire riguardo a questo genere di cose è che nessuno chiede nulla alle ragazze. La descrizione di «come stanno le cose» è dalla posizione di un uomo che sta per uccidere una bambina. Certo, in

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questo esempio è messa in bocca a una donna. Le donne sono spesso al servizio del potere maschile e hanno, in effetti, potere sui bambini, ma i postmodernisti devono ritrarre le donne come vere detentrici del potere che gli uomini hanno in larga misura per confondere le persone in merito al potere. (Che essi vogliano evitare di essere chiamati sessisti durante questo processo, l’abbiamo capito.) Il mio punto è questo: ciò che accade alla vergine che viene sacrificata non dipende da ciò che lei pensa al riguardo. Lei può pensare che il raccolto crescerà, sia che lei sia ancora viva domani sia che venga uccisa oggi. Può perfino pensare che i suoi diritti umani siano violati. Non fa alcuna differenza rispetto al fatto che sarà uccisa oggi. Non importa che cosa lei pensi al riguardo, lei sarà – sarà – morta. Questo mi sembra molto semplice: la realtà delle persone che non hanno potere esiste indipendentemente da ciò che esse pensano. I costrutti sociali che controllano le loro vite, molto spesso, non sono i loro costrutti. Ciò che noi donne pensiamo non riesce a trasformare le cose nel modo in cui noi le pensiamo, perché non abbiamo il potere sociale di farle o di impedirle. Qualunque donna che non sappia questo, secondo me, non ha ancora sbattuto con violenza contro i muri che circondano lei e le altre donne o è stata, fino ad adesso, molto privilegiata e molto fortunata. Il motivo per cui agli uomini (specialmente gli uomini che si occupano di teoria) non sembra che il mondo esista indipendentemente dalle loro menti è che, in larga misura, essi hanno davvero il potere di fare qualunque cosa venga loro in mente. Se vogliono, nella loro mente, ucciderla, possono farlo nella realtà. Se vogliono che ciò procuri loro un’erezione, questo è ciò che accadrà. Così, naturalmente, non sanno cosa venga prima, se ciò o loro. Ciò che questo significa è che le donne sono quelle che sanno qualcosa della realtà sociale in quanto tale, ovvero la misura della sua indipendenza rispetto alla mente. Se la realtà sociale è indipendente dalle nostre menti, è indipendente dalla mente e, banalmente, gli uomini pensano che non lo sia a causa della loro posizione sociale. Noi donne siamo in una posizione che ci consente di sapere questo nella misura in cui la realtà non ci risponde. Ciò che sappiamo è che il potere di rendere reale la realtà è un prodotto del potere sociale di agire, non solo di immaginare. Noi sappiamo che la realtà ha a che fare con il potere, perché noi immaginiamo cambiamenti tutto il giorno e niente è mai minimamente diverso. Questa è una

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critica; non indica qualcosa di inevitabile. Possiamo intervenire collettivamente nella vita sociale, ma non possiamo farlo, se neghiamo che sia là, o se ignoriamo cosa faccia in modo che sia là. Possiamo anche immaginare, abbastanza a lungo per organizzarci e fermare questi uomini, cosa potrebbe accadere se alcune di quelle ragazze si fossero salvate e il raccolto avesse continuato a crescere. Stephen Marglin non sta chiedendo a questa ragazza se la società si sgretolerà se lei vivrà. Noi sì. Noi siamo, se volete, un improbabile movimento di scampate e di sopravvissute a un simile sacrificio. Sì, la società è in gran parte fatta dalla consapevolezza che le persone hanno delle relazioni sociali. Questo non vuol dire che la consapevolezza di ognuno costituisca equamente la realtà sociale. Fino a che la realtà sociale sarà un prodotto dell’ineguaglianza, e il postmodernismo si rifiuterà di combattere sul piano metodologico l’ineguaglianza sociale, il postmodernismo continuerà ad adottare la posizione metodologica del potere maschile e la politica del movimento delle donne degli anni settanta sarà morta, in teoria. Nel frattempo, le donne nel mondo continueranno a lottare per cambiare le ineguali realtà sociali delle vite delle donne, come se il postmodernismo non esistesse. III Se vuole contribuire al futuro del femminismo, il postmodernismo deve, penso, rispondere ad alcune domande. In che termini rende conto di sé? È molto conveniente ripudiare il rendere conto di sé, quando non si hanno resoconti da offrire, o per lo meno quando non se ne hanno di presentabili. Quali sono i suoi fondamenti? Ora, questa è una domanda aggressiva. Pensare che i fondamenti contino, lo ripudiano come «fondazionalismo». Ma quali sono le precondizioni sessuali e materiali di questa teoria? David Harvey rintraccia le forze economiche e culturali del capitalismo della fine del ventesimo secolo che, nella sua analisi, hanno prodotto, si legga determinato, il postmodernismo59. Questo cosa suggerisce rispetto alla loro capacità di promuovere il cambiamento? Qual è il progetto del postmodernismo? Quanto lineare, quanto teleologico, quanto serio. Verso chi e cosa è responsabile? Direi che è responsabile verso la gerarchia accademica. Chi altro può capire questa teoria? Il postmodernismo espropria le sue pretese metodologiche e i

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suoi gesti dal femminismo, ma non li pratica. La sua posizione sulla realtà è più vicina al premoderno, certamente al prefemminsta, è un salto indietro a prima del femminismo. Così, è avanti verso il passato: verso ancora un altro insieme di astrazioni, che non risponde alla realtà delle persone subordinate e che risponde implicitamente ma totalmente al potere, con ragioni consuete anche se più fantasiose per non fare nulla – che suonano radicali, ma hanno le stesse origini, un’élite dislocata, e le stesse conseguenze, una teoria disimpegnata, che corrode la resistenza materiale al potere. L’analisi da parte del postmodernismo della costruzione sociale della realtà è rubata al femminismo e sventrata fino a privarla di qualunque contenuto sostanziale – producendo un marxismo senza classe lavoratrice, un femminismo senza donne. È una critica astratta di soggetti astratti. La stanza degli specchi (questo è plurale) che gran parte del postmodernismo sostituisce a ogni tentativo di cogliere un mondo sociale reale è il collasso definitivo nei regressi relativisti del liberalismo. Come hanno pacatamente posto la questione Alan Sokal e Jean Bricmont, «il relativismo è una base estremamente debole su cui fondare una critica dell’ordine sociale stabilito»60. Una volta svelati i vari furti e i vari tradimenti del postmodernismo, ciò che resta è una posa, un vuoto gesto di teatrale anarchismo (al quale si applica la critica di Marx), una negazione hegeliana dello status quo (determinata dallo status quo stesso), il figlio terribile del liberalismo (in confronto molti liberali sembrano ricolmi di fondamenti e molto impegnati), una preziosa politica dell’abdicazione, del compiacimento e della passività. So questo per certo: non possiamo avere questo postmodernismo e avere ancora una pratica significativa dei diritti umani delle donne, e ancor meno un movimento delle donne. Ironicamente, e quanto ama l’ironia il postmodernismo, proprio quando noi donne abbiamo iniziato a diventare umane, e abbiamo persino iniziato a trasformare l’umano in qualcosa che vale ancora più la pena di essere, e che si potrebbe applicare a noi, ci viene detto dalla teoria alta che l’umano è intrinsecamente autoritario, che non vale la pena, che è inalterabile, e che può anche non esistere – e come le donne del diciannovesimo secolo l’abbiano inutilmente desiderato61. (Forse è un dettaglio che a poche delle femministe postmoderniste sarebbe stato consentito di imparare a leggere e scrivere, se non fosse stato per la teoria dell’umanità che criticano.) Il motivo per cui il postmodernismo indebolisce la pratica dei

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diritti umani non è perché corrode l’universalità. I diritti umani, nel mondo reale, si stanno dimostrando molto meno appesantiti dal loro bagaglio illuministico di quanto non lo siano gli intellettuali che custodiscono la loro teoria. Il motivo è che la realtà della violazione è l’unico terreno sul quale le violate possano ergersi per fermarla. Il potere e i suoi pretendenti pensano di poter fare a meno dei fondamenti, perché non corrono il pericolo di perdere i loro fondamenti o il potere che li accompagna. Il postmodernismo invalida i diritti umani in quanto si erge sulla propria mancanza di relazioni con le realtà dei subordinati, perché è soltanto nella realtà sociale che le violazioni umane hanno luogo, possono essere conosciute e possono essere fermate. A sua volta, questa analisi solleva una domanda alla quale, prima, il femminismo non era tenuto a rispondere così criticamente come facciamo ora, perché prima non abbiamo mai avuto un corso di teoria: qual è il posto dell’accademia nel movimento? Il postmodernismo, essendone del tutto privo, sta risucchiando molta dell’energia teorica del femminismo in questo mondo nel quale tutti andiamo a dormire e ci svegliamo. Il postmodernismo è una teoria accademica, che ha origine nell’accademia ad opera di un’élite accademica, non nel mondo delle donne e degli uomini nel quale il femminismo è radicato. Nei primi anni Settanta, io (tra le altre) avevo immaginato che le teoriche del femminismo avrebbero riteorizzato la vita in concreto, piuttosto che passare i tre decenni successivi immerse nella metateoria, parlando di teoria, rimuginando continuamente in questo modo disconnesso su come la teoria dovrebbe essere svolta, lasciando le vite delle donne a torcersi nel vento. Certo, teorizzare su poco, eccetto che su altre teorie di teorie, offre poca esperienza rispetto a come farlo. La mia impressione è che, se i postmodernisti si assumessero la responsabilità di cambiare anche solo una cosa reale, imparerebbero più sulla teoria di tutte le cose che hanno scritto finora messe insieme. Invece, così com’è praticato dai postmodernisti, il lavoro della teoria, lo sport vitale dell’avanguardia accademica, è osservare, passare oltre e giocare con queste grandi domande, al di fuori di ogni contatto e responsabilità verso le vite degli ineguali. Ai loro studenti di mentalità critica viene insegnato che niente è reale, che il disimpegno è essere brillanti (per non parlare dei suoi vantaggi per fare carriera), che la politica è pantomima e ventriloquio, che la realtà è un testo (leggere è più sicuro che agire), che male interpretare crea­

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tivamente è resistenza (ci si sente così radicali e confortevolmente marginali), che niente può essere cambiato (ci si può solo divertire). Con il potere che rimane in piedi, il femminismo di questa teoria non può essere sperimentato da nessuna donna vivente. È tempo di chiedere a queste persone: cosa state facendo?

Note

Introduzione 1 Cfr. Drucilla Cornell, Beyond Accomodation: Ethical Feminism, Deconstruction and the Law, New York 1991, pp. 128-129. 2 Laura L. Downs, If «Woman» is Just an Empty Category, Then Why Am I Afraid to Walk Alone at Night?, in «Comparative Studies in Society and History», XXXV (1993) 2, pp. 414-437. 3 Come quella se il feto sia o no una forma di vita: «credo che la scelta di abortire debba essere legalmente disponibile e debba essere attribuita alle donne ma non perché il feto non sia una forma di vita. [...] Perché le donne non dovrebbero poter prendere decisioni sulla vita e sulla morte?» (si veda infra, Privacy vs eguaglianza, p. 65). 4 Art. II della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, 9 dicembre 1948, 78, U.N.T.S. 277. Cito dal testo in italiano, reperibile sul sito http://www.conflittidimenticati.it/cd/docs/1220.pdf. 5 Cfr. Catharine A. Mackinnon, Rage, Genocide and Women’s Human Rights, in «Harvard Women’s Law Journal», XVII (1994), p. 5. 6 Da tempo si ha coscienza che nel diritto internazionale uno dei principali ostacoli alla realizzazione dei diritti umani delle donne è la pervasività e la forza della demarcazione tra sfera pubblica e sfera privata: cfr. Donna Sullivan, The Public/ Private Distinction in International Human Rights Law, in J. Peters e A. Wolper (a cura di), Women Rights. Human Rights, International Feminist Perspective, New York 1995.

Capitolo 1 1 The Universal Declaration of Human Rights, G.A. Res. 217, U.N. GAOR, 3rd Sess., at 72-76, U.N. Doc. A/810 (1948). Tutte le citazioni dalla Dichiarazione sono tratte da questo documento. 2 Per i dati a sostegno delle affermazioni circa la violenza contro le donne riportate in quest’analisi, si veda Radhika Coomaraswamy, Report Submitted by the Special Rapporteur on Violence Against Women, Its Causes and Consequences, Commission on Human Rights, 50th Sess., Agenda Item 11(a), U.N. Doc. E/ CN.4/1995/42 (1995); Ead., Report of the Special Rapporteur on Violence Against

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Note

Women, Its Causes and Consequences, U.N. ESCOR Hum. Rts. Comm’n, 52d Sess., Prov. Agenda Item 9(a), U.N. Doc. E/CN.4/1996/53 (1996); Ead., Report, U.N. ESCOR Hum. Rts. Comm’n, 53d Sess., Prov. Agenda Item 9(a), U.N. Doc. E/ CN.4/1997/47 (1997). 3 Si veda «Traffic in Women and Girls», Sub-Commission on Human Rights Resolution, 2002/51 E/CN.4/RES/2002/51 (23 aprile 2002). Il dipartimento di Stato americano stima che, ogni anno, circa 800.000 persone, molte delle quali sono donne e bambini, sono oggetto di tratta internazionale. Trafficking in Persons Report, Washington 2003, p. 7. 4 La maggior parte degli analfabeti nel mondo sono donne. Si veda UNESCO, Statistical Yearbook 1997 2-6 tav. 2-2, il quale stima che, a livello mondiale, il 28,8 per cento delle donne e il 16,3 per cento degli uomini sono analfabeti. 5 Si veda Interparliamentary Union, Women in Parliaments, 1945-1995: A World Statistical Study, Geneva 1995. 6 Si veda il saggio L’11 settembre delle donne. Ripensare il diritto internazionale del conflitto (cap. 8 nel presente volume) per una riflessione su questo concetto. 7 Richard Rorty, Femminismo e pragmatismo [ed. or. 1991], in Id., Verità e progresso. Scritti filosofici, Milano 2003, p. 193: «Nella mia lettura, la sua [di MacKinnon] tesi centrale è che ‘donna’ non è ancora il nome di un modo di umanità».

Capitolo 2 1 Catharine A. MacKinnon, Feminism, Marxism, Method and the State: An Agenda for Theory, in «Signs: Journal of Women in Culture and Society», VII (1982) 3, pp. 515-544. 2 Ead., Feminism, Marxism, Method and the State: Toward Feminist Jurisprudence, in «Signs: Journal of Women in Culture and Society», VIII (1983) 4, pp. 635-658. 3 Diana E.H. Russel e Nancy Howell, The Prevalence of Rape in the United States Revisited, in «Signs: Journal of Women in Culture and Society», VIII (1983) 4, pp. 688-695; Federal Bureau of Investigation, Uniform Crime Reports 1965, 1974, 1976; Federal Bureau of Investigation, Uniform Crime Reports 1980, pp. 6, 14, 15 (1981); M. Hindelang e B. Davis, Forcible Rape: A Statistical Profile, in Duncan Chapell, Robley Geis e Gilbert Geis (a cura di), Forcible Rape: The Crime, the Victim, and the Offender, New York 1977, pp. 91-110; Diana E.H. Russell, Rape in Marriage, Bloomington 1982. 4 Per i dati relativi all’incesto si veda Diana E.H. Russell, The Secret Trauma: Incest in the Lives of Women and Girls, New York 1986, pp. 217-270; David Finkelhor, Sexually Victimized Children, New York 1979, pp. 83-92; Judith Herman e Lisa Hirschman, Father-Daughter Incest, in «Signs: Journal of Women in Culture and Society», 2 (1977), pp. 735-756. Per le percosse: R. Emerson Dobash e Russel Dobash, Violence against Wives. A case against patriarchy, New York 1979, pp. 14-20; Roger Langley e Richard Levy, Wife Beating. The silent crisis, New York 1977; Harold R. Lentzner e Marshall M. De Berry, Bureau of Justice Statistics, U.S. Department of Justice, Intimate Victims: A Study of Violence among Friends and Relatives, Washington 1980; Evan Stark, Anne Flitcraft e William Frazier, Medicine and Patriarchal Violence: The Social Construction of a Private Event, in «International Journal of Health Services», 9 (1979), pp. 461-493; Leonore Walker, The

Note al capitolo 3

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Battered Woman, New York 1979, pp. 19-20. Per gli omicidi: James Boudouris, Homicide and the Family, in «Journal of Marriage and the Family», 33 (1971), pp. 667 e 671; Evelyn Gibson e S. Klein, Murder 1957 to 1968: A Home Office Statistical Division Report on Murder in England and Wales, London 1969; Hans Von Hentig, The Criminal and His Victim, New York 1948, p. 392; Arthur MacDonald, Death Penalty and Homicide, in «American Journal of Sociology», 16 (1910) 1, pp. 88116; Donald J. Mulvihill, Melvin M. Tumin e Lynn A. Curtis, Crimes of Violence, Washington 1969; i dati della Commissione nazionale sulle cause e la prevenzione della violenza sono discussi in Lee H. Bowker, The Criminal Victimization of Women, in «Victimology: An International Journal», 4 (1979) 4, pp. 371-384; Marvin E. Wolfgang, Patterns in Criminal Homicide, Oxford 1958, pp. 32, 50-67, 204, 213-214, 217; Margaret A. Zahn, The Female Homicide Victim, in «Criminology» 13 (1975) 3, pp. 400-415. Per quanto riguarda la pornografia si vedano Galloway e Thornton, Crackdown on Pornography. A No-Win Battle, in «U.S. News and World Report», 4 giugno 1984, p. 84; M. Langelaan, The Political Economy of Pornography, in «Aegis: Magazine on Ending Violence Against Women», 5 (1981), pp. 5-17; Andrea Dworkin, Pornography: Men Possessing Women, New York 1981. 5 Nancy Chodorow, La funzione materna. Psicoanalisi e sociologia del ruolo materno, Milano 1991 [ed. or. 1978]; Dorothy Dinnerstein, The Mermaid and the Minotaur. Sexual Arrangements and Human Malaise, New York 1977.

Capitolo 3 1 La Bona Fide Occupational Qualification (BFOQ) costituisce un’eccezione al titolo VII del Civil Rights Act del 1964, 42 U.S.C. § 2000 e-(2)(e) perché consente che il sesso, qualora sia rilevante rispetto alla possibilità di svolgere un lavoro, diventi un qualifica professionale. L’interpretazione più diffusa della proposta dell’Equal Rights Amendment alla Costituzione federale ammetterebbe, perseguendo una simile struttura analitica, l’eccezione di «un’unica caratteristica fisica» al proprio embargo, altrimenti assoluto, sulla possibilità di prendere in considerazione il sesso. Barbara Brown, Thomas I. Emerson, Gail Falk e Ann E. Freedman, The Equal Rights Amendment: A Constitutional Basis for Equal Rights for Women, in «Yale Law Journal», 80 (1971), pp. 872-985, spec. p. 893. 2 Titolo VII del Civil Rights Act del 1964, 42 U.S.C. § 2000 e; Phillips v. MartinMarietta, 400 U.S. 542 (1971). Frontiero v. Richardson, 411 U.S. 484 (1974) rappresenta il segnale di piena di questo approccio. Si veda anche City of Los Angeles v. Manhart, 435 U.S. 702 (1978); Newport News Shipbuilding and Dry Dock Co. v. EEOC, 462 U.S. 669 (1983). 3 Titolo IX degli Education Amendments del 1972, 20 U.S.C. § 1681; Cannon v. University of Chicago, 441 U.S. 677 (1981); Mississippi University for Women v. Hogan, 458 U.S. 718 (1982); si veda anche De La Cruz v. Tormey, 582 F.2d 45 (9th Cir. 1978). 4 La mia impressione è che le donne perdano la maggior parte dei casi accademici di discriminazione sessuale che arrivano a processo, anche se non conosco alcuno studio sistematico o statistico in materia. Un caso che alla fine fu vinto e che ha elevato il criterio di prova nel processo è Sweeney v. Board of Trustees of Keene State College, 439 U.S. 29 (1979). La decisione a favore del ricorrente fu presa a

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seguito del riesame della sentenza dopo il rinvio da parte della Corte superiore, 604 F.2d 106 (1st Cir. 1979). 5 Hishon v. King & Spalding, 467 U.S. 69 (1984). 6 Si veda, per esempio, Vanguard Justice v. Hughes, 471 F. Supp. 670 (D. Md. 1979); Meyer v. Missouri State Highway Commission, 567 F.2d 804, 891 (8th Cir. 1977); Payne v. Travenol Laboratories Inc., 416 F. Supp. 248 (N.D. Mass. 1976). Si veda anche Dothard v. Rawlinson, 433 U.S. 321 (1977) (i requisiti dell’altezza e del peso per poter esercitare la professione di guardia carceraria a contatto con i prigionieri sono stati annullati a causa dell’impatto che possono avere sul sesso). 7 Frontiero v. Richardson, 411 U.S. 484 (1974); Schlesinger v. Ballard, 419 U.S. 498 (1975). 8 Questa situazione è piuttosto complessa. Si veda Gomes v. R.I. Interscholastic League, 469 F. Supp. 659 (D. R.I. 1979); Brendern v. Independent School District, 477 F.2d 1292 (8th Cir. 1973); O’Connor v. Board of Education of School District No. 23, 645 F.2d 578 (7th Cir. 1981); Cape v. Tennessee Secondary School Athletic Association, 424 F. Supp. 732 (E.D. Tenn. 1976), riesaminato, 563 F.2d 793 (6th Cir. 1977); Yellow Springs Exempted Village School District Board of Education v. Ohio High School Athletic Association, 443 F. Supp. 753 (S.D. Ohio 1978); Aiken v. Lieuallen, 593 P.2d 1243 (Or. App. 1979). 9 Rostker v. Goldberg, 453 U.S. 57 (1981). Si veda anche Lori S. Kornblum, Women Warriors on a Men’s World: The Combat Exclusion, in «Law and Inequality: A Journal of Theory and Practice», 2 (1984), pp. 351-445. 10 David Cole, Strategies of Difference: Litigating for Women’s Rights in a Man’s World, ivi, pp. 33-96, spec. p. 34 n. 4 (con una raccolta di casi). 11 Devine v. Devine, 398 So. 2d 686 (Ala. Sup. Ct. 1981); Danielson v. Board of Higher Education, 358 F. Supp. 22 (S.D.N.Y. 1972); Weinberger v. Wiesenfeld, 420 U.S. 636 (1975); Stanley v. Illinois, 405 U.S. 645 (1971); Caban v. Mohammed, 441 U.S. 380 (1979); Orr v. Orr, 440 U.S. 268 (1979). 12 Lenore Weitzman, The Economics of Divorce: Social and Economic Consequences of Property, Alimony and Child Support Awards, in «UCLA Law Review», 28 (1980-1981), pp. 1118-1251, documenta un abbassamento del 73 per cento della qualità della vita delle donne e un miglioramento del 42 per cento di quella degli uomini entro un anno dal divorzio. 13 L’Equal Pay Act, 29 U.S.C. § 206 (d)(1) (1976), al pari della casistica giudiziaria, garantisce la parità retributiva, ma dai dati sulle differenze di retribuzione forniti dallo U.S. Department of Labor Women’s Bureau si ricava che il reddito medio delle donne comprese fra i venticinque e i cinquantaquattro anni, tra il 1975 e il 1983, è stato di 8.155 dollari, rispetto ai 14.105 dollari degli uomini; nel 1983, le donne hanno guadagnato 15.349,66 dollari, di contro ai 24.458,33 degli uomini. U.S. Department of Labor Women’s Bureau, Time of Change: 1983 Handbook of Women Workers, Buletin 298, 456 (1983). Nella medesima pubblicazione si rileva che «nel 1981, i professionisti maschi hanno guadagnato il 54 per cento in più delle professioniste donne»: ivi, p. 92. Nel 1981, il guadagno complessivo degli uomini era superiore a quello delle donne del 68,8 per cento: ivi, p. 93. L’Equal Pay Act era entrato in vigore nel 1963. 14 Tra gli esempi: Christenson v. State of Iowa, 563 F.2d 353 (8th Cir. 1977); Gerlach v. Michigan Bell Tel. Co., 501 F. Supp. 1300 (E.D. Mich. 1980); Odomes v. Nucare, Inc., 653 F.2d 246 (6th Cir. 1981) (a un’inserviente ospedaliera donna fu negato il risarcimento previsto dal Titolo VII perché i suoi incarichi non erano nella

Note al capitolo 3

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sostanza simili a quelli degli inservienti maschi meglio pagati di lei): Power v. Barry County, Michigan, 539 F. Supp. 721 (W.D. Mich. 1982); Spaulding v. University of Washington, 740 F. 2d 686 (9th Cir. 1984). 15 County of Washington v. Gunther, 452 U.S. 161 (1981) consente un’opposizione al modello della parità retributiva nel caso in cui si dimostri che l’ineguale retribuzione è legata a un’intenzionale segregazione professionale. Si veda anche Lemons v. City and County of Denver, 17 FEP Cases 910 (D. Colo. 1978), aff’d, 620 F.2d 228 (10th Cir. 1977), ricorso respinto, 449 U.S. 888 (1980); AFSCME v. State of Washington, 770 F.2d 1401 (9th Cir. 1985). Cfr. anche Carol Jean Pint, Value, Work and Women, in «Law and Inequality: A Journal of Theory and Practice», 1 (1983), pp. 159 sgg. 16 Si combinino gli esiti di Bob Jones University v. United States, 461 U.S. 547 (1983) con quelli di Mississippi University for Women v. Hogan, 458 U.S. 718 (1982) e l’esenzione dal pagamento delle tasse riservata alle scuole femminili risulterà seriamente minacciata. 17 Un esempio emblematico proviene da un caso in cui la ricorrente aveva cercato di partecipare a incontri di boxe contro pugili maschi, dal momento che il convenuto non sponsorizzava incontri femminili. Una delle principali ragioni per cui si ritenne che il fatto di impedire a una donna di partecipare agli incontri non viola i suoi diritti di eguaglianza fu che «i regolamenti di sicurezza e le precauzioni vengono sviluppati, elaborati e testati in un contesto che prevede la competizione di soli uomini». Lafler v. Athletic Board of Control, 536 F. Supp. 104, 107 (W.D. Mich. 1982). Come affermò la corte: «in questo caso, le differenze anatomiche reali tra maschi e femmine sono rilevanti quando si riflette sull’opportunità di trattare gli uomini e le donne in modo diverso rispetto alla possibilità di partecipare a incontri di boxe. La ricorrente ammette di indossare una protezione per il seno quando combatte. Tale tipo di protezione [...] viola la regola 6 dell’art. 9 del regolamento della Amateur Boxing Federation attualmente in vigore. In base alla medesima regola, palesemente concepita sulla base delle caratteristiche anatomiche tipicamente maschili, i pugili devono indossare la conchiglia»: ivi, p. 106 (corsivo mio). La regola si basa sull’anatomia maschile e dunque non funge da giustificazione, bensì da esempio della discriminazione. Ciò non viene considerato nella sentenza, né il giudice considera la possibilità che le donne possano trarre beneficio da una protezione dei genitali e gli uomini da una protezione del torace, come avviene in altri sport. 18 Mi riferisco alle istanze sollevate in svariati casi recenti in cui si è discusso se i tentativi statali di retribuire le donne in maternità e di assicurare loro il posto di lavoro quando rientrano costituiscono discriminazione sessuale. California Federal Savings and Loan Assn. V. Guerra, 758 F.2d 390 (9th Cir. 1985), ricorso accolto 54 U.S.L.W. 3460 (U.S. 13 gennaio 1986); si veda anche Miller-Wohl v. Commissioner of Labor, 515 F. Supp. 1264 (D. Montana 1981), annullato e respinto, 685 F.2d 1088 (9th Cir. 1982). L’argomento che sostengo nel presente saggio è che se questi benefici vengono proibiti in base al Titolo VII, allora il Titolo VII è incostituzionale perché in violazione dell’eguale protezione delle leggi. Questo argomento non è stato formulato esplicitamente in nessuno dei casi. L’American Civil Liberties Union ha sostenuto che le clausole in base a cui, nelle professioni, la maternità deve essere retribuita, senza che vi sia una copertura simile per gli uomini, violano il divieto, enunciato dal Titolo VII, di classificare sulla base della gravidanza e del sesso. Nel Montana è diventato illegale, per un datore di

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lavoro, «licenziare una donna perché incinta» o «rifiutarsi di garantire all’impiegata il congedo di maternità». Montana Maternity Leave Act § 49-2-310 (1) e (2). Secondo l’ACLU, questo provvedimento «garantisce alle lavoratrici incinte alcuni diritti di lavoro di cui altri lavoratori non godono [...]. La legislazione elaborata per beneficiare le donne ha [...] conservato e diffuso degli stereotipi dannosi riguardo al ruolo proprio delle donne e ha contribuito a negare loro dei diritti e dei benefici di cui godono gli uomini. Il provvedimento del Montana disincentiva i datori di lavoro dall’assumere donne che sono o che potrebbero rimanere incinte, provoca risentimento e ostilità nel luogo di lavoro e penalizza gli uomini». Memoria dell’American Civil Liberties Union et al., amicus curiae, Montana Supreme Court No. 84-172, p. 7. La National Organization for Women ha sostenuto che il provvedimento con cui in California si impone ai datori di lavoro di dare alle impiegate incinte un congedo per malattia non retribuito e di conservare il loro posto di lavoro per un periodo di quattro mesi, violerebbe il Titolo VII qualora esso venisse interpretato in tal senso. Memoria della National Organization for Women et al., United States Court of Appeals for the Ninth Circuit, 685 F.2d 1088 (9th Cir. 1982). Quando il Congresso ha approvato il Pregnancy Discrimination Act, emendando così il Titolo VII, 42 U.S.C. § 2000 e(k), ha definito l’espressione «a causa del sesso» e l’espressione «sulla base del sesso» in modo tale che acquisissero anche il significato seguente: «a causa o sulla base della gravidanza, del parto o delle condizioni mediche relative; e le donne incinte, partorienti o in condizioni mediche relative devono ricevere un eguale trattamento in ogni aspetto professionale». Nel fare ciò il Congresso ha discutibilmente stabilito che una donna non deve essere identica a un uomo per meritare un trattamento non discriminatorio, nella misura in cui ha proibito la discriminazione sulla base di una condizione che vale per le donne e non per gli uomini. Nella legge si usa addirittura la parola «donne». Inoltre, il Congresso ha preso questa decisione con l’esplicito intento di annullare la sentenza della Corte Suprema nel caso General Electric v. Gilbert, 429 U.S. 125 (1976), in cui si era stabilito che la mancata copertura della gravidanza con un congedo per malattia non rappresenta discriminazione sessuale perché la differenza tra incinta e non incinta non coincide con la differenza tra donne e uomini. Nel rifiutare questa logica, come la Corte ritenne sia chiaramente avvenuto nel caso Newport News Shipbuilding and Dry Dock Co. v. EEOC, 462 U.S. 669, 678 (1983), il Congresso ha rifiutato l’implicita valutazione, operata con un criterio maschile, del diritto che le donne hanno all’eguaglianza. Né è necessario che tutte le donne siano eguali, ovvero incinte o potenzialmente incinte, perché la discriminazione operata sulla base della gravidanza sia discriminazione sessuale. Nell’appoggiare la legge californiana sul congedo per maternità e sulla garanzia del posto di lavoro, la sentenza del Ninth Circuit non richiedeva l’identità come condizione dell’eguaglianza: «il PDA non richiede che gli Stati ignorino la gravidanza. Richiede che le donne ricevano un eguale trattamento [...]. In base al PDA l’eguaglianza delle opportunità di impiego non deve essere misurata necessariamente in termini di spesa economica – o della quantità dei giorni di congedo concessi. L’eguaglianza giudica la copertura sulla base delle necessità reali, non di bisogni ipoteticamente identici». California Federal v. Guerra, 758 F.2d 390 (9th Cir. 1985). Il giudice Ferguson: «Questa non è la prima corte che afferma che l’obiettivo del Titolo VII è l’eguaglianza delle opportunità di impiego, non necessariamente l’identità di trattamento»: ivi, p. 396 n. 7. 19 La maggior parte delle donne svolge mestieri che per lo più svolgono le donne

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e la maggior parte di questi mestieri è meno retribuita rispetto ai mestieri svolti prevalentemente da uomini. Si veda ad esempio Pint, Value, Work and Women cit., pp. 162-163 nn. 19 e 20, per una raccolta dei casi. Riguardo al fatto che gli stessi uomini potrebbero non soddisfare il criterio maschile, una corte ritenne che un’associazione non rappresentasse equamente le donne presenti al suo interno: «i convenuti suggeriscono che per lavorare in cantiere o come tassisti non solo siano necessari dei requisiti intellettuali straordinari, ma che anche i requisiti fisici siano talmente impegnativi da andare al di là della capacità di qualsiasi donna. Di nuovo, si notò che la capacità del ricorrente di svolgere quei lavori non fu mai messa alla prova, nonostante le numerose richieste in questo senso. Si notò anche che i convenuti non avevano mai specificato quale delle innumerevoli qualifiche che (per la prima volta) avevano indicato come necessarie per svolgere i mestieri in questione poteva non essere soddisfatta dal ricorrente. Comunque la corte accetterà, senza elencarle, le straordinarie capacità che i convenuti sostengono siano necessarie per lavorare in cantiere e come tassisti. Potrebbero pure essere necessarie davvero. In ogni caso, da questa documentazione ci si rende conto di non poter essere troppo deboli, troppo malati, troppo vecchi e infermi o troppo ignoranti se si vogliono svolgere questi mestieri, nella misura in cui si è uomini. I ricorrenti, agli occhi di un profano, sembrano essere fisicamente molto più in forma dei tassisti che, nel tempo, si sono trasferiti nel cantiere, secondo le testimonianze della difesa [...]. In breve, la loro forma fisica era almeno paragonabile a quella degli uomini con gravi difetti fisici e disabilità che lavoravano nel cantiere». Jones v. Cassens Transport, 617 F. Supp. 869, 892 (1985) (enfasi nell’originale). 20 Phillips v. Martin-Marietta, 400 U.S. 542 (1971). 21 Nel caso Reed v. Reed, 404 U.S. 71 (1971) si è sostenuto che una legge che proibisce alle donne di amministrare delle proprietà è discriminazione sessuale. Se poche donne venissero istruite e sapessero leggere e scrivere, come succedeva una volta, la differenza di genere non sarebbe immaginaria e tuttavia la situazione sociale sarebbe ancora più sessualmente discriminatoria di quanto non lo sia ora. Si veda City of Los Angeles v. Manhart, 434 U.S. 815 (1978), in cui si sostenne che richiedere alle donne dei contributi più alti per il loro piano pensionistico era discriminazione sessuale, nonostante la differenza sessuale presumibilmente dimostrata per cui le donne hanno una vita media più lunga degli uomini. 22 Kahn v. Shevin, 416 U.S. 351, 353 (1974). 23 Schlesinger v. Ballard, 419 U.S. 498 (1975). 24 Dothard v. Rawlinson, 433 U.S. 321 (1977); si veda anche Michael M. v. Sonoma County Superior Court, 450 U.S. 464 (1981). 25 Doerr v. B.F. Goodrich, 484 F. Supp, 320 (N.D. Ohio 1979). Wendy Webster Williams, Firing the Woman to Protect the Fetus: The Reconciliation of Fetal Protection with Employment Opportunity Goals Under Title VII, in «Georgetown Law Journal», 69 (1981), pp. 641 sgg. Si veda anche Hayes v. Shelby Memorial Hospital, 546 F. Supp. 259 (N.D. Ala. 1982); Wright v. Olin Corp., 697 F.2d 1172 (4th Cir. 1982). 26 Il Congresso ordina che i corpi dell’Aviazione (10 U.S.C. § 8549 [1983]) e della Marina (10 U.S.C. § 6015 [1983]) escludano le donne dal combattimento, con alcune eccezioni. Con il caso Owens v. Brown, 455 F. Supp. 291 (D.D.C. 1978) era stata in precedenza invalidata l’esclusione dal combattimento in Marina perché proibiva alle donne di ricoprire incarichi che avevano la capacità di portare a termine e perché inibiva la discrezionalità con cui la Marina assegnava alle donne

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incarichi sulle navi da combattimento. L’esercito esclude le donne dal combattimento sulla base delle proprie politiche e con l’autorizzazione del Congresso a stabilire le assegnazioni. 27 Carol Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Milano 1991 [ed. or. 1982]. 28 L’autrice rimanda qui espressamente al titolo originale del saggio di Gilligan, cioè «In a Different Voice». Non si è potuto ricorrere al titolo dell’edizione italiana dell’opera (cfr. n. precedente), che pure avrebbe reso esplicito il riferimento polemico di MacKinnon, per non compromettere la resa concettuale della frase successiva, che istituisce una contrapposizione tra diversità e specifica femminilità della voce morale (N.d.T.). 29 Come ho sostenuto nell’Appendice A del mio Sexual Harassment of Working Women: A Case of Sex Discrimination, New Haven 1979. Il libro si chiude con la frase «le donne vogliono essere eguali e anche diverse». Avrei potuto aggiungere «Gli uomini sono». Come criterio, ciò avrebbe ridotto le aspirazioni delle donne all’eguaglianza a qualche corrispondente versione delle condizioni reali degli uomini; ma, come osservazione, sarebbe stata vera. 30 Diana Russell e Nancy Howell, The Prevalence of Rape in the United States Revisited, in «Signs: Journal of Women in Culture and Society», VIII (1983) 4, pp. 688 sgg. Il 44 per cento delle donne sono state vittime almeno una volta nella vita di stupro o di un tentativo di stupro in 930 ambienti domestici. 31 Diana Russell, The Incidence and Prevalence of Intrafamilial and Extrafamilial Sexual Abuse of Female Children, in «Children Abuse and Neglect: The International Journal», 7 (1983), pp. 133-146. 32 R. Emerson Dobash e Russel P. Dobash, Violence against Wives: A Case against the Patriarchy, New York 1979; Bruno v. Codd, 90 Misc. 2d 1047, 396 N.Y.S. 2d 974 (Sup. Ct. 1977), riesaminato 64 A.D. 2d 582, 407 N.Y.S. 2d 165 (1st Dep’t 1978), aff’d 47 N.Y. 2d 582, 393 N.E. 2d 976, 419 N.Y.S. 2d 901 (1979). 33 Kathleen Barry, Female Sexual Slavery, New Jersey 1979; Moira K. Griffin, Wives, Hookers and the Law: The Case for Decriminalizing Prostitution, in «Student Lawyer», 10 (1982), pp. 18-21; Report of Jean Fernand-Laurent, Special Rapporteur on the Suppression of the Traffic in Persons and the Exploitation of the Prostitution of Others [rapporto delle Nazioni Unite], in Kathleen Barry, Charlotte Bunch e Shirley Castley (a cura di), International Feminism: Networking against Female Sexual Slavery (Report of the Global Feminist Workshop to Organize against Traffic in Women, Rotterdam, Netherlands, 6-15 aprile 1983), New York 1984, p. 130. 34 Galloway e Thornton, Crackdown on Pornography – A No-Win Battle, in «U.S. News and World Report», 4 giugno 1984, p. 84. Si veda anche The Place of Pornography, in «Harper’s», novembre 1984, p. 31 (in cui si parla di sette miliardi di dollari l’anno). 35 Nel caso Loving v. Virginia, 388 U.S. 1 (1967) si utilizzò per la prima volta il termine «supremazia dei bianchi» nell’atto di annullamento di una legge contro la mescolanza razziale perché in violazione dell’eguale protezione. La legge equamente impediva ai bianchi di sposarsi con i neri e viceversa. Pur senza arrivare a questo punto, le corti talvolta, su questioni relative all’atletica, hanno compreso che «stesso» non significa necessariamente «eguale», né l’eguaglianza richiede somiglianza. In un contesto di diseguaglianza sessuale come quello che è stato prevalente nella sfera delle opportunità atletiche, l’autorizzazione concessa ai ragazzi di entrare a far parte di squadre femminili potrebbe ridurre l’eguaglianza sessuale globale. «Ogni

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posizione occupata da un maschio diminuisce la partecipazione femminile e aumenta la disparità globale, generalmente esistente, delle opportunità atletiche»: Petrie v. Illinois High School Association, 394 N.E. 2d 855, 865 (Ill. 1979). «In conclusione, garantire esattamente le stesse opportunità atletiche ai ragazzi e alle ragazze sarebbe difficilissimo e dannoso per l’interesse primario dello Stato a equiparare le opportunità atletiche generali dei sessi»: ivi. 36 Gli studiosi Tussman e tenBroek per la prima volta hanno usato il termine «adatto» per caratterizzare la necessaria relazione tra una regola valida di eguaglianza e il mondo cui essa si riferisce: J. Tussman e J. tenBroek, The Equal Protection of the Laws, in «California Law Review», 37 (1949) 3, pp. 341-381. 37 Royster Guano Co. v. Virginia, 253 U.S. 412, 415 (1920): «[una classificazione] deve essere ragionevole, non arbitraria e deve fondarsi su una qualche reale differenza che sia in relazione evidente e sostanziale con l’oggetto della legislazione, in modo che tutte le persone che si trovano in circostanze affini siano trattate in modo eguale». Reed v. Reed, 404 U.S. 71, 76 (1971): «Indipendentemente dal loro sesso, le persone che appartengono a una qualsiasi delle classi elencate [...] si trovano in situazioni simili [...]. Poiché riserva un trattamento diverso agli uomini e alle donne che si trovano in circostanze affini, la sezione contestata viola la clausola dell’eguale protezione». 38 Nei casi Washington v. Davis, 426 U.S. 229 (1976) e Personnel Administrator of Massachusetts v. Feeney, 442 U.S. 256 (1979) si richiede che per poter essere dimostrata, la discriminazione deve essere dimostrata intenzionale.

Capitolo 4 1 Con questo lavoro voglio spiegare che cosa intendo per pornografia. Imprescindibile sull’argomento è il libro di Andrea Dworkin, Pornography: Men Possessing Women, New York 1981. Il significato di un termine non è veicolato da una definizione in modo tanto chiaro quanto lo è dalla sua contestualizzazione. In ogni caso, ciò che io e Andrea Dworkin intendiamo per pornografia è espresso piuttosto bene nella definizione giuridica che ne abbiamo dato: «Pornografia è la sottomissione grafica sessualmente esplicita delle donne con immagini o con parole che comprende anche una o più delle seguenti condizioni: (a) le donne sono presentate disumanizzate come oggetti sessuali, cose o beni di consumo; oppure (b) le donne vengono presentate come oggetti sessuali che godono dell’umiliazione o del dolore; oppure (c) le donne vengono presentate come oggetti sessuali che provano piacere sessuale nello stupro, nell’incesto o in ogni altra violenza sessuale; oppure (d) le donne vengono presentate come oggetti sessuali, legate o tagliuzzate o mutilate o percosse o fisicamente danneggiate; oppure (e) le donne vengono mostrate in atteggiamenti o posizioni di sottomissione sessuale, servilismo o esibizione; oppure (f) parti del corpo femminile – comprese, tra l’altro ma non esclusivamente, vagine, seni, natiche – vengono esibite in modo tale che le donne vengono ridotte a tali parti; oppure (g) le donne vengono rappresentate mentre vengono penetrate da oggetti o animali; oppure (h) le donne vengono rappresentate in scenari di degradazione, umiliazione, offesa, tortura, mostrate come sordide o inferiori, sanguinanti, percosse oppure danneggiate in un contesto che rende sessuali queste condizioni». In questa definizione, l’uso di «uomini, bambini o transessuali al posto delle donne» è anch’esso pornografia.

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Note

Questa definizione è una versione leggermente modificata di quella che è stata approvata dal Consiglio della città di Minneapolis il 30 dicembre 1983. Minneapolis, Minn., Ordinance amending tit. 7, chs. 139, 141, Minneapolis Code of Ordinances Relating to Civil Rights (Dec. 30, 1983). Il sindaco pose un veto sull’ordinanza, che fu poi reintrodotta, riapprovata e nuovamente sottoposta a veto nel 1984. 2 «Il Congresso non può emanare alcuna legge [...] che limiti la libertà di parola o di stampa»: Costituzione degli Stati Uniti, Primo emendamento. 3 Il giudice Black e qualche volta il giudice Douglas hanno sostenuto che il Bill of Rights, incluso il Primo emendamento, fosse «assoluto». Hugo Black, The Bill of Rights, in «New York University Law Review», 35 (1960), pp. 865 sgg.; Edmund Chan, Justice Black and First Amendment ‘Absolutes’: A Public Interview, in «New York University Law Review», 37 (1962), pp. 549 sgg. Per un approfondimento si veda Harry Kalven, Upon Rereading Mr. Justice Black on the First Amendment, in «UCLA Law Review», 14 (1967), pp. 428 sgg. Per una diversa prospettiva nella controversia sull’opposizione tra l’approccio «assolutista» al Primo emendamento e l’approccio basato sul «bilanciamento» si veda, per esempio, W. Mendelson, On the Meaning of the First Amendment: Absolutes in the Balance, in «California Law Review», 50 (1962), pp. 821 sgg.; L. Frantz, The First Amendment in the Balance, in «Yale Law Journal», 71 (1962), pp. 1424 sgg.; Id., Is the First Amendment Law? – A Reply to Professor Mendelson, in «California Law Review», 51 (1963), pp. 729 sgg.; W. Mendelson, The First Amendment and the Judicial Process: A Reply to Mr. Frantz, in «Vanderbilt Law Review», 17 (1964), pp. 479 sgg. Per quanto riguarda la questione della pornografia, si vedano Roth v. United States, 354 U.S. 476, 514 (1957) (giudice Douglas e giudice Black dissenzienti); Smith v. California, 361 U.S. 147, 155 (1959) (giudice Black favorevole); Miller v. California, 413 U.S. 15, 37 (1973) (giudice Douglas dissenziente). Lo scopo della mia relazione non è quello di criticare l’approccio «assolutista» in quanto tale, bensì di identificare e criticare alcune convinzioni implicite, largamente condivise e profondamente radicate, che sottendono sia la prospettiva assolutista, sia gli approcci tradizionalmente più flessibili. 4 La storia della legge sull’oscenità può essere vista come un tentativo fallito di demarcare questa separazione e il fallimento è diventato sempre più evidente a partire dalla sentenza Redrup v. New York, 386 U.S. 767 (1967). Per una ricapitolazione dei casi che esemplificano questa tendenza si veda il parere dissenziente del giudice Brennan in Paris Adult Theatre I v. Slaton, 413 U.S. 49, 73 (1973). 5 È stato dato molto risalto alla distinzione tra sesso e genere. Il sesso è considerato l’elemento più biologico, il genere quello più sociale. La relazione che la sessualità intrattiene con entrambi è interpretata in modo variabile. Si veda Robert J. Stoller, Sex and Gender, 2. The Transsexual Experiment, New York 1975, pp. 9-10. Poiché penso che l’importanza che la biologia riveste per la condizione delle donne risieda nel significato sociale che è a essa attribuito, la biologia coincide con il proprio significato sociale, qualora ci si proponga di analizzare la diseguaglianza tra i sessi, che è una condizione politica. Di conseguenza, tendo ad usare sesso e genere in modo relativamente interscambiabile. 6 Il senso in cui interpreto la prospettiva delle donne come diversa da quella degli uomini è in linea con il riferimento di Virginia Woolf a «la differenza di visuale, la differenza di criterio» nel suo George Eliot [1919], in Ead., Saggi, prose, racconti, Milano 1998 [ed. or. 1966], p. 148. Né io né lei usiamo la nozione di differenza di genere per alludere a qualcosa di biologico, naturale, trascendentale o esistenziale.

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La prospettiva confronta i modelli perché l’esperienza sociale del genere è limitata dal genere. Si vedano Catharine A. MacKinnon, Sexual Harassment of Working Women: A Case of Sex Discrimination, New Haven 1979, pp. 107-141 e gli articoli citati nella successiva n. 11; Virginia Woolf, Le tre ghinee [1938], in Ead., Saggi, prose, racconti cit., pp. 427 sgg.; si veda anche Andrea Dworkin, The Root Cause, cap. 9 nel suo Our Blood: Prophecies and Discourses on Sexual Politics, New York 1976, pp. 96 sgg. Non mi riferisco alla differenza di genere in senso descrittivo, senza specificare le sue origini e le sue implicazioni, che potrebbero altrimenti essere biologiche, esistenziali, trascendentali, in qualche modo costitutive o sociali, ma necessarie. Per «punto di vista» intendo una prospettiva, e dunque un modello, che è imposto alle donne con la forza della diseguaglianza sessuale, che è una condizione politica. L’aggettivo «maschio» è un concetto sociale e politico, non un attributo biologico; è uno status sociale conferito a una persona a causa della sua condizione di nascita. L’uso che faccio dell’aggettivo «maschio» non ha nulla a che vedere con l’immanenza, l’essenza, la natura, l’inevitabilità o il corpo in quanto tale. Poiché gli uomini hanno un interesse a essere maschi nel sistema in cui viviamo, nella misura in cui i maschi sono sia potenti sia umani, raramente mettono in dubbio i vantaggi che da ciò traggono e nemmeno considerano l’essere maschi come una condizione sociale. 7 Criminal Code, Can. Rev. Stat. chap. c-34, § 159 (2)(c) e (d) (1970). People v. Sanger, 222 N.Y. 192, 118 N.E. 637 (1918). 8 The Report of the Commission on Obscenity and Pornography (1970) (rapporto di maggioranza). L’accuratezza degli accertamenti operati dalla Commissione può essere messa in dubbio per i seguenti motivi: (1) sono state inoltrate, da più parti e da punti di vista differenti, ampie critiche della metodologia applicata; si vedano L. Sunderland, Obscenity – The Court, the Congress and the President’s Commission, Washington 1975; Edward Donnerstein, Pornography Commission Revisited: Aggression – Erotics and Violence against Women, in «Journal of Personality and Social Psychology», 39 (1980), pp. 269 sgg.; Ann Garry, Pornography and Respect for Women, in «Social Theory and Practice», 4 (1978), pp. 395 sgg.; Irene Diamond, Pornography and Repression, in «Signs: A Journal of Women in Culture and Society», 5 (1980), pp. 686 sgg.; Victor B. Cline, Another View: Pornography Effects, the State of the Art, in Id. (a cura di), Where Do You Draw the Line? An exploration into media violence, pornography, and censorship, Provo 1974; Pauline Bart e Margaret Jozsa, Dirty Books, Dirty Films, and Dirty Data, in Laura Lederer (a cura di), Take Back the Night: Women on Pornography, New York 1980, pp. 204 sgg.; (2) la Commissione è incline a sminuire il significato dei propri stessi rilevamenti, come nel caso di Donald Mosher a proposito degli effetti discriminatori dipendenti dal fatto che il genere sia noto; e (3) per il piano di ricerca della Commissione. La Commissione non si è concentrata sulle questioni di genere, ha fatto del suo meglio per eliminare la «violenza» dai propri materiali (al fine di non interferire con la Commissione sulla violenza) e si è richiamata a teorie non scientifiche come quella puritana della colpa per spiegare i responsi negativi delle donne a tali materiali. Inoltre, la causalità scientifica non è necessaria per conferire validità giuridica alla regolamentazione dell’oscenità: «Ma – si argomenta – non ci sono dati scientifici che dimostrano in maniera conclusiva che l’esposizione a materiali osceni influenza negativamente gli uomini e le donne o la loro società. Si insiste sul fatto che, senza tale dimostrazione, ‘non è ammessa’ alcuna forma di regolamentazione da parte dello Stato. Noi rifiutiamo questo argomento. Non è compito nostro ri-

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Note

solvere le incertezze empiriche sottostanti alla legislazione statale, se non nei casi eccezionali in cui la legislazione palesemente viola un diritto costituzionalmente garantito [...]. Sebbene non ci siano prove conclusive di una connessione tra il comportamento antisociale e il materiale osceno, l’assemblea legislativa della Georgia potrebbe abbastanza ragionevolmente stabilire che tale connessione esiste o potrebbe esistere». Paris Adult Theatre I v. Slaton, 413 U.S. 49, 60-61 (1973) (il giudice Burger, per la maggioranza) [corsivo mio]; si veda anche Roth v. U.S., 354 U.S. 476, 501 (1957). 9 Parte del danno che la pornografia procura alle donne, così come si è sostenuto nella definizione di cui alla n. 1 e di cui si è discusso in questo saggio, è stato documentato da ricerche empiriche. Studi recenti di laboratorio hanno dimostrato che l’esposizione alla pornografia aumenta la predisposizione di uomini normali ad aggredire le donne; rende sia le donne sia gli uomini sostanzialmente meno capaci di interpretare il resoconto di uno stupro in quanto tale; rende uomini normali più simili, sotto il profilo psicologico, a stupratori condannati; provoca un aumento di quelle disposizioni attitudinali che hanno una riconosciuta connessione con lo stupro, come l’ostilità nei confronti delle donne, la propensione allo stupro, l’approvazione dello stupro e la supposizione che si commetterebbe uno stupro o si imporrebbe ad una donna di fare sesso se si avesse la certezza di non essere scoperti; inoltre, la pornografia produce altri cambiamenti nell’atteggiamento degli uomini, sviluppando la tendenza a volgarizzare, de-umanizzare e reificare le donne. Diana E.H. Russell, Pornography and Violence: What Does the New Research Say?, in Lederer (a cura di), Take Back the Night cit., pp. 218-238; Neil M. Malamuth e Edward Donnerstein (a cura di), Pornography and Sexual Aggression, New York 1984; Dolph Zillmann, The Connection between Sex and Aggression, Hillsdale 1984; J.V.P. Check, Neil M. Malamuth e R. Stille, Hostility to Women Scale (ms. inedito del 1983); Edward Donnerstein, Pornography: Its Effects on Violence against Women, in Malamuth e Id. (a cura di), Pornography and Sexual Aggression cit., pp. 53-81; Neil M. Malamuth e J.V.P. Check, The Effects of Mass Media Exposure on Acceptance of Violence against Women: A Field Experiment, in «Journal of Research in Personality», 15 (1981), pp. 436 sgg; Neil M. Malamuth, Rape Proclivities among Males, in «Journal of Social Issues», 37 (1981), pp. 138 sgg.; Neil M. Malamuth e Barry Spinner, A Longitudinal Content Analysis of Sexual Violence in the Best-Selling Erotic Magazines, in «Journal of Sex Research», 16 (1980), pp. 226 sgg.; D. Mosher, Sex Callousness Towards Women, in «Technical Report of the Commission on Obscenity and Pornography», 8 (1971), pp. 313 sgg.; Dolph Zillmann e J. Bryant, Effects of Massive Exposure to Pornography, in Malamuth e Donnerstein (a cura di), Pornography and Sexual Aggression cit., pp. 115-138. 10 Per un elenco illustrativo, ma non esaustivo, dei lavori che costituiscono quella che chiamo la «critica femminista della pornografia»: Andrea Dworkin, Men Possessing Women cit.; Dorchen Leidholdt, Where Pornography Meets Fascism, in «Win», 15 marzo 1983, p. 18; George Steiner, Night Words, in D. Holbrook (a cura di), The Case Against Pornography, Chicago 1973, pp. 227 sgg.; Susan Brownmiller, Against Our Will: Men, Women and Rape, New York 1975, p. 394; Robin Morgan, Pornography and Rape: Theory and Practice, in Ead. (a cura di), Going Too Far: The Personal Chronicle of a Feminist, New York 1977, pp. 165 sgg.; Kathleen Barry, Female Sexual Slavery, New York 1979; R.R. Linden, D.R. Pagano, D.E.H. Russell e L. Star (a cura di), Against Sado-Masochism: A Radical Feminist Analysis, San Francisco 1982, in particolare i contributi di Ti-Grace Atkinson, Judy Butler,

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Andrea Dworkin, Alice Walker, John Stoltenberg, Audre Lorde e Susan Leigh Star; Alice Walker, Coming Apart, in Lederer (a cura di), Take Back the Night cit. e gli altri articoli di questo volume, ad eccezione di quelli giuridici; Gore Vidal, Women’s Liberation Meets the Miller-Mailer-Manson Man, in Id., Homage to Daniel Shays: Collected Essays 1952-1972, New York 1972, p. 389; Linda Lovelace e Michael McGrady, Ordeal, New York 1980. Fondamentali per l’impostazione di questo saggio sono stati Kate Millet, La politica del sesso, Milano 1971 [ed. or. 1969] e Florence Rush, The Best-Kept Secret: Sexual Abuse of Children, New York 1980. Nel saggio Violent Pornography: Degradation of Women versus Right of Free Speech, in «New York University Review of Law and Social Change», 8 (1978), pp. 181 sgg., sono raccolti argomenti femministi e non. 11 Per un approfondimento di questo tema, si vedano i miei lavori precedenti, in particolare Feminism, Marxism, Method and the State: An Agenda for Theory, in «Signs: Journal of Women in Culture and Society», VII (1982) 3, pp. 515-544 (d’ora in poi citato come Signs I); Feminism, Marxism, Method and the State: Toward Feminist Jurisprudence, ivi, VIII (1983) 4, pp. 635-658 (d’ora in poi citato come Signs II). 12 Jacobellis v. Ohio, 378 U.S. 184 (1964) (giudice Stewart favorevole). 13 Pare che il giudice Stewart si sia lamentato che questa singola affermazione sia stata più citata e più ricordata di qualsiasi altra cosa lui abbia mai detto. 14 Si veda Signs I cit. 15 Susan Griffin, Pornography and Silence: Culture’s Revenge Against Nature, New York 1981, pp. 2-4, 251-265. 16 Dworkin, Men Possessing Women cit. 17 Si veda anche Ead., The Root Cause cit. 18 L’idea che la pornografia sia sesso, e che qualsiasi cosa si pensi del sesso la si pensi anche della pornografia, informa quasi tutte le analisi del problema. In particolare, quasi tutte le analisi non-femministe prendono le mosse, implicitamente o esplicitamente, dall’assunto, dall’argomento, dalla critica o dal sospetto che la pornografia rappresenti, in qualche modo, una via per la liberazione sessuale e tale posizione accomuna una serie di lavori che per altri versi differiscono. Si vedano D.H. Lawrence, Pornography and Obscenity, in Id., Sex, Literature and Censorship, London 1955, p. 64; Hugh Hefner, The Playboy Philosophy, in «Playboy», dicembre 1962, p. 73 e ivi, febbraio 1963, p. 43; Henry Miller, L’oscenità e la legge di riflessione [1945], in Id., Ricordati di ricordare, Torino 1965 [ed. or. 1947], pp. 240 sgg.; Deirdre English, The Politics of Porn: Can Feminists Walk the Line?, in «Mother Jones», aprile 1980, p. 20; Jean Bethke Elshtain, The Victim Syndrome: A Troubling Turn in Feminism, in «The Progressive», giugno 1982, p. 42. Un esempio a caso: «Di contro alla morale vittoriana, che restrittivamente definisce il corretto funzionamento sessuale in maniera così rigida da renderlo analogo alla regolarità intestinale, la pornografia costruisce un modello di varietà plastica e di eccesso gioioso nella sessualità. Di contro all’addolorato rifiuto cattolico della sessualità come purtroppo necessaria per la conservazione della specie, ma indesiderabile e spiritualmente superficiale, la pornografia fornisce l’idea alternativa di uno status indipendente della sessualità, intesa come un’estasi profonda e stupefacente». David Richards, Free Speech and Obscenity Law: Toward a Moral Theory of the First Amendment, in «University of Pennsylvania Law Review», 123 (1974), pp. 45 sgg., cit. a p. 81 (con eliminazione delle note). Si veda anche F. Schauer, Response:

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Note

Pornography and the First Amendment, in «Pittsburgh Law Review», 40 (1979), pp. 605 sgg., spec. p. 616. 19 Tutto conferma il fatto che la pornografia sia destinata agli uomini: basta passare un po’ di tempo nelle librerie per adulti, frequentare i cinema a luci rosse, parlare con i pornografi (che, come tutti i magnaccia furbi, fanno ricerche di mercato) e analizzare la pornografia stessa in termini di sesso e di genere. Il fatto che le donne possano fruirne non la rende meno destinata agli uomini, così come il fatto che gli uomini siano i principali consumatori della pornografia non significa che essa non danneggi le donne. Si vedano Martha Langelan, The Political Economy of Pornopgraphy, in «Aegis: Magazine on Ending Violence against Women», autunno 1981, p. 5; J. Cook, The X-Rated Economy, in «Forbes», 18 settembre 1978, p. 60. Per esperienza personale so che la maggior parte delle donne tende a evitare la pornografia – per quanto sia possibile farlo, cioè non molto, a quanto pare. 20 In base sia all’ipotesi della «fantasia» sia a quella della «catarsi», la pornografia mantiene la sessualità a livello di un appagamento della immaginazione. In particolare il lavoro di Edward Donnerstein dimostra il contrario. Più la pornografia viene fruita, più pornografia – e pornografia più brutale – è desiderata e richiesta per eccitarsi sessualmente. Quello che accade non è la catarsi, ma la desensibilizzazione e dunque diviene necessaria una stimolazione sempre più potente. Si vedano i lavori citati nella n. 9 e Murray Straus, Leveling, Civility, and Violence in the Family, in «Journal of Marriage & The Family», 36 (1974), pp. 13 sgg. 21 Lovelace e McGrady, Ordeal cit., forniscono il resoconto di una donna costretta a recitare in un film pornografico. Si veda anche Andrea Dworkin, Pornography’s Exquisite Volunteers, in «Ms. Magazine», marzo 1981, p. 65. 22 In ogni caso, per tale indagine si veda Russell, Pornography and Violence cit., p. 228: su un campione casuale di 930 famiglie di San Francisco il 10 per cento delle donne è stata almeno una volta «molestata da qualcuno che cercava di farle fare quello che aveva visto in fotografie, film o libri pornografici». Ovviamente, questa percentuale include solo i casi in cui era noto che la pornografia fosse all’origine della richiesta sessuale, dunque è sottostimata. Si veda anche Diana E.H. Russell, Rape in Marriage, Bloomington 1982, pp. 27-41, per una discussione dei dati. Le udienze in cui io e Andrea Dworkin abbiamo testimoniato per il Minneapolis City Council a proposito dell’ordinanza di cui alla n. 1 hanno prodotto numerosi resoconti di come la pornografia sia utilizzata per imporre il sesso alle donne e ai bambini. Public Hearings on Ordinances to Add Pornography as Discrimination against Women, Committee on Government Operations, City Council, Minneapolis, Minn., dic. 12-13, 1983 (d’ora in poi citate come Hearings). 23 Si vedano Signs I e anche Susan Sontag, The Pornographic Imagination, in «Partisan Review», 34 (1977), p. 181. 24 La «spudoratezza» dei resoconti è una questione centrale sia per i giudizi in merito all’oscenità sia per quanto riguarda i criteri di accesso per il pubblico che vengono usati volontariamente dalle industrie che adottano un proprio regolamento e dalle commissioni per la censura. Si vedano Grove Press v. Christenberry, 175 F. Supp. 488, 489 (S. D. N. Y. 1959), per una discussione sul «candore» e sul «realismo»; Grove Press v. Christenberry, 276 F.2d 433, 438 (2d Cir. 1960), per una discussione dell’«esplicito»; Mitchum v. State, 251 So.2d 298, 302 (Fla. Dist. Ct. App. 1971), per il «mostra tutto»; Kaplan v. California, 413 U.S. 115, 118 (1973). La quantità di sesso mostrato in una rappresentazione è dunque implicitamente correlata a quanto il materiale è sessuale (cioè, eccitante per il maschio). Si vedano

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Memoirs v. Massachusetts, 383 U.S. 413, 460 (1966) (giudice White dissenziente); Richard Heffner, What G, PG, R and X Really Mean, in «Congressional Record», 126 (8 dicembre 1980), p. 172; Report of the Committee on Obscenity and Film Censorship, London 1981 (il Williams Report – e così citato anche in seguito). Andrea Dworkin, nel suo resoconto della pornografia, fornisce in maniera brillante al lettore la possibilità di provare questa estetica: Pornography cit., pp. 25-47. 25 Al corpo di leggi raccolto e accuratamente commentato da William Lockhart e Robert McClure, Literature, the Law of Obscenity and the Constitution, in «Minnesota Law Review», 38 (1954), pp. 295 sgg. e Censorship of Obscenity, in «Minnesota Law Review», 45 (1960), pp. 5 sgg., aggiungo l’indicazione dei casi principali successivi alla pubblicazione del loro lavoro: Stanley v. Georgia, 349 U.S. 557 (1969); U.S. v. Reidel, 402 U.S. 351 (1970); Miller v. California, 413 U.S. 15 (1973); Paris Adult Theatre I v. Slaton, 413 U.S. 49 (1973); Hamling v. U.S., 418 U.S. 87 (1973); Jenkins v. Georgia, 418 U.S. 153 (1973); U.S. v. 12 200-Ft. Reels of Super 8mm Films, 413 U.S. 132 (1973); Erznoznik v. City of Jacksonville, 422 U.S. 205 (1975); Splawn v. California, 431 U.S. 595 (1976); Ward v. Illinois, 431 U.S. 767 (1976); Lovisi v. Slayton, 539 F.2d 349 (4th Cir. 1976). Si veda anche New York v. Ferber, 458 U.S. 747 (1982). 26 Per una discussione del ruolo che la legge sulla privacy gioca a favore dell’esistenza della pornografia, si veda Ruth Colker, Pornography and Privacy: Towards the Development of a Group Based Theory for Sex Based Intrusions of Privacy, in «Law and Inequality: A Journal of Theory and Practice», 1 (1983), pp. 191 sgg. 27 Louis Henkin, Morals and the Constitution: The Sin of Obscenity, in «Columbia Law Review», 63 (1963), pp. 391 sgg., cit. a p. 395. 28 La discussione di queste correlazioni è approfondita in Signs II. Potrebbe sembrare strano definire la «morale» come femminile, dal momento che il mio saggio tratta della moralità maschile. Con la supremazia maschile, sono gli uomini a definire le cose ed è questo processo che sto descrivendo. Gli uomini definiscono le donne come «morali». Tale è il punto di vista maschile sulle donne. Nella mia analisi, in cui sviluppo una critica femminista della prospettiva maschile, definisco «morale» l’idea che la pornografia sia una questione di bene e male. Si tratta della mia analisi degli uomini, di contro a quanto loro attribuiscono alle donne. 29 Uno studio della giurisprudenza conferma il rapporto di Robert Woodward e Scott Armstrong in «The Brethren», 194 (1979), per quanto riguarda il fatto che, almeno per qualche giudice, si tratti di un criterio basilare. La domanda interessante diventa allora quella del perché la strategia della supremazia maschile è passata dal mantenere nascosto il pene, esaltandolo indirettamente, all’esibirlo dappertutto, esaltandolo apertamente. Ciò suggerisce che si sia verificato un grande cambiamento dal terrorismo privato al terrorismo pubblico. Quello che veniva percepito come un pericolo per la supremazia maschile, cioè l’esibizione del pene, è divenuto ora un elemento essenziale per la strategia di conservazione di questa supremazia. 30 Una possibile lettura di Lockhart e McClure, Literature, the Law of Obscenity and the Constitution cit., è che questo fosse il loro progetto e che il loro approccio sia stato sostanzialmente adottato nel terzo ramo della dottrina Miller. Per quanto riguarda il tentativo giuridico principale di gestire il problema si vedano Memoirs v. Massachusetts, 383 U.S. 413 (1966), parzialmente annullato, Miller v. California, 413 U.S. 15 (1973). Si veda anche U.S. V. Ulysses, 5 F. Supp. 182 (S. D. N. Y. 1933), aff’d 72 F.2d 705 (2d Cir. 1934).

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Note

31 Io e Andrea Dworkin abbiamo sviluppato questa analisi nella lezione «Pornography» che abbiamo tenuto presso la University of Minnesota Law School, nel semestre autunnale del 1983. Si veda anche Dworkin, Why So-Called Radical Men Love and Need Pornography, in Lederer (a cura di), Take Back the Night cit., p. 141 (la pornografia è una questione di accesso sessuale alle donne e dunque comporta una lotta tra gli uomini). 32 Quelli che Dworkin, nel saggio Why So-Called Radical Men Love and Need Pornography cit., chiamava «padri» e «figli», abbiamo cominciato a chiamarli «i vecchi ragazzi», la cui strategia di dominio maschile era quella di mantenere privati la pornografia e l’abuso delle donne, e «i nuovi ragazzi», la cui strategia di dominio maschile è quella di rendere pubblici la pornografia e l’abuso delle donne. Credo che Freud e la diffusione della sua ipotesi di «affrancamento dalla repressione» giochino un ruolo centrale nell’atteggiamento dei «nuovi ragazzi» e nel successo che ottengono. Concludere, come alcuni hanno fatto, che le donne hanno beneficiato della disponibilità pubblica della pornografia e che dunque dovrebbero esserne grate e avere un interesse nel mantenerla tale equivale a dire che i meriti di un’autorizzazione esplicita dell’oppressione, rispetto ad un’oppressione accettata solo implicitamente, ne garantiscono la continuità. Tale modo di ragionare oscura la possibilità di porre fine all’oppressione. Credo che il beneficio che le donne traggono dal fatto che la pornografia sia resa disponibile sia quello di poter capire con chi e con che cosa hanno a che fare, allo scopo di porvi fine. Il problema è come porvi fine. 33 Miller v. California, 413 U.S. 15, 24 (1973). 34 Paris Adult Theatre I v. Slaton, 413 U.S. 49, 67 (1973). Si veda anche Miller v. California, 413 U.S. 15, 25 n. 7 («Una citazione da Voltaire riportata in esergo a un libro non riscatta sul piano costituzionale una pubblicazione altrimenti oscena», ripreso da Kois v. Wisconsin, 408 U.S. 229, 231, [1972]). 35 Penthouse International v. McAuliffe, 610 F.2d 1353, 1362-73 (5th Cir. 1980). Per uno studio delle applicazioni, si veda Coble v. City of Birmingham, 389 So.2d 527 (Ala. Ct. App. 1980). 36 Malamuth e Spinner, A Longitudinal Content Analysis of Sexual Violence in the Best-Selling Erotic Magazines cit.: «la rappresentazione di un’aggressione sessuale in riviste ‘autorizzate’ come ‘Playboy’ e ‘Penthouse’ potrebbe avere un impatto maggiore di quello che la medesima rappresentazione avrebbe se comparisse nell’ambito della pornografia hard-core»; Neil M. Malamuth e Edward Donnerstein, The Effects of Aggressive-Pornographic Mass Media Stimuli, in L. Berkowitz (a cura di), Advances in Experimental Social Psychology, vol. 15, New York 1982, pp. 103-136. 37 Sembra che alcune corti, con riguardo alla categoria di oscenità, abbiano stabilito che la qualità artistica non elimina il danno provocato. People v. Mature Enterprises, 343 N. Y. S.2d 911, 925 n. 14 (N. Y. Sup. 1973): «questa corte non adotterà un principio di legge in base a cui l’oscenità può essere vietata, ma solo se non è scritta in modo valido o tecnicamente ben realizzata» (citazione parziale da People v. Fritch, 13 N. Y. 2d 119, 126, 243 N. Y. S. 2d 1, 7, 192 N. E. 2d 713 [1963]). In linea con il mio argomento è anche l’osservazione del giudice O’Connor: «Gli interessi primari riconosciuti nella sentenza di oggi [...] suggeriscono che la Costituzione potrebbe di fatto consentire la proibizione di materiali che ritraggono minori coinvolti in un’attività sessuale esplicita, indipendentemente dal valore sociale della rappresentazione. Per esempio, un bambino di dodici anni fotografato mentre si masturba subisce lo

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stesso danno psicologico sia che la comunità giudichi la fotografia ‘edificante’ sia che la giudichi ‘di cattivo gusto’. L’apprezzamento del pubblico è del tutto irrilevante per il dichiarato interesse dello Stato di New York a proteggere i bambini da danni psicologici, emotivi e mentali». New York v. Ferber, 458 U.S. 747, 774-75 (1982) (parere favorevole). Detto altrimenti, in che modo il fatto che qualcosa, che è stato realizzato provocando un danno a un bambino, sia un’opera d’arte fa sì che il bambino che ha subìto il danno non sia stato danneggiato? 38 Tipicamente le donne vengono menzionate, nella legge sull’oscenità, soltanto nell’espressione «le donne e gli uomini» che è utilizzata come sinonimo di «le persone». Al contempo, chi esattamente fosse la vittima della pornografia è stato a lungo un grande mistero. I pochi riferimenti allo «sfruttamento» nelle controversie giuridiche sull’oscenità non evocano l’idea che la vittima sia una donna. Per esempio, un riferimento a «un sistema di sfruttamento commerciale di persone con aberrazioni sessuali sadomasochistiche» riguardava i clienti di donne dominatrici, clienti che erano tutti uomini. State v. Von Cleef, 102 N. J. Super. 104, 245 A. 2d. 495, 505 (1968). I bambini del caso Ferber erano maschi. Allo stesso modo, il giudice Frankfurter ha invocato lo «sfruttamento sordido della natura e degli impulsi dell’uomo» quando ha discusso la propria concezione di pornografia in Kingsley Pictures Corp. V. Regents, 360 U.S. 684, 692 (1958). 39 Miller v. California, 413 U.S. 15, 24 (1973). 40 Si vedano Miller v. California cit., pp. 40-41 (giudice Douglas dissenziente): «quello che sconvolge me potrebbe essere il sostentamento dei miei vicini»; U.S. v. 12 200-Ft. Reels of Super 8mm Film, 413 U.S. 123, 137 (1972) (giudice Douglas dissenziente): «quello che per me è spazzatura potrebbe essere apprezzato da altre persone»; Cohen v. California, 403 U.S. 15, 25 (1970), dichiarazione del giudice Harlan: «la volgarità di un uomo è la poesia di un altro»; Winters v. New York, 333 U.S. 507, 510 (1947): «ciò che per qualcuno è divertimento, per qualcun’altro è un credo»; Lawrence cit., p. 195: «quello che un uomo considera pornografico per un altro è una risata intelligente»; Ginzburg v. United States, 383 U.S. 463, 489 (1966) (giudice Douglas dissenziente): «ad alcuni piace Chopin, ad altri il rock and roll». Come un uomo – lo sfruttatore di Linda Lovelace, che l’ha costretta a recitare in un film pornografico – ha detto a un altro: «io non ti dico come scrivere il tuo trafiletto. Tu non dirmi come trattare le mie puttane» (citato in Gloria Steinem, The Real Linda Lovelace, in Ead., Outrageous Acts and Everyday Rebellions, New York 1983, pp. 243, 252). 41 Per la risoluzione di questo problema per la sessualità non convenzionale si veda Mishkin v. New York, 383 U.S. 502, 508 (1966). 42 Con ciò non si intende esprimere alcun commento in merito alla sessualità o ai princìpi personali dei giudici; si tratta piuttosto di una serie di osservazioni analitiche che emergono dal tentativo femminista di interpretare la più profonda struttura sociale di un ampio numero di precedenti giudiziari sulla base di una critica di genere. Ulteriori ricerche dovrebbero analizzare sistematicamente il contenuto della pornografia coinvolta in questi casi. Per esempio, a proposito dell’ultima ipotesi avanzata nel testo: è solo un caso che il primo film a essere ritenuto osceno dalla Corte Suprema di uno Stato contenesse una scena di masturbazione maschile? Landau v. Fording, 245 C.A. 2d 820, 54 Cal. Rptr. 177 (1966). Considerata la diffusione dell’immagine infantile della donna e dell’erotizzazione delle bambine piccole, il caso Ferber sarebbe stato risolto allo stesso modo se la rappresentazione in questione fosse stata quella di una bambina di dodici anni nell’atto di masturbar-

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si? Romanzi come L’amante di Lady Chatterley e Tropico del Cancro hanno avuto problemi per il fatto che la sessualità maschile è rappresentata in un modo che gli uomini giudicano pericoloso per le donne e per i bambini? 43 Roth v. U.S., 354 U.S. 476 (1957), ma cfr. Stanley v. Georgia, 394 U.S. 557 (1969), in cui il diritto di possedere privatamente materiali osceni è fatto rientrare sotto la protezione del Primo emendamento in quanto diritto di parola. Si veda P. Kurland e G. Casper (a cura di), Landmark Briefs and Arguments of the Supreme Court of the United States: Constitutional Law, Washington 1975, pp. 67 sgg., cit. a p. 850. 44 The Report of the Commission on Obscenity and Pornography cit., p. 1, incarica la commissione di studiare «l’effetto dell’oscenità della pornografia sul pubblico, in particolare sui minori, e la sua relazione con il crimine ed altri comportamenti antisociali». 45 Naomi Scheman, Making It All Up, trascrizione, gennaio 1982, p. 7. 46 I seguenti lavori sono di solito interpretati come diversi: Thomas I. Emerson, Toward a General Theory of the First Amendment, New York 1966; Id., The System of Freedom of Expression, New York 1970; Alexander Meiklejohn, Free Speech and Its Relation to Self-Government, New York 1948; Whitney v. California, 274 U.S. 357, 375 (1927) (giudice Brandeis e giudice Holmes favorevoli); T. Scanlon, A Theory of Free Expression, in «Philosophy and Public Affairs», 1 (1972), pp. 204 sgg.; John Hart Ely, Flag Desecration: A Case Study in the Roles of Categorization and Balancingin First Amendment Analysis, in «Harvard Law Review», 88 (1975), pp. 1482 sgg.; Zachariah Chafee, Free Speech in the United States, Cambridge, Mass., 1948, p. 245. Questa letteratura è sapientemente sintetizzata e analizzata da Ed Baker, il quale propone una teoria interpretativa che contribuisce a rispondere alle mie obiezioni, senza però modificare gli assunti basilari che io critico. Si veda C.E. Baker, Scope of the First Amendment Freedom of Speech, in «UCLA Law Review», 25 (1978), pp. 964 sgg. e Id., The Process of Change and the Liberty Theory of the First Amendment, in «Southern California Law Review», 55 (1982), pp. 293 sgg. 47 Emerson, Toward a General Theory of the First Amendment cit., p. 28. 48 Si veda Erznoznik v. City of Jacksonville, 422 U.S. 205 (1975); Breard v. Alexandria, 341 U.S. 622, 641-45 (1951); Kovacs v. Cooper, 336 U.S. 77, 87-89 (1949). 49 Stanley v. Georgia, 394 U.S. 557 (1969). 50 Si veda Walker, Coming Apart, in Lederer (a cura di), Take Back the Night cit., p. 85; Russell, Pornography and Violence cit.; Hearings Cf. Paris Adult Theatre I v. Slaton, 413 U.S. 49, 71 (1973) (giudice Douglas dissenziente): «In tutta la mia vita, che non è stata breve, deve ancora capitarmi di essere costretto a vedere o a leggere qualcosa che possa offendermi». Probabilmente non gli è mai capitato. 51 Si veda la seconda parte del mio saggio Privacy vs eguaglianza: a partire dal caso Roe vs Wade [cap. 5 nel presente volume] per una discussione più approfondita di questo argomento. 52 Emerson, Toward a General Theory of the First Amendment cit., pp. 16-25. Si veda anche Id., The System of Freedom of Expression cit., p. 17. 53 La nozione essenzialmente scientifica di causalità non è comunque apparsa nel diritto per la prima volta in questa occasione. Si veda ad esempio U.S. v. Roth, 237 F.2d 796, 812-17 (2d Cir. 1956) (giudice Frank favorevole): «Secondo il giudice Bok, una regolamentazione dell’oscenità potrebbe essere validamente applicata qualora esistesse la prova di una relazione causale tra un particolare libro e un comportamento indesiderabile. Quasi sicuramente, questa prova non potrà mai essere addotta», ivi, 826 n. 70.

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Werner Heisenberg, criticando i vecchi assunti della fisica atomica alla luce della teoria einsteiniana della relatività, illustra i requisiti che devono essere soddisfatti perché una relazione causale abbia senso: «Il coordinare a un determinato effetto una determinata causa, ha senso soltanto quando noi possiamo osservare causa ed effetto senza contemporaneamente introdurre perturbazioni sull’evento. La legge causale nella sua forma classica può così essere definita nella sua essenza soltanto per sistemi chiusi». Werner Heisenberg, I princìpi fisici della teoria dei quanti, Torino 1963 [ed. or. 1930], p. 75. Tra i fattori che interferiscono con l’isolamento dei sistemi ci sono gli osservatori. Adottare un criterio di causalità nella legge sull’oscenità significa istituire un’analogia piuttosto superficiale tra la regolarità della fisica e quella dei sistemi sociali – analogia che raramente è stata giustificata in modo esplicito oppure aggiornata nella misura in cui le scienze fisiche hanno messo in dubbio i propri fondamenti epistemologici. Questo tipo di causalità scientifica potrebbe non essere immediatamente suscettibile di essere misurata all’interno di un sistema sociale per la semplice ragione che i sistemi sociali non sono sistemi isolati; la ricerca sperimentale (nel cui ambito è stato dimostrato che la pornografia provoca un danno) può solo ridurre al minimo l’influenza di quelli che rimarranno sempre «fattori esterni». Per di più, la pornografia e il danno potrebbero non essere due eventi determinati; forse la pornografia è un danno. Inoltre, se gli effetti della pornografia sono sistematici, potrebbero non essere isolabili dal sistema entro cui esistono. Questo non vorrebbe dire che non esiste un danno. Piuttosto, vorrebbe dire che essendo così pervasivo il danno non può essere isolato a sufficienza per essere percepito come esistente secondo un modello causale. In altre parole, se la pornografia viene considerata dannosa solo se provoca un danno secondo tale modello, e se la sua esistenza sociale non può essere isolata dalla società stessa, il danno che essa provoca non sarà percepito come esistente. Penso con ciò di avere descritto la situazione concettuale in cui ci troviamo. 54 Morton Horowitz, The Doctrine of Objective Causation, in David Kairys (a cura di), The Politics of Law. A Progressive Critique, New York 1982, p. 201. Il fatto che la reificazione delle donne sia così diffusa è stato considerato come una ragione per cui la tendenza a incentivarla non dovrebbe essere costituzionalmente ostacolata: «La pubblicità nelle nostre migliori riviste è strapiena di cosce, caviglie, polpacci, seni, occhi e capelli al fine di indirizzare l’attenzione del potenziale acquirente su lozioni, abiti, cibo, liquori, vestiti, automobili e addirittura polizze assicurative». Ginzburg v. U.S., 383 U.S. 463, 482 (1966) (giudice Douglas dissenziente). Di conseguenza il giudice Douglas, apparentemente senza accorgersene, ha illustrato il fatto che qualcuno sa che associare il sesso, vale a dire il corpo delle donne, a un oggetto induce le persone ad agire sulla base di quella associazione. 55 Si veda Lovelace e McGrady, Ordeal cit. 56 In New York v. Ferber, 458 U.S. 747 (1982) si è stabilito che la rappresentazione di due bambini che si masturbano, senza che sia mostrata alcuna forma di violenza esplicita, dimostra il danno provocato dalla pedopornografia, mentre in California v. LaRue, 409 U.S. 109, 113 (1972) l’atto di infilare del denaro nella vagina di una donna, insieme a tante altre azioni, solleva serie questioni riguardo alla «regolamentazione di un ‘comportamento’ caratterizzato da un elemento comunicativo» nelle sentenze riguardanti il sesso dal vivo (che può essere regolamentato da uno Stato in connessione con il servizio di bevande alcoliche). Si sa che esistono gli «snuff films», in cui, per produrre un video finalizzato all’intrattenimento sessuale, una donna viene uccisa per davvero. In People v. Douglas and Hernandez, Felo-

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Note

ny Complaint No. NF8300382, Municipal Court, North Judicial District, Orange County, Calif., 5 Agosto 1983, si tratta dell’omicidio di due ragazze giovani, perpetrato al fine di realizzare un film pornografico. Hernandez ha collaborato; Douglas fu condannato in primo grado per omicidio nel novembre del 1984. Il film non fu ritrovato (conversazione con Tony Rackackaus, procuratore distrettuale, il 3 settembre 1986). 57 Sia Griffin, Pornography and Silence cit., sia i processi per oscenità più datati celebrati nel mondo anglosassone collocano il danno provocato dalla pornografia nella mente del fruitore. Si veda, per esempio, Regina v. Hicklin, 3 L.R-Q.B. 360, 371 (1868): «la tendenza [...] a depravare e corrompere coloro le cui menti si aprono a tali influenze immorali e nelle cui mani potrebbe finire una pubblicazione di questo tipo». I dati di John Court e Berl Kutchinsky, in correlazione, raggiungono conclusioni opposte riguardo alla relazione tra la disponibilità della pornografia e la percentuale statistica dei crimini. Kutchinsky, Towards an Explanation of the Decrease in Registered Sex Crimes in Copenhagen, in Technical Report of the Commission on Obscenity and Pornography, vol. 7, Washington 1971, p. 263; Id., The Effect of Easy Availability of Pornography on the Incidence of Sex Crimes: The Danish Experience, in «Journal of Social Issues», 29 (1973), pp. 163 sgg.; cfr. Court, Pornography and Sex Crimes: A Re-Evaluation in the Light of Recent Trends around the World, in «International Journal of Criminology and Penology», 5 (1977), pp. 129 sgg. Ricerche più recenti sulla medesima relazione, incentrate sullo stupro negli Stati Uniti, hanno raggiunto conclusioni ancora diverse. Larry Baron e Murray Straus hanno scoperto una stretta connessione tra le variazioni, tra Stato e Stato, del numero di stupri denunciati e il tasso globale di circolazione delle riviste per uomini, incluse «Playboy» e «Hustler»: si veda il dattiloscritto Sexual Stratification, Pornography, and Rape, Family Research Laboratory and Department of Sociology, University of New Hampshire, Durham, NH, 18 novembre 1983. Gli autori concludono: «i rilevamenti suggeriscono che in una società caratterizzata dal tentativo di garantire alle donne eguali diritti, da un ampio numero di consumatori di riviste pornografiche che rappresentano le donne in modi che potrebbero legittimare la violenza e dall’esistenza di un alto livello di violenza non sessuale, la combinazione di questi elementi implementa il fenomeno dello stupro» (p. 16). Si veda anche il Williams Report e il parere del giudice Harlan in merito al danno alla «società» come base ammissibile per decisioni legislative in questo campo. Roth v. U.S., 354 U.S. 476, 501-502 (1957) (favorevole nel caso associato, Alberts v. California). 58 Laurence Tribe, American Constitutional Law, Mineola 1978, p. 662. 59 Concepisco lo stupro come aggressione sessuale. Sulla relazione tra la pornografia e lo stupro si veda Neil M. Malamuth, Rape Proclivity among Men, in «Journal of Social Issues», 37 (1981), pp. 138 sgg.; Id., Rape Fantasies as a Function of Exposure to Violent Sexual Stimuli, in «Archives of Sexual Behavior», 10 (1981), pp. 33 sgg.; Scott Haber e Seymour Feshbach, Testing Hypotheses Regarding Rape: Exposure to Sexual Violence, Sex Differences, and the ‘Normality’ of Rapists, in «Journal of Research in Personality», 14 (1980), pp. 121 sgg.; Maggie Heim e Seymour Feshbach, Sexual Responsiveness of College Students to Rape Depictions: Inhibitory and Disinhibitory Effects, in «Journal of Personality and Social Psychology», 38 (1980), pp. 399 sgg. Si vedano anche gli studi di Malamuth citati alla n. 9. Naturalmente esistono delle difficoltà nella valutazione dei numeri relativi allo stupro con esperimenti di laboratorio; tali difficoltà hanno indotto i ricercatori a sostituire altre misurazioni della propensione all’aggressione, come le scosse elettriche.

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60 Apparentemente potrebbe essere impossibile realizzare a scopi sperimentali un film, che rappresenta la violenza o l’aggressione da parte di un uomo ai danni di una donna, che un sostanziale numero di soggetti maschi che partecipano all’esperimento non percepisce come sessuale. Si veda Hearings, p. 31 (testimonianza di Edward Donnerstein). 61 Si vedano gli studi di Zillmann citati alla n. 9. 62 Immanuel Kant, La metafisica dei costumi, Bari 1970; Arthur Danto, Persons, in P. Edwards (a cura di), Encyclopedia of Philosophy, vol. 6, New York 1967, pp. 10 sgg.; Margaret Radin, Property and Personhood, in «Stanford Law Review», 34 (1982), pp. 957 sgg. 63 Cfr. Kant, op. cit.; Danto, op. cit.; Radin, op. cit. Si veda anche, per la «posizione originaria», John Rawls, Una teoria della giustizia, Milano 2004 [ed. or. 1971] e Id., Il costruttivismo kantiano nella teoria morale [ed. or. 1980], in Id., Saggi. Dalla giustizia come equità al liberalismo politico, Torino 2001, pp. 64-135 . 64 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino 1967, II, iv, p. 236 [ed. or. 1953]. 65 Per la critica marxiana della società capitalistica si veda specialmente il primo capitolo del Capitale. Libro primo, a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Torino 2009 [ed. or. 1867]. La sua concezione del «feticismo della merce», in cui «il rapporto sociale ben determinato esistente fra gli uomini [...] assume ai loro occhi la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose» (corsivo mio) si trova nel par. 4, «Il carattere feticistico della merce e il suo segreto» [la citazione è a p. 150 della trad. it. indicata]. 66 David Hume, «L’identità personale», in Id., Trattato sulla natura umana [ed. or. 1739-40], lib. I, Parte IV, sez. VI; in Id., Opere filosofiche, vol. I, Roma-Bari 20109, pp. 263 sgg. 67 Bernard Williams, Le persone sono corpi? [ed. or. 1970] e Continuità corporea e identità personale [ed. or. 1960], in Id., Problemi dell’io, Milano 1990 [ed. or. 1973], pp. 79 sgg. e 5 sgg. Bernard Williams è l’autore principale del Williams Report, l’equivalente britannico della U.S. Commission on Obscenity and Pornography, in cui non è stata notata l’assenza, in pornografia, di nessuno dei significati che Williams attribuisce al concetto di «persona», né si è notato che le donne ne fossero private a opera della pornografia. 68 Cfr. Signs I e II. 69 Ho raggiunto questa conclusione in seguito all’analisi di tutti i dati empirici disponibili a oggi, della pornografia medesima e delle osservazioni personali. 70 Si ritiene che Brownmiller, Against Our Will cit., presenti la prospettiva in base a cui lo stupro è un atto di violenza, non di sesso. Women Against Pornography, un gruppo anti-pornografia fondato a New York, ha sostenuto che la pornografia sia violenza contro le donne, non sesso. Questa è stata universalmente considerata la posizione femminista in merito. Per l’indizio di un possibile cambiamento si veda «NCASA News», 4 (maggio 1984), pp. 19-21. 71 Questo, di nuovo, non significa che si tratti di una idea. Sarà necessaria una nuova teoria dell’ideologia, prefigurata in Dworkin, Pornography: Men Possessing Women cit., per concettualizzare il ruolo della pornografia nella costituzione della condizione femminile. 72 Ivi. 73 «Richiamando Macaulay, ‘Jimmy’ Walker ha sottolineato di non aver mai sentito di una donna sedotta da un libro». U.S. v. Roth, 237 F.2d 796, 812 (1956)

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Note

(in appendice al parere favorevole del giudice Frank). Mi aspetto che le femministe possano interpretare come stupro o sesso imposto ciò che classicamente è chiamato seduzione.

Capitolo 5 Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973). Harris v. McRae, 448 U.S. 297 (1980). Non si intende appoggiare la decisione del caso Harris, né proporre l’opportunità di udienze private al fine di stabilire, prima di autorizzare l’aborto, se ci sia stata o meno la coercizione. Né si intende criticare il giudice Blackmun, autore, nel caso Roe, dell’opinione della maggioranza, che indubbiamente considerò la legalizzazione dell’aborto come un modo di aiutare le donne in una situazione disperata, cosa che in effetti è stata. 3 D.H. Regan, Rewriting Roe v. Wade, in «Michigan Law Review», 77 (1979), pp. 1569 sgg., in cui il Buon Samaritano si imbatte nel feto per caso. 4 Dal 1973, dieci Stati, nella giurisdizione dei quali l’aborto era considerato un reato, ammettevano delle eccezioni nei casi di stupro e di incesto; almeno tre di questi dieci ammettevano un’eccezione soltanto nei casi di stupro. Per la gran parte, queste eccezioni si basavano sul Model Penal Code § 230.3 (Proposed Official Draft 1962), citato in Doe v. Bolton, 410 U.S. 179, 205-207, App. B (1973), che autorizzava l’aborto, tra le altre cose, nei casi di «stupro, incesto o altri rapporti sessuali criminosi». I riferimenti agli Stati che ammettono eccezioni per l’incesto e lo stupro si possono trovare in Roe v. Wade, 410 U.S. 113 n. 37 (1973). In alcune versioni dello Hyde Amendment, che proibisce il ricorso a fondi pubblici per finanziare gli aborti, lo stupro e l’incesto sono stati considerati eccezioni. In tutti i casi è necessaria la denuncia immediata. 5 Kristin Luker, Taking Chances: Abortion and the Decision Not to Contracept, Berkeley 1975. 6 Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973). 7 Griswold v. Connecticut, 381 U.S. 479 (1965). 8 Eisenstadt v. Baird, 405 U.S. 438 (1972). 9 Harris v. McRae, 448 U.S. 297 (1980). 10 T. Gerety, Redifining Privacy, in «Harvard Civil Rights – Civil Liberties Law Review», 12 (1977) 2, pp. 223, 236. 11 Kenneth I. Karst, The Freedom of Intimate Association, in «Yale Law Journal», 89 (1980), pp. 624 sgg.; Developments – The Family, in «Harvard Law Review», 93 (1980), pp. 1157 sgg.; Doe v. Commonwealth Atty, 403 F. Supp. 1199 (E.D. Va. 1975), aff’d without opinion, 425 U.S. 901 (1976), ma cfr. People v. Onofre, 51 N.Y.2d 476 (1980); cert. denied 451 U.S. 987 (1981). Alla fine la questione fu allora risolta in Bowers v. Hardwick, 106 S. Ct. 2841 (1986) (il provvedimento legislativo che istituisce il reato di sodomia consensuale non viola il diritto alla privacy). 12 Tom Grey, Eros, Civilization and the Burger Court, in «Law and Contemporary Problems», 43 (1980), pp. 83-100. 13 Susan Sontag, The Third World of Women, in «Partisan Review», 40 (1973), p. 188. 14 Si veda Adrienne Rich, Nato di donna. Cosa significa per gli uomini essere nati da un corpo di donna, Milano 1977 [ed. or. 1976], cap. 3, in particolare p. 62: «Il 1 2

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bambino che porto in grembo per nove mesi non può essere definito né come me né come non-me» [corsivo nell’originale inglese]. 15 Kristin Booth Glen, Abortion in the Courts: A Lay Woman’s Historical Guide to the New Disaster Area, in «Feminist Studies», 4 (1978) 1, pp. 1-26. 16 Judith Jarvis Thomson, Una difesa dell’aborto [ed. or. 1971], in G. Ferranti, S. Maffettone (a cura di), Introduzione alla bioetica, Liguori, Napoli, 1992, pp. 3-24. 17 Andrea Dworkin, Right Wing Women, Perigee, New York-London 1983. Dovete leggere questo libro. Si veda anche Friedrich Engels, che discute la ricollocazione del lavoro domestico privato nell’economia sociale in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884). 18 H.L. v. Matheson, 450 U.S. 398 (1981); Bellotti v. Baird, 443 U.S. 622 (1979); ma cfr. Planned Parenthood of Central Missouri v. Danforth, 428 U.S. 52 (1976). Si veda anche Harris v. McRae, 448 U.S. 297 (1980). Tentativi di revocare il diritto all’aborto sono stati respinti, seppure non in via definitiva, in Akron v. Akron Center for Reproduction Rights, Inc., 462 U.S. 416 (983) e Thornburgh v. American College of Obstetricians and Gynecologists, 106 S. Ct. 2169 (1986). 19 Si veda Dworkin, Right Wing Women cit., pp. 98-99. 20 S. Warren e L. Brandeis, The Right to Privacy, in «Harvard Law Review», 5 (1890), p. 205; ma si noti che sotto la giurisdizione costituzionale di alcuni Stati il diritto alla privacy è stato considerato inclusivo dei finanziamenti per gli aborti: Committee to Defend Reproductive Rights v. Meyers, 29 Cal. 3d 252 (1981); Moe v. Secretary of Admin. and Finance, 417 N. E. 2d 387 (Mass. 1981). 21 Come mi ha detto una volta Andrea Dworkin, le donne possono identificarsi con il feto non solo perché ciò che accade al feto accade anche a loro, ma anche perché il feto, come loro, non ha alcun potere ed è invisibile. Le vicissitudini della legge e delle politiche sull’aborto hanno efficacemente espresso questa comunanza nella misura in cui hanno preteso di annullarla. Il presente lavoro rappresenta un iniziale tentativo di reimpostare la questione dell’aborto sulla base di un nuovo approccio giuridico e di una nuova strategia politica: l’eguaglianza sessuale. L’esame degli atti di questi due processi rivela, ad eccezione di una memoria di parte, un piccolo tentativo di affermare che l’azione governativa contro gli aborti costituisca una pratica di discriminazione sessuale. Nel caso Roe v. Wade, l’atto di citazione in giudizio riguardava la negazione dell’Eguale protezione delle leggi, First Amended Complaint CA-3-3690-B (N. D. Tex., Apr. 22, 1970) IV, 5. Ma la diseguaglianza inizialmente denunciata non fu riconosciuta, durante lo svolgimento del processo, come diseguaglianza sessuale e il dibattimento in aula, nel giudizio di primo grado, sembra essersi prevalentemente concentrato sulla questione del diritto alla privacy. «A parte gli argomenti in merito all’indeterminatezza del Nono emendamento, i ricorrenti hanno prodotto una serie di argomenti costituzionali. Comunque, come i ricorrenti hanno ammesso in sede di dibattimento, tali argomenti aggiuntivi sono marginali rispetto alle questioni principali. Conseguentemente, non saranno ammessi». Opinione della Corte distrettuale, Civil Action No. CA3-3690-B e 3-3691-C (17 giugno 1970) 116 n. 7 (corsivo mio). Alla Corte Suprema degli Stati Uniti, il Center for Constitutional Rights ha presentato una memoria in cui si afferma che le legislazioni, come quelle del Texas e della Georgia, che istituiscono il reato di aborto «violano i più elementari diritti costituzionali delle donne». «È la donna a sopportare in misura sproporzionata il peso dei fardelli de jure e de facto e delle difficoltà della gravidanza, della nascita e dell’educazione dei figli. Per questa ragione, qualsiasi legislazione che neghi alla donna il diritto di

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decidere se sopportare questi pesi le nega l’eguale protezione delle leggi». Memoria Amicus Curiae per conto di New Women Lawyers, Women’s Health and Abortion Project, Inc., National Abortion Action Coalition 6 (2 agosto 1971). Comunque, nella memoria si presuppone che il sesso sia eguale e volontario, mentre la gravidanza no: «L’uomo e la donna hanno un’eguale responsabilità per quanto riguarda il compimento del rapporto sessuale. In ogni caso, se dovesse accidentalmente rimanere incinta, contro la propria volontà, la donna ne sopporterebbe in molti casi l’intero fardello o ‘pena’» (ivi, p. 26). «E non è sufficiente dire che la donna ‘ha scelto’ di avere un rapporto sessuale, nella misura in cui non ha scelto di rimanere incinta» (ivi, p. 31). Nella memoria presentata alla Corte Suprema per la Planned Parenthood da parte di Harriet Pilpel, ora consigliere generale della American Civil Liberties Union, si affermava amicus curiae che la medesima privacy che tutelava il possesso di materiale pornografico nell’ambiente domestico dovrebbe tutelare il diritto di abortire. Con ciò Pilpel suggeriva che l’aborto potrebbe, di fatto, essere una questione legata alla sessualità: «Per molta parte, il campo dell’attività individuale privata nella sfera del matrimonio, della famiglia e del sesso è dunque stata protetta dall’ingerenza dello Stato. Il diritto di procreare, definito dalla Corte come ‘uno dei fondamentali diritti civili dell’uomo’ ha indotto la Corte a invalidare, perché in violazione dell’eguale protezione, una legge dell’Oklahoma che imponeva la sterilizzazione alle persone condannate due o più volte per furto, mentre lo stesso trattamento non era riservato ai condannati per appropriazione indebita [...]. Analogamente, il diritto di sposarsi, il diritto di occuparsi dell’educazione dei propri figli, il diritto di possedere materiale pornografico nella privacy del proprio ambiente domestico, sono tutti stati dichiarati diritti fondamentali costituzionalmente sanciti». Memoria per la Planned Parenthood Federation of America, Inc. e la American Association of Planned Parenthood Physicians come Amici Curiae, 15 settembre 1972, p. 33. In altre corpose memorie si è sostenuto che le legislazioni che istituiscono il reato di aborto discriminano le donne povere e non bianche – mai le donne e basta. In una memoria presentata dalle Women for the Unborn et al. a favore degli oppositori del diritto di aborto, si sostiene che la categoria dei non nati meriti eguale protezione. Così, i difensori del diritto all’aborto non sono riusciti a rivendicare l’eguaglianza per le donne – tranne che in quell’unica memoria di parte in cui si difendevano i diritti delle donne e l’eguale protezione, che veniva però basata sulla diseguaglianza non sessuale, ma di genere – mentre gli oppositori del diritto all’aborto hanno rivendicato l’eguaglianza per feti. Nell’atto di citazione in giudizio del caso Harris v. McRae si denunciava la discriminazione «sulla base della povertà, della razza e dello stato di minorità, che svantaggia e punisce il gruppo di donne ricorrenti in violazione del giusto processo [due process of law] e dell’eguale protezione». Plaintiffs’ and Proposed Intervenors’ Amended Complaint, McRae v. Califano, 74 Civ. 1804 (JFD), 5 gennaio 1977, par. 74. Nessun accenno alla discriminazione sulla base del sesso. In una sola memoria si denuncia la discriminazione sessuale, ma non per affermare l’argomento giuridico per cui il mancato finanziamento degli aborti, un’azione governativa che colpisce solo le donne, è discriminazione sessuale; piuttosto, si afferma che poiché le donne sono socialmente discriminate sulla base del sesso, negare loro la possibilità di abortire significa caricarle di un peso aggiuntivo: «la difficile situazione delle donne indigenti cui si nega la possibilità di accedere ad aborti medicalmente necessari è esacerbata dalla discriminazione sessuale pervasiva che colpisce specialmente le

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donne povere». Memoria Amici Curiae per NOW et al., No. 79-1268 (presentata alla Corte Suprema degli Stati Uniti il 18 marzo 1980), 44. Nel complesso, per difendere il diritto all’aborto si è fatto ricorso a pressoché tutti i tipi di discriminazione sociale a danno delle donne e operati su basi diverse dal sesso e a pressoché tutti i tipi di discriminazione illegale a danno delle donne e operati su basi diverse dal genere. Con la parziale eccezione della memoria CCR – uno sforzo reso sia audace, sia debole dal fatto che la discriminazione sessuale come dottrina costituzionale è stata riconosciuta da pochissimo – gli attacchi all’aborto non sono mai stati giuridicamente affrontati come semplice discriminazione sessuale.

Capitolo 6 1 Il primo caso in cui si è sostenuto questo fu Williams v. Saxbe, 413 F. Supp. 654 (D.D.C. 1976), seguito da Barnes v. Costl, 561 F.2d 983 (D.C. Cir. 1977). 2 Alexander v. Yale University, 459 F. Supp. 1 (D. Conn. 1977), aff’d, 631 F.2d 178 (2d Cir. 1980). 3 Rabidue v. Osceola Refining, 584 F. Supp. 419, 427 n. 29 (E.D. Mich. 1984). 4 Per quanto riguarda i bianchi e i neri, la National Commission on the Causes and Prevention of Violence riscontra che il 90 per cento degli stupri siano intrarazziali: Final Report of the National Commission on the Causes and Prevention of Violence, Washington 1969, p. 210. Menachim Amir, Patterns in Forcible Rape, Chicago 1971 riscontra un 95 per cento (p. 44). Si veda anche Diana E.H. Russell, Sexual Exploitation: Rape, Child Sexual Abuse, and Workplace Harassment, Beverly Hills 1984, pp. 90-93. Lo stupratore è un estraneo nel 55 per cento degli stupri e dei tentati stupri denunciati alla polizia, ma solo nel 17 per cento dei casi totali. Per quanto riguarda il numero complessivo di stupri e di tentati stupri, nel 26 per cento dei casi avvengono a opera di conoscenti, nel 18 per cento in occasione di un appuntamento, nel 5 per cento a opera dei fidanzati, nel 3 per cento a opera di amici di famiglia, nell’8 per cento a opera di superiori sul lavoro, nel 9 per cento a opera di amanti o ex amanti, nel 9 per cento a opera di amici della vittima, nel 5 per cento a opera di parenti (non mariti). Si veda Russell, Sexual Exploitation cit., pp. 96-97. Di tutte le donne che sono state sposate, il 14 per cento afferma di avere subìto uno stupro da parte del marito. Dei casi di stupro riportati nello studio di Russell, il 38 per cento era coniugale e il 10 per cento degli stupratori erano i mariti delle vittime. Diana E.H. Russell, Rape in Marriage, Bloomington 1982, pp. 66-77. 5 Patricia A. Mathis, Ruth T. Prokop, Sexual Harassment in the Federal Workplace: Is It a Problem? A Report of the U.S. Merit Systems Protection Board, Office of Merit Systems Review and Studies, Washington 1981. 6 Frank J. Till, Sexual Harassment: A Report on the Sexual Harassment of Students, Washington 1980 (National Advisory Council on Women’s Education Programs, Department of Education); Sidney Verba, Joseph DiNunzio e Christina Spaulding, Radcliffe Union of Students, Unwanted attention. Report on Sexual Harassment Survey [Report to the Faculty Council of the Faculty of Arts and Sciences], Harvard University 1984, pp. 20-29: il 32 per cento del corpo insegnante femminile di ruolo, il 49 per cento del corpo insegnante femminile non di ruolo, il 42 per cento delle studentesse laureate e il 34 per cento delle studentesse non

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laureate riferisce di un qualche episodio di molestie sessuali da parte di una persona che aveva autorità su di loro; un quinto delle donne non laureate riferisce di essere stata costretta a un rapporto sessuale non volontario a un certo punto della vita. Il Sexual Harassment Survey Committee, in A Survey of Sexual Harassment at Ucla, Los Angeles 1985, rileva che l’11 per cento del corpo insegnate femminile (86 persone), il 7 per cento del personale di servizio femminile (650) e il 7 per cento delle studentesse (933) dichiara di avere subìto molestie sessuali all’interno dell’Ucla. 7 Se un superiore molesta sessualmente una subordinata, la compagnia e il supervisore sono responsabili qualora la vittima possa dimostrare che il fatto si è verificato (29 C.F.R. 1604.11c). Nel caso di colleghi, se si può dimostrare che il datore di lavoro era o sarebbe dovuto essere a conoscenza del fatto, lo stesso datore di lavoro può essere ritenuto responsabile. Le molestie sessuali da parte di clienti o di terzi si decidono a seconda dei fatti specifici (cfr. 29 C.F.R. 1604.11e). 8 Il requisito dell’EEOC che prescrive che, nel caso di molestie sessuali tra colleghi, il datore di lavoro ne riceva notizia induce a credere che questo punto non sia stato compreso (29 C.F.R. 1604.11e). Una spiegazione plausibile per una regola del genere, a ogni modo, è che la situazione in cui vengono a trovarsi i colleghi non diventa gerarchica, e dunque perseguibile come discriminazione sul lavoro, finché non è riportata alla gerarchia del posto di lavoro e condonata attraverso un’azione o non-azione opposta. In un caso da inferiore a superiore (Molfett v. Gene), il personale fu accusato di aver molestato una donna manager a causa di una relazione interraziale. Un esempio di caso, mancante di «prova positiva», in cui era coinvolta una terza parte riguardava un’infermiera che aveva intentato una causa per discriminazione sessuale tentando di dimostrare che le era stata negata una promozione che era invece stata accordata a un’infermiera meno qualificata perché quest’ultima aveva avuto un rapporto sessuale con il medico che l’aveva promossa (King v. Palmer, 598 F. Supp. 65, 69 D.D.C. 1984). È ovvia la difficoltà di provare «un esplicito rapporto sessuale tra [querelante] e [imputato], ciascuno dei quali neghi recisamente che esista o che abbia mai avuto luogo». 9 Catharine A. MacKinnon, Sexual Harassment of Working Women: A Case of Sex Discrimination, New Haven 1979, p. 203. 10 Tuttavia, nel caso Vinson v. Taylor, chi si opponeva al rifiuto di rivedere il caso in seduta plenaria tentò di ripristinarla. 11 Scott c. Sears & Roebuck, 605 F. Supp. 1047, 1051, 1055 (N.D. Ill. 1985). 12 Coley v. Consolidated Rail, 561 F. Supp. 647, 648 (1982). 13 Meritor Savings Bank, FSB v. Vinson, 106 S. Ct. 2399 (1986); Horn v. Duke Homes, 755 F.2d 599 (7th Cir. 1985); Crimm v. Missouri Pacific R.R. Co., 750 F.2d 703 (8th Cir. 1984); Simmons v. Lyons, 746 F.2d 265 (5th Cir. 1984); Craig v. Y & Y Snacks, 721 F.2d 77 (3d Cir. 1983); Katz v. Dole, 709 F.2d 251 (4th Cir. 1983); Miller v. Bank of America, 600 F.2d 211 (9th Cir. 1979); Tomkins v. Public Service Electric & Gas Co., 568 F.2d 1044 (3d Cir. 1977); Bares v. Costle, 561 F.2d 983 (D.C. Cir. 1977); Bundy v. Jackson, 641 F.2d 934 (D.C. Cir. 1981); Henson v. City of Dundee, 682 F.2d 897 (11th Cir. 1982) (le molestie sessuali, che si tratti di un qui pro quo o di una condizione di lavoro, sono considerate discriminazione sessuale sotto il Titolo VII). La corte, nel caso Rabidue v. Osceola Refining, fu particolarmente esplicita in merito al radicamento delle molestie sessuali nel testo del Titolo VII. Woerner v. Brzeczek, 519 F. Supp. 517 (E.D. Ill. 1981) esemplifica la stessa visione sotto la clausola dell’eguale protezione. Inoltre, si è visto che il genere può costituire una categoria per intentare una causa [42 U.S.C. § 1985(3)]

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se l’offesa è coperta dal Quattordicesimo emendamento. Un’ulteriore questione è stata se le molestie sessuali siano una forma di discriminazione intenzionale. Le corti sono rimaste indifferenti di fronte a linee di difesa basate sulle intenzioni, del tipo: l’ha fatto, è vero, ma «era il suo modo di comunicare». Oppure: sì, ho fatto tutte queste cose, ma sono solo uno che si lascia trasportare. Si dice che il professor Sid Peck, in relazione all’azione intentata contro di lui da Ximena Bunster e altre donne della Clark University, abbia affermato che scambiava baci e abbracci come forme di saluto e come modo per stabilire un rapporto di sicurezza e di parità: «Worcester Magazine», 3 dicembre 1980, p. 3; «Boston Phoenix», 24 febbraio 1981, p. 6. Ma si veda anche il caso Norton v. Vartanian, in cui il giudice Zobel ritiene, fra le altre cose, che le proposte non abbiano mai avuto un chiaro intento sessuale e che dunque non abbia mai avuto luogo nessuna molestia. La visione implicita, credo, è che l’intenzione di chi molesta sia irrilevante rispetto al danno arrecato, che finché le accuse rispondono ad altri requisiti, non è necessario che gli approcci sessuali siano intenzionalmente discriminatori o addirittura siano legati al sesso per costituire discriminazione sessuale. In Katz v. Dole si sostiene che dimostrare un «abuso sessuale verbale prolungato» è sufficiente per provare «la natura intenzionale delle molestie». Per come la intendo io, questo significa che finché le molestie non sono credibilmente involontarie, azioni del genere sono palesemente discriminatorie. L’intenzionalità si inferisce dalle azioni; le stesse azioni, ripetute dopo chiare espressioni di avversione e rifiuto, rivelano l’effettiva disposizione mentale. In breve, le azioni possono non essere intenzionalmente discriminatorie e costituire egualmente una discriminazione sessuale. La conclusione sembra essere che le accuse di molestie sessuali sono trattate essenzialmente come aperta discriminazione. 14 Zabkowicz v. West Bend Co., 589 F. Supp. 780, 782-83 (E.D. Wisc. 1984). 15 589 F. Supp., 784. 16 Henson v. City of Dundee, 29 FEP Cases 787, 793 (11th Cir. 1983). In Huebschen v. Dept. of Health, 32 FEP Cases 1582 (7th Cir. 1983), i fatti furono ritenuti non legati al genere sulla base di un ragionamento dubbio sul piano dottrinale. Un uomo dimostrò di aver subìto molestie sessuali da parte della sua superiore. L’esito fu annullato in parte sulla base del fatto che non si trattava di una rivendicazione di genere valida. Di fatto, la corte dichiarò che il caso non era legato al sesso perché si trattava di un fatto personale. Ricordo questa argomentazione: gli eventi erano personali, non legati al genere, perché non era sorto alcun problema di occupazione finché la relazione non aveva cominciato a vacillare. A mio parere, se l’imputato è un superiore in senso gerarchico e il querelante è stato danneggiato nell’impiego per ragioni di pressione sessuale da parte del superiore, in particolar modo se si tratta di un uomo e di una donna, ci sono le basi per intentare una causa. Un conto è riconoscere che gli uomini come genere hanno un potere maggiore nelle relazioni sessuali, in modi che possono trascendere le gerarchie d’impiego. Ma la corte non ha detto questo. Si sarebbe potuto trattare, stando ai fatti, di una relazione finita male, a prescindere dal genere di coloro che vi erano coinvolti. Ma i fatti, durante il processo, non sono stati ricostruiti così. La Corte d’appello ha avanzato l’ipotesi che il querelante fosse stato colpito in quanto individuo, non in quanto uomo, perché la situazione di impiego ha funzionato finché ha funzionato la relazione sessuale, cioè finché non ha smesso di funzionare. Dopo ciò, a causa di ciò, l’uomo è stato licenziato. Forse gli uomini rimangono sempre individui, anche quando le donne si servono del loro lavoro per vendicarsi dei loro rifiuti. Ma, sul piano dottrinale, non capisco perché questo trattamento non costituisca materia

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per intentare una causa basata sul genere. Se non la costituisce, ciò sembra permettere che le opportunità di impiego siano condizionate dall’esistenza continuata di una relazione sessuale indesiderata, laddove non si permetterebbe mai che tali opportunità fossero condizionate dall’esistenza iniziale di una relazione sessuale. È accaduto che le donne siano state considerate appartenenti al genere femminile in quanto persone: «Walter Scott riconosce che ‘era attratto da lei come donna, su una base personale. La sua femminilità era materia d’attrazione’», Estate of Scott v. deLeon, 37 FEP Cases 563, 566 (1985). 17 Barnes v. Costle è il caso classico. Tutti i casi citati alla n. 13 sono casi di qui pro quo, a eccezione del caso Vinson, del caso Katz, del caso Bundy e del caso Henson. Da notare che la distinzione rappresenta in effetti i due poli di un continuum. Un esempio più costruttivo è offerto dal caso di una donna che lascia il lavoro perché costantemente molestata sessualmente, in una situazione ambientale che diventa un qui pro quo. 18 Nel caso Vinson v. Taylor, 23 FEP Cases 37 (D.D.C. 1980), la querelante accusò il supervisore di averla costretta ad avere un rapporto sessuale; la corte stabilì che «se la querelante e Taylor hanno intrapreso una relazione intima o sessuale [ciò] è stato volontario da parte della querelante»; p. 42. Vinson ha ottenuto il diritto a un nuovo processo per molestie ambientali. Si veda anche Cummings v. Walsh Construction Co., in cui la vittima ha accusato lo stupratore di aver consumato un rapporto sessuale, e Micari v. Mann, in cui le studentesse hanno accusato il professore di averle costrette ad avere rapporti sessuali come parte delle prove di recitazione: vinsero e ottennero un risarcimento. 19 Vinson v. Taylor, 753 F.2d 141 (D.C. Cir. 1985), aff’d 106 S. Ct. 2399 (1983). 20 Micari v. Mann, 481 N.Y.S.2d 967 (Sup. Ct. 1984). 21 Cummings v. Walsh Construction Co., 31 FEP Cases 930, 938 (S.D. Ga. 1983). 22 Le sentenze dei casi Bundy v. Jackson e Hanson v. City of Dundee hanno riconosciuto le molestie sessuali ambientali come istanza di rivendicazione giuridica. Tanto la rivendicazione quanto la credibilità della querelante nell’affermarla, poiché aveva subìto abusi per molto tempo, furono sollevate nel caso Vinson v. Taylor di fronte alla Corte Suprema. 23 Huebschen v. Department of Health, 547 F. Supp. 1168 (W.D. Wisc. 1982). 24 Heelan v. Johns-Manville, 451 F. Supp. 1382 (D. Colo. 1978). Si veda anche Sensibello v. Globe Security Systems, 34 FEP Cases 1357 (E.D. Pa. 1964). 25 Katz v. Dole, 709 F.2d 251, 254 n.3 (4th Cir. 1983): «l’attività sessuale privata di una persona non costituisce una deroga al suo diritto alla protezione legale nei confronti di molestie sessuali indesiderate e non sollecitate». 26 Ho discusso questo caso con un procuratore in una conversazione privata. 27 Gan v. Kepro Circuit Systems, 28 FEP Cases 639, 641 (E.D. Mo. 1982). Si veda anche Reichman v. Bureau of Affermative Action, 536 F. Supp. 1149, 1177 (M.D. Penn. 1982). 28 Morgan v. Hertz Corp., 542 F. Supp. 123, 128 (W.D. Tenn. 1981). 29 EEOC v. Sage Realty, 507 F. Supp. 599 (S.D.N.Y. 1981). 30 Pryor v. U.S. Gypsum Co., 585 F. Supp. 311, 316 n. 3. (W.D. Mo. 1984). La questione era se queste offese fossero risarcibili dall’indennità di lavoro. L’implicazione è che le donne che lavorano nel campo dell’intrattenimento per adulti potrebbero essere coperte dalla legge che regola le indennità anche per le molestie sessuali sul lavoro.

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EEOC Decision 82-13, 29 FEP Cases 1855 (1982). Commission Decision 83-1, EEOC Decisions (CCH) 6834 (1983). 33 Koster v. Chase Manhattan, 93 F.R. D. 471 (S.D.N.Y. 1982). 34 Priest v. Rotary, 32 FEP Cases 1065 (N.D. Cal. 1983) è conforme agli atti congressuali concernenti i processi penali contro lo stupro (le prove riguardanti le attività sessuali consensuali precedenti, con persone diverse dall’imputato, sono inammissibili nei casi di stupro) e con gli sviluppi nei casi di processi civili per stupro. Fults v. Superior Court, 88 Cal. App. 3d 899 (1979). 35 Vinson v. Superior Court, Calif. Sup. SF 24932 (annullamento garantito, settembre 1985). 36 Un’ulteriore possibilità – più una fantasia politica che una possibilità pratica – potrebbe essere di sostenere che se l’intera vita della querelante viene aperta all’indagine, altrettanto dovrebbe accadere per la vita dell’imputato: tutti gli stupri, i palpeggiamenti alla sorella, la frequentazione di prostitute, gli scherzi volgari, l’uso della pornografia, le fantasie masturbatorie, le esperienze omosessuali adolescenziali, i feticismi e così via. 37 Si vedano, ad esempio, U.S. v. Kasto, 584 F.2d 268, 271-72 (8th Cir. 1978), ricorso respinto, 440 U.S. 930 (1979); State v. Bernier, 491 A.2d 1000, 1004 (R.I. 1985). 38 Un’altra ragione per cui le donne non sporgono denuncia è la paura di essere a loro volta querelate. Il rapporto tra le molestie sessuali e la diffamazione è attualmente incerto su molti fronti. Per esempio, cfr. Walzer v. Gibson, 604 F. Supp. 916 (N.D. Ill. 1985) (non è sostenibile un’azione per violazione del Primo emendamento contro l’esercito-datore di lavoro per un’udienza in relazione a un’accusa ingiustificata di molestie sessuali); Spisak v. McDole, 472 N.E.2d 347 (Ohio, 1984) (una querela per diffamazione si può aggiungere a una denuncia per molestie sessuali); Equal Employment Opportunity Commission v. Levi Strauss & Co., 515 F. Supp. 640 (N.D. Ill. 1981) (un’azione per diffamazione condotta apparentemente in risposta a un’accusa di molestie sessuali sostenuta da una dipendente non rappresenta necessariamente una ritorsione, se condotta in buona fede per salvaguardare la propria reputazione); Arenas v. Ladish Co., 619 F. Supp. 1304 (E.D. Wisc. 1985) (nei casi di molestie sessuali, è possibile portare avanti una querela per diffamazione in presenza di altri, senza impedimenti causati dalle disposizioni di esclusività della legge per l’indennità dei lavoratori); Ross v. Comsat, 34 FEP Cases 261 (D. Md. 1984) (un uomo cita la compagnia per ritorsione a discarico in seguito alla sua querela nei confronti di una donna della compagnia per molestie sessuali). Le istituzioni educative sono state citate per aver agito, quando, in seguito a un’indagine, le accuse si sono rivelate fondate. Barnes v. Oody, 28 FEP Cases 816 (E.D. Tenn. 1981) (un giudizio sommario ha consentito che l’appoggio accordato dai giurati a una donna che aveva intentato una causa per molestie sessuali sospendesse collateralmente l’azione intentata dall’imputato per molestie sessuali; l’esenzione si applica alle dichiarazioni nell’indagine ufficiale). Nonostante sia molto più difficile dimostrare che c’è stata diffamazione piuttosto che difendersi da un’accusa di molestie sessuali, la minaccia di controquerela ha costituito un’intimidazione per molte vittime. 39 Rabidue v. Osceola Refining, 584 F. Supp. 423 (E.D. Mich. 1984). 40 Cobb v. Dufresne-Henry, 603 F. Supp. 1048, 1050 (D. Vt. 1985). 41 McNabb v. Cub Foods, 352 N.W. 2d 378, 381 (Minn. 1984). 42 Morgan v. Hertz Corp., 27 FEP Cases, p. 994. 31 32

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Note

Seratis v. Lane, 30 FEP 423, 425 (Cal. Super. 1980). Rabidue v. Osceola Refining, 584 F. Supp. 419, 435 (E.D. Mich. 1984). La questione diventò se il trattamento fosse legato al sesso. Da notare che la querelante non ha detto di essere stata offesa, ma discriminata. 45 Le studentesse del M.I.T. sporsero una denuncia per molestie sessuali che fu respinta per mancanza di competenza giurisdizionale. Baker v. M.I.T., U.S. Dept. Education Office of Civil Rights #01-85-2013 (20 settembre 1985). 46 In particolare se si considera il contributo formativo che le lotte contro la stigmatizzazione razziale e religiosa, la persecuzione e la violenza hanno portato al movimento delle donne, è incoraggiante la notizia che un ebreo e un nero abbiano vinto una causa per molestie rispettivamente religiose e razziali sulla base di casi di molestie sessuali: Weiss v. U.S., 595 F. Supp. 1050 (E.D. Va. 1984) (modelli di comportamento verbale ingiurioso di tipo antisemita, perseguibili sulla base di Katz e Henson); Taylor v. Jones, 653 F.2d 1193, 1199 (8th Cir. 1981) (il caso Bundy è stato citato come base per la perseguibilità delle molestie razziali ambientali sotto il Titolo VII). 43 44

Capitolo 7 1 Andrea Dworkin, The Unremembered: Searching for Women at the Holocaust Memorial Museum, in «Ms. Magazine», V (1994) 3, pp. 52-58, cit. a p. 54. 2 Prosecutor v. Kupreškic´ et al., No. IT-95-16-T, Judgment (trascrizione di un parere orale del giudice Antonio Cassese, Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia [in seguito citato come TPIJ], 14 gennaio 2000), che cita le parole di una donna musulmana della Bosnia-Erzegovina, riportate da un testimone al processo. Il giudice Cassese usa questa citazione per dimostrare la persecuzione, non il genocidio, dato che il fine degli atti era l’espulsione e non lo sterminio. Dal mio punto di vista, l’espulsione forzata può essere un atto di genocidio e gli atti descritti possono essere atti di genocidio. Su questo punto, si veda Order of Provisional Measures Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide (Bosnia and Herzegovina v. Serbia and Montenegro), 1993, I.C.J. 3, par. 69 del parere separato del giudice Lauterpacht (13 settembre 1993) [in seguito citato come Bosnia and Herzegovina v. Yugoslavia]. 3 In generale, si veda United Nations Commission of Experts for the Former Yugoslavia, Final Report of the Commission of Experts Established Pursuant to Security Council Resolution 780 (1992) e relative appendici, preparate dal professor M. Cherif Bassiouni e dal personale del DePaul Univerisity College of Law e dal suo International Human Rights Law Institute (IHRLI) di Chicago (citato in seguito come Rapporto Bassiouni [reperibile sul sito internet http://www.law.depaul.edu/ centers_institutes/ihrli/publications/yugoslavia.asp]). 4 Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, 9 dicembre 1948, 78, U.N.T.S. 277 (citata in seguito come Convenzione sul genocidio). L’art. II definisce il genocidio come «ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale: (a) uccisione di membri del gruppo; (b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; (c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; (d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;

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(e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro» [la citazione è tratta dal testo in italiano, reperibile ad esempio sul sito http://www.conflittidimenticati. it/cd/docs/1220.pdf]. 5 Come affermato dal giudice Lauterpacht della Corte internazionale di giustizia, atti di «‘pulizia etnica’ [sono] difficili da considerare come qualcosa di diverso da atti di genocidio». Bosnia and Herzegovina v. Yugoslavia, par. 69. 6 Le fonti per il resoconto contenuto nei paragrafi precedenti sono i miei clienti in Kadic v. Karadžic´, 70, F.3d 232 (2d Cir. 1996). Altri resoconti in prima persona sono forniti in Saeda Vranic, Breaking the Wall of Silence: The Voices of Raped Bosnia, Zagreb 1996; Alexandra Stiglmayer, Massenvergewaltigung: Krieg gegen die Frauen, Freiburg 1996. Alcuni dei fatti sopra menzionati sono stati perseguiti con successo dal TPIJ, specialmente nel caso Focˇa. In generale, si veda Prosecutor v. Kunarac, Case No. IT-96-23/1T and IT-96-23/1T, Judgment (22 febbraio 2001), che riconosce questi stupri come riduzione in schiavitù, ma non come atti di genocidio. 7 Si veda il Rapporto Bassiouni. Per dati statistici sulle uccisioni, si veda Annexes V, parr. I e V; Annexes VI parr. I C e I D; Annexes X, par. II. Per un riassunto dei dati statistici sulle violenze sessuali, si veda Annex IX, par. I A: «1. Ci sono approssimativamente 1100 casi di stupro e violenze sessuali riportati; 2. Di circa 800 vittime si conosce il nome, o la fonte che le cita sembra conoscere l’identità della vittima, ma non la rivela; 3. Si fa riferimento specifico a circa 1800 vittime delle quali non si conosce il nome o che non sono state identificate in modo sufficiente dai testimoni che riferiscono il fatto; 4. I resoconti dei testimoni fanno riferimento ad altre numerose vittime per approssimazione. Questi resoconti suggeriscono che ci possano essere circa 10.000 ulteriori vittime alle quali, alla fine, i referti potrebbero condurre; 5. Circa 550 dei casi riportati fanno riferimento a vittime di stupro e di violenza sessuale ma non sono specificate e non danno alcuna informazione per identificarle [...]. Questi rilievi statistici potrebbero non rappresentare la vera dimensione di ciò che è avvenuto nella ex-Jugoslavia». 8 Si veda Mladen Lonçar, Sexual Torture of Men in the War, in Libby Tata Arcel (a cura di), War Violence, Trauma and the Coping Process: Armed Conflict in Europe and the Survivor Response, Copenhagen 1988, pp. 212 sgg. I testicoli di un uomo furono strappati a morsi come tortura pubblica nel campo di Omarska. Si veda Prosecutor v. Tadic´, No. IT-94-1, Opinion and Judgment, par. 2006 (TPIJ, 7 maggio 1997). 9 Si veda Catharine A. MacKinnon, Turning Rape into Pornography: Postmodern Genocide, in Ead., Are Women Human? And Other International Dialogues, Cambridge, Mass. 2006, pp. 160-168, che documenta la produzione del filmato dello stupro di una donna musulmana da parte delle forze serbe. 10 Ivi. 11 Si veda Kadic v. Karadžic´; Prosecutor v. Miloševic´, No. IT-01-51-I Indictment, par. 32 (22 novembre 2001). Sul più ampio contesto del genocidio bosniaco, si veda Norman Cigar, Genocide in Bosnia: The Policy of Ethnic Cleansing, College Station 1995; Philip Cohen, Serbia’s Secret War: Propaganda and the Deceit of History, College Station 1996. 12 Per uno sbalorditivo studio psicanalitico sui Freikorps, un esercito privato attivo in Germania tra le due guerre, che connette l’ascesa del fascismo con la misoginia sessuale, si veda Klaus Theweleit, Male Fantasies, I: Women, Floods, Bodies, History, Minneapolis 1987 [ed. or. 1977]. 13 Joan Ringelheim ha osservato in modo perspicace che nelle sue interviste

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con donne ebree sopravvissute alla Shoah, «sebbene ci siano molte storie di abuso sessuale, non sono facili da ottenere. Alcune ritengono inappropriato parlare di queste questioni; discussioni rispetto alla sessualità profanano la memoria dei morti, o i viventi, o la stessa Shoah. Per altre, è semplicemente troppo difficile e doloroso. Altre pensano possa essere una questione banale. Una sopravvissuta mi ha detto che un certo numero di gentili avevano abusato di lei mentre si nascondeva e aveva circa undici anni. Il suo commento riguardo a questo è stato che ‘non era importante [...] tranne che per me’. Intendeva dire che non aveva rilevanza nella più ampia immagine della Shoah». Joan Ringelheim, Women and the Holocaust: A Reconsideration of Research, in «Signs: Journal of Women in Culture and Society», X (1985) 4, p. 745. Rispetto al significato sociale della dimensione sessuale, vale la pena di riflettere sul fatto che individui che riescono a descrivere migliaia di persone uccise in un solo giorno di fronte a loro, ritengano una profanazione della memoria parlare dei bordelli, o che quelle che riescono a raccontare delle loro famiglie che cadono sopra di loro in una fossa dopo essere state colpite, trovino troppo doloroso raccontare di essere state stuprate. Ringelheim riporta che, a una conferenza che prevedeva sessioni su una miriade di dettagli della Shoah, quando ha chiesto spiegazioni circa l’assenza di un singolo accenno alle donne o al genere, gli organizzatori presso l’Holocaust Memorial Museum hanno detto: «Ce ne siamo dimenticati». Joan Ringelheim, The Split Between Gender and the Holocaust, in Lenore J. Weitzman e Dalia Ofer (a cura di), Women in the Holocaust, New HavenLondon 1998, p. 346. 14 Dagmar Herzog, Hubris and Hypocrisy, Incitement and Disavowal: Sexuality and German Fascism, in «Journal of the History of Sexuality», XI (2002) 1-2, p. 6. 15 Trial of the Major War Criminals Before the International Military Tribunal, Nuremberg 1947-1949, vol. XXII, p. 547, che riporta le conclusioni della corte alla sentenza. 16 Per queste pubblicazioni, Streicher fu accusato di incitamento all’omicidio e allo sterminio, una forma di persecuzione su base politica e razziale, un crimine contro l’umanità, e giustiziato. Trial of the Major War Criminals cit., vol. XXII, p. 549, che riconosce Streicher colpevole di un capo d’accusa; e vol. I, 365, che lo condanna a morte. 17 George Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino 1997, p. 229 [ed. or. 1996]. 18 Gesetz zum Schutze des deutschen Blutes und der deutschen Ehre, 1935 Reichsgesetzblatt, Teil 1, 1146. Questa clausola proibisce «i matrimoni tra ebrei e cittadini tedeschi di sangue tedesco o affine» (art. 1) e «le relazioni sessuali (tranne che all’interno del matrimonio) tra ebrei e cittadini tedeschi di sangue tedesco o affine» (art. 2). Per un’illuminante discussione storica sul concetto nazista di «sangue», si veda Allyson D. Polsky, Blood, Race, and National Identity: Scientific and Popular Discourses, in «Journal of Medical Humanities», XXIII (2002) 3/4, spec. pp. 174-178. Soltanto gli uomini che violavano la proibizione di intrattenere relazioni sessuali extraconiugali con donne di un altro gruppo erano puniti con il carcere o i lavori forzati (art. 5, par. 2). Agli ebrei era anche proibito dare lavoro, nelle loro case, a donne tedesche sotto i quarantacinque anni di età (art. 3). 19 Per una documentazione dell’epoca, si veda Hensley Henson, The Yellow Spot: The Outlawing of Half a Million Human Beings, London 1939, pp. 216-234. 20 Fotografia (del 15 agosto 1935) in Debórah Dwork (a cura di), Voices and Views: A History of the Holocaust, New York 2002, p. 142.

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21 Si veda Patricia Szobar, Telling Sexual Stories in the Nazi Courts of Law: Race Defilement in Germany, 1933 to 1945, in «Journal of the History of Sexuality», 11 (2002), pp. 131 sgg. Si veda anche Alexandra Przyrembel, ‘Race Defilement’ in Court (relazione non pubblicata tenuta al Workshop Yad Vashem, Gerusalemme, 20-23 novembre 2001), che riporta una ricerca su 500 azioni giudiziarie per Rassenschande nelle corti naziste. 22 Una visione d’insieme del progetto è offerta dall’imputazione dei funzionari che lo gestivano in base alla Control Council Law No. 10 in Trial of the Major War Criminals cit., vol. IV, p. 608, specialmente le imputazioni di Sollmann, Ebner, Tesch e Viermetz. Le sentenze si possono trovare ivi, vol. V, pp. 162-164. 23 Si veda Joshua Hammer, Hitler’s Children, in «Newsweek International», 20 marzo 2000; Georg Lilienthal, Der ‘Lebensborn e.V.’: Ein Instrument nationalsozialisticher Rassenpolitk, Stuttgart-New York 1985. Il miglior saggio in inglese è Larry V. Thompson, Lebensborn and the Eugenics Policy of the Reichsführer-SS, in «Central European History», IV (1971) 1, pp. 54-77. 24 Catrine Clay e Michael Leapman esaminano con cura le prove in merito alla questione se le case del Lebensborn fossero come allevamenti di ‘cavalli di razza’, inclusa l’osservazione attribuita a Himmler: «Ho reso noto, in privato, che qualunque donna nubile che sia sola e desideri un figlio può rivolgersi al Lebensborn con fiducia [...]. Noi raccomandiamo solo uomini razzialmente impeccabili come ‘assistenti al concepimento’» . Felix Kenrsten, The Kersten Memoirs, 1940-1945, London 1956, cit. in Catrine Clay e Michael Leapman, Master Race: The Lebensborn Experiment in Nazi Germany, London 1995, p. 71. La pratica tedesca del bastone e della carota è riportata ivi, pp. 53-69. Si nota anche che al tempo era ampiamente diffuso il sospetto che le case del Lebensborn procurassero relazioni combinate tra materiale razziale potenzialmente adeguato e uomini delle SS (ivi, p. 69), ma si asserisce che il vero motivo di disapprovazione rispetto a queste si fondava sul fatto che incoraggiavano concepimenti al di fuori del matrimonio. Marc Hiller e Clarissa Henry, Lebensborn e.V. Im Namen der Rasse, Wien-Hamburg 1975, discutono nel dettaglio tutti gli aspetti del programma, ma non si concentrano mai su come le donne, siano esse donne tedesche o donne dei paesi occupati, rimanessero incinte. Una fonte che intende offrire prove d’epoca che il Lebensborn includeva bordelli riproduttivi, stabilimenti di Freiwillige Erzeugene (riproduzione volontaria), è il resoconto di Peter Neumann, un ufficiale in congedo, rispetto alla sua esperienza con una giovane donna tedesca: Other Men’s Graves. Diary of an SS Man, London 1958, pp. 71-85 [ed. or. 1956]. Nel dialogo si legge: «[Lei] Non pensi che questo affare di vendere il tuo corpo come strumento di procreazione sia orribile? [Lui] Non stai vendendo il tuo corpo. Lo stai offrendo alla Germania, è tutta un’altra cosa» (ivi, p. 83). Molte persone che hanno studiato il tema a fondo sembrano certe che si trattasse di abitazioni per gestanti, allestite per promuovere l’eugenetica razzista, non luoghi di riproduzione. Si veda anche Jacques Delarue, The Gestapo: A History of Horror, New York 1964, pp. 7071 [ed. or. 1962]. Richard J. Evans, German Women and the Triumph of Hitler, in «Journal of Modern History», 48 (1976) 1 – On demand supplement, pp. 123-175, commenta «i tentativi da parte dei nazisti di mobilitare le donne in modo volontario, attraverso una massiccia campagna propagandistica» per la riproduzione dei tedeschi (p. 149). Manfred Wolfson, Constraint and Choice in the SS Leadership, in «Western Political Quarterly», 18 (1965), pp. 551 sgg., descrive il Lebensborn come programma che «procura alle compagne non sposate degli uomini delle SS luoghi di isolamento segreti in case speciali per donne in attesa» (p. 557). Annette Timm,

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Sex with a Purpose: Prostitution, Veneral Disease, and Militarized Masculinity in the Third Reich, in «Journal of the History of Sexuality», XI (2002) 1-2, pp. 223 sgg., assume la stessa prospettiva, ma fa anche riferimento al resoconto di Bluel rispetto a «una politica che offre ai soldati in congedo una piacevole compagnia femminile con l’intento sia di accrescere il sostegno al partito sia di creare situazioni sociali che potrebbero alla fine avere esiti politici positivi in termini demografici» (p. 247), che è esattamente ciò che descrive Neumann. Durante gli ultimi giorni della seconda guerra mondiale, i nazisti distrussero il maggior numero possibile di documenti relativi al Lebensborn, sebbene alcuni siano stati ricuperati. Si veda Hitler’s Race Project Records Revealed, Associated Press Berlin, 23 novembre 1999. 25 Ad esempio Timm, Sex with a Purpose cit., commenta: «Per troppo tempo, il sesso nel Terzo Reich è stato praticamente una terra incognita per gli storici della Germania. C’è stato un comprensibile desiderio di evitare di fornire particolari eccitanti riguardo a un tale regime omicida» (p. 223). Non si spiega perché resoconti di violenze sessuali dovrebbero essere eccitanti, e si elude il possibile ruolo della sessualità nel rendere omicida il regime. 26 Si vedano Thompson, Lebensborn cit., pp. 71-72, e Lilienthal, Der ‘Lebensborn e.V.’ cit. 27 Sulle case e i bambini norvegesi del programma Lebensborn, in generale, si veda Clay e Leapman, Master Race cit., pp. 131-149. Il procuratore Randi Hagen Spydevold ha fatto causa al governo norvegese per un indennizzo a favore dei bambini del Lebensborn nel 2001, adducendo la cooperazione ufficiale del governo norvegese nel maltrattamento di un numero di bambini, stimato intorno ai 12.000, avuti da donne norvegesi con i tedeschi, sotto il programma Lebensborn. Un articolo su questa azione legale ha segnalato che, «nell’Europa occupata, i soldati tedeschi hanno generato più di 200.000 bambini»: Carl Homore, Children of Nazis Seeking Peace with Their Past, Norewgian Lawsuit: Many Endured ‘Systematic Torture’ in Mental Asylum After Germany’s Defeat, in «National Post», 11 settembre 2000. Trecentomila soldati della Wehrmacht erano di stanza in Norvegia, che era governata dal famigerato collaborazionista Viskun Quisling. È possibile che nessuno di questi bambini sia stato concepito durante uno stupro? 28 Di solito, i commenti usano un linguaggio il quale lascia intendere che le donne, sia quelle tedesche sia quelle dei paesi occupati, che partorivano i figli delle SS naziste fuori dal vincolo del matrimonio, avessero avuto con loro rapporti consenzienti. Thompson, Lebensborn cit., parla di parecchie migliaia di donne francesi messe incinte dai soldati occupanti nei termini di una «inevitabile fraternizzazione tra le truppe e gli abitanti del luogo» (p. 71). Clay e Leapman, Master Race cit., enfatizzano la libertà sessuale: «Sebbene l’intero concetto di riproduzione razziale selettiva sia disgustoso, il suggerimento che ci fossero accoppiamenti casuali, e senza alcun coinvolgimento sentimentale, non è del tutto appropriato. Mentre è più che probabile che alcune gravidanze fossero motivate dal forte senso del dovere verso lo Stato da parte delle donne, o in alcuni casi ottenute con la coercizione, le scarse prove disponibili suggeriscono che ci fosse genuino affetto tra molte delle madri e i loro amanti delle SS. Erano, dopo tutto, giovani donne in salute con normali bisogni affettivi» (p. 72). Annette Warring, Tyskerpiger – under besoettelse og retsopgr, København 1994, afferma: «Durante l’occupazione, decine di migliaia di donne danesi hanno avuto relazioni con i soldati della Wehrmacht, relazioni che hanno portato alla nascita di più di cinquemila bambini di guerra» (corsivo mio). Tony Patterson e Allan Hall, Norwegian Government Sued over Children Nazis Left

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Behind, in «Telegraph» (London) n° 2102, 25 febbraio 2001, osserva che la politica di Himmler «ha attivamente promosso le relazioni sessuali tra le truppe tedesche e le donne classificate come vere ariane – come le norvegesi», ma anche che «si ritiene che un certo numero di donne norvegesi, stimato intorno a 50.000, abbia avuto una relazione con i tedeschi durante l’occupazione». Il 28 ottobre 2005 la Norvegia ha deciso senza tanti clamori, secondo quanto riportato, di pagare pensioni di guerra (a chi, durante l’occupazione, aderì a «sani princìpi nazionali») alle poche dozzine di donne sopravvissute che si sapeva avevano fatto sesso con i soldati tedeschi durante la seconda guerra mondiale, dando alla luce, si stima, 12.000 bambini. Eva Simonsen dell’Università di Oslo ha ritenuto il principio giustificato in quanto non puniva più queste donne «per le storie d’amore della loro gioventù». Nello stesso articolo, le forze d’occupazione sono descritte come «dedite a incoraggiare attivamente le relazioni tra le donne del luogo e i soldati tedeschi, come parte di un piano delle SS per arricchire il patrimonio genetico ariano»: Norway finally forgives women who slept with Nazi soldiers, nel sito http://news.telegraph.uk, 28 ottobre 2005. Ancora una volta, nessuna di queste donne è stata stuprata? 29 Frase di apertura del processo, caso Rusha, il pubblico ministero McHaney, Trial of the Major War Criminals cit., vol. IV, p. 687. 30 Anna Rosmus, Involontary Abortion for Polish Forced Laborers, in Elizabeth R. Baer e Myrna Goldenberg (a cura di), Experience and Expression. Women, the Nazis, and the Holocaust, Detroit 2003, pp. 76-94, cit. a p. 78. 31 Jacob Apenslak et al. (a cura di), The Black Book of Polish Jewry. An Account of the Martyrdom of Polish Jewry Under the Nazi Occupation, New York 1943, p. 25 (ed. 1995). 32 Yaffa Eliach, Women and the Holocaust: Historical Background, in Women of Valor: Partisans and Resistance Fighters, pubblicato originariamente in «Journal of the Center for Holocaust Studies», VI (1990) 4, p. 8. 33 Apenslak et al. (a cura di), The Black Book of Polish Jewry cit., p. 27. Secondo quanto riportato, i capi della comunità ebraica rifiutarono categoricamente. 34 Si veda il «New York Times» dell’8 gennaio 1943, p. 8 (lettera e nome non rivelati), poi in Zev Garber, Shoah: The Paradigmatic Genocide. Essays in Exegesis and Eisegesis, Lanham 1994, p. 98, che discute l’autenticità della lettera e ne indica Chaya Feldman come autrice. 35 Raul Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei, 19331945, Milano 1994, p. 293, n. 2 [ed. or. 1992], che cita un rapporto «del Servizio di Sicurezza in Galizia (Comandante della Polizia di sicurezza/III-A-4), all’Obersturmbann-führer (tenente colonnello) Karl Gegenbach e all’Obersturmbannführer Willi Seibert a Berlino e allo Standartenfürer colonnello Heim a Cracovia, 2 luglio 1943, National Archives of the United States, Record Group 242, T175, Roll 575». 36 Birgit Beck, Vergewaltigung von Frauen als Kriegsstrategie im Zweiten Weltkrieg?, in Andreas Gestrich (a cura di), Gewalt im Krieg. Ausübung, Erfahrung und Verweigerung von Gewalt in Kriegen des 20. Jahrhunderts, Münster 1996, pp. 43-44. Si veda anche Doris Bergen, War and Genocide: A Concise History of the Holocaust, Lanham 2003, pp. 107, 110. 37 Si veda sopra, n. 13. 38 Judith M, Isaacson, Seed of Sarah: Memoirs of a Survivor, Urbana 1990, pp. 144-145. Per un’analisi che dà maggiore spessore alla stessa Anna Frank, si veda

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Cathrine A. Bernard, Anne Frank: The Cultivation of the Inspirational Victim, in Baer e Goldenberg (a cura di), Experience and Expression cit., p. 201. 39 Isaacson, Seed of Sarah cit., p. 53. 40 Olga Lengyel, Five Chimneys: The Story of Auschwitz, Chicago 1947, p. 185. 41 Ruth Elias, Die Hoffnung erhielt mich am Leben. Mein Weg von Teresienstadt und Auschwitz nach Israel, München 1988, p. 49: «Vergewaltigung der jüdischen Mädchen war erlaubt. Das war doch keine Rassenschande». 42 Una sopravvissuta citata da Ringelheim, The Split Between Gender and the Holocaust cit., p. 34. 43 Si veda, per esempio, il resoconto di Stanley Rustin, Camp, in Esther Katz e Joan M. Ringelheim (a cura di), Women Surviving the Holocaust: Proceedings of the Conference, New York 1983, pp. 165 sgg. (su Skarzysko). 44 Sono tantissimi. Si veda Helen Fein, Genocide and Gender: The Uses of Women and Group Destiny, «Journal of Genocide Research», I (1999) 43, p. 53: «Ciò che colpisce della Shoah [...] è la mancanza di un modello per la discriminazione di genere e per lo stupro sanzionato»; Myrna Goldenberg, Memoirs of Auschwitz Survivors: The Burden of Gender, in Weitzman e Ofer (a cura di), Women in the Holocaust cit., p. 336; Jack G. Morrison, Ravensbrück: Everyday Life in a Women’s Concentration Camp, 1939-45, Princeton 2000, pp. 177-178; Melissa Raphael, The Female Face of God in Auschwitz: A Jewish Feminist Theology of the Holocaust, London-New York 2003, p. 183, n. 48. 45 Si veda Julia Roos, Backlash Against Prostitutes’ Rights: Origins and Dynamics of Nazi Prostitution Policies, in «Journal of the History of Sexuality», XI (2002) 1/2, p. 69; Christa Paul, Zwangsprostitution: Staatlich errichtete Bordelle im Nationalsozialismus, Berlin 1994. 46 Si veda Timm, Sex with a Purpose cit., p. 227. 47 A quanto pare, non fu più permesso usare donne nei bordelli della Wehrmacht dopo il marzo del 1942. Si veda Helke Sander e Barbara Johr (a cura di), Befreier und Befreite: Krieg, Vergewaltigungen, Kinder, München 1992. 48 Paul, Zwangsprostitution cit., pp. 58-75. 49 Morrison, Ravensbrück cit., pp. 201-204, raccoglie fonti che descrivono questi reclutamenti nel dettaglio, senza riferimenti alla religione, alla razza o all’etnia. 50 Si veda Nanda Herbermann, The Blessed Abyss: Inmate #6582 in Ravensbrück Concentration Camp for Women, Detroit 2000 [ed. or. 1946], p. 32 (resoconto di un’esponente della resistenza cattolica tedesca internata dal 1942 al 1943, che è stata supervisore di 400 prostitute a Ravensbrück). Si veda anche Timm, Sex with a Purpose cit., p. 224. 51 Lo riferiscono sia Heinz Heger [Josef Kohout], The Men with the Pink Triangle: The True Life-and-Death Story of Homosexuals in the Nazi Death Camps, Boston 1980, p. 96 [ed. or. 1980], sia Morrison, Ravensbrück cit., p. 202. 52 Christa Schulz, Weibliche Haftlinge aus Ravensbrück in Bordellen der Männerkonzentrationslager, in Claus Fülberg-Stolberg, Martina Jung, Renate Reibe e Martina Scheitenberger (a cura di), Frauen in Konzentrationslagern: Bergen-Belsen, Ravensbrück, Bremen 1994, p. 139. 53 Heger, The Men with the Pink Triangle cit., p. 96. 54 Si veda Enno Georg, Die wirtschaftlichen Unternehmungen der SS, Stuttgart 1963, p. 116 e n. 471; Instructions Concerning the Granting of Special Favors to Prisoners, traduzione del documento n° NC-400, Office of Chief of Counsel for

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War Crimes; Reinhild Kassig e Christa Paul, Haftlings-Bordelle in deutschen KZ, in «Emma» (1992), pp. 32-37. 55 Heger, The Men with the Pink Triangle cit., p. 96. Non sembra che sia stata prestata particolare attenzione all’etnia o alla nazionalità di questi giovani uomini, sebbene il resoconto di Heger si concentri sui polacchi. Heger, che era austriaco, fu usato in questo modo. La letteratura tende a omettere specificazioni razziali, etniche o religiose una volta che una persona è definita in termini sessuali, per esempio, come una prostituta o un omosessuale, il che risulta frustrante. 56 Come ulteriore fattore delle mancate denunce, si dovrebbe notare che, attraverso queste disposizioni, gli uomini ebrei subivano la vergogna di abusare di donne in condizioni di detenzione come ricompensa da parte degli sterminatori per il lavoro forzato che contribuiva alla loro stessa morte, la peggiore vergogna che potrebbe in altre situazioni derivare agli uomini dall’usare donne prigioniere o prostitute. Ci sono anche resoconti di uomini ebrei che al di fuori dei bordelli approfittarono di donne ebree per sesso in cambio di sopravvivenza e le stuprarono; nelle condizioni del genocidio, le donne subiscono pressioni ancora più forti del solito per non denunciare violenze sessuali all’interno della propria comunità. Forse, la descrizione evocativa degli effetti della vergogna del Rassenschande si applica anche al contesto dell’abuso sessuale: «Si vergognavano dei loro capelli neri, dei loro nasi semiti, del loro essere indifese [...] si vergognavano della vergogna». Joel König, Den Netzen entronnen, Göttingen 1967, p. 155. 57 Si veda Eugen Kogon, Der SS-Staat: Das System der deutschen Konzentrationslager, München 1994, p. 215 [prima ed. 1946]; Ka-Tzetnik 135633, La casa delle bambole, Milano 1959 [ed. or. 1953]. Questo libro è stato scritto da Karol Cetynski, conosciuto anche come Yehiel Dinur, a partire dal diario di Daniella Preleshnik, un’ebrea polacca di quattordici anni (nel 1939) che fu costretta a prostituirsi nel bordello «Casa delle bambole» di Auschwitz. In alcune edizioni è identificata con la sorella. Paul, Zwangsprostitution cit., p. 26, ha scoperto che, mentre Ravensbrück era usato per rifornire i bordelli nella maggior parte dei campi, le donne ad Auschwitz erano costrette a prostituirsi lì, per i tre bordelli del campo e dei suoi satelliti. 58 Jehoshua Eibeshitz e Arma Eibeshitz (a cura di), Women in the Holocaust: A Collection of Testimonies, Brooklyn 1992, p. viii; Jehoshua Eibeshitz, in Anna Eilenberg-Eibeshitz ed Esther Sarah Eilenberg (a cura di), Remember! A Collection of Testimonies, Brooklyn 1992, pp. 12-13 (la storia di «Miriam»). 59 Si veda Paul, Zwangsprostitution cit., p. 106 (che lo cita). 60 Lengyel, Five Chimneys cit., p. 81. 61 Paul, Zwangsprostitution cit., p. 104. La letteratura nega in gran parte questo fatto, asserendo il contrario, con diversi gradi di insistenza e veemenza, e basandosi sulla mancanza di prove e sull’idea che, essendo illegale, i nazisti non potevano averlo fatto. Un esempio tipico è Morrison, Ravensbrück cit., pp. 73 e 202. Per un’ulteriore discussione, si veda Janet Anschutz, Kerstin Meier e Sanja Obajdin, «Dieses leere Gefuhl, und die Blicke der anderen...»: Sexuelle Gewalt gegen Frauen, in Fülberg-Stolberg, Jung, Reibe e Scheitenberger (a cura di), Frauen in Konzentrationslagern cit., pp. 130-131; Schulz, Weibliche Haftlinge cit., p. 135. Fino alla pubblicazione del libro di Paul, non c’erano molte prove, ma quelle che esistevano erano di prima mano. Che i nazisti fossero rispettosi della legge, in particolare nei campi e per quanto concerneva il sesso forzato, sembra un bizzarro articolo di fede. 62 Elizabeth Heineman, Sexuality and Nazism: The Doubly Unspeakable, in «Journal of the History of Sexuality», XI (2002) 1-2, pp. 22-66, commenta: «La ri-

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cerca sui bordelli dell’era nazista mette in dubbio il nostro modello di ‘prostituzione’ (che mette al primo posto lo scambio) per descrivere atti che potrebbero essere meglio descritti come ‘stupro’ (che mette al primo posto la violenza)». Heinemann comprende che il sesso nei bordelli era stupro, ma questo tipo di comprensione potrebbe gettare luce sulla prostituzione in generale, piuttosto che mettere in dubbio l’uso del termine in un simile contesto. La sua analisi non coglie né lo scambio di sesso per sopravvivenza nei campi, né le forme di coercizione implicate in quello stesso scambio in molti esempi di prostituzione al di fuori dei campi. Al contrario, Magnus Hirschfeld, Andreas Gaspar e F. Aquila (a cura di), Sittengeschichte des Zweiten Weltkrieges. Die tausend Jahre von 1933-1945, Hanau am Main 1968, p. 341, osservano: «Il termine prostituzione non dovrebbe essere definito in modo tecnico quando si parla di prostituzione in guerra. Non soltanto include i bordelli, ma quasi sempre include le relazioni tra le forze d’occupazione e le donne del luogo che sperano di ottenere vantaggi attraverso relazioni sentimentali. Spesso si tratta anche di prostituzione forzata che equivale allo stupro». 63 Si veda Andrea Dworkin, Scapegoat: The Jews, Israel, and Women’s Liberation, New York 2000, p. 33. 64 Elie A. Cohen, Human Behaviour in the Concentration Camp: A Medical and Psychological Study, New York 1988, p. 135 [ed. or. 1954]. Si veda anche Edith Bruck, Chi ti ama così, Milano 1959, poi Venezia 1974, pp. 28, 41, 45, 56. 65 Lengyel, Five Chimneys cit., p. 182. 66 Felicia Berland Hyatt, Close Calls: Memoirs of a Survivor, New York 1991, pp. 76-77. 67 Cecile Klein, Sentenced to Live, New York 1988, p. 73. Per ulteriori resoconti, si veda Judy Cohen, Women and the Holocaust (2001) col sito omonimo http://www.theverylongview.com/WATH/; Sarah Nomberg-Pryztyk, Auschwitz: True Tales from a Grotesque Land, Chapel Hill-London 1985, p. 14; Raphael, The Female Face of God in Auschwitz cit., p. 183 n. 48. 68 Leib Langfuss, The Horrors of Murder, in Bernard Mark (a cura di), The Scrolls of Auschwitz, Tel Aviv 1985, p. 209. 69 Jeremy Noakes e Geoffrey Pridham (a cura di), Nazism, 1919-1945: A History in Documents and Eyewitness Accounts, Exeter 1983, vol. 2, p. 1180. 70 Myrna Goldenberg, citata da Judy Cohen, Women’s Holocaust Narratives: Violence and Sexuality as a Theme in Memoirs by Women Survivors (2001), sul sito www.interlog.com/~mighty/essays/lessons2.htm. Sono stata originariamente indirizzata alla maggior parte delle fonti citate nelle note 40 e 64-70 dall’eccellente sito web di Judy Cohen. 71 Heger, The Men with the Pink Triangle cit., p. 97. 72 Questo aspetto degli esperimenti di congelamento è descritto in Trial of the Major War Criminals cit., vol. II, p. 525: «Himmler ordinò personalmente che si tentasse anche il riscaldamento attraverso il calore di corpi umani», ordine che fu eseguito «mettendo la vittima assiderata tra due donne [zingare] nude» di Ravensbrück. 73 Si possono vedere presso lo Yad Vashem e l’Holocaust Memorial Museum. 74 Si veda Prosecutor v. Akayesu, Case No. ICTR-96-4-T, Judgement, 45 (2 settembre 1998), parr. 112-129. 75 In generale, si veda Binaifer Nowrojee, Shattered Lives: Sexual Violence During the Rwandan Genocide and Its Aftermath, New York 1996. I responsabili erano hutu e tutte le vittime tutsi e alcune hutu moderate o sposate con uomini tutsi. Si

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veda Human Rights Watch, Slaughter Among Neighbors: The Political Origins of Communal Violence, New Haven 1995, p. 24. 76 Prosecutor v. Semanza, Case No. ICTR-97-20-T, par. 253 (15 maggio 2003). La corte ha chiarito che il testimone aveva spiegato che «l’accusato utilizzò la parola kurongora, che in kinyarwanda significa sia ‘sposare’ sia ‘fare sesso’» (ivi). 77 Catherine Bonnet, Le viol des femmes survivants de genocide du Rwanda, in Raymond Verdier, Emmanuel Ecaux e Jean-Pietre Chrétien (a cura di), Rwanda: Un génocide du XXe siècle, Paris 1995, p. 18. 78 United Nations, Report on the Situation of Human Rights in Rwanda presentato da René Degni-Segui, Special Rapporteur of the Commission on Human Rights, al paragrafo 20 della risoluzione S-3/1 del 25 maggio 1994, E/CN.4/1996/68, 29 gennaio 1996, p. 7, che stima da un minimo di 250.000 gravidanze a un massimo di 500.000 casi di stupro nel genocidio ruandese. Un tipico resoconto: «I soldati dissero agli Interahamwe di mettersi al lavoro, e loro uccisero alcune persone e scelsero delle ragazze e le fecero mettere da un lato. Secondo i testimoni, ‘fecero i loro comodi’ con queste ragazze e poi le uccisero. A molte delle donne uccise furono strappati i vestiti, ‘per vedere le donne tutsi nude’. Gli Interahamwe continuarono a ‘fare i loro comodi’ fino a che non furono soddisfatti, verso le 11 di sera». Prosecutor v. Rutuganda, Case No. ICTR-96-3-T, Judgment and Sentence, par. 271 (6 dicembre 1999). 79 Si veda Nowrojee, Shattered Lives cit., pp. 15-19; Prosecutor v. Nahimana, Case No. ICTR-99-52-T, Judgment and Sentence, parr. 114, 139, 117-180, 182, 188, 210, 245, 935, 964, 1079 (3 dicembre 2003). 80 Si veda, per esempio, Prosecutor v. Akayesu cit., par. 1449. 81 Si veda, per esempio, Prosecutor v. Musema, Case No. ICTR-96-5-D, Judgment and Sentence, par. 932 (27 gennaio 2000). 82 Ivi, par. 933. 83 Si veda, per esempio, Rhonda Copelon, Surfacing Gender: Reconceptualizing Crimes Against Women in Time of War, in Alexandra Stiglmayer (a cura di), Mass Rape: The War Against Women in Bosnia-Herzegovina, Lincoln 1994; si confronti con Nowrojee, Shattered Lives cit., pp. 34-36. 84 Convenzione sul genocidio cit. 85 «Contrariamente alla credenza popolare, il crimine di genocidio non implica l’effettivo sterminio di un gruppo nella sua totalità, ma è concepito come tale una volta che uno qualunque degli atti riportati negli articoli dal 2(2) al 2(2)(e) è commesso con la specifica intenzione di sterminare ‘interamente o in parte’ un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Akayesu cit., par. 497. 86 Si veda, per esempio, Comisión para el Esclarecimiento Histórico (CEH), Guatemala: Memoria del Silencio, par. 2249 (CEH, 1999): «quando la violenza sessuale [lo stupro], quella forma di violenza diretta in modo specifico contro le donne, è utilizzata in maniera massiccia e pubblica, è un indicatore dell’intenzione di sterminare un gruppo». Si veda anche United Nations Commission on International Religious Freedom, Hearing on Communal Violence in Gujarat, India, and the U.S. Response, Washington, D.C., 10 giugno 2002; Ruth Baldwin, Gujarat’s Gendered Violence, in Betsy Reed (a cura di), Nothing Sacred: Women Respond to Religious Fundamentalism and Terror, New York 2002, p. 185. 87 La Corte Suprema del Canada ha deliberato, istruttivamente, in questo modo in Regina v. McGraw, [1991] 3 S.C.R. 72, 83-84. 88 Kadic v. Karadžic´ cit., ha stabilito questa concettualizzazione all’interno del

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diritto internazionale negli Stati Uniti, in base all’Alien Tort Claims Act nel Second Circuit. 89 Akayesu cit., parr. 731-734. Resta difficile da spiegare il motivo per cui il tribunale jugoslavo abbia esitato a perseguire lo stupro di genocidio fino all’incriminazione di Miloševic´ (si veda Miloševic´ cit., par. 32), tendendo ad accusare di stupro tutto tranne che il genocidio e di genocidio tutti gli atti violenti tranne lo stupro. 90 Si veda, per esempio, James Yin e Shi Young, The Rape of Nanking: An Undeniable History in Photographs, Chicago 1996. 91 Che il genocidio nazista abbia ucciso e trasportato gli ebrei verso la Germania per liquidarli, e che il genocidio bosniaco abbia ucciso e deportato o espulso tutti i non-serbi dalla Bosnia-Erzegovina, definisce soltanto le rispettive ambizioni territoriali dei responsabili e i rispettivi livelli di organizzazione; non rende uno un genocidio e l’altro no. 92 Per lo meno, questo è riportato in Joanne Csete, The War Within the War: Violence Against Women and Girls in Eastern Congo, New York 2002, p. 25. Questi resoconti possono riflettere la complessa multilateralità del conflitto o la mancanza di informazioni da parte degli osservatori esterni rispetto alla sua dimensione etnica. 93 Utili lavori su questo argomento sono Roger Smith, Genocide and the Politics of Rape, relazione presentata alla conferenza della Association of Genocide Scholars, College of William and Mary, Williamsburg, Va. (14-16 giugno 1995); Hsu-Ming Teo, Continuum of Sexual Violence in Occupied Germany, 1945-49, in «Women’s History Review», V (1996) 2, pp. 191 sgg. 94 Non ho detto, né qui né altrove, che lo stupro di genocidio sia peggiore e non penso che lo sia. Vale la pena ripetere, a quanto pare, che niente qui implica, suggerisce o presuppone alcuna gerarchia di danno, valore o gravità tra stupro di guerra, stupro di genocidio, stupro in condizioni di schiavitù e stupro in altri contesti. Per esempio, dire che il genocidio va oltre la guerra è semplicemente un’osservazione empirica rispetto al fatto che il genocidio non è confinato ai contesti di guerra. Né lo scopo è qui creare una tipologia o produrre criteri sulla base dei quali lo stupro possa essere classificato in un modo o nell’altro. Né quest’analisi è una discussione morale. 95 Prosecutor v. Jelisic´, Case No. IT-95-10-T, Judgment, parr. 78-83 (14 dicembre 1999); Case concerning Legality of Use of Force (Yugoslavia v. Belgium), 1999 I.C.J:, disponibile a 1999 WL 1693067, par. 35 (2 giugno 1999); si veda anche Prosecutor v. Bagilishema, Case No. ICTR-95-1A-T, par. 64 (parere del giudice Gunawardana, 7 giugno 2001); Prosecutor v. Kayishema and Ruzindana, Case No. ICTR-95-1-T, Judgment, parr. 95-97 (21 maggio 1999): «‘in parte’ richiede l’intenzione di sterminare un numero considerevole di individui che fanno parte del gruppo. Gli individui devono essere presi di mira a causa della loro appartenenza al gruppo per soddisfare questa definizione». Interessante è anche il parere della Corte internazionale di giustizia nel caso del bombardamento sul Kosovo, secondo cui i bombardamenti della NATO, sebbene intensivi e prolungati, compresi quelli su aree abitate della Jugoslavia, non avevano il carattere del genocidio, in parte perché non implicavano un’intenzione distruttiva «verso un gruppo in quanto tale». Case concerning Legality of Use of Force (Yugoslavia v. Belgium) cit., par. 40. 96 Attorney General of Israel v. Eichmann (Isr. Sup. Ct. 1962), rist. in «Israel Law Review», 36 (1968), p. 18 (Corte distrettuale di Gerusalemme), par. 190. 97 Ad Hoc Committee on Genocide, 3 GAOR, Part I, Sixth Committee Summa-

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ry Records (1948), 124-125 (76th meeting), come citato in Hurst Hannum, International Law and Cambodian Genocide: The Sounds of Silence, in «Human Rights Quarterly», 11 (1989), pp. 82-138, spec. p. 110 n. 101; Kayishema and Ruzindana cit., par. 99: «‘Distruggere’ deve essere diretto al gruppo in quanto tale, cioè come gruppo». 98 Prosecutor v. Sikirica et al., Case No. IT-95-8-T, Judgment on Defence Motion to Acquit, par. 89 (TPIJ, 3 settembre 2001). 99 Report of the International Law Commission on the Work of Its Forty-eighth Session, May 6 July 30, 1996, U.N. Doc. A/51/10, 88. 100 Rapporto Bassiouni cit., II H I 3. 101 Akayesu cit., par. 521; anche Rutuganda cit., par. 339: «perché appartenevano al gruppo dei tutsi e proprio per il fatto che appartenevano al suddetto gruppo». 102 Rutuganda cit., par. 60. 103 Si veda Catharine A. MacKinnon, A Sex Equality Approach to Sexual Assault, in Robert Prentky, Eric Janus e Michael Seto (a cura di), Sexually Coercive Behavior: Understanding and Management, New York 2003, pp. 265 sgg. per un’ulteriore elaborazione. 104 La storia dell’aggiunta di «in quanto tale» al linguaggio della convenzione non offre nessun chiarimento. Il Venezuela, proponendo un compromesso tra quelli che volevano cancellare il movente e quelli che volevano mantenerlo, o addirittura rafforzarlo, ha suggerito di aggiungere «in quanto tale»; l’idea era che le intenzioni sarebbero state incluse ma non esplicitamente elencate. Si veda Nehemiah Robinson, The Genocide Convention: A Commentary, New York 1960, pp. 60-61; William A. Schabas, Genocide in International Law: The Crime of Crimes, Cambridge, UK-New York 2000, pp. 245-253. Non è chiaro se l’espressione abbia aggiunto un elemento di intenzionalità che non sarebbe stato altrimenti presente o ne abbia rimosso uno che avrebbe potuto essere più forte. 105 Questa analisi è presentata in Catharine A. MacKinnon, Toward a Feminist Theory of the State, Cambridge, Mass., 1989. 106 Si veda Jill Radford e Diana E.H. Russell (a cura di), Femicide: The Politics of Women Killing, New York-Toronto 1992, pp. 10-11. 107 Questo è sostenuto in MacKinnon, Toward a Feminist Theory of the State cit. 108 Per un magnifico studio su quest’ultima, si veda Lisa Cardyn, Sexualized Racism/Gendered Violence: Trauma and the Body Politic in the Reconstruction South (tesi di Ph.D. presentata alla Yale University nel maggio 2003). 109 A volte la resistenza ha successo. Nel caso degli afroamericani, per esempio, lo stupro ha avuto un effetto di frantumazione che non ha distrutto interamente la coesione della comunità. Gli effetti a lungo termine dello stupro sistematico da parte degli uomini bianchi in modo particolare su quella comunità potrebbero indubbiamente meritare uno studio ulteriore. Il fatto che lo stupro sia razzista non lo rende per questo una forma di genocidio, il che non vuol dire che non sia distruttivo. La distinzione risiede in altri aspetti della definizione di genocidio, in modo particolare in quelli connessi all’intenzione. 110 Infatti, dall’epoca della schiavitù in poi, i responsabili dello stupro erano probabilmente ossessionati dal preservare gli afroamericani come gruppo distinto, mentre distruggevano la loro struttura familiare e si adoperavano per eliminare la specificità della cultura dalla quale provenivano. Il punto era sfruttarli per il lavoro e mantenere il nuovo gruppo, gli afroamericani, socialmente distinti per conservare la supremazia dei bianchi. Se questo gruppo fosse stato distrutto in quanto gruppo,

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rispetto a chi i bianchi si sarebbero definiti superiori in quanto distinti? Chi avrebbe svolto il lavoro duro, sgradevole e sottopagato? Per quanto brutale, il razzismo contro gli afroamericani ha avuto un interesse a conservare il gruppo in quanto tale, anziché a sterminarlo. Che il razzismo americano, compreso lo stupro durante la schiavitù, includesse crimini contro l’umanità è incontestabile. Il parere del TPIJ nel caso Focˇa, nel presentare alcuni stupri nella situazione bosniaca come «atti di schiavitù» (si veda Prosecutor v. Kunarac cit.), è stato così in grado di svelare molte funzioni della subordinazione sessuale attraverso questo parallelo, ma allo stesso tempo, inserendoli nel quadro della schiavitù, non è riuscito a contestualizzare gli atti all’interno del genocidio del quale essi erano parte integrante. 111 Si veda Musema cit., par. 933: «Di conseguenza, la corte osserva che, sulla base delle prove presentate, emerge che gli atti di grave danno fisico o mentale, compresi lo stupro e altre forme di violenza sessuale, erano spesso accompagnati da espressioni umilianti, che indicavano chiaramente che l’intenzione sottostante a ogni atto specifico era sterminare l’intero gruppo dei tutsi. La corte osserva, per esempio, che, durante lo stupro di Nyiramusugi, Musema ha dichiarato: ‘L’orgoglio dei tutsi finisce oggi’. In questo contesto, gli atti di stupro e di violenza sessuale erano parte integrante del piano per sterminare il gruppo dei tutsi. Questi atti rivolti contro le donne tutsi, in particolare, contribuivano in modo specifico alla loro distruzione e, dunque, a quella dei tutsi in quanto gruppo. Il testimone N ha attestato, di fronte alla corte, che Nyiramusugi, che era stata creduta morta da chi l’aveva stuprata, è stata in effetti uccisa, in un certo senso. Infatti, il testimone ha specificato che ‘ciò che essi le hanno fatto è peggio della morte’». 112 Ivi. 113 Il gruppo stesso, ai fini dell’intenzione di genocidio, include «essere identificati come tali dagli altri, tra i quali i responsabili dei crimini». Kayeshima cit., par. 98. Si vedano anche Bagilishema cit., par. 65; Rutuganda cit., par. 56; Musema cit., par. 161. Dato che l’identità è un fatto sociale, che comprende in misura sostanziale l’identificazione da parte degli altri, questo è appropriato. 114 Per informazioni generali, si veda Bessel A. van der Kolk, Alexander C. McFarlane e Lars Weisaeth (a cura di), Traumatic Stress: The Effects of Overwhelming Experience on Mind, Body and Society, New York 1996. 115 Si veda Diana E.H. Russell e Rebecca M. Bolen, The Epidemic of Rape and Child Sexual Abuse in the United States, Thousand Oaks 2002. Per i riassunti dei dati e per i riferimenti ai dati, si veda Catharine A. MacKinnon, Sex Equality, New York 2001, pp. 776-778. 116 Un esempio notevole dell’essere torturato in quanto ebreo (in Argentina) è offerto in Jacobo Timerman, Prisoner Without a Name, Cell Without a Number, New York 1981 [ed. or. 1981]. 117 Citato in Nowrojee, Shattered Lives cit., p. 25. Durante le ostilità bosniache, si è discusso molto degli uomini musulmani che ripudiavano le donne musulmane bosniache stuprate. La nostra esperienza è che il rifiuto non era più esteso, in molti casi lo era meno, di quanto sia usuale per gli uomini negli Stati Uniti rispetto alle donne delle loro famiglie che vengono stuprate. 118 Citato in Kupreškic´ cit., par. 752. 119 Si veda Andrea Dworkin, Remembering the Witches, in Ead., Our Blood: Prophecies and Discourses on Sexual Politics, New York 1976, p. 16: «Genocidio è la parola che designa la violenza incessante perpetrata dalla classe di genere degli uomini contro la classe di genere delle donne». Si veda anche Mary Daly e Jane

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Caputi, Webster’s First New Intergalactic Wickedary of the English Language, Boston 1987, p. 77. Per una discussione sul femminicidio, si veda Diana E.H. Russell e Roberta A. Harmes (a cura di), Femicide in Global Perspective, New York 2001, pp. 20-23. 120 Dworkin, Scapegoat cit., p. 48. 121 Prosecutor v. Krstic´, Case No. IT-98-33-T, Judgment, par. 596 (2 agosto 2001). 122 Prosecutor v. Niyitegeka, Case No. ICTR-96-14-T, Judgment and Sentence, par. 463 (16 maggio 2003), che giudica l’imputato colpevole di violenza sessuale sul corpo di una donna morta come atto inumano, un crimine contro l’umanità: «L’imputato ordinò agli Interahamwe di denudare il corpo di una donna tutsi che era appena stata colpita a morte e di appuntire un pezzo di legno, che poi ordinò di inserire nei suoi genitali. Il corpo della donna col pezzo di legno che sporgeva fra le gambe fu lasciato sulla banchina per quasi tre giorni». Sebbene l’imputato sia stato anche ritenuto colpevole di genocidio, questo atto non è stato incluso nella sentenza. 123 Shabnam Hashmi, citato in Baldwin, Gujarat’s Gendered Violence cit., p. 185. Si veda anche Concerned Citizens Tribunal, Crime Against Humanity: An Inquiry into the Carnage in Gujarat, Mumbai 2002; Citizens Committee for Extraordinary Report on Gujarat, India, Submissions to the CEDAW Committee for Seeking Intervention on Gender Based Crimes and the Gendered Impact of the Gujarat Carnage, s.i.t., maggio 2003. 124 Oltre ad avere il carattere del genocidio quando avvengono durante i genocidi convenzionalmente definiti, le violenze sessuali in alcune circostanze al di fuori dei genocidi possono essere certamente «crimini contro l’umanità» in base al vigente diritto umanitario internazionale, che non richiede di dimostrare l’intenzione e, ora, proibisce le diffuse e sistematiche violenze sulla base del sesso così come su altre basi. Si veda lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, 1998, U.N. Doc. A/CONF.183/9 (1998), ristampato in «International Legal Materials», 37 (1998), pp. 999 sgg. L’art. 7.1. definisce «crimine contro l’umanità» come «uno qualsiasi degli atti di seguito elencati, se commesso nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con consapevolezza dell’attacco: [...] (g) Stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, [...] o altre forme di violenza sessuale di analoga gravità; (h) Persecuzione contro un gruppo o una collettività dotati di propria identità, ispirata da ragioni di ordine politico, razziale, nazionale, etnico, culturale, religioso o di genere sessuale ai sensi del paragrafo 3, o da altre ragioni universalmente riconosciute come non permissibili ai sensi del diritto internazionale, collegate ad atti previsti dalle disposizioni del presente paragrafo o a crimini di competenza della Corte». Nell’art. 7.2. «con il termine ‘genere sessuale’ si fa riferimento ai due sessi, maschile e femminile, nel contesto sociale» [le citazioni sono tratte dal testo in italiano, reperibile sul sito internet http://www.conflittidimenticati.it/cd/docs/1132.pdf]. 125 Heinemann, Sexuality and Nazism cit., p. 55.

Capitolo 8 1 Questa ovvia osservazione sul diritto internazionale, per lo meno a partire dalla pace di Vestfalia (24 ottobre 1648), il cui trattato è riprodotto in 1 Consol.

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Note

T.S. 198, è resa più chiara, nell’attuale contesto, tra gli altri, da Antonio Cassese, Terrorism Is Also Disrupting Some Crucial Legal Categories of International Law, in «European Journal of International Law», 12 (2001), spec. pp. 993-998; Robert K. Goldman, Certain Legal Questions and Issues Raised by the September 11th Attacks, in «Human Rights Brief», 9 (2001) 1, disponibile al sito internet http://www.wcl. american.edu/hrbrief/09/1sept.cfm; e Noah Feldman, Choices of Law, Choices of War, in «Harvard Journal of Law and Public Policy», 25 (2002), pp. 457 sgg. 2 In questo elenco, il diritto umanitario internazionale ha, all’apparenza, la storia migliore, proibendo in termini molto chiari alcune violenze contro le donne in tempo di guerra. Si veda, per esempio, Francis Lieber, Instructions for the Government of Armies of the United States in the Field (The Lieber Code), U.S. War Department, General Orders No. 100, par. 2, art. 37 (24 aprile 1863): «Gli Stati Uniti riconoscono e proteggono nei paesi nemici da essi occupati [...] le persone degli abitanti, in particolare, quelle delle donne; e la sacralità delle relazioni domestiche»; e la Convenzione di Ginevra sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra, 12 agosto 1949, art. III, 75 U.N.T.S. 287 [in seguito citata come Convenzione di Ginevra]. 3 I tentativi per convincere gli estensori della Dichiarazione universale dei diritti umani a prendere in considerazione l’umanità delle donne sono analizzati da Mary Ann Glendon, A World Made New: Eleanor Roosevelt and the Universal Declaration of Human Rights, New York 2001, pp. 111-112 e 164. Un esempio particolarmente significativo è l’assenza di un esplicito riferimento alla violenza contro le donne o all’aggressione sessuale nella Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne, G.A. Res. 180, p. 193 U.N. GAOR, 34th Sess., Supp. No. 45, p. 193, U.N. Doc. A/34/46 (18 dicembre 1979) [in seguito citato come CEDD]. Il comitato sull’eliminazione della discriminazione contro le donne vi ha posto rimedio nella General Recommendation No. 19, interpretando la definizione di discriminazione contenuta nell’art. 1 del CEDD in modo da «includere [...] la violenza fondata sul genere – vale a dire, la violenza che è diretta contro una donna in quanto donna o che colpisce le donne in modo eccessivo». CEDD, General Recommendation No. 19, par. 7, U.N. Doc. A/47/38 (1 febbraio 1992). Il caso della tratta delle donne fornisce un esempio a un livello diverso. Sebbene la tratta delle donne sia da lungo tempo un crimine in base alla legge delle nazioni, fino al Palermo Protocol, alcune delle sue reali dinamiche di potere non sono state affrontate in modo diretto. Si veda Protocol to Prevent, Suppress and Punish Trafficking in Persons, Especially Women and Children, Supplementing the United Nations Convention Against Transnational Organized Crime, G.A. Res. 25 (II), p. 54, U.N. Doc. A/55/383 (2 novembre 2000), che include «l’abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità [...] a scopo di sfruttamento» nella definizione di tratta. 4 Si veda infra, nn. 9, 12, 13 e la discussione nei successivi paragrafi II e III. 5 Questa mobilitazione è stata letta da alcuni come un semplice allineamento alla posizione degli Stati Uniti. Si veda, per esempio, Slavoj Žižek, Il profumo dell’amore, in Id., Benvenuti nel deserto del reale. Cinque saggi sull’11 settembre e date simili, Roma 2002, spec. pp. 146-148 [ed. or. 2002]. Questa lettura degli eventi del post-11 settembre, incentrata sugli Stati Uniti, con il resto del mondo come loro lacchè, non spiega i cambiamenti a livello internazionale che gli Stati Uniti non controllano interamente, né affronta la questione del perché il resto del mondo non

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faccia praticamente nulla rispetto alla violenza contro le donne, a livello nazionale o internazionale, con o senza il coinvolgimento degli Stati Uniti. 6 Si veda, per esempio, In-depth Study on All Forms of Violence Against Women, (A/58/508/ Add.2), G.A. Res. 185, U.N. GAOR, 58th Sess., U.N. Doc. A/ RES/58/185 (18 marzo 2004); The Secretary-General, Advancement of WomenViolence Against Women, Report of the U. N. Secretary-General, U.N. Doc. A/59/281 (20 agosto 2004); CEDD, General Recommendation 19 cit.; Organization of American States, Inter-American Convention on the Prevention, Punishment and Eradication of Violence Against Women (Convention of Belém do Pará), OEA/Ser.L/V/I.4 rev. 8, 22 maggio 2001, in «International Legal Materials», 33 (1994), pp. 1534 sgg. [in seguito citato come Convention of Belém do Pará]; Protocol to the African Charter on Human and Peoples’ Rights on the Rights of Women in Africa, 11 luglio 2003 (entrato in vigore il 26 novembre 2005), artt. 1(j), 3(4), 4(2), 5(d), 11(3), 22(b), 23(b), consultabile all’indirizzo internet http:// www.africa-union.org [in seguito citato come African Protocol]; M.C. v. Bulgaria, 646 European Court of Human Rights parr. 166, 185 (2004), il quale conclude che la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali richiede agli Stati membri di perseguire in modo efficace atti sessuali non consensuali, compresi quelli che avvengono in assenza di resistenza fisica da parte della vittima, e ritiene che la Bulgaria non abbia adempiuto al proprio dovere positivo di criminalizzare efficacemente lo stupro. Le osservazioni conclusive dell’U.N. Human Rights Committee sono anche critiche, a volte, verso gli Stati per le misure inadeguate contro importanti abusi verso le donne. Si veda, per esempio, Human Rights Committee, Concluding Observations of the Human Rights Committee: Yemen, par. 11, U.N. Doc. CCPR/CO/84/YEM (9 agosto 2005); Human Rights Committee, Concluding Observations of the Human Rights Committee: Kenya, parr. 10, 11, U.N. Doc. CCPR/CO/83/KEN (29 aprile 2005); Human Rights Committee, Concluding Observations of the Human Rights Committee: Uzbekistan, parr. 23, 24, U.N. Doc. CCPR/CO/83/UZB (26 aprile 2005). 7 «Violenza contro le donne» ha un significato operativo nelle indagini internazionali. Si vedano, per esempio, i Reports di Radhika Coomaraswamy, infra n. 14; l’Advancement of Women-Violence Against Women cit. Le definizioni usate a livello internazionale si possono trovare nella Convention of Belém do Pará: «La violenza contro le donne dovrà essere intesa in modo da comprendere la violenza fisica, sessuale, psicologica: a. che si verifica all’interno della famiglia o dell’unità domestica o all’interno di qualsiasi altra relazione interpersonale, che il responsabile abbia o meno condiviso l’abitazione con la donna, compresi, tra gli altri, lo stupro, le percosse e l’abuso sessuale; b. che si verifica all’interno della comunità e che è commessa da qualsiasi persona, compresi, tra gli altri, lo stupro, l’abuso sessuale, la tortura, il traffico di persone, la prostituzione forzata, il rapimento e le molestie sessuali sul luogo di lavoro, così come all’interno di istituzioni scolastiche, di strutture sanitarie o di qualsiasi altro luogo; c. che è commessa o condonata dagli Stati o dai suoi funzionari a prescindere dal luogo in cui avviene» (p. 1535); e nell’African Protocol: «‘Violenza contro le donne’ indica tutti gli atti compiuti contro le donne che causano o potrebbero causare loro danni fisici, sessuali, psicologici ed economici, inclusa la minaccia di compiere tali atti; o l’intraprendere l’imposizione di restrizioni o privazioni arbitrarie delle libertà fondamentali nella vita pubblica o privata, in tempo di pace e durante situazioni di conflitto armato o di guerra» (art. 1[j]). Questa espressione ha il pregio di essere concreta ma il difetto di non rendere

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conto della violenza contro gruppi relativamente privi di potere i quali, femminili in termini sociali più che biologici, sono femminilizzati come bersaglio della violenza maschile, inclusa la violenza sessuale. I gruppi più numerosi sono quelli costituiti da giovani e da uomini omosessuali. L’espressione «violenza fondata sul genere» risolve questo problema. Si veda, per esempio, CEDD General Recommendation 19 cit. (anche se tale raccomandazione, essendo un’interpretazione del CEDD, si applica esclusivamente alle donne). 8 Si veda il discorso di Kofi Annan all’assemblea generale dell’ONU del 20 settembre 1999, Two Concepts of Sovereignty, in UN Press Release SG/SM/7136 GA/9596, 20 settembre 1999, ripubblicato in Kofi Annan, The Question of Intervention: Statements by the Secretary-General, New York 1999, pp. 37 sgg. 9 L’FBI riferisce che 648 donne e 2175 uomini sono stati uccisi al World Trade Center l’11 settembre 2001 e complessivamente per le atrocità in quel giorno sono morti 739 donne e 2303 uomini. Federal Bureau of Investigation, Crime in the United States Special Report: The Terrorist Attacks of September 11, 2001: A Compilation of Data, Washington 2001, pp. 302 sgg. [in seguito citato come Uniform Crime Reports]. 10 Si vedano «The New York Times», Portraits: 9/11/01 e The Collected ‘Portraits of Grief’ from «The New York Times», New York 20032. 11 Una lettera di cinque pagine ritrovata nel bagaglio di Mohammed Atta, uno dei dirottatori dell’11 settembre, lasciato al Logan International Airport di Boston, affermava in un passo: «Andrete in paradiso. Avrete la più felice delle vite, la vita eterna [...].». Excerpts from Letter Thought to Be Instructions, in «The New York Times», 28 settembre 2001, B4. Un altro documento utilizzato dai dirottatori la notte prima degli attacchi affermava: «Quando lo scontro inizia, colpisca come un paladino chi non vuole tornare a questo mondo [...] sappiate che [...] le donne del paradiso ci stanno aspettando [...]». Notes Found After the Hijackings, ivi, 29 settembre 2001, B3. Si veda anche Joseph Lelyveld, All Suicide Bombers are not Alike, in «The New York Times Magazine», 20 ottobre 2001, p. 49. Il testamento di Atta specificava che solo a «buoni musulmani» doveva essere permesso di preparare il suo corpo e che le donne dovevano essere escluse dal suo funerale: «Non voglio che nessuna donna si rechi sulla mia tomba durante il funerale o anche in occasioni successive». Philip Shenon and David Johnson, Suspect’s Will Suggests a Longtime Plan to Die, in «The New York Times», 4 ottobre 2001, B5, che cita Atta. 12 In anni recenti, il numero di donne assassinate negli Stati Uniti è stato 3215 nel 2003, 3251 nel 2002, 3214 nel 2001, 2076 nel 2000 e 3085 nel 1999, secondo i resoconti annuali pubblicati dal Federal Bureau of Investigation, Crime in the United States. Per alcuni anni, le vittime di omicidi a sfondo sessuale non venivano rilevate statisticamente, così che il numero potrebbe essere più elevato. Il numero delle donne che si sa essere state assassinate dagli uomini varia ogni anno, ma gli uomini tendono a superare quantitativamente le donne come assassini di donne, in un rapporto di 10 a 1. 13 Milleduecentoquarantasette donne sono state uccise da uomini con i quali vivevano nel 2000. Bureau of Justice Statistics [Callie Marie Rennison], Intimate Partner Violence, 1993-2001, Washington 2003, una sintesi del quale è reperibile all’indirizzo internet http://bjs.ojp.usdoj.gov/index.cfm?ty=pbdetail&iid=1001. Per alcuni anni, il sesso delle vittime di omicidio non veniva rilevato statisticamente, così il numero potrebbe essere più elevato. Si stima che almeno un terzo delle donne assassinate siano state uccise dai loro partner maschili, mentre riguardo a un

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altro terzo non si conosce la natura della relazione tra vittima e colpevole. Bureau of Justice Statistics, Homicide Trends in the U.S.: Intimate Homicide, www.ojp. usdoj.gov/bjs/homicide/intimates.htm (visitato l’ultima volta il 15 ottobre 2005). Altri studi che esaminano più da vicino l’incidenza di omicidi a opera di uomini ai danni delle loro compagne negli Stati Uniti mostrano che il numero corretto è più vicino al 50 per cento. Si veda, per esempio, The New Mexico Intimate Partner Violence Death Review Team-Cameron S. Crandall, Getting Away with Murder III: Intimate Partner Violence Deaths 1999-2000, Albuquerque 2001, p. 39; Linda Langford, Nancy E. Issac, Stacey Kabat, Homicides Related to Intimate Partner Violence in Massachusetts, 1991-1995, Jamaica Plain 1999, il quale mostra che il 43 per cento di tutte le donne vittime di omicidio nello Stato furono uccise dai loro compagni, attuali o precedenti, e che «il sistema vigente per la raccolta dei dati negli Stati Uniti, il Supplementary Homicide Reports (SHR) compilato dall’FBI, non [...] riporta in modo completo tutte le vittime dei propri compagni»; e che, in Massachusetts, dal 1991 al 1995, si scoprì che l’SHR aveva trascurato il 29 per cento delle vittime dei propri compagni e non era stato all’altezza di documentare «altre vittime» come omicidi connessi alla violenza dei partner. Inoltre, l’SHR non dispone di categorie per le relazioni tra vittime e colpevoli quali ex fidanzati o ex fidanzate (p. 6). Così, la violenza domestica degli uomini contro le donne tende a essere sottostimata perfino quando si conclude con la morte. 14 Lori Heise, Mary Ellsberg e Megan Gottemoeller, Population Reports: Ending Violence Against Women, Baltimore 1999, p. 5, dove, con riferimento allo studio condotto in più paesi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, si dimostra che, in termini approssimativi, dal 10 al 50 per cento delle donne subiscono aggressioni fisiche da parte dei propri compagni maschi almeno una volta nella loro vita; Radhika Coomaraswamy, Preliminary Report of the Special Rapporteur on Violence Against Women, its Causes and Consequences, in particolare parr. 120-21, U.N. Doc. E/CN.4/1995/42 (22 novembre 1995) [in seguito citato come Preliminary VAW Report]; Ead., Report of the Special Rapporteur on Violence Against Women, its Causes and Consequences, in particolare par. 62, U.N. Doc. E/CN.4/1996/53 (7 febbraio 1996) [in seguito citato come Second VAW Report]; Ead., Report of the Special Rapporteur on Violence Against Women, Its Causes and Consequences, in particolare parr. 22-23, U.N. Doc. E/CN.4/1997/ 47 (17 giugno 1997) [in seguito citato come Third VAW Report]. 15 Si veda Bruno Simma et al. (a cura di), The Charter of the United Nations: A Commentary, Oxford 2002, vol. 1, pp. 668-670, che discute la portata dell’«attacco armato». Ad ogni modo, il diritto internazionale ha incorporato sempre più atti e attori non statali nel proprio quadro di riferimento, per esempio, in base al Protocollo II delle Convenzioni di Ginevra. Protocollo II addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1949, relativo ai conflitti armati non internazionali, 8 giugno 1977, 1125 U.N.T.S. 609 [in seguito citato come Protocollo II]. Certe norme jus cogens, come quelle contro il genocidio, si sono sempre applicate ad attori tanto privati quanto pubblici. Ma, come riconosce il Report of the High-level Panel on Threats, Challenges and Change, «le norme che regolano l’uso della forza da parte di attori non statali non hanno tenuto il passo con quelle che riguardano gli Stati». Highlevel Panel on Threats, Challenges and Change, A More Secure World: Our Shared Responsibility, par. 159, U.N. Doc. A/59/565 (2 dicembre 2004) [in seguito citato come High-level Report]. 16 Gli standard internazionali riguardanti il ricorso alla forza si applicano prin-

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cipalmente all’invasione di uno Stato da parte di un altro. Per esempio, «l’uso della forza o la minaccia della forza» nell’art. 2(4) dello Statuto dell’ONU è generalmente inteso come più ampio dell’«attacco armato», il che significa che esso include anche i semplici incidenti o le schermaglie di confine, comprese quelle da parte di irregolari ai confini degli Stati. Si veda Military and Paramilitary Activities (Nicaragua v. United States), 1986 I.C.J. 14, par. 195 (27 giugno) [in seguito citato come Nicaragua]. Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (CPI) è ancora più ampio, in quanto riconosce che il conflitto armato può svolgersi tra due attori non statali, ma, se le autorità governative non sono coinvolte, vuole vedere dimostrata la presenza di un «prolungato conflitto armato» tra «gruppi armati organizzati» (art. 8, par. 2[f]). 17 Si veda Catharine A. MacKinnon, Sex Equality, New York 2001, pp. 715-745, 772-787, dove si indicano numerose fonti che discutono e documentano l’inefficacia dei singoli Stati all’interno della confederazione nordamericana nell’affrontare la violenza contro le donne, comprese la violenza domestica e le aggressioni sessuali. Con variazioni culturali, simili schemi esistono in tutto il mondo. Si veda Second VAW Report, parr. 54-114, 117-123, 130. 18 Si noti che il Preambolo nello Statuto dell’ONU inizia con «Noi, popoli» e non con «Noi, Stati». 19 L’art. 51 dello Statuto dell’ONU sancisce che «Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva». Si potrebbe interpretare questa clausola come riguardante anche gli attori privati nelle guerre civili che hanno carattere di genocidio, ma, secondo la formulazione classica, il diritto all’autodifesa si applica agli Stati, in larga parte perché è l’eccezione all’interdizione contenuta nell’art. 2(4) dello Statuto dell’ONU, che (almeno fino a prima dell’11 settembre) è stata interpretata come applicabile solamente agli Stati. Per l’interpretazione della Corte internazionale di giustizia in merito alla difesa collettiva in generale, si veda Nicaragua cit., parr. 195-200. Per gli Stati, il diritto all’autodifesa è spesso visto anche come consuetudinario piuttosto che come soppiantato interamente dallo Statuto. Si veda Id. par. 193. 20 Si veda, per esempio, B. Sharon Byrd, Till Death Do Us Part: A Comparative Law Approach to Justifying Lethal Self-Defense by Battered Women, in «Duke Journal of Comparative and International Law», 1 (1991), spec. pp. 172-176; Sandra K. Lyons e David McCord, Moral Reasoning and the Criminal Law: The Example of Self-Defence, in «American Criminal Law Review», 30 (1992), spec. pp. 107-110; Second VAW Report cit., parr. 8-10, 130, che critica gli Emirati Arabi Uniti per non aver accettato rivendicazioni di autodifesa come quella di «una lavoratrice filippina immigrata di 16 anni, Sarah Balabagan, accusata di aver pugnalato a morte il proprio datore di lavoro per autodifesa, dopo essere stata stuprata da lui sotto la minaccia di un coltello» e descrive le attenuanti spesso concesse per i crimini degli uomini che uccidono le donne, attenuanti che non sono estese alle donne che uccidono chi abusa di loro per autodifesa. Forse, si potrebbe dimostrare che gli standard legali che impediscono alle donne di usare la forza per autodifesa violano la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, artt. 6, 26, G.A. Res. 220A (XXI), at 52, U.N. Doc. A/6316 (19 dicembre 1996), 999 U.N.T.S. 171 [in seguito citato come CIDCP]. 21 Una camera di consiglio del Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia (TPIJ) ha sostenuto che il paragrafo (1) (c) dell’art. 31 dello Statuto della CPI, il quale sancisce che l’autodifesa esclude ogni responsabilità penale se l’atto

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è in risposta a «un imminente e illegittimo uso della forza in modo proporzionato rispetto all’intensità del pericolo» verso la persona «protetta», codifica il diritto internazionale consuetudinario. Prosecutor v. Kordic´, Case No. IT-95-14/2-T par. 451 (26 febbraio 2001). La Corte d’appello sembra aver approvato questa interpretazione: Prosecutor v. Kordic´, Case No. IT-95-14/2-A par. 837 (17 dicembre 2004). 22 Per un riconoscimento giuridico di questa critica, nel contesto degli Stati Uniti, si veda State v. Wanrow, 588 P.2d 1320 (Wash. 1978) dove la cosiddetta sindrome delle donne picchiate è un tentativo di affrontare questo problema. Si veda Phyllis L. Crocker, The Meaning of Equality for Battered Women Who Kill Men in Self-Defense, in «Harvard Women’s Law Journal», 8 (1985), pp. 121, 123, 126: «La dottrina tradizionale dell’autodifesa si fonda sulle esperienze degli uomini; non contempla né riconosce quegli atti di autodifesa da parte delle donne che sono ragionevoli, ma diversi da quelli degli uomini [...]. L’esperienza maschile permea sia gli elementi della difesa sia gli standard di ragionevolezza». 23 Si vedano Lyons e McCord, Moral Reasoning and the Criminal Law cit., p. 108 e Byrd, Till Death Do Us Part cit., p. 172. 24 Si veda Nicaragua, parr. 194, 237. Un’eccellente analisi è fornita da Christine D. Gray, International Law and the Use of Force, Oxford-New York 2000, pp. 105-108, 111. Si veda anche Jost Delbruck, Proportionality, in Rudolph Bernhardt e Peter Macalister-Smith (a cura di), Encyclopedia of Public International Law, Amsterdam-Lausanne-New York 1997, vol. 3, pp. 1140 sgg. 25 «In un paese, per esempio, le donne stanno scontando lunghe pene detentive per aver ucciso, per autodifesa, gli uomini che avevano abusato di loro. Viceversa, gli uomini che uccidono le proprie compagne sono spesso giustificati o le loro pene sono mitigate dal momento che la corte accoglie l’argomento difensivo della provocazione o del crimine d’onore»: Second VAW Report, par. 130. 26 Una buona analisi di questo tema, così come della dicotomia tra guerra e pace, si trova in Nathaniel Berman, Privileging Combat? Contemporary Conflict and the Legal Construction of War, in «Columbia Journal of Transnational Law», 43 (2004), pp. 1-72. Si noti che le tutele per civili durante i conflitti armati non sono illimitate. I civili possono perdere le proprie tutele se prendono parte alle ostilità o, in base alla dottrina del danno collaterale ragionevole, se le perdite non intenzionali di civili sono proporzionate rispetto al vantaggio militare che se ne ricava. Queste dottrine trovano rispondenza nei rapporti tra i sessi: per esempio, le donne sono punite se reagiscono a un attacco o sono di fatto trattate come vittime di incidenti nei conflitti degli uomini tra di loro, come nel caso degli stupri di guerra non perseguiti. 27 Si veda Theodor Meron, Rape as a Crime Under International Humanitarian Law, in «American Journal of International Law», 87 (1993), pp. 424 sgg.; Christine M. Chinkin, Rape and Sexual Abuse in International Law, in «European Journal of International Law», 5 (1994), pp. 326 sgg. 28 Si veda Prosecutor v. Akayesu, Case No. ICTR-96-4-T, parr. 686-688 (2 settembre 1998) [in seguito citato come Akayesu]; Catharine A. MacKinnon, Defining Rape Internationally: A Comment on Akayesu, in «Columbia Journal of Transnational Law», 44 (2006) 3, pp. 940-958. 29 Tutti gli aspetti rilevanti di questo problema sono presenti nel dibattito sulla legalità delle commissioni militari che gli Stati Uniti stanno organizzando per processare gli individui accusati di attività connesse all’11 settembre o successive. Si veda, per esempio, Joan Fitzpatrick, Jurisdiction of Military Commissions and the

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Ambiguous War on Terrorism, in «American Journal of International Law», 96 (2002), spec. pp. 345-348, che discute le contraddizioni prodotte da un’applicazione simultanea di modelli di guerra e penali; Harold Hongju Koh, The Case Against Military Tribunals, ivi, pp. 337 sgg.; Ruth Wedgwood, Al Qaeda, Terrorism, and Military Commissions, ivi, pp. 328 sgg. Le maggiori questioni giuridiche sollevate in questo contesto vengono risolte in casi penali che coinvolgono i detenuti. Si veda, per esempio, Richard A. Serrano, Detainee Challenges ‘Combatant’ Status; Lawyers for a Man Held at a Military Jail in South Carolina Plan to Test the President’s Authority to Decide the Legal Standing of Terrorism Suspects, in «L.A. Times», 18 settembre 2005, A22; Mitch Frank, Terror Goes on Trial, in «Time Magazine», 7 marzo 2005, p. 34; Jerry Markson, U.S. Can Confine Citizens Without Charges, Court Rules, in «Washington Post», 10 settembre 2005, A01. 30 L’art. 3 della Convenzione di Ginevra (comune al testo di tutti e quattro i trattati che vanno sotto tale nome) sancisce: «Nel caso in cui un conflitto armato che non presenti carattere internazionale scoppiasse sul territorio di una delle Alte Parti contraenti, ciascuna delle Parti in conflitto sarà tenuta ad applicare almeno le disposizioni seguenti: 1. Le persone che non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri di Forze armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento da malattia, ferita, detenzione o qualsiasi altra causa, saranno trattate, in ogni circostanza, con umanità, senza alcuna distinzione di carattere sfavorevole basata sulla razza, il colore, la religione o la credenza, il sesso, la nascita o il censo, o altro criterio analogo. A questo scopo, sono e rimangono vietate, in ogni tempo e luogo, nei confronti delle persone sopra indicate: a) le violenze contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assassinio in tutte le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi; b) la cattura di ostaggi; c) gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti; d) le condanne pronunciate e le esecuzioni compiute senza previo giudizio di un tribunale regolarmente costituito che offra le garanzie giudiziarie riconosciute indispensabili dai popoli civili» [la citazione è tratta dal testo in italiano, reperibile ad esempio sul sito http://it.wikisource.org/wiki/Protezione_delle_persone_civili_ in_tempo_di_guerra_-_Convenzione_%28IV%29,_Ginevra,_12_agosto_1949]. 31 Ibidem. 32 Questo pare essere comprovato, ma le uniche fonti sono i mezzi d’informazione. Si veda Saturday Early Show: New Videotape from Osama bin Laden (programma televisivo della CBS, 30 ottobre 2004): «Sul nastro, per la prima volta, Bin Laden ha ammesso di aver ordinato gli attacchi dell’11 settembre». Si veda anche Weekend Edition: New Osama bin Laden Tape Rears Its Ugly Head, (programma radiofonico della NPR, 30 ottobre 2004); e la traduzione di un’intervista condotta da Tayseer Alouni della emittente al-Jazira e tradotta dalla CNN, Transcript of Bin Laden’s October interview (ottobre 2001), consultabile all’indirizzo internet http:// edition.cnn.com/2002/WORLD/asiapcf/south/02/05/binladen.transcript/. 33 Si veda Walter Pincus e Dana Milbank, The Iraq Connection: Al QaedaHussein Link Is Dismissed, in «Washington Post», 17 giugno 2004, il quale riporta che il vicepresidente Dick Cheney ha definito «schiaccianti» le prove dei legami e un sondaggio di Harris dell’aprile 2004 ha mostrato come non meno del 49 per cento degli americani credeva che una «prova evidente» della connessione fosse stata trovata. La Commissione sull’11 settembre ha concluso che, sebbene gli ufficiali iracheni possano aver incontrato Bin Laden o i suoi collaboratori in qualche occasione, «fino ad oggi, non abbiamo visto nessuna prova che [i contatti tra Bin

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Laden e l’Iraq] si siano mai consolidati in una relazione collaborativa e operativa. Né abbiamo visto alcuna prova che indichi che l’Iraq abbia cooperato con al-Qaida per sviluppare o eseguire alcun attacco contro gli Stati Uniti». National Commission on Terrorist Attacks upon the United States, The 9-11 Commission Report, Washington 2004, p. 66. 34 Si veda Lassa Oppenheim, International Law: A Treatise, London-New York 19558, p. 550, il quale spiega che la questione definitiva è una questione empirica: «se gli individui coinvolti fossero associati in modo sufficientemente stretto con gli Stati per i loro atti da essere considerati atti di Stato piuttosto che atti di individui privati»; Emmerich de Vattel, Il diritto delle genti, ovvero Principii della legge naturale, applicati alla condotta e agli affari delle nazioni e de’ sovrani, Lione 17811783 [ed. or. 1758], il quale afferma che gli atti di privati cittadini possono essere attribuiti allo Stato se lo Stato stesso «approva» o «ratifica» tali atti, diventando così «il vero autore dell’ingiuria» (vol. 2, p. 47). Una regola simile riguarda l’attribuzione di danni civili. Si veda Cotesworth e Powell (Great Britain v. Colombia) (1875), ripubblicato in John Bassett Moore, History and Digest of the International Arbitrations to Which the United States Had Been a Party, Washington 1898, vol. 2, p. 2050, che cita Vattel a proposito dell’affermazione secondo cui «una nazione non è responsabile nei confronti di un’altra per gli atti dei propri singoli cittadini, fatta eccezione per quando li approva o li ratifica. Diventa allora una questione pubblica e la parte danneggiata può considerare la nazione stessa come il vero autore del danno». Ci sono concezioni diverse in merito agli standard per attribuire il comportamento di attori non statali agli Stati. Si veda Nicaragua, parr. 114-116. Esponendo un test di «controllo effettivo» da parte degli Stati, la CPI, in quel caso, ha ritenuto che gli atti dei Contras eseguiti con l’appoggio americano (finanziamento, addestramento ed equipaggiamento) non fossero imputabili agli Stati Uniti, mentre gli Stati Uniti sono stati ritenuti responsabili per gli atti che erano risultato diretto dell’operato dell’esercito americano o dei suoi agenti salariati (ivi, par. 115). Il nocciolo del concetto è sviluppato in United States Diplomatic and Consular Staff in Tehran (United States v. Iran), 1980 I.C.J. 3, 27-35, 42 (24 maggio), nel quale l’occupazione dell’ambasciata americana da parte degli studenti armati, in seguito rivendicata dal governo, è stata attribuita all’Iran. In Prosecutor v. Tadic´, Case No. IT-94-1-T, Judgment, parr. 116-144 (15 luglio 1999), la Corte d’appello del TPIJ, considerando la responsabilità della Jugoslavia per gli atti delle forze serbobosniache, ha abbassato i requisiti per attribuire i loro atti illegali allo Stato al «complessivo controllo» sui gruppi paramilitari organizzati. Quella corte ha ritenuto che il grado di controllo statale richiesto vari in modo tale che la questione «è se un singolo individuo privato o un gruppo che non sia militarmente organizzato abbia agito di fatto come un organo statale nel compiere uno specifico atto» (ivi, par. 137). Si veda anche Prosecutor v. Tadic´, Case No. IT-94-1-T, Separate and Dissenting Opinion of Judge McDonald Regarding the Applicability of Article 2 of the Statute, parr. 18-34 (7 maggio 1997). Sembra che la comunità internazionale si stia muovendo nella direzione di accettare l’interpretazione maggioritaria del caso Tadic´ dell’attribuzione post-Afghanistan: «Si può ritenere che il controllo richiesto dal diritto internazionale esista quando uno Stato (o, nel caso di un conflitto armato, una delle parti in conflitto) ha un ruolo nell’organizzare, coordinare o pianificare le azioni militari del gruppo militare, oltre che nel finanziare, addestrare, equipaggiare o nel fornire supporto operativo a quel gruppo» (Tadic´, Judgment,

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par. 137, corsivo mio). Si veda anche Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts, G.A. Res. 83, art. 8, U.N. Doc. A/RES/56/83 (12 dicembre 2001): l’attribuzione allo Stato è appropriata se l’attore non statale «agisce di fatto in base alle direttive di quello Stato, sotto la sua direzione o il suo controllo nel mettere in atto la condotta [illegale]». Si è fatto qualche progresso verso la responsabilità internazionale per le azioni del leader di un’entità fuorilegge in una corte nazionale. Si veda Kadic v. Karadžic´, 70 F.3d 232 (2d Cir. 1996), cert. denied, 518 U.S. 1005 (1996) [in seguito citato come Karadžic´]. 35 Si veda il trattato della pace di Westfalia, cit. alla n. 1. Lo Statuto dell’ONU del 1945 ha significativamente incoraggiato questo sviluppo. Prima dello Statuto, gli Stati rispondevano alla violenza non statale attraverso l’uso della forza, per esempio, attaccando l’Emiro di Tripoli, dopo che i pirati berberi avevano interferito con la navigazione nel Mediterraneo, e inseguendo Pancho Villa fino in Messico. 36 Stando a quanto riferito, il presidente Bush ha detto ai suoi collaboratori «Siamo in guerra», quando ha ricevuto la notizia che il secondo aereo aveva colpito la seconda torre. Dan Balz, A Bond Cemented by Chemistry: Crisis Highlights Links and Differences Between Bush Administrations, in «Washington Post», 15, settembre 2001, A3. L’11 settembre, il presidente Bush ha dichiarato: «Rimaniamo uniti per vincere la guerra contro il terrorismo». Address to the Nation on the Terrorist Attacks, in «Public Papers», 2, p. 1100 (11 settembre 2001). Il 16 settembre, ha detto: «Per noi, è il momento di vincere in modo definitivo la prima guerra del ventunesimo secolo, così che i nostri figli e i nostri nipoti possano vivere in pace nel ventunesimo secolo». Remarks on Arrival at the White House and an Exchange with Reporters, ivi, p. 1116 (16 settembre 2001). Il 20 settembre, ha dichiarato: «L’11 settembre i nemici della libertà hanno commesso un atto di guerra contro il nostro paese». Address Before a Joint Session of the Congress on the United States Response to the Terrorist Attacks of September 11, ivi, p. 1140 (20 settembre 2001). E il 25 settembre, ha dichiarato ancora: «Due settimane fa c’è stato un atto di guerra dichiarata contro l’America. [...] Siamo in guerra, una guerra che vinceremo». Remarks to Federal Bureau of Investigation Employees, ivi, pp. 1160-1162 (25 settembre 2001). Rispetto al Patriot Act, Bush ha affermato che «questo governo attuerà questa legge con tutta l’urgenza propria di una nazione in guerra». Remarks on Signing the USA PATRIOT ACT of 2001, ivi, p. 1307 (26 ottobre 2001). Si veda l’editoriale di Donald Rumsfeld, A New Kind of War, in «The New York Times», 27 settembre 2001, A21, che, qua e là, fa riferimento allo sforzo statunitense contro il terrorismo come a «questa guerra». Nel suo discorso sullo stato dell’unione del 2004, il presidente Bush sembra aver riconosciuto la questione giuridica dicendo: «So che alcune persone mettono in dubbio che l’America sia veramente in guerra. Vedono il terrorismo più come un crimine, come un problema da risolvere applicando il diritto e con incriminazioni [...]. Dopo il caos e la carneficina dell’11 settembre, non è sufficiente recapitare ai nostri nemici delle scartoffie guiridiche. I terroristi e i loro sostenitori hanno dichiarato guerra agli Stati Uniti e guerra è ciò che avranno». President’s State of the Union Message to Congress and the Nation, ripubblicato in «The New York Times», 21 gennaio 2004, A18. Sebbene una dichiarazione di guerra non sia essenziale – la questione è la creazione di uno stato di conflitto armato – si potrebbe leggere la fatwa di Bin Laden del 1998 (vedi infra n. 53), come una dichiarazione di guerra. 37 In realtà, S.C. Res. 1368, Preamble, U.N. Doc. S/RES/1368 (12 settembre 2001) fa più di questo. Fa notare che il Consiglio di sicurezza «sta riconoscendo il

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diritto intrinseco all’autodifesa individuale o collettiva in conformità con lo Statuto». Si veda anche S.C. Res. 1373, Preamble, U.N. Doc. S/RES/1373 (28 settembre 2001). Varie concezioni sulla portata e i contorni del diritto all’autodifesa in base allo Statuto dell’ONU sono esposte in articoli sulla legalità della guerra americana contro l’Iraq. Si veda, per esempio, William H. Taft IV e Todd F. Buchwald, Preemption, Iraq, and International Law, in Future Implications of the Iraq Conflict, in «American Journal of International Law», 97 (2003), pp. 557 sgg., che considera legale l’attacco in quanto atto di autodifesa collettiva, specialmente alla luce delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza del 1990 e del 2003; Richard N. Gardner, Neither Bush Nor the ‘Jurisprudes’, ivi, pp. 585 sgg., che discute i rischi legati all’ampliamento della portata del diritto all’autodifesa, alla luce della crisi dei missili cubani; Jane E. Stromseth, Law and Force After Iraq: A Transitional Moment, ivi, pp. 628 sgg., che mette in guardia contro l’estensione della dottrina della guerra preventiva; Jürgen Habermas, Interpreting the Fall of a Monument, in «Georgetown Law Journal», 4 (2003), pp. 701 sgg., il quale sostiene che la guerra non rappresenta la sconfitta del diritto internazionale, ma il superamento dell’autorità normativa degli Stati Uniti, anche se la guerra in Iraq è incompatibile con lo Statuto dell’ONU [cfr. Jürgen Habermas, Che cosa significa il crollo del monumento?, in Id., L’Occidente diviso, Roma-Bari 2007, pp. 5 sgg. (ed. or. 2004)]. 38 Si veda Lord Robertson, North American Treaty Organization (NATO): Statement by NATO Secretary General, Lord Robertson, in «International Legal Materials», 40 (2001), pp. 1268 sgg. 39 Questo non per prendere posizione nel dibattito sui «combattenti irregolari», ma bisognerebbe notare che le forze armate degli Stati non hanno, sempre e in modo automatico, diritto allo status di prigioniero di guerra se lo Stato viola sistematicamente il diritto sul conflitto armato. 40 Per utili rassegne: Rosalyn Higgins, The General International Law of Terrorism, in Rosalyn Higgins e Maurice Flory (a cura di), Terrorism and International Law London-New York 1997, pp. 13 sgg.; M. Cherif Bassiouni (a cura di), International Criminal Law, Dobbs Ferry 19872, vol. 1, pp. 776-780; W. Michael Reisman, International Legal Responses to Terrorism, in «Houston Journal of International Law», 22 (1999), pp. 3 sgg. L’assemblea generale dell’ONU non ha ancora messo a punto una convenzione unica per colmare le lacune dei dodici accordi esistenti contro il terrorismo. Si veda Gerhard Hafner, Certain Issues of the Work of the Sixth Committee at the Fifty-Sixth General Assembly, in «American Journal of International Law», 97 (2003), pp. 147 sgg. 41 Si veda, per esempio, S.C. Res. 1368 e S.C. Res. 1373, cit. sopra n. 37. 42 Per le discussioni su questioni di definizione, si veda Jordan J. Paust, A Definitional Focus, in Yonah Alexander e Seymour Maxwell Finger (a cura di), Terrorism: Interdisciplinary Perspectives, New York 1977, pp. 18-25; Elizabeth Chadwick, Self-Determination, Terrorism, and the International Humanitarian Law of Armed Conflict, The Hague-Boston, Mass., 1996, pp. 2-3; Susan Tiefenbrun, A Semiotic Approach to a Legal Definition of Terrorism, in «ILSA Journal of International and Comparative Law», IX (2003) 2, pp. 357-390. Il secondo elemento citato nel corpo del testo escluderebbe il terrorismo di Stato, che molte persone (me compresa) pensano dovrebbe essere incluso. Per un’illuminante discussione, si veda U.N. Economic and Social Council [ECOSOC], Sub-Committee on Promotion and Protection of Human Rights, Terrorism and Human Raghts, parr. 37-67, U.N. Doc. E/CN.4/Sub.2/2001/31 (27 giugno 2001) (preparato da Kalliopi K. Koufa).

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Note

L’High-level Report adotta un approccio integrativo a questa questione. Facendo riferimento alle definizioni esistenti, il rapporto descrive il terrorismo come riconducibile, oltre che agli atti inclusi nelle convenzioni esistenti in materia, a «ogni azione [...] che sia intesa a provocare la morte o seri danni fisici ai civili o ai noncombattenti, quando lo scopo di una simile azione sia, in base alla sua natura o al suo contesto, minacciare la popolazione o costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere, o ad astenersi dal compiere, un qualunque atto». High-level Report, par. 164(d). 43 Catharine A. MacKinnon, Toward a Feminist Theory of the State, Cambridge, Mass., 1989; Kate Millett, La politica del sesso, Milano 1971 [ed. or. 1970]. 44 Si confronti International Convention for the Suppression of the Financing of Terrorism, G.A. Res. 54/109, Annex, U.N. Doc.A/RES/54/109 (25 febbraio 2000), la quale richiede che la minaccia sia rivolta contro un civile o un non-combattente, con 8 U.S.C. par. 1182(a)(3)(B)(iii)(II) (2005), il quale non riporta questo elemento. In base alla Convenzione, un’azione è terroristica solo se è intesa a forzare l’azione di un governo o di un’organizzazione internazionale; in base alla legge americana, l’intento di forzare l’azione di una qualunque parte terza è sufficiente. L’International Convention Against the Taking of Hostages interpreta «tutti gli atti di cattura di ostaggi come manifestazioni di terrorismo internazionale» G.A. Res. 34/146, Preamble, U.N. Doc.A/C.6/34/L.23 (17 dicembre 1979). Essa identifica l’obiettivo politico di un individuo che cattura degli ostaggi, definendo tale criminale come una persona «che rapisce o detiene e minaccia di uccidere, di ferire o di continuare a detenere un ostaggio [...] per forzare una parte terza, vale a dire uno Stato [...] a compiere o ad astenersi dal compiere una qualunque azione come [...] condizione per rilasciare l’ostaggio» (art. 1, par. 1). Si veda Christopher L. Blakesley, Terrorism, Drugs, International Law, and the Protection of Human Liberty. A Comparative Study of International Law, Its Nature, Role, and Impact in Matters of Terrorism, Drug Trafficking, War, and Extradition, Ardsley-on-Hudson 1992, pp. 17-20, che definisce il terrorismo come violenza rivolta contro innocenti o non-combattenti per fare leva o ricattare una parte terza; High-level Report, par. 164(d). 45 Forse, per gli Stati Uniti, si è trattato di abbandonare i tre luoghi sacri. Si veda Walter Pincus, Bin Laden Fatalistic, Gaunt in New Tape, in «Washington Post», 28 dicembre 2001. Oppure che gli americani provassero la paura che provano i palestinesi. Su entrambi gli aspetti, si veda, per esempio, Cam Simpson, U.S. Fears More Attacks, in «Chicago Tribune», 14 maggio 2003, A6, che cita Osama bin Laden: «Ho giurato di fronte a Dio che l’America si sarebbe sognata la sicurezza e che non l’avrebbe nemmeno vista da lontano, fino che noi non l’avessimo vissuta e vista in Palestina, e non prima che le armate degli infedeli lascino la terra di Maometto». 46 Sebbene, assumendo un conflitto armato, potrebbe esserlo. Si veda Convenzione di Ginevra, art. 33; Protocollo II, art. 4; Protocollo I addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, art. 51, 8 giugno 1977, 1125 U.N.T.S. 3, in «International Legal Materials», 16, pp. 1391 sgg. [in seguito citato come Protocollo I]. Per una lungimirante discussione di questa interfaccia, si veda Gregory M. Travalio, Terrorism, International Law, and the Use of Military Force, in «Wisconsin International Law Journal», 18 (2000), pp. 145 sgg. 47 Si veda United Nations Diplomatic Conference of Plenipotentiaries on the Establishment of an International Criminal Court, June 15 to July 17, 1998, Final Act of the United Nations Diplomatic Conference of Plenipotentiaries on the

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Establishment of an International Criminal Court, Annex 1(E), U.N. Doc. A/ CONF.183/10 (17 luglio 1998), il quale raccomanda «una conferenza che, dando seguito all’art. 123 del Tribunale penale internazionale, consideri i crimini di terrorismo e i crimini legati alla droga nell’ottica di arrivare a una definizione accettabile e alla loro inclusione nella lista dei crimini sotto la giurisdizione della Corte». Si veda anche Otto Triffterer et al. (a cura di), Commentary on the Rome Statute of the International Criminal Court: Observers’ Notes, Article by Article, Baden-Baden 1999, pp. 98-99. 48 Per un elenco aggiornato, si veda U.N. Treaty Collection, all’indirizzo internet http://treaties.un.org/Home.aspx. 49 Che questa sarebbe stata l’eredità dell’ex-presidente Clinton rimane una fantasia non realizzata. Per una più concisa ma consonante raccomandazione alle commissioni per la verità e la riconciliazione post-conflitto, come sono attualmente strutturate, di investigare sui crimini contro le donne, si veda Elizabeth Rehn e Ellen Johnson Sirleaf, United Nations Development Fund for Women (UNIFEM), Women, War and Peace: The Independent Experts’ Assessment on the Impact of Armed Conflict on Women and Women’s Role in Peacebuilding 106-107, 140 (2002), reperibile agli indirizzi internet http://www.unifem.org/materials/item_detail. php?ProductID=17 oppure http://hdrnet.org/549/. 50 Nello Statuto di Roma, i crimini contro l’umanità hanno perso il nesso, precedentemente richiesto, con uno stato di guerra, sebbene per qualificarsi come tale un atto debba ancora essere «commesso nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell’attacco » (art. 7, par. 1). In relazione a questo, si noti che i due tribunali ad hoc, il TPIJ e il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (TPIR), che hanno trattato la violenza contro le donne come crimine contro l’umanità, erano inseriti nella realtà di un contesto di conflitto armato e di genocidio. 51 La maggior parte della riflessione sullo stato delle parti non statali in base allo Statuto di Roma si risolve intorno alla questione se i loro connazionali possano essere processati, non se le parti non statali possano avere accesso ai risarcimenti. Per una discussione in merito al dibattito sui trattati che coinvolgono parti terze nel contesto della CPI, si veda Madeline Morris, High Crimes and Misconceptions: The ICC and Non-Party States, in «Law and Contemporary Problems», 64 (2001), pp. 13 sgg. 52 Lo Statuto di Roma definisce crimini contro l’umanità atti di violenza sessuale, quando commessi come parte di «un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell’attacco» (art. 7, par. 1). 53 Convenzione sul genocidio, 9 dicembre 1948, 78 U.N.T.S. 277, art. 2. Sebbene considerare l’11 settembre minimizzi le identità multinazionali del gruppo delle vittime, questo tipo di mescolanza è spesso presente nei genocidi che sono definiti dall’intenzione: si veda ancora detta Convenzione. Potenziali esempi di intenzioni di genocidio riferite in relazione agli attacchi dell’11 settembre includono: il 23 febbraio 1998, quando Šaik Osama bin-Muhammad bin-Laden ha lanciato il suo jihad contro gli ebrei e i crociati affermando: «La decisione di uccidere gli americani e i loro alleati – civili e militari – è un dovere individuale per ogni mussulmano che sia in grado di farlo, in qualunque paese sia possibile farlo [...]. Noi – con l’aiuto di Dio – ci appelleremo a ogni musulmano che crede in Dio e desidera essere ricompensato per aver obbedito all’ordine di Dio di uccidere gli americani e di rubare i loro soldi, in qualunque momento e ovunque si trovino». A Wealthy, Shadowy

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Note

Mastermind, in «Atlanta Journal Constitution», 21 agosto 1998, C2. Il testo di un’affermazione videoregistrata di Bin Laden trasmessa dalla televisione di al-Jazira asserisce: «Dio ha benedetto un gruppo di mussulmani, l’avanguardia dell’Islam, affinché distruggessero l’America». Bin Laden’s Statement: ‘The Sword Fell’, in «The New York Times», 8 ottobre 2001, B7. Al-Jazira ha trasmesso anche un video registrato che dava voce a Ahmed Alhaznawi, dirottatore dell’11 settembre, il quale ha affermato: «È tempo di uccidere gli americani sulla loro propria terra, tra i loro figli, dove sono più forti e vicino alle basi dei loro servizi di intelligence». Videotape Links Al Qaeda with Sept. 11 Hijackers, ivi, 16 aprile 2002, A5. Il 21 maggio 2003, al-Jazira ha trasmesso una registrazione audio di Ayman al-Zawahiri, collaboratore di lunga data di Osama bin Laden, che esortava i mussulmani a «eseguire attacchi contro le ambasciate, le compagnie, gli interessi e i funzionari degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, dell’Australia e della Norvegia. Fate terra bruciata sotto i loro piedi [...]. I crociati e gli ebrei capiscono solo la lingua dell’omicidio, dello spargimento di sangue [...] e delle torri che bruciano». New Al-Qaeda Tape Calling for Attacks, al-Jazira, 21 maggio 2003, consultabile all’indirizzo http://www.aljazeera.com/archive/2003/05/200849135715154191.html. 54 Joseph J. Lador Lederer, A Legal Approach to International Terrorism, in «Israel Law Review», 9 (1974), p. 211. 55 Quest’analisi è discussa in Catharine A. MacKinnon, La sessualità del genocidio, cap. 7 nel presente volume. La decisione giudiziaria nel caso Akayesu, in effetti, affronta il ruolo delle violenze sessuali nel genocidio definito in base agli standard esistenti. Si veda Akayesu, 1731. 56 Si veda, per esempio, Catharine A. MacKinnon, On Torture: A Feminist Perspective on Human Rights, in Kathleen e Paul Mahoney (a cura di), Human Rights in the Twenty-First Century: A Global Challenge, Dordrecht-Boston 1992, pp. 221 sgg.; Ead., Rape, Genocide, and Women’s Human Rights, in Alexandra Stiglmayer (a cura di), Mass Rape: The War Against Women in Bosnia-Herzegovina, Lincoln 1994; Hilary Charlesworth e Christine M. Chinkin, The Boundaries of International Law: A Feminist Analysis, New York-Manchester 2000, pp. 234-235. 57 Si veda United Nations War Crimes Commission, Law Reports of Trials of War Criminals, London 1947-1949, vol. IV, pp. 1-2, che incrimina con successo il generale giapponese Tomoyuki Yamashita per gli stupri, gli omicidi e le esecuzioni di massa compiute nelle Filippine, durante la seconda guerra mondiale. 58 Si veda, per esempio, Prosecutor v. Kunarac, Kovacˇ, & Vukovic´ (Focˇa), Case Nos. IT-96-23-T e IT-96-23/1-T, parr. 515-43, 651 (22 febbraio 2001), il quale afferma che lo stupro seriale, in un contesto simile a quello di un bordello, costituisce riduzione in schiavitù. Prosecutor v. Miloševic´, Case No. IT-99-37-I, Indictment, par. 36 (22 novembre 2001), che lo accusa di stupro come atto di genocidio. 59 Si veda, per esempio, Akayesu. La Corte speciale dell’ONU per la Sierra Leone sta affrontando anche casi di abuso sessuale, compresi i matrimoni forzati, nel contesto di quel conflitto. Per un esempio, si veda il caso di Augustine Gbao (o Gao), i cui capi di accusa si possono trovare all’indirizzo internet http://www.scsl.org/LinkClick.aspx?fileticket=ppr39WF8TnM%3d&tabid=105, insieme a un riassunto del caso all’indirizzo internet http://www.sc-sl.org/CASES/RUFCase/ RUFSummaryoftheCharges/tabid/185/Default.aspx. 60 Si veda lo Statuto di Roma, 7(1)(g) (in guerra o al di fuori della guerra), 8(b) (xxii), 8(e)(vi).

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61 Si veda Virginia Woolf, Le tre ghinee [1938], in Ead., Saggi, prose, racconti, Milano 1998 [ed. or. 1966], pp. 440-441. 62 Questo pensiero porta a chiedersi se le donne siano già distrutte al punto che la nostra distruzione come tale è inimmaginabile, un’analisi tentata nella Sessualità del genocidio cit. Quando le donne sono assalite in quanto membri delle loro comunità etniche, rientrano almeno tecnicamente in una qualche giurisdizione. Si veda Karadžic´. 63 Charles Black ha osservato che il concetto costituzionale statunitense di azione statale rispetto alla legge sulla razza, è proteiforme: «Se e dove funziona, immunizza le pratiche razziste dal controllo costituzionale. Quelli che desiderano praticare il razzismo sono quindi motivati, addirittura spinti, a metterne alla prova la possibilità [...] e la sua potenziale varietà è semplicemente la varietà di tutte le azioni possibili da parte di quella complessa entità che si chiama lo Stato. [L’impegno] a una singola ed esclusiva teoria dell’azione statale [...] sarebbe completamente privo di fondamento, in termini del principio più vitale di tutti – il principio di realtà». Charles L. Black Jr., Foreword: State Action, Equal Protection, and California’s Proposition 14, in «Harvard Law Review», 81 (1967), p. 90. Lo stesso si potrebbe dire sulle questioni legate al sesso sollevate dalla violenza sessuale in base al diritto costituzionale e internazionale. 64 Per la discussione nel contesto degli Stati Uniti, dove la produzione, la vendita e l’uso di materiale pornografico chiamano in causa diritti di portata costituzionale, si veda Catharine A. MacKinnon, Soltanto parole, Milano 1999 [ed. or. 1993]. Sebbene le dinamiche siano distinte sotto molti aspetti significativi, è istruttivo (e regge il parallelo) osservare che, dall’11 settembre, ci sono state proposte, in Inghilterra, in Olanda e in Italia, che proibirebbero la propaganda che «glorifica» il terrorismo. Si vedano, ad esempio, gli indirizzi internet http://www.statewatch. org/news/2005/aug/italy-new-terror-laws.pdf e http://www.edri.org/edrigram/ number3.16/terrorism. 65 George W. Bush, Address to the Nation on the Terrorist Attacks (September 11, 2001), in «Weekly Compiled Presidential Documents», 37 (17 settembre 2001), p. 1301. 66 Tra gli strumenti internazionali che sanzionano i fallimenti nell’agire ci sono: CIDCP, sopra nota 20, art. 15, par. 2 (artt. 1(3), 2, e 3 impongono doveri positivi di agire e art. 41 discute le competenze del Committee a ricevere denunce riguardanti il fallimento di un paese a rispettare i propri obblighi; CEDD, sopra nota 3, p. 194; Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, G.A. Res. 45/148, at 261, U.N. GAOR, 45th Sess., U.N. Doc. A/45/49, 2 maggio 1991. 67 Questo principio è stato sviluppato, nel sistema regionale intra-americano, per i casi che coinvolgono la violenza contro le donne da parte di forze irregolari apparentemente legate agli Stati. Si veda il caso di Velásquez-Rodriguez, InterAmerican Court of Human Rights (ser. C), 4, p. 31 (1988). «Dare rifugio» non riguarda solo i contesti di guerra. È usato nell’ambito del traffico di donne nel Protocol to Prevent, Suppress and Punish Trafficking in Persons, Especially Women and Children, Supplementing the United Nations Convention Against Transnational Organized Crime cit., Annex 11, art. 3. Si veda anche Island of Palmas (United States v. Netherlands), in «Review of International Arbitration Awards», 2, pp. 829 sgg. (Perm. Ct. Arb. 1928) e Declaration on Principles of International Law Concerning Friendly Relations and Cooperation Among States in Accordance with

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Note

the Charter of the United Nations, G.A. Res. 2625, at 121 U.N. GAOR, 25th Sess., Supp. No. 28, U.N. Doc. A/5217 (24 ottobre 1970). 68 Si veda José Alvarez, The U.N.’s ‘War’ on Terrorism, in «International Journal of Legal Information», 31 (2003), p. 238. 69 Si veda S.C. Res. 1540, 12, U.N. Doc. S/RES/1540 (28 aprile 2004). 70 Quelli che hanno usato questo numero sono, tra gli altri, il segretario statunitense alla difesa, Donald Rumsfeld (CNN Transcript # 091903CN.V54, 19 settembre 2001); l’addetta stampa della Casa Bianca, Ari Fleischer, Ari Fleischer Holds White House Briefing, in «FDCH Political Transcripts» (21 settembre 2001): «Vorrei solo ricordarvi che la rete di al-Qaida è presente in una sessantina di paesi e che coloro che offrono rifugio e sostegno ai terroristi sono gli obiettivi dell’azione del presidente per proteggere il nostro paese»; William Walker, Widening His Sights, in «Toronto Star», 10 marzo 2002, p. 131: «Bush dice che i terroristi sono attualmente ospitati da 60 paesi e addestrati in appositi campi in molti di essi, compresi la Somalia, il Sudan, la Siria e il Libano»; Richard Norton-Taylor, This Marks the Death of Deterrence, in «Guardian», 9 ottobre 2002, p. 18: «Il vicepresidente Dick Cheney ha suggerito che questo include non meno di 60 paesi [...]». 71 Si veda U.N. Development Programme, Human Development Report 2002: Deepening Democracy in a Fragmented World, 11 (2002), reperibile all’indirizzo internet http://hdr.undp.org/en/reports/global/hdr2002/. Mary Robinson, Making Human Rights Matter: Eleanor Roosevelt’s Time Has Come, in «Harvard Human Rights Journal», 16 (2003), pp. 1 sgg. 72 Si veda Uniform Crime Reports cit. 73 Sullo sviluppo di questo processo, si veda Restatement (Third) of the Foreign Relations Law of the United States, St. Paul 1986, par. 102. Per un’analisi, si vedano Michael Byers, Custom, Power and the Power of Rules: International Relations and Customary International Law, Cambridge-New York 1999; Anthony A. d’Amato, The Concept of Custom in International Law, Ithaca 1971; Oscar Schachter, International Law in Theory and Practice, Dordrecht-Boston-Norwell 1991, pp. 1-15; Statement of Principles Applicable to the Formation of General Customary International Law (International Law Association, Committee on the Formation of Customary [General] International Law, London Conference, 2000), London 2000. Gli Stati Uniti potrebbero anche considerare se ratificare il Protocollo opzionale del 1996 all’ICCPR, 19 dicembre 1966, 999 U.N.T.S. 302 possa aiutare vittime come quelle dell’11 settembre. 74 Per alcune informazioni ben note sulla condizione delle donne afgane prima dell’invasione, si veda S.C. Res. 1076, par. 11, U.N. Doc. S/RES/1076 (22 ottobre 1996); S.C. Res. 1193, U.N. Doc. S/RES/1193 (28 agosto 1998); S.C. Res. 1214, par. 12, U.N. Doc. S/RES/1214 (8 dicembre 1998); S.C. Res. 1267, U.N. Doc. S/RES/1267 (15 ottobre 1999); U.N. Economic and Social Council [ECOSOC], Sub-Committee on Promotion and Protection of Human Rights, The SecretaryGeneral, Report of the Secretary-General on the situation of women and girls in Afghanistan, submitted in accordance with Sub-Commission resolution 1999/14, U.N. Doc. E/CN.4/Sub.2/2000/18 (21 luglio 2000). 75 L’art. 41, par. 1, della CIDCP riconosce la competenza giurisdizionale dell’Human Rights Committee a ricevere comunicazioni di non conformità. La dichiarazione degli Stati Uniti su questo articolo si può trovare in 138 CONG. REC. 8068 DecL 111(3) (1992). Gli Stati Uniti potrebbero anche considerare se ratificare

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il Protocollo opzionale del 1996 all’ICCPR, 19 dicembre 1966, 999 U.N.T.S. 302, possa aiutare vittime come quelle dell’11 settembre. 76 Per la documentazione in merito agli esempi citati in questo paragrafo e ulteriori esempi, si veda Preliminary VAW Report, e Second VAW Report. 77 Si veda Amartya Sen, More Than 100 Million Women Are Missing, in «New York Review of Books», 37 (20 dicembre 1990), pp. 61 sgg. 78 Un esperimento mentale istruttivo è chiedersi come avrebbe reagito il mondo se tutte le 648 donne del World Trade Center fossero state stuprate da uomini stranieri e se la reazione sarebbe cambiata nel caso in cui, supponiamo, lo stesso numero di donne, in maggioranza americane, fossero state stuprate lì, in un solo giorno, da uomini in maggioranza americani. 79 Si vedano, per esempio, le fonti citate alla n. 6. 80 Questi fatti, sebbene molti lettori rimangano inesplicabilmente allarmati da essi, sono stati appurati con una solida metodologia empirica nel corso di oltre vent’anni. Una miriade di simili documentazioni empiriche sono raccolte in Catharine A. MacKinnon, Sex Equality, New York 2001, pp. 715-897. Si veda anche Diana E.H. Russell e Rebecca M. Bolen, The Epidemic of Rape and Child Sexual Abuse in the United States, Thousand Oaks 2000; Staff of Senate Committee on the Judiciary, 102d Cong., lst Sess., Violence Against Women: A Week in the Life of America, Washington 1992; Mary P. Koss et al., No Safe Haven: Male Violence Against Women at Home, at Work, and in the Community, Washington 1994. 81 Si veda, per esempio, Andrea Dworkin, A Battered Wife Survives, in Letters from a War Zone: Writings 1976-1989, London-New York 1989, pp. 100-106; Margaret T. Gordon e Stephanie Riger, The Female Fear, New York-London 1989. Si veda anche Domestic Violence: Terrorism in the Home: Hearing Before the Subcommittee on Children, Family, Drugs, and Alcoholism of the Senate Committee on Labor and Human Resources, Washington 1990. 82 Si veda Second VAW Report, par. 57: «La mera esistenza della violenza contro le donne, in generale, e della violenza domestica, in particolare, diffonde paura tra le donne, una paura che spesso condiziona il modo in cui esse conducono le proprie vite». Si veda anche ivi, par. 27: «Atti o minacce di violenza, che si verifichino in privato o in pubblico, instillano paura e insicurezza nelle vite delle donne e sono ostacoli al conseguimento dell’eguaglianza, allo sviluppo e alla pace, producendo alti costi sociali, sanitari ed economici per l’individuo». 83 Per alcuni aspetti ignorati dalla letteratura, si veda Susan Brownmiller, Against Our Will: Men, Women, and Rape, New York 1975, p. 229, la quale osserva che «gli uomini che commettono stupro sono serviti come truppe d’assalto maschili in prima linea, come guerriglia terroristica nella più lunga e intensa battaglia che il mondo abbia mai conosciuto»; Robin Morgan, The Demon Lover: On the Sexuality of Terrorism, New York 1989, che analizza il terrorismo in chiave femminista. Nel 1977, Andrea Dworkin intitolò il suo primo discorso dedicato esclusivamente alla pornografia Pornography: The New Terrorism, in Ead., Letters from a War Zone cit., pp. 197-202. Per alcune analisi legali in un simile spirito, si veda Amy E. Ray, The Shame of It: Gender-Based Terrorism in the Former Yugoslavia and the Failure of International Human Rights Law to Comprehend the Injuries, in «American University Law Review», 46 (1997), pp. 793 sgg. 84 Si veda, per esempio, Kofi Annan, Address to the General Assembly on September 23, 2003, che si riferisce all’11 settembre come all’evento che ha condotto il sistema internazionale a un «bivio».

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85 L’High-level Report, par.148(b), che cita di sfuggita il genere come un fattore ideologico piuttosto che materiale, non fa eccezione. Si dice che le cause e i fattori che favoriscono il terrorismo includano la povertà (sebbene più donne che uomini siano povere senza ricorrere, per questo, al terrorismo), la mancanza di diritti sociali e politici (sebbene le donne ne siano maggiormente deprivate di quanto lo siano gli uomini) e le ingiustizie politiche, il crimine organizzato e il collasso dello Stato (tutti fattori che colpiscono entrambi i sessi, senza rendere violente le donne allo stesso grado degli uomini). 86 Questa analisi fa fare un ulteriore passo avanti alla logica di Meron sulla distinzione nazionale/internazionale nel contesto della guerra: «Perché proteggere i civili dalla violenza bellica o bandire lo stupro [...] e tuttavia astenersi dal promulgare gli stessi bandi o dal fornire la stessa tutela quando la violenza armata scoppia ‘solo’ all’interno del territorio di uno Stato sovrano? Se il diritto internazionale [...] deve gradualmente rivolgersi alla tutela degli esseri umani, è semplicemente naturale che la dicotomia appena citata debba gradualmente perdere il proprio peso». Theodor Meron, The Humanization of Humanitarian Law, in «American Journal of International Law», 94 (2000), p. 261. 87 Su questo punto e sulle altre dimensioni di genere dell’11 settembre e delle sue conseguenze, si veda Hilary Charlesworth e Christine M. Chinkin, Sex, Gender, and September 11th, in «American Journal of International Law», 96 (2002), p. 600 sgg. 88 L’applicazione delle risoluzioni 687 e 1441, S.C. Res. 687, U.N. Doc. S/ RES/ 687 (3 aprile 1991); S.C. Res. 1441, U.N. Doc. S/RES/1441 (8 novembre 2002), è stata la principale giustificazione offerta in ambienti ufficiali, sebbene il libro bianco di Zelikow offrisse una teoria generale dell’autodifesa preventiva. Philip Zelikow, The Transformation of National Security: Five Redefinitions, in «The National Interest», primavera 2003, p. 17. Per una discussione da una prospettiva favorevole all’invasione dell’Iraq, si veda Ruth Wedgwood, The Fall of Saddam Hussein: Security Council Mandates and Preemptive Self-Defense, in «American Journal of International Law», 97 (2003), pp. 576 sgg. 89 Questo non significa che l’autodifesa preventiva sia sconosciuta a livello internazionale. Autori classici come Brierly argomentarono contro un’interpretazione restrittiva dell’art. 51. Si veda J.L. Brierly, The Law of Nations, New York 19636, pp. 416-421. Elihu Root, The Real Monroe Doctrine, in «American Journal of International Law», 8 (1914), pp. 427 sgg., ha sostenuto: «l’esercizio del diritto all’autotutela si può estendere, e spesso si estende, nei suoi effetti oltre i limiti della giurisdizione territoriale dello Stato che lo esercita [e uno Stato sovrano può] proteggersi impedendo il generarsi di una situazione nella quale sarebbe troppo tardi per proteggersi» (p. 432). Si veda anche Wedgwood, The Fall of Saddam Hussein cit. Ma i pareri legali pre-Statuto dovrebbero essere soppesati con attenzione in questo caso. E dato che gli Stati usano spesso l’autodifesa per giustificare l’aggressione, in base all’interpretazione convenzionale, l’art. 51 dello Statuto dell’ONU richiede un effettivo attacco armato prima che si possa usare la forza per autodifesa. Si veda Gardner, Neither Bush Nor the ‘Jurisprudes’ cit., pp. 585-587; Harold Hongju Koh, On American Exceptionalism, in «Stanford Law Review», 55 (2003), pp. 1479 sgg., spec. p. 1523; Patrick McLain, Note, Settling the Score with Saddam: Resolution 1441 and Parallel Justifications for the Use of Force Against Iraq, in «Duke Journal of Comparative and International Law», 13 (2003), pp. 233 sgg., spec. p. 278.

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90 Si veda S.C. Res. 678, U.N. Doc. S/RES/678 (29 novembre 1990); S.C. Res. 686, U.N. Doc. S/RES/686 (2 marzo 1991); S.C. Res. 687, U.N. Doc. S/RES/687 (3 aprile 1991); S.C. Res. 688, U.N. Doc. S/RES/688 (5 aprile 1991). La questione se le risoluzioni del Consiglio di sicurezza costituiscano un’autorizzazione per le no-fly zones che esse non hanno ripudiato è controversa. Si veda Scott L. Silliman, The Iraqi Quagmire: Enforcing the No-Fly Zones, in «New England Law Review», 36 (2002), pp. 767 sgg., il quale sostiene che le risoluzioni non costituiscano un’autorizzazione. 91 Rimane evidente che le donne irachene debbano ancora essere liberate da questa incursione, come è tipico quando degli uomini rimpiazzano altri uomini. Per due indicazioni, si veda Kathryn Westcott, Where Are Iraq’s Women?, BBC News, 8 marzo 2003, consultabile all’indirizzo internet http://news.bbc.co.uk/2/hi/ middle_east/3007381.stm e Human Rights Watch, Climate of Fear: Sexual Violence and Abduction of Women and Girls in Baghdad (15 luglio 2003), p. 8e, disponibile all’indirizzo internet http://www.hrw.org/en/reports/2003/07/15/climate-fear. Queste informazioni servono anche a sottolineare che la guerra ha spesso conseguenze negative, specificamente legate al sesso, per le donne, sia durante sia dopo. 92 «Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato»: Statuto dell’ONU, art. 51. 93 «La guerra non consente un uso proprio, no, è così mostruosa e orrida, che niente tranne la mera necessità o la perfetta carità possono renderla legittima. [...] Portare armi non è, secondo il giudizio di sant’Agostino, un crimine, ma portare armi in vista di un bottino è un’evidente malvagità». Hugo Grotius, Of the Rights of War and Peace in Three Volumes, vol. 2, p. 635 (Gaunt 2001) [ed. or. latina, Parigi 1625, poi Amsterdam 1631, trad. inglese, Londra 1715; trad. it. in preparazione presso Laterza]. La sicurezza collettiva si è ampliata nella pratica in base alla giustificazione della difesa della pace nel capitolo VII, come illustra la risposta al bombardamento sul Kosovo. Si veda, per esempio, Independent International Commission on Kosovo, The Kosovo Report: Conflict, International Response, Lessons Learned, Oxford-New York 2001, il quale arriva alla conclusione che l’intervento non era compatibile con lo Statuto, ma comunque «legittimo». Con ciò, la commissione sembra volesse dire che il precedente era troppo esiguo per minare lo Statuto dell’ONU, ma che l’azione internazionale per prevenire ampie e sostenute violazioni dei diritti, come quelle compiute là, giustificavano l’azione internazionale. Si veda Tom J. Farer, The Prospect for International Law and Order in the Wake of Iraq, in «American Journal of International Law», 97 (2003), spec. p. 625 n. 13. 94 Si veda, per esempio, Nicholas J. Wheeler, Saving Strangers: Humanitarian Intervention in International Society, New York-Oxford 2000; Jonathan I. Charney, Anticipatory Humanitarian Intervention in Kosovo, in «American Journal of International Law», 93 (1999), spec. pp. 837 sgg., il quale sostiene che l’intervento umanitario possa essere giustificato se limitato al genocidio, ai crimini contro l’umanità e ai crimini di guerra; Christopher C. Joyner e Anthony Clark Arend, Anticipatory Humanitarian Intervention: An Emerging Legal Norm, in «USAFA Journal of Legal Studies», 10 (2000), pp. 27 sgg., che difende l’intervento umanitario preventivo con alcune restrizioni; International Commission on Intervention and State Sovereignty, The Responsibility to Protect: Report of the International Commission on Intervention and State Sovereignty, Ottawa 2001, p. 32 [in seguito

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citato come Responsibility to Protect Report], che giustifica l’intervento militare a fini umanitari per «fermare o evitare: la perdita, effettiva o presunta, di vite su larga scala, con o senza intenti di genocidio, che sia il prodotto o della deliberata azione statale o della negligenza o dell’incapacità di agire da parte dello Stato, o di una situazione in cui lo Stato è collassato; o ‘pulizia etnica’ su larga scala, effettiva o presunta, compiuta con uccisioni, espulsioni forzate, atti di terrore o stupro»; Danish Institute of International Affairs, Humanitarian Intervention: Legal and Political Aspects, Copenhagen 1999, pp. 106-107; Ken Roth, Human Rights Watch, 2004 World Report: Human Rights and Armed Conflict, New York 2004, p. 17, disponibile all’indirizzo internet http://www.hrw.org/wr2k4/index.htm: «La guerra spesso comporta enormi costi umani, ma riconosciamo che l’imperativo di fermare o impedire il genocidio o altri massacri sistematici può a volte giustificare l’uso della forza militare». Antonio Cassese, Ex iniuria ius oritur: Are We Moving Towards International Legitimation of Forcible Humanitarian Countermeasures in the World Community?, in «European Journal of International Law», 10 (1999), spec. p. 27 (1999), il quale propone che, «sotto certe strette condizioni, il ricorso alla forza armata possa gradualmente diventare giustificato, anche in assenza di autorizzazioni da parte del Consiglio di sicurezza». Ma si veda Simon Chesterman, Just War or Just Peace? Humanitarian Intervention and International Law, OxfordNew York 2001, il quale arriva alla conclusione che l’intervento umanitario senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza è illegale. Si noti che il Responsibility to Protect Report riconosce lo stupro come elemento che potenzialmente giustifica il ricorso all’intervento della forza, ma solamente quando lo stupro è parte della «pulizia etnica», vale a dire, non quando soltanto le donne sono vittime degli assalti. Responsibility to Protect Report, XII, pp. 32-33. L’High-level Report fa proprio l’approccio della «responsabilità di proteggere», che «autorizza l’intervento militare come ultima istanza, in caso di genocidio e di altre uccisioni su larga scala, pulizia etnica o gravi violazioni del diritto umanitario, rispetto ai quali i governi sovrani si sono dimostrati riluttanti o privi di mezzi per intervenire», sebbene non senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza. High-level Report, par. 203. 95 L’art. 1 della Convenzione sul genocidio obbliga i firmatari ad agire contro il genocidio: «Le parti contraenti confermano che il genocidio, sia esso commesso in tempo di pace o in tempo di guerra, è un crimine in base al diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire e a punire». Convenzione sul genocidio, 9 dicembre 1948, art. I, 78 U.N.T.S. 277. In genere si pensa che questa clausola – che si concentra sugli atti commessi prima (quando possono essere impediti) e dopo (quando sono puniti) il genocidio – si riferisca ad azioni senza impiego della forza. Non specifica in modo preciso che cosa debba succedere durante un genocidio. Non dice che le parti si impegnano a fermare il genocidio, il che può evidentemente richiedere il ricorso alla forza, sebbene, forse, questo è ciò che dovrebbe significare prevenzione. 96 Si veda U.S. Department of the Army, Article 15-6 Investigation of the 800th Military Police Brigade, The «Taguba Report» On Treatment of Abu Ghraib Prisoners in Iraq (preparato dal Major Gen. Antonio M. Taguba e pubblicato il 19 ottobre 2004), consultabile all’indirizzo internet http://news.findlaw.com/hdocs/ docs/iraq/tagubarpt.html [in seguito citato come Taguba Report]. 97 Si veda, per esempio, Frank Rich, Saving Private England, in «The New York Times», 16 maggio 2004, B1, che cita Rush Limbaugh: «Le foto degli abusi di Abu

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Ghraib ‘sembrano normale buona vecchia pornografia americana’, ha detto [Limbaugh], quando la notizia si è diffusa, come se potesse giustificare le atrocità della guerra includendole nell’industria dell’intrattenimento che, sebbene deplorevole per l’Islam, ha più appassionati nel nostro paese cristiano di quanti ne abbia la Major League di baseball». 98 Scheherezade Faramarzi, Former Iraqi Prisoner Turns Against His American Jailers for Humiliating Him as Allegations of U.S. Torture Are Investigated, in «Associated Press», 2 maggio 2004 (che cita Dhia al-Šweiri). 99 Si veda, per esempio, Karen J. Greenberg e Joshua L. Dratel (a cura di), The Torture Papers: The Road to Abu Ghraib, New York-Cambridge 2005; Mark Danner, Torture and Truth: America, Abu Ghraib, and the War on Terror, New York 2004. Si vedano anche Seymour Hersh, Torture at Abu Ghraib, in «The New Yorker», 10 maggio 2004, p. 42; ABC News World Tonight con Peter Jennings, Pattern of Abuse, Who Knew?, 10 maggio 2004, il quale discute le immagini dei detenuti che vengono torturati e altre prove della tortura fornite nel rapporto della Croce rossa internazionale. All Things Considered: American Torture of Iraqi Detainees (programma radiofonico della NPR, 3 maggio 2004). Mentre il Taguba Report includeva un’unica risultanza in cui si usava esplicitamente il termine «tortura», è giunto alla conclusione generale che «molti soldati dell’esercito americano hanno commesso atti riprovevoli e gravi infrazioni del diritto internazionale ad Abu Ghraib/BCCF e Camp Bucca, Iraq». Taguba Report, pp. 15 e 50. 100 Si veda Globe Caught with Pants Down: Paper Duped into Running Porn Photos, in «Boston Herald», 13 maggio 2004, A6. 101 «In nessun caso la fotografia soddisfa gli standard del ‘Globe’. Le immagini contenute nella fotografia erano evidentemente ritoccate e il supposto abuso ritratto non era stato autenticato. Il ‘Globe’ porge le proprie scuse per aver pubblicato la foto». For the Record, in «Boston Globe», 13 maggio 2004, A2. Il «Boston Herald» ha descritto le immagini come «fotografie ritoccate di un presunto abuso sessuale contro donne irachene da parte di soldati americani [che] si sono dimostrate essere foto in posa, prese da un sito pornografico hardcore» (cit. alla n. 100). Ovviamente anche le foto scattate ad Abu Ghraib erano «in posa», ma sono state interpretate come documenti di un abuso reale. 102 Alcuni perspicaci osservatori hanno visto una connessione. Si veda, per esempio, Susan J. Brison, Torture, or ‘Good Old American Pornography’, in «Chronicle of Higher Education», 4 giugno 2004, B10: «Così come pornografia commerciale è stata scambiata per vera tortura, le foto della reale tortura ad Abu Ghraib sono state equiparate a pornografia». Questo è potuto accadere perché, di solito, c’è poca differenza, o nessuna differenza significativa, tra le due. La presunta distinzione secondo cui la pornografia, diversamente dalla tortura, è prodotta in condizioni di assenso o libertà o desiderio è appunto solo tale: presunta. 103 Si veda September 11th Victim Compensation Fund of 2001, 67 Fed. Reg. 11,233, 11,238 (13 marzo 2002; affermazione da parte dello Special Master). 104 Mahfoud Bennoune fa notare un’altra crisi ignorata della normalità: «In Algeria, ogni anno, a partire dal 1993, abbiamo avuto un numero di vittime equivalente a quello dell’11 settembre [...] vale a dire, di vittime dei fondamentalisti», intervista di Karima Bennoune a Mahfoud Bennoune, ‘A Disease Masquerading as a Cure’: Women and Fundamentalism in Algeria, in Betsy Reed (a cura di), Nothing

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Sacred: Women Respond to Religious Fundamentalism and Terror, New York-Berkeley 2002, pp. 75 sgg., cit. a p. 86. 105 Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia [1940], in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino 1962, par. 8, p. 76. 106 United States v. Morrison, 529 U.S. 598 (2000) ha dichiarato incostituzionale la clausola sui risarcimenti civili del Violence Against Women Act federale, che forniva una giustificazione federale per l’azione legale contro la discriminazione sessuale nei casi di violenza motivata dal genere, in quanto eccedeva i poteri del Congresso in un’area tradizionalmente regolata dagli Stati, piuttosto che essere un risarcimento concesso in base alla Section 5 of the Equal Protection Clause o in base alla Commerce Clause. 107 Bush v. Gore, 531 U.S. 98 (2000), ha riscontrato una violazione dell’Equal Protection Clause negli standard utilizzati per riconteggiare i voti nelle elezioni presidenziali del 2000 nello Stato della Florida. 108 Per una gamma di visioni, si veda Vera Gowlland-Debbas, The Limits of Unilateral Enforcement of Community Objectives in the Framework of U.N. Peace Maintenance, in «European Journal of International Law», 11 (2000), p. 361, che critica la visione secondo la quale gli Stati membri hanno implicita autorità per difendere unilateralmente gli obiettivi collettivi affermati dal Consiglio di sicurezza quando il veto paralizza il Consiglio stesso; Anne-Marie Slaughter, Good Reasons for Going Around the U.N., in «The New York Times», 18 marzo 2003, A33, che osserva come la maggior parte dei giuristi internazionali, pur considerando probabilmente illegale l’uso della forza contro l’Iraq, in base allo Statuto dell’ONU, ritenga che le regole potrebbero avere bisogno «di evolvere, così che ciò che è legittimo sia anche legale»; W. Michael Reisman, Assessing Claims to Revise the Laws of War, in «American Journal of International Law», 97 (2003), p. 82, il quale sostiene che l’uso preventivo dell’autodifesa non è fittizio, perché può contribuire all’ordine. Operazioni di peacekeeping organizzate in modo preventivo, a seconda del loro mandato, possono convergere con la difesa preventiva. Si veda Richard A. Falk, What Future for the U.N. Charter System of War Prevention?, ivi, p. 590, che discute i punti di tensione tra l’invasione dell’Iraq e le regole dello Statuto dell’ONU. Si potrebbe anche sostenere che l’11 settembre sia stato un atto nel bel mezzo della guerra iniziata con l’attacco alle Khobar Towers, continuata con i bombardamenti contro le ambasciate statunitensi in Africa, contro la U.S.S. Cole e contro il nightclub di Bali, poi proseguita con gli attentati in Marocco, in Arabia Saudita, in Spagna e così via. Questa possibile cronologia non significa affrontare le radici del conflitto. Certamente, c’è una tensione tra vedere l’11 settembre come un evento unico e irripetibile e vederlo come parte di una guerra. 109 Linda Boreman ha spesso descritto la telefonata in questo modo. Un resoconto pubblicato è: «Ho capito che Chuck mi stava cercando munito sia di pistola sia di fucile automatico [...]. Ho chiamato la polizia. Sapevano chi ero e hanno ascoltato il mio racconto su mio marito che mi stava inseguendo con una pistola. Ho rinunciato per sempre all’aiuto della polizia quando mi sono sentita dire: ‘Signora, non possiamo impicciarci in questioni di famiglia’»: Linda Lovelace e Mike McGrady, Ordeal, Secaucus 1980, pp. 225-226. Proprio di famiglia. Il concetto, ben sviluppato dalla Corte costituzionale tedesca, di «mittelbare Drittwirkung» dei diritti sostantivi basilari – che letteralmente significa l’effetto indiretto di parti terze, per cui i più alti valori della Costituzione hanno un «effetto irradiante» verso

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tutti i campi del diritto, compreso il diritto privato che governa le relazioni orizzontali – converge in modo istruttivo su questo punto con le nozioni internazionali di attori non statali che stanno emergendo. Si veda Lüth Case (1958) 7 BverfGE 198; Basil S. Markesinis, Always on the Same Path: Essays on Foreign Law and Comparative Methodology, Oxford-Portland 2001, vol. 2, pp. 26-73, 132-218; Ralf Brinktrine, The Horizontal Effect of Human Rights in German Constitutional Law: the British Debate on Horizontality and the Possible Rolemodel of the German Doctrine of ‘Mittelbare Drittwirkung der Grundrechte’, in «European Human Rights Law Review», 4 (2001), pp. 421 sgg. 110 Si veda Noelle Quenivet, The World After September 11: Has it Really Changed?, in «European Journal of International Law», 16 (2005), pp. 561 sgg., il quale sostiene che sia cambiato meno di quanto sostengono alcuni. 111 Si veda Attorney General of Israel v. Eichmann (Isr. Sup. Ct. 1962), rist. in «Israel Law Review», 36 (1968), pp. 277 sgg.; Agreement Between the Government of the Kingdom of the Netherlands and the Government of the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland Concerning a Scottish Trial in the Netherlands, 18 settembre 1998, in «International Legal Materials», 38 (1999) 4, pp. 926 sgg. (trattato in base al quale si giudicò l’attentato di Lockerbie). Si veda anche Leila Nadya Sadat, Terrorism and the Rule of Law, in «Washington University Global Studies Law Review», 3 (2004), pp. 135 sgg., il quale sostiene che gli Stati Uniti avrebbero dovuto affrontare i talebani e al-Qaida come una questione di polizia, piuttosto che intraprendere una guerra. 112 Si veda, per esempio, President George W. Bush, Address to the Nation (7 settembre 2003), ripubblicato in In The Struggle for Iraq: In Bush’s Words: ‘We Will Do What Is Necessary’ in the Fight Against Terror, in «The New York Times», 8 settembre 2003, A10. 113 Si veda High-level Report. È un’altra questione se qualcuno degli approcci stia avendo successo. Sotto molti aspetti, si può osservare che l’approccio degli Stati Uniti all’11 settembre, in particolare , è inadeguato, perfino controproducente. 114 Nel frattempo, non bisogna trascurare gli intensificati sforzi convenzionali che richiedono pochi cambiamenti. Gli sforzi del CEDAW Committee e dell’Human Rights Committee dovrebbero continuare, insieme a quelli del Torture Committee e ad altri che spingono per l’applicazione, a livello nazionale, degli obblighi esistenti e delle riforme legislative dove sia necessario, compresa l’implementazione di molte proposte della Beijing Platform for Action, che affronta la violenza contro le donne e verso la quale le nazioni si sono già impegnate. Si veda World Conference on Women, Beijing, 4-15 settembre 1995, Report of the Fourth World Conference on Women, U.N. Doc. A/CONF.177/23/Add.1 (27 ottobre 1995). La violenza contro le donne che resta impunita può essere espressamente riconosciuta, in alcune circostanze, come «un consistente modello di violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali su vasta scala e attestata in modo affidabile» in base alla ECOSOC Resolution 1503, dando origine a lamentele sulla procedura per le comunicazioni del Human Rights Committee. U.N. Economic and Social Council [ECOSOC], Procedure for Dealing with Communications Relating to Violations of Human Rights and Fundamental Freedoms, U.N. Doc. E/CN.4/RES/7(XXVI) (27 maggio 1970). Il segretario generale potrebbe esercitare un’ulteriore leadership e le idee per ristrutturare la procedura potrebbero essere inserite nelle proposte di riforma per l’Head-of-State Summit. Il mandato della Security Resolution 1325,

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U.N. Doc. S/RES/1325 (31 ottobre 2001), potrebbe essere rafforzato ed esteso. Andando oltre, la Convenzione sul genocidio e la definizione di genocidio nello Statuto di Roma potrebbe essere emendata per aggiungere il «sesso» come fattore, e le violenze sessuali espressamente come atti, o altrimenti riconsiderate alla luce di atti che mirano alla distruzione di donne in quanto tali e dell’informazione sul ruolo delle violenze sessuali nel genocidio come è attualmente definito. Si potrebbe dare mandato a un nuovo relatore speciale sulla violenza contro le donne di esaminare gli sforzi internazionali contro la violenza contro le donne nell’epoca post-11 settembre e di raccomandare misure comprensive per consolidarli e ristrutturarli. 115 Per un argomento secondo cui le donne sono un gruppo internazionale, e gli Stati un’entità maschile, si veda l’introduzione, Women’s Status, Men’s States, in Chatarine A. MacKinnon, Are Women Human? And Other International Dialogues, Cambridge, Mass., 2006, pp. 1-14. 116 Per un’eccellente rassegna di queste strategie, si veda Cherif Bassiouni (a cura di), Post-Conflict Justice, Ardsley 2002. 117 Si veda Mary Ellen O’Connell, Lawful Self-Defense to Terrorism, in «University of Pittsburgh Law Review», 63 (2002), pp. 889 sgg., il quale sostiene che, in Afghanistan, gli Stati Uniti abbiano utilizzato una forza eccessiva, altrimenti difendibile come esercizio legale dell’autodifesa, uccidendo decisamente troppi civili. 118 Si veda Rehn e Sirleaf, Women, War and Peace cit., p. 3, il quale afferma che mentre le perdite civili ammontavano al 5 per cento delle morti complessive della guerra all’inizio del ventesimo secolo, esse ammontano ora al 75 per cento delle perdite complessive. Si veda anche The Secretary General, Report of the SecretaryGeneral to the Security Council on the protection of civilians in armed conflicts, par. 3, UN. Doc. S/2001/331 (30 marzo 2001): «con il proliferare dei conflitti interni, i civili sono diventati le principali vittime. È ormai normale affermare che, negli ultimi decenni, la percentuale delle vittime di guerra tra i civili è arrivata drammaticamente a uno stimato 75 per cento, e in alcuni casi anche di più».

Capitolo 9 1 Sandra M. Gilbert, Introduction: A Tarantella of Theory, in Hélène Cixous e Catherine Clément, The Newly Born Woman, Minneapolis-Manchester 1986, p. X [ed. or. 1975]. 2 Mary Joe Frug, A Postmodern Feminist Legal Manifesto (An Unfinished Draft), in «Harvard Law Review», 105 (1992), p. 1045. Le parti sul metodo in Catharine A. MacKinnon, Toward a Feminist Theory of the State, Cambridge, Mass., 1989, sono state scritte principalmente tra il 1971 e il 1972, fatte circolare e pubblicate come articoli, nel 1981 e 1982, sulla rivista «Signs», e una di esse era sottotitolata «An Agenda for Theory». Il libro completo è stato pubblicato diciassette anni più tardi. 3 È possibile che, a mia insaputa, Foucault stesse scrivendo su temi simili, più o meno nello stesso periodo o poco dopo. Sorvegliare e punire: nascita della prigione di Foucault, il cui primo capitolo contiene alcuni brevi passaggi astratti sulla conoscenza e il potere, è stato pubblicato in francese nel 1975; Foucault ha esposto pubblicamente le stesse idee nel 1978. Si veda James Miller, La passione di Michel Foucault, Milano 1994, capp. 8-9 [ed. or. 1993], che discute la relazione potere/ conoscenza come è stata formulata da Foucault in questo periodo; si veda anche il primo volume della Storia della sessualità di Michel Foucault, intitolato La volontà

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di sapere, Milano 1978 [ed. or. 1976]; Michel Foucault, Power/Knowledge: Selected Interviews and Other Writings, 1972-1977 (a cura di C. Gordon), Brighton-New York 1980 [cfr. in italiano il secondo volume dell’Archivio Foucault, a cura di A. Dal Lago, 1971-1977. Poteri, saperi, strategie, Milano 1997]. 4 Si veda, per esempio, Robin Morgan (a cura di), Sisterhood Is Global: The International Women’s Movement Anthology, New York 1996 [prima ed. 1984]. Per un’analisi del processo negli Stati Uniti, si veda Sara Evans, Personal Politics: The Roots of Women’s Liberation in the Civil Rights Movement and the New Left, New York 1979, Ethel Klein, Gender Politics: From Consciousness to Mass Politics, Cambridge, Mass., 1984 e Ruth Rosen, The World Split Open: How the Modern Women’s Movement Changed America, New York 2000. Per ulteriore documentazione, si veda Bonnie Watkins e Nina Rothchild (a cura di), In the Company of Women: Voices from the Women’s Movement, St. Paul 1996 e Barbara A. Crow (a cura di), Radical Feminism: A Documentary Reader, New York 2000. 5 Si veda Robert J. Stoller, A Contribution to the Study of Gender Identity, in «International Journal of Psycho-Analysis», 45 (1964), pp. 220 sgg. 6 In termini generali, si veda Catharine A. MacKinnon, Sexual Harassment of Working Women: A Case of Sex Discrimination, New Haven 1979. 7 Violence Against Women Act of 1994, Pub. L. No. 103-322, tit. IV, 108 Stat. 1796,1902-1955. 8 In generale, si veda Andrea Dworkin e Catharine A. MacKinnon, Pornography and Civil Rights: A New Day for Women’s Equality, Minneapolis 1988; Catharine A. MacKinnon e Andrea Dworkin (a cura di), In Harm’s Way: The Pornography Civil Rights Hearings, Cambridge, Mass., 1997. 9 Si veda Kadic v. Karadžic´, 70 F.3d 232, 241-242 (2d Cir. 1995) (intentato contro Radovan Karadžic´ da donne bosniache croate e musulmane, sopravvissute alle violenze sessuali della sua campagna di «pulizia etnica», durante il genocidio che mirava a eliminare tutti i non-serbi dalla Bosnia-Erzegovina), cert. denied, 518 U.S. 1005 (1996). Una giuria di New York ha riconosciuto un risarcimento di 745 milioni di dollari alle parti lese, il 10 agosto del 2000. 10 Richard Rorty, Femminismo e pragmatismo [ed. or. 1991], in Id., Verità e progresso. Scritti filosofici, Milano 2003, p. 193. 11 Una splendida illustrazione è la parodia della scrittura postmoderna, la quale era di fatto un discorso incomprensibile, che è stata accettata e pubblicata da una rivista postmoderna di punta. In generale, si veda Alan D. Sokal, Trasgredire le frontiere: verso un’ermeneutica trasformativa della gravità quantistica [1996], Appendice A in A. Sokal e J. Bricmont, Imposture intellettuali, Milano 1999, pp. 217 sgg. [ed. or. 1997], Sokal ha detto di averlo fatto in quanto «vecchio e inossidabile uomo di sinistra, che non è mai riuscito a capire come la decostruzione potesse essere d’aiuto alla classe lavoratrice» (ivi, p. 271). La vacuità al centro di alcuni scritti postmoderni, mascherata da virtuosistiche note a piè di pagina, è messa a nudo da Martha C. Nussbaum, The Professor of Parody, in «New Republic», 37 (22 febbraio 1999). 12 Stephen M. Feldman, The Politics of Postmodern Jurisprudence, in «Michigan Law Review», 95 (1996), pp. 166 sgg., cit. a p. 202. 13 Un aspetto di questo problema è illustrato da folli letture che chiamano «postmoderno» tutto ciò che è critico verso lo status quo. Si veda, per esempio, Steven G. Gey, The Case Against Postmodern Censorship Theory, in «University

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of Pennsylvania Law Review», 145 (1996), pp. 193 sgg. che, dall’inizio alla fine, definisce postmoderno il mio lavoro. 14 Si veda Jane Flax, Thinking Fragments: Psychoanalysis, Feminism, and Postmodernism in the Contemporary West, Berkeley 1990, pp. 32-35. L’analisi di Flax è discussa in modo utile da Seyla Benhabib, Situating the Self: Gender, Community and Postmodernism in Contemporary Ethics, New York 1992, pp. 211-230. 15 Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, Milano 1981, p. 6 [ed. or. 1979]. 16 Lyotard scrive di svariate «grandi narrazioni» dall’inizio alla fine del suo La condizione postmoderna cit. Nancy Fraser e Linda J. Nicholson criticano le «quasimetanarrazioni» di ciò che vedono come femminismo non-postmoderno, nel loro saggio Social Criticism Without Philosophy: An Encounter Between Feminism and Postmodernism, in Linda J. Nicholson (a cura di), Feminism/Postmodernism, New York 1990, pp. 26-34. Nessun «meta» nel quale io mi sia imbattuta era anche un «quasi». 17 Frug, A Postmodern Feminist Legal Manifesto cit., p. 1046. 18 Un esempio di lettura negligente combinata con l’uso di questo termine come epiteto per sputare addosso al lavoro femminista, senza citazioni, si trova in Donna J. Haraway, Un manifesto per cyborg: scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo Ventesimo secolo [1985], in Ead., Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano 1995, pp. 39 sgg., spec. pp. 52-53 [ed. or. 1991]. «La frammentazione, l’indeterminatezza, e la profonda sfiducia in tutti i linguaggi universali o ‘totalizzanti’ (per utilizzare l’espressione preferita) sono il contrassegno del pensiero postmodernista». David Harvey, La crisi della modernità, Milano 1993, p. 21 [ed. or. 1989]. 19 Questa accusa è onnipresente; un esempio è Celina Romany, Ain’t I a Feminist?, in «Yale Journal of Law and Feminism», 4 (1991), p. 23. Un termine spesso utilizzato come sinonimo è «riduzionista». Si veda Martha R. Mahoney, Whiteness and Women, in Practice and Theory: A Reply to Catharine MacKinnon, in «Yale Journal of Law and Feminism», 5 (1993), p. 221. 20 Fraser e Nicholson affermano erroneamente che i teorici sociali come me presuppongono il significato universale di costrutti quali la sessualità, prima di ricostruirne la genealogia: Social Criticism Without Philosophy cit., p. 31; si veda anche Judith Butler, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Milano 2004, p. 1 [ed. or. 1997]: «Il più delle volte, la teoria femminista ha dato per scontata la presenza di un’identità esistente – sottintesa mediante la categoria delle donne». 21 In generale, si veda Catharine A. MacKinnon, From Practice to Theory, or What Is a White Woman Anyway?, in Ead., Women’s Lives, Men’s Laws, Cambridge, Mass., 2005, p. 22. 22 Si veda, per esempio, Jane Flax, Postmodernism and Gender Relations in Feminist Theory, in Nicholson (a cura di), Feminism/Postmodernism cit., p. 45, che accusa il femminismo di «privilegiare l’uomo come non problematico o esente da determinazioni ad opera di relazioni di genere»; Fraser e Nicholson, Social Criticism Without Philosophy cit., pp. 34-35, che rivendica il bisogno di rimpiazzare «le nozioni unitarie di identità delle donne e del femminismo con concezioni plurali e costruite in modo complesso di identità sociale, trattando il genere come un filone importante tra gli altri»; si veda anche Susan H. Williams, Feminist Legal Epistemology, in «Berkeley Women’s Law Journal», 8(1993), p. 63.

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23 Tracy E. Higgins, Anti-Essentialism, Relativism, and Human Rights, in «Harvard Women’s Law Journal», 19 (1996), p. 91 n. 14. 24 Un esempio è Angela P. Harris, Race and Essentialism in Feminist Legal Theory, in «Stanford Law Review», 42 (1990), pp. 581 sgg., spec. pp. 591-592. 25 Higgins, Anti-Essentialism, Relativism, and Human Rights cit., p. 95, che definisce le premesse dei relativisti culturali; si veda Nancy Kim, Toward a Feminist Theory of Human Rights: Straddling the Fence Between Western Imperialism and Uncritical Absolutism, in «Columbia Human Rights Law Review», 25 (1993), pp. 56-59. Ruth Benedict è generalmente associata all’idea che divergenti visioni di ciò che è giusto e sbagliato non abbiano alcuna validità al di fuori del loro contesto: Modelli di cultura, Roma-Bari 2010, p. 276 [ed. or. 1934], che esorta ad abbracciare la relatività culturale come «fede sociale più realistica, accettando come motivo di speranza e nuova base di tolleranza la coesistenza di sistemi di vita egualmente validi, che il genere umano si è creato elaborando le materie prime dell’esistenza»; si veda anche Melville J. Herskovits, Cultural Relativism and Cultural Values, in Frances Herskovits (a cura di), Perspectives in Cultural Pluralism, New York 1972, pp. 14-21; Jack Donnelly, Human Rights and Human Dignity: An Analytic Critique of Non-Western Conceptions of Human Rights, in «American Political Science Review», 76 (1982), p. 303. 26 A partire da Beauvoir, le femministe, insieme agli studiosi antirazzisti della razza, hanno in gran parte fatto in modo che l’«Altro» significasse ciò che significa ora; così i postmodernisti non hanno inventato nemmeno questo. Si veda, Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Milano 1964, pp. 16-17 [ed. or. 1949]. 27 Un’utile discussione di questo tema si può trovare in Elspeth Probyn, Travels in the Postmodern: Making Sense of the Local, in Nicholson (a cura di), Feminism/ Postmodernism cit., pp. 176 sgg. 28 People v. Chen, No. 87-7774 (N.Y. Sup. Ct. Dec. 2, 1988). Il caso Chen è discusso più dettagliatamente in Doriane Lambelet Coleman, Individualizing Justice Through Multiculturalism: The Liberal Dilemma, in «Columbia Law Review», 96 (1996), pp. 1093 sgg. 29 People v. Rhines, 182 Cal. Rptr. 478 (Ct. App. 1982). 30 Ivi, 483. 31 Una recente meta-analisi ha concluso che, nel suo insieme, il corpo degli studi sperimentali mostra che l’esposizione alla pornografia accresce l’accettazione del mito dello stupro – di più per quanto riguarda la pornografia violenta, ma rimane vero anche nel caso di quella non violenta. Si veda Mike Allen et al., Exposure to Pornography and Acceptance of Rape Myths, in «Journal of Communications», 45 (1995), p. 5. Le stesse conseguenze di una simile esposizione sono state riscontrate in Giappone. Si veda Ken-Ichi Ohbuchi et al., Effects of Violent Pornography upon Viewers’ Rape Myth Beliefs: A Study of Japanese Males, in «Psychology, Crime and Law», 1 (1994), pp. 77-78. 32 Si veda Butler, Scambi di genere cit., pp. 65-72. Per la fusione del pene con il fallo, si veda Drucilla Cornell, The Doubly-Prized World: Myth, Allegory and the Feminine, in «Cornell Law Review», 75 (1990), pp. 661-662; Ellie Ragland, Lacan and the Subject of Law: Sexuation and Discourse in the Mapping of Subject Positions That Give the Ur-Form of Law, in «Washington and Lee Law Review», 54 (1997), pp. 1091 sgg.; Adelaide H. Villmoare, Feminist Jurisprudence and Political Vision, in «Law and Social Inquiry», 24 (1999), pp. 455-456. Per Lacan, ovviamente, il fallo non è il pene, ma l’oggetto del desiderio per ciò che non si possiede. Si veda Jacques

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Lacan, La significazione del fallo [1958], in Id., Scritti, Torino 1974, vol. 2, pp. 682 sgg. [ed. or. 1966]. Il mio punto è che il pene ha una realtà comportamentale nel dominio maschile – fa cose reali – e che teorizzare «il fallo» è servito, in gran parte, a sviare, piuttosto che a focalizzare, il progetto di comprendere ciò che fa. Il fallo in questo discorso è astratto; il pene rimane inesorabilmente concreto, ma non sulle pagine postmoderne, sebbene perfino le femministe francesi, all’inizio, ne parlassero in termini concreti. Si veda, per esempio, Benoîte Groult, Night Porters, in Elaine Marks e Isabelle de Courtivron (a cura di), New French Feminisms: An Anthology, Amherst 1980, p. 68; Luce Irigaray, Questo sesso che non è un sesso. Sulla condizione sessuale, sociale e culturale delle donne, Milano 1978 [ed. or. 1977]; Dominique Poggi, A Defense of the Master-Slave Relationship, in Marks e Courtivron (a cura di), New French Feminisms cit., p. 76. 33 Butler, Scambi di genere cit., p. 33. 34 Questo può essere localizzato nella letteratura postmoderna praticamente a caso, ma un buon esempio si trova in Butler, ivi, pp. 79-141. 35 Sulla «capacità di agire» [agency] si veda, in generale, Kathryn Abrams, From Autonomy to Agency: Feminist Perspectives on Self-Direction, in «William and Mary Law Review», 40 (1999), p. 805; Ead., Sex Wars Redux: Agency and Coercion in Feminist Legal Theory, in «Columbia Law Review», 95 (1995), p. 304; e James Boyle, Is Subjectivity Possible? The Postmodern Subject in Legal Theory, in «University of Colorado Law Review», 62 (1991), p. 489. Per un esempio relativo all’uso di «vittima», si veda Wendy Brown, States of Injury: Power and Freedom in Late Modernity, Princeton 1995, p. 93. Il danno della subordinazione sociale è reso anche come «il ‘danno’ della subordinazione sociale», ivi, p. 27; si veda anche Butler, Scambi di genere cit., pp. 142-147 su «atto». 36 Frug, A Postmodern Feminist Legal Manifesto cit., p. 1052. 37 Si veda, per esempio, Rosi Braidotti, Nomadic Subjects: Embodiment and Sexual Difference in Contemporary Feminist Theory, New York 1994, pp. 57-74 [trad. it. parziale, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma 1995]; Drucilla Cornell, The Imaginary Domain: Abortion, Pornography and Sexual Harassment, New York 1995, pp. 95-163. 38 Si veda Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino 1976, pp. 195-228 [ed. or. 1975], che discute il panopticismo; Irigaray, Questo sesso che non è un sesso cit., pp. 25-26, che descrive l’ingresso delle donne in «un’economia scopica dominante»; Jacques Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Torino 1979, pp. 67-78 [ed. or. 1973], sul prodursi della «pulsione scopica». 39 Si veda Christine Delphy, The Invention of French Feminism: An Essential Move, in «Yale French Studies», 87 (1995), p. 196. 40 Michel Foucault, On Power, in Id., Politics, Philosophy, Culture: Interviews and other Writings, 1977-1984, New York 1988, p. 106. 41 Judith Butler, Quandaries of the Incest Taboo, in Peter Brooks e Alex Woloch (a cura di), Whose Freud? The Place of Psychoanalysis in Contemporary Culture, New Haven-London 2000, pp. 40-41. Resoconti di casi di incesto formano il vasto database esaminato da Diana E.H. Russell, The Secret Trauma: Incest in the Lives of Girls and Women, New York 1986. Ampiamente trascurato è l’eccellente studio di Linda Meyer Williams, che inizia con casi di abuso su bambini, che abbiano un’attestazione medica, e rintraccia, diciassette anni dopo, i sopravvissuti per indagare il loro ricordo di tali eventi: Recall of Childhood Trauma: A Prospective Study of

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Women’s Memories of Child Sexual Abuse, in «Journal of Consulting and Clinical Psychology», 62 (1994), pp. 1167 sgg. 42 Il riferimento è alla deposizione di Bill Clinton al Gran Giurì il 17 agosto 1998. Durante la precedente deposizione di Clinton al processo Jones, il suo legale, Robert Bennett, si era opposto alle domande sul carattere della relazione tra Clinton e Monica Lewinsky, affermando che, come la testimonianza giurata di quest’ultima indicava, «non è assolutamente sesso, di alcun tipo, genere o forma» (Clinton 8/17/98 Depo. at 54). Quando, durante la deposizione, gli fu chiesto se l’affermazione del suo legale fosse vera, Clinton rispose: «Dipende dal significato della parola ‘è’» (Clinton 8/17/98 GJ at 117). Clinton spiegò che, dato che Bennett aveva utilizzato il presente, la sua affermazione era vera perché, in quel periodo, tra lui e Lewinsky non c’era alcuna relazione sessuale. Inoltre, sempre durante la deposizione al Gran Giurì, Clinton suggerì che la correttezza dell’affermazione di Bennett e la veridicità della testimonianza di Lewinsky dipendevano dall’interpretazione della definizione di «relazione sessuale» (Clinton 8/17/98 GJ at 22) [N.d.T.]. 43 Si veda, per esempio, Higgins, Anti-Essentialism, Relativism, and Human Rights cit., pp. 119-120. Per una critica, si veda Martha C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Bologna 1996, cap. II [ed. or. 1986]. 44 Una forma specifica di questo argomento è proposta in modo efficace, su un terreno postmoderno, in Susan Bordo, ‘Material Girl’: The Effacements of Postmodern Culture, in Laurence Goldstein (a cura di), The Female Body: Figures, Styles, Speculations, Ann Arbor 1991, pp. 106 sgg. Che il postmodernismo rivendichi di aver rimpiazzato il modernismo si può riscontrare, per esempio, in Christine Di Stefano, Dilemmas of Difference: Femminism, Modernity, and Postmodernism, in Nicholson (a cura di), Feminism/Postmodernism cit., p. 63: «Il postmodernismo ha fatto fare alle cose un ulteriore passo» oltre teorici quali Rousseau, Marx e de Beauvoir. Osserva che esso può replicare con uno stile aggiornato ciò che pretende di aver superato (ivi, p. 77). Se il postmodernismo vede se stesso come superamento del modernismo per discontinuità o rottura, non sta rivendicando di affrontare le preoccupazioni del modernismo in modo migliore di quanto faccia il modernismo stesso, sta solamente alleviando un altro tipo di prurito, per usare la metafora di Wittgenstein rispetto a ciò che fa la filosofia. Si veda Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, Milano 1988, p. 161 [ed. or. 1977], citato in epigrafe da Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Milano 1986, p. 1 [ed. or. 1979]. Forse, parte del problema qui è che le preoccupazioni delle donne sono molto più urgenti e minacciose per la vita rispetto ai pruriti. 45 Un’utile discussione di questo problema si trova in Dennis Patterson, Postmodernism/Feminism/Law, in «Cornell Law Review», 77 (1992), pp. 254 sgg. 46 I postmodernisti possono non essere d’accordo con questo superamento hegeliano relativo al percorso dal modernismo al postmodernismo. Forse, dovrebbero dirci cosa significa il prefisso «post» accoppiato al modernismo. Se rappresenta un punto di rottura, perché non ha il suo proprio nome? 47 Gertrude Stein, Brewsie and Willie, New York 1946, p. 30. 48 Si veda Butler, Scambi di genere cit., p. 33: «Gran parte della teoria e della letteratura femminista dà tuttavia per scontato che esista un ‘colui che fa’ al di sotto dell’azione». Nietzsche mostrò la fallacia di separare l’agente dall’azione. In generale, si veda Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto pole-

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mico, Milano 1984 [ed. or. 1887]. O, come ha chiesto Yeats, «Come possiamo distinguere il danzatore dalla danza?»: William Butler Yeats, Visita alla scuola, VIII [ed. or. 1927], in Id., Quaranta poesie, Torino 1965, p. 55. Dietro alla questione della responsabilità, c’è una questione più ampia che non riguarda tanto l’agente dietro all’atto – che solleva l’interrogativo se il sé sia la causa delle proprie azioni (come in Kant) o l’effetto delle proprie azioni (come in Sartre) – quanto l’agente oltre l’atto. Né il modernismo né il femminismo volatilizzano il soggetto, come il postmodernismo cerca di fare. 49 Un’altra formulazione di questa stessa idea è che il postmodernismo femminista sia «un’epistemologia che giustifica la conoscenza solo fintanto che essa deriva da un’entusiastica violazione dei tabù fondatori dell’umanesimo occidentale»: Sandra Harding, The Science Question in Feminism, Ithaca 1986, p. 193. 50 Per un lucido aggiornamento sullo stato di questa critica, si veda Richard Rorty, Philosophy and Social Hope, New York 1999, pp. 262-277. 51 Il concetto viene da Fredric Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma 2007 [ed. or. 1991], che utilizza l’espressione «frammentazione psichica» accanto ad «alienazione» (p. 104); si veda anche Trina Grillo, Anti-Essentialism and Intersectionality: Tools to Dismantle the Master’s House, in «Berkeley Women’s Law Journal», 10 (1995), pp. 17 sgg.; Joan C. Williams, Dissolving the Sameness/Difference Debate: A Post-Modern Path Beyond Essentialism in Feminist and Critical Race Theory, in «Duke Law Journal», 41 (1991), pp. 296 sgg.: «l’approccio postmoderno parte dalla nozione di un sé frammentato e cangiante» (p. 307). 52 Su un campione di cento individui che hanno disturbi da personalità multipla, in uno studio condotto dai National Institutes of Mental Health, il 97 per cento ha riferito di aver subìto traumi significativi durante l’infanzia, l’83 per cento ha riferito di abusi sessuali, il 75 per cento di abusi fisici ripetuti e il 68 per cento di aver subìto entrambi. Si veda Frank W. Putnam et al., The Clinical Phenomenology of Multiple Personality Disorder: Review of 100 Recent Cases, in «Journal of Clinical Psychiatry», 47 (1986), pp. 289-290. Si è scoperto che l’abuso cumulativo, opprimente, grave e di lungo periodo, era proporzionale al livello di dissociazione che deriva dal trauma infantile in un ampio campione di pazienti ricoverati. Si veda Nel Draijer e Willie Langeland, Childhood Trauma and Perceived Parental Dysfunction in the Etiology of Dissociative Symptoms in Psychiatric Inpatients, in «American Journal of Psychiatry», 156 (1999), pp. 379 sgg.; si veda anche Judith Lewis Herman, Trauma and Recovery, New York 1992, pp. 125-126. 53 In netto contrasto con la concezione della molteplicità discussa qui, è quella di Mari J. Matsuda, When the First Quail Calls: Multiple Consciousness as Jurisprudential Method, in Ead., Where Is Your Body? And Other Essays on Race, Gender, and the Law, Boston 1996, pp. 3 sgg. 54 Si veda Braidotti, Nomadic Subjects cit., p. 13, che fa un rapido riferimento alla situazione bosniaca nella sua discussione sulla lingua. 55 Nel suo libro si legge: «Solo quando ho trovato una certa stabilità e un senso di parziale appartenenza, aiutata anche dal fatto di avere un lavoro fisso e un rapporto sentimentale felice, ho potuto cominciare veramente a pensare in maniera adeguata al nomadismo», ivi, p. 35. 56 Stephen A. Marglin, Towards the Decolonization of the Mind, in Frédérique Apffel Marglin e Id. (a cura di), Dominating Knowledge: Development, Culture, and Resistance, Oxford-New York 1990, pp. 12-14.

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Ivi, p. 13. Ibidem. 59 Harvey, La crisi della modernità cit., pp. 151 sgg., è particolarmente cogente. 60 Sokal e Bricmont, Imposture intellettuali cit., p. 214. 61 Una versione differente dello stesso punto è espressa da Nancy Hartsock, Rethinking Modernism: Minority vs. Majority Theories, in «Cultural Critique», 7 (2007), pp. 187 sgg., spec. pp. 204-206. Bisogna ringraziare i postmodernisti per aver tracciato una linea che mi fa sentire parte di una tradizione nella quale prima non mi ero mai sentita particolarmente inclusa. 57 58

Fonti dei saggi

1. Are Women Human? (1999), capitolo 4 in Catharine A. MacKinnon, Are Women Human? And Other International Dialogues, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2006, pp. 41-43. 2. Desire and Power (1983), capitolo 3 in Catharine A. MacKinnon, Feminism Unmodified. Discourses on Life and Law, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1987, pp. 46-62. 3. Difference and Dominance: On Sex Discrimination (1984), capitolo 2 in MacKinnon, Feminism Unmodified cit., pp. 32-45. 4. Not a Moral Issue (1983), capitolo 13 in MacKinnon, Feminism Unmodified cit., pp. 146-162. 5. Privacy v. Equality: Beyond Roe v. Wade (1983), capitolo 8 in MacKinnon, Feminism Unmodified cit., pp. 93-102. 6. Sexual Harassment: Its First Decade in Court (1986), capitolo 9 in MacKinnon, Feminism Unmodified cit., pp. 103-116. 7. Genocide’s Sexuality (2005), capitolo 22 in MacKinnon, Are Women Human? cit., pp. 209-233. 8. Women’s September 11th. Rethinking the International Law of Conflict (2006), capitolo 25 in MacKinnon, Are Women Human? cit., pp. 259278. 9. Postmodernism and Human Rights (2000), capitolo 5 in MacKinnon, Are Women Human? cit., pp. 44-63.

Indice



Introduzione all’edizione italiana di Antonella Besussi e Alessandra Facchi

v

1. Le donne sono umane?

3

2. Desiderio e potere

6

3. Differenza e dominio: sulla discriminazione sessuale 26 4. Non una questione morale

43

5. Privacy vs eguaglianza: a partire dal caso Roe vs Wade

64

6. Molestie sessuali: i primi dieci anni in tribunale

76

7. La sessualità del genocidio

94

8. L’11 settembre delle donne. Ripensare il diritto internazionale del conflitto

125

9. Postmodernismo e diritti umani

150

Note

175



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Fonti dei saggi