Che cosa sono le rappresentazioni sociali 8843034634, 9788843034635

La teoria delle rappresentazioni sociali è formulata da Serge Moscovici, a partire dalla metà del Novecento, nell'a

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Che cosa sono le rappresentazioni sociali
 8843034634, 9788843034635

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LE BUSSOLE / 191 SCIENZE SOCIALI

1 a edizione, luglio 2005 © copyright 2005 by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di stampare nel luglio 2005 da Eurolit, Roma

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico. I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Via Sardegna 50 00187 Roma. TEL 06 42 81 84 17 FAX 06 42 74 79 31

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Teresa Grande

Che cosa sono le rappresentazioni sociali

Carocci editore

A Roberto e al piccolo Michele per i lunghi pomeriggi di paziente attesa

Desidero ringraziare Renate Siebert e Paolo J edlowski per la loro presenza affettuosa.

Indice Introduzione 1.

7

Storia della nozione

11

Il significato filosofico 11 1.2. Sociologia e rappresentazione 13 1.3. L'eredità durkheimiana 17 1.4. Psicologia e rappresentazioni 25 1.1.

Per riassumere... 31 2.

Serge Moscovici e la ricerca sulla psicoanalisi

33

Gli anni giovanili 33 2.2. Un innovatore della psicologia sociale 37 2.3. La ricerca sulla psicoanalisi 43

2.1.

Per riassumere... 55 3.

Il fenomeno delle rappresentazioni sociali

3.1. 3.2. 3.3. 3.4.

La rappresentazione: da concetto a fenomeno sociale 56 La società pensante 57 Universi consensuali e universi reificati 58 La produzione del senso comune 60

56

Per riassumere... 65 4.

Analisi della nozione

67

4.1. Descrizione della rappresentazione 67 4.2. I prodotti e i processi della rappresentazione 69 5

4.3. La dimensione sociale della rappresentazione 76 Per riassumere... 80

5.

Struttura, dinamica ed evoluzione delle rappresentazioni 82

5.1. La teoria del nucleo centrale 82 5.2. Il modello dei principi organizzatori 89 5.3. Evoluzione delle rappresentazioni 97 Per riassumere...

6.

102

Quando si può parlare di rappresentazione sociale? 104

6.1. Usi del modello delle rappresentazioni sociali 105 6.2. Descrizione dell'oggetto della rappresentazione 107 6.3. Le fasi della rappresentazione 113 Per riassumere...

117

Bibliografia 119

6

Introduzione «Che cosa sono le rappresentazioni sociali?»: è la domanda che si ritrova spesso enunciata dai difensori quanto dai detrattori di que• sta nozione. Chiedersi che cosa siano le rappresentazioni sociali evidenzia la complessità, la ricchezza e l'ambivalenza di una nozione che abbrac­ cia una grande varietà di situazioni e che permette di incrociare dif­ ferenti livelli di analisi della realtà sociale. Le rappresentazioni socia­ li, infatti, toccano molteplici campi della vita sociale, agiscono fin dentro gli aspetti più intimi della vita degli individui ed esprimono, allo stesso modo, le relazioni tra vita pubblica e vita privata. Da que­ sta ricchezza consegue però spesso confusione quando si tratta di definire l'oggetto e i confini di una rappresentazione sociale. A questo stato di cose pensa Serge Moscovici - il padre di questa teoria - quando, a partire dalla sua prima indagine sistematica sulle rappresentazioni sociali (1976), insiste sui fondamenti teorici della nozione, segnando con ciò - come è stato da più parti osser­ vato - il punto di partenza di una linea di ricerche che si confer­ merà negli anni fondamentalmente orientata a definire nuove pro­ poste teoriche e metodologiche. La teoria delle rappresentazioni sociali racchiude alcune preoccu­ pazioni filosofiche relative alla conoscenza umana. Nel suo lavoro pionieristico Moscovici (ivi, p. 504) si pone una domanda essen­ ziale: «In che tnodo l'uotno costituisce la sua realtà?>>. Ma che cosa costruisce l'individuo? In primo luogo il reale, cioè le immagini (o le rappresentazioni) degli oggetti concreti e ideali costitutivi dell'ambiente nel quale vive e che gli permettono di orientarsi in esso, di agire e di comunicare. Questa costruzione è personale, perché ognuno seleziona ed elabora soltanto le rappre­ sentazioni degli oggetti che sono per lui più importanti. Si tratta però anche di una costruzione sociale, poiché, contemporanea­ mente, l'individuo si appropria degli elementi e delle idee che cir­ colano nella società. In altri tertnini, l'individuo costruisce nello 7

stesso tempo in cui ri-costruisce la rappresentazione di un oggetto sociale nel contatto con il proprio ambiente. La rappresentazione subisce cioè degli aggiustamenti continui in relazione ai rapporti con i gruppi ai quali l'individuo appartiene. Questo processo non sfocerà allora in una rappresentazione individuale, ma in una rap­ presentazione sociale condivisa. Sviluppata a partire dal concetto di Durkheim di rappresentazione collettiva, attraverso un'originale integrazione con la tradizione fenomenologica e interazionista, la teoria delle rappresentazioni sociali si pone come un superamento della durkheimiana dicoto­ mia individuo-società. Essa permette di disegnare una realtà socia­ le complessa e dinamica: la società diventa una rete di relazioni costantemente ri-create dagli individui che, comunicando tra loro, generano rappresentazioni condivise, funzionali alla salvaguardia di una vita e di una realtà quotidiana comuni. Nel rappresentarsi una cosa o una situazione non si generano uni­ camente idee e immagini personali. Al contrario, si produce e si trasmette un prodotto elaborato nel corso delle comunicazioni e dei rapporti sociali quotidiani. Ogni volta che un sapere è generato e comunicato e diventa parte della vita collettiva noi ne siamo interessati; in particolare, quando questi saperi servono a spiegare qualche problema o avvenimento sociale, ad esempio l'apparizione di un'epidemia (l'AIDS negli anni ottanta del Novecento) o il verificarsi di catastrofi (pensiamo all'attacco terroristico dell'11 settenibre del 2001 a New York e a tutto ciò che questo evento ha generato). Per quanto avvenimenti di questo tipo possano apparirci lontani dal nostro vivere quoti­ diano - rimanendo solo potenzialmente entro il nostro orizzonte pratico - i saperi che su di essi vengono prodotti e scambiati in qualche modo ci toccano, influenzando il nostro modo di comportarci e di leggere la realtà. E questo il fenomeno che Moscovici (1976, p. 39) qualifica come rappresentazione sociale: Le rappresentazioni sociali sono delle entità pressoché tangibili. Nel corso della nostra vita quotidiana esse circolano, si intersecano e si cristallizzano incessante-

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mente attorno a una parola, un gesto, un incontro. La maggior parte delle relazio­ ni sociali stabilite, degli oggetti prodotti e consumati, delle comunicazioni scambia­ te ne sono impregnati. Sappiamo che corrispondono in parte a I la materia simboli­ ca che viene in essa elaborata, e in parte alla pratica che produce questa materia, così come la scienza o i miti corrispondono alla pratica scientifica.

Le rappresentazioni sociali semplificano il mondo e servono alla sua comprensione. Nelle nostre società sostituiscono le credenze, le leggende e le forme mentali proprie delle società tradizionali. Più specificamente, esse corrispondono a veri e propri sistemi di interpretazione dell'ambiente sociale che permettono agli indivi­ dui e ai gruppi di agire, di comunicare e di regolare le loro reci­ proche interazioni. Questi saperi sociali vengono considerati però non semplicemente dal punto di vista dei rapporti di produzione, di potere o nelle loro forme istituzionali, ma sono soprattutto intesi come rapporti simbolici, che conducono gli individui e i gruppi a definirsi gli uni in rapporto agli altri, in un lavorio inces­ sante di ri-definizione della realtà. In questi termini, lo studio delle rappresentazioni sociali non mira a comprendere una vita sociale fatta, posta al di sopra degli individui e immutabile, ma una vita sociale che si sta facendo. La rappresentazione sociale denota pertanto una precisa struttura cognitiva: l'attenzione viene posta sui meccanismi psichici e di comunicazione volti a produr­ re un fenomeno specifico nel corso del flusso continuo di atti, rac­ conti, conversazioni e scambi di vario tipo. La diffusione dei sape­ ri, i rapporti tra pensiero e comunicazione, la genesi del senso comune costituiscono infatti per Moscovici (1992a, pp. 98-9) gli elementi primari di una teoria e di un metodo ampiamente rico­ nosciuti come fortemente innovativi nel panorama del pensiero psicosociale contemporaneo. Situata tra lo psicologico e il sociale, la nozione di rappresentazione sociale si presta per un confronto originale e fruttuoso con tutte le scienze umane. Denise Jodelet (1991, 1992a) ha spiegato chiaramen­ te questo carattere pluridisciplinare e la ricchezza della nozione, la sua vitalità scientifica e metodologica, il suo carattere riunificatore di 9

tutte le scienze sociali; in breve, la sua trasversalità, ma ugualmente la sua complessità. Come scrive infatti Qodelet, 1991, p. 669), da parte delle scienze sociali (antropologia, storia, sociologia), l'apertura sull'im­ maginario, l'inconscio e il cognitivo, lo sviluppo dello studio delle mentalità, il cambiamento delle concezioni dell'ideologia, l'interesse a collegare i processi mentali ai rapporti sociali e di potere, alle strutture materiali e alle condizioni pra­ tiche dell'evoluzione sociale, riconoscono alla rappresentazione un ruolo essenzia­ le nell'organizzazione sociale e una efficacia [ ... ] rispetto alle trasformazioni della società.

In quarant'anni di ricerche e di studi si sono moltiplicati i conve­ gni, le pubblicazioni, i corsi universitari dedicati alle rappresenta­ zioni sociali, così con1e è stato esclusivan1ente consacrato a esse un dottorato internazionale (European PhD on Social Representa­ tions and Con101unication), riconosciuto forn1aln1ente nel 1996 e coordinato dalla Facoltà di psicologia dell'Università La Sapienza di Ron1a. Nel corso di questi decenni, la nozione di rappresentazione socia­ le ha dato prova della sua efficacia inter e intradisciplinare, dando forma a numerosi orientamenti teorici e metodologici, tanto che si può pensare a essa, come ha scritto Jodelet (1992a, p. 71), come a «un universo in espansione all'interno del quale si strutturano delle galassie di sapere». Di questo «universo in espansione» nelle pagine che seguono pro­ veremo a esplorare gli aspetti essenziali, nell'intento di tracciare un percorso introduttivo a un approccio alla realtà psicosociale dive­ nuto ormai di largo uso nelle scienze umane.

10

1.

Storia della nozione

1.1. Il significato filosofico Il termine rappresentazione può assumere significati molteplici. Esso designa in senso lato un'attivi­ tà mentale attraverso la quale si rende presente alla coscienza, per mezzo di un'immagine, un oggetto o un evento assente. Il signifi­ cato più profondo del termine ci riporta però alla filosofia, precisa­ mente a uno dei temi principali verso cui si è orientata la filosofia moderna: l'analisi dei rapporti tra la coscienza e il mondo oggetti­ vo, ovvero della relazione che con tale mondo stabilisce il soggetto conoscente. Kant, ad esempio, aveva posto questo tema al centro delle sue preoccupazioni teoriche. Prima di Kant e di Hegel, tuttavia, i filosofi non erano estranei a questo problema e le soluzioni che proponevano sfociavano verso una divisione metodologica verso due grandi principi di soluzione che vedevano schierate, da un lato, le teorie razionaliste e, dall'al­ tro, le teorie empiriste della conoscenza. Le prime riconducevano la spiegazione del rapporto tra l'oggetto e il soggetto alla ragione, quindi a operazioni logiche a priori, a giudizi e a ragionamenti; le seconde si affidavano all'esperienza, quindi ai meccanismi a poste­ riori dell'associazione e della riproduzione. Entrambe queste cor­ renti risolvevano però la questione separando la rappresentazione dal suo oggetto. Nel 1923, in Filosofia delle forme simboliche Ernst Cassirer (1961) riparte da questa divisione metodologica e giunge a un'idea di rap­ presentazione molto vicina a quella che ne danno oggi le scienze sociali: la rappresentazione viene intesa come una mediazione sim­ bolica tra l'oggetto e il soggetto conoscente. Parlare di mediazione simbolica vuol dire, in primo luogo, che la relazione che la rappresentazione stabilisce tra l'oggetto e il sogget­ to conoscente non può ricondursi a processi di semplice riprodu­ zione (come la copia si rapporta all'originale), né a processi di mediazione intellettuale. Si tratta piuttosto di una relazione di pregnanza simbolica, in virtù della quale un sensibile include un senso 11

e lo rappresenta, in maniera immediata e concreta, alla coscienza. In altre parole, la relazione che la rappresentazione stabilisce con il suo oggetto non può essere intesa al pari delle relazioni che è pos­ sibile incontrare tra gli oggetti empirici, ovvero tra le cose reali: si tratta, al contrario, di una forma originale di connessione che appartiene all'ordine del simbolico. I simboli esprimono un significato "altro" rispetto a quello confe­ rito loro dalla pura apparenza; si tratta di un'idea, di un senso che alcuni uomini condividono a proposito di un oggetto; un'idea che risulta però indipendente dall'oggetto stesso. Cassirer (ivi, p. 124) intende il simbolo come «il complesso di quei fenomeni in cui si presenta in genere una qualsiasi realizzazione significativa del sen­ sibile, in cui un eleniento del suo esistere e del suo essere-così si presenta al tempo stesso come differenziazione e materializzazione, come manifestazione e incarnazione di un significato». L'importanza che l'ordine simbolico assume nella vita degli uomi­ ni è stata inoltre specificamente indicata da Cassirer nel suo ulti­ mo scritto pubblicato nel 1944, Saggio sull'uomo (1968, pp. 79-81): L'uomo non può più sottrarsi a 11 e condizioni di esistenza che I ui stesso si è creato; egli deve conformarsi ad esse. Non vive più in un universo soltanto fisico ma in un universo simbolico. li linguaggio, il mito, l'arte e la religione fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l'aggrovigliata trama del­ l'umana esperienza. [... ] Queste forme sono essenzialmente forme simboliche. Inve­ ce di definire l'uomo come un animai rationa/e si dovrebbe dunque definirlo come un animai symbolicum.

Considerando la vita degli uomini come attraversata da una trama infinita di comportamenti e rapporti simbolici, l'atto rappresenta­ tivo è da intendersi come l'atto di conoscenza che, per mezzo di un'immagine, lega simbolicamente un oggetto a un soggetto, che rende visibile qui e ora un oggetto o un evento assente. La rappre­ sentazione è il mezzo e insieme il prodotto di questo atto di cono­ scenza, un lavoro dello spirito sull'oggetto esteriore che si esprime attraverso una determinazione indipendente e autonoma che va al 12

di là della pura determinazione causale. Essa si dà in altri termini come un contenuto del pensiero, ma anche (e forse soprattutto) coITle un atto dinan1ico di creazione, o di ri-creazione, di una real­ tà altrimenti impossibile da percepire: la rappresentazione esprime propriamente una forma di conoscenza immanente; una conoscen­ za, quindi, non astratta, ma che resta nell'ambito dell'esperienza possibile. Questa conoscenza immanente è costitutiva dell'approccio alla rappresentazione che ne danno oggi le scienze sociali. 1.2. Sociologia e rappresentazione Se l'origine della nozio­ ne di rappresentazione è molto antica e rinvia a un problema di ordine filosofico, la sua definizione come categoria di compren­ sione e di analisi della realtà e dei fenomeni umani si deve, origi­ nariamente, alla sociologia. Come ha osservato Moscovici (1992a, pp. 78-9), ogni tentativo di ricostruzione della storia di questa nozione deve partire dalla constatazione che alcuni tra i più gran­ di sociologi hanno subito definito il posto di rilievo che a essa spet­ ta in una teoria della società. Simmel, ad esempio, ha riconosciuto il rapporto esistente tra l'in­ dividuo, che si colloca a distanza dagli altri, e la necessità di rap­ presentarsi gli altri. Il modo in cui questi altri vengono rappresen­ tati modella l'azione reciproca e i circoli sociali che essi insieme formano. Le azioni reciproche di cui parla Simmel rivelano un carattere psicologico, poiché metterebbero in moto rappresenta­ zioni sociali le cui nozioni e immagini filtrano motivi, desideri, preferenze, trattenendo solo ciò che è possibile scambiare e con­ dividere (Moscovici, 1991, p. 358). Le rappresentazioni consento­ no cioè di sperimentare nel pensiero gli esiti a cui porteranno determinate azioni, intravedere le forme che è opportuno dar loro e anticiparne le conseguenze, ma anche immaginarne altre, coITle quei gruppi - le ITlinoranze attive (cfr. PAR. 2.2) - capaci di far cambiare le opinioni e i modi di fare e di pensare dei grandi insiemi sociali. In questo senso è la società stessa che diventa per Simmel (1989, p. 28) "la mia rappresentazione", ovvero un'idea di 13

società generata dalla particolare prospettiva che l'individuo in un dato momento assume. Ma, come fa osservare Moscovici (1991, p. 360), per Simmel le rappresentazioni [... ] non sono tanto creazioni mentali che hanno effetti sociali, quanto piuttosto creazioni sociali che sono fondate per via mentale e che perciò diventano reali. [... ] Le rappresentazioni mostrano un potere d'influenza notevole, pereh é non

è più possibi I e distinguer I e da I mondo de11'esperienza co11ettiva ehe I e

reifica. Insinuandosi in tutte le azioni reciproche e le cerchie sociali, diventano il codice genetico [... ] delle combinazioni successive. È come se la massa mentale in circolazione modellasse i valori, i comportamenti, i I in guaggi, le qua I ità persona I i e li associasse in un insieme dove ogni cellula sostiene e completa l'altra. Un insieme la cui realtà comincia a somigliare alla sua immagine, e perciò, appunto, gli uomi­ ni possono prenderne possesso.

Su un altro versante si pone Weber, che pensa alla sociologia come a una scienza comprendente, volta a comprendere e a spiegare causal­ mente l'agire sociale. L'agire sociale è un agire dotato di senso, di un senso soggettivo che corrisponde prima di tutto al significato che all'agire stesso attribuisce chi compie l'azione. Ma ciò non basta. Per Weber, non tutto l'agire è sociale: è sociale quell'agire orienta­ to all'atteggiamento altrui. Come egli spiega in Economia e società, del 1922 (Weber, 1995, p. 4), «per agire "sociale" si deve però inten­ dere un agire che sia riferito - secondo il suo senso, intenzionato dall'agente o dagli agenti - all'atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo». Spiegando che cosa sia l'agire sociale, Weber offre un'idea di rap­ presentazione intesa come una sorta di "sapere comune", un sape­ re consolidato, posto vicino all'esperienza vissuta e ancorato nella coscienza che gli uomini ne hanno (ivi, p. 13): L'interpretazione dell'agire deve riconoscere il fatto, di fondamentale importanza, che quelle formazioni collettive appartenenti al pensiero comune o al pensiero giu­ ridico (o anche di altre discipline) sono

rappresentazioni di qualcosa che in parte

sussiste e in parte deve essere, le quali hanno luogo nelle menti di uomini reali (e

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non soltanto dei giudici e dei funzionari, ma pure del "pubblico") e in base alle quali si orienta il loro agire, e che esse hanno, in quanto tali, un'importanza causa­ le assai forte, e spesso addirittura predominante, per il modo in cui procede l'agire degli uomini reali. E ciò soprattutto in quanto sono rappresentazioni di qualcosa che

deve valere (o anche non valere).

In questo modo, Weber sembra assegnare alle rappresentazioni il potere di anticipare e di prescrivere il comportamento degli indi­ vidui, cioè di programmarlo. È tuttavia propriamente con Durkheim (1973) che il concetto di rappresentazione viene definito con precisione e a esso viene rico­ nosciuta la capacità di spiegare i fenomeni più vari della vita socia­ le. Attraverso la nozione di rappresentazione, egli mette in luce l'e­ lemento simbolico della vita sociale e promuove la nascita di un interesse per il suo studio sistematico. Nel mondo di rapporti sim­ bolici che egli descrive - in particolare in Durkheim (1963) -, le pratiche, ma soprattutto le diverse forme di ritualità (cerimonie, feste collettive, culti sacri) messe in atto dagli stessi gruppi e dalla società, vengono trasformate in forme di rappresentazione. In Durkheim, la coscienza collettiva si presenta come una realtà in sé, che si impone alle coscienze individuali, che esiste attraverso queste, ma che nello stesso tempo le trascende distinguendosene. Questa coscienza collettiva, che assicura coesione e stabilità alla società, ingloba in sé tutto un insieme di rappresentazioni: dalle fortne tnentali (intessute attraverso sitnboli, tniti, tradizioni) a oggetti sociali specifici (che attengono ad esempio all'ordine della tecnica, dell'economia, della politica). Come la coscienza colletti­ va, le rappresentazioni collettive sono elaborazioni stabili che si perpetuano nel tempo come una forma di verità o di certezza sociale. Ancora, al pari della coscienza collettiva, le rappresentazio­ ni sono interiorizzate dagli individui, ma esistono indipendente­ mente da questi. Nell'ambito della sua sociologia della conoscenza, Durkheim parla specificamente di rappresentazioni collettive, intendendole come forme di ideazione sociale distinte dalle rappresentazioni 15

individuali. Rappresentazioni collettive e rappresentazioni indivi­ duali per Durkheim sono separate. Da un lato, esse si distinguo­ no allo stesso modo in cui il concetto si distingue dalle percezio­ ni o dalle immagini: queste ultime - proprie a ogni individuo sono variabili e trasportate in un flusso ininterrotto; il concetto è invece universale, fuori del divenire e impersonale. Dall'altro lato, le rappresentazioni individuali hanno per substrato la coscienza di ognuno, mentre le rappresentazioni collettive hanno per substra­ to la società nella sua totalità. Queste ultime non costituiscono quindi il denominatore comune delle prime, ma piuttosto la loro origine. Scrive nel 1898 Durkheim (1973, p. 44): Il substrato della società è l'insieme degli individui associati. Il sistema che essi for­ mano unendosi, e ehe varia secondo la loro disposizione su I la superficie del terri­ torio, secondo la natura e il numero delle vie di comunicazione, costituisce la base su cui si eleva la vita sociale. Le rappresentazioni che ne costituiscono la trama sca­ turiscono dalle relazioni tra gli individui così combinati o tra i gruppi secondari che si interpongono tra l'individuo e la società totale. Se non si vede nulla di straordi­ nario nel fatto che le rappresentazioni individuali, prodotte dalle azioni e dalle rea­ zioni scambiate tra gli elementi nervosi, non siano inerenti a ta I i elementi, perché sorprendersi se le rappresentazioni collettive, prodotte dalle azioni e dalle reazioni scambiate tra le coscienze elementari di cui è costituita la società, non derivano direttamente da quest'ultime e, di conseguenza, vanno al di là di esse?

Occorre ricordare inoltre che Durkheim riuniva sotto l'espressio­ ne "rappresentazione collettiva" ogni sorta di produzione mentale sociale (scienza, religione, ideologia, visione del mondo, mito), che, dal punto di vista della loro costituzione, delle loro forme e delle loro funzioni, si differenziano radicalmente l'una dall'altra e, soprattutto, da quella forma specifica di produzione mentale socia­ le che è il senso comune, vale a dire quella forma di comprensione che crea il substrato di immagini collettivamente condivise su cui si fonda la vita di ogni collettività. Nei termini di Durkheim, la rappresentazione è collettiva nel senso che essa è condivisa da tutti i membri di un gruppo sociale 16

e perdura attraverso le generazioni imponendosi a essi in forma • • coerc1t1va. Per afferrare meglio l'utilità che egli riconosce alle rappresentazioni per lo studio dei fenomeni sociali, è utile un breve richiamo al con­ cetto chiave della sua sociologia: il fatto sociale. I fatti sociali sono per Durkheim fenomeni che non possono essere spiegati ricorrendo all'analisi delle azioni dei singoli o alla loro componente psicologica. Essi assulllono una dilllensione sovraindividuale, lllostrandosi indi­ pendenti (o meglio condizionanti) nei confronti delle manifestazio­ ni individuali. Per Durkheim (1996, p. 25), i fatti sociali si risolvono in modi di agire, di pensare e di sentire, esteriori rispetto all'individuo. Questi fatti sono provvisti di un potere di coercizione con il quale riescono a impor­ si sul singolo. Poiché consistono in rappresentazioni e azioni, non devono essere confusi con i fenomeni organici e neppure con i fenomeni psichici i quali non esi­ stono che nella coscienza individuale e grazie ad essa.

Questa distinzione fondamentale, che ha permesso a Durkheim e alla cosiddetta scuola durkheillliana - gli allievi e i collaboratori del sociologo francese riuniti attorno alla rivista da lui fondata "L'an­ née sociologique" - di intraprendere l'analisi di differenti campi sociali, si fonda sostanzialmente sull'ipotesi che si potrebbero spie­ gare i fenomeni sociali a partire dalle rappresentazioni e dalle azio­ ni che da esse conseguono. Sulla strada aperta da Durkheim, il concetto di rappresentazione collettiva viene accolto, in for01e e tnomenti diversi, nell'ambito delle varie scienze sociali, prime fra tutte l'antropologia, la psico­ logia, la sociologia e la storia. 1.3. L'eredità durkheimiana Definita a partire dal quadro indispensabile della vita collettiva e sociale - fonte di lllodi di fun­ zionamento, abitudini di pensiero e prese di posizione inscritte nel quadro istituzionale e ideologico esistente -, la rappresentazione viene principalmente intesa, nel linguaggio sociologico classico, cotne collettiva. 17

Secondo la definizione di Durkheim, la nozione di rappresenta­ zione collettiva si dimostra efficace per lo studio delle società tra­ dizionali, all'interno delle quali la sfera collettiva agisce in manie­ ra molto forte: i loro membri valorizzano sempre credenze, costumi e rituali collettivi. L'antropologia, a cui è classicamente affidato lo studio delle società tradizionali, è stata pertanto la prima beneficiaria della nozione di rappresentazione collettiva. È innanzitutto con Marcel Mauss (1965), e più tardi con Claude Lévi-Strauss (1960, 1966), che l'antropologia fornisce le prime descrizioni dei sistemi di rappresentazioni collettive presenti nelle società tradizionali. Entrambi prenderanno tuttavia una certa distanza dalla posizione teorica di Durkheim, ovvero dal suo pri­ vilegiare le rappresentazioni collettive rispetto a quelle individuali. Mauss affermerà ad esempio che i sistemi di rappresentazioni col­ lettive sono legati alla dinamica e alle rappresentazioni individua­ li. Le rappresentazioni collettive appartengono contemporanea­ mente all'astratto (cioè a quell'entità generale che chiamiamo società, ma anche a tutti i meccanismi psicologici individuali: in breve, a tutto ciò che non può essere osservato direttamente) e al concreto, che è invece osservabile (le abitudini e i comportamenti degli individui). Lévi-Strauss proporrà invece di studiare le rappresentazioni collet­ tive a partire dalle rappresentazioni individuali, in quanto queste ultime, al pari della coscienza individuale rispetto alla coscienza collettiva, sono più elementari e quindi più facili da studiare. Del resto, per Lévi-Strauss, è lo psichismo individuale che rende possi­ bile i fenomeni sociali complessi; il che significa che la rappresen­ tazione mentale individuale condiziona la rappresentazione collet­ tiva e permette che questa emerga. In sostanza, l'idea è che i fenomeni sociali, quindi anche le rappresentazioni collettive, siano sistemi oggettivati di idee che vengono creati e mantenuti grazie all'azione delle strutture psichiche individuali. Dopo Lévi-Strauss gli antropologi contemporanei hanno adottato posizioni varie: alcuni hanno semplicemente ignorato la nozione di rappresentazione, altri hanno studiato le rappresentazioni collettive 18

seguendo in qualche modo la strada tracciata da Mauss e da Lévi­ Strauss. Su questa scia si colloca ad esempio Sperber (1992). Questi spiega come, osservando la vita quotidiana delle popolazioni, l'an­ tropologo ne ricostruisca le rappresentazioni collettive; il che lo con­ duce a elaborare una propria rappresentazione mentale di quelle che sono (o dovrebbero essere) le rappresentazioni collettive poste alla base delle attività che egli osserva. A queste rappresentazioni menta­ li si aggiungono poi le rappresentazioni pubbliche che l'antropologo elabora nel corso delle sue narrazioni scientifiche relative a usi e costumi dei popoli studiati. Rappresentazioni mentali e rappresen­ tazioni pubbliche formano insieme quelle che Sperber (ivi, p. 134) chiama rappresentazioni culturali: rappresentazioni comunicate in modo ripetuto che possono risultare distribuite anche in un gruppo sociale intero ed essere l'oggetto di una visione mentale in ciascuno dei suoi membri. Il compito dell'antropologo è, secondo Sperber, quello di studiare queste rappresentazioni culturali. Altri autori ancora (Augé, 1979; Laplantine, 1978, 1988) hanno pre­ ferito accostarsi alle più recenti concezioni psicosociali (nate sulla scia della teoria di Moscovici di cui discuteremo nei prossimi capi­ toli), dimostrando con ciò come anche per l'antropologia sia utile confrontarsi non semplicemente con gli insiemi sociali, ma anche con gli individui che ne fanno parte. In questa prospettiva, le ricer­ che di Laplantine segnano, nell'ambito dell'antropologia europea, l'abbandono di uno studio estensivo delle rappresentazioni colletti­ ve a favore di una più forte attenzione su particolari sistemi di rap­ presentazione (nelle sue ricerche si tratta specificamente dei sistemi di rappresentazione della malattia); ciò nell'idea di mostrare il lega­ me tra l'individuale e il sociale e di orientare l'osservazione antropo­ logica su tre campi principali (Laplantine, 1992, p. 312): conoscenza: una rap presentazione è un sapere che non ha dubbi su se stesso; il campo del valore: una rap presentazione non è ritenuta da chi la detie­ ne soltanto come un sapere totalmente vero, ma anche come totalmente buono: è una valutazione; il campo dell'azione: una rap presentazione non è riducibile agli il campo della

aspetti cognitivi e valutativi. Espressione del sociale e allo stesso tempo creatrice di

19

questo, essa { /a rappresentazione) consiste non soltanto in un mezzo di conoscenza, ma anche in uno strumento d'azione.

In generale, da questa integrazione tra lo sguardo antropologico e quello psicosociale risultano studi basati sulla storia, sulla geogra­ fia, sulle mentalità utili a dimostrare come la nozione di rappre­ sentazione sia fondamentale per l'antropologia e per l'analisi dei 01odi attraverso cui una società si struttura. Oltre all'immediato utilizzo del concetto durkheimiano da parte degli antropologi, a esso ha fatto ampio riferimento la cosiddetta "storia delle mentalità", nata all'indomani della Prima guerra mondiale a opera di un gruppo di storici, tra i quali Lucien Febvre e Mare Bloch, e collaboratori della rivista di Durkhei01 "L'année sociologique", come Maurice Halbwachs e Lucien Lévy-Briihl. Questo gruppo ha ispirato, a partire dalla fine degli anni venti, le famose "Annales d'Histoire Economique et Sociale", da cui il no01e école des Anna/es che, con il successivo lavoro di storici co01e Philippe Ariès, Fernand Braudel, Georges Duby, Jacques Le Goff e Pierre Nora (per citarne solo alcuni), è riuscita a imporre una "nuova storia": una storia non superficiale ed evenemenziale, ma attenta alle mentalità, all'immaginario collettivo e ai mutamenti che questi subiscono nel succedersi delle epoche e delle genera­ zioni (Le Goff, Nora, 1974). In questo ambito, la rappresenta­ zione viene assunta come un elemento funzionale alla compren­ sione dei rapporti tra il materiale e il mentale nell'evolversi delle . ' soc1eta. Se - come abbiamo prima detto e come la ricerca antropologica classica ha confermato - le rappresentazioni collettive si dimostra­ no efficaci per lo studio delle società tradizionali, dove i modi di pensiero appaiono stabili, esse sembrano risultare inoperanti nei sistemi sociali evoluti e complessi, dove al contrario i modi di pen­ siero appaiono creativi e aperti al nuovo. Il modello di Durkheim se01bra cioè divenire inutilizzabile all'interno di una società in continua evoluzione, nella quale la diversificazione aumenta e gran parte dei settori della società (da quello economico a quello reli20

gioso o familiare) finiscono per sfuggire alle regole sociali tradizio­ nali. I progressi sociali rapidi, tipici delle società occidentali moderne, mettono in effetti in crisi le regole sociali come la mora­ le o la religione. Queste, pertanto, non sono più sufficienti a spie­ gare quel che succede nelle nostre società, e le rappresentazioni (collettive) che le sottendono perdono anch'esse la loro efficacia: sono destinate a sparire. Logicamente, si assisterebbe in questi tipi di società a una fine programmata delle rappresentazioni (e della coscienza collettiva) e - conseguenza inevitabile per le scienze umane - a una inutili­ tà del loro studio. Questa visione pessimistica, che si deduce naturalmente se si tenta di stabilire un legame diretto tra la posi­ zione teorica di Durkheini e l'evoluzione delle società nioderne, non è stata però condivisa dai sociologi, che, malgrado decenni di oblio della nozione (l'interesse sociologico per il concetto di rappresentazione si è sviluppato infatti soprattutto dalla metà del Novecento), hanno ripreso e rivitalizzato l'interesse per le rap­ presentazioni collettive (Michelat, Simon, 1977; Bourdieu, 1983; Maffesoli, 1986, 2004). Sintetizzando, si può dire che, dopo Durkheim, i sociologi si divi­ dono, rispetto allo studio delle rappresentazioni, secondo due grandi prospettive: l'una "oggettivista", l'altra "soggettivista" (Bonardi, Roussiau, 1999, p. 13). La prospettiva oggettivista, largamente debitrice nei confronti del marxismo, vede nelle rappresentazioni collettive un sistema coerente di credenze e di idee, poste esclusivamente come rifles­ so della realtà sociale e dei suoi mutamenti. Questa prospettiva però, non tenendo conto dell'attività individuale, conduce a un allontanamento dall'individuo (il soggetto umano sembra infatti caratterizzato da passività), generando di conseguenza una certa debolezza teorica. La prospettiva soggettivista utilizza invece la nozione di rappresen­ tazione senza troppo definirla, ma considera che le rappresenta­ zioni collettive appartengano a unità sociali limitate, come ai gruppi o alle classi sociali. Questa corrente è propriamente quella 21

della sociologia del quotidiano, più esattamente delle "sociologie del quotidiano" - che si rifanno al metodo interpretativo di Alfred Schutz (cfr. PAR. 3.4) - per le quali l'intenzione di fondo è quella di interpretare i fenomeni sociali secondo il punto di vista del comune attore sociale, spiegando così l'ordine sociale "dal basso", a partire dalle interazioni quotidiane e dalla comunicazione inter­ personale. Questa prospettiva sfocia principalmente verso una messa a fuoco della struttura delle rappresentazioni del soggetto piuttosto che delle sue azioni, con l'intento di arrivare ai mecca­ nismi più minuti e intimi che regolano i rapporti sociali. All'in­ terno di questa prospettiva, un taglio particolare presenta il lavo­ ro di Michel Maffesoli, che si pone in continuità con la "sociologia del presente" di Edgar Morin, particolarmente attenta ali'aspetto simbolico e mitico della vita quotidiana nelle società contetnporanee. Morin, a partire dai suoi studi sul cinema (1954, 1972), spiega come l'immagine organizzi il nostro rapporto con il mondo. Il cinema esprime bene uno dei bisogni elementari delle nostre società: il bisogno di finzione. Attraverso le sue evocazioni e gli ideali che gli attori incarnano, la rappresentazione cinematografi­ ca orienta la nostra percezione verso un mondo immaginario, latente nei simboli, ma che si mostra in maniera concreta nei pro­ dotti estetici, attorno ai quali si manifesta una partecipazione effettiva e affettiva. L'importanza di ciò che è sommerso (di ciò che non è ancora cosciente) nella vita sociale è confertnata inoltre da ciò che Morin chiatna la «virulenza evenetnenziale» (ad esetn­ pio, il pettegolezzo, le leggende metropolitane), che fanno emer­ gere il contenuto arcaico, mitologico degli eventi contemporanei. E su queste basi che Morin elabora i principi di una "sociologia del presente", orientata a cogliere le crisi scatenate dalla tensione tra il processo di razionalizzazione degli eventi e i suoi contro­ effetti problematici: inquietudini, angosce, ricerche del "capro espiatorio" (Tacussel, 200 0 , p. 1 20 ) . Il celebre La rumeur d'Orléans costituisce un chiaro esempio metodologico della prospettiva di Morin. Oggetto di questo studio è la propagazione di una notizia 22

falsa: la sparizione di alcune ragazze nei negozi di commercianti ebrei di una cittadina francese. Morin dimostra come il percorso narrativo del pettegolezzo trasformi il "si dice" (quello che la gente racconta di queste sparizioni) in certezza, poi in accusa nei con­ fronti dei co111111ercianti ebrei della città: nella coscienza collettiva «una storia fantastica si è trasformata in pseudo-evento storico» (Morin, 1982, p. 37). Riconoscendo, al pari di Morin, la pregnanza simbolica della vita quotidiana, Maffesoli propone un approccio originale, orientato sui microprocessi in atto e sul sociale quotidiano. Secondo Maf­ fesoli (1986), le ambivalenze e le contraddizioni che è possibile riscontrare nel "gioco della socialità" che il quotidiano è in grado di rivelare in tutto il suo spessore, pongono il problema di un nuovo modo di rappresentare il sociale, che tenga conto non solo dell'incoerenza vitale delle pratiche che si manifestano nella vita quotidiana, ma anche del ruolo che l'immaginario ha nell'ali­ mentare questa incoerenza (Mongardini, 1993, pp. 533- 5). Ogget­ to di studio sociologico diventa in questo senso la complessità quotidiana nei differenti livelli della vita sociale (piccoli gruppi, classi sociali, poi società globale), a partire dai quali è possibile percepire ciò che attiene alle rappresentazioni collettive della par­ ticolare struttura sociale considerata. In questo senso, il sociolo­ go che intenda studiare i meccanismi di una data società deve giungere a disegnare gli assi attorno ai quali si organizzano le rap­ presentazioni collettive e le pratiche che le accompagnano. Il lavoro di Maffesoli (2004) orientato verso una sociologia delle "tribù moderne" rende chiara questa impostazione. Le pratiche in uso in queste "tribù" (sportive, amicali, di lavoro), poiché parte dello spirito collettivo del gruppo, si pongono quasi come rituali necessari. Ad esempio, si può riconoscere colui che abi­ tualmente frequenta un certo luogo (un bar, una discoteca o un qualsiasi luogo pubblico) a partire da tutta una serie di piccoli comportamenti e atti che rivelano il "suo sentirsi a proprio agio" in quel posto, il sentirsi appunto nella propria tribù: il modo in cui il soggetto saluta e magari viene accolto dal proprietario e 23

dagli altri clienti (habitué come lui di quel locale), il solito posto dove si siede e via dicendo. Questi dettagli finiscono per costrui­ re ciò che può essere intesa come la rappresentazione di chi fre­ quenta abitualmente quel locale e che lo distinguono radical­ mente dall'indecisione o dall'imbarazzo del cliente nuovo od occasionale. In pratica, in tutti i gruppi socialmente investiti (dai luoghi di lavoro a quelli dello svago) sono questi piccoli com­ portamenti e azioni che compongono ciò che Maffesoli chiama la «conoscenza ordinaria». Un tentativo di superare gli approcci oggettivisti e soggettivisti è offerto da Bourdieu (1972, 1983). Secondo questo studioso, il sociologo deve abbandonare ogni tipo di sociologia spontanea (come la percezione comune, ideologica o giornalistica) intesa come costituzione in fatti sociali di dati diversi, che obbediscono in realtà a logiche differenti. I fatti sociali diventano scientifica­ mente rilevanti (ovvero di interesse sociologico) solo dopo che siano stati svelati i sistemi di relazione socialmente determinanti che li costituiscono e li uniscono. Per fare ciò, il sociologo deve mostrare la realtà di questi fatti: la conoscenza sociologica risulta in tal senso un lavoro di ri-costruzione dei rapporti e dei concetti a partire dalle realtà sociali complesse. E in questa prospettiva che Bourdieu giunge alla formulazione di quello che è il suo concetto più importante: l'habitus. Rifiutando di considerare il soggetto sociale come il semplice sup­ porto o il riflesso delle strutture oggettive, Bourdieu pone la defi­ nizione di habitus definendolo come il "sociale incorporato" o, più precisamente, il sociale divenuto schema cognitivo, modo di per­ cepire il mondo e di categorizzare le informazioni. L'habitus desi­ gna l'insieme delle disposizioni acquisite, cioè gli schemi, le perce­ zioni, i pensieri, le azioni e i giudizi inculcati nell'individuo da un contesto sociale specifico e che gli permettono di regolare, in maniera inconsapevole, le proprie azioni e decisioni. Nel corso dei processi di socializzazione, la famiglia, i sistemi educativi, l'espe­ rienza sociale, partecipano in maniera diversa alla costituzione di questi habitus, secondo le condizioni sociali, il momento storico e 24

la classe di appartenenza dell'individuo. Queste disposizioni corri­ spondono dunque a delle attitudini, a delle inclinazioni a percepi­ re (sentire, fare e pensare) interiorizzate dagli individui a partire dalle loro condizioni oggettive di esistenza. Esse funzionano allora come principi inconsapevoli di azione, di percezione e di riflessio­ ne. In tal senso, l'habitus è il prodotto della posizione e della traiet­ toria sociale degli individui. Esso media tra le possibilità oggettive e le motivazioni soggettive, dando così l'illusione di scelta nelle pratiche e nelle rappresentazioni, quando invece gli individui non fanno che riproporre l'habitus che li ha modellati. A partire dagli studi sulle rappresentazioni sociali inaugurati da Moscovici, Willem Doise (1985, 1990) ha aperto la strada per un confronto tra le nozioni di habitus e di rappresentazione sociale (cfr. PA R . 5 .2). Ciò nella misura in cui si intende la rappresenta­ zione sociale come una forma di conoscenza e di interpretazione della realtà. Poiché l'habitus corrisponde in un certo senso alla struttura sociale della nostra soggettività, le rappresentazioni che gli individui possiedono ed elaborano risultano di conseguenza strettamente dipendenti dagli schemi acquisiti nel corso dei pro­ cessi di socializzazione; il che permette di situare in maniera più esplicita la rappresentazione nel campo dei rapporti sociali. Tutto ciò indica come le categorie entro le quali noi descriviamo l'universo sociale, le nostre pratiche e le nostre rappresentazioni non sono prodotti individuali, ma prodotti sociali. Da qui la necessità di interrogarsi sui modi della loro costituzione. 1.4. Psicologia e rappresentazioni In psicologia, l'interesse per l'aspetto collettivo delle rappresentazioni è molto più recente: esso si rifà ai lavori di Moscovici. Se la nozione di rappresentazione collettiva si dimostra poco adat­ ta a studiare le società contemporanee - caratterizzate dal can1bia­ mento incessante, dal pluralismo delle idee, dalla diversità e dalla mobilità dei gruppi sociali e degli individui -, specifica a questo tipo di società è al contrario la nozione di rappresentazione socia­ le formulata da Moscovici, sessant'anni dopo Durkheim, nell'am25

bito del pensiero psicosociale europeo. Riprendendo il concetto durkheimiano di rappresentazione collettiva e superando il carat­ tere monolitico e statico del concetto, Moscovici assegna alle rap­ presentazioni un carattere dinamico ed evolutivo: esse divengono l'immagine della società moderna e lo strumento più idoneo a comprendere la dialettica individuo-società che, come spiega Elias (1990, pp. 141-2), ha prodotto la modernità, dove il concetto di individuo si riferisce a uomini interdipendenti ma al singolare, il concetto di società a uomini interdipendenti ma al plurale. Tuttavia il rapporto della psicologia con il concetto di rappresen­ tazione non si esaurisce con il contributo innovatore di Moscovi­ ci. La presenza dell'idea di rappresentazione si può infatti riscon­ trare nelle diverse correnti psicologiche. Fin dalla sua nascita, la psicologia si è prevalentemente concentra­ ta sugli aspetti individuali delle rappresentazioni. In questo, un ruolo centrale assume la psicologia cognitiva che, con i modelli mentali o rappresentazioni mentali, ha principalmente messo in evidenza la struttura interna delle rappresentazioni. Il cognitivismo, il cui termine trae origine dalla parola latina cogi­ to, che significa "pensato, mi rappresento attraverso lo spirito", nasce negli Stati Uniti a partire dagli anni cinquanta. Progressiva­ mente, esso determina uno spostamento teorico: si passa dallo stu­ dio intensivo dell'apprendimento a partire dallo schema tipico del comportamentismo stimolo-risposta allo studio delle funzioni cognitive. Ciò che i comportamentisti intendono come una "sca­ tola nera" (la mente umana) diventa oggetto di investigazione scientifica. Tale movimento, che in un certo senso è oggi predo­ minante nella psicologia scientifica mondiale, afferma che per ren­ dere conto del comportamento occorre studiare i meccanismi mentali che lo organizzano. Considerato in senso stretto, il cogni­ tivislllo si definisce in riferilllento al Illodello del trattalllento delle informazioni (cfr. PAR. 2.2). Qui l'idea è che la tnente utnana fun­ zioni secondo il principio del calcolo (secondo un influsso che pro­ viene dal contesto scientifico intorno alla Seconda guerra mondia­ le, caratterizzato da progressi sostanziali nel campo delle scienze): 26

il sistema cognitivo viene inteso in questo senso come un sistema formale che agisce sulle rappresentazioni dette simboliche. Un altro contributo importante proviene dalla scuola storico-cul­ turale di Vygotskij. Questi, dopo un iniziale uso delle teorie mar­ xiste, si è avvicinato a Durkheim e a Lévy-Briihl cercando di inte­ grare nella sua opera l'idea di rappresentazione. La lunga ricerca intrapresa da Vygotskij e da Luria sullo sconvolgimento della mentalità contadina in Uzbekistan e in Kirghizistan in seguito alla rivoluzione bolscevica e al conseguente programma di educa­ zione scolastica costituisce anche un modo per rilevare dati con­ creti e più certi rispetto ai racconti di Lévy-Briihl e per verificare l'idea che le categorie mentali di base e le rappresentazioni cam­ biano da una cultura all'altra (Luria, 1976). Tutto questo - fa osservare Moscovici (1999a, pp. 61-70) - nel tentativo non riusci­ to di formulare una teoria dello sviluppo storico-culturale delle rappresentazioni sociali. L'opera di Lévy-Briihl, il cui contributo allo studio delle rappre­ sentazioni non 01anca 01ai di essere 01enzionato, ha avuto un influsso notevole in psicologia. Le spiegazioni di Lévy-Briihl (1922) circa il funzionamento della mentalità primitiva focalizza­ no l'importanza del rapporto tra una società e le sue rappresen­ tazioni. Per Lévy-Briihl, le società umane si possono classificare in due tipi principali: i primitivi e i civilizzati, caratterizzati da due differenti modi di pensiero, per cui si può parlare di una mentalità primitiva e di una mentalità civilizzata. Considerando questa differenza, non si può pensare di spiegare i fenomeni di una società attraverso le categorie (o le rappresentazioni) dell'al­ tra. In altri termini, i modelli di rappresentazione che formano la mentalità di un popolo non sono misurabili con quelli di un altro popolo: come dire, ciò che appare insensato in una società può risultare invece completamente coerente in un'altra. Lévy­ Briihl fa notare poi come sia impossibile spiegare i fatti sociali par­ tendo dalla psicologia del singolo, in quanto l'individuo subisce le rappresentazioni dominanti della società in cui vive e queste rap­ presentazioni cambiano nelle diverse società. Sulla posizione di 27

Lévy-Briihl riflette Moscovici (1992a, p. 86), osservandone la continuità con gli studi di Jean Piaget: L'interpretazione proposta da Lévy- Bru h I del modo in cui funziona la mentalità pri­ mitiva pone un enigma a numerosi psicologi [ ... ]. In una serie di studi ormai classi­ ci, anche Piaget cerca di analizzare le rappresentazioni del mondo del bambino. Come lo scienziato francese a proposito del primitivo, lo psicologo svizzero parte dal postulato che il bambino piccolo non

è "più sciocco" né si trova in qualche grado

inferiore rispetto al bambino più grande. Piuttosto diciamo che pensa le cose in modo essenzialmente differente. La concezione del mondo al la quale obbedisce la sua facol tà di ragionamento

è diversa [ ...]. A l lo stesso modo in cui il mondo primi­

tivo ed il mondo civilizzato si distinguono attraverso le loro rappresentazioni, così esse servono per distinguere il mondo del bambino e quel lo del l'adulto.

Il dualismo che Lévy-Briihl istituisce tra due culture Piaget lo ripropone all'interno della nostra cultura, nella differenza qualita­ tiva tra il pensiero del bambino e quello dell'adulto: il bambino non è un piccolo adulto, ma un individuo dotato di una struttura psichica propria. In questo senso, la "società spontanea" dei bam­ bini e la società degli adulti sono distinte e a esse corrispondono rappresentazioni del mondo differenti. Stabilito questo dualismo e ragionando sulla specificità delle rap­ presentazioni del mondo nel bambino, Piaget riduce la rappresen­ tazione all'immagine mentale, ponendone in evidenza la dinamica piuttosto che il carattere collettivo. Con Piaget, in altri termini, la rappresentazione si qualifica come un processo indipendente da ogni influsso ambientale: il contributo più importante che egli apporta allo studio delle rappresentazioni riguarda infatti la defi­ nizione della loro specificità in termini psichici. La rappresenta­ zione viene intesa in questo senso sia come evocazione di oggetti sia (nel caso l'oggetto rappresentato sia presente) in quanto com­ pleta le conoscenze percettive riferendosi ad altri oggetti assenti. Se la rappresentazione prolunga la percezione, introduce però anche un elemento nuovo a essa specifico: un sistema di significati com­ prendente una differenziazione tra il significante e il significato. 28

Con ciò, Piaget estende la distinzione operata dai linguisti tra significato e significante anche ai processi cognitivi. Nei processi mentali i significati sono dati dalle operazioni del pensiero, men­ tre i significanti sono forniti dalle diverse modalità che concretiz­ zano l'espressione delle operazioni del pensiero, come ad esempio le immagini mentali o il linguaggio (Legrenzi, 1984, pp. 213-4). Da Piaget in poi, questa differenziazione tra significante e significato acquisterà un posto di rilievo nello studio delle rappresentazioni. L'accento si sposta con ciò dall'aggettivo (collettivo) al sostantivo (rappresentazione): più che al carattere collettivo, l'attenzione viene volta dunque alla dinamica delle rappresentazioni. In questo spostamento d'accento un posto di rilievo occupa anche il pensie­ ro di Freud (per quanto l'ideatore della psicoanalisi si trovi qui inserito in una tradizione di pensiero diversa dalla sua). Il contributo di Freud allo studio delle rappresentazioni si può rin­ venire principalmente nel saggio Teorie sessuali dei bambini (1972) del 1908, anche se in molti punti della sua opera vi è una forte attenzione per certe formazioni collettive della socialità e della cul­ tura che riguardano sistemi di rappresentazione (verbale): miti, racconti e leggende, visioni del mondo, credenze, idee religiose, ideologie. Freud descrive le teorie che i bambini costruiscono per soddisfare la loro curiosità sessuale 01ostrando co01e esse abbiano un carattere sociale. Queste teorie - che si ripropongono in manie­ ra differente nelle diverse generazioni e nei vari contesti familiari corrispondono a costruzioni di rappresentazioni capaci di rispon­ dere a tutte le domande relative all'origine del soggetto, di inter­ pretare le emozioni e i sentimenti nel rapporto tra i sessi, di ordi­ nare una distribuzione di ruoli nelle relazioni genitori-figli (Kaes, 1992, pp. 113- 5). Assolvendo a queste funzioni, le teorie sessuali dei bambini si pre­ sentano come rappresentazioni condivise, le cui origini possono essere ritrovate nella cultura circostante, nei racconti, nelle leggen­ de, nei proverbi e nei saperi di senso comune che circolano in una data società. Se Piaget ha chiarito la natura psichica delle rappresentazioni 29

rispetto alle relazioni sociali, Freud ha dimostrato come esse siano il risultato di un processo di trasformazione dei saperi, spiegando anche la maniera in cui vengono interiorizzate e trasformate dagli individui, ovvero come esse passino dalla vita collettiva alla vita indi­ viduale, dalla dimensione conscia a quella inconscia (Moscovici, 1992a, pp. 92-3). L'utilizzo delle intuizioni di questi autori nello studio della vita sociale contemporanea ha permesso a Moscovici di superare la nozione astratta e vaga di Durkheim e di giungere alla formulazio­ ne della sua teoria delle rappresentazioni sociali (ivi, pp. 93-4): Da parte mia, posso testimoniare il fatto che gli studi di Piaget e di Freud [ ... ] hanno ben avuto questa conseguenza. Sono loro che mi hanno indotto a domandarmi per­ ché la cura messa nello studio dell'universo del bambino qui e dell'adulto altrove non dovrebbe essere applicata anche all'universo degli adulti qui. Cosa c'è di più naturale del partire dai loro concetti e dai loro campi di studio per esplorare le rap­ presentazioni, rese vivaci dall'immaginazione dei contemporanei, che le generano e le condividono? A partire da ciò, e ritornando a Durkheim, mi è stato possibile meglio afferrare la portata sociologica di questi concetti e di questi campi di studio. E di vedere che ciò che in lui resta, malgrado tutto, una nozione astratta, poteva essere affrontato in quanto fenomeno concreto.

Ricordiamo infatti che le leggi della regolazione sociale ricercate da Durkheim riguardano il gioco delle idee tra loro, ma non l'aspet­ to cognitivo delle rappresentazioni. Allo stesso modo, la dimensio­ ne emozionale che, giustamente, egli riconosce alle rappresenta­ zioni rinvia a dei momenti di "effervescenza collettiva" e non ai gruppi e agli individui che la producono. Al contrario delle rappresentazioni collettive, che fanno riferimen­ to a gruppi sociali molto ampi e a intere società, le rappresentazio­ ni sociali a cui pensa Moscovici risultano generate nel quadro delle relazioni tra i membri di piccoli gruppi e delle comunicazioni sociali; esse sono contestualizzate e costantemente sottomesse alle influenze sociali, trasformandosi perciò con molta più facilità e più rapidamente delle rappresentazioni collettive. Di conseguenza, le 30

rappresentazioni sociali sono più numerose e diversificate, ma al contempo più limitate e frammentarie. La dinamica sociale è dun­ que una delle loro caratteristiche essenziali: la rappresentazione è costantetnente tnodifìcata, ritnodellata, ri-costruita nella tnisura in cui l'attività mentale individuale partecipa alla sua trasmissione. Occorre precisare però che siamo in presenza di un movimento che risulta duplice: se da un lato le rappresentazioni sociali esistenti suscitano azioni e condotte sociali, dall'altro lato le interazioni e le comunicazioni sociali quotidiane partecipano e influiscono sulla loro evoluzione e trasformazione. La posizione di una rappresenta­ zione sociale non rinvia dunque né interamente al sociale né total­ mente all'individuale: essa costituisce piuttosto un «ponte tra l'in­ dividuale e il sociale» (Jodelet, 1992a). In virtù di questa posizione, le rappresentazioni sociali sono contemporaneamente flessibili e rigide: generate dagli individui, acquisite dalla società, riproduttri­ ci del sociale (come in Durkheim), nello stesso tempo risultano però in grado di creare novità. Così intese, le rappresentazioni sociali diventano un fenomeno di cui è possibile rilevare e analizzare i contenuti, i processi e gli effet­ ti che esse sono in grado di provocare nella realtà entro cui si mani­ festano.

Per riassumere... • I n se nso fi l osofi co i l te rm i ne ra p p rese ntazione ri nvia a u n o d ei tem i p ri n ci pa l i verso cui s i è ori e ntata l a fi l osofia m od e rna : i l ra p porto tra l a coscie nza e i l m o n d o oggettivo . E rnst Cassi rer è i l fi l osofo che fo rm u l a u n 'i d ea d i ra p p rese ntazione m o lto vi ci na a q u e l l a che n e d a n no oggi l e sci enze socia l i : egl i i nten d e l a ra p p resentazi one co me mediazione sim ­ bolica tra l 'oggetto e i l soggetto co n oscente. • Al c u n i tra i p i ù gra n d i soci o l ogi ha n n o s u b ito d efi n ito i l p osto che la ra p p rese nta zi o n e occ u pa i n u n a teo ri a d e l l a soci età , i n d ica n d o co n ci ò l a n ecess ità d i a ss u m e re l a d i m e ns i o n e s i m bol i ca n e l l a s p i ega zi o­ n e e n e l l 'a na l is i d e i fe n o m e n i soci a l i . È p e rò co n D u rkhei m ch e i l co n ­ cetto d i ra p p rese ntazi o n e vi e n e d efi n ito i n m a n i e ra co m p i uta . Egl i 31

pa rl a p ro p ri a m e nte d i ra p p rese nta zi o n i co l l ettive ( a d es e m p i o , l a sci e nz a , l a re l i gi o n e , i l m ito e p i ù i n ge n e ra l e og n i vi si o n e d e l m o n d o ) , i nte n d e n d o l e co m e fo rm e d i i d ea zi o n e socia l e d isti nte d a l l e ra p p re ­ s e nta zi o n i i n d ivi d u a l i . • Pe r i l s u o ca ratte re stati co e coe rcitivo i l co n cetto d i D u rkh e i m d i ra p p rese nta zi o n e co l l ettiva s i m ostra a d atto pe r l o stu d i o d e l l e soci età tra d i zi o na l i , ca ratte rizzate d a u n ce rto g ra d o d i stati cità e d i c h i us u ra . L 'a ntro po l ogi a è d ifatti l a p ri m a be n efi ci a ria d e l co n cetto d i ra p p rese n ­ tazi o n e co l l ettiva , m e ntre l 'atte nzi o n e d e l l a soci o l ogia p e r l o stu d i o d e l l e ra p p rese ntazi o n i s i svi l u p pa a pa rti re d a l l a seco n d a m età d e l N ovece nto . • Fi n d a l l a s u a nascita , l a ps i co l ogia si è p reva l e nte m e nte co nce ntrata s u g l i aspetti i n d ivi d ua l i d e l l e ra p p rese nta zi o n i . Si pensi a l l a psi co l ogia cogn itiva , che h a ch ia rito l a struttu ra i nte rna d e l l e ra p p rese ntazi o n i , e a gl i stu d i d i J ea n Pi a get s u l l e ra p p rese nta zi o n i d e l m on d o d e l ba m b i n o. • L'i nte resse per l 'a s p etto co l l ettivo d e l l e ra p p res e nta zi o n i s i svi l u p ­ pa a pa rti re d a l l avo ro d i Serge Moscovi ci . Rifo rm u l a n d o i l con cetto d u r­ kh ei m i a no d i ra p p rese ntazi o n e co l l ettiva , M oscovi ci e l a bo ra , n e l l 'a m b ito d e l l a psi co l ogia socia l e d i l i ngua fra n cese, l a s u a teo ri a d e l l e ra p p rese n ­ tazi o n i soci a l i . Egl i d efi n isce co n ci ò u na catego ria d a l ca ratte re d i na m ico ed evo l utivo , m eg l i o a d atta a l l o stu d i o d e l l e soci età co nte m pora n ee, ca ratte rizzate d a l ca m bia m e nto i ncessa nte, d a l p l u ra l is m o d el l e i d ee e d e 1 1 e d o tt ri n e ( po I i ti c h e, re I i g i o se , f i I o s ofi che, m o ra I i ) , d a 1 1 a d i ve rsi tà e m o bi l ità d ei gru p p i socia l i e d eg l i i nd ivi d u i .

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2.

Serge Moscovici e la ricerca sulla psicoanalisi

2.1. Gli anni giovanili Serge Moscovici è nato nel 1925 a Braila (in Romania), una piccola cittadina adagiata lungo la riva del Danubio. Il padre proveniva da un'antica famiglia ebrea di com01ercianti di cereali, la cui riservatezza e la stretta osservanza reli­ giosa contrastavano con il clima irrequieto che si respirava nella famiglia della madre. Nel 1930, ancora in tenera età, Moscovici visse una delle esperienze più dolorose della sua vita: il divorzio dei genitori, avvenuto con grande scandalo per l'epoca e la cultu­ ra della piccola comunità. Nel corposo racconto autobiografico pubblicato nel 1997, egli chiarisce a più riprese quanto dolorose siano state le ferite provocate da questo divorzio e come non si siano mai completamente rimarginate. Come scrive (Moscovici, 1997, pp. 24- 5), il divorzio era allo stesso tempo una umiliazione per gli sposi e un disonore per le famiglie. [ ... ] Si riteneva che la questione riguardasse soltanto gli adulti e non ci si preoccupava, in alcun modo, come si fa ai giorni nostri, della psicologia dei bambi­ ni. [ ... ] Chiunque lo abbia vissuto è privato del sentimento dell'invulnerabilità , della fiducia in se stesso che solo l'amore di una famiglia unita offre.

Dopo il divorzio, Moscovici venne affidato al padre e la sua unica sorella alla madre. Con la madre Moscovici visse negli anni un distacco quasi totale (la incontrò infatti solo due volte); il padre fece invece condividere al giovane Moscovici la precarietà della sua vita affettiva e lavorativa, i suoi tentativi di convivere con altre donne e gli alti e bassi del suo lavoro di commerciante. Nei primi anni trenta la Romania visse una profonda crisi econo­ mica che produsse forti ripercussioni sull'attività del padre, il quale si trovò sempre più impegnato a ricercare nuove strategie di sopravvivenza. Ciò portò grandi mutamenti nella vita di Moscovi-

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ci, segnati in particolare dall'affidamento alla zia Anna (sorella del padre) con la quale visse per circa dodici anni, fino al suo abban­ dono definitivo della Rotnania. Gli anni vissuti con la zia furono ricchi di esperienze tragiche, ma al contempo illuminanti. Prima fra tutte la Seconda guerra mondiale, alla quale la Romania non partecipò direttamente, ma dei cui esiti ebbe comunque espe­ rienza in seguito all'alleanza che re Carol aveva stabilito con la Germania nazista. Nel dicembre del 1938 la Romania promulgò le leggi razziali aprendo così le porte alle persecuzioni. In segui­ to a questa tragica svolta, la maggioranza della popolazione ebrea (tra cui Moscovici insieme alla zia e al figlio di questa) scelse di trasferirsi a Bucarest, nella speranza di poter continua­ re a lavorare e a vivere il più dignitosamente possibile. Ma la vita a Bucarest non si rivelò facile. Qui Moscovici conobbe le perse­ cuzioni anti-ebraiche nelle sue varie forme, dall'espulsione dal liceo industriale (dove si era iscritto con il progetto di diventare ingegnere navale, come era nei desideri del padre) fino a un fero­ ce pogrom (i violenti attacchi contro le proprietà e la vita delle minoranze ebraiche) nel quartiere periferico dove abitava; attacco al quale Moscovici riuscì a sfuggire solo grazie al suo aspetto che non rivelava le origini ebraiche (la statura alta, la pelle chiara). Dopo l'esperienza indimenticabile e sconvolgente del pogrom, Moscovici fu assegnato a un reparto di lavori forzati. Cominciò così un periodo senza speranza in cui l'unico rifugio erano le poche ami­ cizie sincere e soprattutto lo studio, cui Moscovici affidava la pro­ pria salvezza (ivi, p. 253): «In qualche modo mi sono giurato che, se mi fossi salvato, sarei diventato un uomo di studio». In partico­ lare, Spinoza, Marx ed Einstein incarnavano la figura mitica dello studioso ( ibid. ) : A mia insaputa le loro immagini si mescolavano e si combinavano, tutti e tre sembravano appartenere a una stessa famiglia di uomini per i quali lo studio

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cosa sacra, salvatrice quanto la preghiera. Lo studioso non chiede niente. Tenta semplicemente di creare qualcosa, senza misurare i suoi sforzi né cedere di fron­ te alle difficoltà. Ero persuaso che questa figura composita si sarebbe realizzata

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un giorno, non che io ne avessi il genio, ma perché ne avevo la vocazione. E bi so­ gnava che mi preparassi.

Dialogando con alcuni tra i più grandi maestri del pensiero (Spi­ noza e Marx, ma anche Hegel, Nietzsche, Pascal, Cartesio), Moscovici scoprì, in questo momento buio della sua vita, la forza delle idee e visse la sua prima esperienza di scrittura: scrisse un sag­ gio che, dopo un importante rifiuto, nel 1945, da parte di una rivi­ sta svizzera, sarà rielaborato e pubblicato con il titolo Essai sur l 'hi­ stoire humaine de la nature. Il 23 agosto del 1944 il giovane re Michele firmò l'armistizio con l'Unione Sovietica. In questa nuova situazione, Moscovici trovò un posto di saldatore in un'officina, ma la zia lo convinse a lasciare il lavoro di operaio per riprendere a studiare e consegui­ re il diploma. In questo stesso periodo Moscovici visse altre due importanti esperienze. La prima riguarda la pubblicazione, insieme a un gruppo di amici, di una rivista dal titolo "Genera­ zione 944", esplicitamente pensata per dar voce a una genera­ zione particolare, come appunto è quella di Moscovici, che ha subito i colpi della storia, per mostrare la forza di pensiero e la creatività intellettuale che è propria delle persone che hanno vis­ suto esperienze di dolore e di esclusione. Di questa rivista, tut­ tavia, venne pubblicato solo il primo numero, perché, no­ nostante la simpatia del segretario del partito comunista, la censura del nuovo regime romeno ne impedì la prosecuzione. La seconda esperienza riguarda la creazione di un movimento giovanile fondamentalmente ispirato al pensiero del politico e filosofo ucraino Ber Borochov, dal quale il movimento ripren­ deva, oltre che il nollle "Borochovia", la sintesi Illarxista e sio­ nista. L'ipotesi di partenza di Borochov era che la composizione sociale delle comunità ebree fosse rappresentata da una pirami­ de rovesciata, che poggia sulla punta. Questa risulta costituita in alto da un gran numero di intellettuali, artigiani e commercian­ ti e, in basso, da pochi operai e contadini. La soluzione che Borochov proponeva per risolvere questa situazione era di anda-

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re in Palestina per rimettere la piramide dritta, cambiando la composizione sociale, trasformando cioè la maggioranza in lavo­ ratori della terra, con beni e stru01enti in co01une. Fondato su questa idea, il movimento offriva ai giovani desiderosi di parti­ re per la Palestina la possibilità di discutere, di informarsi e di apprendere il lavoro manuale che avrebbero poi svolto nella Terra promessa. A tal fine, Moscovici e gli amici del movimen­ to avevano formato grandi centri di preparazione: ognuno riuniva circa trenta giovani (ragazze e ragazzi) che cominciava­ no a vivere lì una vita collettiva autonoma per la gestione del centro e a imparare l'ebraico. Gli anni del movimento furono animati da un'intensa vita politica e mondana e da una crescen­ te sfiducia nel co01unis010 cotne si stava affertnando in Rotna­ nia. Per conto del 01ovitnento, Moscovici effettuò una serie di viaggi nei campi per rifugiati in Germania, dove ebbe modo di conoscere e ascoltare di persona i resoconti tragici della vita nei campi di concentramento. L'impegno nel movimento e le altre esperienze (private e sociali) che segnarono la vita del giovane Moscovici lasceranno una traccia indelebile sul suo essere uotno e scienziato sociale. Moscovici osserva espressamente che ritrova oggi sotto forma di teorie quei contenuti della sua vita di cui credeva di non conservare più alcu­ na traccia. Egli pensa che, in fondo, la sua vita sia stata sostanzial­ mente orientata a riprendere e a far fruttare in un'esistenza labo­ riosa e ordinata le esperienze vissute nel corso di una vita sregolata, segnata dal caso e dalla storia. Il passato fatto di dolore non ha mai dunque cessato di lavorare in segreto, trasformandosi in ciò che è diventata la sua opera. Moscovici abbandonò in 01odo clandestino la Ro01ania nel 1947 (lo stesso anno in cui il re abdicava) con l'obiettivo, maturato negli anni, di raggiungere Parigi. Il viaggio verso la Francia si svolse per tappe, con lunghe soste in diverse città italiane (tra cui Roma, Milano e Genova). Gli usi, i costumi e la lingua italiana attrassero molto Moscovici, che pensò anche di abbandonare l'idea di rag­ giungere Parigi per rimanere in Italia e portare a termine qui il suo

progetto di diventare un uomo di studio. Ma la forza della città immaginata e mitizzata non lo abbandonò: nel gennaio del 1948 Moscovici raggiunse Parigi. Ripensando alla sua prima notte pari­ gina trascorsa in un asilo per immigrati in Rue Lamarck, Mosco­ vici scrive (ivi, p. 561): Ho avuto degli amici, un padre e una madre che non furono padre e madre. Zia Anna, mio cugino, poi l'Europa si è spaccata in due. [ ... ] Ma in questo inizio di gen­ naio del 1948, io non ero triste pensando a questi anni di caos e di peregrinazioni lungo sentieri che non conducevano da nessuna parte, in cui tante speranze furono decimate. Anni smar riti che hanno portato avanti I a mia vita e nei qua I i I a vita si è presa gioco di me. Essi hanno seguito il disordine del secolo e io sono cresciuto sotto i I caso de i I oro co I pi d i dado.

A Parigi Moscovici lavorò per un certo periodo in un laboratorio di sartoria e contemporaneamente, non avendo dimenticato il suo obiettivo, si iscrisse all'università. Nel 1961 ottenne, alla Sorbona, il dottorato di ricerca in lettere con il suo celebre lavoro sulle rap­ presentazioni sociali. 2.2. Un innovatore della psicologia sociale La notorietà di Moscovici è legata soprattutto alla teoria delle rappresentazioni sociali. Il volume La psychanalyse. Son image et son public, pubbli­ cato nel 1961, non fonda soltanto le basi di questa nuova teoria, ma inaugura anche, nella psicologia sociale degli anni sessanta, un più generale momento di novità. La riformulazione del concetto durkheimiano di rappresentazio­ ne collettiva costituisce infatti per Moscovici il punto di parten­ za per una ridefinizione dei problemi e dei concetti della psico­ logia sociale. Come scrive introducendo la seconda edizione della ricerca sulle rappresentazioni sociali della psicoanalisi (1976, p. 16): «La mia ambizione era tuttavia più vasta. Volevo ridefini­ re i problemi e i concetti della psicologia sociale a partire da que­ sto fenotneno, insistendo sulla sua funzione sitnbolica e sul suo potere di costruzione del reale».

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In questo senso, la prospettiva teorica aperta da Moscovici pre­ senta, come osserva Jodelet (1991, p. 669), una portata critica e • costruttiva: Nella sua portata critica, essa si offriva come un'alternativa al modello béhavioriste stimolo-risposta per spiegare la condotta. La portata costruttiva rispondeva al biso­ gno di introdurre, nell'approccio dei fenomeni psico-sociologici, la dimensione sociale, storica e ideologica, come pure gli aspetti simbolici legati ai rapporti socia­ li nella comunicazione e nel contesto delle interazioni sociali.

Sin dai suoi primi scritti, Moscovici rivolge un'aperta critica alla definizione di psicologia sociale come disciplina che si occupa dei rapporti tra individuo e società, sottolineando come essa dovreb­ be invece rivolgere una maggiore attenzione al comportamento simbolico dei soggetti sociali (individui o gruppi). Questa critica era soprattutto rivolta all'involuzione sempre più individualista tipica della psicologia sociale statunitense tra gli anni cinquanta e sessanta, stimolata in particolare dal comportamentismo e, suc­ cessivamente, dalla psicologia cognitiva nella versione del cosid­ detto cognitivismo riduzionista, basato sul modello dello Human Info rmation Process, le cui origini rimandano agli studi sull'intelli­ genza artificiale ( Bonnes, 1999a, p. 18). Questo modello concepi­ sce la mente umana come un semplice recettore di informazioni che, attraversando un certo nun1ero di stadi di elaborazione, sfocia in un prodotto finale decodificabile in maniera totale e univoca. In questa prospettiva, i meccanismi psicologici sono concepiti come trattamento di informazioni. In effetti, non si parla più tanto di stimoli, ma appunto di informazioni. Ad esempio, le informazio­ ni fisiche (suono e luce) vengono trasformate, più esattamente codificate, al livello dei nostri organi sensoriali prima di essere sin­ tetizzate in oggetti mentali, parole e immagini. Questo modello riabilita lo studio delle rappresentazioni mentali della conoscenza, a differenza del comportamentismo stretto che lo aveva invece lasciato da parte. Esso presenta però un limite: trascura il fatto che anche i processi mentali si definiscono in un contesto sociale e che 38

le attività cognitive sono influenzate da fattori sociali, affettivi e tnotivazionali. In contrasto con questi approcci, Moscovici (1992b, pp. 6-7) offre una doppia definizione della psicologia sociale, ben spiegata da Augusto Palmonari (1989, pp. 10-1). • La psicologia sociale è la scienza che si occupa del conflitto tra indi­ viduo e società; conflitto che si realizza nel contesto concreto dei rapporti simbolici esistenti tra gli attori sociali (individui e gruppi) e tra attori sociali e istituzioni. Moscovici intende per società sia quella del di faori, sia quella del di dentro (sia quella oggettiva sia quella immaginaria), e per conflitto (termine che non ha qui il significato di inconciliabilità, ma di tensione continua), tutta una serie di situazioni di carattere sociale in cui si viene a trovare l'in­ dividuo, come l'impegno a respingere le pressioni al conformismo o, ancora, l'elaborazione e il mantenimento di una posizione per­ sonale innovativa rispetto a un'ortodossia che costituisce una parte qualificante dell'ambiente sociale in cui l'individuo è cresciuto. Lo studio delle rappresentazioni sociali è lo strumento con cui Mosco­ vici si propone di indagare tali conflitti. Le rappresentazioni socia­ li sono in effetti il luogo di una mediazione simbolica (continua­ mente rinnovata, eppure capace di tenaci oggettivazioni), in cui il reale viene ricompreso e interpretato dagli stessi attori sociali nel corso delle loro interazioni. • La psicologia sociale è la scienza dei fenomeni dell'ideologia (cogrzizioni e rappresentazioni sociali) e dei fenomeni di comunicazione. E utile riferirsi qui agli stereotipi, ai pregiudizi sociali e alle credenze collettive. La continuità che è possibile rilevare in questi fenomeni sta nel fatto che essi esprimono una rappresentazione sociale, elaborata da individui e gruppi per agire, comunicare e orientarsi nella realtà sociale. La teoria delle rappresentazioni sociali non costituisce dunque che il primo, fondamentale momento di un progetto molto più vasto che abbraccia tutta l'opera di Moscovici e che a essa conferisce un profilo unitario. Si tratta dell'idea di reintrodurre il sociale e la mente/pensiero nella psicologia sociale e di ridare a questa