Eduardo drammaturgo. Fra mondo del teatro e teatro del mondo
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EDUARDO DRAMMATURGO (fra mondo del teatro e teatro del mondo)

II Edizione con Bibliografia riveduta e accresciuta

BIBLIOTECA

DI CULTURA / 361

3A DEE BULZONI

EDITORE

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BIBLIOTECA DI CULTURA —

361—

Ringrazio la signora Isabella Quarantotti De Filippo per l’affettuosa premura con cui ha seguito il mio lavoro. Ringrazio i miei Maestri, ma anche i miei

allievi che in anni di seminari e di esercitazioni hanno confermato con la loro attenzione la vitalità dell’oggetto di questo studio.

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EDUARDO DRAMMATURGO (fra mondo del teatro e teatro del mondo)

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88-7119-877-8

© 1995 by Bulzoni editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14

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II AVVENTURE DI GUERRA LA TRILOGIA 1. La commedia

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E DI DOPOGUERRA:

storica di Napoli milionaria!.........

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2. Questi fantasmi! o dell’ambiguità dei vivi......... 3. Filumena Matturano dalla tragedia alla beffa. ......

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III NEL PAESE DEL FANTASTICO: BUGIE, MAGIE, ILLUSIONI, INCUBI ialelburierrontie carnebe- lunghe.

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IV LA PAROLA A TEATRO: TRA FAMIGLIARISMO E IMPEGNO

CIVILE Pi 291 305 309 55. 319 384 410 423

1. La paura numero uno in pubblico e in privato..... 2. Il famigliarismo come #beatrum mundi. ........... e Alta famielia Cfr. R. Morasito, Parola e scrittura. Oralità e forma letteraria. Studi critici,

e teatro nazionale,

Roma, Bulzoni, 1984. Incontro tanto più suggestivo e perspicuo per il teatro, dove

8

dea del teatro che privilegia l’uso della mimica e del gesto, dei valori fonici e sonori della ‘‘parola’’, ed una che, invece, della parola privilegia il significato, valutandone anche la ‘‘scrittura’’. Il codice spazialescenografico attiene ad entrambe: il nostro secolo ha scoperto fra le due «visioni del teatro» sintomatici incroci. Tanto più in Eduardo: perché la sua drammaturgia è incontro, e non giustapposizione, fra spettacolo e testo. Se ripercorriamo il suo percorso, a partire da quando la sua ricerca si precisa negli obiettivi — con le Cantate dei «giorni dispari»6 —, l'integrazione reciproca si rafforza. Ma fin dai «giorni pari», dalle Cantate più legate alla tradizione attorica e partenopea, all’uso ancora naturalistico o parzialmente farsesco del dialetto, l'Autore mostra di evadere — come nel «magico» Sik-Sik — dalle schematizzazioni della «farsa». E, attraverso poi l’apprendistato con Pirandello, le sue commedie più «borghesi» — il sardonico Io, l'erede, il velenoso Uno coi capelli bianchi — rispondono all’esigenza personale dell’artista di uscire dal circuito della creazione e della diffusione regionale, senza cedere tuttavia alle tecniche convenzionali del teatro naturalista. Alla fine, il suo teatro ‘‘anteguerra’’ non mostra soltanto un’alternanza sperimentale fra tradizione e innovazione, ma — nella gestazione lunga di Natale in casa Cupiello — manifesta possibilità di incontro e di mutuo scambio. Gettato il ‘‘ponte mobile’ fra i diversi linguaggi, come tra lingua e dialetto, non si privilegiano più certi codici a discapito di altri: la scritturalità del testo non abbandona né tanto meno esclude gli apporti dell’oralità, anzi li significa meglio e li valorizza. D'altronde l’Autore sente il bisogno di rivendicare alla propria opera una dimensione anche letteraria; si autodefinisce «scrittore»:

il riferimento alla parola pronunciata, ma anche alla mimica e al gesto, è essenziale

(p. 8). 6 Eduardo ha raccolto in vita le sue commedie in due «Cantate»: la Cantata dei giorni pari (che comprende i testi scritti tra il 1920 e il 1942) e la Cantata dei giorni dispari (che comprende quelli scritti fra il 1945 e il 1973); ciò per quanto riguarda l’ultima edizione Einaudi del 1982, che abbiamo principalmente usato per il nostro studio (rispettandone per quanto possibile le caratteristiche tipografiche). Per la storia delle edizioni einaudiane delle «Cantate» e per le varianti che queste presentano, rimandiamo subito alla Nota specifica in Appendice al nostro volume, alla quale fanno riferimento anche le note relative ai singoli testi citati nel corso del lavoro.

i suoi sono anche testi, presentano un aspetto scritturale il quale, pur rientrando nella «parte artigianale del lavoro di un commediografo», può interessare anche «il lettore»?. Ciò non è banale, dal momento che si continuano a nutrire dubbi, da parte dei critici, sulla validità o addirittura esistenza di questo aspetto del laboratorio eduardiano. Lo stesso laboratorio, comunque, comprende altri e molteplici procedimenti, che non solo discendono dall’officina tradizionale dei generi o sottogeneri appresi e ripresi (l’Avanspettacolo e il Varietà, le alchimie e i meccanismi di attori-autori come il padre Scarpetta o il grande pulcinella Petito ...), ma attingono anche ad una pratica culturale del teatro che comporta l’immersione del ‘‘testo’’ in un bagno di creatività ‘‘spettacolare’’ nuova, tale da farlo riemergere depurato dalle scorie (soltanto dalle scorie) del mestiere e con i segni d’una

progettazione moderna. Se un’idea [...] è valida, con il tempo matura, migliora e allora la commedia si sviluppa come testo e anche come teatro, come spettacolo completo, messo in scena e recitato nei minimi particolari (p. IX).

La concezione di teatro totale, di spettacolo completo, che Eduardo

esprime con semplicità e acutezza, è antica e insieme moderna: del nuovo ha la consapevolezza di un autore-attore che è anche intrinsecamente regista, dell’antico ha gli ingredienti fondamentali della teatralità, e la forza di non essere un teatro d’élite.

Proprio la nozione di «testo», in questa prospettiva, appare distaccarsi dai significati che assumeva nei due filoni divergenti del nostro teatro ottocentesco: non più il canovaccio, il testo parziale e provvisorio dello spettacolo popolare-dialettale, e neppure lo scritto letterario, elaborato «a tavolino, a priori, senza tener conto dell’ambiente in cui dovrà essere rappresentato», per cui già i Futuristi sentivano

«una invincibile ripugnanza»8. Anziché essere negato, il testo, come

? Cfr. E. De Fiuippo, Nota introduttiva a I Capolavori di Eduardo, Torino, Einaudi, 1973, p. VII. La nota riprende il discorso, I/ teatro e il mio lavoro, tenuto

da Eduardo all'Accademia dei Lincei, quale vincitore del premio A. Feltrinelli per il teatro, nel 1972. Dalla Nota cit. continuiamo a citare nel testo. 8 Si veda il Manifesto I/ teatro futurista sintetico (1915), in L. Scrivo, Sintesi del Futurismo, Roma, Bulzoni, 1968, p. 118.

10

dagli stessi Futuristi negli anni Dieci e poi dalle varie correnti del cosiddetto «terzo teatro», è sostituito da una nuova ‘‘specie’’ di testo: [...] cerco di far si — spiega Eduardo — che le mie tre attività teatrali si aiutino a vicenda, senza prevalere l’una sull’altra e allora autore,

attore e regista collaborano strettamente, animati dalla medesima volontà di dare allo spettacolo il meglio di se stessi (ibidem).

Si rimanda finché si può il tempo codificante della scrittura — di cui si teme forse l’effetto raggelante —, «però, una volta che mi sono seduto al tavolino e ho riempito il primo foglio, lavoro speditamente, come se dettassi a me stesso». Tuttavia neppure la parola «fine» tracciata dall’autore-scrittore suggella compiutamente il lavoro teatrale, al più sigla l’ultima pagina del «copione»: [...] poi ha inizio la storia del nostro lavoro, quello che facciamo insie-

me noi attori e voi pubblico, perché [...] non solo quando recito, ma già quando scrivo il pubblico io lo prevedo.

La percezione o previsione dello spettatore è dunque inscritta nel testo, con la stessa precisione delle battute e dei movimenti dei personaggi. Lo spettatore è «il personaggio in più» rispetto agli altri della commedia, il «coro», come dice Eduardo, o, per citare una fa-

mosa didascalia di Questi fantasmi!, l’anima utile, che non compare mai in scena ma è come se ci fosse. È «lui» che interrogato nel modo giusto deve dare le «vere risposte» al creatore di spettacoli; «a braccetto» con lui l’autore deve poter uscire dal teatro, a fine rappresentazione. Perché nel teatro il fruitore non può essere previsto soltanto come

immagine

o ‘‘funzione’’ del testo (lector in fabula), ma anche

come

spettatore ‘‘reale’’ della performance. Si scrive quindi direttamente per la scena, non si perde mai di vista la realizzazione spettacolare dell’opera, il suo farsi rappresentazione. La «cornice» dei testi eduardiani è costituita evidentemente dalla somma o meglio dall’intreccio del loro aspetto verbale e scritturale con le indicazioni delle didascalie, che sono solo apparentemente “verbali” in quanto prefigurano o recano traccia di tutti i movimenti scenici e mimici, di quegli irrestitibili ‘‘gesti’’, ammiccamenti, o alterazioni foniche della ‘‘voce’’, che formano la dimensione particolaris11

sima non soltanto di Eduardo-attore ma anche di Eduardo-drammaturgo e regista. Non a caso l'Autore non pubblica mai una commedia prima di averla rappresentata. Perciò la scrittura drammaturgica si trasforma in scrittura scenica, e lo ‘‘spazio scenico” si allarga ad occupare tutta la sala, inglobando la platea. In tal senso la teatralità eduardiana attraversa, di fatto, la «quarta parete», conservando nella sua sostanza semantica la forza d’una proposta realistica. Peppino ci offre un'importante testimonianza del metodo di lavoro usato da «I De Filippo» all’epoca della loro collaborazione, e indirettamente illumina quello ‘‘proprio’’ del fratello maggiore: [...] pur quando [una commedia nuova] era stata scritta, il lavoro non si poteva considerare terminato. V’erano modifiche che nascevano alla prova dei fatti. [...] Infine, neanche alla rappresentazione quel testo restava quello dell’ultima prova; alla luce della ribalta, durante la recita, alla prova della magica atmosfera che proveniva dal calore del pubblico, qualche battuta e perfino qualche scena intera poteva denunciare la necessità di dover essere rimaneggiate [oppure ...] da una semplice battuta detta fuori testo, se ne poteva trarre un appropriato leitmotiv di sicuro successo.

Come

la battuta di Nennillo in Natale in casa Cupiello («nun

me piace ’o presebbio»), venuta ‘‘a soggetto” a Peppino durante una delle repliche della commedia (allora in un atto, e cioè il secondo dei tre attuali) al cinema-teatro Kursaal di Napoli. «La battuta divenne poi lo slogan fortunato della commedia, e, addirittura, mio fratello in seguito ne trasse la conclusione [...] della commedia che oggi il testo presenta»?.

In Eduardo l’improvvisazione attorica (che la farsa ha in comune con l’avanspettacolo e col varietà) diventa modulo compositivo, spunto per una calibrata e simmetrica strutturazione del testo: perciò l’e-

sempio della battuta a soggetto di Peppino, elaborata poi come /eitmotiv non solo di «sicuro successo» ma anche di profonda significazione ‘‘tematica’’ e “formale” per l’opera, risulta altamente informativo. D'altronde non è forse casuale, nella prospettiva dei rapporti testo/spettacolo-pubblico, che Eduardo abbia attraversato davvero quel

? Cfr. P. De Firpo, Una famiglia difficile, Napoli, Marotta, 1977, pp. 265-266.

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«teatro di varietà» tanto esaltato dai Futuristi: i quali, pur celebrandone la «popolarità», ne traducevano gli aspetti più vistosi, più effimeri, in teorie soggettive ed intellettualistiche. Il «disprezzo del pubblico», che la nostra avanguardia insegnava ai Drammaturghi negli anni Dieci!®, diviene in questo Autore né intellettuale né «piccolo borghese» (com'è stato riduttivamente definito da alcuni), ma più significativamente ‘‘figlio d’arte”, colloquio col pubblico. Un colloquioconfronto che non esclude la provocazione,

fino alla cattiveria ...,

ma che non prevarica né vuole prevaricare: perché è compito dello spettatore (come del lettore) scoprire le intenzioni dell’autore, «ed egli lo farà certamente se lo scrittore ha saputo esprimersi» (p. VIII). Così Eduardo conferma con concretezza esemplare uno dei principi della semiotica moderna, e cioè che «il pensiero dello scrittore si realizza in una determinata struttura artistica ed è da essa indivisibile» (Lotman). Ed è forse il meglio che egli ha appreso dalla lezione del teatro pirandelliano (al di là delle inevitabili, necessarie influenze

e dei successivi, rilevanti distinguo),

o comunque da quel «teatro in

rivolta» degli anni Venti (gli anni della sua formazione come autore),

che aveva saputo organizzare in una testualità più complessa le intuizioni e le scoperte del Futurismo. Così che ogni nuova proposta venisse mediante la ‘‘scena’’, e non dalla scena come podio o pulpito (sia pure dissacrato).

10 Si veda il Manifesto La voluttà di essere fischiati («Il nuovo teatro», 5-6 dicembre 1910-gennaio 1911), e la sua versione, con qualche variante, dal titolo Manifesto dei Drammaturghi futuristi (11 gennaio 1911, Milano, redazione di «Poesia»), in Sintest del Futurismo cit.

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Tradizione e innovazione, si è detto, rapporto dialogico fra passato e presente: ciò in seguito naturalmente, perché all’inizio la componente nativa della «napoletanità», anche teatrale, è forza di notevo-

le incidenza sulla formazione della personalità artistica di Eduardo. Figlio d’arte, nel senso proprio e antico delle compagnie di giro, quando inizia a scrivere per il teatro (Farmacia di turno, 1920) già

da sedici anni l'attore vive sul palcoscenico. E «il teatro napoletano [...] è non solo legato alla personalità e alla tecnica dei suoi attori; ma in essi trova spesso i maestri e le fonti di una drammaturgia che solo in un secondo tempo si allarga alla letteratura»!. La matrice partenopea dell’operazione culturale e drammaturgica che Eduardo svolgerà, per più di mezzo secolo, si precisa dunque in quel bagaglio di tradizioni recitative e sceniche che l’attore si porta dietro, e che marcano la distinzione fra l’«attore dialettale», specialmente se napoletano, e gli altri attori. Bagaglio strettamente legato da fili tenaci, da consuetudini quali l’improvvisazione e la ripetizione per esempio, indotte dalla necessità di recitare «due, tre testi la settimana», nei generi detti «San Carlino, Petito e Altavilla» o nell’ambito del «teatro d’arte voluto da Di Giacomo, Bovio, Murolo», oltre naturalmente

ai «testi della riforma scarpettiana»?.

1 Cfr. R. Jacog8i, Da/ regionalismo al teatro di poesia, in AA.VV., Teatro dell’Italia Unita, a c. di S. Ferrone, Milano, Il Saggiatore, 1980, p. 30. 2 Eduardo cit. da S. De MatTEIS, I De Filippo, in Enciclopedia del teatro del 900 (a c. di A. Attisani), Milano, Feltrinelli, 1980. «La frammentazione della ma-

schera inizia col nuovo secolo: Scarpetta ha spodestato Petito e il Pulcinella, sostituendolo con Felice Scosciammocca, maschera della borghesia che ascende alle sue nuove funzioni sociali. Nasce in questo periodo una generazione di attori, tra cui i De Filippo, [...] da Viviani fino a Totò, legati alla tradizione dei comici che lavorano in dialetto, su canovacci fatti e rifatti, inventati dall’attore all’impronta, lì compiono

17

Questa riforma, al di là dell’antagonismo delle proposizioni, non risulta poi troppo discorde sul piano della «regolamentazione del dialetto», e poi anche della scrittura scenica, da quella auspicata e praticata, fin dal 1890, da Salvatore Di Giacomo. LU! pubblico] era stufo delle recitazioni a soggetto, stanco delle parodie, nauseato delle inverosimiglianze e delle assurdità ammannitegli in lunghi beveroni per trenta o quarant'anni consecutivi. [...] Voleva ridere, ma vedere attori e non maschere sul palcoscenico, attori ben vestiti che recitassero e non improvvisassero:

così Scarpetta padre nelle sue memorie, Cinquant'anni di palcoscenico (1922). Anche nelle sue intenzioni c’era dunque una regolamentazio-

ne del teatro napoletano: scrivere in dialetto ma bene, buoni testi, «con scene distese per intero»; basta coi «giochi di prestigio se si vuole essere uomini e non pupattoli». Avrebbe tradotto nella lingua e nei modi partenopei gli intrecci del repertorio francese più leggero (perché «il pubblico voleva divertirsi, voleva ridere!»), ma trasformando pochades e vaudevilles al punto che — osserva Eduardo — «leggendo Na santarella o assistendo a una sua rappresentazione sembra davvero impossibile che Nannina sia nata a Parigi». Il ‘‘figlio d’arte” ha condotto infatti, negli ultimi anni, una specie di ricapitolazione ragionata dell’opera del ‘‘padre’’: a partire da Lu curaggio de nu pompiere napulitano del 1877, con un Don Felice

il loro principale praticantato. A questo si affianca il varietà. Parallelamente si registra il rinnovamento della commedia che trova nuova vita legandosi alla tradizione francese dei vaudevilles e delle commedie fin de siècle, riferimenti che sono serviti allo stesso Scarpetta per la sua “riforma”.

E [...] la tradizione dei drammi di cui

Mastriani e Stella sono stati rispettivamente il maggior autore e il principale interprete; e la sceneggiata che si presenta come genere misto che alterna farsa e dramma sviluppando la trama

di una canzone

in voga.

In questi generi trovano lavoro gran parte

degli attori» (p. 198). Un’altra sintetica ma efficace immagine del teatro napoletano agli inizi del ’900 propone G. MagLiuLo (Eduardo De Filippo, Bologna, Cappelli, 1959) comprendendo anche «i frutti artistici dei tentativi che andranno succedendosi [...] per l'affermazione di un “teatro d’arte’’ dialettale dove primeggia Salvatore Di Giacomo» (p. 15). > Cfr. E. De Fiuppo, Nota introduttiva a Na santarella, in Eduardo De Filippo presenta quattro commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta, Torino, Einaudi, 1974?, d. 29)

18

Scosciammocca, borghesuccio striminzito e acchittato già creato da Petito, «agli inizi di una lunga e gloriosa carriera» ma ancora dipendente da un Pulcinella servo e poltrone, furbo e capace alla fine di sciogliere gli intrighi e svelare gli inganni; per arrivare appunto a Na santarella del 1889, in cui lo stesso «figurino» campeggia nel ruolo di organista-canzonettista «mmiez’ ’è guaie»4. Come osserva Mario Pomilio, la storia del teatro napoletano della seconda metà dell'Ottocento «è veramente un capitolo a parte, un capitolo che va studiato come se fosse una storia all’interno di se stessa, [...] però di enorme importanza in tutti i sensi»?. D'altra par-

te, per Jacobbi, «il teatro napoletano successivo ricalcherà le orme di Russo, di Scarpetta e del Di Giacomo, aggiungendovi nuove dimensioni attinte al patrimonio della letteratura contemporanea e direttamente all’osservazione d’una via sociale diversa. Sul cammino del verismo granguignolesco o sentimentale, troverà i suoi modelli di realizzata drammaticità Raffaele Viviani; in una trasfigurazione pa-

tetica dell’huzzour scoprirà la svagata novità della sua vena novecentesca Eduardo De Filippo»*. Neppure l’uso della lingua napoletana, da parte di Eduardo, è vera scelta all’inizio, ma continuità con la tradizione e con la «fami-

glia d’arte» in cui cresce anzitutto come attore; eppure questo punto di partenza linguistico, che varierà di forme e di significato via via che si trasforma in scelta (fino a rappresentare un trampolino per soluzioni diverse o alternative), conferma l’incontro originario fra cul-

4 I testi di Scarpetta padre pubblicati e liberamente adattati da Eduardo sono: Lu curaggio de nu pompiere napulitano (prima rappresentazione al Teatro Metastasio di Roma, 1877); Li nepute de lu sinneco (prima al Teatro Fiorentini di Napoli, nel

1885); Na santarella (prima al Teatro Sannazzaro di Napoli, il 15 maggio 1889); le stesse, compresa

’O tuono

’e marzo (1912) di Vincenzo Scarpetta, rappresentate

in TV nel 1975. Na santarella Eduardo l'aveva già proposta in teatro nel 1972, e con Lu curaggio de nu pompiere napulitano aveva inaugurato nel °74 (23 dicembre) la stagione del Teatro La Pergola di Firenze. I recuperi eduardiani del repertorio paterno (ma anche di Petito e di Francesco Gabriele Starace) in teatro incominciano cogli anni Cinquanta;

ricordiamo quello di Tre cazune fortunate nell’’83, condotto

dalla Compagnia di Luca De Filippo sotto la direzione del padre. 5 Cfr. M. Pomitio, in Teatro dell’Italia Unita cit., p. 150. 6 Cfr. R. JacoBBI, in Teatro dell’Italia Unita cit., p. 32.

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tura «orale» e «scritta» che nella fattispecie eduardiana sarà un incontro fra teatralità orale e scritturalità individuale d’artista. Ma anche il dialetto che Eduardo apprende dall’abbecedario teatrale del padre (come dicevamo) ha subito e continua a subire un processo di «regolarizzazione». La riforma del teatro napoletano, esigenza diffusa dalla fine dell'Ottocento, implicava l’uso di una dialettalità non più soltanto caricaturale, un gergo interno al teatro, ma

capace di estendersi sul piano del parlato: la crisi del «ruolo fisso» aveva prodotto anche la crisi della tradizionale dialettalità napoletana”. Perché l’epoca di Scarpetta e di Di Giacomo (che non è più quella di Petito) è quella di una faticosa «formalizzazione» dello spettacolo

partenopeo, formalizzazione persino letteraria («il drammaturgo tenta di avocare a sé il centro del teatro in modo che tutto il teatro sia interpretazione di testi scritti»)8. È «un periodo di faticosi assestamenti unitari dove il dialetto [...] non è neppure contestativo rispetto a questa linea, ma semplicemente tenta di entrarvi, dandosi una sua cultura, [...] una sua ‘‘civil-

tà» (ibidem): il linguaggio di Eduardo nasce da questa koirè dialettale stabilita proprio alla fine dell'Ottocento. D'altra parte la riforma scarpettiana — di cui i ‘figli’ colgono i frutti novecenteschi — era rivolta non solo all’aspetto linguistico, a livello di cambiamenti apportati via via nello scrivere teatro, ma s'era diffusa «in tutti i rami dell’arte teatrale: recitazione, gestualità,

trucco del volto, costumi, scene, ritmi»?. È un’operazione di stampo naturalistico, che interpreta la crisi della «maschera» (non tanto sul piano tematico quanto su quello formale) nella prospettiva per cui il fatto teatrale si indirizza verso la «divisione dei compiti». Ciò è tanto più significativo da parte di un attore-autore come Scarpetta:

? Vedi in proposito M. Pomiio,

Sul teatro dialettale napoletano, ibidem, pp.

137-143.

8 Cfr. ancora R. JAcOBBI, ibidem, p. 148. ? Potando e sfoltendo qua e là, così da rendere la recitazione «più agile e moderna, la mimica più attinente alla realtà, il trucco meno caricato, minore la preoccupazione di non voltare le spalle al pubblico», conservando invece «la grazia di movimenti anche nelle scene violente, l’accentuazione dei caratteri fino alla macchietta [LI cfr. E. De Fumo, Nota introduttiva a Li nepute de lu sinneco, in Eduardo De Filippo

DIESCHIANME

20

cit SPO:

ma Scarpetta era personaggio attento ai tempi, e i tempi evolvevano

verso l’industria teatrale!°. A questo processo che introduce in ambito nazionale l’esigenza di un teatro d’autore, e che ha portato sullo scorcio dell’altro secolo al «tramonto del grande attore», subentrerà nel corso del nostro l’esigenza di ri-collegare, ma in modo diverso dal passato, le funzioni suddivise, per una concezione globale del teatro (pensiamo a Bragaglia) che d’altro canto sostituisce alla figura ottocentesca dell’attoremattatore (in lingua come in dialetto) quella novecentesca dell’invento-

re di spettacoli. In questo clima si formano personalità come quelle di Eduardo e Dario Fo, capaci di ricostituire l’antica unità dei ruoli, ma su basi moderne!!. D'altronde la sostanza della «riforma» scarpettiana è ripresa e svolta nel Novecento piuttosto da Peppino che da Eduardo. L’obiettivo di Peppino è stato appunto il rinnovamento della «commedia napoletana», o meglio la creazione di «un teatro [...] capace di saper esprimere difetti e valori della Napoli borghese. Quella dolente e dignitosa, e per questo sempre sopraffatta dalla ‘‘miseria’’ materiale e morale»!2. Sceglie dunque lo stesso ambiente sociale indicato dal

10 Cfr. F. ANGELINI, I/ teatro, in F. ANGELINI-C.

MADRIGNANI,

Cultura, narrativa

e teatro nell’età del positivismo, Bari, Laterza, 1975, p. 191. Il limite di Scarpetta è stato forse intrinseco alla sua qualità di ‘uomo di teatro” (come quello di Di Giacomo è di esserlo stato abbastanza poco); il mestiere l’ha trascinato altrove da una problematica che aveva avvertita ma che non era capace di svolgere. «La grande perizia della comicità scarpettiana è in parte il limite del suo talento, che è talento combinatorio, tendente più all’utilizzazione estrema di vecchi fe anche nuovi] moduli che all’invenzione di nuovi». La sua stessa abilità di traduttore napoletano dei modelli teatrali francesi o di parodista esilarante di modelli ‘‘alti’’ nazionali (I/ figlio di Iorio) non riesce sempre a sollevarlo dal livello artigianale di riduttore del «già fatto»; anche se in Miseria e nobiltà (1888) il drammaturgo arriva a risultati per cui sapere qual è la fonte francese non interessa più (cfr. R. JAcOBBI, in Teatro dell’Italia Unita ciù) 11 Cfr. G. GuazzoTTI, in Teatro dell’Italia Unita cit.: «Quando l’attore coincide con l’autore, come nel caso di Eduardo e di Fo o di altri ‘grandi della creazione drammaturgica, il processo è perfettamente saldato, ma quando è esterno e non è il poeta della compagnia, il suo elemento di riferimento e di collegamento con la realtà sono ancora le compagnie e l'attore: cioè il termine di contatto reale con la condizione e con i condizionamenti del teatro» (p. 278). 12 Cfr. P. De Firpo, Una famiglia difficile cit., p. 225.

2

padre: perché «in nessun ceto sociale come nella nostra borghesia la comicità prorompe così spontanea, così vivace e irresistibile dal contrasto che nasce dall'essere e il voler sembrare e dalle abitudini, dai costumi, dai pettegolezzi e perfino dal linguaggio, uno strano miscuglio di dialetto e di italiano» (Scarpetta)!.

Proprio l’imborghesimento del protagonista-tipo, dal Pulcinella petitiano al Don Felice Sciosciammocca scarpettiano, oltre a registrare una svolta storica del paese!4, aveva segnalato un mutamento degli obiettivi spettacolari: «Petito è un’ipotesi ancora preunitaria [...] quella cioè del contadino inurbato con una subalternità sostanziale di fronte ai modelli alti [...]»!?. Ma in Don Felice Sciosciammocca, creduto guaglione ‘e n’anno dello stesso Petito, l’ambiente e la situazione iniziali sono tutt'altro che comici: il Pulcinella ciabattino, costretto nel solito stazzone che

fa da «casa e puteca», non ride né fa ridere delle sue disgrazie, che sopporta semmai con atavica rassegnazione.

La comicità scatta pro-

prio con l’arrivo di Don Felice, il fatuo borghesuccio, «scemolillo» e «aggraziatello», irriso per le sue pretese senza mezzi, perché vuole apparire senza essere e perfino approfittarsi dell’altrui credulità. Da lì era partito Scarpetta (Don Felice fu il suo primo ruolo d’attore)!5,

13 E. Scarpetta cit. in Eduardo De Filippo presenta... cit., p. 55; vedi E. SCARPETTA, Cinquant'anni di palcoscenico, Milano, Savelli, 1982 (ristampa anastatica dell’ed. 1922, Napoli, Gennarelli). 14 «L'ultimo grande Pulcinella, Antonio Petito, muore nell’anno stesso della caduta della Destra [...]. In quel momento

Eduardo Scarpetta [...] si è già identificato

con la maschera di Don Felice Sciosciammocca. Passaggio decisivo da una figura (e da un repertorio) sottoproletario, lazzaronesco, ad un mondo piccolo-borghese, frutto di una

nuova

situazione

economica

e culturale», cfr. R. JAcoBBI,

in Teatro

dell’Italia Unita cit., p. 30. 15 Cfr. F. ANGELINI, in Teatro dell’Italia Unita cit., p. 147. L’Angelini sottolinea anche il fatto che la maschera di Pulcinella, nei testi di Petito, rimane «un elemento di affermazione della diversità e della necessità che la diversità sopravviva; la maschera di Petito nasconde e afferma nello stesso tempo la necessità che il diverso abbia il suo spazio, e Pulcinella in Petito ha sempre questo orgoglio della diversità» (p. 146).

16 Scarpetta (come sappiamo) toglie la maschera al suo Don Felice, ne imborghesisce anche il linguaggio, ma anziché sostituire la maschera col personaggio a-tuttotondo spinge il figurino reinventato nella direzione del tipo di «varietà», con una stilizzazione musicale, canzonettistica

22

(i suoi tic verbali funzionano

come

refrain),

variando lo «stato» del giovanotto ma non la sua «statura»: e in questo senso ha ragione Rea, quando osserva che per la Maschera-senzaMaschera scarpettiana si può parlare al più di «una sorta di surrealismo avant la lettre»; le situazioni che debbono

innescare il conico

appaiono paradossali, non esprimono certo «l’atroce realtà» di Napoli, «dove il salario è inferiore di due terzi a quello del Nord; dove l’artigiano è un mendicante con un mestiere, che chiama ‘‘scellenza’’ tutti e che, dopo il lavoro, dice ‘fate voi” [...]»!7.

Bisogna che Don Felice discenda di un gradino la scala sociale (come in Miseria e nobiltà o in Tre cazune fortunate) perché il lavoro

dell’attore-autore mostrasse di poter uscire dalla satira come veicolo d’evasione!8. Ma la scelta di Scarpetta è stata complessivamente un’altra: rappresentare il mondo borghese napoletano per il suo aspetto grottesco, escludere la plebe, che «è troppo misera, troppo squallida e troppo cenciosa per poter comparire ai lumi della ribalta e muovere il riso». Peppino riprende sostanzialmente questo programma, correggendo il tiro nel senso di una comicità più sfumata («dal bianco al nero insomma e viceversa») e di un maggiore spessore umano dei personag-

gi (convinto che la comicità, a Napoli, emerga tanto più «fra il dolore e le lacrime»)!9.

Anche Eduardo si era posto in un primo tempo nella stessa direzione, ma attratto soprattutto dagli aspetti «formali» della riforma paterna: «fedeltà al copione scritto, abolizione delle improvvisazioni divenute oramai insopportabilmente lunghe e tediose; disciplina in più raffinata. Eppure ancor più lontana da ogni ipotesi veristica o naturalistica. Prevale l’effetto evasivo d’un grottesco caricaturale che ipostatizza il personaggio ancor più che portasse la maschera (come dicevamo, il mestiere trascina l’autore altrove, almeno rispetto ai propositi riassunti nelle sue memorie); sviluppando d’altra parte, sia pure a un livello di comicità «più urbana», le premesse che già il Don Felice petitiano aveva posto. Vedi anche M. Mancini, Scarpetta e il suo tempo, Napoli, Montanino ed., 1961. 17 Cfr. D. ReA, Teatro napoletano dall'unità alla fine dell'Ottocento, in Teatro dell’Italia Unita cit., p. 133. 18 Cfr. P.E. Poesio, Napoli: miseria e libertà. Eduardo e Luca per Scarpetta, recensione allo spettacolo pisano (Teatro Verdi) di Tre cazune fortunate, «Il Tirreno», 1983: «[...] possiamo vedere in movimento una splendida macchina scenica [...] un teatro niente affatto di seconda o terza serie, ricco com'è di invenzioni, di effetti immanca-

bili e spiritose situazioni sul filo della satira, perfino, e della satira sociale per di più». 19 Cfr. P. De Fio, op. cit., pp. 225-226.

23

compagnia e, nello scrivere, maggiore aderenza alla realtà e ai gusti del pubblico» (Eduardo presenta Quattro commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta cit., p. 56). E i suoi obiettivi si precisano subito in

senso drammaturgico: egli sente anzitutto l’esigenza di ristabilire la sintesi a teatro, dopo e contro quei testi «fatti in modo che le prime scene fossero lunghe e inutili. Parlavano due cameriere, due figuranti qualunque, di cose assolutamente senza importanza per dare il tempo al pubblico dei ritardatari di accomodarsi in poltrona. Nel sottofinale poi la compagnia si schierava tutta in ribalta a ricapitolare l’azione per far capire bene lo scioglimento»?9. È significativo che all’epoca delle sue prime prove come autore Eduardo rinneghi ogni discendenza dai filoni convenzionali della scena partenopea, affermando che il successo del Teatro Umoristico «I De Filippo» dipendeva dal fatto di essersi, lui e i suoi fratelli, spogliati delle antiche abitudini capocomicali: «Il cucirci ‘‘nuovi abiti”’, lo scrivere commedie per noi stessi, sembra dire quasi a mo’ di scusante Eduardo,

è stata una necessità»?!.

Non rifiutava quindi la «tradizione», ma gli aspetti di essa divenuti ripetitori, frusti — o sentiti, allora, come tali. In questa prospettiva si pongono certe affermazioni perentorie dell’ Autore («Ai miei ricordi non mi lego, il passato mi interessa poco, le memorie

non

servono a niente. Anzi servono ad imbrogliare le carte. Io la vita la vivo mentre si compie»)??, evidentemente nella fase in cui «da giovani ci sentiamo la forza di sollevare il mondo e farlo girare a modo nostro»?).

Nel 1920, comunque, quando Eduardo incomincia ad abbinare al ruolo di attore quello di autore, scrivendo l’atto unico Farzzacia di turno (probabilmente per la compagnia di Vincenzo Scarpetta)?4,

20 Cfr. Eduardo cit. da S. lungaggini del teatro napoletano che i Futuristi avevano fatto alle e primonovecentesco. Si veda il ODIO III 21. Cfr. GA MAGLIULO)

DE MATTEIS, op. cit., p. 199. La sua critica alle convenzionale trova punti di contatto con quella lungaggini del teatro borghese «colto» ottocentesco Manifesto I/ teatro futurista sintetico, in L. ScRIVO,

‘op! citi.

22 Cfr. Eduardo cit. da S. DE MATTEIS, op. cit., p. 198. 2? Cfr. Eduardo cit., Montalcino, Teatro/Stage ’83. 24 Cfr. G. Antonucci, Eduardo De Filippo, Firenze, Le Monnier, 1981, p. 43.

24

il suo tirocinio conta esperienze non solo nell’ambito della commedia napoletana ma anche in quello del varietà e poi della rivista. Cresciuto fisicamente in teatro, educato alla scuola del padre (se a quattro anni debutta a Roma nella parodia scarpettiana Le Gheisha), appena tredicenne era passato nella compagnia di Enrico Altieri, sperimentando i ‘‘generi’’ più diversi della tradizione: farse pulcinellesche, melodrammi recitati senza musica, copioni storico-sociali a puntate, «sceneggiate».

Giovanissimo,

era venuto a contatto anche con

quel ‘‘filone’”’ popolare-dialettale che trasformava in spettacolo la quotidianità più grama e violenta, i problemi minuti ma assillanti di un sottoproletariato (il proletariato di Napoli) incapace di prendere coscienza della propria condizione, e che si difendeva piangendo o ridendo della fame e della miseria come di mali endemici da esorcizzare: quel mondo che sarà riedito con grande efficacia espressionistica dall'opera di Raffaele Viviani. D'altra parte, Eduardo poteva cogliere nell’ambito della farsa gli effetti di quello spostamento di obiettivo di cui il ‘‘padre’’ era stato il principale artefice: dalla spettacolarizzazione di figure e ambienti sottoproletari alla ripresa del nuovo mondo piccolo borghese. Passaggio che non sarebbe stato poi così determinante nel ’900, dal punto di vista sociologico: in quella metropoli arcaica che è Napoli??, piccola e media borghesia non appaiono nettamente distinte dal proletariato, «anzi le due classi vivono di sconfinamenti e di interrelazioni» (De Matteis); ma nel teatro aveva provocato, come si è visto, un mutamento di prospettive. Durante gli anni di guerra, inoltre, Eduardo ha cantato, ballato,

Eduardo era entrato nella compagnia di Vincenzo Scarpetta dal 1914. Farmacia di turno, atto unico, sarà dato la prima volta dalla Compagnia «Teatro Umoristico di Eduardo De Filippo con Titina e Peppino» al Teatro Nuovo di Napoli, il 16 aprile 1931. Citiamo per questo testo, come per gli altri compresi nella Parte I del nostro lavoro, dalla Cantata dei giorni pari, Torino, Einaudi, 1982. 25 Così A. GRAMSCI, a proposito del «rapporto città-campagna nel Risorgimento e nella struttura nazionale»: «Quella che fu per molto tempo la più grande città italiana e continua ad essere delle più grandi, Napoli, non è una città industriale [...] Tuttavia anche in queste città, di tipo medievale, esistono forti nuclei di popolazioni del tipo urbano moderno; ma qual è la loro posizione relativa? Essi sono sommersi, premuti, schiacciati dall’altra parte, che non è di tipo moderno ed è la grandissima maggioranza. Paradosso delle ‘‘città del silenzio» (in I{ Risorgimento, Torino, Einaudi} 19557, art [F.

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Io la ricordo, seduto nel mio camerino, accanto a me; Titina e Peppino; e fu la sua semplicità che mi spinse a chiederle il permesso di tradurre «Liolà». E quella sera stessa le parlai della sua novella «L’abito nuovo»; e della possibilità di fare una commedia. Lei promise che ci avrebbe pensato al ritorno dall’ America!.

Così Pirandello incontra Eduardo. Ha chiesto addirittura di conoscerlo, insieme ai fratelli, mentre rappresentano Chi è cchiu felice ‘e me! al Sannazzaro. È un avvenimento straordinario nella vita di un attore-autore napoletano, dialettale; di successo sì, apprezzato già dalla critica e già oltre i confini regionali, ma ancora sfiorato, forse,

da quel complesso di inferiorità di cui ci parla Peppino: il complesso della regione nei confronti della nazione, del dialetto nei confronti della lingua. Anche il grande Pirandello nasce provinciale, addirittura isolano, eppure come autore è riuscito ad imporsi nel repertorio nazionale; è divenuto anzi l'elemento catalizzatore di tutti quei fermenti innovativi che concorrono a formare, fra le due guerre, il nostro moderno

«teatro borghese» di rispondenza europea. Per più versi, dunque, egli rappresenta un personaggio-mèta per Eduardo stesso. Dalla fatidica «sera» in cui si è imbattuto nei «Sei personaggi in cerca d'autore»,

1 «Quando al Sannazzaro, nel 1933, giunse anche a lei il nome dei De Filippo,

e fu spinto dalla curiosità di sentire questi attori, mi fu annunziata una sua visita [...]»: cfr. E. DE FiLippo, Eduardo e il teatro di Pirandello. Il giuoco delle parti, in AA.VV., Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando cit. (da cui citiamo anche in seguito nel testo).

73

Eduardo ha continuato a leggere i romanzi, le novelle, tutto il teatro di Pirandello: ha già una proposta pronta, anzi due, la seconda più ambiziosa e ardita della prima. E inizia una collaborazione fra il Vecchio e il Giovane (dove il vecchio, si badi, rappresenta il «nuovo» teatro italiano) che aiuterà il secondo nella ricerca di se stesso, della

propria identità di artista completo. Liolà andrà in scena all’Odeon di Milano (1935), «dopo venticin-

que prove, alle quali [Pirandello] fu sempre presente» con «consigli, intonazioni, suggerimenti». Successo pieno: Peppino, che interpretava

il protagonista, «superò con tutto il suo rigoglioso talento i rischi di un personaggio che egli non riteneva adatto ai suoi mezzi fisici»?. Ma c’era ancora il progetto più ambizioso da realizzare: quello più pertinente ad un autore che ad un interprete. Così, quando, di ritorno dall'America, Pirandello rinnova l’incontro con Eduardo, «riparlammo della novella, della possibilità di farne una commedia», e il «maestro» propone all’allievo (in questi termini dovette configurarsi il rapporto) di scriverla insieme. Sgomento di Eduardo, ma Pirandello: «Se io scrivo la commedia in italiano, lei poi la dovrà tradurre. Se invece i dialoghi li scriviamo insieme, il personaggio centrale parlerà con le sue parole, e allora sarà più vivo più reale!». A Roma, durante l’ultima stagione al Valle, nel dicembre del

°35, per quindici giorni, dalle cinque del pomeriggio alle otto di sera — ricorda Eduardo — «sono stato al suo scrittoio»: Lei era seduto di fronte a me, in un’ampia poltrona, e ogni tanto mi passava dei pezzettini di carta con le battute segnate da lei, che x davano il via alle scene principali. [...] Così è nato «L’abito nuovo».

Ma subentra pirandellianamente il Caso: su quello scrittoio c’era un volume del Berretto a sonagli, e il Maestro invita Eduardo a metterlo in scena. «Un mese dopo al Fiorentini di Napoli, per ventidue sere ‘‘Berretto a sonagli”’ trionfò con ventidue esauriti». Stavolta è Eduardo ad interpretare il protagonista, una delle sue prove migliori, non a caso più volte ripresa. Proprio le numerose repliche della commedia, prima a Napoli e poi a Milano, ritardano la “‘prima’’ dell’ Abito nuovo. Eduardo manda un telegramma a Pirandello chiedendogli 2 Cfr. G. ANTONUCGI,

74

op. cit., p. 31.

di rinviare il varo dell’opera: «Non ebbi era in collera con me...». Dopo quattro mesi si incontrano ai novembre, al Quirino di Roma, quando gione con I/ berretto a sonagli, il grande

risposta. Evidentemente lei funerali di Petrolini, e il 16 i De Filippo iniziano la staVecchio preme per la messa

in scena della «nuova» commedia — «Ma tu, caro Eduardo, puoi attendere; io no!» —. Una premonizione (come sappiamo). Pirandello

non potrà assistere al al teatro Manzoni di L’opera non ebbe penetrarne il senso con mi all’arte europea:

debutto di L’abito nuovo: il 1° aprile 1937, Milano}. successo4. Eppure Alberto Savinio cerca di la chiave ermeneutica dei suoi originali richia-

Possiamo disconoscere la profonda affinità tra siciliani e russi? Fra Pirandello e Dostoiewski? Quando il sipario si aprì sull’atto primo dell’Abito nuovo (scenario di Luigi Pirandello, dialogo di Edoardo De

3 L’abito nuovo, 3 atti, fu rappresentata la prima volta il 1° aprile 1937 al Teatro Manzoni di Milano, a pochi mesi dalla morte di Pirandello (10 dicembre 1936). Riprese: 15 giugno 1937 — Roma, Teatro Quirino; 7 dicembre 1938 — Trieste, Teatro Verdi; 20 gennaio 1964 — TV (ripresa da studio). 4 La rappresentazione non ebbe il successo sperato, anzi si risolse (secondo Antonucci) in un fallimento. Tuttavia non mancarono, da parte dei critici, le lodi alla recitazione: «L'abito nuovo fu interpretato ieri sera, al Manzoni, con ammirabile animazione e concitazione dalla Compagnia» (appunto il «Teatro Umoristico I De Filippo»); «la sua tristezza, il suo tormento, gli aspetti tipici, i sapori, i colori della comicità, il fuoco delle sue passioni risultarono, nel primo e nel terzo atto, pienamente espressi. Eduardo De Filippo diede a Michele Crispucci una sofferenza umiliata, acerbe rivolte morali, spasimi frementi, e, nell’ultima scena, ha raggiunto con un ridere folle la più irresistibile potenza di commozione» (R.S. [Renato Simoni], «Corriere della Sera», 2 aprile 1937); «Eduardo De Filippo fu Crispucci. A lui oltre che all’Assente gli onori della serata inaugurale. Eduardo è entrato con tutta la sua sfiorante umanità nei panni dello scrivanello, temperando con la sapienza del chiaroscuro che gli è abituale la crudezza un po’ allucinata di certi passaggi nei quali il personaggio è portato fuori da sé, in una specie di zona parossistica del proprio eroismo, che ricorda certe forzature dell’espressionismo venute di moda nel dopoguerra» (Leonida Repaci, L’abito nuovo, 1° aprile 1937, Ribalte a lumi spenti, vol. I, Milano, Ceschina, 1939, p. 15); «La recitazione è stata splendida, curata con commosso amore, massimamente per merito di Eduardo e di Titina De Filippo che hanno dato un mirabile rilievo ai rispettivi personaggi» (Ermanno Contini, «Il Mesaggero», 16 giugno 1937).

75

Filippo) la voce delle reminiscenze letterarie esclamò dentro di noi: «Toh! Guarda Goliatkin dell’Eterzo marito [...], con quella faccia da

povero Cristo, guarda il funzionario di prima classe Andrea Filippovic, vestito di nero, guarda Antonio Antonovic davanti al suo tavolinetto da scrivano ...5.

Però non si limita a rilevare affinità a differenze fra «russi» e «siciliani» («Il modo diverso con cui russi e siciliani reagiscono alla cornificazione, sembra contraddire alla mia tesi. Ma in verità ... il

romanticismo e l’animismo dei russi, nei siciliani è largamente compensato da un innato senso cosmico»), fra Dostoevskij e Pirandello («Dal fondo delle galere siberiane, i personaggi di Dostoiewski volano direttamente in Paradiso. Ai personaggi di Pirandello, queste capacità aviatorie mancano»). Distingue anche il flusso nuovo, «di puro sangue partenopeo», in «questa tragedia sicula tradotta in napoletano» (Id.). Se di Eduardo coglie soprattutto il «gioco» di grande attore (ma «a lode massima di questo artista, aggiungo che nel dialogo dell’ Abito nuovo l'assenza della mano

di Pirandello non si avverte»): un gioco

straordinario, condotto per tre atti attraverso lo scambio ininterrotto di «dramma interno» e di «dramma esterno», di sentimenti e d’espressione, che nello stacco tra vita e morte, in quel «tac» orrendo, tocca il suo «punto supremo»; inconsciamente (non avendo forse confronta-

to la novella col dramma) ne valorizza anche le capacità di drammaturgo. Perché si sofferma ad ammirare, in quest'opera appunto «mirabile e allucinante», quel secondo atto che appare un’integrazione eduardiana: [...] ogni scena andrebbe descritta minutamente: l'ammirazione dei visitatori (scena domenicale da museo) davanti al manichino della defun-

ta in combinazione; il furore da lebbroso sadico di Michele Crispucci che scaglia sugli «onesti» la biancheria «contaminata»;

? Citiamo da A. Savinio, Cronache teatrali per «Omnibus» (193 7-1939), pubblica-

te a cura e con Introduzione di Epo BeLLINGERI (Alberto Savinio: il piacere della critica) in «Rivista Italiana di Drammaturgia» cit., pp. 111-156; da cui continuiamo a citare nel testo. Vi compaiono, dedicate ai De Filippo, L’ABITO NUOVO (pp. 122-123); KaRAGHIOZ (pp. 132-133); TITINA (pp. 140-141); TEATRO DA RIDERE (pp. 145-147). La recensione saviniana a L’abito nuovo porta la data 26-6-1937.

76

;

e ancora, del terzo atto, loda le innovazioni sceniche proprie del na-

poletano: il ritorno da Venezia [...]; il racconto della scena nel vagone restorante; la morte

del cornuto.

Vedremo infatti come il protagonista si arricchisca o si carichi di umori eduardiani nel passaggio dalla zon-vita della novella alla vitamorte della commedia: proprio per ciò L’abito nuovo, il testo teatrale in tre atti che Eduardo trae dalla «secca» novella di Pirandello, con

la sua collaborazione, è opera che può servire da cartina di tornasole per le molte discussioni critiche sui rapporti fra la Weltanschauung dei due autori. AI di là dei necessari distinguo fra scrittura narrativa e scrittura scenica (che investono ogni traduzione di novella in commedia, anche da parte di uno stesso autore), nella drammatizzazione

rimane il te-

ma di fondo (l’oppressione che la Società esercita sull’Individuo) ed anche un certo contrasto fra l’«apparire» e l’«essere»: ma vengono allo scoperto i sentimenti,

le passioni, e prevalgono sul pensiero. I

motivi ‘‘borghesi’’ dell’Orgoglio e dell’Onore si mescolano con le insorgenze della Carne (nel secondo atto); l’Eredità diventa anche un detonatore comico, facendo esplodere (alla fine) una farsa tragica di-

versa dall’«umorismo tragico» pirandelliano. E il dramma affonda di più nel sociale: nel contrasto fra Ricchezza e Povertà, fra il perbenismo ipocrita dei ricchi e la difficile resistenza che i poveri oppongono alla corruzione, la Solitudine del Crispucci eduardiano risulta donchisciottesca. La novella di Pirandello? inizia letteralmente con l’«abito» («L’a-

6 Si veda in proposito l’analisi compiuta da Raffaele Morabito sulle diversioni dei testi pirandelliani, nel passaggio da novella a teatro (R. MoraBITO, Parola e scrittura. Oralità e forma letteraria cit.). E ancora, relativamente a Pirandello, cfr. già M.L. ArtiERI Biaci, La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980: dove, in Pirandello: dalla scrittura narrativa alla scrittura scenica (pp. 162-221), si fa riferimento allo studio fondamentale di G. NencIONI, Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato, «Strumenti critici», n. 29, febbraio 1976, pp. 1-55; ora in Di scritto in parlato, Bologna, Zanichelli, 1983. 7 Per la novella di Pirandello (L’abito nuovo), abbiamo tenuto presente il testo

TI

bito che quel povero Crispucci indossava da tempo immemorabile», p. 33) e finisce con l’«abito» («Quell’abito

parlava da sé», p. 39).

Il passaggio dall’abito vecchio all’abito nuovo è il motivo conduttore del testo. La battuta conclusiva, geniale — Wagon-restaurant —, figura come attributo di quella nuova maschera che il personaggio Crispucci ha dovuto indossare: «Crispucci, dalla soglia, voltò la faccia, e con una smorfia nuova di riso e una nuova voce rispose: [...]». Ma l’abito del protagonista ‘‘maschera’’ era prima (talmente connaturato al suo essere che «nessuno riusciva più a considerarlo una cosa soprammessa al suo corpo, una cosa che potesse cambiare», p. 33), ‘“maschera”’ rimane anche dopo, conservando oltretutto quella vellosità grottesca, da bestiario antropoide, che faceva tutt'uno dell’abito e della persona (voce, volto, espressione): Agli occhi di tutti egli era ormai in quel suo abito, come un vecchio cane randagio nel suo pelare stinto e strappato (p. 33); Alla fine lo videro apparire, a capo chino, con un cappello nuovo, verdastro, insaccato in un abito nuovo, peloso, color tabacco, comprato

certo bell’e fatto a Napoli in qualche magazzino popolare. I calzoni lunghi gli strascicavano oltre i tacchi delle scarpe pur nuove; la giacca [S gli sgonfiava da collo (p. 39). [Il corsivo è nostro].

Possiamo pure partire da qui, da queste immagini-chiave, da questa persistenza inevitabile della ‘‘maschera’’ nel personaggio del Crispucci pirandelliano (il punto di vista è esterno: «agli occhi di tutti ... lo videro apparire»). Invece, per il Crispucci eduardiano la maschera, l’abito grottesco, inadeguato, è solo quello «nuovo»8 (quando appare, alla fine, co/ cappello e l’abito nuovo che gli si sgonfia da tutte le parti.

edito in Novelle per un anno, vol. II, Milano, Mondadori, 1957-58, pp. 33-39 (dal quale citiamo anche in seguito nel testo). 8 Il motivo pirandelliano dell’abito-maschera continuerà ad agire nel corso della produzione eduardiana, producendo sempre “reazioni” negative: fino ad arrivare a

quell’abito «nuovo» da Capitan Generale che porterà sfortuna al povero Masaniello

(Tommaso d’Amalfi, 1963). In Pirandello, tuttavia, il leit-mz0tiv assume attributi sempre più metafisici che propriamente fisici o materiali (anche in Vestire gli ignudi del °37), invece in Eduardo tende a concretizzarsi, sia questo la maschera o la casacca nuova di Pulcinella (I/ figlio di Pulcinella, 1958) 0, appunto, il cappello con la piuma di Tommaso.

78

Un grosso sigaro in bocca, tanto che per reggerlo deve sostenerlo con l'indice e il medio della mano levata. E ubriaco ..., did., III, p. 407);

quello «vecchio», all’inizio, egli lo rivendica quasi con orgoglio: [...] No ... Io lutto non ne porto! ’I° comme sarria comico Crispucci ce’ ’o Ilutto! Io, si me cagno stu vestito ca vuie me regalasteve tante anne fa, e ch'io porto ncuollo comm’ ’o cane porta ’o pilo suio, mme vesto russo ... (I, p. 387).

Non c’è veramente

una prizza e un poi per il Crispucci della

novella: fin dall'inizio egli è intimamente rassegnato a subire l’eredità infamante della moglie; solo che cerca di ricavare dalla «vergogna» maggiori gratificazioni possibili: le piccole vendette dei deboli. Perciò il suo abito, pur trasformandosi da vecchio in nuovo, mantiene este-

riormente quel tanto di animalesco, tutto sommato sgradevole (come animaleschi e sgradevoli sono, del resto, gli altri personaggi della novella).

Invece il Crispucci della commedia, che pretenderebbe una corrispondenza fra il dentro e il fuori, fra il volto e la maschera, diventa, come vedremo, un personaggio «mobile»?, o almeno riserva fino in fondo delle «sorprese». Insomma il testo scenico non solo rende esplicito ciò che è implicito (e voluto tale) nel testo narrativo, ma molto di più: ciò che nella

novella non c’è. Non si tratta soltanto di un notevole ampliamento di proporzioni, dovuto alla traduzione drammaturgica della rapidissima partitura narrativa. La diversa «composizione» (Lotman) conduce ad una diversa interpretazione semantica del testo. La struttura della novella si distingue in due parti, in due fasi corrispondenti a due ambienti principali (sintomatici della vita del protagonista): l'ufficio e la casa. Due spazi chiusi, collegati dal tragitto obbligato e mediano della strada.

? Cfr. Ju. M. Lorman, La struttura del testo poetico cit., pp. 282-288. Nella cui prospettiva del «movimento a intreccio», l’eroe della novella pirandelliana «non ha la capacità di differenziarsi» dall'ambiente mediante l’azione: dunque «il carattere dei rapporti con l’ambiente testimonia che si tratta della passività del protagonista» (Id., p. 284); come si vedrà, invece, l’eroe della commedia realizza un «particolare caso a intreccio»: muore, e così «esce dal gioco» senza aver supreato i limiti (Ibidem).

je)

Ufficio: dove «quel giorno» l'avvocato Boccanera, suo principale, «stava a tenergli un interminabile e amorevole discorso»; attraverso il quale abbiamo le prime informazioni sull’antefatto: partire, vendere tutto, gioie, mobili, abiti («Quanto agli abiti — voi capite — non li potrà certo indossare vostra figlia!», p. 33). Si intuisce che qualcosa è accaduto al Crispucci: un colpo di fortuna, materiale ma non onorevole. E questo Crispucci è un tarpato anche nel linguaggio: interrompe, parla, una volta sola: per «lo stento e la pena di tirar su la voce da quell’abisso di silenzio in cui la sua anima era da tanto tempo sprofondata» (p. 34); ed è per offrire alla «Signora» dell'Avvocato un anello, un anello almeno, di quell’eredità! Ne aveva già promesso agli altri scritturali dello studio, «che da tre giorni si spassavano a torturarlo, punzecchiandolo



con fredda ferocia» (p. 33). Finalmente

in indiretto quasi libero —

il pensiero dell’uomo: «Voleva che

di quella eredità tutti, come lui, fossero insozzati» (Id.). Anche l’ante-

fatto lo conosciamo dal Crispucci stesso: ma non attraverso le parole che dice, attraverso quelle che avrebbe voluto dire «se un resto di ragione non lo avesse trattenuto»: — Mia moglie era così e così [reticente perfino nel pensiero]; è crepata or ora a Napoli; m’ha lasciato questo e quest'altro; volete per vostra moglie, per vostra sorella, per le vostre figliuole, una mezza dozzina di calze di seta, su fino alla coscia, finissime, traforate? —

(PID:

Poi: la casa. Nei pettegolezzi delle «donne del vicinato», e soprattutto nelle maschere psico-fisiche della «figliuola» e della «vecchia nonna» (p. 37), si rispecchia tutto lo «squallore di quella stamberga» (p. 38). Altra informazione secca: «non disse una parola» —. «Del resto [...] da sedici anni, dal giorno della sciagura in poi, nessun discorso che non si riferisse ai bisogni momentanei della vita» (p. 37).

Così egli lascia, dopo che è partito per Napoli, la madre e la figlia in una «incertezza angosciosa»: «Perché questo era il dubbio smanioso: che egli accettasse l’eredità (p. 38). Ma neanche quando — «finalmente ... alla fine lo videro apparire» — c’è bisogno di ‘‘parole’’: «Quell’abito parlava di sé». La scrittura della novella gioca sull’implicito, sull’introversione del protagonista, sulle «smorfie» della sua maschera grottesca e penosa, sull’espressività dei suoi «sguardi», dei suoi «silenzi», rilevata dalle 80

rare, intense, battute. È una scrittura, direbbe Todorov, tutta infor-

mata dalle «tematiche dell'io». Proprio perché il Crispucci del racconto è uno di quei «personaggi neri e dai movimenti da automi» che attraversano l’«avventura del secco pirandellismo»: di quando l’autore siciliano «aveva l’aria di farsela con gente che per noi è un magma nero

e senza voce»!9. Inoltre, con la narrazione entriamo

subito in medias res, tutto

è già avvenuto: si attende soltanto la reazione del Crispucci. L’accettazione amaramente ironica (e autoironica) dell’eredità da parte del pro-

tagonista è l’unico «avvenimento» del racconto, e si colloca alla fine di questo. Invece, nella commedia, quando incomincia l’azione, tutto deve

ancora accadere. E il suo svolgimento comprende tre situazioni diverse, anche se concatenate, una per atto, che simulano altrettante «sta-

zioni» del calvario d’un «povero Cristo» novecentesco; il quale non combatte soltanto con il fariseismo della sua epoca, ma cerca di resistere eroicamente alle tentazioni del concreto demone del Denaro. Anche gli ambienti della sua vita e della sua storia sembrano ampliarsi. L'ufficio del primo atto non è più lo spazio chiuso della novella: si apre continuamente, è come aggredito dalla strada, attraverso il sonoro e il moto perpetuo, fuori-dentro, di più personaggi: comprimari, comparse, l’onnipresente ‘coro’ napoletano. Anzi la strada è il vero palcoscenico di quest’atto: in essa si svolgono gli avvenimenti principali. Dapprima la «processione dello scandalo»: ossia il ritorno, clamoroso e spettacoloso, della moglie di Crispucci — alias Celie Buton, stella di Circo equestre — a Napoli in tournée. Mentre passa «in phaeton con un tiro a quattro [...], lanciando manifesti e sorrisi a destra e a sinistra ...» (I, p. 381), si scatenano

i commenti e le

chiacchiere nell’ufficio dello scritturale, fra i colleghi-spettatori eccitati e maligni: è un ritorno che sconvolge la vita del pover’uomo (per il quale la fuggita era come «morta») e mette in discussione il matrimonio stesso della figlia («ragazza di casa, onesta e virtuosa») con Concettino, giovane ‘‘bene’’ della borghesia locale. Ma qui Crispucci parla: e non solo perché siamo in un testo teatrale dove per forza si deve avere il dialogo. Parla davvero: discute 10 Cfr. A. SAvINIO cit., in I Giganti della montagna al Maggio fiorentino (p. 118)

e nell’Abito nuovo

(p. 123).

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coi colleghi, col principale, con il mondo ostile; lotta con le sue deboli

forze, esprime, sfoga la propria rabbia, la propria passione, difende la sua moralità e quella della figlia «innocente». Quand’ecco, a metà dell'atto, ripercuotersi nell’ufficio — per il solito procedimento dell'incursione del fuori nel dentro — l’eco di quanto sopravviene nella strada: la tragica fine d’uno spettacolo grottesco. Celie Buton cade travolta dai suoi stessi cavalli «impennacchiati» e muore «sfracellata» fra le grida e il clamore dei suoi spettatori ambulanti. Sarà soprattutto questo «avvenimento», per la famosa e infamante «eredità» che ne deriva, a determinare il passaggio del protagonista dal proprio campo semantico (quello d’una miseria onorata) a quello degli altri (d’una ricchezza di cui non importa,

anzi ron si deve conoscere

l'origine).

Ma il passaggio povertà-ricchezza, verità-ipocrisia, non è affatto scontato per questo Crispucci, come sembrerebbe agli altri: l’atto termina infatti col rifiuto del protagonista a compiere quel passo, che egli solo, a differenza di tutti, giudica degradante: Nonzignore! Io non sono più il marito! ma no ’a mo ... Per voi è morta adesso, per me è morta diciott’anni fa ... (I, p. 388).

Tuttavia un’altra ‘‘prova’’ attende l’eroe non-tragico — che diciott’anni avanti non s’era conformato al codice d’onore, uccidendo

la moglie solo dentro di sé. Perciò nel secondo atto della commedia, che inserisce un episodio nuovo nello sviluppo della novella, siamo introdotti anche in una spazialità nuova: nella festosa, erotica e volgare Villa di Celie Bouton, a Posillipo (did., II, p. 389). Nel salone fantastico di luci e di sete che dia l’impressione di un tempio d’amore, Crispucci giunge con l’aria sbalordita e come oppresso da quella cattiva ricchezza tentatrice. Ma qui si consuma anche un altro dramma; che

illumina un aspetto della figura del protagonista, l’attaccamento eroticosensuale del Crispucci per la moglie, inesistente o appena accennato nella novella (pensiamo a quelle «calze di seta, su fino alla coscia, finissime,

traforate»,

p. 35).

Si manifesta in tal modo anche un aspetto di quel «commercio coi morti»!! che è sintomatico di tutta la cultura meridionale. Già !! Cfr. in proposito P. Puppa, Rosso di San Secondo e Pirandello: la cultura dei morti, in «Quaderni di teatro», n. 18, novembre 1982; orta in Dalle parti di Pirandello, Roma, Bulzoni, 1987 (pp. 177-195).

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per Pirandello (e pure per Rosso di San Secondo) si apre talvolta questa spaccatura nel mondo dei vivi, così che il soggetto interrompe improvvisamente i suoi rapporti usuali con le altre personae e privilegia il rapporto con i propri fantasmi: che sono essenzialmente — anche se non soltanto — i morti. E già in altre commedie di Eduardo si individua questo fenomeno: pensiamo al gioco coi falsi-morti in Ditegli sempre di si, o a quello con i morti-veri di Reguie all’anema soja!?, al rapporto col passato-assenza in Quinto piano, ti saluto! (dov'è la metafora nectomorfa del palazzo in demolizione). Ma è appunto frequente che l’asse Vivi-Morti coincida con quello AbbandonatiAbbandonanti, presenti-assenti: e gli amati fuggiti, sia morti sia «come morti», continuino ad esercitare un sadico dominio, dall’aldilà o

dalla lontananza, sugli arzanti abbandonati. Con ciò Pirandello si riallaccia alla sua dialettica fra persona e personaggio: il personaggio che non vive si assicura, al di là del tempo, maggiori possibilità di reincarnazione rispetto alla persona che invece vive, nel tempo, una volta sola!3... È dunque significativo che tale situazione, o modello, si riproponga proprio nell’ Abito nuovo, anche se in un episodio che nella novella manca. «Quanto a Crispucci», scopre Savinio, «egli della sua sventura coniugale ha fatto la tragedia ‘‘interna’’ di tutta quanta la propria vita: segno che l’adora, anche se per ragioni topografiche e di famiglia finge di aborrirla» (p. 123). E consideriamo pure una delle battute finali del protagonista della commedia, quando egli si ritrova inchiodato alla ‘‘croce’’ di quell’abito nuovo»: [...] Nun ’o vvedite comme stongo vestuto? Ha a dda essere viva, viva, essa sulamente! [...] Mo ’o muorto songh’io ... (III, p. 410).

Tuttavia, se dalla lettera testuale passiamo al senso contestuale di questa come di altre battute «pirandelliane» dell’opera, ci accorgiamo che la battuta, il discorso, lo schema stesso d’una situazione, sono

legati ad una diversa rappresentazione-del-mondo. Raramente il filtro intellettualistico attraverso cui passano il personaggio e il teatro di Pirandello si trasmette tout court in quelli di 12 Per Requie all’anema soja... si rinvia alla precedente nota del primo capitolo. 13 Si veda ancora P. PuPpPA, op. cit., p. 106.

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Eduardo: lo sforzo costante del Napoletano, sia pure ostacolato o frustrato dalla «realtà», è e sarà quello di ridare consistenza «umana» ai suoi personaggi-persone. Anche quando riprende certi schemi pirandelliani, come qui e altrove, Eduardo li sostanzia diversamente: parte, sì, dalla coscienza della «crisi», del disorientamento dell’Io in rapporto al Mondo, ma nella disgregazione generale tenta comunque di salvare il «volto», che per lui è l’essenza «comunicabile» del personaggio-uomo.

Così il Crispucci eduardiano, nel secondo atto, si scontra con il fantasma della moglie fuggita e poi morta per la sua disperazione. Ma un fantasma tutt'altro che impalpabile: in quel salone lussuoso e lussurioso, 4 destra în primo piano, [c'è] un manichino che rappresenta come viva, Celie Bouton, atteggiata in una vistosa combinazione di sete

e merletti (did., II, p. 389).

Il «manichino» è un portato delle avanguardie; anche se manca nella novella di Pirandello, lo si trova (nel ’25) in Nostra Dea di Bon-

tempelli: non però come artificiale sex-symbol ma come emblema, solo apparentemente vivo, di un'umanità disumanizzata!*. Anche lì c’è una vicenda di «abiti»: la protagonista cambia personalità a seconda dei vestiti che indossa e, senza, è niente, non esiste neppure. Qui

invece, in una delle prime scene dell’atto, illustrata soltanto dalla didascalia, il manichino, come simulacro dell'amante il ruolo attorico di corpo erotico: Crispucci rimasto solo, si muove

come

morta,

un sonnambulo

acquista

in mezzo

a

tutta quella ricchezza. Sbalordito, non sapendo da dove guardare prima, con le mani incerte va tastando qua e là mobili e supellettili, striscia una mano su un sommier, e quasi senza saperlo con un fil di voce dice: «Sommier».

Ma all’attrazione di Plutone

subentra quella di Eros:

Con gli occhi intanto è attratto verso il manichino. Ora guardandolo ha come una vertigine, ed esprime con tutto il volto la passione repressa 14 In riferimento al /eit-motiv della «marionetta» o del «manichino» nel teatro novecentesco, si può vedere anche il nostro: Rosso e l'avanguardia: l’uomo e il suo pupo, in corso di stampa negli Atti del Convegno sansecondiano organizzato dall’Enciclopedia Treccani, a Roma, nell’autunno 1985.

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da tanti anni. Il desiderio carnale di quella donna gli fa alzare le mani tremanti,

che non

osano

da prima toccare,

come

ne avrebbe la tenta-

zione. [...] Poi con due dita solleva un lembo di quei veli e scopre piano piano la gamba più su del ginocchio, pit su delle calze, dove appare la coscia e allora con l’altra mano fa per toccare. [...] (did., li ‘pr 392)

Dunque il «fantasioso becco», come lo chiama ancora Savinio,

giunge al punto di scoprire la veste della defunta!5: siamo fuori dei «temi dell’io» della novella, stiamo per entrare nelle «reti tematiche. del tu»!6. Ma se a un primo approccio assistiamo all’opposizione fra la rigidità del rz0orto (o del suo simulacro) e la dinamicità fremente

del vivo, a guardar bene il rapporto fra le parti appare rovesciato: siamo come immessi in un «dramma di oggetti», dove il vivo, l’umano, sembra determinato nei suoi movimenti (Crispucci ... si muove come un sonnambulo ... quasi senza saperlo) dalle «cose» («Sommier»),

quasi che l'iniziativa passasse dal vivo al fantasma dell’Eros e agli oggetti che ne evocano la presenza scenica!?. Il rizzasto solo, il perso5 Anzi Savinio, dopo la rappresentazione, si lamenta: «[...] noi ci aspettavamo gesti d’ira e di disprezzo sì, ma anche un gesto d’amore, una curiosità olfattica ... Perché tanta durezza? Si vede che paventando le reazioni di un pubblico radicalmente sano, tanto Pirandello quando De Filippo hanno sfrondato questa scena bellissima dei suoi sviluppi raturali» (cit., p. 123). Nel testo pubblicato, però, lo sviluppo «naturale» della scena è interrotto dall’«apparizione» di Clara, «la confidente della cortigiana», che sorprende e blocca il gesto di «curiosità erotica» del protagonista. 16 «Riassumendo», scrive Todorov, «vediamo che il punto di partenza di questa seconda rete rimane il desiderio sessuale. La letteratura fantastica si dedica alla descrizione particolare delle sue forme immoderate e delle sue diverse trasformazioni [...]. Analogamente, le preoccupazioni circa la morte, la vita dopo la morte, i cadaveri e il vampirismo, sono legate al tema dell’amore. Il soprannaturale [...]: quando appare è per dare la misura dei desideri sessuali particolarmente violenti e per introdurci alla vita dopo la morte [...]. Abbiamo visto che potevamo interpretare i temi dell'io come altrettante messe in opera della relazione tra l’uomo e il mondo, del sistema percezione-coscienza. [...] Se vogliamo interpretare il tema del #4 sullo stesso piano di generalità, dovremo dire che si tratta piuttosto della relazione dell’uomo con il

suo desiderio, e di conseguenza con il suo inconscio» (cfr. T. TopOROV, op. cit., p. 143). 17 È quasi obbligatorio il riferimento al precedente futurista del «dramma di oggetti». Come si sa, Pirandello stesso utilizza la ‘‘trovata’’ della nostra prima avanguardia per l’evocazione scenica di Madame Pace nei Sei personaggi in cerca d’autore. Per il rapporto fra il protagonista e il manichino, si può anche tener presente l’analisi di Lotman riguardo al Convitato di pietra di Puskin: «[...] la statua del comandante si scopre decisamente, non come raffigurazione di un personaggio, ma come perso-

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naggio che si muove nel Presente, ripreso com’è dal desiderio carnale dell’assente, rischia di essere risucchiato dal Passato, «quasi che il

volto meduseo dello scomparso l’obbligasse a vivere con la testa girata all’indietro nel disperato sforzo di rivedere», qui di riavere «l’Oggetto perduto»!8. Situazione da teatro sansecondiano: dove l’Eros è espresso con maggiore violenza che in quello pirandelliano (l’Eros in Pirandello è più frequentemente adombrato o censurato). Ma in una simile tendenza regressiva il soggetto investe tutte le proprie forze nell’evocazione dell’Oggetto perduto, nella ricostruzione ‘‘fantastica’’ della camera in attesa?. Solo se si è disposti a farsi reificare dall’oggetto, a farsi coinvolgere in un cerimoniale erotico-funebre, in cui «altri» possano agire come «operatori specializzati» che «regolino il ritorno del morto»?9, la seduta magica o spiritica riesce. Invece la situazione ritorna anche in altri lavori eduardiani: ma l’autore napoletano, secondando il proprio temperamento d’artista, tende a riportare i «casi limite» (che possono essere interpretati, come per Rosso e Pirandello, in una prospettiva psicocritica) alla dimensione «quotidiana». Parte talvolta dal caso-limite (è l’imbeccata pirandelliana), ma alla fine vuole risolverlo nei modi della normalità.

Come

accadrà in Dolore sotto chiave?!: il tentativo della sorella di mantenere in vita, per il fratello, il fantasma della moglie, è sentito come sopraf-

naggio [...]: l’immateriale, lo spirito si incarna nella maniera più materiale, nella pietra, e la cosa più immobile per sua natura, la statua, assume i caratteri di ciò che

è più mobile, lo spettro, libero da ogni legge meccanica che sottomette tutti gli uomini e le cose» (Cfr. Ju. M. LoTMAN, op. cit., p. 303). 18 Si veda ancora P. PuppA, Fantasmi contro giganti. Scena e immaginario in Pirandello, Bologna, Patron, 1978 (il quale si richiama a J.M. GARDAIR, Pirandello-Fantasmes et logique du duble, Paris, Larousse, 1972). Fondamentale, comunque, l’analisi di G. MaccHIA, in Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Rizzoli, 1980. 19 Cfr. L. PiranpELLO, La camera in attesa, in Novelle per un anno, vol. II,

cit. La novella risale al 1916: Pirandello ne trasse il dramma La vita che ti diedi nel 1923 (ma è il sentimento materno a fungere da pulsione visionaria). 2° Facciamo riferimento ad E. De MARTINO, Morte e pianto rituale, Torino, Boringhieri, 1975-77, p. 103 e sgg. 21 Dolore sotto chiave: nato come originale radiofonico, l’atto unico fu rappresentato la prima volta il 3 novembre 1964 dalla Compagnia «Il Teatro di Eduardo» al Teatro San Ferdinando di Napoli (ma l’autore né in quella rappresentazione né nelle successive ha mai interpretato il ruolo del protagonista).

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fazione dal protagonista (che si è trovato, senza saperlo, per un anno incatenato ad un «cadavere»); perciò egli rifiuterà, con violenza, le

postume dimostrazioni di «cordoglio» dei vicini. Per Eduardo bisogna sempre dire la verità. Perché la «verità» esiste, si può conoscere. Al fondo, ancora il suo rifiuto della «maschera», della «forma» come ipo-

statizzazione della «vita» (che porterà al rifiuto stesso della concezione pirandelliana dell'Arte). Ma il procedimento si indovina già nell’Abito nuovo. Con l’entrata improvvisa della vestale di quel «tempio d’amore»

(Clara), il

«povero Cristo» continua a subire le tentazioni legate all’Eros. Essa si propone infatti come valet de chambre: Per servirvi in qualunque cosa. Nisciuno meglio ’e me sape che ce sta dint’a a sta casa. Nisciuno meglio ’e me ve pò mparà comme sapeva campà chella Ilà (Mostra il manichino). Teneva ll’arte! ... Sapeva comme ll’avev’ ’a mbriacà ll’uommene! ... °A vulite vedé annuda? ... (Insinuante) [...] Vaco a chiudere ’o canciello abbascio ... (II, p. 394).

Però questo «pover’ommo,

... mmiez’a sta ricchezza, ch’è fatta

tutte ’e tentazione», all’esclamazione di Clara è come se avesse ricevuto una rasoiata nella schiena, e, ritrovato se stesso, trova anche la forza

d’una «acerba rivolta morale»: Vuie site pazza!? Iatevénne, iatevénne! Io ’a capa nun ’a perdo

[...] nun ’a perdo cchiù! Tutto quello che avete detto non mi riguarda; io sono

un uomo

onesto!

(Ib.).

Eduardo riporta di colpo la situazione sul piano della normalità: Clara non è più una figura ancillare della Morta, un «contenitore d’ombra»?2, è solo una poveraccia che sperava di spremere dall’«ere-

22 Savinio riconosce nell’«apparizione» l’imbeccata pirandelliana: «Ecco che nell’antro degli amori e dei miraggi entra Clara: la confidente della cortigiana, colei che viveva degli amori dell’‘‘altra’’, sterile per se stessa e asessuata, vestita di un abito ‘‘muto’’ e burocratico tra di manicure e di suffragetta. Ma quando questa ‘‘segretaria d’amore’’ attacca l’apologia della defunta, sparisce di colpo l’immagine ““piccola’’ della cortigiana sfracellata da una vettura in una via di Napoli, e ad essa subentra un'immagine ben maggiore: di Aspasia, di un cortigiana ‘‘storica’’; infine quella massima e sacra, e paganissima di Venere eterna» (cit., p. 123). Ciò è possibi-

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de» qualcosa della ricchezza dell’«amica»; e lui, d’altronde, non ha

più l’intenzione di farsi risucchiare dal Passato, si attacca perciò all’unica sicurezza che possiede: la propria onestà. Infatti come tentativo estremo di non perdere la testa — piuttosto che come ritorsione sugli altri da parte di chi l’ha già piegata — si configura la scena finale dell’atto: dove Crispucci, che già aveva convocati i colleghi con mogli, fidanzate e figlie, getta loro addosso, letteralmente, i ‘‘panni sporchi” che minacciano l’integrità sua e quella della sua figliola (che egli aveva cresciuta «pura com’ ’a n’ostia consacrata»).

Ciò che il Crispucci della novella avrebbe voluto fare e dire (se non lo avesse trattenuto un resto di «ragione»), il Crispucci della commedia lo fa e lo dice, anzi lo grida: (Raccoglie la biancheria a manate e torna a distribuirla) Tenite ccà, pigliate! Io songo pronto a darvela ... pecché nun aggi’ ’a essere spurcato io sulo ... V’aggia a spurcà a tutte quante...

Anzi, come abbiamo anticipato, dice di più: perché il suo è un gesto di rifiuto — Pigliatevella! È rrobba vosta! È rrobba ’e tutt’ ’o munno! io a ffgliema, no, no, no! (II, p. 396).

Ma

E proprio perché dettato dalla disperazione della «verità», di chi si sente sempre più stretto dalla morsa dell’ipocrisia sociale, appare agli altri, a tutti gli altri, il gesto di un «pazzo»: ABaTINO Buffone! CerINO Cose da pazzi! Escono tutti vociando e imprecando come a concerto. Crispucci ride

(115 Pia3970

Nel terzo atto trovano sviluppo le ultime righe della novella: le; tuttavia nella ‘‘reazione’’ del protagonista al morboso invito la riduzione operata da Eduardo risulta palese: anche perché al demone dell’Eros si sostituisce, bruscamente, quello della Ricchezza, che il Crispucci eduardiano tenta ad ogni modo di esorcizzare.

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ma è soprattutto in questo, nel suo epilogo da farsa tragica che il divario si fa più evidente. Dopo lo «scandalo di Posillipo», Crispucci è partito (per Venezia), accompagnato però da Boccanera e dall’ Avvocato decisi a «fa’ ‘e guardiane vicino a isso, o correrle appriesso cu’ na cammisa

’e

forza sempre pronta pe’ tutte le pazzie», ché egli è «tuosto». Lo spaccato popolare che s’apre in quest’atto, ambientato nella poverissima casa di Crispucci, ora che vi è entrato il demone del Denaro, di un denaro guasto, non guadagnato onestamente (come poi anche in Napoli milionaria!), non offre maggiori garanzie di pulizia morale degli altri ambienti, l'ufficio e soprattutto la villa di Posillipo. C'è qualcosa che corrompe, che inquina, nella «fortuna» o nel miraggio della fortuna con l’«effe maiuscola»: borghesi e popolani si trovano uniti e complici nel coprire le origini di quella ricchezza, di quel «tesoro» nascosto nelle casse che Concettino, «nu giuvinotto serio, figlio ’e n’avvocato ... famiglia rispettabile ...» (III, p. 403), ha fatto portare dai facchini su per le scale del palazzo-alveare. Perché, appunto, il «giovanottino spelato, dalla faccia itterica», che nella novella «faceva da galoppino; ma

voleva conservare

la sua dignità» (p. 36), si trasforma

qui nel

giovane di buona famiglia, pieno di «buon senso» anche «a giudizio popolare». Laddove quella grottesca maschera (anche lui come il protagonista, ma tristemente giovanile: spelato) di ‘‘borghese piccolo piccolo” improvvisava «per strada», col Crispucci, una squallida contrattazione per sposare sua figlia: il giudizioso figlio d’avvocato, che prima della famosa eredità «veniva forzato» (il solito gioco sulle parole

che è gioco delle parole) a rinunciare alla ragazza a causa della malafama della madre, ora «ormai che ce stanno ’e solde» si adopera giustamente affinché quel «pazzo» di Crispucci ingoi l’«eredità» e ron parti più. ConcetTINo E appunto per non farlo parlare che vogliamo metterlo di fronte al fatto compiuto:

ovvero la fuga ‘‘d’amore’’ della figlia (parata però «comme a na riggina!», con gli abiti della madre). Ma il Crispucci eduardiano parla, eccome! (Rosa: «Ma parlarrà, parlarrà!»). Prizza, quando appare col cappello e l'abito nuovi: «Stoffa da gran signore ... da gran signore ...! (Con la mano destra accenna 89

per aria il segno delle corna nel mezzo della fronte) (III, p. 408), diventando anche più esplicito: «Perché io nun me ll’aggio faticato sti solde . so’ ’e solde ’e nu cornuto! Il più grande cornuto del mondo!» (III, p. 409); poi, quando si trova davanti la figlia vestita nei panni della madre, reincarnazione non più del proprio Eros frustrato (come il manichino del II atto) bensì solo della propria vergogna, il suo disgusto per se stesso e per gli altri esplode (III, p. 410). La storia degli «abiti» si è complicata: qui abbiamo un abito di vergogna che si perpetua con le lusinghe della ricchezza (aveva pur detto Rosa, la nonna: «Capirete, cu’ tutta chesta ricchezza ... ‘a capa e na femmena

se ne va ... ‘A capa d’”’a mamma

se ne iette ...»,

II, p. 407), e un abito nuovo che, però, il protagonista non ce la fa a portare: Mo ’o muorto songh’io! ... E nun avit’’a chiagnere ... Avit’’a ridere tutte quante ... È muorte nu curnuto! [...] Redite ...! Forte, forte! Accussi! [...] (Ride sempre più forte, ad un tratto si arresta come per una improvvisa paralisi cardiaca, piomba a sedere sulla sedia balbet-

tando) ’A morte d’’o curnuto. Atterrita sospensione d’animo

di tutti.

Cala

la tela (III, p. 410).

In quest’ultima scena, la ‘‘creatura’”” eduardiana rivendica una precisa ascendenza con la tradizione antirinascimentale, nella linea del Deforme, del Grottesco, dell’Irriconoscibile. Non a caso Savinio

si chiedeva con la consueta scaltrezza: Ma è così sicuro che le commedie dei De Filippo fanno ridere? [...] Edoardo De Filippo una volta l'abbiamo paragonato al Karaghieuz, alla maschera turca, a una delle figure più tragiche, più problematiche del misterioso, dell’oscuro Mezzogiorno. Oggi, nei fratelli De Filippo e nella loro sorella Titina, denunciamo il potere dissugante dei fantasmi del Sud: dei Ka/lakànzari. Attraverso mari e continenti, fantasmi del Sud e fantasmi del Nord si dànno la mano. Nel teatro «da ridere» dei De Filippo, serpeggiano veleni ancora più acuti di quelli che amareggiano il teatro di Cechov [...]. A queste «allegrie», i commendatori e le loro signore venuti a farsi quattro risate, ridono si, ma con la bocca storta [...] (Teatro da ridere, 19 ottobre 1938; cit., pp. 146-147).

Ed anche se il «corpo carnevalesco», la bizzarra clownerie gestua90

le, come in Rosso e in Pirandello, rappresentano una fase che precede l’immobilità irreversibile, questa immobilità dell’ultimo Crispucci non è quella di chi si è fissato in un ruolo legato al passato ed è incapace di ribellarvisi, è l’immobilità di una morte ‘‘fisica’”’ ma non ‘‘morale’’

di chi anzi fino in fondo si ribella a quel ruolo?3.

>

Questa conclusione non era prevista nella novella di Pirandello,

che terminava appunto con la battuta amaramente sardonica del protagonista: «Wagon-restaurant». Eduardo va oltre la battuta e prosegue il calvario del povero Crispucci fino al suo ‘martirio’. Gli explicit, in ogni testo artistico, hanno sempre una funzione «mitologizzante»: anche in questo caso, nel confronto fra novella e commedia, consentono di cogliere non solo il divario che intercorre tra la «fine» del Crispucci pirandelliano e quella del Crispucci eduardiano, ma anche tra le visioni del mondo dei rispettivi creatori. Nel quadro del mondo pirandelliano la Finzione, la Maschera, riescono a soffocare la Verità, il Volto: la società, nel suo insieme, opprime e determina il comportamento dell’individuo isolato. La rappresentazione eduardiana, invece, se avvalora l’opera di condizionamento che

il ‘“gioco delle parti’ sociale esercita sull’individuo, non conduce quel gioco corruttore fino al coivolgimento di quel nucleo di sentimenti e di idee che ‘ciascun uomo” possiede. Mentre il protagonista della novella si abbandona, anche se con profonda riluttante asprezza, alla ‘‘parte’’ che la ‘società gli ha assegnato, quello della commedia prima non vuole e poi, alla fine, mor può sottostare a tale imposizione, che significherebbe la rinuncia a se stesso. Quel se stesso che esiste, nonostante tutto. Il primo perde la propria identità, il secondo la vita. Così la morte che pone fine, nel dramma, alle sofferenze d’un ‘‘misero cornuto” (come sempre nei finali eduardiani) si presta ad una duplice interpretazione: liberazione traumatica dalla Norma sociale, ma anche soluzione estremistica d’un

23 Facciamo riferimento naturalmente a Bachtin (già nel Dostoevskij, Torino, Finaudi, 1968). D'altronde nella reazione finale del Crispucci eduardiano si può cogliere lo stadio estremo della «crisi di cordoglio»: dopo la «scarica meramente meccanica di energia psichica» (II atto), l’impietrimento o la folgorazione o il raggelamento «senza parola e senza gesto» (in cui si riflette, per De Martino, il mito di Niobe). Per le implicazioni antropologiche di questo motivo, vedi ancora E. DE MARTINO, Sud e Magia (Milano, Feltrinelli, 19735), e soprattutto Morte e pianto rituale cit., p. 45.

Si

Isolato, che non trova altra via per mantenere fede ai propri principi e ai propri sentimenti.

In tal senso il Michele Crispucci napoletano rappresenta un doppio o un prototipo di Luca Cupiello. La «vaga rassomiglianza» fra Crispucci e Luca è discutibile — per la Di Franco — perché il primo, a differenza dell’altro, muore perfettamente lucido e consapevole della propria sconfitta nei confronti della «realtà» (in ciò la matrice pirandelliana del personaggio)?*. Tuttavia ciò concerne, a nostro avviso, la sfera degli «attributi» dell’eroe (Propp) e non quella della sua «funzione», più direttamente legata alla «composizione» di un’opera artistica. L’avvenimento, si è detto, che sommuove la situazione di par-

tenza del protagonista è l'improvvisa morte della moglie: lo costringe a passare il «limite» fra il suo mz0dus vivendi quotidiano e quello degli altri che lo circondano. Ma si tratta appunto d’un passaggio forzato, indesiderato. Quella parsomonia estrema, non solo nei con-

fronti dei famigliari ma anche di se stesso — il rifiuto di cambiare «abito» per diciott'anni —, era il segno di una volontà caparbia di riscattare la propria esistenza dal disonore che la prodigalità della moglie aveva gettato sulla famiglia. Dunque anche quell’«abito nuovo» che «sgonfia da tutte le parti» (unito allo stato di ebbrezza) sta a significare la resistenza, l'impossibilità da parte di Crispucci ad adattare la nuova maschera alla propria personalità: come lui anche quel vestito «da gran signore» sembra essersi rifiutato di acconciarsi ad un corpo che non gli si confà. Egli non si fonde col nuovo mondo, perciò la sua storia non può finire così. Un secondo avvenimento si prospetta: il rinnovarsi del trauma passato (all’origine di tutte le sue disgrazie) nella tentata «fuga» della figlia, oltretutto mascherata con gli abiti della madre, provoca il passaggio dell’eroe bastonato ma non domato oltre un «limite» che a quel punto, però (come per Luca Cupiello), deve coincidere con la morte. Perché non è più possibile per questo Crispucci neppure tornare alla condizione di partenza: il suo mondo privato è andato a pezzi, come quello di Luca, lo spazio del suo povero rifugio, che gli ha dato per anni sicurezza, si è aperto pericolosamente al mondo esterno, alle incursioni degli altri. Tutto ciò che lo differenziava dal mondo circostante — la sua miseria ono-

24 Cfr. F. Di Franco, I/ teatro di Eduardo cit., e Le commedie di Eduardo cit.

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rata come il suo abito vecchio — è stato costretto a cambiare: anche se alla fine il suo ‘‘punto di vista” tende implicitamente ad avere il sopravvento su quello degli altri, ciò significherà comunque il suo annullamento fra i vivi, reso tangibile dalla morte. Eppure, ripetiamo, in questo annullamento ‘‘fisico’’ del protagonista eduardiano c’è, paradossalmente, più fiducia nella vita che in quello ‘‘morale’’ del protagonista pirandelliano. Perciò Eduardo affermerà nel ‘76, a colloquio con gli studenti: Io, questo Pirandellismo attribuitomi dai critici non lo capisco [...). Che vuol dire? [...] che mi sono appropriato della sua tematica?

Se è questo che si intende per Pirandellismo, mi pare che non sia neanche il caso di parlarne, tanto è ovvio che, a comzinciare dalla mia concezione del teatro a finire con i miei personaggi spesso poveri e affama-

ti, spesso maltrattati dalla vita, ma sempre convinti che una società più giusta e umana sia possibile crearla, niente potrebbe essere più lontano dall’idea teatrale di Pirandello e dei suoi personaggi. Se poi, per Pirandel-

lismo s'intende che io ho avidamente letto, ascoltato e amato il suo teatro, che l’ho conosciuto e venerato, che ancora oggi, se penso a lui, alla sua intelligenza lucida e scintillante, al suo humour, alla sua umanità, mi sento prendere da una nostalgia tremenda e da un senso di perdita irreparabile, allora sì: sono ammalato di Pirandellismo?5. [Il corsivo è nostro].

Io,

l’erede

Ma già un anno prima di L'abito nuovo Eduardo componeva un dramma che per certi versi può richiamare il dissidio pirandelliano fra la «maschera» e il «volto»: Uno coi capelli bianchit. Dove però l'apparenza diventa trucco premeditato: anzi la figura ‘‘farsesca”’ dell’Ingenuo che, senza volere, combina guai si rovescia nel suo contrario ‘‘creaturale”’, nel personaggio di Gianbattista Grossi, ricco industriale. 25 Cfr. E. De Fiurpo, A colloquio con gli studenti (1976), in Polemiche, pensieri, pagine inedite, a cura di I. Quarantotti De Filippo, cit., pp. 172-173.

1 Uno coi capelli bianchi, tre atti, 1935; rappresentato per la prima volta dalla Compagnia «Teatro Umoristico I De Filippo» al Teatro Quirino di Roma, il 26 gennaio 1938.

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La collocazione di questo personaggio/funzione in un ambito altoborghese, di cui egli è l'esponente patriarcale e ufficiale di maggiore spicco (il suo «non è un cavalierato semplice: Cavaliere del Lavoro!

È un’altra cosa!», I, p. 343), spiega la declinazione ‘‘negativa’’ del suo prototipo umano. Battista Grossi è inserito a pieno titolo in quella specie di ceto affluent che s’accorda in modo fondamentale

(negli

anni Trenta) col disegno economico fascista: d’una industria che specula attivamente sulla politica coloniale del governo. (Il «grosso affare» si cui si parla dall'inizio alla fine della commedia si basa sull’idea di chiedere al governo la fornitura delle colonie). È un ceto di parvenus, com'è subito sottolineato dalla didascalia ambientale: Ricchissima stanza da pranzo. Quella ricchezza sfrontata degli industriali arricchiti

[160903308 Grossi si connatura pure, sul piano famigliare, con la problematica del contrasto generazionale (vecchi-giovani) che diventerà un moti-

vo le di no

ritornante nel teatro eduardiano: qui, evidentemente, status sociae status famigliare del protagonista si fondono nella prospettiva un buzzour noir che accompagna le malefatte del ‘‘vecchio” a dandei ‘“‘giovani”’. Il Zeit-motiv verbale (solo verbale appunto) è quel «Io sono un uomo serio, tengo un’età ... tengo i capelli bianchi», che costituisce la ‘‘maschera’’ del protagonista: una maschera sociale (dagli affini riconosciutagli) e una maschera famigliare con cui egli si trucca per “farla” ai giovani, o a quelli che si fidano della sua apparenza. Dal punto di vista teatrale, come

si è detto, la sua funzione è

quella classica del creatore di equivoci, di pasticci: non più per ingenuità, ma per malignità. Solo nel primo atto, egli tesse le fila di almeno tre situazioni ingarbugliate, fomentando dissidi sia nell’ambito della propria famiglia sia in quello dei rapporti col mondo esterno. Nel secondo atto si hanno i frutti della malignità di questo sciagurato deusex-machina, perché vengono al pettine tutti i nodi che «'o viecchio»

2 «L’autore qui non vuole essere responsabile del ‘‘cattivo gusto” con cui» il protagonista ha arredato la sua stanza da pranzo: «lui, sembra dirci, lo arrederebbe diversamente, ma la realtà della commedia glielo impedisce»; ci serviamo 44 hoc di un'osservazione di Giuseppe Bartolucci a proposito di una didascalia ambientale di Le Rozeno di Carlo Antona-Traversi (cfr. G. BARTOLUCCI, La didascalia drammaturgi-

ca cit). In questo caso, comunque, il «distacco sociale» manifestato da Eduardo nella didascalia è ancora più esplicito: Quella ricchezza sfrontata degli industriali arricchiti [...].

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truccato da «’o Pateterno» ha provocato, intrigando i fili delle vite altrui. E se, a fatica e vergognosamente, Battista riesce a sfuggire al disonore pubblico, non riesce a calmare il ‘‘giovane’’ genero doppiamente (nella carriera e nella famiglia) danneggiato da lui. L’atto si interrompe sulla minaccia di un gesto estremo: mentre Giuliano con una rivoltella in mano esce pallido e stravolto in cerca del suocero (II, p. 365).

Ma siamo nel 1935: le pistole non sparano più per cause d’onore. Continueranno

a minacciare e a non sparare in Pericolosamente?, in

Non ti pago, in Io, l'erede. O sparano a salve o si inceppa il meccanismo o è il ragionamento che lo fa inceppare. Nel terzo atto, al colpo di pistola si sostituiscono i ceffoni! Giuliano decide di andarsene con la moglie da Napoli, non senza però aver detto al suocero il ‘‘fatto suo”: in una lunga ‘‘tirata’’ che unisce la disquisizione pirandelliana sulla maschera e il volto con una esasperazione di toni tutta napoletana, estroversa e plateale (III, p. 371). La scena culmina appunto nello schiaffeggiamento ‘‘sacrilego’’ di quel «tizio» truccato da vecchio, che il «Padreterno nelle ore di ozio» si è divertito a mettergli «tra i piedi», a lui «povero disgraziato che non si è truccato ancora» (III, p. 373). Si tratta di un finale d’opera a suo modo violento, ma coraggioso: tanto che scandalizzò il pubblico e lo rese ostile al lavoro. L’ Autore compie la dissacrazione di un valore che, privo di contenuto, si svela non solo una mascheratura ma addirittura una ‘‘macchietta’’,

capovolgendo la figura canonica — enfatizzata specialmente in quegli anni — del Pater familias. Al termine della ‘‘prima”’ della commedia, solo «un gruppo di studenti che dal loggione avevano continuato ad applaudire» si recò nel camerino di Eduardo «per esprimergli la propria solidarietà». Si sa che l’Autore, di fronte allo sconcerto del pub} Pericolosamente, atto unico, 1938 (da un’idea precedente); rappresentato la prima volta dalla Compagnia «Il Teatro di Eduardo con Titina De Filippo» il 12 marzo 1947, al Teatro Carignano di Torino. E stato pubblicato con questo titolo; ma giàil 5 aprile del 1947 al Teatro Mediolanum di Milano fu presentato con il titolo Sar Carlino, e il 30 giugno 1956, nell’edizione televisiva (ripresa da studio), con il titolo Sar Carlino 1900 ... e tanti. Cfr. F. Di Franco, Eduardo, Roma, Greme-

se, 1983, p. 129. Si tratta quasi di un rapido sketch su una assurda situazione coniugale, ma vi ritroviamo la pistola che non spara o spara a salve: qui per tenere in equilibrio un rapporto di coppia continuamente insidiato dalla verbosa aggressività della moglie, specie partenopea di «bisbetica domata». 4 Cfr. G. Magtiuro, Eduardo De Filippo cit., p. 44.

blico, scrisse un secondo ‘‘finale’’, ambiguamente rassicurante. Un cedimento di cui si è pentito: nelle varie edizioni eduardiane della Cantata dei giorni pari è ripristinato il primo finale, come logica e insopprimibile «verità» della storia?. L’incursione compiuta dall’Eduardo di questi anni nel «teatro borghese», non solo come ambiente dei suoi soggetti ma proprio come “genere”, determina d’altronde un cambiamento di prospettiva e di posizione del drammaturgo nei confronti del mondo che rappresenta. Infatti, nei suoi ‘‘nuovi’’ testi fra il ’35 e il 42 (se si eccettua, come

vedremo, Nor ti pago), non troviamo più l’autore solidale con i suoi personaggi. Anche se il repertorio mostra in superficie le solite trovate esilaranti, anche se il pubblico non sempre lo avverte lo ‘stacco’ — ricordate Savinio? —, l'atteggiamento di Eduardo nei confronti della borghesia del tempo, divenuta materia del suo teatro, è privo non solo di solidarietà ma anche di ogni complicità. C’è anzi un freddo distacco da quel mz0dus vivendi esemplificato sulla scena: le dispute, i problemi che emergono da queste commedie, nell’ Uro coi capelli bianchi come in poi in Io, l'erede, servono all’auto-

re anche per realizzare una satira del pettegolezzo scandalistico degli ambienti «bene», nei quali «gelosia e boria scavano la fossa all’one-

3 Vediamo anche le testimonianze di Simoni e di Repaci a proposito del finale della commedia: «La commedia finisce con la ribellione definitiva del Giuliano. [...) Calato il sipario è venuto alla ribalta l’autore per dire che a e a Roma questo finale aveva lasciato freddi gli spettatori, e perciò egli aveva

doppio genero Napoli voluto

esperimentarne anche uno del tutto contrario. La scena ricomincia a mezzo, ma, invece che con la sconfitta di Battista, si chiude con una nuova vittoria. Quel [...]

sireno dai capelli bianchi riesce ancora una volta a persuadere il genero della propria innocenza; e ricomincia subito le maldicenze» (cfr. R. Simoni, «Corriere della Sera», Milano, 17 gennaio 1939); «Nell'intervallo (fra è due finali] si presentò Edoardo De Filippo affermando che le sue preferenze andavano alla conclusione pessimista, quella che vede Battista smascherato e percosso» (cfr. L. REPACI, in Ribalte a lumi spenti, vol. I, cit., pp. 51-52). Eduardo lasciava dunque, brechtianamente, allo spettatore la scelta fra i due «finali», pur dichiarando la propria preferenza per il primo. Ma, c'è da chiedersi, questo era (ed è) davvero il finale più «pessimista»? Proprio nella meno ambigua delle sue commedie (forse mai un protagonista eduardiano è stato connotato così negativamente), l'Autore tinge il finale, ed il finale performativo dell’opera, di un'ombra di ambiguità. Tanto che Simoni, un po’ ingenuamente, si chiedeva: «Ma le commedie possono dunque avere una conclusione di ricambio?» (op. cit.). E il solito ‘‘gioco dei finali” eduardiano, qui trasferito dal testo allo spettacolo.

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stà». Quando questa freddezza non scopre (come nella raffigurazione di Battista Grossi, che «a lungo andare mette il gelo nel sangue») punte di autentico disgusto, nel rilevare la cattiveria ipocrita o la debolezza colpevole dei personaggi. Disgusto che, a sua volta, scopre quell’indice moralistico, quella volontà esplicita di sottolineare le incongruenze e le ingiustizie di cui gli uomini sono al tempo stesso vittime e artefici, che è sempre latente nella We/tanschauung dell’ Autore ma che nel suo migliore teatro è dissimulato da una sincera comprensione, nonché superato dalla resa artistica. Il tono con cui questi testi dell'Autore attaccano il mondo borghese (medio-alto si capisce, ché per la piccola borghesia il discorso è diverso) risulta più fortemente polemico che in quelli stessi di Pirandello. Sociologicamente il confronto potrebbe ridursi a questo: la denuncia pirandelliana nasce dall’interno di una classe a cui l’autore sente di appartenere; 'Eduardo invece è di un ‘“‘altro mondo”. Della stirpe degli «attori dialettali», non fa parte di quella borghesia che egli pone — proprio in questi anni — come bersaglio alla sua critica. Ma il discorso può apparire (ed è) troppo schematico, deterministico: c'è, dietro al diverso tono dei due drammaturghi, il «vecchio» e il «giovane», ancora un divario fra concezioni del mondo. La prospettiva ‘‘esistenziale’’ pirandelliana fa sì che la borghesia dell’epoca non rappresenti — in sé — il soggetto della sua critica; essa diventa piuttosto ur esempio di quel malessere universale che è la molteplicità dell'io, «l’incertezza della nostra personalità»: come male di vivere novecentesco. Le radici dei drammi o delle commedie eduardiane, come vedremo ancora, sono sempre più ‘‘storiche’’ che esistenziali: il male di vivere non è mai né eterno né scontato ma prodotto, per l’individuo e per la collettività, da eventi ben individuabili, sia famigliari che sociali. In Uno coi capelli bianchi, più che dibattere la questione dell’«es-

6 Cfr. A. CoLomBo, Eduardo De Filippo, «Letture», fasc. II, marzo 1962, p. 163. ? Cfr. F. FrascaniI, Eduardo, Napoli, Guida, 1974, p. 38.

8 «L'incertezza della nostra personalità» è, per Bernard Dort, uno di quegli «elementi di struttura pirandelliana», direttamente collegato d’altronde al «gioco di riflessi tra il teatro e la vita», che ha influenzato tutta la drammaturgia francese nel periodo tra le due guerre e nell'immediato dopoguerra; cfr. B. Dort, Teatro pubblico, 1953-1966, Padova, Marsilio, 1967, p. 129.

DI

sere» e del «parere», della necessità o meno di sopportare il trucco proprio o altrui per vivere pacificamente (negli illusori «giorni pari» del fascismo), si denuncia un sistema di vita e di rapporti che sul «trucco», sulla «maschera» degradata fino alla «macchietta», è fondato e sembra consolidarsi proprio in quegli anni Trenta. Tanto è vero che la soluzione, qui come nel dramma dell’Abito nuovo, è di rottura e non di rassegnazione: gli schiaffi del giovane al vecchio, a conclusione della commedia, suonano come una giusta, inequivocabile condanna. Giuliano, a differenza del suocero che non si leva mai la propria maschera di menzogna e di ipocrisia, esce alla fine dai giri viziosi di un ‘“‘linguaggio’’ che sui ‘‘falsi’’ valori è stato elaborato: diventa quindi un «personaggio mobile» (in questo senso egli è forse più vicino che ad altri al Baldovino di I/ piacere dell’onestà). E ci piace pensare che il suo non sia soltanto uno scatto dovuto all’orgoglio ferito, negli affari e nella famiglia, ma un autentico desiderio di verità. Ma anche Io, l’erede?” è una commedia dove l’età conta: i personaggi nel frontespizio sono tutti caratterizzati dall’età. È una storia di «eredità», come L’abito nuovo, un’eredità tuttavia che non riguar-

da tanto un patrimonio materiale quanto (come dichiara beffardamente il protagonista) «tutto un patrimonio affettivo e sentimentale» (I, p. 505). Gli eredi qui sono i ‘‘giovani’”’ — ma giovani già formati e invecchiati in un ruolo, — eredi dei berefattori e dei beneficati. Perché si demistifica un altro ‘falso valore’’ della società bene e perbene: quello della «carità cristiana». E come in Uno coi capelli bianchi la polemica non investiva il ruolo del Pater familias in sé, bensì la

? Tra Uno coi capelli bianchi e Io, l'erede, stanno due atti unici, Pericolosamente e La parte di Amleto, ed una commedia in tre atti, Now ti pago. A Pericolosamente abbiamo accennato; di Nor ti pago tratteremo separatamente; La parte *di Amleto (rappresentata la prima volta dalla Compagnia «Teatro Umoristico I De Filippo» il 19 gennaio 1940, al Teatro Odeon di Milano) riprende il tema della vita agra di una compagnia di attori di terz’ordine, stavolta non dialettali. Sullo sfondo di una ironica ‘foto di gruppo” (con primiattori e primedonne che richiamano a tratti quelli dei Sei personaggi) si rileva la figura crepuscolare di un vecchio guitto, fallito, ma ancora innamorato del teatro, vittima designata d’una atroce «burla riuscita»; inoltre il rapporto vecchio attore fallito-giovane esordiente preannuncia (al di là degli attributi) la situazione di Io, l'erede. Io, l’erede, tre atti, fu rappresentata la prima volta dalla Compagnia «Teatro Umoristico I De Filippo» il 5 marzo 1942, al Teatro La Pergola di Firenze.

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sua macchietta, qui non si demolisce il sentimento della carità o della solidarietà umane, ma parte dei privilegiati — e dormire tranquilli, o in vita, la ricompensa

il suo ‘‘commercio”’, l’uso che se ne fa — da per poter mettere «la testa sopra ’o cuscino»

addirittura per poter ricevere dal Padreterno, materiale della propria ‘generosità’.

Così AMEDEO, l’erede della tradizione famigliare di beneficenza,

inaugurata dal nonno e continuata dal padre: «Però in compenso, a

me il Padreterno m’aiuta sempre: sto bene in salute e non m'è mancato mai niente!»

(I, p. 497).

E anche una storia di «abiti» vecchi e di abiti nuovi, di maschere che non si possono più gettare e di maschere che, invece, si possono buttar via: insomma una storia di morti e di vivi, di vivi apparenti

che esistono come «conseguenza» di ciò che i morti hanno fatto per loro, più morti degli stessi perché non possono più scegliere, e di vivi veri, che possono

ancora

inventarsi una «forma nuova»,

in una

parola cambiare... . Così, in una stessa commedia, troviamo un eroe pirandelliano tout court — Ludovico Ribera, «l’erede» —, che sa solo ragionare, scomporre la realtà, individuare le cause e le responsabilità (altrui e proprie) ed inchiodarvi gli ipocriti, ma è ormai incapace di agire, se non nel senso determinato dal suo destino, e un personaggio «giovane» davvero — Bice, l’ultima beneficata — che, raccolta la lezione dell’altro («le strade inventano gli uomini, infatti spesso portano i nomi degli uomini inventati», III, p. 530), può ancora cambia-

re strada e forse trovare la propria. In tale prospettiva anche questa commedia, che è forse la più pirandelliana di Eduardo!°, implica nell’opposizione semantica di fondo una possibilità di uscita dal pirandellismo stesso. Infatti l’opposizione non è tanto fra la rorzalità della famiglia Selciano — da generazioni addetta ad una pratica della carità che funziona, o dovrebbe funzionare, come una «polizza d’assicurazione» sulla vita e magari oltre ... — e la stranezza del raisonneur Ludovico — venuto improvvisamente a riscuotere un’altra polizza, quella ereditata dal padre beneficato —, quanto fra l’Immobilità e il Movimento degli esseri umani,

10 Per il tono, per la prospettiva in cui è rappresentato lo stesso protagonista,

per quel suo ragionare, cavillare, spaccare il capello in quattro, con logica, avvocatesca, abilità.

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sulla cui base si organizza lo spazio etico, e propriamente eduardiano, dell’opera. Ecco dunque come si configura il sistema semantico del testo, attraverso una serie di contrapposizioni CHIuso

(casa Selciano)

immobilismo

variate:

Aperto

(le strade del mondo)

mobilità o movimento

(i membri della famiglia, ma an-

(Bice, l’orfana accolta dalla cari-

che il protagonista erede della situazione creata dal padre, che

tà dei ricchi Selciano, che alla fine trova il coraggio di an-

era divenuto

darsene)

movimento

«uno

di loro»)

meccanico

metamorfosi

schiavitù

libertà

ripetizione

creatività

Certo qui — come in Uro coi capelli bianchi ma a differenza di altre commedie dell’ Autore — il Protagonista non coincide con il «personaggio mobile» dell’intreccio; la possibilità di muoversi è concessa ad un personaggio minore (Bice, appunto) la cui metamorfosi, se insinua nel ‘‘finale’’ una nota di speranza, non può investire tutto il ‘quadro del mondo” simulato dal testo. Tuttavia, la funzione del protagonista non è meramente passiva, come i suoi discorsi e il suo stesso restare, fino in fondo, incatenato ad un ruolo (che gli altri,

i morti, hanno scelto per lui) potrebbero far credere: il suo arrivo inopinato, a metà del primo atto, ha per la famiglia Selciano, oltre che per Bice, la portata di un «avvenimento» cruciale. E lo Sconosciuto, lo Straniero venuto dal mare (un’eco ibsenia-

na, o magari sansecondiana?)!!, con un passato anomalo, persino forse delittuoso: l’Estraneo che tuttavia «è informato» (leit-mz0tiv di tutto il primo atto, minaccioso e sconvolgente) di vita, morte e miracoli

della famiglia bene e per-bene in cui piomba, a reclamare l’eredità del padre, Prospero I°, proclamando l’avvento di Prospero II° (I, p. 505). Così egli via via corrode dall’interno, sulla base di documenti (il diario e le lettere del morto!), come in un’inchiesta che si conclu-

1! Ricordiamo Gabriele Fara, lo straniero venuto dal mare in Amzara (cfr. A. BarsoTTI, Pier Maria Rosso di San Secondo cit.).

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derà solo nel terzo atto, la facciata «rispettabile» della famiglia, e scopre gli anelli che non tengono nella morale, apparentemente inoppugnabile, di questi ricchi borghesi. La sua è una funzione prettamente «epica»: infatti, mediante i ragionamenti di lui, i più lunghi forse e ‘‘a freddo” del teatro eduardiano, la commedia riporta a quel genere di teatro di riflessione su temi morali inaugurato sia dai «grotteschi» che da Pirandello; proprio perché l’esasperazione delle azioni e delle reazioni, ma anche delle parole, operata da Prospero II° stravolge i dati di un’etica borghese. Ogni atto, del resto, è movimentato

da un «avvenimento» che

il raisonneur stesso determina. Nel primo, proprio l’ingresso dello Straniero interrompe e modifica il clima da thè di beneficenza! che informava, all’inizio, dell'ambiente e della mentalità della Famiglia. Il

secondo, atto chiave, in cui l’Erede dimostra la propria ragione a seguitare il ruolo paterno per quanto gli farà comodo, manifesta una prima alterazione del «carattere» di Bice: la quale, istigata da Prospero II°, incomincia a ribellarsi ai suoi benefattori.

Ed in quest’atto,

che riprende i motivi della «pistola» e dell’«abito» (l’abito nuovo che ogni anno il padre di Amedeo faceva cucire per il padre di Ludovico, e che l’erede, per stare nei patti, vuole indossare così com'è, largo e corto, anche se inadeguato a lui), si dimostra coi fatti, e non solo col ragionamento, che la «carità cristiana» non c'entrava niente con

quella dei Selciano: «c'entra soltanto quel barbaro desiderio di dominio, di possesso che l’uomo ha verso gli altri uomini» (III, p. 527).

12 Anche di questa commedia (come di Gennareniello) si possono individuare tre differenti versioni: una pubblicata nella edizione ’59! della Cantata dei giorni pari, un’altra nella edizione ’717, e l’ultima nell’edizione ‘798 ("82). Il «tè di benefi-

cenza con le signore ‘dame di carità’ alle prese con gli indumenti da destinare ai poveri» è inserito nell’ultima versione; tuttavia già nella prima e nella seconda, fra i personaggi în cordiale conversazione mentre il cameriere entra per servire il tè, anche per i discorsi che vi si fanno, si respira la stessa atmosfera. Quanto alle varianti fra le tre edizioni, la seconda (del ’71) appare una versione intermedia. Infatti si mantiene pressoché uguale (tranne minime varianti verbali) alla versione del ’59 fino alla metà del secondo atto; a partire dalla battuta di Amedeo («Proprio cosî [...]») il testo si avvicina invece a quello dell’ultima versione: anticipa la scena della

discussione-accordo fra Amedeo e Ludovico, che nel °59 concludeva il pranzo famigliare, e conclude la scena del pranzo (e l'atto) con l’episodio della «pistola» e della «poesia». Ma il terzo atto (del ’71) si mantiene uguale a quello della prima versione.

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Difatti l’atto termina magistralmente con il rovesciamento violento eppure tragi-comico della situazione passata: con Prospero II° che, pistola in pugno, costringe i benefattori a deriderlo (ora che non ne hanno voglia) così come facevano con suo padre (II, p 521). L'epilogo (serale, quasi notturno) richiama la situazione di I/ piacere dell'onestà: per liberarsi dell’Intruso,

Amedeo

Selciano, con la

complicità del suo procuratore (anch’esso ereditato dal padre) Lorenzo De Ricco, fa in modo di coglierlo con le mani nel sacco. Ma anche questo tentato danneggiamento si ritorce sugli antagonisti dell'eroe: la-

dro lui, sì (come suo padre, naturalmente), ma ladri anche tutti gli

altri. L’Inchiesta volge al termine: un’inchiesta che man mano si è trasformata in un processo, di cui l’estraneo è divenuto al tempo stesso giudice istruttore e pubblico accusatore, oltre che — beffardamente '—\eomplice!4,

13 Proprio in quest’ultima parte del secondo atto si notano le maggiori varianti fra la prima e l’ultirna versione: come abbiamo anticipato, alcune scene si alternano diversamente, e anche la conclusione dell’atto è diversa. Tuttavia nella scena del pranzo, in cui Ludovico — nella seconda come nella terza versione — con la pistola in pugno recita la poesia, costringendo i presenti a ridere, come facevano di suo padre, le didascalie sottolineano, anche tra il ’71 e il ’79/’82, un diverso atteggiamento del protagonista: ed. ’71 ("73-°74-’75) — Lupovico (tornando serio e aggressivo di scatto) «No! Dovete dire erede di quel padre. Se dite: figlio di quel padre, vi sparo». (Cambia tono, ridiventa ironico e lamentoso) «Ridete, ridete ... In fondo so che

mi volete bene tutti quanti. Mangiammo, un’altra volta ...»; ed. '82 —

ngrazia ’e Dio ... La poesia ve la dirò

L. (c.s.) [...] «Ridete, ridete!» (Gli altri obbediscono

e ridono sotto la minaccia dell'arma; ridono sempre pit forte e più impauriti; quando le risate sono diventate isteriche, quasi grottesche, Ludovico posa la rivoltella accanto al suo piatto, siede e dice seccamente) «Basta! Si mangia». Cala la tela. 14 Il terzo atto è simile nelle tre stesure: ad eccezione della didascalia conclusiva,

che manca sia nell’edizione ’59 sia nell’edizione ’71, e nell'ultima sottolinea appunto la “complicità” rassegnata del protagonista. Le prime due versioni terminano con queste battute: edd. °59-’71 —

ADELE (lusingata e con intenzione) «È un cuore! ...» (Mentre cava lo spillo dall’astuccio e se lo appunta sul petto); Lupovico «... ma in brillanti! ...» (Rimzane assorto nel suo pensiero ostinato). Nell'edizione 82, dopo la

battuta di Ludovico abbiamo appunto questa lunga didascalia: Adele prende per mano l’uomo e lo tira dolcemente verso la camera di Ludovico, ma lui la ferma, facendole capire coi gesti che vuol riprendersi la roba che ha lasciato sopra e accanto al tavolo. Adele lo aiuta [...]; poi, per mano,

si avviano verso la camera [...] chiudendosi dietro

la porta. Dopo un attimo, da sinistra, entra zia Dorotea, come affascinata irresistibilmente dalla musica, e rimane ad ascoltarla, rapita. La porta della camera [...] si apre e appare Adele [...] vede la zia [...] incrocia le braccia sul petto con aria di sfida. Poi, avendo

102

In questo senso, commedie

come

Uno coi capelli bianchi e Io,

l’erede, proseguendo il filone pirandelliano dei «processi morali», anticipano o accompagnano (specialmente l’ultima) il percorso del nostro «teatro-inchiesta» di guerra e dell’immediato dopoguerra. Solo facendo riferimento a Betti: Frana allo scalo Nord è del ’32, Ispezione del °42, Corruzione al Palazzo di Giustizia del 44. Ma perfino nei due lavori ‘‘anteguerra’”’ che ci paiono meno partecipati dallo ‘‘spirito’’ eduardiano (la scissione fra «protagonista» e «personaggio mobile» è sintomatica, sebbene la complicità crudelmente rassegnata di Ludovico non

coinvolga la We/tanschauung

dell’intero testo) c’è una nota

di originalità che distingue la voce dell'Autore, e la farà individuare (magari per altre opere) nel concerto degli altri: non solo dei commediografi italiani della generazione di poco precedente alla sua, ma anche della sua e delle successive, nell’ambito stesso del «teatro di situa-

zione e di parola»!5. Mentre la dicotomia fra colpevoli e innocenti è ancora etico-esistenziale per Betti, tutti travolgendo penosamente il peccato: dall’inchiesta eduardiana emerge piuttosto, almeno in que-

ste opere, la colpevolezza di un determinato ceto sociale, come si diceva, ‘‘storicamente’’ identificabile. Certo, in tal modo, l’impronta

moralistica può risultare più evidente: ma appaiono anche possibili delle ‘‘scappatoie’’, delle ipotesi di fuga, al di là dell’inevitabile colpevolizzazione/assoluzione universale. Così, il personaggio dell’Innocente, della «candida», ha maggiori chances per salvarsi. Se il protagonista di Io, l'erede finisce lucidamente per perpetuare una situazione uguale a quella del passato!6 — un passato da lui comunicato il messaggio alla zia, e cioè: «Prospero Primo era tuo, questo è mio e non credo che tu abbia qualcosa da ridire» [...] rientra in camera di Ludovico [...]. Dorotea avanza di un passo, come volesse seguirla, ma [...] gira sui tacchi e ritorna sui suoi passi, mentre lentamente cala la tela. (III, p. 531).

15 Facciamo riferimento ai commediografi italiani della generazione del 1890, Ugo Betti, Stefano Landi, Valentino Bompiani; e poi a Silvio Giovaninetti e Carlo Terron, le cui opere più significative di questo periodo cadono nel 1948, a Diego

Fabbri e Luigi Squarzina, autori sintomatici degli anni Cinquanta ed oltre, insieme a Massimo Dursi. Si può vedere in proposito il nostro Itinerari teatrali attraverso il 900 italiano, «Rivista Italiana di Drammaturgia», V, n. 15/16, giugno 1980.

16 Si veda ancora la scena del terzo atto in cui Ludovico ripete, con Adele, il gesto compiuto dal padre con Dorotea: Lupovico: «Certamente, io resto» (Va al giradischi, rimette il disco dell’inizio di atto, si avvicina ad Adele, tira fuori etc.)

(LIE }.090031):

103

stesso condannato duramente —, l’incolpevole Bice trova appunto la forza di andarsene da quella Casa, da quell’ Ambiente, da quella Stanza della Tortura in cui i suoi diciassette anni facevano pena!

Ripensiamo a Minnie la candida (1927) e, più ancora, a La fame (1934) di Bontempelli!?7, dove l’innocente soccombe (nella prima) e l’«erede» Barbara (nella seconda), venuta anch’essa come Ludovico

per fare giustizia (molti hanno visto nella «tragedia» bontempelliana un precedente del dramma di Dirrenmatt, La visita della vecchia signora), alla fine è fagocitata dallo stesso Male che ha colpito gli altri, e condotta al delitto: possiamo cogliere, ancora una volta, il divario che corre fra i testimoni o i profeti di sventura e questo, sia pure paradossale, ottimista novecentesco, che è Eduardo...

1? Sul teatro di Massimo Bontempelli cfr. il nostro La tragedia della «fame» tra realtà storica e realtà magica, «Rivista Italiana di Drammaturgia», IV, n. 13, settembre 979.

104

Ripr

GROGIEGGHIONO.N®TI

PAGO

Se il testo conclusivo dei (cosiddetti) «giorni pari» è il sardonico Io, l’erede, dove il motivo dell’estraneo — sopraggiunto a levar la maschera all’ipocrisia della beneficenza «borghese» — assume cadenze pirandelliane, soprattutto nei monologhi sofistici di questo deus-exmachina che dissolve anziché risolvere: degli stessi anni Quaranta è Non ti pago!, opera che riorganizza le tematiche dell’«io» (i giochi fra sogno e realtà, fra «spirito» e «materia» ...) in base ad un motivochiave della teatralità e della cultura di Napoli: il delirio da gioco del lotto. Siamo al crocicchio fra tradizione e innovazione, nell’itine-

rario di un artista «in cerca», che già aspira ad «un teatro senza confini» (Meldolesi). FERDINANDO (furente e deciso) Non ti pago! Non ti pago! (come impazzito) °O biglietto è ’o mio! [...] T' ’o viene a piglia’ ’ncoppo ’o Tribunale ... (Esce per la sinistra lasciando tutti in asso i quali si guardano intorno a loro come

è l’«avvenimento»

allucinati) (I, p. 461);

fondamentale

del testo, introdotto e annunciato

verbalmente dalla battuta (/eît-mzotiv) con cui il protagonista chiude — a sorpresa — il primo atto. Battuta con funzione codificante: tanto è vero che è rilevata dal titolo (Nor # pago, appunto) della commedia?.

1 Non ti pago, tre atti, 1940: rappresentata la prima volta l’8 dicembre 1940 dalla Compagnia «Teatro Umoristico I De Filippo» al Teatro Quirino di Roma. Ripresa in TV (dall’esterno) il 13 gennaio 1956 e (da studio) il 5 febbraio 1964. 2 Secondo Eduardo la commedia «ha un titolo terra terra, un titolo che può attirare l’attenzione del pubblico, ma che non è pertinente alla drammaticità del caso»: cfr. E. De FiLIippo, Lezioni di teatro (all’Università di Roma «La Sapienza», 1981-1983), a cura di P. Quarenghi, Prefazione di F. MaroTTI, Torino, Einaudi,

105

Don Ferdinando Quagliuolo, doppiamente frustrato dalla vincita straordinaria del suo fortunatissimo impiegato del lotto, e dalla pretesa di questi di sposare sua figlia — Bertolini consegna il biglietto a Ferdinando: «Mo’ so’ ricco ’on Ferdina’, mo’ ’a facite spusa’ a Stella?» —, si impadronisce del fatale biglietto — che considera suo, perché i numeri, al Bertolini, li ha dati per «errore di persona», scambiandolo per lui, suo padre «in sogno» —

e si rifiuta di pagare. Si

tratta di un ‘‘colpo di teatro”, ripreso alla fine del secondo atto dall’altro, dal tragicomico «anatema» lanciato dallo stesso protagonista su chi, indebitamente, cercherà di riscuotere la vincita (ovvero sul medesimo Bertolini), che mette in moto tutto il meccanismo dell’in-

treccio, costituendo l'elemento «rivoluzionario» di questo testo eduardiano; alla cui base sta appunto una «lite» spiritico-giuridica, un contenzioso sulla proprietà legittima dei «sogni». Intorno al gioco «’e lotto», a questo tipico commercio dei sogni partenopeo, ruota infatti l’esistenza di tutti i personaggi della commedia, tutto il mondo da questi esemplato: il quale comprende, sintomaticamente, sia i vivi che i morti. L'eroe, il Quagliuolo, ha ereditato il fatidico «banco» dal padre (è una tradizione di famiglia); l’antagoni-

sta, il Bertolini, fin da ragazzo lavora al banco, e aspira, con le «nozze» (è innamorato della figlia del «re» del lotto, Ferdinando), a succe-

dere al suocero; ci sono poi gli aiutanti, più o meno «magici» — sempre di quella magia illusoria, ma così concretamente vissuta dal napoletano, che serve al conseguimento della Fortuna con l’Effe maiuscola! — dell’uno e dell’altro. Dalla parte dell’antagonista stanno la moglie e la figlia dell'eroe, Concetta e Stella, Don Raffaele Console, prete, Lorenzo Strumillo, avvocato, la coppia dei vicini, i dispettosi e vendicativi Frungillo; dalla parte di Ferdinando, il pulcinellesco (e «falso aiutante») Agliatello, uomo di fatica in casa Quagliuolo, la donna del popolo Carmela, e, sopra tutti, l’onnipotente «fantasma» del

padre, don Save’. E una fiaba napoletana «a lieto fine», che aggiorna l’antico moti1986, p. 92. A nostro avviso, invece, quel «titolo», come generalmente gli altri delle commedie dell’Autore, è codificante dal punto di vista drammaturgico, appunto perché isola il leit-motiv portante dell’intreccio; del resto Eduardo, in altra parte delle sue Lezioni, confessa ai suoi allievi di aver trovato sempre, dopo la loro stesura o rappresentazione.

106

i titoli dei suoi lavori, quasi

vo della «successione», anche qui è questione di «eredità»: senza volontà parodica da parte dell’ Autore — nonostante il registro prevalentemente comico del testo — perché, supponiamo, la ripresa del ‘genere’ non è intenzionale. (Si tratta ancora di quegli «elementi vivi» che nella tradizione passano e si trasformano di tempo in tempo, da un genere popolare in un altro ... .) E certo, comunque, che dietro l’ostinazione del protagonista (testardo per la didascalia, «capo tuosto» per la moglie, e come confermerà lui stesso) a non cedere la figlia (e il

biglietto vincente) al Bertolini, traspare l’arcaica «paura del genero»: la resistenza di questo «re», «padrone» per diritto ereditario del «banco lotto», a trasmettere il potere al marito della figlia, un «estraneo». Difatti, proprio sulla reiterata opposizione alle nozze («E Stella è mia figlia» ... «Ma a figliema nun ce ’a dongo!») si impernia per tutto il primo atto il contrasto Ferdinando-Bertolini, ancor prima che la cameriera Margherita annunci la cruciale «estrazione». Solo che qui il vecchio re resta in vita e in carica, alla fine, restaurando il suo

potere patriarcale, anche se dovrà condividere (accondiscendendo al matrimonio e donando come dote alla figlia i quattro milioni della vincita) col genero il proprio regno. Sul motivo archetipico della «successione» si innestano tutti gli altri: appartenenti sia alla sfera di un folclore più moderno e tipicamente napoletano — la cabala, i sogni e il lotto, i fantasmi in bilico fra aldilà e aldiquà ... — sia al quadro della cultura e della storia contemporanee — per il solito sistema oppositivo individuo-società — sia alla We/tanschauung soggettiva di Eduardo — conflittualità famigliare e scontro generazionale.

Ma, senza dubbio, i sistemi rappresentati dalle commedie dell’Autore, anche nella Cantata dei giorni pari, assumono alla lettura e soprattutto nelle rappresentazioni odierne un singolare spessore se-

mantico: affondano le loro radici nel passato dei generi popolari, che

3} Vedi V. Ja. Propp, Morfologia della fiaba cit.; Le radici storiche dei racconti di magia, Roma, Newton Compton, 1977, e particolarmente Edipo alla luce del folclore, Torino, Einaudi, 19782, pp. 93-94. Con il passaggio dal sistema matriarcale al «sistema statale patriarcale», alla «paura del figlio» o del «figlio della figlia» (come in Edipo) subentra la «paura del genero», ovvero l’estraneo sopraggiunto con le nozze a conquistare il potere.

107

prima Eduardo ha rivissuto originalmente alla luce del «suo» presente per consentire poi a noi di riviverli alla luce del «nostro». Non è difficile intravedere, ancora, nel particolare «commercio

coi morti» che attraversa questo testo il riflesso o un riflesso di quell’aspetto della «crisi di cordoglio» — scandagliata nel Sud dal punto di vista antropologico di De Martino — che è il «ritorno irrelativo del morto come rappresentazione ossessiva o come immagine allucina-

toria»4. Fin dall’inizio della commedia noi siamo informati delle scorribande notturne del protagonista e del suo aiutante Agliatello «ncopp’ ’e titte» per trarre dal «costrutto» delle nuvole «i numeri per i terni e le quaterne»: e già vi è apparsa «la buon’anima del padre di don Ferdinando», sia pure in forma di parodia shakespeariana. Ma il ritorno del morto non fa più paura, trasformandosi in visione tipica intessuta di elementi pagani e di influenze cattolico-popolari: «il controllo culturale del ritorno dei morti si manifesta», anche qui, «in un rapporto preciso», assegnando a determinate persone, Agliatello dal nome allusivo, l’attitudine riconosciuta di poter dialogare con i morti a vantaggio della comunità: AcLiaTELLO (Tira fuori dalla tasca un fascio di biglietti del lotto) Stanotte ci sono state le visioni. [...] Stanotte il cielo era nuvoloso. E quando le nuvole si accomenciano a intricciare fra di loro, si formano una specie di quadri plastici: figure, cape, animale, albere, muntagne ... E quando c’è la persona che conosce il trattato della composizione e della combinazione fumogena, fa la storia perfetta della volontà dei vivi e dei morti [...] (I, pp. 450-451) [l’ultimo corsivo è nostro].

La funzione di Agliatello rientra dunque in quelle forme di «difesa culturale» — rilevate ancora da De Martino — per cui il «ritorno del morto» appare ormai compreso e controllato da una «tecnica magica»; mediante la quale è riaperta «la possibilità del morto come alleato e protettore del vivo, ed è ristabilito — sia pure in modo rozzo e rudimentale — l’aspetto più propriamente morale del rapporto fra morti e sopravvissuti»?.

Si pensi anche alla scena del secondo atto in cui entrano in con-

4 Cfr. E. De MARTINO,

5 Ibidem, p. 108.

108

Morte e pianto rituale cit., p. 104.

trasto la forma cristiana del culto dei morti, l’ethos disinteressato

della «cara memoria», e certe forme primitive di rapporto col defunto (non a caso ancora testimoniate, sia pure contaminate coi riti del cristianesimo stesso, dalle civiltà religiose mediterranee) che traducono

materialmente l'esigenza dei parenti sopravvissuti di manifestare al morto l’«essere in regola» con lui: gli si dà ciò che gli è dovuto, onde riceverne in cambio non solo un «ritorno regolato» (in sogno) ma anche

favorevole, affinché il fantasma si tramuti in alleato e consigliere. FerpIinaNDO E allora facimmo comme a chillo d’ ’o cunto? Io spendo cinquemilaseicento lire al mese, per candele, trasporto, fiori e messe per mio padre defunto, e il defunto, padre legittimo mio, piglia na quaterna sicura ’e quattro milioni e *a porta a n’estraneo? Pai RAFFAELE [i/ prete] Le messe, caro don Ferdinando, si fanno dire in suffragio dell’anima di un caro estinto. Ma non è consentito farne una speculazione. [...] Che c’entra l’anima in questa meschinità? (II, p.469).

Certo, il registro di tutta la scena è grottesco — e in talune movenze estreme decisamente comico —, ma alla base della «pazzia» del protagonista (Raffaele: «Perdonate don Ferdinando, voi sembrate

un pazzo») c'è senza dubbio il costume di origine pagana dell’offerta votiva non disinteressata, parzialmente ancora vigente: senza di esso non si renderebbe possibile la deformazione grottesca eduardiana. Così anche per la funzione di Agliatello, per la sua attitudine di «operatore specializzato»: non è detto che tale funzione sia da tutti, nella Napoli del 1940, «socialmente riconosciuta» (nel caso specifico del testo Nor ti pago vi contrasta il carattere ‘‘pulcinellesco’’ del personaggio, che lo rende di per sé inattendibile come operatore magico), tuttavia Ferdinando, di cui la didascalia evidenzia l'ignoranza — /a sua ignoranza lo rende impulsivo e testardo —, ci crede o ci vuol credere Ciò per dire che la continua frequentazione funebre, o anche spiritica, riscontrabile nella tematica eduardiana può essere meglio inquadrata con strumenti antropologici, anziché, per esempio, in ambito psicocritico. Il movimento di quest'opera, del resto, si diparte proprio dall’interpretazione individuale-collettiva di un’avventura psicologica — il sogno conteso, fra l’eroe e l'antagonista, dell’apparizione di don Save’ dispensatore di «numeri» — vissuta da tutti, e non solo 109

dal protagonista, come fatto reale. Il codice comune è quello, dunque, d’una fede collettiva nella «realtà» di questo tipo di sogni — nella quale si scarica un immaginario popolare tuttora arcaico —, se i due

litiganti insieme ai rispettivi partigiani si contendono appunto la «proprietà» del sogno incriminato. E se «pazzia» è quella di Ferdinando che vorrebbe addirittura portare «in Tribunale l’anima» del padre, morto da due anni, e come testimone «don Ciccio il tabaccaio» morto

da diciotto, la sua pazzia non è che un granello di quella generale di un mondo

(avvocato Strumillo compreso) che sostiene legalmente

il diritto di Mario Bertolini ad incassare i proventi del «proprio» sogno. L’unico ad affermare, all’inizio, che «Bertolini ha sognato. I quattro numeri sono il frutto della sua fantasia»$, è il prete Don Raffaele Console: ma dopo la «maledizione» che il protagonista scaglia sul disgraziato Bertolini e soprattutto dopo gli effetti realmente negativi che questa sortisce su di lui, anche il colto e diplomatico consigliere è pronto a recuperare in una prospettiva «religiosa» la «serietà» dell’Anatema, recuperando, per l'occasione, pure la parlata dialettale: RAFFAELE [...] piano, un momento ... La maledizione è una cosa seria ... L'’Anatéma? ... eh, ve ne iate a cascetta ... Eh, scusate, voi

vorreste distruggere l’Anatematismo? La condanna? La confutazione? La riprovazione di errori commessi per cui l’Anatéma veniva posto quale offerta votiva e quindi esposto alla pubblica maledizione perché consacrato agli dei infernali ... Vorreste distruggere tutto questo? Ih, quanto è bello l’avvocato ... E sf, mo levammo n’atu rigo ’a sott’ ‘o sunetto

(III, p. 486).

E alle ragionevoli obiezioni dell'avvocato Strumillo («Allora, secondo voi, non solo ha fatto bene a maledire, ma ne avrebbe pure l’autorità?») il prelato continua a ribattere ostinatamente: «Io non so se ha fatto bene o male ... in ogni modo ha maledetto ...». Didascalia: Il bisticcio fra i due si accende sempre di pit (Id.). Talché, inesorabilmente tra i due litiganti — la Chiesa e la Legge — il terzo gode, quello da tutti chiamato «pazzo»: il protagonista non si fa sfuggire

$ RAFFAELE: «Ho detto l’anima per avvicinarmi alla vostra comprensione, perché la maggioranza crede proprio quello che voi avete creduto. [...] Che c'entra l’anima . è sempre la fantasia che lavora», II, p. 469.

110

l'occasione di dare una lezione di logica ai suoi autorevoli avversari, rovesciando, con i loro stessi argomenti, la propria situazione iniziale”. Lui non ha maledetto Bertolini, ha invocato —

sì —

sul suo

capo ogni sorta di innumerevoli e iperboliche disgrazie ma: Ca «se» ... che cosa? Si ’e sorde non le spettano, si ’o suonno era ’o mio l’he ’a fa’ passà quattro milioni di guai. Allora ’o biglietto è ’o mio ... allora aggio ragione io? E poi, mi sono rivolto all’anima di mio padre perché la maggioranza crede proprio quello che voi avete creduto. Ma è sempre la fantasia che lavora (III, pp. 486-487):

prima botta, alle argomentazioni della Chiesa. E quando l’avvocato esasperato, replica: «Nooo, che fantasia ... Qui subentra l’imponderabile ... Qui bisognerebbe fare dell’esorcismo», Ferdinando incalza: E pigliatevella con mio padre. Sapite che vulite fa’? Pigliate l’anima di mio padre e portatela in tribunale (III, p. 487):

seconda botta, alle argomentazioni della Legge. La rivincita del protagonista è piena, completa e definitiva: la collocazione stessa di questa scena, simmetricamente corrispondente a quella dell’atto precedente in cui la Chiesa e la Legge, mediante i loro rappresentanti, si accanivano contro di lui (al centro del secondo atto quella, al centro del terzo questa: e la didascalia conferma: Seggono come nella scena a tre del secondo atto), sottolinea appunto il ribaltamento puntuale, a livello semantico, della situazione di partenza. Se Ferdinando è «pazzo» o superstizioso, tutto il mondo intorno a lui è altrettanto pazzo o superstizioso, soprattutto quando gli fa comodo: non solo, non tanto Carmela (did: è una donna del popolo, linda nel vestire e modesta nel parlare. Ogni suo gesto franco e leale denota bontà e spirito altruistico), che viene a confermare, da testimo-

ne, con il «suo» sogno il diritto di proprietà del protagonista sul so-

? Consideriamo anche la testimonianza diretta dell'Autore: «Nor ti pago è una delle commedie

più articolate che io abbia scritto.

[...] a un certo punto

mi ero

talmente ingarbugliato tra la religione, l’avvocato, le leggi, che alla fine non sapevo più come chiudere la commedia. Eppure ho trovato il modo di uscirne: usando la stessa arma» (cfr. E. De FiLippo, Lezioni cit., p. 108).

LR

gno del Bertolini (II, p. 471), ma anche, piuttosto gli ‘“‘altri’’, quelli che confutavano tale diritto: la moglie Concetta, che fin dall’inizio appoggia il matrimonio della figlia col fortunato sognatore del lotto («Vo’ dicere ch’è furtunato. Spusanneso a Stella ce ve bbona pur’essa, pecché con le sue entrate ponno fa’ ’e signure ... comme fosse n’impiego ’o Ministero», atto I), e poi perfino il distinto e gesuitico prelato, «console» di nome e di fatto di casa Quagliuolo, insieme al

meno distinto, anzi scalcinato, «paglietta» avv. Strumillo. (Vedremo più avanti come il sorriso dell’ Autore sulla fede superstiziosa dei suoi personaggi conterranei, quelli popolari in ispecie — come qui donna Carmela, che è ritratta e trattata con grande rispetto —, non possa quasi mai definirsi incredulo o satirico tout court: il sorriso ed anche il riso sono fatti scattare dalla situazione «paradossale»8, piuttosto che dalla Wel/tanschauung popolare-arcaica che sta all’origine del particolare «commercio coi morti» dei suoi napoletani veraci. Si potrebbe anzi leggere l’iter drammaturgico eduardiano attraverso tale rapporto, illusoriamente gratificante, con l’aldilà — da Non ti pago a De Pretore Vincenzo —

come una specie di ambigua,

in bilico fra distacco critico e compartecipazione culturale ed emotiva, epopea

della superstizione.)

Dal punto di vista drammaturgico, i tre atti di Nor ti pago, scan-

diti da una diacronia puntuale (sei giorni dal primo al secondo, un mese dal secondo al terzo), ampliano e organizzano un intreccio farse8 Eduardo cita l'esempio di Nor ti pago lavorando, in gruppo con i suoi allievi, alla commedia L’erede di Shylock (anno 1981-82, all’inizio dell’’83 il testo verrà ripreso, e nella stesura saranno impiegate soltanto le scene di Luciana Lippi, rielaborate sotto la guida di Eduardo: la commedia è pubblicata nella «Collezione di teatro» Einaudi, 1984; cfr. Nota introduttiva di Paola Quarenghi, op. cit.). Eduardo spiega: «[...] a dire la verità l’idea mi portava piuttosto verso un’opera paradossale, divertente, perché la tragedia di oggi si scrive facendo ridere, non superficialmente, ma con delle annotazioni, degli assurdi palesi. Vorrei farvi l'esempio di una commedia molto comica che secondo me è la più tragica che io abbia scritto [...]. E’ Now ti pago» (Lezioni cit., p. 92; sull’articolazione della commedia, e sulle difficoltà a trovare un finale adatto, cfr. pp. 108-109). Eduardo insiste, dunque, sulla drammaticità (addirittura tragicità) di fondo in questa commedia di genere ‘‘comico’’: ricordiamo che il testo fu inserito dapprima dall’autore nell’edizione 1958! del secondo volume della Cantata dei giorni dispari, da cui scompare solo nell’edizione 19717, per passare nella corrispondente edizione (19717) della Cantata dei giorni pari (al posto di I/ dono di Natale, che viene eliminato).

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sco fino a rappresentare una commedia di costume; ma dove si individua uno dei /uoghi scenici privilegiati dal laboratorio eduardiano avvenire: la Camera da pranzo a tutti gli usi, magari, come qui, tagliata e aperta dal telaio a vetri che dà fuori al terrazzo (did. ambientale,

I, p. 449). Infatti non solo il tipo di rappresentazione del mondo, il tipo di intreccio e di personaggi si condizionano vicendevolmente, ma nel gioco semantico dell’insieme entra anche la topologia dei luoghi. D'altronde, già quest’opera si può vedere in un rapporto di «doppia similitudine» con la «napoletanità»: è simile al dato frammento di una vita e di una società, che raffigura, cioè «a una parte dell’universo», ed è simile a «tutto questo universo»?. Ferdinando Quagliuolo e la sua vicenda particolare, coi suoi stessi lati estremi: l'ossessione cabalistica dei numeri!°, e l’invidia maniacale per la fortuna altrui (per cui la gelosia diventa cavillo giuridico, delirio di un’assurda giustizia, rancore e gusto della vendetta, anche se inconcludente e dannosa per tutti)!!, non rappresentano soltanto un frammento della vita di Napoli in un certo momento della sua storia, ma finiscono per rappresentare anche il perenne inseguimento, da parte dell’«uomo», dei propri «fantasmi», costi quel che costi! Un aspetto della Weltanschauung dell’ Autore, che attraversa la sua produzione scenica, con varianti anche significative di registro e di genere, di soluzioni: qui il ‘‘comico’’ e la ‘‘commedia’’ e, dunque, il ‘lieto fine’; altrove inve-

ce l’abbandonarsi alla Fortuna (sempre comunque meno cupa e soffocante del Fato verghiano) o lo stesso ribellarsi ad essa incompostamente, nel tentativo di stravolgere le parti, condurrà certi protagonisti eduardiani a ricadere poi, più disillusi, sotto il giogo-gioco delle sue inafferrabili leggi Ma in Nor ti pago il sottofondo — anzi il nutrimento — farsesco è evidente (e forse esprime la tentazione dell’ Autore di esorcizzare,

? Cfr. Ju. M. Lorman,

La struttura del testo poetico cit., p. 293.

10 Ricordiamo che nella redazione eduardiana di Na santarella del padre Scarpetta è il nostro autore ad introdurre, «per vieppiù ravvivare il colore locale», «le macchiette [...] del cuoco cabalista e del vecchio sacrestano»:

cfr. Eduardo

De Filippo

presenta quattro commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta cit., p. 129. 11 In Mustafà di Petrolini, il Turco giunge al punto di inghiottirsi il biglietto vincente, giocato a metà, pur di non cederlo all’altro. Cfr. AA.VV., Petrolini. La maschera e la storia, a cura e con Introduzione di F. AncELINI, Bari, Laterza, 1984.

113

con la risata, il disagio di quegli anni Quaranta). Lo si scopre nel ritmo quasi frenetico delle sequenze e dei fenomeni scenici (innume-

revoli quasi le entrate-uscite dei affinata con cui sono introdotti grui, le mille gags popolaresche delle parole o sull’iterazione dei

personaggi), nell’intelligenza teatrale gli elementi apparentemente incongiocate sullo slittamento semantico gesti (un modo studiatamente istinti-

vo di esprimersi con l’anima e col corpo). E ancora, a livello verbale,

in quella tecnica del discorso diretto che, nel racconto come nell’autopresentazione di un personaggio, introduce nuovi discorsi diretti, quasi un dialogo nel dialogo di raddoppiata efficacia teatrale, che diventerà uno specimen eduardiano!?; o nell’altra tecnica, strutturale, del riepilogo per bocca di un personaggio, atto per atto, delle vicende precedenti, che traduce in coscienza drammaturgica la necessità spettacolare del teatro farsesco di riassumere continuamente quanto «era stato detto e fatto [...], a causa della scarsa attenzione

Sedimenti o pologia di alcuni bo, ignorante e per convinzione,

del pubblico»!3.

prolungamenti farseschi si ravvisano anche nella tipersonaggi: se Agliatello, servo attivo, povero e furbugiardo, «aiutante magico» più per necessità che è un parente stretto di Pulcinella — soprattutto nel-

le controscene mute e a soggetto il personaggio scopre il proprio op-

portunismo, come durante il contrasto del primo atto tra Ferdinando e Concetta: Agliatello si troverà fra i due ed a seconda dei casi darà ragione all’uno ed all’altra (did.) —, il figurino di Mario Bertolini, giovane sui ventisette anni, ricercatissimo nel vestire, fiore all'occhiello,

catenina d’oro all’orologio, braccialetto d’oro ... Capelli ondulati e impomatati (did., I, p. 456), richiama da vicino quello del borghesuccio stereotipo don Felice Sciosciammocca. Per non dire della coppia dei fratelli Frungillo, un raddoppiamento stavolta senza distinzioni, la cui funzione si riduce a quella ‘classica’ — nella farsa come nell’avanspettacolo — di spalla, a dar risalto, in una delle sue prime comparse in scena, al «carattere» del protagonista. E tuttavia questi personaggi non restano legati ad una meccanica tipologia: perché la composizione

12 Specimen ripreso segnatamente dai comici napoletani della giovane generazione, come

per esempio Massimo

Troisi.

13 Si veda ancora, in Quattro commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta, la Nota in cui Eduardo informa sull’epoca e sul luogo della prima rappresentazione, oltreché sugli usi teatrali d’allora, per Lu curaggio de nu pompiere napulitano (1877), op. cit., p. 4.

114

del testo di-lata, come si è detto, la «trovata» paradossale e gli spunti farseschi in uno sviluppo dei tre atti del tutto conseguente ed in crescendo. Agliatello diventa quindi l’ombra di Ferdinando (è quasi sempre in scena quando c’è lui), una specie di ‘‘cattiva coscienza”’ o di ‘‘memento”

di quella sua testardaggine dettata dall’ignoranza; quanto ai

Frungillo, che conservano sempre — anche quando ricompaiono nel secondo atto come «testimoni» della parte avversa — il loro profilo un po’ funereo di Maschere, sono addetti ad introdurre un motivo, il sospetto d’un misterioso «delitto», qui degradato comicamente nell’avvelenamento del «cane ... di famiglia», che sarà riproposto in un contesto di «piccoli omicidi» famigliari di ben altra portata in Le voci di dentro. Del resto, sia a livello verbale, quasi terminologico, sia a livello

strutturale, la semantica dei delitti e dei tribunali è espressa di continuo nel testo: culmina addirittura nella finzione del tentato omicidio del secondo atto (Ferdinando, esasperato ma non troppo, minaccia con la rivoltella che crede scarica il Bertolini, e Strumillo commenta: «appropriazione indebita, diffamazione, estorsione, minaccia a mano armata ...»), dov'è recuperato l’espediente della pistola-che-non spara

ai fini di un magistrale ‘‘colpo di teatro”’ (ma c’è anche il precedente ‘‘letterario’’ moraviano); qui sparerà invece, ma quando nessuno, neppure l’omicida e la vittima potenziali, se l’aspetta: FERDINANDO (non contenendosi più) [...] Chesta è scarica, ’a ‘i’. (Tira il grilletto puntando la rivoltella verso terra, ne parte un colpo. Fer9:

dinando impallidisce, le donne rimangono atterrite, i Frungillo si abbracciano smarriti. Strumillo cade affranto su una sedia. Bertolini dopo un attimo di smarrimento

s’inginocchia

e bacia la terra) (II, p. 478).

Il Bertolini, poi, rischia di passare da «personaggio immobile» a «personaggio mobile»: appena schizzato per la sua funzione puramente formale di ‘‘antagonista’’ nei primi due atti, riappare nel terzo disfatto, angosciato, perdente: pallido, capelli un po’ in disordine e col braccio destro ingessato (did.), vittima ormai, dopo la «maledizione» che gli ha sconvolto la vita, perseguitato e non più persecutore. In questa sua metamorfosi non solo acquista — come personaggio — uno spessore umano mai avuto in precedenza, ma sembra ribaltare la prospettiva del testo facendo apparire il ‘‘vecchio”’ come carnefice: 115

BERTOLINI [...] Don Ferdina’, io non voglio muri ... Io so’ giovane, nun voglio murf. Io stu biglietto nun m’ ‘o piglio ... ’e sorde nun ‘e voglio. (Poggia il biglietto sul tavolo) III, p. 487).

Raffiora dunque, per questo ribaltamento dei ruoli, la tematica del contrasto generazionale, fra i vecchi e i giovani, già affrontata — dalla parte dei secondi — nell'ambiente più astrattamente, o più alto -, borghese di Uno coi capelli bianchi. C’è sempre comunque nei vecchi eduardiani, anche nei più ‘‘simpatici’’, una certa protervia, una gelosa difesa dei privilegi acquisiti (o che si ritengono acquisiti) con l’età e l’esperienza: è questa che slitta nella cattiveria, la particolare cattiveria che deriva da una chiusa ostinazione, nei personaggi più marcatamente borghesi del teatro dell'Autore: pensiamo poi all’‘‘antipatica” freddezza di Alberto Stigliano in Mia famiglia ...!4. Qui il motivo, legato a quello ‘‘fiabesco’’ della successione e al-

leggerito dalla vis corzica che attraversa l’intero testo, dall’immediata reazione di Stella («Nuie nun avimmo denare [...] pecché simme giuvene ...») e di Concetta, nell'universo eduardiano sta sempre dalla parte dei

è sottolineato bisogno d’ ’e la madre, che figli:

Santa fede di Dio, sttommo sta sempe ’e na manera [...] Chillo vede duie guagliune ca se vonno bene, ch’hanno avuta ’a fortuna ’e se mettere a posto pure finanziariamente [...] «Nonzignore, s'ha da spusà a chi dico io ...» A chillo ’accide, a chillo ’o scanna ... è venuto o Rre cumanna scòppole ... [...] Che natura sbagliata, che essere animalesco ... Ferdina’ quanto si’ scucciante ... Uuuuh Ferdina’ sciò ... sciò ... sciò...

(III, p. 488).

14 Nell’interpretazione del protagonista di Now fi pago, comunque, Eduardo premeva già sul tasto della «cattiveria». «Eduardo ha interpretato Ferdinando Quagliuolo con un’ambiguità prodigiosa, mai lasciando scoprire il limite tra passione e ragione, follia e simulazione, esibizionismo e delirio»: scrive Giorgio Prosperi, sottolineando un aspetto dei protagonisti eduardiani che per noi è fondamentale, al di là, talvolta, delle dichiarazioni dell'Autore: quello dell’«ambiguità» (cfr. «Il Tempo», Roma, 5 dicembre 1962); ma Renzo Tian: «L'edizione di ieri sera diretta dall’autore, ha visto un Eduardo che ha fatto ritrovare al personaggio di Quagliuolo, in special modo nel secondo atto, tutta la sua amara ed incolpevole cattiveria, tutta la sua reziocinante assurdità» (cfr. «Il Messaggero», Roma, 5 dicembre 1962). Per un’interpretazione più recente di Nor # pago, si può vedere: K. OvarI, L’îo e la realtà nelle prime commedie di Eduardo De Filippo, «Teatro Contemporaneo», III, n. 6, febbraio-maggio 1984, pp. 317-345.

116

Il registro della «commedia» consente la ricomposizione delle fratture in un finale quasi goldoniano: di un goldonismo napoletano, naturalmente, con Agliatello che entra dalla sinistra con grande vassoio di maccheroni fumanti,

e don Ferdinando che fa accomodare tutti i

presenti (anche l’avvocato Strumillo e il prete don Raffaele) intorno

alla tavola imbandita, disponendo lui i posti: E io acconsento a questo matrimonio. E prendete posto. [...] [e] siccome ho dato il consenso al matrimonio, mia figlia Stella porta al signor Mario Bertolini una dote di quattro milioni (III, p. 489).

un lieto fine, un «tutto per bene», ma con la solita virata eduardiana in fondo: FERDINANDO (... mentre si accinge a farle la porzione, di punto in bianco si ferma per seguire una sua idea. Piccola pausa). Bertoli’, però ricordete ca tu l’he ’a fa’ felice a Stella... Tu l’he ’a vulé bene assaie,

pecché Stella è ’a vita mia.

Coil No, pecché si no ...(mostra il ritratto del padre) due paroline a mio padre ... (Fa il segno come dire: «Ti spedisco all’altro mondo») Cala la tela.

117

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Natale in casa Cupiello rappresenta comunque il testo-chiave o il testo-ponte alla seconda fase, più impegnata e matura, della dram-

maturgia di Eduardo. Consideriamo la particolare «biografia» dell’opera: nata nel 31 come

atto unico (il secondo

attuale), cresce per

l'aggiunta del primo intorno al ‘32-33 (quando Eduardo ha lasciato l’avanspettacolo e ha debuttato al Sannazzaro), si completa nel ’43 con l’integrazione del magistrale terzo atto o epilogo!. Anche cronolo! Per l’esatta cronologia di questa composizione si fa riferimento ad una lettera che Eduardo

ci ha scritto, da Roma,

il 22 febbraio

1983

(lettera che riportiamo

in Appendice). Ad una precisa domanda in merito, l'Autore indicava appunto per la stesura dei tre atti le date che presentiamo nel testo. Il 1943, come anno della stesura del terzo atto, è riportato anche da G. TREVISANI, in Storia e vita di teatro, 1947-1964, Milano, Ceschina, 1967: «[Natale in casa Cupiello] non fu scritto, origina-

riamente, in tre atti: il primo fu scritto nel 1931 ed appartiene alla prima produzione del “Teatro umoristico’ de ‘I De Filippo”. Eduardo aggiunse, qualche anno dopo, il secondo atto; poi (nel ’43) il terzo, sviluppando in chiave drammatica la vicenda familiare del mite Luca Cupiello» (p. 621). D'altra parte Fiorenza Di Franco, e gli altri critici autori di monografie sull’Autore, riportano il 1934 per la stesura del terzo atto, affidandosi alla testimonianza scritta di Eduardo in un suo ‘‘pezzo’”’ del ’36: «Questo mio lavoro è stato la fortuna della Compagnia, dopo Sik-S7£, s'intende. Ebbe la sua prima rappresentazione al Kursaal di Napoli: allora non era che un atto unico [...]. L’anno

seguente,

al Sannazzaro

[...] scrissi il primo atto, e diventò

di due. [...] Due anni fa venne alla luce il terzo: parto trigemino con una gravidanza di quattro anni! Quest'ultimo non ebbi mai il coraggio di recitarlo a Napoli perché è pieno di amarezza dolorosa, ed è particolarmente commovente per me, che in realtà conobbi

quella famiglia [...]}» (cfr. E. DE

Fiuppo,

«Primo

... secondo».

Aspetto il

segnale, «Il Dramma», n. 240, 1936; riportato in EpuaRDO, Polemiche, pensieri, pagine inedite cit., pp. 121-130, da I. Q. De Filippo). Questa testimonianza sembrerebbe confermata dal Catalogo della Mostra: Eduardo De Filippo. Vita e opere (1900-1984) cit., dove si indica il 1931 per la prima rappresentazione dell’«atto unico», il 1932 per la ‘‘prima” del Natale in due atti (al Sannazzaro), e il 1934 per la ‘prima’ dell’opera in tre atti (a Milano). D'altra parte la stessa Di Franco, nel suo Eduardo

109

gicamente costituisce l’anello di congiunzione tra le due fasi: Cantata dei giorni pari e Cantata dei giorni dispari, 0, in senso storico, anteguerradopoguerra. Inoltre, per una singolare coincidenza, l’atto unico del °31 rappresenta l’esordio dei tre De Filippo come capocomici, mentre la commedia in tre atti corrisponderebbe alla fine del pur fortunato sodalizio fra Peppino e Eduardo?. Elementi (apparentemente) esterni, relativi ai rapporti tra i due fratelli, al loro complesso ‘‘gioco delle parti” nella vita come sulla

(Roma, Gremese, 1983), fra le recensioni agli spettacoli riporta quella di Renato Simoni sul «Corriere della Sera», del 10 aprile 1934, in cui già si fa riferimento a un terzo atto dove «l’autore è passato audacemente, anzi, temerariamente, dalla farsa a espressioni e rappresentazioni d’un realismo a tratti penoso» (cit., p. 34), e un’altra di Ermanno Contini su «Il Messaggero», del 12 giugno 1937, in cui si afferma: «Eduardo De Filippo» [...] ieri sera vi ha aggiunto l’epilogo, vale a dire il terzo atto. [...] In cinque anni la fantasia di Eduardo ha lavorato senza soluzione

di continuità portando a compimento una vicenda e dei caratteri con la stessa coerenza e unità che avrebbe potuto dare loro per mezzo di una elaborazione rapida e continuativa» (cit., p. 35). Proprio a seguito di queste contraddittorie notizie e testimonianze, abbiamo scritto all'Autore chiedendo lumi a riguardo e ricevendo la risposta di cui sopra, che crediamo giusto avvallare. Ciò nonostante, qualche dubbio ci resta, conoscendo la idiosincrasia eduardiana per le date! Una spiegazione del ‘‘mistero” potrebbe venire dal riconoscimento del carattere sempre provvisorio di un «testo» teatrale, a maggior ragione di un testo di un autore-attore-regista come il Nostro, che sottoponeva a continue revisioni le sue commedie: «Non mi portate il copione definitivo», raccomandava ai suoi allievi, «perché nemmeno quando va in prova una commedia il copione è definitivo: nemmeno quando va in scena! Il terzo atto di Napoli milionaria! l'ho scritto tre volte e la terza è stata dopo che era andata in scena» (Lezioni cit., p. 60). Potrebbe essere andata così anche per il terzo atto del Natale: allora il 1943 corrisponderebbe — secondo l’Autore — se non alla definitiva, alla più compiuta stesura dell’‘‘epilogo’’ dell’opera. Questa sembra anche l’ipotesi di Guido Davico Bonino: nella Prefazione a E. DE Fiuippo, Teatro (Milano, Edizione CDE, 1985; comprende Natale in casa Cupiello, Questi fantasmi!, Filumena Marturano, Sabato domenica e lunedì, una scelta, a detta del critico, qualitativamente «di altissimo livello»), scrive, dopo aver riportato la battuta con cui l’autore definiva

il Natale «parto trigemino con una gravidanza di quattro anni»: «In realtà, il testo definitivo venne prendendo forma attraverso una serie di correzioni e aggiustamenti dal 1931 al 1943: e già questo fatto soltanto sottolinea la centralità di questa commedia [...] all’interno della Cantata dei giorni pari [...], sino alle soglie della seconda guerra

mondiale»

(p. VII).

? Cfr. P. De Fiippo, Una famiglia difficile cit., p. 350; si veda anche Eduardo e Peppino di I. Quarantotti De Filippo, in EDUARDO, Polerziche, pensieri, pagine inedite cit., pp. 42-45.

120

scena, e fattori interni allo sviluppo della poetica drammaturgica del maggiore sembrano confluire nella lunga, meditata, elaborazione dell’opera. D’altronde questa presenta, come vedremo, caratteristiche che richiamano ai primi ‘‘generi’’ frequentati dall’autore-attore: la ‘‘sceneggiata” e la ‘“‘farsa’’ regionali, con ricorrenti puntate nel “varietà” e nell’‘‘avanspettacolo’’; contemporaneamente, il sistema semanticostrutturale del testo realizza quasi una sintesi anticipatrice di motivi fondamentali, che troveranno sviluppi anche diversi nella produzione successiva del drammaturgo. Il primo e il terzo atto in ispecie — prologo ed epilogo della piccola tragedia di un antieroe, Luca Cupiello, tenacemente votato, fino alla morte, al suo mito famigliare e poetico del Presepio — evidenziano un aspetto portante del teatro eduardiano del dopoguerra. Alla molteplicità dei personaggi più caratteristica dei primi lavori, subentra — con questo — la centralità di un Personaggio costante e ritornante, nella ricerca dell’«uomo di teatro», quasi in varie reincarnazioni sceniche, in un rapporto di identificazione «ambigua» con l'Autore. Si chiami, come qui, Lucariello, o poi Gennaro Jovine o Pasquale Lojacono, Alberto Stigliano o Guglielmo Speranza, è la reincamazione di una maschera umana che soffre in modi progressivamente più coscienti uno stesso dramma della solitudine, della ‘‘frattura’’ col mon-

do, e principalmente all’interno del proprio ambiente ‘famigliare’. Fin dal Natale, questo dramma va oltre la simulazione artistica d’un rapporto di incompatibilità psicologica fra i singoli, per divenire metafora teatrale, con radici storiche che saranno di volta in volta aggiornate, d’una media (non eccezionale cioè) incomprensione fra gli uomini, ovvero fra due mondi distinti da opposte gerarchie di valori. Non che nei lavori precedenti il Topos della Famiglia come luogo di scontro, o meglio di mancanza di incontro, fosse assente: tuttavia gli indizi di questa prospettiva apparivano più legati alla situazione o ridotti al rapporto di ‘‘coppia’’, o ancora alleggeriti dalla vis corzica dell'insieme (Sik-Sik-Giorgetta ... Non t# pago). In questo Natale in casa Cupiello l'opposizione semantica fra il

protagonista (pater familias) e gli altri (moglie, fratello, figli...) non solo è posta al centro d’una rappresentazione esemplare della realtà: si frammenta in una serie sincronica di opposizioni secondarie che finiscono per dare il quadro d’una famiglia disgregata, in perpetua conflittualità interna: Luca-Nennillo; Nennillo-Pasqualino; Pasqualino121

Concetta; Concetta-Ninuccia; Ninuccia-Nicola ... è la «catena» dome-

stica che più non tiene. Anche se l’«avvenimento» rivoluzionario dell'intreccio culmina nella tragressione di Ninuccia al codice d’onore del matrimonio (per l'intrusione dell’estrazeo, Vittorio, nel nucleo fami-

gliare, si determina la catastrofe), tuttavia i pericoli per il «presepio» concreto e metaforico di Luca non vengono tutti dall’esterno. Certo, il motivo tradizionale dell’ Adulterio (non importa se praticato o solo minacciato) serve ad introdurre un’altra causa di lacerazione e di incomprensione all’interno della famiglia: tra coloro che z0r sazzo (Nennillo, Pasqualino) e coloro che sazzo (Concetta, alla quale si confida Ninuccia); tanto più che i primi con le loro beghe quotidiane, le loro piccolie manie, fanno da contrappunto ‘‘farsesco’’ al ‘dramma’ ma contribuiscono piuttosto ad esasperarlo che a lenirlo. Comunque, considerando non tanto il meccanismo esterno dell’opera quanto la sua molla intima, conta soprattutto l’ignoranza di Luca, del pater familias fuori-ruolo: perché non si tratta, infine, d’un ‘“dramma della gelosia” — c’è semmai una naturale gelosia paterna, già rilevata in Nox ti pago e che ritroveremo in Mia famiglia —, ma dell’«epica» presentazione d’un progressivo straziamento del protagonista, già percepibile prima della rivelazione traumatica dell’infrazione di Ninuccia, in seno al proprio mondo morale e domestico. Anche perciò la «biografia» dell’opera trova significativi riscontri nel suo sistema compositivo e drammaturgico: tre atti, scritti in periodi diversi e in una successione particolare. Infatti il secondo atto (quello originario, scritto per il teatro-cinema Kursaal) presenta elementi di maggiore dinamismo melodrammatico e farsesco. Pensiamo alla scena della sfida fra il marito e l'amante di Ninuccia, incautamente riuniti dal «candido» Luca nel giorno di Natale: è uno scontro che molto deve alle tradizionali sceneggiate: Nicolino (... assesta uno schiaffo a Vittorio, gridandogli con voce strozzata) Tu si° n’ommo ‘e niente! VrIrTtoRIO Carogna! NicoLino (ha brandito un coltello e si è messo sulla difesa addossandosi alla credenza) Scinne abbascio. Mo he ’a scennere, mo! VirTORIO (accettando l’invito, minaccia a sua volta) E quanno? Ninuccia (schierandosi contro il marito in difesa di Vittorio) No,

Vitto’, nun scennere!

122.

(E gli si para davanti come per difenderlo).

VITTORIO me! (Ed esce NicoLino esce dietro a

Nun te vo’ bene mugliereta! Nun te vo’ bene! (...) Jamsvelto per il fondo). (minaccioso alla moglie) Cu’ tte parlammo doppo. (Ed Vittorio) (II, pp. 289-290).

E se personaggi come appunto Nicola, Vittorio, Ninuccia, hanno in quest’atto la funzione di determinare la svolta melodrammatica della situazione (in una specie di «cavalleria rusticana» tutta però na-

poletana, cioè emotivamente esibita), altri, come Pasqualino e Nennillo, con le loro scaramucce incoscienti, valgono qui più che altrove ad assicurare la forza comica, il controcanto farsesco al melodramma stesso. Come nella scena memorabile della «lettera natalizia» di Nennillo alla madre, nella quale il nipote insiste dispettosamente ad escludere dalla «nota d’’a salute» lo zio, finché, quando sembra cedere alle proteste di lui: Tommasino

(avendo accomodato la «nota», si dispone a leggere di

nuovo) «Cara madre, che il Cielo ti deve far vivere cento anni assieme a mio padre, a mia sorella, a Nicolino, a me e cento anni pure a zi’

Pascalino, però con qualche malattia ...» (II, p. 286)*.

3 AI di là della biografia ‘‘a tappe’ dell’opera, anche di questo testo si hanno due versioni: una del °59! e un’altra del ‘798 (’82), sempre in rapporto alle edizioni eduardiane della Cantata dei giorni pari. L'edizione 1971” presenta varianti minime rispetto alla prima: di ordine grafico, o relative all’elenco dei personaggi (scompare già, per esempio, uno dei «casigliani», Tommasino, il cui nome passa a Nannillo nell’ultima versione). Una revisione sostanziale del testo (rispetto a quello pubblicato nel ’59) appare invece nel ’79 (ricordiamo fra l’altro che il Natale è registrato due volte in TV, la prima volta trasmesso il 15 gennaio 1962 e la seconda, in una nuova edizione, il 15 dicembre 1977). La prima versione appare più sintetica e caratterizzata nella lingua da una più

marcata dialettalità; la seconda amplia sia le battute sia le didascalie (particolarmente quelle di presentazione dei personaggi, nel primo atto), e aggiunge anche episodi nuovi pet rendere più dinamica l’azione sia sul versante comico che su quello drammatico, coinvolgendo nelle singole scene un maggior numero di personaggi. Riguardo alla scena citata, nell'edizione ’82, è aggiunto l'episodio del «bacio» fra Ninuccia e Vittorio, atto a scatenare appunto la lite fra l'amante e il marito, che sorprende la coppia in flagrante; a variare la scena (nella prima versione assai più rapida) è introdotta anche Concetta che appare ignara. Reca una fumante insalatiera di broccoli natalizi (II, p. 290).

4 Nella prima versione la didascalia sottolinea di più l'atteggiamento dispettoso

125

Ma gli aspetti più platealmente regionalistici dell’atto vengono riassorbiti o resi diversamente funzionali dalla prospettiva completa dell’opera, dalla più complessa e sottile dinamica d’irsierze. Per cui l’atto secondo — il più tradizionalmente «drammatico» del testo — assume un altro, o anche un altro spessore: come episodio-cardine tra l’antefatto (il primo atto, scritto successivamente, dove si delinea la situazione iniziale: l’ambiente, i rappotti fra i personaggi, i preparativi della ‘‘festa’’ e i prodromi del conflitto coniugale fra Ninuccia e Nicolino) e l’epilogo (l’ultimo, incentrato sulla lunga, mimicamente pregnante, fine del protagonista). Si è usato il termine di rappresentazione «epica» proprio perché ciascuno di questi atti, nella diacronia complessiva del testo, simula

una «tappa» del viaggio esistenziale del Protagonista, compresso in poche giornate’. Dove il fattore unitario è costituito prevalentemente dalla soggettività di Luca: le azioni — l’azione scenica stessa — non contano di per sé, né il dramma o la tragicommedia si esaurisce in esse. Il succedersi degli eventi sembra inteso soprattutto a definire il percorso di un'anima, quella «credula» dell’antieroe, dall’illusione alla disillusione cruciale, fino alla separazione definitiva dell’interiorità dal contesto inadeguato del mondo esterno. D'altra parte ciascuno degli atti ha una sua compiutezza (in senso strutturale) che conferma il loro carattere di «episodi esemplari», ma al tempo stesso riconduce alla loro stesura separata e in momenti diversi. Il primo e il secondo potrebbero essere rappresentati quasi come testi autonomi: la loro cornice individuale è perfettamente conclusa. Il primo inizia con il risveglio di Luca e l’avvio d’una giornata in casa Cupiello, e termina con il grottesco equivoco della lettera: la lettera d’addio di Ninuccia al marito, che però non doveva essere recapitata, e invece, incautamente, incoscientemente, Luca consegna

di Nennillo (che nella seconda, per maggiore coerenza forse col diverso linguaggio verbale del testo, è chiamato sempre Tommasino): NENNILLO — (riprendendo a leggere) «... che ti possa far campare cento anni assieme a papà, a mia sorella, a Nicolino, ameeazi’ Pasqualino ...» (Pasqualino approva con soddisfazione. Nennillo continuando) «Però ... con qualche malattia» (Chiude la lettera). (*59, II, p. 261). 3 L’unità di misura della «quotidianità», anche a livello di tempi scenici, è un tratto saliente della drammaturgia eduardiana, come poi in Sabato, domenica e lunedi.

124

proprio nelle mani del genero. Si tratta d’un finale sospeso — sul baratro delle sue inevitabili ripercussioni —, ma che nella sua stessa ironica — l’ironia del Caso o del candore — sospensione potrebbe trovare già un’efficace completezza scenica. Tanto più che l’atto si apre sul pensiero fisso del protagonista al Presepio (singolare risveglio il suo, subito dirottato su un oggetto astraente), si dinamizza per l’arrivo inaspettato di Ninuccia, e sul ritorno di Luca al Presepio si chiude (Luca raggiunge il Presepe e si accinge al lavoro: «Mo miettete a fa’ ’o Presebbio n’ata vota», II, p. 270). Così per il secondo atto, dove si ha, all’inizio, addirittura un

riassunto dell’antefatto, mediante il dialogo fra Concetta e il portiere Raffaele (Concetta: «*O cielo m’ha voluto castigà cu’ nu marito ca nun ha saputo e nun ha vuluto fa’ maie niente [...] Vedete si è possibile: n’ommo a chell’età se mette a fa’ ’o Presebbio», II, p. 271): il riepilogo (poco dopo saremo informati anche del ‘‘guaio’’ della lettera) funziona attualmente come esposizione del punto di vista della moglie sulla propria situazione famigliare, ma potrebbe, e poteva, anche semplicemente introdurre lo spettatore in medias res. E l’atto si conclude, dopo la scena dello scontro fra il marito e l’amante di Ninuccia, con la grottesca ma sempre patetica «cantata» dei Re Magi

impersonati da Tommasino, Pasqualino e Luca (che fa anche da regista), i quali, senza nulla sapere di ciò che è avvenuto, circondano Concetta che li guarda con occhio vuoto, inebetito, e cantano la «Pasto-

rale» di Natale, rigirandole sul viso le stelline luccicanti (did.). Un fina-

le magnifico: e compiuto anche questo. Il terzo atto, come si è detto, fa da epilogo «mitologizzante»: elaborato o rielaborato, probabilmente,

in un clima storico diverso

da quello in cui nascono gli altri due, dirotta il senso complessivo dell’opera verso esiti di simulazione artistica per cui la «fine» — morte del protagonista — rafforza il segno dello «scopo»: «una buona 6 Citiamo, stavolta, dalla prima versione (’59, II, p. 268); nella seconda la dida-

scalia appare più articolata: Dopo una piccola pausa, dal fondo entrano Luca, Tommasino e Pasquale: con indumenti di fortuna [...] si sono camuffati da Re Magi. Luca reca l'ombrello, Pasquale la borsetta e Tommasino il piatto con la lettera. Ognuno agita nell'aria una stellina accesa [...], e tutti e tre intonano la canzone di Natale: [...]. Pasqua-

le dà alla canzone la sua versione per la borsetta e Tommasino li accompagna.

mezzo giro intorno alla tavola, si fermano,

si inginocchiano davanti a Concetta,

Dopo

che

li guarda allucinata, e depositano i doni ai suoi piedi (did., II, p. 290).

125

o una cattiva fine [...] testimonia non solo delle conclusioni di questo o quell’intreccio, ma anche della costruzione del mondo nel suo insieme»7. Da questa prospettiva, il tragicomico «Natale in casa Cupiello» diviene la drammatizzazione, via via sempre più esclusiva e traumatica, del soggettivo «Presepio» del Protagonista, che ne muore: quindi antefatto, scontro, epilogo — i tre momenti dell’azione corrispondenti ai tre atti dell’opera — appaiono anche, rispettivamente, l’introduzione nel mondo poetico e infantile di Luca, la rappresentazione del 720ndo prosaico che lo circonda, l’incompatibilità fra i quali è testimoniata dalla fine del Sognatore. Il punto di partenza del movimento a intreccio — per Lotman — consiste nel fissare fra l’eroe-protagonista e il campo semantico che lo circonda dei rapporti di differenziazione [...]: in relazione al limite del campo semantico dell’intreccio, il protagonista si comporta in modo da superarlo, mentre il limite agisce come ostacolo. [... Ma] è possibile anche un altro particolare caso a intreccio: il protagonista muore o per qualche altro motivo «esce dal gioco» senza aver superato i limiti?.

E quest’ultimo il caso di Luca Cupiello. Egli si trova fin dall’inizio, nei confronti dell'ambiente, in un rapporto di netta differenziazione. Il suo famoso «candore»? — fissato reiterativamente nel testo ? Cfr. Ju. M. LoTtman, La struttura del testo poetico cit., p. 260. 8 Cfr. ancora LOTMAN, op. cit., pp. 283-284. Già cit. per L’abito nuovo. ? Sul «candore» di Luca si è appuntata la critica, dandone talvolta opposte interpretazioni: Coen Pizer (Il mondo della famiglia ed il teatro degli affetti) o Frascani (Eduardo) insistono, per esempio, sulla purezza del protagonista e sull’incomprensione del mondo che lo circonda; Mignone (I/ teatro di Eduardo) invece rileva gli aspetti positivi di Concetta e quelli negativi di Luca, il quale legato ad un mondo superato sarebbe responsabile della propria incomunicabilità con gli altri. L'Autore stesso ha rilasciato dichiarazioni contraddittorie, ora indicando nel Presepio un simbolo di «qualunque cosa che non ha nessuna attinenza con i problemi veri di un uomo e di un popolo ed è incoraggiata dall’autorità per tenersi in piedi» (cit. da M.B. MIGNONE, op. cit., pp. 51-52), ora interpretando così il comportamento del suo protagonista: «Con la stessa innocenza del Poverello di Assisi e con la stessa trepidazione e passione cocente, ogni anno, la notte del ventiquattro dicembre, Luca Cupiello compie un rito religioso. Intorno a lui, però, non si leva alto e commosso, un coro di fraticelli ammirati ... Intorno a Luca si va creando un’atmosfera indifferente e gelida man mano che le montagne di cartapesta si popolano di capanne e di ‘‘casarelle’’, e diventa addirittura ostile quando, ad opera compiuta, egli chiede timidamente alla famiglia

126

attraverso la sua tenace, ma non poi così «presepio» — lo tiene legato quasi a un filo (per i primi due atti) non solo di superare confine che separa il «sogno» dalla «realtà», l’«infanzia» dalla «maturità».

Egli è, come

innocente, manìa per il magico, che gli impedisce ma perfino di vedere il la «poesia» dalla «prosa», Don

Chisciotte, un co-

struttore di sogni: in ciò si differenzia dagli altri, da coloro che ai sogni non vogliono credere (Nennillo) o non credono più (Concetta). Gli ostacoli alla sua impegnativa ‘‘costruzione’’ appaiono quindi generali, sociali ed economici (l’indigenza, l’ansia del domani, una quotidianità piccolo-borghese ma grama, rabberciata a forza di espedienti)!°, e particolari, riguardanti la sfera della sua famiglia (l’opposizio-

un po’ di adesione» (Cfr. E. De Fiuippo, ’O Caristo, Napoli, Edizioni del Teatro San Ferdinando, 1971, p. 50). Ma le dichiarazioni dell’ Autore, come vedremo anche più avanti, si pongono sempre in equilibrio instabile fra distacco critico ed immedesimazione rispetto ai suoi protagonisti (tranne alcune marcate eccezioni); in quanto Attore ed anche Regista egli è capace di crearli strutturalmente dotati di una performativa «ambiguità». Già Simoni osservava nel ‘34: «Eduardo impersonò Luca con quel suo modo largo di accerchiare il proprio personaggio e di definirlo, come conquistandolo dal di fuori, con l’accumulazione dei particolari entro i quali esso si trova, poi, racchiuso e formato» (cit., p. 34); e Tian nel ’76: «Nel Natale ci sono già tutti i lampi e le fughe in avanti di un visionario che si lascia alle spalle la realtà. Forse per questo, e forse perché l’abbiamo rivista in una edizione nella quale Eduardo mostra di aver sublimato nello stesso tempo interpretazione e regia, ci sembra che questa commedia non sia più necessariamente legata alla sua condizione di ‘‘napoletana» («Il Messaggero», Roma, 7 maggio 1976). 10 In proposito dobbiamo notare un’altra variante di rilievo fra la prima e la seconda versione del testo. Nella prima l’ambiente appare socialmente più ‘‘basso’’ che nella seconda: la ‘piccola borghesia” sconfina più apertamente nel ‘popolo’, in relazione, anche per ciò, alla più marcata dialettalità del linguaggio. Nel primo atto della prima versione si fa cenno ad un particolare scenico — nella didascalia iniziale — che manca nella seconda: l’attaccapanni sul quale si trovano i/ paltò di Concetta, una pelliccetta spelacchiata e il cappellino sdrucito, ma dignitoso ('59, did., I, p. 221); e Ninuccia è presentata dal padre come una ragazza un po’ vivace, «romanziera», per giustificare il suo carattere impulsivo: mentre nella seconda versione Luca specifica: «[...] Poi lo studio: leggeva, leggeva ... teneva una casa piena di libri. Perché ha studiato veramente lei» (’82, I, p. 267). Nel secondo atto, poi, la didasca-

lia iniziale della seconda versione risulta più dettagliata nella raffigurazione dell’ambiente che farà da sfondo al «pranzo natalizio»: e l'elenco dei dettagli sembra appunto suggerire una maggiore ‘‘fastosità’’ rispetto alla prima versione, quindi maggiori possibilità economiche della famiglia. Cfr. prima versione: un lampadario è nel mezzo acceso. Le «catenelle» di carta colorata si avvolgono attorno ad esso dando una nota

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ne passiva della moglie, il rifiuto ostinato del figlio, l’isteria della figlia che, non a caso, già nel primo atto manda in frantumi «'o presebbio ... faticato» dal padre). D'altra parte il protagonista non vuole passare il limite, conformarsi alla realtà, allo squallido «presente» che lo circonda e lo incalza; vorrebbe anzi che gli altri passassero nel suo mondo, che essi fossero come lui li desidera e li vede. In questo senso non si rassegna mai: se la prende soprattutto con la moglie (il solito capro espiatorio degli Illusi eduardiani) — «La nemica della casa sei, la nemica della casa!» (I, p. 257) —, accusandola della cattiva riuscita

del figlio («Per la galera l’hai cresciuto, per la galera!» I, p. 255); al quale dà continue lezioni di morale, fingendo anche di cacciarlo di casa («Trovati un lavoro qualunque e non mettere più piede qua», I, p. 259); pretende la presenza della figlia e del genero al pranzo di Natale («... Eh, a Natale non deve mancare nessuno», II). Il fatto

che nessuno lo ascolti, gli dia retta, non gli impedisce di insistere nel suo tentativo di fingersi autorevole: la sua passività è piuttosto il risultato di un’impotenza che trova risarcimento, gratificazione soggettiva, solo nella chiusura individualistica: «Ma insomma, mi volete

lasciare tranquillo? (Perde le staffe e grida furente) Non posso essere distratto! Aggia fa” ’o Presebbio!» (I, p. 260)!!. Ma più ancora che l’insofferenza della moglie (affaticata dai con-

creti problemi domestici ed economici, dai quali Luca si estranea),

caratteristica ed allegra all'ambiente [...] (59, did., II, p. 244); seconda versione: I/ lampadario centrale è addobbato con stelle d’argento e oggettini natalizi. Quattro lunghi festoni di carta velina colorata, partendo dal centro del lampadario raggiungono gli angoli della stanza (°82, did., II, p. 271). Così per gli addobbi ‘‘gastronomici’’: prima versione: A sinistra un buffet sul quale vi sono piatti di dolci, frutta ecc.; seconda versione: In fondo a sinistra una credenza sulla quale trionfano tutte le specialità natalizie; non manca la rituale «croccante», gli strufoli e la pasta reale [...]. Inoltre mentre nella prima

Concetta è seduta e pulisce semplicemente della verdura che ha raccolta in grembo e che va mettendo man mano che è pulita nell’insalatiera [...], nella seconda Concetta [...] stacca le cime dai rigogliosi broccoli di Natale e le amzzzassa via via in una grossa insalatiera [...]. Insomma la piccola camera da pranzo borghese della prima versione offre il quadro di un ambiente che si sforza di apparire, nonostante l’indigenza, all’altezza di una ‘‘festa”’ rituale; mentre /a stanza da pranzo di casa Cupiello della seconda non manifesta tale ‘sforzo’. 11 Nella prima versione tale ‘‘chiusura’’ è maggiormente esaltata dal linguaggio: Luca (gridando) «Voglio sta’ sulo. Aggi’ ’a sta’ sulo, capisce? Aggi’ ’a fatica’. Aggi” ’a fa’ ’o presebbio!...» (’59, I, p. 232).

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o la distruzione ‘‘materiale’’ della propria opera per mano della figlia (Trasale, sbarra gli occhi e con voce rotta dalla rabbia ...: «O Presebbio?! Chi è stato che ha scassato

’o Presebbio?»,

I, p. 263), è la

distruzione ‘‘morale’’ del Mito del Presepio minacciata dal ripetuto diniego del figlio ad irritare (e turbare) il costruttore di sogni. Tutto il primo atto è attraversato e ritmato dal /eit-mzotiv: Luca — «Te piace ’o presebbio, è ove’?»; NENNILLO (freddo) «Non mi piace»!?. L'effetto è quello bergsoniano del diavolo a molla, «una molla di genere morale, un’idea che si esprima e che uno reprima», ripetutamente: «è il conflitto di due ostinazioni»!?. Ma il contrasto padre-figlio oltrepassa il senso farsesco d’una ripicca fra caratteri ostinati (com’è

quello dei battibecchi fra zio e nipote), per acquistare, e via via sempre più, uno spessore semantico fondamentale. Esprime non solo la non-comunicabilità generazionale vecchi-giovani («Questo lo dici perché vuoi fare il giovane moderno che non ci piace il Presepio ... il superuomo») ma la stessa opposizione semantica binaria alla base dell'intreccio dell’opera: fra due mondi. Per Luca l’insensibilità di Tommasino alla «poesia» del presepio è inconcepibile, e fonte di continue frustrazioni: 12 Citiamo dalla prima versione, dove la napoletanità del linguaggio ci pare più espressiva (rispetto, per esempio, alla toscanizzazione, nella seconda, della risposta di Nennillo-Tommasino: «A me non mi piace»). Per il Natale, concordiamo con la Stefanelli quando osserva riguardo non solo a Eduardo ma anche a Fo che «si tratta di due autori che, forse, nella volontà di adottare una lingua comprensibile ad un pubblico di estensione nazionale» — e nel caso della seconda versione eduardiana di questo come di altri testi ha giocato pure la disponibilità ad una più facile traduzione internazionale — «hanno perduto in questa ricerca una parte della originalità, spontaneità dialogica e vivezza espressiva» (cfr. S. STEFANELLI, Come parla il teatro contemporaneo, estratto da Gli italiani parlati, Firenze, Accademia della Crusca, 1987, p. 248).

13 Cfr. H. BercSsON, I/ riso. Saggio sul significato del comico cit., p. 47. «Il teatro è, a un tempo [per Bergson], una semplificazione ed una esagerazione della vita, la commedia potrà fornirci, sull'argomento, maggiori nozioni che non la vita reale» (p. 45); e dopo aver portato come esempi i ‘‘giochi di scena’’ del Matrimonio per forza e del Malato immaginario: «Serriamo, ora, più da presso l’immagine della molla che si tende, si raccorcia e si ritiene; ricaviamone l’essenziale: otterremo uno dei procedimenti comuni della commedia classica, la ripetizione» (p. 48). Concludendo con l’enunciazione di una legge che, secondo lui, definisce i principali effetti comici di ripetizioni di frasi a teatro: «in una ripetizione comica di frasi vi sono generalmente di fronte due termini: un sentimento compresso che si ritira come una molla ed un'idea che si diverte a comprimere di nuovo il sentimento» (p. 49).

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Tommasino (testardo) A me non mi piace. Luca [...] Il Presepio che è una cosa commovente,

che piace a

tutti quanti ...

Tommasino (c.s.) deve piacere per forza?

A me non mi piace. Ma guardate un poco, mi (I, p. 253).

L’opposizione è fra due atteggiamenti diversi nei confronti della vita, già significata verbalmente dalle due richieste con cui padre e figlio iniziano la giornata: Luca [...] (Sbadiglia, si guarda intorno come per cercare qualche cosa che lo interessi, non sa nemmeno lui precisamente cosa. Poi realizza a un tratto e come temendo una risposta spiacevole chiede allarmato) °O

Presebbio

... Addé stà ’o Presebbio? (I, p. 251).

Tommasino (raggomitolato e sprofondato sotto le coperte, reclama) °A zuppa ’e latte! (I, p. 252)!*

Il mondo di Nennillo appare — per i primi due atti — chiuso nelle aspirazioni di carattere materiale, e in particolare nell’orizzonte delle soddisfazioni gastronomiche (ricordando in ciò un altro figlio famelico e dispettoso, quello di Gennareniello); ridevoli e patetiche risultano quindi le sollecitazioni del padre ad ‘immaginare’ la bellezza dell’opera compiuta: Luca (Indica il Presepio) Qua poi la neve sopra. Le casette piccole per lavandaia, qua viene l’osteria e questa no. (Ammiccando) Te piace, eh? Te Tommasino

(annodandosi

ci vengono tutte montagne con la lontananza. Qua ci metto la è la grotta dove nasce il Bambipiace!

la cravatta) No.

(I, p. 258)!

14 Anche in questo caso, come nel successivo, l'opposizione fra i due «caratteri» di Luca e di Nennillo ci pare significata in modo più evidente dalla prima versione del testo: dove, mancando nel dialogo fra Luca e Concetta i discorsi sul «freddo» ed il prolungamento della discussione sul «caffè», la prizza richiesta di Luca — al suo risveglio — è proprio: (di soprassalto, ricordandosi) «O presebbio addo’ sta?»

(5901 pi.2230

15 Prima versione: LucA «Ma se non è finito ancora ... Ci manca ancora tutte cose ... Questo è appena il fusto ... Quando ci metto l’erba, i pastori ...»; NENNILLO

(c.s.) «Non mi piace. Voglio ’a zuppa ’e latte» (59, I, p. 225).

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La cecità estetica, e morale, del figlio è assoluta: l’effetto del

contrasto è quello appunto di un dialogo incomunicante tra un LucaDon Chisciotte ed un Nennillo-Sancho. D'altra parte, ad attenuare sensibilmente la ‘‘poeticità’’ del personaggio Luca, e a rendere quindi meno manicheo il confronto tra i due, interviene la resa puntuale della caparbietà con cui il padre risponde sempre a quella del figlio. Pur di strappargli l’agognato assenso, Luca si avvale di ogni mezzo: dalle minacce ai piccoli ricatti, disposto a sorvolare sulle scorrettezze e sui furtarelli di Tommasino, ma non sul suo rifiuto del presepio. Al di là della propria strutturale impotenza, il pater familias tradisce nei confronti dei figli una vocazione all’auctoritas che non ammette autonomismi o diversioni: il modello ideale dell'Unità Famigliare, con la relativa omogeneità di Valori, presuppone evidentemente — per lui — l'adeguamento dei giovani ai principi e ai miti dei vecchi. È un tema ed un problema eduardiano che ritorna — legandosi di più al contesto trasformativo della storia e della società — nelle opere «famigliaristiche» dei «giorni dispari»: subordinato in Napoli milionaria! alla rappresentazione della crisi bellica e post-bellica, diventerà cruciale nella Mia famiglia degli anni Cinquanta, trovando possibilità di soluzioni nuove (sul piano semantico) in Sabato,

domenica

e lunedi.

Comunque, l’«ambigua» poeticità del Presepio Famigliare idoleggiato da Luca tradisce (talvolta) quella tale protervia degli anziani (dei padri in ispecie) cui accennavamo già per Non ti pago: e l’ostinazione del protagonista a non varcare il limite che lo separa dal mondo degli altri, quindi anche dei figli, può interpretarsi in una prospettiva

sociologica, o ancora antropologica, come attaccamento ad una concezione paternalistica, e patriarcale, della famiglia: in cui la sicurezza dell’individuo dev’essere assicurata dal predominio dell’anziano. Però la sicurezza di Luca è subordinata ad un rapporto falsato, illusorio,

con la realtà della ‘‘propria” famiglia. Fino a quando egli, chiuso nel suo mondo arcaico, infantile (perché continua a prolungare, per sé e su di sé, la propria infanzia e quella dei figli: «Quando viene Natale, se non faccio il Presepio mi sembra un cattivo augurio. Abituato che la buonanima di mio padre lo faceva per me e mio fratello quando eravamo piccoli ... poi l’ho fatto per i figli miei ...», II, p. 276), riuscirà a restare sordo a quanto gli succede intorno, potrà continuare a vivere la sua vita e perfino a godere delle sue piccole soddi131

sfazioni; quando il rapporto con i famigliari e con il mondo circostante sarà costretto a trasformarsi, a diventare ‘‘realistico’’, Luca non potrà più sopravvivere!*.

Ecco perché l’ultimo «ostacolo», la rivelazione dell’infedeltà di Ninuccia al marito, diventa insormontabile per il protagonista. Ed è significante — nello specifico teatrale — che il momento della rivelazione traumatica non venga rappresentato, bensì affidato alla immaginazione degli spettatori: lasciamo Luca grottescamente (ma lui ron sa) sorridente, patetico ma tenace regista d’una ‘‘scena”’ del suo “‘privato” presepio famigliare, mentre travestito da Re Mago offre doni rituali alla ‘‘madre’’, una Concetta semisvenuta!7; lo ritroviamo, all’i-

nizio del terzo atto, 4 letto quasi privo di sensi [...] tre giorni dopo

16 Citiamo ancora Tian: «Natale in casa Cupiello è una delle prime grandi commedie di Eduardo [...]. Rivedendola oggi, si rimane colpiti per almeno un paio di ragioni. La commedia [...] ci tocca in modo quasi magico (e forse per questo ci mette d’accordo) perché è una non-storia, che esce dai confini del verosimile e della descrizione per arrivare nel territorio della visione e del simbolo. [...] Poche volte

come nel Natale, la ricerca di Eduardo sa far coincidere la carica delle emozioni e la sottile truccatura comica della fantasia» (cit. 1976; il corsivo è nostro). La radice di questo effetto, che noi definiamo «tragi-comico», è spiegata tecnicamente in parte da Bergson: «Immaginiamo dunque uno spirito che pensi sempre a ciò che ha fatto, mai a ciò che fa, come una melodia che ritardi sul suo accompagnamento [...], e che si adatti ad una situazione passata ed immaginaria, quando dovrebbe modellarsi

sulla realtà presente. Il comico questa volta si installerà nella persona stessa: è la persona che gli fornirà tutto, materia e forma, causa e occasione» (op. cît., p. 10).

E il personaggio del distratto: tuttavia il filosofo aggiunge, facendo esplicito riferimento al personaggio di Don Chisciotte: ma «quale intensa comicità deriva dallo spirito fantastico! [...] Sì, questi spiriti chimerici, questi esaltati, questi folli, così stranamente ragionevoli, ci fanno ridere toccando in noi le stesse corde, mettendo in azione lo stesso meccanismo mosso in noi [...] dal passante che sdrucciola per

via. Anche loro sono corridori che cadono, ingenui che qualcuno piglia in giro, uomini correnti dietro un ideale, ma che inciampano nella realtà, candidi sognatori che la vita maliziosamente persegue. Ma essi sono soprattutto dei grandi distratti, con questa sola superiorità sugli altri, che la loro distrazione è [...] organizzata intorno

ad un'idea centrale — e le loro disavventure sono legate dall’inesorabile logica di cui la realtà si serve per correggere il sogno [...]}» (pp. 10-11). Ci pare impossibile trovare una definizione migliore di questa per il «personaggio» di Luca Cupiello. 17 E questa scena di teatro-nel-teatro, già anticipata nel suo svolgimento ‘‘ideale’’ dalle spiegazioni di Luca a Vittorio, e poi, meno ‘“‘idealisticamente’’ nelle prove con Tommasino e Pasqualino, richiama sintomaticamente, per il suo stridente contrasto fra Illusione e Realtà, quella dello «spettacolo» di Sik-Sik.

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quella disastrosa Vigilia di Natale (did., II, p. 290). Ma è come se egli — dopo un’improvviso filtrare di luci e di persone sinistre, ap-

partenenti al theatrum mundi, nelle crepe della sua mente che ha subito il trauma — ritornasse, attraverso il delirio sornione che precede la morte, al suo mondo d’origine, al mondo dei Sogni. L’analogia todoroviana fra la rete dei temi dell’«io» e l’universo del «sogno» e dell’«infanzia» ci offre dunque un’altra chiave interpretativa del comportamento di Luca: se il problema centrale affrontato dal testo è quello dei rapporti uomo-mondo, individuo-altri, il protagonista fin dall'inizio si trova escluso dai rapporti intersoggettivi «normali», dalla comunicazione con i suoi «prossimi». Difatti l’opera presenta espliciti rimandi al problema del «linguaggio»: a partire, naturalmente, da quello scambio di battute fra padre e figlio che abbiamo individuato come /eît-motiv fondamentale in questa tragi-commedia: e che si traduce sul piano del linguaggio in una provocazione e nella sua ostinata repressione ‘‘verbali”’. A livello tematico, la domanda reiterata ossessivamente da Luca esprime uno sforzo di comunicazione, ma dal punto di vista formale significa distanza e distacco (0, più in profondità, il tentativo inesausto di assimilazione degli altri a sé). Quando si sente escluso dal «bisbiglio» fra la moglie e la figlia, se ne esce disarmato: «Niente, niente ... è un altro linguaggio!» (I, p. 261); e più avanti dirà del genero (esasperato): «Questa è una società

...» (I, p. 266). Ma è proprio la sua manìa per il presepio che lo

esclude dal mondo degli altri, trasformando anche il suo linguaggio in un parlare speciale!8. Perché il Presepio, per lui, oltre a configurare sul piano iconografico il mito della famiglia unita, affiatata, non toccata dai mali esterni (come tipica espressione anche di un'antica tradizione particolarmente radicata a Napoli), rappresenta un'occasione di

fuga o di riparo dai problemi più scottanti o noiosi del vivere quotidiano: > Luca Insomma, io non devo sapere niente! Concetta (quasi commiserandolo) Ma che devi sapere! Che vuò

sapè ... Fa’ ’o Presebbio, tu ... Luca [...] Aggia fa’ ’o Presebbio? E faccio ’o Presebbio! [...] Pe18 L'espressione è nella prima versione del testo: Luca: «Niente! ... È un parlare speciale» (’59, I, p. 233).

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rò, se succedono guai, da me non ci venite. Se succedono guai, io faccio ’o Presebbio. (Prende il barattolo con la colla) Mo vaco a scarfà

‘a colla.

.cll. P.220h:

L'esclusione da parte degli altri è subito colta dal protagonista come opportunità di autoesclusione. Anche dopo la scena dello svenimento di Concetta — paura, parapiglia, grida straziate: «È morta muglierema ... Sta murenno muglierema ...» (II, pp. 263-264)— non appena lei si riprende: Luca (avvicinandosi al letto, chiede teneraI

mente alla moglie) «Mo comme te siente?» [...] (ferma lo sguardo sul Presepe distrutto e dopo una piccola pausa, dice quasi fra sé) «Mo miettete a fa” ’o Presebbio n’ata vota ...» (I, p. 265). La scissione del

personaggio risulta evidente dal passaggio (apparentemente) brusco da un oggetto all’altro delle sue preoccupazioni: dove si pone implicitamente sullo stesso piano il rischio rappresentato dal malore della moglie (alla quale Luca è sinceramente affezionato) e il disastro dell’opera sua ridotta in frantumi. E che questa sua interna scissione si traduca in un «antilinguaggio», in un parlare speciale, anche il suo, che lo isola dagli altri, è significato particolarmente nei due «dialoghi apparenti» del secondo atto: con l’antagonista, colui che gli insidia la figlia, e col genero. A Vittorio, il pericoloso ‘‘intruso’’ che proprio Luca invita a pranzo il giorno di Natale, per prima cosa egli illustra orgogliosamente il suo presepio: Luca Questo l’ho fatto tutto io, sano sano. VirtoRIO (bonariamente ironico) Senza l’aiuto di nessuno? Luca (serio) Anzi, contrastato in famiglia: io solo.

{ILapi. 276)

Il dialogo seguita su questo registro, contrassegnato da una fondamentale distonia di linguaggi: Vittorio sempre indifferente e leggermente ironico; Luca dapprima compiaciuto e orgoglioso, quindi incerto se Vittorio parla sul serio 0 lo prende in giro, ma comunque sempre ripreso dalla sua mania per il presepio: alla fine — ormai certo — all’en-

nesimo «Bravo!» dell’altro: «Voi siete amico di mio figlio, ho capito!» (IIsopd 270%

19 Per le didascalie che accompagnano i diversi atteggiamenti di Luca, citiamo ancora dalla prima versione.

134

Ancor più stridente, perfino drammatico — pur nei suoi immediati risvolti comici — appare il dialogo in-comunicante fra Luca e Nicola, subito dopo che questi ha incontrato il rivale in casa del suocero: Luca (... andando a mostrare a Nicolino con fierezza i tre Re Magi che poco fa ha fatto vedere a Vittorio) Questi sono i Re Magi, tutti e tre: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre ... NicoLino (distratto, seguendo il filo del suo pensiero) Mangiano con noi? Luca (divertito) Niculi’, tu comme

staie stunato! [...] Certamente

hai fatto un’altra volta questione co’ Ninuccia [...]. NicoLino (prende a caso un coltello dal tavolo e ci giuoca simulando indifferenza) No, vi sbagliate ... mai come adesso vedo che c’è un accordo completo [...]. Luca (intuisce qualcosa di torbido che amareggia suo genero, ma nell’incertezza afferma timidamente) E questo ci fa piacere ... Vuol dire che le cose vanno bene che andate d’accordo. Io pure faccio sempre questione, con mia moglie ... [...] Ma poi ci vogliamo bene (II, p. 283)?0.

Altra spia linguistica della divergenza fra il campo semantico del protagonista e quello degli altri, nonché della difficoltosa ‘‘conciliazione” tentata da Luca, è nello stesso discorso di Luca a Vittorio, quando il pater vuol convincere l’altro, e sé stesso, dell’armonia della propria famiglia: Luca L’altra figlia mia maritata. Vengono a passare il Natale con noi. Quando viene Pasqua, Natale, queste feste ricordevoli ... Capodanno ... allora ci rinuriamo, ci nuriniamo ... ci uriniriamo ... (Non riesce a pronunciare l’espressione «Ci riuniamo»; sbaglia, annaspa ci riprova inutilmente) Insomma, voglio dire ... mia figlia non abita con noi sb

ia

Pasi

cambia discorso, diffondendosi sul bel matrimonio della figlia, sulle

20 Anche per questa scena, dobbiamo segnalare delle varianti nella prima versione che accentuano, rispetto alla seconda, l’«ingenuità» del protagonista: nell’ultima battuta, Luca replica senza capire l'ironia («E questo mi fa piacere ...»); manca d’altronde la didascalia che nella seconda versione illustra il ‘‘giuoco del coltello’ di Nicolino (59; II p. 259):

10099)

attenzioni che lei gli dedica, sulla propria dignità di «uomo di fiducia» della Tipografia, ma poi: [...] E dunque, come vi dicevo, mesi e mesi non ci vediamo ... Ecco che quando viene Natale, Pasqua [...] ci rinuchiamo ... ci ruminiamo ... (Prova ancora un paio di volte, finalmente spazientito, decide di chiarire a modo suo quel concetto formulando una frase più comune) Vengono e mangiamo insieme. (II, p. 278)?!.

Il procedimento richiama tecnicamente quello già adottato per significare in Sik-Sik il dislivello fra le pretese verbali, italofone, dell’«illusionista mago» e la sua inadeguata padronanza della «lingua eletta»22. E il modo stesso con cui Luca risolve il problema verbale ricorda gli espedienti del povero mago da avanspettacolo. Tuttavia l’impossibilità per il protagonista di pronunciare «la difficile parola» si carica anche di altri significati: «ci riuniamo» è l’espressione-simbolo di quell’armonia domestica (che il Natale e il Presepio dovrebbero riconfermare) che, inconsciamente, Luca Cupiello è impotente a pronunciare proprio per l'avvenuta frattura tra significante e significato. Si ritorna per questa via all’analogia fra temi dell'io e mondo dell’infanzia: dopo l’impatto crudele con «la ragione degli altri», ovvero, dal suo punto di vista, con il loro irrazionale rifiuto a «riunirsi»,

ad essere solidali, è naturale che il protagonista si isoli, ancor più, nel suo delirio fra il sonno e la veglia (come avviene nel terzo atto),

21 Nella prima versione mancano i giochi equivoci di parole sull’espressione «ci riuniamo»: il testo si limita a segnalare la difficoltà di Luca («... rinu ... rinu ... Ci rinuriamo ...»); tuttavia la didascalia indica forse con maggiore precisione i gesti e la mimica del protagonista: Si fermza, si distoglie da Vittorio ripetendosi mentalmente e muovendo appena le labbra la difficile parola. Infine crede di poterla pronunciare. Si gira di nuovo sorridente e ripete: «Ci ... rinueiamo ... Ci ... (Rinunciandoci con un respirone) Vengono e mangiamo assieme!!!! Ah! [...]» (°59, II, p. 253).

22 Anche in questo caso il mutamento di linguaggio fra le due versioni (maggioreminore dialettalità) fra perdere alla scena una sfumatura espressiva che si coglieva nella prima: dove infatti Luca si esprime in lingua, a differenza che nel resto dell’opera in dialetto: la serietà del discorso, a suo giudizio, lo richiede; e solo quando accenna ai dissapori fra la figlia e il genero, rivolgendosi alla moglie, nell’impeto della preoccupazione insorge la dialettalità: «Chi sa comme fernisce cu’ chilli dduie!». Ovviamente queste distinzioni linguistiche, ma anche semanticamente espressive, mancano nella seconda versione.

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in quel suo eterno «presente» elastico e infinito, collegato esplicitamente dal Dottore ad una specie di blocco infantile: [...] Luca Cupiello è stato sempre un grande bambino che considerava il mondo un enorme giocattolo ... quando ha capito che con questo giocattolo si doveva scherzare non più da bambino ma da uomo . non ha potuto. L’uomo in Luca Cupiello non c'è. E il bambino aveva

vissuto già troppo.

È una diagnosi che conferma quanto l’Autore già detta nella didascalia iniziale del terzo atto (Luca è 4 letto, quasi privo di sensi. La realtà dei fatti ha piegato come un giunco il provato fisico dell'uomo che per anni ha vissuto nell’ingenuo candore della sua ignoranza, III, p. 291): forse per ciò, perché ha considerato poi la spiegazione del Dottore superflua, Eduardo l’ha espunta dall’ultima versione del testo?. Nel suo inquadramento complessivo, l’atto finale pone di nuovo in relazione il Mondo circostante e quello dell’Io: mette in scena una moltitudine di presenze intorno al letto di uno che sta per andarsene per sempre (lo spazio scenico è costituito dalla camera da letto di Luca Cupiello, come nell’incipit della commedia). Siamo già nell’ambito di una «crisi di cordoglio» — anche se il morto non è ancora morto — meridionale e specificamente napoletana. È significativo, in proposito, che il «rito del caffè» avvii (74 porta di fondo si apre e appare Raffaele, il portiere. Reca una guantiera con sei tazze spaiate, cucchiaini e piattini ...) e attraversi una buona metà

dell’atto, caricando la scena di riferimenti alla quotidianità, magari umoristici ma non necessariamente grotteschi. Quella tazzina «'e cafè» che viaggia di mano in mano fra i coristi circostanti il letto del moribondo — penalizzando ogni volta il giovane Alberto — funziona certo da variante comica alla fondamentale tragicità della situazione, ma è contemporaneamente un richiamo attivo e concreto ad una con-

suetudine di rapporti socievoli, di buon vicinato, per cui anche un evento triste o luttuoso diventa occasione di partecipazione e di incontro. Le quattro pareti del privato domestico si aprono a spazialità

23 Ma può esserci anche un’altra ragione: il Dottore forniva un’interpretazione del «personaggio» che Eduardo vuole lasciare alla sensibiltà del pubblico.

37

collettivizzanti: perciò il marito d’una vicina può chiamare il portiere «da sopra la finestra d’’a cucina» per comunicare con lei. Solo in apparenza, quindi, è sorprendente la vivacità del coro dei vicini intorno al moribondo: l’Autore se ne serve, sottolineandola

nelle didascalie mediante la disposizione dei presenti in due nuclei spazialmente (Concetta siede a destra sulla poltrona, circondata da donna Carmela, Olga e la signora Armida Romaniello, tutte amiche del palazzo, che evidentemente l’hanno confortata durante la notte. — A sinistra, seduti sul letto di Tommasino, si troveranno Rita, Maria e Al-

berto, anch'essi coinquilini volenterosi e solidali) ed emotivamente divergenti (Mentre le donne raggruppate a destra parlano sommessamente dell'accaduto con interesse e comprensione, il gruppo dei giovani, a sinistra, bisbiglia qualche cosa di superficiale e di generico che evidentemente interessa loro personalmente), per rappresentare un costume meridiona-

le di compresenza di “‘tutti’’ alle avventure, tristi o liete, del ‘‘singolo”. Anche se vi si rileva, acutamente, il duplice aspetto di solidarietà

effettiva (dopo: tutti si faranno attenti e muovono verso il letto per circondarlo ... tutti sussultano allarmati e sorpresi) e di possibile, anzi probabile «distraibilità» dalla tragedia24, come avviene fin dall’inizio nel gruppo dei giovani, rimanendo ognuno, inevitabilmente, legato alle proprie preoccupazioni: OLca (alludendo all'ambasciata che le ha fatto il portiere) Che volevi?

Lurci Volevo sapere se resti qua, se sali ... Io me ne debbo scappare (Porgendo una chiave alla moglie) Questa è la chiave di casa. Nun m’aggio pigliato manco ’o ccafè (III, pp. 292-293). 24 D'altronde, come osserva De Martino riguardo agli analoghi «trapassi bruschi» nei riti funerari del Sud: «[...] durante l’esecuzione del lamento la lamentatrice

può distrarsi e volgere momentaneamente l’attenzione ad eventi futili [...] o quanto meno può dedicarsi alle normali occupazioni [...] che la piena del dolore non dovrebbe consentire di considerare». «Queste possibili distrazioni — come i bruschi trapassi di umore — possono indurre erroneamente l’osservatore a giudicare l’intero lamento come una finzione ipocrita: in realtà la distraibilità della lamentatrice in azione è nient'altro che un effetto della relativa interruzione che sussiste fra la presenza di veglia, impegnata nella sua funzione di controllo e di guida, e la presenza oniroide nella quale il pianto è concentrato e mantenuto» (cfr. E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale cit., pp. 86-87). Questo retroterra antropologico (più o meno inconsciamente risentito dall’ Autore) si manifesta sul versante artistico dell’effetto scenico, dando

sempre uno spessore diverso alle commedie

138

eduardiane.

Ma da questo coro animato, mosso e loquace, si distacca appunto (ancora una volta) la figura del protagonista: immobile (solo qualche gesto essenziale, qualche espressione mimica funzionale all’effetto voluto di accentrare sull’attore l’attenzione del pubblico) e balbettante («’a lingua s’è tirata, e parla accussi ... che non se capisce niente ...>, II, p. 293). Al di là della giustificazione naturalistica, la parèsi,

Eduardo inventa per l’ultimo atto di Luca un’altra specie di «antilinguaggio». Solo un'idea fissa: «Nicculino è venuto?», che interrompe anche il monologo farfugliante, anch’esso tragi-comico, sul «fatto dei fagioli» («Il fatto dei fagioli è importante ... Io sono tremendo, è vero, Cunce’», III, p. 298-299). Perché sino alla fine Luca Cupiello

conserva la sua testarda visione del mondo, a costo di congiungere nel suo delirio estremo la mano della figlia con quella dell'amante, nella convinzione, così, di «riunire» la famiglia: I/ suo volto si rischiara, riesce a parlare con più forza e chiarezza —

«Fate pace in presenza

mia, e giurate che non vi lasciate più» (III, p. 301). Ma, come abbiamo avvertito, i finali delle opere eduardiane sono spesso doppi: il senso «mitologico» d’una commedia come Natale in casa Cupiello cambierebbe sensibilmente se il testo si concludesse con questo episodio involontariamente (dal punto di vista del protagonista) ma effettualmente ‘‘grottesco’’; se mancasse,

‘alla fine”’, il «sf»

del figlio alla provocazione in extremis del padre: LUCA (... chiede supplichevole) «Tommasi’,

te piace ’o Presebbio?»; TOMMASINO

(superan-

do il nodo di pianto che gli stringe la gola ...) «Si» (III, p. 302). Il protagonista resta chiuso nel ‘‘suo’’ mondo, nella sua a volte patetica, a volte grottesca, alla fine lirico-simbolica, monomania per «'o Presebbio»: nel mondo terrestre egli è stato sempre una parte di un altro mondo, con ciò è collegata la sua morte. Dopo aver finalmente ottenuto il sospirato consenso del figlio al ‘‘suo”’ presepio — e non un «st» formale né soltanto pietoso, ché il giovare pare davvero comprendere ed accogliere l’inusuale messaggio del vecchio —, egli, come tutti i grandi visionari, può tranquillamente disperdere lo sguardo lontano [...] per inseguire una visione incantevole: un Presepe grande come mondo

il

... (did., III, p. 302).

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II AVVENTURE DI GUERRA E DEDOPOGUERRA: LA TRILOGIA

1. LA COMMEDIA STORICA DI NAPOLI MILIONARIA!

Con la messa in scena di Napoli milionaria! (il 25 marzo

1945,

al Teatro San Carlo di Napoli) alla Compagnia del Teatro Umoristico «I De Filippo» si sostituisce, per la prima volta, la compagnia «Il Teatro di Eduardo»!. La circostanza e la nuova etichetta meritano alcune considerazioni preliminari: l'occasione del cambiamento dipende, come si sa, dal distacco di Peppino, ma la formula «Il Teatro di Eduardo» acquista un significato che va oltre l'occasione, confermando una volta per tutte l’intreccio costante delle tre personalità di Eduardo che concorrono a formare il suo teatro. Un teatro, appunto, diretto e messo in scena, interpretato e scritto (prevalentemente)

da Eduardo. Giunto alla piena maturità espressiva, l’autore è ormai libero anche dalle esigenze pratiche di una compagnia come «I De Filippo». Nel plurale si indicava infatti la posizione paritaria dei tre fratelli, e ciò comportava spazi e ruoli adeguati a ciascuno di essi: non meno significativo, quindi, che nella nuova denominazione venga omesso l'attributo «Umoristico»; l’autore non è più vincolato alla vocazione propriamente comica, o meglio da «mamo sui generis», di Peppino, né alle sue aspirazioni di riformatore all’interno della «commedia napoletana». Il personaggio-prototipo a cui Eduardo aveva già dato vita e in-

1 Il titolo della Compagnia era in verità «Il Teatro di Eduardo con Titina De Filippo», e tale restò fino alla rinuncia di Titina al teatro nel ’54. Tuttavia il rilievo centrale dell’autore-regista-interprete nel «suo» teatro dal ’45 in poi è confermato dall’unica eccezione: Filumena Marturano; «scrissi Filumena proprio per mia sorella Titina. Ella era un po’ avvilita: mi aveva confidato di aver perso l'entusiasmo per il teatro anche perché il vero successo alla ribalta, diceva, è sempre riservato all’uomo, al primo attore», cfr. S. Lori, Intervista ad Eduardo, «Il Dramma», n. 11/12, 1972, p. 140. Per la commedia in esame come poi per le successive citiamo dall’ultima edizione einaudiana della Cantata dei giorni dispari (I-I-III voll.), Torino 1982: Napoli milionaria! è in Cantata dei giorni dispari, vol. I.

143

terpratazione, da Sik-Sik a Luca Cupiello, può essere finalmente approfondito dall’autore-attore-regista senza limitazioni. Da questo punto di vista «teatro di Eduardo» significherà anche «teatro del protagonista», secondo un disegno drammaturgico e spettacolare reso vario dagli spunti e dalle situazioni ma con una costante tipologica e semantica fondamentale. I conflitti che daranno origine alle diverse situazioni drammatiche sempre più tenderanno a risolversi nell’opposizione primaria fra un protagonista, riconoscibile al di là dei suoi attributi locali, e tutti gli altri personaggi. I quali, naturalmente, continuano a vivere anch'essi i loro conflitti intersoggettivi, ma si troveranno solidali nell’antitesi drammatica complessiva, che li contrappone costantemente,

come

un antagonista collettivo,

al personaggio-protagonista.

Al punto che si può individuare nel prosieguo della drammaturgia eduardiana una ritornante situazione conflittuale (come in ogni grande teatro d’autore): fra un Individuo, legato a valori ai quali non sa o non vuole rinunciare, e il Mondo degli Altri, che quei valori o ignora o rifiuta. D'altra parte, questo personaggio-simbolo non diventa mai astratto (sarebbe forse meglio parlare di personaggio-funzione), pur ponendosi o tendendo a porsi come interprete e mediatore di una condizione umana che supera i confini geografici e sociali, culturali, da cui è originato.

Bisogna comunque, per comprendere lo sviluppo del teatro di Eduardo dagli anni Quaranta in avanti, considerare l’evento e la sua esperienza fondamentale della guerra. «C'era il fronte fermo verso Firenze. C'era la fame, e tanta gente disperata [...]»; per l'Autore da sempre, ma ora specialmente, coinvolto nelle avventure e disavventure della sua città, dopo il ‘43 a Napoli e per Napoli non sarà più possibile rappresentare la «farsa» fine a se stessa. Non si possono, non si devono più esorcizzare i mali endemici e contemporanei, tantomeno la tragedia che colpisce un luogo-campione della dissoluzione morale e della distruzione materiale, con un «riso» puramenta liberatorio. Se il ‘teatro napoletano”’, come scrive Peppino, «essendo alla base essenzialmente comico e più spesso ‘‘grottesco’’, aveva bisogno,

per questo, in alternativa sapientemente equilibrata, di riflessi seri tra quelli buffi», Eduardo vorrà tuttavia testimoniare, accusare, la 2 Cfr. P. De Fiuppo,

144

Una famiglia difficile cit.

nuova malattia sopravvenuta a macerare il ventre di Napoli. Da uomo di teatro, naturalmente: «Quasi tutti i teatri erano requisiti. [...] Ot-

tenni il San Carlo per una sera»?, per rappresentare appunto Napoli milionaria!

Con quest'opera, di straordinario successo sia nell'immediato che nel «tempo grande», Eduardo non dà soltanto una testimonianza tempestiva e però limitata negli anni e nei luoghi: il dramma della guerra a Napoli vi è già rappresentato piuttosto come storia che come crona-

ca, e già per molti versi sono prefigurati i problemi del dopoguerra, non solo di Napoli. Vi s’avverte quella tensione al riscatto, implicitamente ricostruttiva, che accomuna le opere teatrali dei nostri autori del secondo dopoguerra (Betti, Landi, Bompiani, Giovaninetti, Ter-

ron, e Fabbri e Squarzina ...), anche nella loro disperata ricerca d’una colpa e d’una responsabilità che superino sia lo stadio individuale che quello collettivo. Mantenere

viva la «memoria»

del passato (un

passato assai prossimo) per poter comprendere e superare lo sconvolgimento del presente; e forse per essere capaci di cogliere, con chiarezza mentale, la profonda trasformazione che sta investendo il mondo, non trovarsi più impreparati di fronte ad essa: è l’istanza che muove il cosiddetto «teatro del rimorso» di Bompiani, e che sarà ri-

proposta, nell'unione delle tecniche del «teatro nel teatro» e del «teatro inchiesta», dal Processo a Gest (del ’55) di Diego Fabbri. Perché, se «delitto» c’è o c’è stato, «è anonimo», come scrive Bompiani nel-

l'introduzione



la lettera per Alberto

Savinio



ad A/bertina

(1945-48), e la guerra ci ha lasciati «tra volti scoperti e incerti senti-

menti»: la «violenza è dilapidatrice», livella e abitua gli animi. Bisogna reagire all’indifferenza (ch’era anche l’incubo di Betti), non rinnegare o semplicemente negare il passato. Se «l’uomo non può vivere senza valori» (Sartre), dopo la guerra solo il dolore può impedire l’indifferenza, ma «il dolore, perché sia partecipato da chi vi assiste», esige la presenza e non l’assenza della memoria!.

3 Cfr. Eduardo cit. da E. Biagi, La dinastia dei fratelli De Filippo, «La Stampa»,

5° aprile'1959. 4 Cfr. V. Bompiani, Introduzione ad A/bertina (Milano, Bompiani,

1945); ma

la commedia fu rappresentata a Parigi, nel ’48 (Teatro de la Huchette, cp. TothReybaz). Si può vedere in proposito il nostro Itinerari teatrali attraverso il "900 italiano cit., pp. 98-108 (vi si traccia anche un breve profilo del teatro eduardiano).

145

La stessa istanza muove; indubbiamente, anche Napoli miliona-

ria!, ed anche per ciò la commedia — scritta e messa in scena prima della conclusione della guerra — sembra proiettarsi già nel nostro clima storico e culturale postbellico. Di fronte alla «miseria» del maritoreduce, Albertina di Bompiani ritroverà la propria sicurezza: essa, in mezzo alle rovine, «ha salvato il suo sentimento», e può aiutare quell’uomo disperato, «senza vittorie»: l’autore, che con lei ha ricer-

cato nel passato l'origine dell’errore, del «delitto», potrà, alla fine del dramma, lasciare in sospeso una parola di speranza per il futuro. Una parola analoga a quella di Gennaro Jovine, il protagonista eduardiano: «... ha da passà ’a nuttata» (E dicendo questa battuta, riprende

posto accanto al tavolo come in attesa, ma fiducioso); tuttavia in questa battuta che concluse la commedia nel ’45 («scese il pesante velario, ci fu silenzio ancora, per otto, dieci secondi, poi scoppiò un applauso furioso, e anche un pianto irrefrenabile») si sente più concretamente l’avviso di quel sogno d’una palingenesi morale oltre che sociale che animerà tante opere (non tanto teatrali, non solo letterarie) immedia-

tamente legate alla liberazione, quando, passati gli anni bui del fascismo e della guerra, sembrava possibile sperare nel superamento positivo d’ogni «nuttata». Non a caso, nella successiva versione, operistica,

di Napoli milionaria! (il 22 giugno 1977 a Spoleto), l'Autore tolse la battuta: a significare che nel ’77 «'a nuttata» non era ancora passata?. Perché Eduardo, in questa ‘‘commedia storica’’, tende piuttosto alla rappresentazione realistica che alla resa emblematica di un’atmosfera, di un clima di coscienza. Se «tempo della coscienza» e «tempo scenico relativizzato» finiscono per coincidere nell’esito o nella terza parte dei drammi di Betti, facendoli scivolare quasi insensibilmente dal piano storico e contingente a quello più propriamente metafisico © Cfr. E. Mo, Eduardo cambia il finale del testo: «Napoli milionaria!» diventa disperata, «Corriere della Sera», 19 giugno 1977. L’opera è andata in scena per la XX edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto, con musica di Nino Rota; ma l’Autore aggiunge: «Specialmente nel terzo atto la musica [...] è una musica tragica che finisce in un oratorio che è una preghiera. E questo potrebbe essere un messaggio ottimistico»: cit. da E. Mo, Da Spoleto il grido di Napoli, «Corriere della Sera», 22 giugno 1977. Per l’interpretazione complessiva dell’opera eduardiana come testimonianza di «lotta» e non di «rassegnazione», si vedano i numerosi studi di F. Di Franco, da I/ teatro di Eduardo cit., al più recente «repertorio completo» Le commedie di Eduardo cit.

146

anche a livello di ambienti: il luogo e il tempo di Napoli milionaria! restano invece rigorosamente ancorati all’hic et nunc, alla resa prima ‘‘fabulistica’’ e poi ‘‘mitologizzante’’ delle situazioni, anticipando semmai sul piano dell’indagine scenica certi moduli espressivi che saranno propri del neorealismo del cinema e della narrativa dell’immediato dopoguerra. Dimostrando una sua sostanziale indipendenza dall’eredità pirandelliana — che invece continua a costituire un problema per i nostri autori del teatro di «situazione» e di «parola» —, Eduardo evade dal «realismo lirico e simbolico» di Betti o dalle formule varie di traslazione della Storia nel Mito (come in Sacrilegio massimo di Stefano

Landi, del °53), anche dalle tecniche innovatrici dei «tempi scomposti» di Bompiani, e porta sulla scena non un caso-limite, né un «fatto diverso», di cronaca, bensì l'avventura normale d’una famiglia napoletana nel suo attraversamento periglioso della bufera bellica; bufera che l’investe, imprimendole naturalmente una svolta scioccante e a suo modo rivelatrice. Il primo atto della commedia assume quindi un significato quasi di «prologo» a tutto il successivo periodo della produzione eduardiana: e proprio perché sono presenti in essa molti elementi caratteristici della precedente esperienza teatrale dell’ Autore. In questo senso possiamo intendere il suo avvertimento al pubblico in occasione della “prima” romana: con il primo atto di Napoli milionaria! si concludeva la «Cantata dei giorni pari», con il secondo cominciava la «Cantata dei giorni dispari»*. 6 Cfr. M.B. MicnonE, I/ teatro di Eduardo De Filippo cit., p. 111. Alla prima di Roma, al Salone Margherita, il 31 marzo

1945, Eduardo si affacciò alla ribalta

per dire che non avrebbe più fatto, semplicemente, del “teatro da ridere’: «Ogni anno di guerra ha contato come un secolo nella nostra vita di prima. Davvero non è più il caso di tornare a quelle vecchie storie» (cfr. anche R. DE MonTICELLI, Eduardo imprendibile scappa sempre via dal suo gran monumento, «Corriere della Sera», 24 maggio 1980). Per quanto, se consideriamo commedie come Uno coi capelli bianchi (’35), L'abito nuovo (’36), Io l’erede ("42), per non parlare di Natale in casa Cupiello,

incluse editorialmente nella Cantata dei giorni pari, si vede come lo stacco fra la prima (anteguerra) e la seconda (dopoguerra) fase non sia poi così netto. Il fatto è che in Eduardo è presente (da un certo momento in poi) «la volontà consapevole e attiva di comporre per la massa, non a divertirla, ma a comunicarle la propria visione del mondo» (cfr. G. PeTRONIO, Introduzione a Letteratura di massa, letteratura di consumo, Bari 1979). Vedi anche C. MusceTTA, Napoli milionaria!, in Letteratura militante, Firenze, Parenti, 1953.

147

Colpisce anzitutto la radicale e circostanziata ‘‘napoletanità’’ dell’ambiente (inteso nel suo senso più ampio), leggibile nel testo non tanto per l’avvertimento iniziale (l’azione ha luogo a Napoli) quanto nei nomi dei personaggi principali (Gennaro, Amalia, Maria Rosaria, Amedeo, Rituccia), nella nominatività connotativa di quelli di contorno (Errico «Settebellizze», Peppe «'o Cricco», Pascalino «’o pittore», «O Miezo Prèvete» ...), e specialmente nella didascalia di partenza:

"O vascio ’e donn’Amalia Jovine. In nessun’altra delle commedie precedenti, e in nessun’altra delle successive, si trova una didascalia in

dialetto. La sua presenza in Napoli milionaria! diventa quindi significante, rispondendo ad una precisa esigenza «informativa» dell’autore — e quasi ad una intrusione epica dell’attore — che dal piano del linguaggio passa a quello del continuum spaziale/scenico: difatti segue subito la lunghissima descrizione dell'ambiente, dove sono minutamente elencati, in lingua, i dettagli della scena. Enorme «stanzone» lercio e affumicato. In fondo ampio vano arcuato, con telaio a vetri [...], che dà sul vicolo. [...] In prima [quinta] a destra [...] «* a porta d’ ’a vinella». In fondo a destra un tramezzo costruito con materiali di fortuna che, guadagnando l'angolo, forma una specie di cameretta rettangolare angusta. Nell’interno di essa [...] oltre a uno strapuntino per una

sola persona,

tutto quanto serve al conforto

di una

minuscola e ridicola camera da letto. [...] Gli altri mobili li sceglierà il regista, ispirandosi al brutto Ottocento e curerà di disporli in modo da addossarli quasi l’uno all’altro, cercando di far sentire il disagio e la difficoltà di «traffico» cui è sottoposta la famiglia, talvolta numerosissima, costretta a vivere in simili ambienti [...]. Dal vano di fondo si scorgerà il vicolo, nelle prime ore del mattino, e i due battenti laterali dei bassi di rimpetto. Al centro di essi, un altarino di marmo eretto alla Madonna del Carmine dai fedeli abitanti del vicolo. Sulla mensola sottostante una piccola lampada votiva ad olio, sospesa (I, p. 7).

Assistiamo alla persistenza di questa costruzione topologica nel teatro eduardiano che ha come centro drammatico la «famiglia»: testimonianza reale-simbolica d’un genere di vita che s’apre costantemente ai rapporti coi vicini, spaccato naturalistico e contemporaneamente

sintomatico d’un continuo «traffico» di frequentazioni interfamigliari che, nella dialettica spaziale chiuso-aperto e nella dinamica scenica delle entrate-uscite, perfora o rende trasparente di per sé, senza il ricorso 148

a evidenti innovazioni tecniche, la scatola dell’interno domestico. Qui acquista rilievo, necessariamente, il versante sociale di tale costruzio-

ne: dalla minuscola e ridicola camera da letto ricavata provvisoriamente col #ramzezzo (di cui sentirà, tuttavia, la mancanza il protagonista dopo la trasformazione ampollosa della propria casa, nel secondo atto), al disagio e la difficoltà di movimenti cui sono sottoposti gli abitanti (e non solo questi) del vascio, alla intercomunicabilità (nel bene come nel male) dell’esistenza di ognuno con quella di tutti — da/ vano in fondo si scorgono i due battenti laterali dei bassi di rimpetto — che non ammette alcuna privacy. D'altra parte la consistenza realistica di questa composizione scenica non nasconde un’implicita rete di rapporti con le conquiste drammaturgiche del moderno teatro novecentesco: dove il «mondo degli oggetti» (come quello delle idee) ha acquistato un ruolo attivo, attorico e talvolta protagonistico nell’azione. Con la crisi decadentistica dei rapporti intersoggettivi fra gli uomini, si sono focalizzati piuttosto i rapporti fra l'individuo e le cose o anche tra i fatti e le loro motivazioni: oggetti e atmosfere, idee e retro-parole si personificano come funzioni dell’intreccio. Così l’ambiente partenopeo, in questa commedia, è sottolineato ulteriotmente (mediante la stessa didascalia) dal ‘‘sonoro’’ del vocîo confuso di persone che litigano, e che a poco a poco diventa sempre più distinto e violento, fino a che se ne distinguono le voci e le parole più accese:

ciò contribuisce a formare — scenicamente e semanticamente — la complementarità indissolubile «basso»-«vico», la quale vale ad esprimere, fin dall’apertura di scena, la dimensione corale della commedia. E ancora: l'attribuzione del «vascio» a «donn’ Amalia Jovine» non corrisponde soltanto ad una probabile consuetudine napoletana, ma assume subito, con l’azione, un senso specifico, alludendo alla situazione

di questa famiglia che fin dalle prime battute appare evidente. Il protagonista, capo di casa solo per l'anagrafe, nella situazione di partenza appartiene di nome ma non di fatto all'ambiente famigliare che lo circonda; all’inizio parla fuori scena, «nun s’è scetato ancora», dalla cameretta di fortuna [...] si ode insieme ad uno strano suono umano che sembra un grugnito, la voce fioca, impastata di sonno di Gennaro (did. I, p. 8): il risveglio è sempre un’operazione difficoltosa per i “sognatori” eduardiani. È anzi l’ambiente che non appartiene a Gennaro: né la casa, attribuita appunto dalla vox populi alla moglie; né i figli — Maria Rosaria fa un cenno al fratello come per dire: «Non 149

dargli importanza». Allude al padre; Amedeo: «Papà, stàteve zitto ... Vuie freve stunato, ma mo ve site fernuto ’e rimbambi ...»; e Rituc-

cia, che ha «cinch’anne», ripete la cantilena: «Papà è fesso! Papà è fesso!» (I, p. 9 e p. 15). Gennaro Jovine appare svagato ben oltre i suoi cinquant’anni, «pecché siccome ha fatto l’altra guerra», quando è tornato, «a capa nun l’aiutava cchit ...», e del tutto emarginato dalla conduzione e dalla vita famigliare, nella quale egli ha la funzione simboleggiata, in certo modo, dal ruolo assegnatogli nella pantomima finale dell’atto: «il finto morto». Tagliato fuori anche dalla vita sociale a causa della smobilitazione dell’azienda tranviaria, per cui lavorava prima della guerra, non è lui a mantenere la famiglia, quindi nessuno lo considera e lo stima. L’attivismo e il carattere battagliero — invece — di donn’Amalia vengono anticipati abilmente dall’autore attraverso la lite che avviene fuori scena — sulla cui origine sono i figli, coi loro commenti, ad informare lo spettatore. È la donna a portare i pantaloni in casa (si ricordi la situazione analoga di Natale in casa Cupiello): riserva ai figli quel controllo superficiale della loro moralità che è solitamente prerogativa dei padri — « A sera t’he ’a ritirà ampressa!», alla figlia, e nel dir ciò fulminaneamente le dà un manrovescio piantandola poi in asso e dandosi da fare attorno in faccende (I, p. 13) —, presa del resto dalla sua attività di piccola spacciatrice di merce di contrabbando, con la quale soprattutto provvede alle necessità economiche della famiglia. Il contrasto (o l'inversione di ruoli) fra i due coniugi è evidenziato anche dall’immagine fisica che di loro danno le didascalie: lui è un uomo sui cinquant'anni, magro, patito, il suo disarmo è accentuato

dall’abbigliamento con cui compare in scena: in maniche di camicia, col pantalone sommariamente abbottonato e le bretelle penzoloni (I, p. 11); lei è una donna sui trentotto anni, ancora piacente. Il suo modo

di parlare, il suo tono e i suoi gesti dànno subito l'impressione di un carattere deciso, di chi è abituato al comando.

Il suo abbigliamento è

costituito dal necessario indispensabile. Qualche punta di vanità si nota solamente nelle calze che sono di pura seta. Ha degli occhi irrequieti:

tutto vedono e osservano (I, p. 11-12). Si potrebe aggiungere: «tutto vedono e osservano» di ciò che rientra nella sfera pratica dell’esistenza, le sfuggono infatti le idee, le motivazioni che stanno dietro alle azioni, gli stati d’animo di chi 150

la circonda; al contrario del marito, che non è un Luca Cupiello e

nella sua emarginazione, nella sua impotenza al comando, conserva una capacità di osservazione più acuta, più profonda. Quasi lungimirante. Lo vediamo (e lo sentiamo) per la prima parte dell’atto comparire e sparire, intervenire dal o dietro /a tenda della sua cameretta come una specie epica di «pupo»:

spesso a proposito e con ragione.

Soprattutto quando cerca di contrastare la ‘‘filosofia’’ del figlio indotta dalla madre («Arruobbe tu? Arrobbo pur’io! Si salvi chi può!»): «No, fino a che ce stongo io dint’ ’a casa, tu nun

arruobbe!»

(I,

p. 10). Relegato spazialmente in un angolo di fortuna, e temporalmente nel passato («Site ‘e n’ata època», I, p. 9), egli tenta di contrastare, coi ragionamenti, il modo per cui la sua famiglia si sostiene, «stu fatto ca he ’a campà ’e pàlpite»: «Il caffè che voi vendete tre lire ‘a tazza, ‘o contrabbandiere ca ’o vvenne a vvuie addé ’o ppiglia? Non lo sottrae alle cliniche, agli ospedali, alle infermerie militari? ...» (Ibid.); ma di fronte alla precisa domanda della moglie, «E allora che s’ha da fa’?», perde il filo del discorso perché i suoi ragionamenti non tengono più: #07 sa più dove parare con le sue argomentazioni; cedendo ad una ineluttabilità, dichiara con un tono umano, comprensivo, «Ama’, stàmmece attiente ...», si alza e fa per andare (I, pp. 24-25).

Comunque le didascalie di presentazione dei personaggi hanno anche un’altra funzione, oltre quella di darne i connotati psico-fisici: l'Autore parla per esse e vi rivela un atteggiamento non imparziale

ma apertamente favorevole al marito. La presentazione didascalica dei due maggiori antagonisti, Gennaro e Amalia, che nel testo precede l’azione, sbilancia dalla parte di lui in senso moralistico — la prospettiva della commedia: a Gennaro è attribuito il volto chiaro dell’uomo profondamente onesto, che però molto ha imparato dai disagi e dalle «malepatenze» (I, p. 11); Amalia è invece subito annunciata come avida negli affari, dura di cuore; talvolta maschera il suo risentimento per qualche contrarietà con parole melate, lasciando però indovinare il suo pensiero alla ironia dello sguardo. Lo stesso tocco finale,

è accaldata e furibonda (I, p. 12), pur essendo riferito all’azione in corso, lascia trapelare l’antipatia di Eduardo, la cui identificazione con Gennaro è destinata ad emergere nettamente in seguito (nel secondo

e nel terzo atto).

Non sarà il solo caso di procedimenti analoghi nell’ambito della drammaturgia eduardiana: come se l’Autore, concedendo all’ Azione ibi

l’onestà dell'equilibrio fra le parti, si riservasse tuttavia un suo spazio interpretativo (potenzialmente registico) nelle didascalie, con una punta di rivalsa «epica» — come già in Natale in casa Cupiello — sulla pur voluta obiettività della Rappresentazione. Sarebbe però riduttivo intendere l'opposizione semantica, che costituisce il nucleo ‘‘drammatico’’ di quest'opera, come conflitto coniugale (Mignone parla addirittura di un «dramma a due protagonisti»)7, appunto perché l’antitesi è fra opposte Visioni del Mondo. Da una parte sta Gennaro, ma dall’altra non solo Amalia, bensì il resto

della famiglia e tutti i frequentatori del basso, gli abitanti del vico. Solo in questa luce si coglie l’insieme della situazione drammatica simulata dal testo e dalla rappresentazione: fuori-dentro lo spazio angusto ma permeabile dello stanzone lercio e affumicato si muove un’umanità composita ma in fondo socialmente complementare nella sua complessiva emarginazione: un mondo di tranvieri e di tassisti disoccupati, di operai del Gas sul punto di essere «mandati a spasso» (come Amedeo e il suo compagno Federico), di gente che con la tessera «nun po’ campa’» e allora si arrangia con la borsa nera, o peggio ..; ci sono anche, naturalmente, due loschi figuri come Pascalino

‘o

pittore e *O Miezo Prèvete, i quali sono chiamati e accorrono insieme, come il Gatto e la Volpe, quando ce n’è bisogno per qualche birbonata. Il commercio di Amalia richiama nel basso — dove si consuma tuttavia, in un clima più disteso, il tito mattutino (ma pagato a caro prezzo) del «caffè» — anche personaggi di diversa estrazione ma di simili necessità: Peppinella, signora scaduta, umile, dimessa, con un sorriso di compiacenza rassegnata (I, p. 12), e Riccardo, tipo d’impiegato, benestante, modesto e dignitoso, con il giornale fra le mani, che leggicchia (I, p. 20); tuttavia anche lui, «con tre bambini [...] lo stipendio

è quello che è ...», si presta allo strozzinaggio di donn’ Amalia, impegnando un orecchino della moglie pur di procurarsi «zucchero», «ciucculata», «pastina bianca» (I, p. 23).

I personaggi di una Città eterogenea, e perciò emblematica, finiscono per affollare il luogo deputato del famigliarismo eduardiano, che può essere assimilato ad un palcoscenico concentrico. Come si è avvertito, il punto d’osservazione interno consente al teatro di Eduardo

? Cfr. M.B.

152

MiGnONE,

op. cit., p. 101.

di rispecchiare anche il modo di vivere esterno: «interno» sui generis, ché, dall’enorme stanzone lercio e affumicato nel basso di Napoli milionaria! alla stanza di passaggio che divide tutti gli ambienti nell’appartamento alto-borghese di Mia famiglia (1954), si tratta sempre di uno spazio aperto e di transizione, un crocicchio di problemi comuni, in cui i famigliari, ma non solo i famigliari, anche i vicini e gli amici, si incontrano di continuo, si intrattengono o si scontrano. Tutta Napoli si incontra ne ’o vascio ‘e donn’Amalia Jovine, o

meglio «quella Napoli sempre in lotta con la vita di tutti i giorni, impregnata di mille problemi sociali grandi e meschini. Quella Napoli nella quale popolo e piccola borghesia, l’uno per un verso, l’altra per un altro, ma con l’unico scopo di voler sopravvivere, sapevano di poter andare a braccetto lungo le strade del loro destino ... tra un temporale e ... una giornata di sole!»8: solo che qui giornate di sole, giorni pari, non spuntano più, c’è la bufera! Il mondo di tutti quanti è fatto di aggressività oppure di sotterfugi, di furbizie, di piccoli ricatti, di una quotidianità che rifiuta la riflessione e il suo linguaggio: non a caso l’unico a parlare è proprio Gennaro, nel suo improvvisato

comizio filosofico ‘‘alla napoletana”, che costituisce il suo ‘‘numero’’ verbale, il momento

centrale e l’unico di sosta dell’atto.

Secondo te perché si fanno le guerre? [...] Pe’ fa’ spari ’a rrobba! [...] E il calmiere? [...] Calmiere. [...] Pare bella pure ’a parola: calmiere. Tu dici: questa è una cosa che ti vuole calmare ... Tu qua’ calmare? Quella è l’origine di tutti i mali. Pecché, quanno tu, governo, miette ’o calmiere, implicitamente alimenti l’astuzia del grossista e del dettagliante ... Succede ’o gioco ’e prestigio (accompagna quest’ultima frase con un gesto come a voler dire: il furto) e il povero consumatore tiene tre vie d’uscita: o se more ’e famma, o va ’a lemmòsena, o va ngalera A Il calmiere, secondo me, è stato creato ad uso e consumo di certe tale e quale persone ... che sol perché sanno tènere ’a penna mmano fanno ’e prufessore, sempre a vantaggio loro e a danno nostro. Danno morale e materiale; quello morale prima e quello materiale dopo ... E me spiego. Il calmiere significa praticamente: «siccome tu non saie campà, lèvate ’a miezo ca te mpar’'io comme se campa!» [...] E il loro interesse di dire che il popolo è indolente, è analfabeta, nun è maturo 8 Cfr. P. DE Fiuppo, op. cit., pp. 225-226.

153

... E tanto fanno e tanto diceno, ca se pigliano ’e rrétene mmano e addeventano ’e padrune. In questo caso ’e prufessure songo ’e fasciste ... (S’interrompe, come improvvisamente pavido; ai presenti) Guagliu’, date n’uocchio fore, ca ccà, se mi sentono, mi facite passà nu guaio

... [...] Popolo e prufessure se mettono allora a dispietto. ’E prufessure pigliano provvedimente pe’ cunto Iloro e ’o popolo piglia pruvvedimente pe’ cunto suio. E a poco a poco tu hai l'impressione ca niente t'appartiene [...] ma ca è tutta proprietà ’e sti prufessore. [...] Po”,

in queste condizioni, se fa ’a guerra. «Chi popolo», diceno ’e prufessure. «Ma chi l’ha re», dice ’o popolo. Si ’a guerra se perde si se vence, l’hanno vinciuta ’e prufessure.

ha voluto ’a guerra?» «Il dichiarata?» «E prufessul’ha perduta ’o popolo; e Voi mo dite: ma che c’en-

tra questo discorso [...]? E c'entra. Perché il calmiere è una delle for-

me di avvilimento che tiene il popolo in soggezione ed in stato di inferiorità. Il mio disegno di legge sarebbe quello di dare ad ognuno una piccola responsabilità che, messe insieme, diventerebbero una responsabilità sola, in modo che sarebbero divisi in parti uguali, onori e dolori, vantaggi e svantaggi, morte e vita. Senza dire: io sono maturo e tu no! (I, pp. 16-19).

È un lungo discorso, che riportiamo quasi per intero perché invita ad alcune considerazioni importanti, non solo per i contenuti ma anche per la sua funzione drammaturgica e scenica. Incorniciato nell'operazione d’una rasatura mattutina — davanti a un piccolo specchio appeso al muro del tramezzo —, incomincia per scherzo, su provocazione di uno dei convenuti per il caffè, e poi si snoda seriamente per il fervore e il gusto sentenzioso di chi lo pronuncia, che sempre più si appassiona sia al ruolo centrale, per una volta interpretato, sia agli argomenti introdotti e ‘‘sviscerati’’ — la mancanza dei generi, il calmiere, i professori governanti e il popolo, la guerra ... —, nonostante venga continuamente interrotto dall’entrata in scena di nuovi personaggi. Ma sempre ripiglia il filo, cavilla e sunteggia, in quello che è essenzialmente un «monologo» autoriflessivo e autocompiaciuto (da sé si fa le domande e da sé si risponde). Anche il suo linguaggio è speciale: infatti parte del discorso è svolto in lingua, come si conviene ad un «trattato». Tuttavia non si ravvisa qui la contraddizione grottesca fra il voler essere e l’essere che caratterizza, in altre comedie in dialetto, la pretesa italofona dei parlanti. Il passaggio anzi non è neppure sottolineato, come se l'Autore parlasse per bocca del suo 154

protagonista e trattando di temi di interesse generale eliminasse, lui stesso, le difficoltà che il dialetto avrebbe potuto costituire per un pubblico ampio, non specificamente partenopeo. D'altra parte, che si tratti di un «antilinguaggio», rispetto alla media comprensione dell’uditorio scenico, è rilevato dai commenti

scherzosi, dalle proteste

di dire più in fretta, dalla confessione finale, riassuntiva, di Peppe: I presenti hanno ascoltato con attenzione e sembrano convinti. Soltanto ... Peppe (candidamente) — Don Gennà, io nun aggio capito niente

e soprattutto dall’atteggiamento di Amalia (che durante la scena non ha dato soverchio peso alle parole del marito, occupandosi invece di cose ovvie, interviene ora per consigliare a Gennaro

di mutare argomento): Fatte ’a barba e ferniscete ’e vèstere! (I, p. 19).

Il ‘‘parlare’”’ di Gennaro suscita incomprensione, fastidio o, nel miglior caso, ilarità e commiserazione; quando, come nel «ragioniere» che pure «sta vestito scuro», non provoca timore: RiccaRDo «Io non parlo con nessuno. Non so niente» (I, p. 21).

D'altra parte la natura di outsider del protagonista non gli consente ancora di opporsi ai «traffici» organizzati dalla moglie, di cui finisce per divenire complice: ma a modo suo, perché, se non può parlare, il ruolo del «finto morto» è quello che interpreta meglio. Come

nella scena finale dell’atto, dove con l’immobilità e il silenzio

più assoluti Gennaro riuscirà a vincere la gara psicologica col brigadiere, sotto l’infuriare dei bombardamenti.

È la scena forse più memorabile della commedia: il ‘‘numero” fisiomimico del protagonista, potenziato sia da una sapiente regia (a un doppio livello, «tematico» e «formale») dell’insieme collettivo, sia dal corrispondente livello creaturale e funzionale dell’antagonista, il brigadiere Ciappa: andamento rude e sguardo acuto. Conosce il fatto suo. La pratica e l'aver conosciuto durante la sua carriera uomini e cose

gli hanno temprato l'animo (I, p. 31). Scena-modello, conclude con equilibrio perfetto il primo atto: per il suo studiato ma non artificioso dosaggio di spunti farseschi e di situazione drammatica. Non si tratta di un alternarsi esteriore di comico e di tragico, piuttosto della compresenza-complementarità di entrambi, resa possibile dalla misura con cui (già nel testo) l’autore 155

svaria o smorza i toni più alti del dramma senza peraltro disperderne l'impressione e la presa sul pubblico. AI preannunciato arrivo della polizia, il basso si trasforma rapidamente in una camera ardente (è l’usato e disinvolto «commercio coi morti» partenopeo), secondo un copione già collaudato che prevede l’azione d’una «crisi di cordoglio» famigliare e interfamigliare. Ognano prende ordinatamente posto, come se fosse già concertato, formando

il più desolato e tragico quadro (did. I, p. 30): il grande letto-bara col «cadavere» di Gennaro vegliato dai parenti in lacrime, dai vicini condolenti, perfino da due «monache» (le cui orazioni, però, vanno sempre più assomigliando a «delle bestemmie»), alla luce dei tradizionali quattro ceri. La finzione e il travestimento collettivo costituiscono quasi un omaggio alla ‘‘napoletanità’’, intesa come arte d’arrangiarsi (concetto che diventerà quasi leggendario in tanto cinema e in tanta letteratura del dopoguerra) ma anche come disponibilità spontanea, soprattutto popolare, a coalizzarsi in difesa del malcapitato (in questo caso, di turno è la famiglia Jovine, dalla quale pure più d’uno dei finti «dolenti» subisce i quotidiani ricatti). Le giaculatorie che fanno da sottofondo sonoro al concitato dialogo fra il brigadiere e i famigliari del «morto», quasi parodistico coro greco, acquistano via via un ritmo più incalzante, un tono più minaccioso, che valgono a far pesare sui poliziotti la presenza della collettività: ADELAIDE (con macelato sguardo d’odio verso Ciappa e con dispetto) Diasillo, diasillo .../ Signore, pigliatillo... (Le due «monache» accentuano le loro preghiere blasfeme, in modo pit che percepibile ...) Cavaliere della Croce, / ascoltate la sua voce .../.../ dacci un segno di clemenza ...| dacci un segno di clemenza... (Ne/ proferire l’ultimo versetto accentua un’intenzione

realistica applicata alla situazione)

(I, pp. 33-34).

Come abbiamo già osservato altrove, il motivo del «travestimento» è divenuto «metafora», eminentemente teatrale, di quel clima di

sfiducia nella totalità della persona umana (con la conseguente scomposizione dell’unicità del punto di vista) che percorre la letteratura e lo spettacolo del Novecento: dal travestimento storico-mitologico del ‘“dramma borghese”, operato, involontariamente, dal ‘‘teatro di poesia” agli inizia del secolo (con d'Annunzio,

Benelli e Morselli),

alla mascheratura cosciente, tragica o grottesca, della realtà contem156

poranea nei drammi di Pirandello (Enrico IV), di Bontempelli (Nostra Dea) e di Rosso di San Secondo

(Lazzarina fra i coltelli). Tuttavia

la Koinè e il senso eduardiani di questa finzione scenica-nel teatro ci paiono situabili su un versante ‘‘altro’”’. Non solo perché fanno capo, indubbiamente,

alle tecniche dei travestimenti

farseschi del teatro

«popolare-dialettale» napoletano (ripensiamo a Le nipute de nu sinneco di Scarpetta padre), o a quelle antesignane, anche in questo senso, della Commedia dell’ Arte. Collegandosi qui direttamente all’«esibizione scenica», alla «struttura drammatica», dei rituali funerari delle

civiltà religiose mediterranee, e anche di quelle del mondo antico (di cui la cultura popolare napoletana conserva numerosi «relitti folclorici»)!°, pur nello strumentale travisamento parodico, il nesso drammaturgico spettacolare finzione e travisamento dell'evento luttuoso — teatro nel teatro acquista uno speciale spessore, e sapore, semantico. Istrio-

nismo e confidenza «regolata» coi morti presentano piuttosto valenze antropologiche, istintuali, che intellettualistiche, concorrendo anch’essi a quel ripristino dell’uomo in quanto totalità psico-fisica, e quindi del personaggio-uomo, che Eduardo tutto sommato persegue (controcorrente, e nella direzione opposta a quella pirandelliana) con la sua fiducia nel teatro come testimonianza non della finzione della realtà ma della esemplarità realistica della finzione. Tanto più che, soprattutto nel prosieguo della scena — quando fra i sibili ad intermittenza della sirena d’avvertimento e l’unico suono prolungato della sirena per

il «cessato allarme» si fa quasi il vuoto ed un silenzio terrificante, interrotto solo dai tonfi sordi delle bombe che cadono sulla città, attorno

al finto morto e al suo custode legale —, il costante equilibrio tra farsa e dramma consente una comicità gravata da toni cupi e giocata, in un senso, sulla ‘‘finzione della tragedia’ e sulla consapevolezza,

da parte del brigadiere, di tale finzione, e nell’altro sull’incombere della ‘tragedia reale’, rappresentata dal bombardamento in atto. ‘Dalla puntigliosa ma quasi-eroica fedeltà di Gennaro al suo ruolo (che pure dipende da una ineluttabile rassegnazione) traspare una grandezza che eleva il Protagonista a dimensioni epiche, e alla quale lo stesso Antagonista deve rendere omaggio:

? Cfr. A. BarsotTI, Pier Maria Rosso di San Secondo cit., p. 109. 10 Cfr. E. De MARTINO,

Morte e pianto rituale cit., p. 109.

14

Ciappa Bravo! Overamente bravo! Tu non si’ muorto, ’o ssaccio.

Ne so’ sicuro. Sott’’o lietto tiene o contrabbando. Ma nun t’arresto. È sacrilegio a tuccà nu muorto, ma è cchiù sacrilegio a mettere ‘e mmane ncuollo a uno vivo comme a te. Nun t’arresto! [...] (I, p. 36).

All’interno d’un movimento da farsa, per vis corzica non inferiore alla tradizione sancarliniana, trova spazio la resa d’un comportamento da «eroe non tragico», al tempo stesso del tutto novecentesco e tipicamente napoletano. Capace di evitare la retorica del quotidiano, ma anche la tentazione crepuscolare, scegliendo anzi il linguaggio della rappresentazione comica, l’autore restituisce qui come altrove ed esalta i momenti eroici degli umili. Naturalmente in questa, come in altre scene ‘a protagonista”, l’importanza dell’attore non è meno decisiva di quella dell’autore che, tuttavia, rivela fondamentali doti

di drammaturgo-regista dettando nel testo, attraverso l’ampio spazio delle didascalie, i dettagli dell'andamento scenico e quelli della controscena muta all’interprete (a misura del quale, d’altra parte, ha costruito il personaggio e la situazione). E comunque l’insieme di questa composizione fornisce una testimonianza delle capacità di simulazione artistica dell'Autore, nel far vivere a teatro recenti esperienze che lo avevano toccato profondamente (e anche personalmente), con una partecipazione critica e quasi un disincanto che gli consentono, a pochi mesi di distanza, di rappresentare già come storia i dolorosi momenti di una cronaca ancora bruciante. (Come nel racconto con cui ’O Miezo Prèvete riporterà a Genna-

ro, nel terzo atto, la morte della moglie: «Muglierema murette sott’a nu bumbardamento ... Don Genna’, una cosa mondiale [Ricostruendo la scena apocalittica del sinistro] Stevemo sott’ ’o ricovero, comme stammo io e vuie, ‘o vvedite? Fore cadevano ’e bombe e nuie ce stévamo appiccecanno. «E statte zitta, — dicevo io, — ’a gente sente!» E

chella ... [Per indicare la loquacità irrefrenabile della moglie] E teretà ... teretù. A nu cierto punto cadette proprio ’o lato addé steva essa ... Un attimo, don Genna’. E ’a miez’’e pprete avette sulo ’o tiempo ‘e dicere: «Quann’esco

’a ccà sotto, parlammo!»,

III, p. 84).

Tra il primo e il secondo atto passa del tempo: la didascalia avverte: Lo sbarco alleato è avvenuto (II, p. 37). Durante questa pausa

scenica è avvenuta anche la scomparsa del protagonista: non se sa 158

più nulla. Una scomparsa che richiama, in senso antropologico, la morte simulata del neofita che nei riti arcaici di iniziazione prelude alla resurrezione, alla maturità. Gennaro ha passato il limite (a differenza di Luca Cupiello) che separa il suo «microcosmo» (e cioè l’emarginato mondo del vico e del vascio, d’una Napoli che vive alla giornata anche in tempo di guerra, avvezza a destreggiarsi fra pericoli quotidiani e miseria, senza che possa o voglia guardare più in là) dal «mondo grande», dell’Italia sbattuta dai bombardamenti e poi dall’andirivieni degli eserciti stranieri. E stato proprio l’attraversamento del limite a procurargli i maggiori pericoli (la sua ansia gli narratore epico è palese) ma anche le maggiori esperienze: l’eroe ritorna e cambiando il suo essere tenta di reinserirsi nel suo mondo; un mondo, però, che neppure nella situazione di partenza gli apparteneva completamente.

Nel suo improvviso riapparire egli porta su di sé e dentro di sé i segni del redivivo: [...] zel vicolo si avverte un movimento insolito: si ode un mormorio di voci. Qualche cosa di eccezionale deve essere avvenuto. [...] Finalmente

un coro di voci si leva per tutto l'abitato come per una festa. Una voce isolata prende il sopravvento: «Don Genna’, ccà tutte quante ce credévamo ch’freve muorto!». Finalmente si ode la voce di Gennaro, emozionata. GENNARO (voce interna) E invece sono vivo e sono tornato (II,

pi 599)

È l'avvenimento fondamentale del testo: il «fatto che ha avuto luogo sebbene non dovesse avvenire»!!; e si colloca al centro della struttura dell’opera. Come l’eroe fiabesco, anche Gennaro dovrà assolvere ancora dei «compiti difficili» prima che il suo nuovo essere

possa finalmente fondersi con l’ambiente!?. Il suo ritorno è come «in incognito», egli riappare travestito, ma i suoi panni di fortuna questa

volta recano i segni di una storica ‘‘realtà’’: il berretto è italiano, il pantalone americano, la giacca è di quelle a vento dei soldati tedeschi ed è mimetizzata (did. II, p. 56). Bisogna che l’ambiente stesso si rinnovi, solo nell’apparenza si è trasformato: la «Napoli milionaria»

11 Cfr. Ju. M. LoTman, La struttura del testo poetico cit., p. 277. 12 Cfr. JA. V. PropP, Morfologia della fiaba cit.

169

del secondo atto, rappresentata dalla «sciccheria» fastosa della casa (non più ’o vascio) di donn’Amalia Jovine, col suo vistoso e cattivo gusto di parvenu, è finta, più finta di quella che nel primo recitava «pe’ magnà». L’unica, autentica trasformazione è quella del protagonista: nella coscienza più larga da lui acquisita che «’a guerra nun è fernuta». Anche le voci confuse dei venditori ambulanti che si udranno dal vicolo danno solo la sensazione che c’è la libertà e i generi alimentari si smerciano in abbondanza, ma ricordano —

avverte l’Autore nella

lunga didascalia iniziale — i tempi della vecchia Napoli borbonica (did., II, p. 37). Infatti, come si comprenderà dallo svolgimento dell’azione, il recente benessere di casa Jovine è frutto degli ormai fiorenti traffici di Amalia, favoriti sia dalla situazione storica della città (l’arrivo degli

Americani ha messo a disposizione una vasta quantità di beni commerciabili illecitamente) sia dalla scomparsa di Gennaro, che ha reso più intenso il rapporto della moglie con il socio Errico Settebellizze; anzi, per l'assenza del marito, la società d’affari fra i due sta per

sfociare in una relazione amorosa. Ancora una volta la donna esprime nell’aspetto e negli atteggiamenti il mondo di tutti gli altri: tutta in gingheri, tutta preziosa, con un’aria fors'anche più giovanile. [...] Amalia prende dalla toletta una grossa bottiglia di acqua di colonia [...] versa un po’ di liquido nel cavo della mano sinistra e lo cosparge intorno, sui mobili e sul pavimento (did., ibidem). È l’acqua santa d’una ricchezza malguadagnata. Così Maria Rosaria, în un variopinto abito estivo con sandali capresi (II, p. 39), Amedeo anch'egli in ghingheri (II, p. 47), e il Settebellizze, che indossa un vistosissimo abito chiaro, porta

scarpe gialle, cravatta a colori vivaci, fiore all'occhiello (II, p. 44): gli «abiti nuovi» nel teatro di Eduardo diventano segni di una metamorfosi solo esteriore, quando non sono jellati. Pensiamo al povero Crispucci, al collasso che lo coglie mentre è infagottato nel suo abito nuovo come in una camicia di forza, e poi al vestito tutto d’argento, col cappello piumato da Capitan Generale, che sarà fatale a Tomaso d’Amalfi (1963), facendogli perdere quei caratteri di autenticità e di disinteresse che lo rendevano caro al suo popolo. Travestiti da condolenti nella farsa tragica del vascio, i personaggi del vico erano veri; vestiti a nuovo, d’un nuovo vistoso e volgare, sono falsi. La commedia che recitano ora è incosciente e pericolosa: soprattutto per la famiglia Jovine. Amalia, resa più avida e «dura di cuore» dalla fortunosa e repentina ricchezza, sta per macchiare 160

l'onore coniugale (i valori morali del Sud sono sempre presenti nel famigliarismo eduardiano); i figli maggiori, sia per la diminuita credibilità e autorità della madre sia per lo sbando in cui versa Napoli, hanno perduto o stanno per perdere ogni ritegno morale (sapremo che Maria Rosaria è incinta di un soldato americano, che l’ha abbandonata, e Amedeo è coinvolto in una serie di furti). L’assenza di Gennaro — l’unico col suo idealismo ‘‘irreale’’ a

contrapporsi, sia pure solo come elemento d’ingombro, a un sistema di valori egoistico e arraffone — ha tolto di mezzo uno degli elementi dell'opposizione semantica fondamentale. È tuttavia significativo, a livello drammaturgico, che nella prima parte del secondo atto trovi spazio un nuovo personaggio, ‘‘minore’’ ma funzionale: Assunta. Veste di nero: anche gli orecchini saranno neri. È un lutto da donnetta del popolo. Ragazza sui ventiquattro anni, sincera, aperta, un po’ svagata (com’era svagato Gennaro). Infatti, lo vedremo in seguito, parla senza

badare a quello che dice (come sembrava agli altri che parlasse Gennaro). Naturalmente questa sua ingenuità genera spesso imbrogli, dissidi e gaffes (did. II, p. 38). ‘“Carattere’’ secondario, che conserva gli attributi d’un ruolo farsesco (anche nei tic: per cavaersela, allora, con un sorrisetto che è causa di una conseguente risata isterica, irrefrenabile,

conclude l’interrotto discorso dicendo: «Già ... ah, si ...»), sostituisce il protagonista (finché egli non ricompare) nella funzione di contrappunto, questa volta involontario, al mondo di Amalia. L'Autore non

delega ad altri che al suo alter-ego drammaturgico l’espressione della propria We/tanschauung; tuttavia non lascia senza contraddittorio la “Ilogica’’ di Amalia, alla quale oppone il ‘‘candore’”’ (pretestuoso) di questa sincera «donnetta del popolo». Ricordiamo il ‘‘pazzo’’ Michele Murri: è a queste figure che Eduardo affida un ruolo di inconsapevole o stravagante

‘‘saggezza’’.

L’unità della famiglia Jovine, comunque, dopo la sparizione forzata di Gennaro, ha subito colpi più duri dalla liberazione che dai bombardamenti, dall’avventurosa ricchezza che dalla solita miseria: ognuno dei suoi membri ha seguito una propria strada, pur restando

all’interno del campo semantico iniziale, fatto d’avidità e d’egoismi, di ricerca di beni effimeri e d’indifferenza ai valori ideali. La ricomparsa del «finto morto» — Eduardo, qui come altrove, usa la tecnica della «concatenazione» — viene ad interrompere (sottolineandolo) un momento di forte tensione famigliare: l’alterco, le reci161

proche accuse, fra madre e figlia; e ripropone il rapporto d’opposizione/incomunicabilità fra il protagonista e gli altri. Situata al centro del l’opera, imprime al testo la svolta dinamica che seguiterà anche nel terzo atto, senza più cesure spaziali (La stessa scena del secondo atto) e temporali (I/ giorno dopo ... È sera inoltrata, did., III, p. 727) di rilievo: dovendo scandire scenicamente il percorso della commedia, bisognerebbe rappresentarla in due tempi. L'atteggiamento e l’abbigliamento stesso (già evidenziato) dell’essere nuovo che varca, inaspettatamente, la soglia di casa (e quella del vico, la cui partecipazione corale all'evento ripropone l’osmosi vascio-vico), lo pongono in subita antitesi, visiva e gestuale prima ancora che verbale, col mondo finta-

mente fastoso che lo circonda. Il suo vestito a pezzi ‘‘internazionali’’, non solo richiama la maschera, ma anticipa l'atteggiamento di diffusa pietà per tutte le vittime della guerra, accomunate al di là d’ogni schematismo amici-nemici, che l’autore esprime mediante il “suo” personaggio; «E

quanta! muorte

mas Eallorosele.-nuostety.

alla

muorte so’ tutte eguale ...» (II, p. 60). Egli è subito solo, come entra: quasi un essere lunare con quel suo involto di stracci e la scatola di latta di forma cilindrica, arrangiata con un filo di ferro alla sommità, che gli serve come

scodella per il pranzo

(did., II, p. 56).

La coscienza della propria diversità si manifesta dapprima nella meraviglia che lo fa esitare nel varcare la porta di casa, nel riconoscere la moglie — ancora una volta l’autore sfrutta al meglio la tecnica farsesca per rilevare contenuti profondi: [...] convinto d’essersi sbagliato di porta, fa un gesto di scusa alla donna, dicendo rispettosamente: «Perdonate,

signora» ... (Ed esce) (Id.).

L’incontro fra i due coniugi, che al di là dell’impaccio iniziale non manca di tenerezza (persino di un riconoscimento umano e anche solidale da parte di lei), ribadisce tuttavia il primitivo contrasto, accentuato qui dai più palesi effetti che il diverso vivere l’esperienza bellica ha avuto su di essi. Tanto è vero che la prizza a riprendersi è Amalia (II, p. 57). Gennaro invece, ripiombato improvvisamente nel suo mondo di partenza, ma in un mondo trasformato nei suoi

connotati materiali, spaziali — «E ’a càmmera mia?», anche il suo povero angolo privato è stato «levato ’a miezo», come lui (II, p. 58) —, stenta, come chi si risvegli, a riconoscerlo: e stenterà sempre di più, con sempre maggiore coscienza di non essere lui a sognare (sta-

volta) ma gli altri. 162

Il suo racconto è epico, pur senza coloriture eroiche (sempre dal punto di vista Lasso: quelle «mele» perse durante il bombardamento ancora crucciano il narratore!), e in tre pagine di monologo riassume

quasi due anni di guerra: vissuti là, nel mondo grande, dopo quel colpo in testa che, significativamente, gli ha fatto perdere il senso dello spazio e del tempo, dei limiti geografici, degli anni che sono divenuti «nu sèculo ...», fra deportazioni, campi di concentramento,

fughe disperate («Meglio la morte! Nun era vita, Ama’ ...»), «paise distrutte, criature sperze, fucilazione ...» («Che sacrileggio, Ama’ ...»), lampi d’ingegno per sopravvivere («nu sergente tedesco vulette sapé ‘a me io che mestiere sapevo fare ... Io, cu’ na paura ncuorpo, penziae subito, dicette: ‘“Ccà mo si dico ca faccio ’o tranviere, chisto di-

ce [...] Voi siete inutile [...] Parapapapà ... E ti saluto [...] Me quadraie nu poco e dicette: ‘Faccio il manovale ... Alzo le pietre ....”’», II, pp. 59-60) ed atti di profonda solidarietà umana (come con quel «povero cristiano che era ebbreo...»). È un monologo — isolante cioè il protagonista dagli interlocutori scenici — ma marcatamente drammatizzato — comunicante quindi, direttamente, con gli spettatori; composto di sequenze dialogiche interne, di pause e riflessioni divaganti, di scene e di controscene, che conferiscono all’insieme narrativo il calore spontaneo dell’eloquio napoletano e la funzione d’un teatronel-teatro istintivo, verbale e gestuale. Come se l’indiretto libero fosse riassorbito dal discorso diretto dialogizzato. Ma, passate la commozione e la curiosità iniziali per il «reduce» e la sua storia, lo spazio verbale e fisico concessogli dagli «altri» incomincia a ridursi progressivamente: essi tendono a sottrarsi al suo insi-

stente ricordare, all’incombere dei suoi flashes-back ogni volta interrotti o deviati; così Amedeo: «Ma mo staie ccà cu’ nuie ... Nun ce penzà cchiti ... [...] Ccà è fernuto tutte cosa...» (II, p. 62); Settebel-

lizze: (troncandogli la parola) «Va buo’, don Genna’, nun ce penzate cchiù ...» (II, pp. 64-65); e Amalia: (con dolcezza convenzionale) «Ag-

gie pacienza, Gennari” ... Po’ ce ’o ccunte cchiù tarde ... Mo s'ha da mettere ’a tavula ...» (II, p. 66); finché tutti, convenuti al pranzo

di compleanno di Settebellizze che si celebra segnatamente in casa di donn’Amalia, infastiditi e richiamando don Gennaro, bonariamente: «Don Genna” ... [...] Nuie ce vulimme gudé nu poco ’e pace ... Pen-

zate ’a salute ... Oramai è fernuto» (II, pp. 69-70). L’appartenenza a due mondi diversi non potrebbe essere signifi163

cata meglio, a livello verbale, che dal costante rifluire del discorso di Gennaro sul leit-motiv ‘A guerra non è fernuta ... E nun è fernuto niente!, reiterativamente troncato dalle proteste sempre più insofferenti degli altri. Da una parte un’epidermica ansia di godimenti effimeri ("o vascio rinnovato, ‘o ruoto ‘e puparuole e ’a parmigiana ‘e muli-

gnane! ...), e l'assoluta incapacità di guardare oltre la vita alla giornata per acquistare coscienza critica della storia; dall'altra, l’individuo iso-

lato, di nuovo emarginato e zittito come ingombro inutile e «scucciante», ma paradossalmente l’unico a possedere — ora che è «turnato ’e n’ata manera»,



«sulamente

mo

... ommo

overamente»

(II, p. 60)

un'esperienza più vasta, la capacità di interiorizzare la tragedia

mondiale, nella sua ansia di rivelare la sua nuova natura, di rinnovare

la sua memoria: GENNARO Ce spassammo? Vuie pazziate? (Come per richiamare alla

realtà un po’ tutti i presenti) °A guerra nun è fernuta ... (II, p. 65).

Ma un ulteriore segno viene dalla dislocazione spaziale dei personaggi, ossia dal movimento scenico di ‘‘uno’’ di essi: quando ogni sforzo di ‘‘comunicare’’ gli pare inutile, e /o assale un senso di malinconia che non può nascondere,

Gennaro si alza deciso, abbandona la

tavola e si rifugia al capezzale della figlioletta ammalata, che «tene ‘a freva forte» (II, p. 70). La chiusura

fra i due mondi,

alla fine

del secondo atto, non potrebbe risultare più evidente, né l’impossibilità del protagonista a comunicare con gli altri trovare espressione drammatica più diretta. Come al solito, però, Eduardo lascia un pertugio nel mondo degli ‘altri’ attraverso il quale far passare un filo di comunicazione: la «maglia rotta» nella ottusità generale. Fin dall’arrivo di Gennaro, c’è un personaggio che col suo silenzio impaurito, o con il suo atteggiamento di dispettoso mutismo, fa come da riscontro scenico ai tentativi di parlare, ogni volta frustrati, del padre: Maria Rosaria, dapprima rincantucciata in un angolo (II, p. 58), poi pianta tutti in asso ed esce

(p. 65), o si apparta (p. 68), infine, quando il padre fa per andare, s'alza e raggiungendo il padre, decisa: «Vengo cu’ te, papà ... (Gennaro

la prende per mano e si avvia)» (II, p. 70). La confidenza che si risveglia, per la prima volta, fra padre e figlia alla fine del secondo atto — anticipando altre scene analoghe, come quella che concorre alla 164

soluzione di Mia famiglia o quella, ancor più significativa, di Sabato, domenica e lunedi — è indizio, serve di preparazione indiretta al diverso esito del terzo. Nel terzo atto, che ha la struttura e la rapidità dell’«atto unico» (nel senso di Szondi, perché la tensione non scaturisce più dall’azione ma appare già insita nella situazione)!? più ancora che dell’«epilogo», si rappresenta la situazione-limite, che precede immediatamente la catastrofe. Gennaro, sempre in scena, parlando poco (nella prima parte) e ascoltando, osservando parecchio, passeggiando lentamente, sta per

assistere infatti alle conseguenze rovinose che il modo di vivere degli ‘altri’, superficiale o egoistico, ha provocato in primo luogo nella sua famiglia. Amedeo sta per compiere un furto per il quale sarà arrestato (è il brigadiere Ciappa ad avvertirne il padre); la piccola, Rituccia, sta male overamente, sta per morire se non si trova la medicina «adatta» (come avverte il Dottore). Attraverso questi eventi, apparen-

temente ‘“privati’’, passa la resa d’una situazione «di fatto avvenire» specificamente napoletana (ma «mariuolo se nasce. E nun se pò dicere ca ’o mariuolo è napulitano», III, p. 77) eppure anche sintomaticamente storica e nazionale: «Ama’, nun saccio pecché, ma chella criatura ca sta llà dinto me fa penzà ’o paese nuosto» (III, p. 85). I rimandi avvengono tuttavia sulla scena senza forzature simboliche, senza sottolineature didattiche: l’episodio esemplare genera spontaneamente il suo: referente storico e sociale (come nel migliore teatro

di Eduardo). Il linguaggio drammaturgico eduardiano evade dalle astrazioni: lo spunto è concreto; è la situazione drammatica particolare (ma non eccezionale) che tramite il dialogo e, quando questo non è più sufficiente, la perizia scenica delle didascalie, rimanda al caso

più generale. Si traduce nel testo e nella sua rappresentazione (interagenti nella scrittura eduardiana), nel modo apparentemente più semplice ma effettualmente più complesso (l'illusione della realtà), il procedimento filosofico dell’induzione: dal particolare all’universale. Solo che qui, la situazione che precede immediatamente la catastrofe, «già prossima al levarsi del sipario e che ormai non può più essere sventata» (Szondi), invece di condurre ineluttabilmente alla ca-

13 Cfr. P. Szonpi,

Teoria del dramma

moderno cit., p. 76.

165

tastrofe stessa — come in tanto teatro europeo contemporaneo — porta imprevedibilmente alla risoluzione, o meglio alla speranza della risoluzione. Non quella speranza cieca, fatalistica e superstiziosa (più che religiosa), che tiene «'e miedice [...] pe’ malaurio»

(III, p. 73);

ma quella speranza avvertita, circospetta, che rifiuta l’illusione gratuita come la sterile disperazione. E, sul piano tecnico, evita la «catarsi

tragica», i lavacri spirituali e riconciliatori citati polemicamente da Brecht. Perciò acquista inequivocabile spessore semantico la battuta finale del protagonista, che ripete con più forza quella già pronunziata dallo stesso dopo la spiegazione con la moglie (vinta, affronta, piangente, come risvegliata da un sogno di incubo, III, p. 86): «Mo avimm’aspettà, Ama’ ... S'ha da aspettà. Comme ha ditto ’o dottore? Deve passare la nottata». Leit-motiv dell’ultima parte dell’atto che sostituisce, ma integrandolo, quello dell’atto precedente: «'A guerra nun è fernuta». Il protagonista di questa commedia non si limita a contemplare «la catastrofe» come

(appunto)

«un dato di fatto avvenire».

Anche

se non può interpretare la parte dell’eroe tragico che lotta attivamente contro il destino, alla cui oggettività oppone la propria libertà soggettiva (nel senso di Schelling)!4; egli non interpreta però neppure il dramma dell’uomo non-libero: dell’uomo nato nell’epoca del determinismo («Mo qualunque cosa damme colpa ’a guerra»!, III, p. 77). La sua modernità di personaggio — eroe non tragico, si è detto, e io che pensa — non conduce all’impotenza raziocinante, bensì all’osservazione critica, disincantata, eppure funzionale ad una sospesa ma possibile trasformazione del dato di fatto: con gli unici strumenti usabili della chiarezza, della comunicazione riconquistata («Aggia parlà? Me vuòé séntere proprio ’e parlà? E io parlo», III, p. 85), e della solidarietà intersoggettiva. Gennaro non avverte direttamente il figlio del pericolo che lo sovrasta — si attiene lui per primo alle nuove regole del gioco, a quel senso del rigore morale che vuole risvegliare negli altri — ma indirettamente tenta di responsabilizzarlo; e coglierà i frutti del suo discorso alla fine, quando Amedeo ritorna senza essere andato all’appuntamento: «... Aggio pensato ca Rituccia steva accussf 14 Cfr. F.W.J. ScHeLLING, Philosophische Briefe tiber Dogmatismus und Kriticismus, lettera 10*, in Philosophische Schriften, vol. I, Landshut 1809, cit. da Szonpi, OPACO

166

e me ne so’ turnato. Pareva brutto» (III, p. 87). Non inchioda la moglie alle colpe e agli errori commessi, ma, prima con la sua silenziosa presenza di ‘‘spettatore’’ che comunque sottintende il ‘‘regista’’ (Gennaro lentamente raggiunge il fondo e volge le spalle ai due, come per sottrarsi alla scena fra Amalia e Riccardo, il quale è venuto inaspet-

tatamente a portare la «medicina», proprio lui che è stato ricattato e ‘‘spogliato’”’ dalla donna, perché «ad un certo punto, se non ci stendiamo una mano l’uno con l’altro ...»), e poi col suo sfogo verbale,

però ragionato (incorniciato segnatamente dai gesti di chiudere il telaio a vetri e riaprirlo corze per rinnovare l’aria, III, pp. 83-84), mostra in fondo di comprenderla. Tuttavia, una volta compreso, bisogna cambiare

Gennaro Jovine resta il «personaggio mobile» per eccellenza del teatro eduardiano: fino a lui la proprietà degli outsiders si è realizzata nel rifiuto di conformarsi all'ambiente, ad una realtà immodificabile, che conduce Luca Cupiello ad una speciale attività di costruzione onirica e infine a quella ancora più speciale della morte, come in precedenza Crispucci de L’abito nuovo, che non regge allo sforzo di perdere la propria identità ‘‘mascherandola’’ come gli altri vorrebbero. Napoli milionaria!, anche in questo senso, rappresenta il primo, vero e riuscito tentativo di Eduardo di evadere della bipolarità farsa-pirandellismo, fra cui si tendono i suoi lavori dell’anteguerra. Sappiamo come in ogni «testo poetico» nell’ambito dei personaggi si possano distinguere due gruppi: i «protagonisti» e «le condizioni e circostanze dell’azione». Per ottenere che entrambi questi gruppi «si umanizzino» è necessaria una particolare «comprensione del mondo», secondo la quale l’uomo si comporta come forza agente ed è lui stesso che crea i propri ostacoli (Lotman). Questa We/tanschauung è riscontrabile sia nell'epoca rinascimentale (dalla quale nasce il «dramma moderno») sia nell'Ottocento idealista e romantico e poi positivista e naturalista. Col prevalere invece, nel Novecento, dei relativismi, dei soggettivismi, degli esistenzialismi ..., l’Uomo sembra perdere questa facoltà, questo ruolo primario, e significativamente si ha, nel teatro,

il tramonto del personaggio a-tutto-tondo da un lato, e dall’altro l’insorgere dell’oggettualismo scenico. Il teatro di Eduardo, come si accennava più avanti, cerca di ripristinare il carattere della dràmzatis persona in quanto unità e forza psico-fisica, trasposizione della persona nel personaggio (basterebbero le sue didascalie a testimoniarlo); ap167

punto perché il suo sforzo di drammaturgo è nel senso della ricomposizione della realtà: riempire la «maschera» nella duplice versione di «tipo» farsesco e di moltiplicazione o sdoppiamento dell’«Io» post-pirandelliano. E tuttavia, siccome l'Autore non manca mai di registrare ed interpretare la crisi avvenuta,

e ancora in atto, della

totalità dell’uomo (specialmente nei rapporti con i cosidetti simili), la persona e il personaggio appaiono anche nel suo teatro continuamente compromessi da insidie oggettive e soggettive (la miseria, la guerra, la trasformazione della famiglia e della società; i sogni, i fantasmi, il commercio

quotidiano con la morte e con i morti). Partico-

larmente nelle commedie d’ambiente tra popolare e piccolo borghese napoletano — microcosmo che gli sta a cuore, e che egli tende sempre a mettere in contatto col macrocosmo dell’intero paese e della sua storia —, l’ambiente stesso acquista un rilievo specifico e speciale, una funzione di coro e di controcanto, talvolta antropomorfizzato (i vicini, gli altri del vico ...), talvolta corposamente oggettuale (i poveri arredi del vascio, descritti quasi con tenerezza, l’opulenza antipatica della casa imbellettata a nuovo...). In Napoli milionaria! —

dove an-

che ‘e ccarte ’e mille lire si animano pericolosamente e fanno sbattere ‘o core —, Weltanschauung e poetica drammaturgico/spettacolare trovano piena corrispondenza: tutto quadra e si fonde nella resa scenica dei personaggi e delle condizioni e circostanze dell’azione, dei personaggi-ambiente e dell’ambiente-personaggio. Così non assistiamo soltanto a un «dramma soggettivo» (com’era Natale în casa Cupiello) quanto alla perfetta, vivida, illusione d’uno spaccato dell’esistenza e della storia ‘‘umane’’. Se il protagonista ricopre un ruolo primario, l’ambiente, i personaggi, anche i minori, non assolvono solamente a funzioni di contorno: perfino «'a cammarella» di Gennaro che «avimm’a

mettere

a pposto»

(III, p. 84) acquista un ruolo importante.

Se l’asse semantico fondamentale è costituito dall’opposizione iomondo, non per questo il mondo è svalutato nella sua rappresentazione: anch'esso deve avere spazio e rilevanza drammatica, sia in quanto ‘‘antagonista collettivo”, sia perché la sua possibile trasformazione — nel finale — risulti convincente. In questo testo, dunque, Amalia, Amedeo, Maria Rosaria (i parenti-antagonisti), e Settebellizze, ’O Miezo

Prèvete, e tutti gli altri abitanti del vico, non appaiono singolarmente o nell’insieme figure a una sola dimensione; al di là dell’ipostasi iniziale, che soprattutto mediante le didascalie tendeva (come si è visto 168

specialmente per Amalia) a suddividere il quadro più generale del mondo in buoni e cattivi. Ma nella dinamica drammaturgica eduardiana non c'è mai o quasi mai posto per i buoni o i cattivi tout court. Anche quei personaggi che appaiono coinvolti in una logica perversa o sem-

plicemente sbagliata presentano risvolti di umanità (che per Eduardo significa solidarietà), slanci improvvisi e magari impreveduti di generosità.

Si è già notata la trasformazione di Maria Rosaria, a partire dal ritorno del padre nel secondo atto; quanto ad Amedeo, la sua pur rapida riconversione agli affetti famigliari ed al lavoro onesto è preparata dal riassunto della sua vita passata fatto dalla madre: «[...] Ame-

deo accompagnava Rituccia ’a scòla e ghieva a faticà» (III, p. 87). Lo stesso Settebellizze, l’estraneo entrato abusivamente a far parte della famiglia (durante la scomparsa di Gennaro), ma subito pronto ad allontanarsene (dopo la ricomparsa del capo-di-casa), già in precedenza dimostrava di possedere un suo codice d’onore («Simmo uommene o simmo criature?») quando, sostituendosi al padre assente, era intervenuto ad avvertire il giovane Amedeo che stava «piglianno ’na brutta strada» (II, p. 68). Fa il contrabbandiere, e «cierti cose se compatisceno [...] Sta gente è viva, stu popolo è vivo, s’ha da difendere [...] mmiez’ ’o imbruoglio ’e na guerra», «ma ’o mariuolo, no!

[...] Nun s’addeventa mariuolo pe’ via d’ ’a guerra» (così Gennaro esprime il pensiero dell'Autore, III, pp. 76-77). Quanto agli altri corali del vico, dopo l’ubriacatura d’effimero benessere del secondo atto, tornano quasi senza soluzione di continuità a partecipare direttamente o indirettamente ai guai della famiglia Jovine, secondo la regola di vita dei bassi — almeno di quelli eduardiani; con la solita curiosità, la solita ignoranza, ma anche disponibilità istintiva: come quando °O Miezo Prèvete, dopo una sua disperata ricerca del farmaco per Rituccia, fa arrabbiare il Dottore perché lo vuole convincere ad usare una delle medicine ricuperate (da quella contro la rogna a un’altra per mandare indietro il latte alle partorienti): °O Mrezo PRÈVETE: [...] Dotto’ non vi arrabbiate. Ccà nun è ca si può avere tutto comm’ a primma d’ ’a guerra. Nu poco ’e buona volontà anche da parte dei dottori ... (Testardo) Vedite si putite arrangià cu’ chesto» ...i (III, p...75)

Dove lo spunto farsesco è addetto sì ad alleggerire il clima altri169

menti drammatico della scena, ma non è puramente funzionale a ciò,

aggiungendo una pennellata al quadro d’ignoranza e di pressapochismo

dell'ambiente, senza tuttavia sminuirne i valori di solidarietà. La tra-

sformazione più difficile a rappresentare, quella che ha fatto parlare di «ottimismo della volontà» per questa commedia eduardiana, riguarda proprio il personaggio di Amalia. Certo il passaggio dalla donna dura di cuore e vendicativa del primo atto e della prima parte (almeno) del secondo alla madre disfatta dai rimorsi e dalla paura del terzo può rivelare una sutura che solo la fede meridionale e napoletana nell’implicito riscatto della ‘maternità’ riesce a dissimulare: Per la prima volta mostra il suo vero volto: quello della madre (did., III, p. 81). D'altro canto questo personaggio, nella sua spietatezza, diciamo “virile’’, trova accenti e argomenti di significato sociale così interessante come invece la ‘‘saggezza’’ interclassista del protagonista non arriva ad esprimere: quando, nel secondo atto, contro Riccardo il «ra-

gioniere» (che tenta di impietosirla) prorompe sì convinta e vendicativa ma veritiera: Amaia E figlie mieie nun hanno sufferto ’a famma? Nuie, quando vuie teniveve ’o posto e ’a sera ve faciveve ’e passeggiate a perdere tiempo nnanze ’e vetrine, mangiàvemo scorze ’e pesielle vullute cu’ nu pizzeco ’e sale, doie pummarole e senza grasso ... (II, p. 50).

Comunque, dato meno rilevato dalla critica, nemmeno l’eroe positivo risulta privo di ombre!5, proprio perché uno degli aspetti più sintomatici dell’opera eduardiana consiste nel fatto che l’incompatibilità fra opposte visioni di vita non si traduce sulla scena in una contrapposizione manichea di personaggi, la cui unidimensionalità andrebbe a discapito della loro stessa credibilità. La svagatezza del protagonista

15 Inclinano ad una interpretazione unilaterale del carattere dei personaggi eduardiani: L. CoEN Pizer, Il mondo della famiglia ed il teatro degli affetti cit.., pp. 42-43; G. MacLiuLo, Eduardo De Filippo cit., pp. 40 e sgg.; ed anche M.B. MIGNONE, op. cit., pp. 101-102. Dimostrano una maggiore attenzione ai chiaro-scuri dei «caratteri» nel teatro dell'Autore gli studiosi più recenti, da G. AntoNuccI (Eduardo De Filippo cit), ad E. GIAMMATTEI

(Eduardo De Filippo cit): anche se quest’ultima incli-

na troppo (a nostro avviso) verso una visione ‘“decadente’’ del protagonista eduardiano, In quanto «eroe — inattuale — dello spazio chiuso».

170

— nel primo atto — è certo funzionale alla sua presentazione come outsider, e tematicamente giustificata (come si è visto) dalla sua figura

di reduce dell’altra guerra. Questa sua condizione, comunque, gli consente ‘‘distrazioni’’ altrimenti discutibili: come quando mangia i maccheroni del figlio, alle cui proteste reagisce con argomentazioni un po’ dubbie: GenNARO: (Col che vu6? Io non mi [... poi disarmato di bell’amore di figlio!

tono di chi è convinto di aver ragione) Oh! Tu ricordo. ’E mieie ... ’e tuoie .. Si salvi chi può! fronte alla violenza del figlio] E pigliatillo. Che (I, pp. 10-11).

La svagatezza non gli impedisce di essere consapevole dei doveri dei figli nei suoi confronti, ma gli consente di sottrarsi al gioco delle parti. È la stessa svagatezza che gli fa supporre la buona fede della moglie («Non ci guadambi neanche niente ...») nei traffici che egli contrasta ma ai quali finisce per collaborare: resta il fatto che il suo estraniamento a quanto gli succede intorno, nel campo della prassi quotidiana, presuppone una presbiopia che comunque viene meno dopo la conclusione del primo ‘‘affare’’ con Riccardo. Uno spettatore disincantato potrebbe persino sospettare la strumentalizzazione da parte di Gennaro della propria distrazione; senza arrivare a tanto, tuttavia,

le sue resistenze a partecipare agli ‘‘affari’’ della famiglia e del vico appaiono spesso motivate più dal timore dei rischi («[...]: ‘e gguardie, °o brigadiere, ’e fasciste», I, p. 9) che da saldezza di principi morali. Naturalmente ciò non autorizza a ribaltare l’interpretazione corrente — e quella giusta, se si considera appunto il suo percorso di «personaggio mobile» — del Protagonista, ma vale anzi a stabilirne la complessità; e soprattutto a rilevare le potenzialità di chiaro-scuro contenute anche in questo ‘‘eroe positivo” eduardiano, che daranno luogo in altri protagonisti ad un maggior rilievo della loro potenziale o connaturata ‘‘ambiguità”.

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2 QUESTI FANTASMI! DELL’AMBIGUITÀ DEI VIVI

C'era un vecchio con la barba che veniva a casa quando ci trovavamo tra amici perché raccontava di essere uno specialista di sedute spiritiche. Per convincermi, mi diceva che spesso, tornando a casa sua,

trovava un tipo che usciva e lo salutava. Diceva di essere un fantasma. Io gli chiesi: ‘‘Lei è sposato? E sua moglie non dice nulla?” ‘Non se ne accorge’, mi rispose, ‘‘non lo vede’. Così nacquero Questi fantasmi!*. mu

ancora

una

volta il «vissuto»

che scatena

l’«idea»:

solo perché ho assorbito avidamente, e con pietà, la vita di tanta gente ho potuto creare un linguaggio che, sebbene elaborato teatralmente, diventa mezzo di espressione dei vari personaggi e non del solo autore,

conferma Eduardo nella premessa ai suoi «Capolavori» Einaudi2. E il suo realismo non si smentisce neppure in questa commedia ‘‘fantastica”, che per più versi sembra deviare dal percorso iniziato con Napoli milionaria! Il divario cronologico è minimo fra le due opere, eppure la sua seconda commedia del dopoguerra, imperniata sull’ambigua schermaglia di un piccolo borghese spostato e tormentato con «spettri» tutti partenopei, cui affida le sue residue speranze, si fa portavoce d’una rifluente situazione esistenziale d’incertezza e di confusione morale.

1 Cfr. M. Nava, Eduardo: la Napoli dei giorni dispari (Intervista al senatore a vita De Filippo sui mali della sua città), «Corriere della Sera», 17 gennaio 1983. Questi fantasmi! fu rappresentata per la prima volta il 7 gennaio 1946 (stagione ‘45-°46) dalla Compagnia «Il Teatro di Eduardo con Titina De Filippo», al Teatro Eliseo di Roma. Citiamo dal vol. I della Cantata dei giorni dispari (82). 2 Cfr. E. De Fiuppo, Nota introduttiva a I Capolavori di Eduardo (I-II), cit.

173

Gennaro Jovine aveva preso coscienza, si era «trasformato» nel

corso del dramma, e l’io epico aveva parlato con le sue parole, instaurando quel rapporto dialogico col pubblico che resta, in questi anni, l’obiettivo civile del teatro di Eduardo: aiutare la gente, mediante la favola scenica, a prendere coscienza. È un discorso forse utopistico sull’Uomo e con l’Uomo, il suo: ma attraverso le sue opere dal ’45 al ‘48 (prime impressioni sul dopoguerra) si può rivivere il trapasso dall’illusione di un cambiamento

radicale della società (Napoli milio-

naria!) alla delusione già presentita nel ’46 (Questi fantasmi!) fino alla disillusione in atto del ’48 (Le voci di dentro). E con Questi fantasmi! si anticipano i tempi non solo per la problematica storico-sociale, che prefigura appunto quella crisi di fiducia nel futuro — presente alla coscienza di tutti solo qualche anno dopo —, ma anche nella sua resa formale: l'ambientazione quasi surreale della storia (pur non rinunciando alle pregnanti annotazioni realistiche), nel seicentesco «palazzo» infestato da fantasmi antichi e moderni, traduce in spazio e in clima scenico il presentimento inquietante d’una ricaduta nel passato. Nella didascalia iniziale della commedia il drammaturgo si fonde con il regista, sulla «pagina»: con l’indicazione perentoria della messain-scena (Per la vicenda che mi accingo a narrare, la disposizione scenica

d'obbligo è la seguente, did., I, p. 109) esprime e realizza la propria volontà di infrangere la ‘quarta parete’”’ per poter comunicare col pubblico. E prevista infatti dal testo la posizione del pubblico rispetto alla scena (al di là ma attraverso i due balconi obligui) e quindi

la prosecuzione della scena rispetto ai suoi limiti convenzionali (i due balconi, s’immagina, fanno parte dell’intera distesa del piano)?. Così che lo spettatore «modello», quello vero, viene a trovarsi dalla parte del Professor Santanna: anima utile,

ma: non compare mai; come

recita,

nel frontespizio, la presentazione dei personaggi, secondo lo sdoppiamento ammiccante delle qualifiche per ciascun ruolo. Fra le altre anime © perdute o irrequiete, tristi o innocenti, nere o dannate, quella del

dirimpettaio — col quale il protagonista ‘‘parla’’ dal ‘‘balcone’’ — > Ai due lati del boccascena, tra il proscenio e l’inizio delle due pareti, formando l'angolo per la prospettiva del pubblico, fanno corpo a sé due balconi che, s’immagina, fanno parte dell'intera distesa del piano (did., I, p. 109). Ripensiamo alla situazione della «comunicazione teatrale» identificata da C. SEGRE, Teatro e romanzo cit., p. 11.

174

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l’ultima dell’elenco, è certo la più importante. Invisibile, come trasparente, eppure

occhiuto, esigente, insinuante,

il Professor

Santanna

è il «personaggio in più», il «coro», ovvero — come ci ha-confermato l’Autore — la proiezione scenica del pubblico stesso: Me ne sono servito per far parlare liberamente il protagonista sull’esempio di come nella Commedia dell'Arte un personaggio avanza e si confida al pubblico. Nella parte del Professor Santanna sono appunto gli spettatori, ossia l'occhio del mondo delegato a un dirimpettaio*.

Ma anche in questo espediente si coniugano tradizione e innovazione: l’Allocuzione al Pubblico da parte dell’ Attore/Personaggio, passata, come funzione e prassi, dall’antica Commedia

nella tradizione

dello spettacolo «popolare» partenopeo (e non solo partenopeo), qui si manifesta anche come nuova formula di teatro-nel-teatro: per cui la Solitudine del Protagonista trova espressione e sfogo nel simulato dialogo («monologo essenziale») con l’unico Personaggio che lo ascolti fino in fondo, il Pubblico.

D'altronde, l’immagine del ‘‘dirimpettaio’’ come proiezione dello spettatore ‘‘reale’’ doveva per Eduardo scaturire da un mondo di memorie infantili, sempre in bilico fra il vissuto e la dimensione dello spettacolo: quando i bambini De Filippo si riunivano sul balconcino di casa — quei balconcini napoletani che ritornano così spesso nel teatro dell'Autore e con una funzione sempre, in qualche modo, di comunicazione esibita con l'esterno («A noialtri napoletani, toglieteci questo poco di sfogo fuori del balcone...», II, p. 127) — per dare delle vere e proprie recite agli inquilini delle case di fronte?. L’invenzione del Professor Santanna non è quindi soltanto «formale»; anche se appare indubbiamente collegata alla disposizione scenica d'obbligo. AI posto della ‘‘quarta parete” (‘‘muro’’ invalicabile dal pubblico, se non attraverso l’indiscreto ‘buco della serratura’’) troviamo appunto il progettato prolungamento della distesa del piano (os-

4 Così Eduardo nella Conferenza/Spettacolo cit., Montalcino, Teatro/Stage 1983; si veda in proposito la recensione di R. Di Giammarco, E sulla scena nuda che piacere ritrovare il fascino di Eduardo, «La Repubblica», 13 luglio 1983. 5 Cfr. F. NARDINI, I tre De Filippo, «La Settimana Incom», 26 gennaio 1952.

175

sia del palcoscenico ‘‘in interno’) mediante quei due rituali balconi: al di là dei quali lo spettatore in funzione di personaggio non solo guarda ma s’immagina che risponda. Come vedremo, ogni dettaglio di questo «spazio artistico», registicamente disposto dall’autore «epico» per la vicenda che [si] accingle] a narrare, risulterà poi funzionale all’azione: anche quel finestrino «ad occhio» che si troverà sulla parete di fondo a sinistra, dal quale è possibile vedere e controllare chi sale e chi scende dalla terrazza; altro «occhio» aperto dalla fantasia scenografica di Eduardo per forare, mediante l’invenzione di più punti di vista, la Scatola o il Contenitore

scenico.

A confermare tale prospettiva mobile, torna anche il luogo deputato che l'Autore privilegia per i suoi cosiddetti «interni»: un grande camerone d’ingresso che disimpegna tutte le camere dell’antico appartamento (did. iniz., Id.),

luogo scenico di transizione e di collegamento col fuori (qui anzi il fuori è già dentro, proprio mediante l’«occhio» del «finestrino»), caratteristico del quadro del mondo eduardiano. E ancora una volta, come in Napoli milionaria! (e ancor più...), l’ambiente, pur mantenendosi «lo stesso» nei tre atti della commedia, si trasforzza visibilmente (e sintomaticamente) nel corso della rappresentazione. Nel primo atto il cazzerone d’ingresso appare come luogo del disordine e del trasferimento: sparsi per la scena, vi saranno alla rinfusa ogni sorta di masserizie: cesti di stoviglie, utensili da cucina, candelieri, involti grandi e piccoli e qualche mobile [...],

ma anche della paura e della meraviglia, dell’attesa: all’alzarsi del sipario, la camera è completamente buia. Dopo poco, si ode dall’interno rumore di passi e s'intravede una tenue luce di candela

(did

p. 100).

Nel secondo atto «la stessa scena» appare «completamente rinnovata»: l’arredamento è cambiato, tutto nuovo di zecca. La stanza presenta, or-

176

mai, tutti i caratteri di una sala di soggiorno di una pensione, non di lusso, ma decorosa (did., II, p. 127):

dal trasloco alla trasformazione (più apparente che reale, come nel secondo atto di Napoli milionaria!), dallo stupore alla assuefazione. Nel terzo atto, infine: /a stessa scena degli altri atti; solo che dal primo al secondo s’era come ‘per magia” riempita e organizzata, dal

secondo a quest’ultimo, sempre ‘‘per magia”, per un gioco di prestigio del Destino

(o del Fantasma),

s’è invece

svuotata:

mancano i mobili. La radio-grammofono non c’è più. Anche il mobile-bar è scomparso. La biblioteca è vuota,

e vi regna nuovamente un clima di abbandono e di disordine. Quell’apparecchio telefonico [...] staccato di recente [coi] fili tagliati e ripiegati

all’insi (did., III, p. 148) sembra esprimere, con il ‘linguaggio degli oggetti”, insieme naturale e simbolico, di Eduardo, l'avvenuta interruzione d’un collegamento ‘‘fortunato’’ con l’Altro Mondo. Non solo, ma come nel primo atto /a camera è illuminata da un lume di candela:

siamo di nuovo ‘al buio”, non più il buio dell’attesa e della paura ma quello del disincanto e della desolazione. Perché «i fantasmi non esistono», ma «li abbiamo creati noi, siamo noi i fantasmi...» (Pasquale, alla fine del secondo atto): sono l’incubo della Miseria e il ricatto

quotidiano dell’Indigenza, che fanno diventare «carogne», quindi il velo della Diffidenza e il gelo dell’Incomprensione reciproca, fra marito e moglie (quando «avimmo perza ’a chiave» della comunicazione, III, p. 152) e in tutti i rapporti interumani,

per quei «sentimenti

che ci condannano a non aprire i nostri cuori l’uno con l’altro: orgoglio, invidia, superiorità, finzione, egoismo, doppiezza...» (III, p. 155). Ma sono anche i fantasmi di quella speranza cieca nella fortuna con l’effe maiuscola, che può sembrare paradossale e invece è sintomo della «napoletanità» più disperata. Quando si è tentato tutto il possibile — come questo Pasquale Lojacono, che porta in viso i segni della sua continua ricerca d’una svolta, d’una soluzione che gli permetta di vivere un po’ di vita tranquilla

e di offrire a sua moglie qualche agio (did., I, p. 113) —, quando i guai non sorprendono più ma non ci si dà per vinti, allora si incomincia a credere, a voler credere, nell’Impossibile: si spera disperatamente LI

che la Ruota della Fortuna (come quella del Lotto) incominci a girare per il verso giusto... Due sono dunque i nuclei tematici fondamentali di questa commedia: quello della «comunicazione difficile», sempre più difficile, fra i cosiddetti simili, ovvero della mancanza di umana solidarietà fra i vivi, e quello dell’«eterna fralezza dell’uomo proteso a credere che è vero ciò che desidera», magari affidandosi alla comprensione dei morti, dei fantasmi!

I due nuclei appaiono perfettamente corrispondenti e interagenti, perché l’incomunicabilità, per Eduardo, non nasce tanto dall’«incertezza della nostra personalità» come per Pirandello, quanto da una più ‘‘sociale’’ mancanza di fiducia e di abbandono reciproco, quasi da un peccato originale di «superbia». È questa chiusura în se stessi, corazza difensiva nei confronti dell’altro, che impedisce il vero rapporto di coppia nell’ambito famigliare: PASQUALE Basterebbe domandare [...]. Si chiarisce e si va avanti.

Ma l’orgoglio: «Jo mi sento superiore...». «'O superiore songh’io...» «Ha da parlà primm’isso». «Ha da parlà primm’essa». E di questo passo i rapporti si raffreddano, nasce la sopportazione reciproca, l’insofferenza...

e persino l'odio, Mari’...

(II, p. 133);

e nell’ambito sociale inibisce i rapporti fra uomo e uomo, perché in quest'ambito è quasi impossibile confessare di «sentirsi niente», così da potersi «liberare dal peso del proprio essere che ci opprime» (III, p. 155), soprattutto quando si è materialmente assillati dai «guai», dai ricatti quotidiani della miseria o della mediocrità. Perciò Pasquale si confessa a Raffaele, il portiere, ma fino a un certo punto: gli racconta i suoi guai economici, non quelli psicologici. D'altronde Raffaele è una specie di nuovo Pulcinella senza la maschera (da sempre i padroni della Commedia si sono confidati con i servì), e talvolta pare il prolungamento o il doppio «popolare» del povero «borghese» protagonista. PasquaLe Nella vita ho tentato tutto, i mestieri più umili: aggio fatto pure l’impresario teatrale (I, p. 116). $ Cfr. S. D'Amico,

178

Questi fantasmi!, «Il Tempo»,

12 gennaio 1946.

— Pasquale Lojacono non è un borghese «piccolo piccolo», di quelli che non vogliono rischiare, di quelli che sono ‘‘antipatici’’ all’ Autore: come avverte subito la didascalia che introduce il suo personaggio, ha lo sguardo irrequieto dell’uomo scontento, ma che non si è dato per vinto (did., I, p. 113), solo che — non mi è riuscito niente. Sono ammogliato [e con una moglie molto

più giovane di mel e aggi’ “a da’ a mangià a muglièra e pure a me.

Mangiare e anche qualcosa di più, per questa donna che — confesserà solo al ‘fantasma’

alla fine —

come

è la vita sua: perché «ad

un certo punto, il bene, l’amore, [...] deve, per qualunque donna, trasformarsi in una pietra preziosa [...] in un vestito bello... in bian-

cheria di seta vera» (ancora il leit-motiv dell’ Abito nuovo) «... si no se perde...

fernisce,

mòre!»

(III, p. 155).

Ormai convinto che «’a vita è tosta e nisciuno ti aiuta, o meglio

ce sta chi t'aiuta ma una volta sola, pe’ puté di’: ‘‘t’aggio aiutato”...» (solita frecciata dell'Autore contro la beneficenza ricattatoria), l’eroe

bastonato ma non domato accetta una nuova specie di Patto col Diavolo, molto napoletana appunto. Si tratta di una sfida, anzi di un tentativo di tregua armata, con i propri fantasmi della Passione e della Miseria, oltre che con la propria e partenopea «paura dei morti». Trasloca dunque nel Palazzo seicentesco, carico di Storia anche recente («Al primo piano, per esempio, è venuta ad abitare una bella famiglia di soldati americani», informa Raffaele, il guardiaporta inferico) ma sempre infestato dai fantasmi d’uno splendido e cruento passato, barattando inconsapevolmente le sue disperate speranze d’una fortunata agiatezza con la propria «anima». L’appartamento toccato a Pasquale «conta precisamente trecentosessantasei camere»

(tante come

i giorni di un anno bisestile!) ed

è labirintico come un mondo (sessantotto balconi, scalette che vanno in terrazza, finestrini e passaggi insospettati), immagine forse di Na-

poli forse di tutta l’Italia: andrebbe liberato da più concreti e attuali fantasmi di quelli leggendari dell’ Antico Cavaliere e della sua Bella Damigella... ma anche il sistema escogitato dal Padrone — ospitare gratis uno ‘‘spostato’”’, uno dei tanti, che s’affacci ai balconi e canti e rida! — si fonda sempre e solo sull’apparenza, non sulla sostanza della tranquillità. 179

AI povero Lojacono, napoletano Faust di un dramma umoresco, non resta — per vincere la sfida con il proprio atavico Destino — che ricorrere al vecchio trucco di esorcizzare il Male credendolo Bene, tanto che la paura si trasformi in fiducia, il disincanto in dispera-

to ottimismo, il fantasma di un’Anima Dannata in quello di un’Anima Buona che lo aiuti. Ritorna così la prospettiva autoctona di quel «commercio coi morti» (già rilevato in Nor # pago) che si configura talvolta anche come «commercio coi Santi» (come avverrà in De Pretore Vincenzo). Il linguaggio teatrale di quest'opera è speciale: si ottengono effetti di comicità «fantastica» giocando insieme sull’ Ambiguità della situazione e su quella stessa del protagonista. L’«esitazione»” è alla base dei meccanismi scenici e verbali del testo: solo che l’esitazione passa — via via che lo spettatore è informato degli antefatti e dei retroscena — dal pubblico al protagonista, per rimbalzare, subito, sul pubblico ma riguardo al protagonista; la cui strutturale «ambiguità» sussiste fino al termine della rappresentazione, ed anche oltre...

«La forza della commedia sta in questa ambiguità», dichira l Autore (e con ragione)8. Ma non si tratta soltanto della particolare ambi-

guità di questo protagonista, ovvero della nostra esitazione se credere o no alla sua «buona fede», alla sua «estrema bontà e credulità» (Mi-

gnone): la specifica «ambiguità» di Pasquale Lojacono si innesta su quella, più complessa e sottile, che denota sempre il Protagonista eduardiano e che dipende dalla sua facoltà ‘‘strutturalizzata’’ di entrare e di uscire, quando l’Autore voglia, dal ruolo di «narratore rappresentato»?. E uno statuto, quello del «narratore rappresentato», che può ? Cfr. T. Toporov, La letteratura fantastica cit.: «Il fantastico è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale» (p. 26); «La fede assoluta come l’incredulità totale, ci condurrebbero fuori del fantastico: è l’esitazione a dargli vita» (p. 32). 8 Cfr. L. Compagnone, Nor bo paura di questo fantasma, «Paese Sera», 6 gennaio 1977. ? Il «narratore rappresentato», per Todorov, è il «narratore personaggio»: in quanto «narratore», il suo discorso non ha da essere sottoposto alla «prova della verità», ma in quanto «personaggio» egli «può mentire»; «il discorso di questo narratore ha uno statuto ambiguo» (op. cit., p. 85 e p. 88). Ancora più ambiguo in campo

180

essere attribuito — nel dramma moderno — ai «personaggi» che interpretano, con diverse modalità, quella fase di transizione e di tra-

sformarzione definita da Szondi «epicizzazione del dramma»!°. Essi appaiono cioè come proiezioni dell'autore, più o meno ambigue: nella «drammaturgia soggettiva» strindberghiana si ha l’identificazione autoreprotagonista (i punti di vista dell’uno e dell’altro coincidono); nel Così è (se vi pare) pirandelliano, invece, il raisonzeur in scena (Laudisi)

appare piuttosto testimone che attore della storia (i protagonisti sono gli altri, i diversi, il Signor Ponza e la Signora Frola, sui quali grava il dubbio della «pazzia»), il suo statuto è anzi a metà fra lo spettatore simulato e una specie parziale di «io epico», perché la struttura complessiva del testo non consente di credere completamente all’identificazione dell’autore col «personaggio che pensa» (come anche in certi drammi del nostro «grottesco»). Comunque, lo spettatore è più o meno indotto a credere nella veridicità del discorso del «narratore rappresentato», anche in ambito teatrale, a seconda di quanto questa specie nuova di «personaggio» si identifichi con l’«autore»: l'accento è posto sul fatto che si tratti di un «discorso» più del personaggio che dell’autore o viceversa. Nelle commedie di Eduardo, come si sa, è piuttosto frequente il riconoscimento dell’ Autore nel Protagonista, però non si tratta di una «drammaturgia soggettiva» alla Strindberg: la proiezione (o il rapporto) si può dedurre da certe didascalie ‘‘informative’’ (per cui il protagonista presenta similarità fisionomiche e anagrafiche con l’Autore e gli sono attribuite caratteristiche psicologiche e morali che rivelano la ‘‘simpatia’’ del creatore per la sua creatura...), e dal rilievo assunto da certe battute del personaggio, che si estendono sovente alla tirata ‘‘monologica’’, oltreché dalla struttura complessiva dell’opera. Tuttavia non c’è (quasi) mai una identificazione assoluta (il «punto di vista» del protagonista non coincide tout court con la Weltanschauung dell’intero testo, si rilevano piuttosto delle «intersezioni» frequenti).

Tantomeno l’identificazione è dichiarata a livello di poetica (Strindberg: «Come si può sapere ciò che avviene nel cervello altrui, i motivi segreti delle azioni di un altro, ciò che una persona o l’altra hanno teatrale: dove bisogna considerare la co-occorrenza dei diversi codici: verbale, intonazionale e sonoro, gestuale, spaziale/scenografico. 10 Ancora P. SzonpI,

Teoria del dramma

moderno

cit., p. 15.

181

detto in un momento

di confidenza?

[...] Ognuno conosce una sola

vita: la propria...»)!!; al contrario, Eduardo si propone di creare un linguaggio che, «sebbene elaborato teatralmente», diventi mezzo di espressione per «la vita di tanta gente», «dei vari personaggi e non del solo autore». Il Protagonista eduardiano resta sempre anche ‘‘personaggio’’, e in quanto tale deve assoggettarsi ogni volta alla ‘‘prova della verità”: i suoi discorsi non appaiono al di qua di ogni verifica, l'Autore non è mai del tutto dalla parte di lui: di qui l’arzbiguità costante (anche se più o meno rilevata e rilevante, a seconda della situazione) in cui versa il protagonista, il suo discorso, la sua enunciata We/tanschauung, che non

può mai dirsi assolutamente

focalizzata

(e focalizzante).

Per Pasquale Lojacono di Questi fantasmi! il gioco dell’amzbiguità è accresciuto e reso più complesso proprio dalla situazione specifica in cui il protagonista è collocato: dal suo rapporto (fede o mistificazione?)

con

i fantasmi...

Comicità fantastica, si è detto: proprio il sistema di distacco e di simpatia (quasi una corrente alternata) che denota il rapporto Autore-Protagonista nel teatro di Eduardo consente allo Spettatore di «ridere» di Pasquale e al tempo stesso di «compatirlo», di partecipare ai suoi «guai»; d’altra parte i procedimenti usati a livello strutturale dell’opera sono, appunto, quelli del «fantastico»: attesa, informazioni subito controbilanciate da altre che le trasformano in falsi indizi, esitazione... . Col primo atto siamo introdotti subito in un clima di attesa: Raf-

faele, il «guardiaporta», crea all’inizio la suspense necessaria: avanza incerto e preoccupato nell’appartamento vuoto, anche i/ toro della voce è anormale, ha paura del buio, cerca la luce, non vuole star solo...;

ci informa anche su alcuni «fatti» sintomatici, che riguardano il protagonista (ha affittato l'appartamento «da quasi due mesi», «ma non si decide mai a venirci a dormire», I, p. 111) e l'appartamento stesso. Il Portiere inferico è il primo ad aprire il ‘“dialogo’’ col Dirimpettaio: si affaccia al balcone di sinistra... scorge e saluta rispettosamente, verso il pubblico, il professor Santanna: !! Cfr. J.A. StrINDBERG, CIPE

182

Sarzlade Skrifter, vol. XVIII:

cit. da P. SzonDI,

op.

Rimane in ascolto: Stanotte? (c.s.) Una luce? Dove, fuori a questo bal-

cone qua? (c.s.) Quell’altro? [...] E pure sul terrazzo? [...] (I, p. 113).

Incomincia dunque anche il gioco dell'Autore col Pubblico, con lo spettatore «reale» attraverso quello «rappresentato»: perché le informazioni sugli avvenimenti ‘‘soprannaturali’’ che animano l’appartamento (le «luci», la «testa di elefante», le «scintille», il «guerriero»...) le dà questo portiere-prestigiatore (fa subito sparire fazzoletti colorati e cravatte dalle ceste del trasloco) a noi, spettatori reali, eppure è come se la prova della verità su quanto dice si ricevesse dallo spettatore rappresentato, anche se invisibile («Quando lo dite voi, chi lo può mettere in dubbio»), che sta dalla nostra parte. Col comparire in scena del protagonista — dell’età dell'Autore, e con quell’aspetto ‘‘straniato’’ che contraddistingue gli alter-ego eduardiani (: foltissimi capelli sfioccano nei punti più incredibili del suo cranio. Di colorito pallidissimo, I, p. 113) — riceviamo le altre inforzzazioni necessarie a ‘‘comprendere’’ la situazione, ad integrarci nel mondo dei personaggi. Si instaura subito fra Pasquale e Raffaele quel rappor-

to di «coppia comica», che è anche una specie di sdoppiamento: infatti il suo passo è incerto, cauto, guardingo, come quello di Raffaele il

portiere all’inizio dell’atto; e appare subito chiaro che l’anizza nera del servo mariuolo potrà giocare con facilità l’arizza in pena del tormentato padrone: Raffaele è il Pulcinella avvezzo ad accettare i fantasmi propri e altrui (quelli del Passato e quelli del Presente), con una filosofia e un’impertinenza tali da poterli sfruttare a suo vantaggio. Ché Raffaele gioca pure il ruolo del «falso aiutante» dell’«eroe» (come e più di Agliatello): come braccio destro di Mefistofele, è stato incaricato dal proprietario in persona di far rispettare le condizioni del «patto». Dopo aver impaurito ben bene il suo conterraneo Faust, può dunque ricattarlo: [...] badate che qua sparisce qualunque cosa. Voi lasciate un cappello, non lo trovate più; fazzoletti, cravatte. E specialmente roba da manciare.

(Diventando

d'improvviso

minaccioso).

E non

vi permettete

di

andare a denunciare il furto... se no abbuscate. Ccà se tratta di fantàseme, spfrete: chille pazzèano... schiaffe, calci e mazzate in testa (I,

p. 120).

Difatti i ‘“giochi di prestigio” ladreschi di Raffaele scandiscono (o 183

comunque avviano) lo svolgimento dell'intero atto: dove le «sparizioni» da lui operate saranno compensate, e perciò confermate di credibilità (però «agli occhi» soltanto del protagonista!) da corrispondenti «apparizioni». Così quella gallina, con cui si presenta Pasquale — stretta fra l’avanbraccio destro e il petto, e poi «deceduta per asfissia indipendente dalla sua volontà» —, scompare dal chiodo su/ balcone per ricomparire dentro in forma di «pollo arrosto», alla fine dell’atto! D'altronde, solo verso la fine dell’atto lo spettatore (noi) cessa

di esitare sulla «natura» dei fenomeni che si verificano in quella casa (anche se la manifesta matricolaggine di Raffaele insinua, fin dall’ini-

zio, dei dubbi sulla serietà delle sue informazioni).

L’avvenimento discriminante in tal senso è costituito dall’apparizione a scena vuota del «fantasma» principale della storia. L’esitazione che fino a questo momento accomuna lo spettatore reale e il protagonista — il quale «è a parità con il lettore»/spettatore «e le leggi della natura», come conviene ad un «genere mimetico basso»!? — passa nel protagonista soltanto. Ciò a partite proprio dalla comparsa del

presunto fantasma: l’evento si avvale della scrittura propriamente scenica di Eduardo, mediante una didascalia che implica la sostituzione del codice verbale con quelli spaziale/scenografico e gestuale: È il tramonto ormai. Dal balcone di sinistra la luce esterna invade tutta la stanza di un nutrito riverbero rossastro, mentre un ultimo freddo raggio di sole indora l'armadio nel bel centro di esso. Pausa durante il lento movimento

di luci. Da un momento

all’altro,

come per incanto,

i battenti dell’armadio si aprono lentamente e contemporaneamente. Illuminata dal sole appare la figura di un giovane sui trentasei anni. Cauta-

mente [...] si orienta [...] e dispone [...] un gran fascio di fiori [...] in un vaso [...] al centro del tavolo. Sempre con accorgimento e lentamente, come un automa, trae ancora dall'armadio [...] un magnifico pollo arrosto [...., Sempre lentamente rientra nell'armadio richiudendo dietro di sé i battenti [...l' (did..I, p.-123).

Si rileva una determinata drammaturgia della luce e del colore (nel

contrasto fra la luce «rossastra» del tramonto e quella «fredda» del sole, che si fingono naturali, mentre la seconda focalizza l’oggetto 12 Cfr. N. FryE, Anatomia della critica, trad. it., Torino, Einaudi,

orig. 1957].

184

1971 [ed.

misterioso, l'Armadio), ma anche una drammaturgia del tempo (o del ritmo) scenico, sottoposto al rallentatore, così come la gestualità

del fantasma. A differenza della pantomima precedente, l'apparizione della «folle» sorella del portinaio, Carmela, che interessa la visualità nostra come quella del protagonista (sintomaticamente postosi fuori della scena, sul balcone attraverso il quale noi stessi assistiamo all’esibizione ‘‘strana’’ della donna), questa si verifica, appunto, a scena vuota, investe esclu-

sivamente il nostro sguardo. E cioè, se la pantomima fantasmica di Carmela, anch'essa giocata sul rallentamento dei tempi e dei gesti — assumendo una posa statica... si stacca dal suo posto come la figura da una tela antica... (did., I, p. 121) —, per il fatto di coinvolgere la percezione eccitata di Pasquale, induce lo spettatore a dubitare subito della surrealtà dell’apparizione stessa, quella del «giovane» che esce dall’«armadio», investendo soltanto la nostra percezione visiva, offre maggiori garanzie di credibilità: il tempo di esitazione dura più a lungo... E invece il tempo che prelude alla rivelazione: partito Pasquale, che all’apparizione dei «fiori» rimzane sorpreso ma abdica finalmente al Soprannaturale («Vuol dire che mi hanno preso in simpatia... Mi accolgono con i fiori», I, p. 112), l'armadio si riapre, questa volta senza esitazione, anzi con sveltezza [i tempi si accelerano segnatamente]. I/ giovane di prima, disinvolto prende posto a destra del tavolo dove ha messo i fiori. E Alfredo Marignano...,

l’amante della moglie, paradossalmente (e comicamente) compreso nel trasloco coniugale! Da questo momento in poi la nostra percezione dei ‘‘fatti’’ cessa di essere «ambigua» — lo spettatore non esita più sulla natura delle azioni —, il soprannaturale riceve una spiegazione razionale e si evade una volta per tutte dal «fantastico», restando tutt'al più nel campo dello «strano». Perché l’inesplicabile viene ricondotto a fatti noti, ad una esperienza precedente (l’adulterio di Maria) e, quindi, al «passato». Mentre l’esitazione che caratterizza il «fantastico» non può evidentemente

situarsi che al «presente»

(ancora Todorov).

Prima che il fantasma apparisse e svelasse la sua vera (e banale) natura, il testo/spettacolo non ci consentiva di decidere se dei fantasmi ‘‘autentici’’ si aggirassero nell’antico appartamento o si trattasse 185

invece di allucinazioni collettive e individuali, anche se non mancava-

no indizi a favore della seconda ipotesi. Difatti gli ‘‘eventi misteriosi” non si verificavano in scena, erano raccontati o introdotti da per-

sonaggi che in un modo o nell’altro non sembravano del tutto attendibili: che si trovavano su un gradino più basso rispetto alle possibilità di fiducia dello spettatore. Raffaele — che d’altronde non è mai testimone diretto degli ‘‘eventi’’ — appare subito troppo pronto a sfruttarne il ‘‘mistero’’ a vantaggio della propria mariuoleria; Concetta, la sorella, che ha visto i fantasmi, è subito connotata come folle,

e con un duplice margine di ambiguità: folle soltanto dopo o già prizza? PASQUALE Scema? RAFFAELE Scema mo... Un poco cretina. Insomma, di prima. (I, p. 118).

più cretina

Entrambi vengono dunque sottoposti all’ironia dell’ Autore: ironia che investe lo stesso protagonista, e si trasforma in distanziazione comica (si ride e non si sorride!), quando, in una pantomima magistrale, tutta giocata sulla accelerazione/deformazione dei gesti e del tempo d’azione, egli cade vittima del clima inquietante dell’appartamento (did., I, p. 120). Tuttavia, all’espediente comico dell’accelerazione pantomimica (comincia a correre per la stanza scacciando dal suo vestito, come se lo

spolverasse, e specialmente dal didietro della giacca, qualche cosa di invisibile che egli crede lo trattenga nella corsa),

si mescola il gioco scenico, più malizioso e allusivo, della prospettiva e del dinamismo spaziale dentro-fuori: Finalmente, ansante e congestionato, trova scampo, irrompendo fuori al balcone di sinistra, richiudendo violentemente dietro di sé telaio a vetri

e battente di legno [...]. Evidentemente avrà messo il panico anche indosso al professore Santanna, il quale...

Quando il protagonista assiste o crede di assistere a qualche fenomeno soprannaturale, esce sempre fuori dalla Scatola del palcoscenico; passando magari freneticamente da un balcone all’altro, come avverrà nel secondo atto, quasi a cercare ‘‘formalmente’ un punto di vista 186

diverso, uguale a quello dello ‘‘spettatore reale’, oggettivo. D'altra patte, come si è osservato, all’inizio dell’opera la convalida delle «vi-

sioni» si ha dallo stesso ‘‘spettatore rappresentato”, il Professor Santanna (I, p. 113): come se l’Autore/Regista insinuasse che «questi fantasmi» siamo anche noi a volerli vedere, noi che crediamo di appartenere senza ombra di dubbio al mondo dei vivi, alla vita reale e non a quella della finzione scenica. Una volta chiarito, comunque, il ‘mistero del fantasma”, l’ambi-

guità si sposta dal campo delle «azioni» a quello delle «motivazioni»: non è più in dubbio il rapporto fra il Reale e il Soprannaturale, per noi spettatori, ma piuttosto quello fra la credulità o meno del Protagonista. Si esce dal «fantastico» ma si resta nel campo delle tematiche dell’«io»: esitiazzo infatti sulla natura del personaggio che alla Surrealtà mostra di credere, pur fra continue esitazioni anche lui... Dal punto di vista strutturale, la parte di «spettatore dei fantasmi» passa esclusivamente al protagonista (di qui anche il suo porsi frequentemente dalla parte del pubblico), e l’esitazione del «personaggio» si trova ad essere rappresentata, diventa cioè uno dei «temi» dell’opera: Pasquale scorge Alfredo. Non crede ai suoi occhi, non vuole parlarne alla moglie. Alfredo rimane immobile. Pasquale vede il pollo [...] corre al balcone. Non trova la gallina sotto il panno. Torna al tavolo facendo gesti di stupore e descrivendo il fenomeno della trasformazione... (I, p. 126).

Come d’altronde diventa fulcro semantico dell’opera proprio il nostro rapporto di fiducia o sfiducia col protagonista: Pasquale Lojacono è un ingenuo oppure un profittatore? Lo lasciamo infatti tremante di spavento, che si segna ripetutamente, assuzzendo l'aspetto dell’iniziato, dell’asceta, del predestinato: di colui che ha visto il fantasma (did., fine I atto), e lo ritroviamo beatamente seduto fuori al balcone, mentre attende al suo rito mattutino del «caffè» e parla col suo dirimpettaio prof. Santanna (inizio II atto). L’individuo tormentato, pieno di paure e di dubbi, appare trasformato, da un atto all’altro, in una persona tranquilla, sicura di sé: capace

di apprezzare concretamente («il caffè costa cosî caro») la «poesia della vita» («Mia moglie non mi onora [...] queste cose non le capisce. È molto più giovane di me, sapete, e la nuova generazione ha perduto queste abitudini [... che] vi danno pure una certa serenità di spirito»); così sicuro di sé da accettare come scherzi le insinuazioni maligne 187

degli altri sul tema scottante delle ‘‘corna’’ («Sul becco... lo vedete il becco? Prende la macchinetta in mano e indica il becco della caffettie-

ra. Qua, professore, dove guardate? Questo... Vi piace sempre di scherzare...»). È un armonioso colloquio col pubblico quello che il protagonista conduce nel monologo d’apertura del secondo atto: dentro la tradizione del teatro antico e popolare (il pubblico va informato, non solo, ma con esso bisogna stabilire un rapporto di complicità: «Professo’, voi pure vi divertite qualche volta, perché, spesso, vi vedo fuori

al vostro balcone a fare la stessa funzione») e al tempo stesso trasgressivo d’ogni finzione e illusione ottocentesca di ‘quarta parete”. I doppi sensi, i lievi e gustosi sottintesi («Sul becco io ci metto questo coppitiello di carta... Lo mostra. Pare niente, questo coppitiello, ma ci ha la sua funzione...») non giungono ad inquietare il suo amato e amabile cerimoniale. Eppure egli gioca con lo spettatore una partita truccata: in questa casa, posso garantirvi che regna la vera tranquillità [...] da quando sono venuto ad abitare qua, le mie cose si sono aggiustate [...] questa casa mi ha portato fortuna [...] ma fantasmi, come fantami, è proprio il caso di dire: neanche l’ombra! (II, pp. 128-129).

Ricorda un po’ il ‘‘possidente’’ soddisfatto di Chi è cchiu felice ‘e me! prima della catastrofe! Difatti qualche «ombra» continua ad offuscare l’ottimistico orizzonte del protagonista: se ha potuto esorcizzare i propri fantasmi trasformandoli in «anime buone», i fantasmi dell’immaginezione collettiva restano «maligni», e sebbene lui canti coscienziosamente ogni sera (dai balconi) «E lucean le stelle», alla «Pensione Lojacono» non s'è ancora presentato «nu cane»! Solo con Raffaele, il suo apprendista stregone (o è l’incontrario?), Pasquale si confida: «O prufessore, dirimpetto, domanda sempre, vorrebbe sapere, ma una parola d’ ’a vocca mia non esce» (II, p. 130): più tardi dirà alla moglie: «tutti mi hanno detto: ‘Non parlate, se no finisce tutto!”’» (II, p. 135). Il fantasma benigno, come il donatore magico delle fiabe, non dev'essere nominato, altrimenti dal piano della ‘‘magia’’ si precipita catastroficamente in quello della ‘‘realtà’’: e nella realtà non c’è posto per il ‘‘meraviglioso’’, per gli oggetti magici, come quella giacca da casa attaccata all’appendiabiti, dalla cui tasca, provvidenzialmente, vengono fuori i biglietti da mille! 188

Ed è sintomatico della drammaturgia eduardiana che anche gli oggetti magici si configurino con le cose più comuni della quotidianità: la «gallina» che diventa «pollo arrosto» nel primo atto, la «giacca da casa» che è «una miniera... Quello che ci vuoi trovare ci trovi».

Gli illusionisti-illusi dell’ Autore conservano sempre qualcosa di quel Sik-Sik che cercava di trasformare in realtà i propri sogni e le proprie ambizioni artistiche (Pasquale ha fatto pure «l’impresario teatrale», ricordiamolo!).

Perciò, accanto al gioco della magia — in quello stesso della Grande magia — compare sempre il piccolo gioco di prestigio: come nella scena farsesca in cui l’«ingenuo» che si era fatto gabbare dal «falso aiutante», nel primo atto, impara il trucco nel secondo, e fa sparire le duemila lire che gli deve: PASQUALE [...] pigliatèllo cu’ ’e fantàseme. RAFFAELE Significa non avere coscienza. Significa proprio ca uno è nu fantàseme disonesto: ’a schifezza d’ ’e fantàseme... (II, p. 133).

Comunque,

sia dal dialogo/monologo di Pasquale col suo dirimpet-

taio, sia dalla vivace scena a due col portiere, si evince che il tradimento di Maria è ormai di dominio pubblico: attraverso l'espediente

farsesco del doppio senso, che diventa più forte e provocatorio nel dialogo dissociato con Raffaele: RAFFAELE (sorzione) Don Pasca’, quanno se mmocca, l’aggio visto pur’io... Specialmente quando voi uscite... (II, p. 130).

Ma la comicità non potrebbe scasturire così naturalmente dalla situazione se fosse chiara la malafede del protagonista: proprio lo statuto ‘“‘ambiguo’”’ del personaggio consente allo spettatore di ridere di una situazione che altrimenti sarebbe penosamente grottesca (come quella del Berretto a sonagli).

Anche durante il cruciale ‘‘dialogo’’ con la moglie, l’unico dell’intera commedia (per il resto i due non si scambiano che rare battute), lo spettatore è mantenuto nell’«esitazione»!?. Si è venuta a creare ‘

13 Esitazione non più provocata, come nel I atto, dalle ‘‘visioni’’, e quindi affidata prevalentemente al codice gestuale/scenografico, ma dalle ‘‘reazioni”’ di Pasqua-

189

— teatralmente — questa situazione: tutti i personaggi — ad eccezio-

ne forse del protagonista —, allo stesso modo dello spettatore rappresentato e dello spettatore reale, conoscono la «verità», sanno cioè che

il fantasma è l’amante di Maria; tutti i personaggi, Maria compresa, sono convinti che il «marito» chiuda gli occhi per il meschino interesse, ad eccezione stavolta dello spettatore reale — che si dissocia da quello rappresentato proprio su questo punto —, perché è indotto dal testo ad esitare sulla connivenza del protagonista. Comunque il protagonista, nella prima come nella seconda rete di rapporti (PERSONAGGI/SPETTATORE-PROTAGONISTA € SPETTATORE-PROTAGONISTA), resta l’incognita. Neppure il testo verbale del dialogo PASQUALE-MARIA ci consen-

tirà di decidere se il primo creda veramente al fantasma o finga soltanto di credervi: le reazioni del protagonista appaiono sempre sfasate, oblique, rispetto alla «prova della verità». Da un lato egli sembra confermare i sospetti della moglie: PASQUALE Ecco: c’è un’anima buona che ci aiuta, e speriamo che ci aiuti sempre più per l’avvenire. Tu. sei felice, io son contento: tiriamo avanti e chi vo’ ’a Dio, ca s’’o prega. Maria Ma, allora, tu mangi e zitto?... PasQquaLe E che so’ scemo?... Se capisce ca me stongo zitto (II p. 134),

3

e più avanti: PASQUALE In fin dei conti poi, se c'è uno che dovrebbe domandare spiegazioni, permettimi di dire, quest’uno dovrei essere io [...]. E dal momento che io non te ne chiedo, l'incidente è chiuso (II, p. 135).

Dall'altro, l’Autore, mettendo in bocca proprio a Pasquale la sua stessa provocazione al dialogo, ci fa propendere verso la buona fede del protagonista: Pasquate [...] Mari’, ma si può sapere che hai?... Se non sei contenta, se devi dirmi qualcosa, parla. Nun è meglio ca parlammo? le e quindi delegata al codice verbale (che implica comunque i modi orali dell’enunciazione).

190

MARIA (non lo degna neanche d’uno sguardo) E ti conviene? [...] PasquaLe Ma s'intende che mi conviene, e dovrebbe convenire anche a te. Io, cara Maria, non ti nascondo niente... (II, p. 133).

La sua amarezza e la sua paziente ricerca d’un accordo sembrano quelle di un uomo profondamente innamorato e desideroso d’un vero rapporto di confidenza con la moglie. PasQquaLE Ma tu, soprattutto, dovresti parlare. [...] Campà è difficile, Mari’. A nu certo punto va’ trova che ce mettimmo ncapo... Accumenciammo a penzà, ci formiamo un’idea sbagliata... Specialmente nel matrimonio, succede quasi sempre cosî... [...] Parla, Mari’, parla... Aiutami con un tuo sguardo, non dico sempre... Una volta ogni tanto

(II, p. 133).

È ancora il tema eduardiano del «linguaggio»: della ricerca di un linguaggio «comunicante» sempre più difficile da ritrovare, sia nel rapporto di coppia o famigliare che in quello più generale «fra gli uomini». Eppure proprio questo dialogo che cerca il dialogo, fra Pasquale e Maria, è all’insegna dell’incomprensione; qui il linguaggio risulta e deve risultare via via sempre più divaricato: i doppi sensi ‘‘farseschi” che nel precedente ‘a due’’ Pasquale-Raffaele fungevano da nota brillante, permeando di schietta «comicità» il dialogo, tradotti

nel cuore del ‘‘rapporto di coppia” danno adito a quell’«umorismo» che per Eduardo è «la parte amara della risata». «Mentre di solito, parlando dello stesso oggetto, si manifesta la possibilità di una vera comprensione, qui se ne rivela l’impossibilità. L’impressione di divergenza è tanto più forte, quando si stacca da un fondo fittizio di convergenza»!: tanto più forte qui, dove appunto il ‘parlare senza capirsi’’ scaturisce dalla sollecitazione di Pasquale a ‘‘parlare per capirsi”, e il «contrasto, parodistico e doloroso insieme, col vero dialogo» («che viene respinto, così, nei paraggi dell’utopia») finisce con l’imprigionare sempre più il protagonista nel suo statuto d’«ambiguità». Perché ci sarebbe anche una terza ‘‘presupposizione’”’ — tra le due estreme della credulità e della meistificazione —, derivata dal rapporto stesso dell'Autore col suo Protagonista: Pasquale sa e proprio per ciò, col 14 Szondi esemplifica (come sappiamo) un processo analogo, pur nel diverso contesto del teatro cechoviano (op. cit., p. 28).

191

suo chiudere gli occhi provocatorio, vuole indurre la moglie a parlare... Tuttavia i vari, potenziali, segnali verso questa o le altre presupposizioni (dello spettatore sul personaggio) si intrecciano su un piano strutturale di ambiguità linguistica e semantica, in cui si condensa il significato del tutto. L’opera vive, infatti, di queste contraddittorie segnalazioni, che interessano il protagonista nei suoi rapporti con tutti gli altri personaggi; ed è stata progettata proprio in funzione di esse. Con sempre nuovi guizzi anche di farsesca comicità: come quando, all’improvviso, sparito Pasquale, si affaccia, dal finestrino della parete di fondo a sinistra e accendendo una sigaretta, proprio Alfredo, l'amante: quasi una marionetta che sbuchi fuori dal fondale senza

scoprire la mano che la muove

(II, p. 136).

Quel «finestrino», si diceva avanti, simula un altro pertugio nel

contenitore della scena fissa: lo spazio artistico gioca sull’infrazione non solo alla quarta parete (corrispondente alla parapettata convenzionale) ma è progettato, tagliato in modo che anche la parete del «fondale» appaia forata. C'è infatti il finestrizo speculare ai due balconi sul davanti, e c’è pure la scaletta interna per la quale si accede nella stanza e contemporaneamente sulla terrazza... per questa via «appare» in scena Alfredo, ma apparirà anche Gastone, il cognato, l’estraneo al triangolo che tuttavia partecipa alla vicenda e sarebbe pronto (come si intuisce alla fine) a prendere il posto dell’amante. Non si ha privacy famigliare in questa stanza (davvero di transizione), e neppure privacy, diciamo così, adulterina: se il dialogo PasqualeMaria è ascoltato da Alfredo, anche il dialogo Maria-Alfredo è ascoltato da Gastone che è entrato un po’ prima dal terrazzo e si è fermato al finestrino in osservazione della scena: ALFREDO Ma come hai fatto ad entrare in casa da quella scala? [...] GastoNEE dal terrazzo, scavalcando un piccolo muretto e attraversando un passaggio pensile, non si va a finire nella camera al quinto piano del palazzo accanto, che hai preso in affitto per vedere più comodamente

la signora? (II, p. 137).

Ancora una volta, come per l’osmosi basso-vico di Napoli milionaria!,

alla base della finzione scenica c’è un autentico ‘spaccato napoleta-

no”: qui con i suoi terrazzi e tetti che appaiono quasi altrettante

vie di comunicazione fra esterno e interno. Solo che in Questi fantasmi! 102

il gioco scenico delle entrate ed uscite si complica di illusività e di allusività — fra fantasmi e uomini — come in una stanza degli specchi d’un Luna-Park sorprendente e grottesco: così Pasquale, all’apparizione di Gastone, quando questi lo copre di insulti — (fuori dei gangheri) Ma che pazzia... he ’a vedé che genio ’e pazzià ca tengo. Se sei fantasma bene... Se sei uomo te scasso na seggia ncapo! (II, p. 140).

L’atto si chiude quindi con una scena fra il pirandellismo e la farsa: anzi fra la citazione parodica, anche se affettuosa, dei Sei personaggi e la sua utilizzazione in chiave di surrealismo farsesco. Infatti

l'apparizione del «gruppo di famiglia» dell'amante, con la moglie tradita, gli sgraziati figlioletti e i due vecchi genitori, in un clima segnatamente apocalittico (tuoni sinistri e lontani... tuoni in lontananza... tuono fortissimo e scarica elettrica), assolve a due funzioni diverse ma

complementari: alla caricaturale e ‘‘napoletana’’ rivisitazione del teatro di Pirandello (che appare così esorcizzato) e ad un prolungato sfruttamento del tema dell’equivoco fra presenza ‘‘reale’’ e apparizioni ‘‘fantastiche’’; la cui chiave farsesca, oltre che dalla caratterizza-

zione fisica dei cinque personaggi che irrompono sulla scena, è confermata dall’insistito uso del doppio senso: ArmIDA Voi vedete cinque fantasmi! [...] Io sono morta un anno e mezzo fa! [...] Queste due figure d’adolescenti sono due morticini! [...] Tu solo puoi salvarci e darci pace... lo puoi... Fa resuscitare questa famiglia... (II, pp. 141-144).

È anche l’episodio in cui il gioco-degli-specchi fra proscenio, scena e retroscena, pare moltiplicarsi all'infinito: il ‘‘teatro nel teatro” di Eduardo sfrutta a pieno, con naturale umoristica armonia, tutti i suoi trucchi, in uno scambio irresistibile di ruoli fra il Protagonista, l Autore e lo Spettatore. Anzitutto Pasquale, una volta estromesso dalla ‘‘sceneggiata’’ per l’entrata improvvisa di Alfredo, incantato gira da una parte all'altra della scena osservando or l’uno or l’altra. Il tutto

gli dà l'impressione di uno spettacolo fantastico. Per vedere meglio sale sulle sedie, sui tavoli: assiste come uno spettatore che ha pagato il biglietto (did., II, p. 145). Il linguaggio della didascalia è importante: sugge193

risce la chiave d’interpretazione scenica: l'Autore infatti prende le distanze dal Protagonista quando avverte che «il tutto gli dà l’impressione di uno spettacolo fantastico»: il Protagonista si trova di fronte ad una «visione ambigua», ossia dubita dei propri sensi, della vista in ispecie (anche prima la didascalia notava: Pasquale ron riesce a capire se vede o travede, Id., p. 139); perciò il personaggio cerca altri punti di vista, «per vedere meglio». Ma al tempo stesso la didascalia sottolinea la dimensione ‘‘spettacolare’’ dell'evento cui Pasquale assiste, appunto, come «uno spettatore che ha pagato il biglietto». Quindi «spettacolo fantastico» (dal punto di vista del Protagonista), e noi potremmo aggiungere «spettacolo popolare»: difatti Pasquale in veste di spettatore «sale sulle sedie, sui tavoli», e dopo l’improvvisa apparizione/sparizione di Gastone dal finestrino del terrazzo, per vedere meglio sale sul divano e con gesti fa capire al pubblico che l’apparizione è scom-

parsa (did., II, p. 145). Solo quando la scena tragi-comica raggiunge l’acmè della confusione e del parossismo, Pasquale sconvolto trova scampo fuori da uno dei balconi, chiudendo dietro di sé i battenti e spiando nell'interno della camera:

in tal modo

riproduce

(parodicamente)

la

situazione topica del teatro convenzionale, naturalistico, con lo spet-

tatore chiuso fuori della scena che spia ciò che vi accade attraverso una quarta parete trasparente. E la didascalia sottolinea nuovamente il fatto: Il temporale è al suo culmine. Data la conformazione della scena e la funzione dei due balconi, il pubblico deve avere la sensazione di trovarsi allo scoperto come Pasquale stesso (II, p. 146).

Ma il gioco degli specchi non è finito: se l’autore nelle didascalie si identifica chiaramente col regista, il pubblico si identifica (come sappiamo) anche con lo spettatore rappresentato Professor Santanna, quindi il protagonista, fattosi spettatore a sua volta, si incontra (come prospettiva) non solo col pubblico ‘‘reale’’ ma anche, naturalmente, col sempre presente ‘‘dirimpettaio’’: tutti quanti, spettatore reale, spettatore rappresentato, protagonista/spettatore, assistono (da fuori) alla stessa scena i7 interno. «Visione ambigua» forse per uno solo dei tre personaggi/spettatori individuati — eppure «visione» che l’autore/regista non manca di connotare con gli attributi della «finzione». Come in una scena di melodramma vi si forzzano [...] di tanto in tanto [...] 194

dei gruppi allegorici simili a quelle oleografie che presentano in atteggia-

menti diversi, le anime del purgatorio (poco prima, addirittura, Armida s'era alzata per cantare una romanza) e vi trovano posto persino delle comparse in funzione di coro (Una lavandaia, una cameriera che si trovavano a passare dalla scala di servizio ai gridi sono apparse anche loro e commentano l'accaduto. Un cuoco si è affacciato al finestrino, (did., II, p. 147). Affacciandosi al balcone e scorgendo il Professor Santanna, Pasquale rientra nel ruolo di personaggio: ma questa volta, per coprire la sua evidente agitazione, denuncia l’unica «verità» possibile: Ah... ah... ah... Non è vero niente, professo’ [...]! I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi, siamo noi i fantasmi... Ah... ah... ah... (E mentre il temporale continua e quelli che litigano, nell’interno della camera, sempre gridando giungono sul limitare dell’uscio di ingresso, Pasquale per mostrarsi sempre più disinvolto canta) Ah... l’ammore che fa fa (II, p. 147).

Col terzo atto si risolve — forse — la grottesca e dolorosa situazione coniugale di Pasquale, ma non il mistero del suo «candore». I persistenti scrupoli morali di Maria, fomentati da Gastone in veste di tutore dell’«unità famigliare» (altrui, ché il principale artefice della sparizione del ‘‘fantasma’’ sta mettendo le basi per sostituirsi ad esso, cfr. III, p. 150), hanno portato alla separazione degli amanti. Però con l’eclissi del ‘“fantasma’’ anche il provvisorio benessere di Pasquale è scomparso, sebbene l’Autore, con la consueta maestria nel dosaggio dei toni, si sottragga al rischio del patetico sottolineando comicamente le reazioni del protagonista: PasQquaLe

(dall’interno, con voce alterata a Raffaele che lo segue)

Rafe’, ti ho pregato, tu non mi devi scocciare. Si sapisse ’e nierve addé stanno (Fuori seguito da Raffaele). Tu ogni vvuota ca me retiro, me consugne na carta, na citazione cu’ na faccia ca nun esprime niente, anzi no, esprime qualche cosa, esprime gioia, comme

si te facesse

piacere. Se mi retirasse diece vote ’o iuorno, tu diece citazione me desse. ’E gghisse arrubbanno pe’ m’’e dda’. Tu faresti furti ncopp’ ‘e Preture pe’ dda’ citazioni a me (III, pp. 150-151).

Il falso aiutante Raffaele — come portiere di quell’Inferno che 195

era parso trasformarsi, agli occhi del ‘‘visionario”’ Pasquale, nel miraggio del Paradiso Terrestre, per poi ridiventare il solito Purgatorio quotidiano fatto di conti da pagare e di citazioni — rivela la sua natura maliziosa e popolarmente feroce: attraverso l’iperbolica analisi dello scalognato ‘padrone’ si indovina l’invidia del ‘‘servo”’ che lo spinge quasi a godere delle disgrazie altrui (mal comune mezzo gaudio!). Il mondo dei «vivi» è ostile al povero anti-eroe, al quale non resta che l’estrema risorsa di rivolgersi ai «morti» (ma il confidente/aiutante del protagonista sarà stavolta, come sapremo poi, il Professor Santanna, lo spettatore rappresentato). Pasquale finge di partire e fa la posta al «fantasma». Questa partenza simulata conferma il suo ambiguo rapporto con lo «scomparso», ma è anche l'occasione scenica per un amaro e affettuoso commiato dalla moglie, nel corso del quale (come in un altro «monologo essenziale») proseguono le riflessioni sulla vita coniugale avviate in precedenza: PasquaLe Statte bbona, Mari’ [...] come ci riduciamo... Che tristezza... Come finisce tutto l’entusiasmo, tutto l’amore. Mesi e mesi senza scambiarsi una parola, un pensiero [...] Te ricuorde, Mari’, quando

facevamo ‘ammore? Ce guardàvemo dint’ all’uocchie e nun parlàvemo per timidezza, ma cu’ ll’uocchie ce dicévamo tante cose [...] Avimmo perza ’a chiave, Mari”! (Si avvia triste) (III, p. 152).

Con il consueto libra subito la al controcanto interpretazione

rzixage di stili, nell’enunciazione, il drammaturgo equinota lirico-malinconica con quella farsesca: affidando di Raffaele, qui in funzione di Doppio, la traduzione«popolare» del discorso di Pasquale:

RAFFAELE Signo’, io ho capito. Lui non dice la chiave, diciamo di mascatura, che è proprio una chiave riale... Lui ha fatto, comme fosse, un corrispettivo di assistenza sociale fra la chiave vera e la chiave che non è vera, che sarebbe poi quella vera. Succede a nu cierto punto, che fra marito e moglie nasce quella scocciantaria [...] Viene quell'abbondanza di sazietà ca poi finisce ca fa schifo! Sf, è vero, viene anche quel bene che non è quello di prima, più sostanzioso, ma la donna non lo comprende. [...] Ecco che la donna s’intristisce, voi le parlate e quella non vi risponde, che è la peggio cosa. ’A bbon’anema di mia moglie pure faceva lo stesso. Ma io ’a facevo parlà, pecché ‘a vulevo bene [...]. Certe volte ’a struppiavo ’e mazzate, ma parlava

196

[...] Voi, per esempio, signo’, avissev’’a abbuscà nu poco. Ve faciarrfa

bene.

(III, pp. 152:153).

Però, in questo contesto, la nota farsesca non è fine a se stessa

(anche se richiama la situazione ‘‘paradossale’’ di Pericolosamente): l’eco popolare, sottolineata dall’uso più marcato del dialetto, alle riflessioni borghesi del protagonista serve anche ad allargare l’orizzonte della situazione, confrontandola e adeguandola concretamente ad altre manifestazioni della quotidianità. Le due scene seguenti si svolgono in contemporanea, con un procedimento ‘‘cinematografico’’ che accentua la tensione ad evadere dalla scena fissa: mentre Pasquale (attraversando la stanza buia) esce e si rifugia sul solito balcone di sinistra (illuminato dai raggi lunari), curando di richiudere i battenti dietro di sé e nascondendosi dagli abitanti degli stabili di fronte e quindi dagli spettatori dietro una coperta colorata (sipario casalingo e improvvisato); nella stanza ricompare (dalle solite scale del terrazzo) Alfredo. È tornato a portar via Maria, per sempre. Ma quando Maria si allontana, per prepararsi alla ‘‘fuga”’, l'amante si avvicina al balcone di destra e distrattamente vi esce fuori: il riflettore ‘‘epico’’ eduardiano, dissimulato dal raggio della luna, focalizza e sposta l’azione su quei due balconi antistanti, posti tra la finzione della scena e la realtà della sala (il proscenio è stato da sempre il luogo deputato della diretta comunicazione col pubblico). Su questo «limite», confine spaziale fra Teatro e Vita, si svolge da un balcone all’altro l’incontro ‘‘finale’’ fra Pasquale e il suo Fantasma: specie di «intersezione» montaliana — «[...] E quando si palesa / la sola verità che, disvelata, / viene subito espunta da chi sorveglia / i congegni e gli scambi [...]!? —, sufficiente a dar luogo ad un incontro, un riconoscimento fra uomini ‘veri’. Perché il protagonista, «in forza se non proprio di una fede, d’un suo abile surrogato» (D’ Amico) — «Dal momento che pozzo credere me sento forte e la forza mi

15 Cfr. E. MONTALE,

Tempo e tempi, in Satura, Milano, Mondadori,

1971. «Ma

in quell’attimo / solo i pochi viventi si sono riconosciuti / per dirsi addio, non arrivederci» (p. 81). È il tema della «comunicazione impossibile»: solo che per Montale l’«intersezione» è un inopinato errore, subito corretto dal meccanismo della necessità; invece per Eduardo il guasto è determinato proprio dall’«incomprensione», perciò va riparato il meccanismo della «normalità» nei rapporti fra gli uomini.

197

dà fiducia e speranza» (III, p. 154) —,

confessa all’altro la propria

disperazione; e l’altro, che ha ascoltato quello sfogo 4 testa bassa, senza muoversi, inchiodato allo stipite del balcone, riesce a comprendere, a commuoversi, a credere anche lui: «Grazie. Hai sciolto la mia con-

danna. Io fui condannato a vagare in questa casa fino che un uomo non mi avesse parlato come mi stai parlando tu...» (III, p. 155). Il «puerile abbandono» del protagonista riesce a vincere, per una volta, per un attimo, il Destino, quel destino novecentesco che sembra aver

alterato per sempre «la normalità dei rapporti intersoggettivi» (Szondi), che impedisce la «comunicazione» fra gli uomini, fra i «pochi viventi» (ancora Montale: «E si ripiomba poi nell'unico tempo...»). Pasquale Lojacono ottiene, oltre ad un ultimo sussidio, la definitiva scomparsa di Alfredo come amante della moglie. E una vittoria tuttavia fondata sull’illusione: su un’attesa ed una speranza assai meno fondate di quelle di Gennaro Jovine di Napoli milionaria!

Difatti Pasquale si confessa non ad un altro uomo ma al suo benefico fantasma: «Con un altro uomo, cu’ n’ommo comm’a me, nun avarria parlato: ma cu’ te sf, cu’ te pozzo parlà, tu sf n’ata cosa.

Tu sei al di sopra di tutti i sentimenti che ci condannano a non aprire i nostri cuori l’uno con l’altro: [...] Parlanno cu’ te me sento vicino a Dio, me sento piccirillo piccirillo... me sento niente... e me fa piacere di sentirmi niente, cosî posso liberarmi dal peso del mio essere che mi opprime!... (Si abbandona sulla ringhiera. Non piange ma è felice, contento: attende). E Alfredo comincia a parlare come a se stesso (Ibidem). Rimane uno schermo fra i due «uomini»; sembra quasi che i «vivi», per esprimere le proprie debolezze e persino i propri impulsi di solidarietà, debbono o travestirsi da «fantasmi» o alienare ai «fantasmi» la miseria quotidiana del vivere. D'altra parte, l'Autore non consente neppure alla ‘‘fine’’ allo spettatore di sciogliere i propri dubbi sul «candore» del protagonista: col suo solito razzo finale ristabilisce anzi, al di là della soluzione della storia, la situazione di «ambiguità». Così Pasquale — scomparso il suo antagonista/benefattore — all’onnipresente Professor Santanna: Ci ho parlato... Mi ha lasciato una somma di denaro... (Mostra i biglietti) Guardate... Però dice che ha sciolto la sua condanna, che non comparirà mai più... (Ascolta) Come... sotto altre sembianze? È probabile... E speriamo... (IIL p.. 156).

198

Come abbiamo osservato in Questi fantasmi! e osserveremo anco-

ra in quei testi dell’Autore che «tematicamente» presentano aspetti sconfinanti col «fantastico», il gioco dell’ambiguità strutturale del protagonista eduardiano è alimentato e reso più evidente dalla situazione specifica in cui esso si colloca. Situazione che non è data soltanto dalla problematica centrale — dall’opposizione semantica binaria fra Illusione/Sogno e Realtà — ma dal prevalere all’interno di questa problematica della «rete tematica dell’io» rispetto a quella del «tu». Ciò potrà dirsi, appunto, anche per altri lavori di Eduardo fondati sulla medesima «opposizione»: come La grande magia e Le voci di dentro (1948),

De Pretore

Vincenzo

(’57), Il contratto

(*67)...

Sono tutti lavori che — al di là delle singole soluzioni particolari — tendono a mantenere l’«ambiguità» sino alla fine o anche oltre, sul modello strutturale del Così è (se vi pare) pirandelliano. Ma proprio l'assunzione di tale schema drammaturgico può acquistare in queste commedie della ‘‘maturità’’ artistica dell'Autore una duplice funzione «informativa»: dal punto di vista della significazione storica e sociologica di tali opere e da quello della loro significazione più latamente semantica. È infatti significativo che questi testi eduardiani si pongano in date cruciali di crisi o di disillusione storica e morale, per l’autore stesso, a partire proprio da Questi fantasmi! La contiguità con la problematica pirandelliana Finzione/Realtà e con certe sue soluzioni sceniche appare quasi obbligata (tutto il nostro, e non solo il nostro, teatro del Novecento, quando tratti dei

temi dell’«io», fa i conti e si confronta con Pirandello). Eppure il modo stesso in cui Eduardo gioca la carta del pirandellismo, e particolarmente in questa commedia, è indizio di una rivisitazione trasgressiva. Anche tralasciando l’episodio citatorio dell’apparizione dei cinque fantasmi (che con Alfredo, il ‘‘fantasma’’ principale, saranno sei) nel secondo atto, volto al parodico e come sostenuto (si è detto)

da una volontà di esorcizzare l’ectoplasma d’una maestranza necessaria ma ormai ingombrante, la conduzione stessa dell'intera vicenda su un registro «comico», anche nel senso originario di «genere misto», diverso dall’«umorismo tragico» pirandelliano, svela un ribaltamento di prospettiva. Per Pirandello l'Umzorismo!6 come «sentimento del contrario» — 16 Cfr. L. PrranpeLLO,

L’Urzorismzo,

Saggi, Milano, Mondadori,

1960.

199

è superiore di grado al Comico (semplice, istintivo «avvertimento del contrario»); per Eduardo si modifica la definizione stessa di «umorismo»: «l’umorismo è la parte amara della risata [...] esso è determina-

to dalla delusione dell’uomo che per natura è ottimista»!”. La definizione pirandelliana scaturisce da una valutazione filosofica del mondo e della sua rappresentazione che degrada la «risata» a puro impulso meccanico, appartenente alla sfera inferiore del biologico: per Eduardo invece cuore e cervello, istinti-passioni-volontà-pensieri non sono scorporabili nell’uozzo intero che è il suo soggetto fondamentale, non esistono gerarchie fra la sfera dei sensi e quella del pensiero, semmai sfumature intermedie sempre riconducibili all'unità della persona umana, al suo modo di essere e al suo modo di vedere, di sentire, di intendere il Mondo. Alla base della teatralità pirandelliana c’era (forse) l’aspirazione, frustrata dalla Storia, a fare la «tragedia» (e allora l’autore ripiega sull’umorismo tragico); alla base di quella eduardiana c’è piuttosto la volontà di rappresentare la «commedia umana», senza complessi o frustrazioni, perché la risata (la capacità di ridere che distingue l'Uomo dalla Bestia)!8 passa per il cervello, scaricando le eccedenze dei sensi e dei sentimenti in modo positivo, ricostruttivo. Perciò anche la vicenda «umana» di Pasquale Lojacono può essere affrontata e orchestrata a suon di «risate»: e la risata scatta, non

solo il sorriso, soprattutto nelle scene in cui il protagonista — con l'aspetto subito fra lunare e clownesco che contraddistingue le proiezioni dell'Autore — instaura quel rapporto di coppia comica col portiere Raffaele, che è anche (si è visto) una specie ulteriore di Doppio. Il riso conduce puntualmente — con insistenza progettata, anche se con estrema naturalezza — il «fantastico» o l’esistenziale nel «quotidiano»: in uno scambio di ruoli fra servo e padrone, che sostanzia la «grande magia» della vita e dell’ambiguità umane con i più vissuti ed usuali «giochi di prestigio». Si può anzi dire che i piccoli giochi di prestigio segnino lo svolgimento dei grandi: dalle prime sparizioni, da prestigiatore affamato, del «guardiaporta», alle corrispondenti apparizioni operate dall’«inferico cavaliere» o dal suo più banale Dop-

17 Cfr. G. Sarno, Intervista con Eduardo De Filippo, «Roma», 18 Cfr. H. Bercson, I/ riso cit.

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31 marzo

1940.

pio, fino allo spassoso ma sintomatico fluttuare delle «carte da mille» (dentro e fuori la tasca di una giacca da casa trasformata in calza della Befana, per sparire e riapparire su quel «tavolo» truccato al centro della stanza...). Certo, la morale della favola è tutt’altro che allegra: il nocciolo semantico è nella «tristezza» di aver «perza ’a chiave» della comunicazione fra marito e moglie, in «quanto è triste, per un uomo, nascon-

dere la propria umiliazione con una risata, una barzelletta», in quel «lavoro onesto» che «è doloroso e misero, e non sempre si trova» (III, p. 155): allora, nell'Italia del ’46, e nella Napoli delle assurdità preistoriche, delle piaghe e dell'ignoranza. Ma la risata inventata da Eduardo per significare questa realtà non ne rimuove l’asprezza, anzi la rileva, strumento di provocazione cosciente di chi non si rassegna al negativo, alle finzioni, alle miserie morali e materiali della «vita degli uomini»: Probabilmente tra cinquant'anni riprenderanno Questi fantasmi! e non rideranno più, perché sarà la ricostruzione di un’epoca, perché potranno vedere in quest'uomo che crede ai fantasmi, per non credere alla realtà, la vita degli uomini!?.

Può sembrare un’affermazione contraddittoria: «ricostruzione di un’epoca» o quadro della «vita degli uomini» di ogni epoca? Il problema resta aperto: l’ipotesi storico-realistica, di un testo che traduce, in un linguaggio «elaborato teatralmente», il presentimento quasi chiaroveggente d’un riflusso — a vari livelli — legato ad una determinata epoca, va nel senso d’una sospensione di giudizio globale nella We/tanschauung dell’ Autore; l’interpretazione allegorica, invece, può andare a sostegno d’una visione pessimistica dell’intero quadro-del-mondo eduardiano. Personalmente propendiamo per la prima ipotesi, anche

19 Cfr. Eduardo, in V. PANDOLFI, Intervista a quattr’occhi con Eduardo De Filippo, «Sipario», n. 119, marzo 1956; poi in Teatro italiano contemporaneo, 1945-59, Milano, Schwarz, 1959, pp. 197-202. Ultimamente l’Autore ha confermato l’interpretazione della sua commedia come specie di gigantesco Qui-pro-quo: «per dire che i fantasmi non esistono, i fantasmi siamo noi, ridotti così dalla società che ci vuole

ambigui, ci vuole lacerati, insieme bugiardi e sinceri, generosi e vili» (cfr. A. GHIRELLI, Eduardo: «Tradurrò Shakespeare in napoletano», «Corriere della Sera», 10 luglio 1983).

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in considerazione del fatto che quasi contemporaneamente a Questi fantasmi! Eduardo scrive e rappresenta Filumena Marturano (dove il dilemma Finzione/Verità trova un’originale soluzione positiva), ma soprattutto perché le interpretazioni «allegoriche» dei testi dell'Autore (anche quelle suggerite da lui stesso) finiscono sempre per limitare anziché accrescere la «polifonia dialogica» (nel vero senso bachtiniano del termine) della sua Opera: che è sempre tale da consentire scappatoie, fughe-in-avanti, dalle ipostatizzazioni della sua We/tanschauung®°. Comunque in questa come in altre dichiarazioni dell'Autore si rileva il suono di quella «corda civile» che egli non ha mai smesso di pizzicare: in occasione della sua conferenza-spettacolo del 10 luglio 1983, pur ricordando l’epoca che gli ispirò Questi fantasmi!, egli puntualizza che il «disamore di oggi» avrebbe un bersaglio in più: Questi partiti politici lontani dalla nostra vita, fantasmi anche loro, o chissà che non siano riusciti a convertire tutti noi in fantasmi...?!.

2° Cfr. a riguardo G. Antonucci, Eduardo De Filippo cit. Che anche Questi fantasmi! possieda una sua polifonica vitalità è confermato dal successo della sua ‘ripresa’ nell’’81 da parte di Enrico Maria Salerno: «un attore che — a giudizio di G. Prosperi, ma anche nostro — non ne è l’interprete testuale», proprio perché «incattivisce il protagonista» e quindi il senso della commedia (cfr. G. ProspERI, Cinque fantasmi in cerca d'autore, «Il Tempo», 29 ottobre 1981). 21 Ancora dalla Conferenza/Spettacolo di Eduardo a Montalcino, Teatro/Stage ’83.

202

3. FILUMENA MARTURANO DALLA TRAGEDIA ALLA BEFFA

La lunga didascalia iniziale di Filurzena Marturano — opera che completa la ‘“‘trilogia”’ eduardiana del dopoguerra! — potrebbe intitolarsi «ai quattro cantoni», ma più ancora che un gioco di ragazzi simula un incontro di pugilato appena prima che suoni il gong. Le didascalie ambientali di Eduardo, dense, accurate, pignole addirittura, possono paragonarsi per importanza scenografica nel nostro

teatro del ‘900 solo a quelle di Pirandello: di quelle di Eduardo, come di quelle del suo conflittuale «maestro» (il «maestro italiano»), a nes-

sun regista sarà consentito di disfarsi. Il luogo (qui, ora) non può essere cancellato, a meno di fare ‘cosa diversa”. Mentre però — come ha osservato Giovanni Macchia — lo spazio artistico del teatro pirandelliano si configura in «un seguito di stanze, anche quando il palcoscenico si apre nella luminosità di un giardino o di una falsa natura che non consola»?, gli ambienti scenici eduardiani, già l’abbiamo notato, denunziano piuttosto una progettazione centrifuga che suddivide, movimenta e apre la «stanza», anche quando come in casa Soriano questa appare delimitata agli angoli (quando va su il sipario) da quattro personaggi in posizione «immobile». Può essere «una claustrofobia congenita, ossessiva, che si svilup-

pa in varie forme, da affidare quasi tutte allo psichiatra»?, quella che spinge anche il «personaggio pirandelliano» a tentare di uscire dalla 1 Filumena Marturano, tre atti, fu rappresentata per la prima volta il 7 novembre 1946, a Napoli, al Teatro Politeama. La commedia «è stata scritta, per confessione

dello stesso autore, in pochissimo tempo: avrebbe dovuto rappresentare la ‘‘copertura” nel caso di un insuccesso dei Fantaszi», un insuccesso che non ci fu (cfr. G.

MacgLIuLo, Eduardo De Filippo cit., p. 62). Per il testo in esame citiamo dal vol. I della Cantata dei giorni dispari (’82). 2 Cfr. G. MaccHia, Pirandello o la stanza della tortura cit., p. 12. > Ibi: pus,

203

«stanza dell'essere»: ma «non ce la fa»; la figura della Stanza è indispensabile al suo esistere in quanto personaggio, è divenuta la sede del suo peccato segreto che «solo a teatro» può essere scoperto. Questa «stanza della tortura» non è soltanto il doppio teatrale, il luogo deputato (quasi misteriosofico)

dell’antica sala dell’Inquisizione,

ma

anche l'estrema e più soffocante propaggine del «salotto borghese» ottocentesco — la quale, al di là della «logora tranquillità domestica» delle quattro pareti naturalistiche, svela ormai la sua realtà novecentesca di ‘luogo di martirio”. Dunque i personaggi pirandelliani «reclamano un luogo chiuso, un luogo di prova, ove vogliono essere processati e non di rado massacrati»*, perché per il loro autore la Vita è diventata metafora del Teatro. Con Eduardo si tenta di uscire dall’irzpasse successivo. Quella scoperta? si è trasformata in ipostasi, rischia di diventare un giro vi-

zioso senza più sbocchi: perciò il Teatro eduardiano vuol ritornare ad essere metafora della Vita. Proprio il codice spaziale/scenografico di questo «napoletano», mediante le didascalie, traduce il suo sforzo in concreta progettazione drammaturgica: la sua didascalia, che tende a significare per verba ed imperiosamente l’ambiente, ha una funzione informativa determinante. Non è soltanto un modo pratico ed esemplificativo di porgere aiuto allo scenografo, il quale è un po’ condotto per mano a tracciare spazi, luci, arredi, secondo l’intendimento del-

l’autore: «è via via anche e soprattutto una significazione ideologica morale e stilistica dell'autore stesso, che tendenzialmente vuole im-

porre [...] una sua maniera di vedere il mondo e il teatro, di conoscerlo e di giudicarlo infine». Ciò rientra nelle funzioni di ogni moderna didascalia drammaturgica (anche quando suggerisce all’attore-interprete gesti e tonalità foniche per il personaggio da portare sulla scena); la cui caratteristica fondamentale è di ridurre al massimo lo scarto (inevitabile) fra la scrittura del drammaturgo e l’operatività scenica. D'altronde, se in ogni opera artistica (per Lotman) la struttura dello spazio del testo, nel suo insieme, diventa «modello

della struttura

10.303 15, 5 Tale scoperta è< appunto comune o 3 a molte «visioni del teatro» fine otto- ma soprattutto novecentesche, dal Simbolismo a parte dell’Espressionismo all’Esistenzialismo all’Assurdo... $ Cfr. G. BarroLuccI, La didascalia drammaturgica cit., p. 7 (già cit.).

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dello spazio dell'universo», ciò è tanto più vero per l’opera di teatro: dove diventa tangibile «la possibilità di simulare in senso spaziale concetti che di per sé non hanno natura spaziale»?. Ecco perché il comporsi o lo svolgersi dello «spazio» in una commedia di Eduardo, come in una di Pirandello, organizza contemporaneamente anche lo «spazio etico» (ideologico, culturale...) del testo e dello spettacolo,

dal «punto di vista» diverso degli Autori. Se il Topos del teatro pirandelliano è raffigurabile nella «stanza della tortura» (secondo l’ipotesi di Macchia) ovvero in una spazialità «chiusa» dalla quale il personaggio tenta — ma inutilmente — di evadere e che alla fine lo soffoca e lo schiaccia, e quello invece del teatro eduardiano, anche in interno, offre — per l’articolazione scenografica dell'ambiente — vie di sfogo e di comunicazione con l'esterno (terrazze, grandi telai a vetri, porte che si aprono in continuazione...) o anche possibilità di movimento dentro l’ambiente stesso, attraverso la scansione di diversi luoghi: tale evidente opposizione (Aperto-Chiuso) fra i Topoi di luogo e di atmosfera dei due drammaturghi serve alla identificazione dei rispettivi, diversi, «quadri del mondo»8. Da una parte l’esasperazione, si è detto, della clausura soffocante

del «salotto borghese» dalla quale tenta di evadere la «rappresentazione epica» dei Sei personaggi in cerca d’autore (ma anche lì il processo che essi istruiscono sul proprio passato, pur di esistere, trasforma il palcoscenico di prova nel luogo della tortura); dall’altra una spazialità che, per le sue stesse radici regionali?, del «salotto borghese» conserva 7 Cfr. Ju.M. LOTMAN, op. cit., p. 261. Per Lotman «il particolare carattere della concezione visiva del mondo, propria dell’uomo [...] porta ad una determinata interpretazione dei modelli verbali. Il principio iconico, la chiarezza della rappresentazione visiva sono propri anche [ai modelli verbali] in tutto e per tutto» (Ibidem). 8 Se l’ambiente delle azioni è dato da tutto il continuum spaziale del testo, nel quale si riflette i/ rondo dell'oggetto e che si condensa in un certo Topos, la struttura di tale Topos agisce in qualità di linguaggio esprimente anche i rapporti non-spaziali dell’opera. Difatti la struttura del Topos rappresenta anche il principio dell’organizzazione e della disposizione dei personaggi nel continuum artistico; e nel teatro specialmente l’opposizione «aperto-chiuso» è un indizio essenziale del modello spaziale assunto dal drammaturgo, quindi della sua We/tanschauung. ? Ancora per Lotman, il Topos «ha sempre un certo carattere di oggetto, in quanto lo spazio è sempre dato all’uomo sotto forma di contenuto concreto» (op. cit.). Si veda ancora, per il Rapporto fra pubblico e spazio scenico, Ju.M. LOTMAN, Semiotica della scena cit.

205

solo il nome

(la definizione tematica), nei casi (non frequenti) in cui

lo assume come Topos d’ambientazione sociale. La spaziosa sala da pranzo della «borghese» casa Soriano, in Filumena Marturano, viola continuamente l’«intimità» del luogo scenico naturalistico; non solo ma si pone in antitesi all’«angustia» carceraria delle sue più recenti (A porte chiuse, 1944) «deiezioni» esistenziali-

stiche!°. Inoltre ogni dettaglio scenografico di questa ‘‘stanza”’ eduardiana, dal suo deciso «stile °900» alla porta, in prima quinta a sinistra,

che introduce nella camera da letto, all'ennesimo grande telaio a vetri (in seconda quinta) che taglia l'angolo della stanza e lascia vedere un ampio terrazzo fiorito, mentre a destra la stessa stanza si spazia inoltrandosi profondamente in quinta e lasciando scorgere [...] lo ‘‘studio’’ del padrone di casa (did., I, p. 161), richiama una «rappresentazione del mondo» che è radicata nella realtà. Non in modo astrattamente,

illusivamente, naturalistico: ma con una «naturalezza» che può derivare soltanto da una profonda conoscenza degli usi dell’apparato scenico e da una «libertà immaginativa dello spazio» (nel suo rapporto funzionale e funzionante col personaggio) che svela, appunto, una progettazione di struttura. Difatti questo luogo teatrale, di per sé articolato in angoli e in ambienti diversi mediante tramezzi, tende, e altri at-

trezzi permeabili o mobili (la porta della camera da letto di Filumena, sulla cui soglia troviamo all’inizio la protagonista, e che poi diventerà l’oggetto-bersaglio degli sguardi impauriti della sua più giovane rivale: o, ancora, lo «studio» tra virgolette del padrone di casa, che si lascia

scorgere attraverso un grande vano e l’apertura a metà di una tenda serica...), si presta altresì, nel continuum dell’azione scenica, ad importanti «trasformazioni». Come nel secondo atto, quando Filumena, sen10 «Già il titolo», scrive Szondi su A porte chiuse di Sartre, «allude all’esperimento in uno spazio ermeticamente chiuso. Il luogo dell’azione è un salotto stile secondo Impero nell’inferno. Il fatto che un’opera profana si svolga all’inferno e lo descriva come un salotto si spiega solo col ‘metodo d’inversione”’, che G. Anders ha illustrasto su opere di Esopo, Brecht e Kafka. [...] Mercè questa inversione una categoria esistenziale divenuta problematica, quella per cui l’uomo è un uomo fra gli uomini, e che sola fonda la vita sociale e la possibilità di un salotto, viene ‘‘straniata’’ e sperimentata come qualcosa di nuovo nella situazione ‘‘trascendentale’’ dell’inferno»: questo «trasferimento, che ripete [...] come esperimento la ‘‘deiezione’’ metafisica,

fa apparire i fattori esistenziali, ‘i caratteri ontologici dell’esistenza” (Heidegger), straniati in esperienze specifiche e determinate delle dramzatis personae» (op. cit., pp. 84-85).

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tendosi momentaneamente padrona della situazione e della «casa», per far posto ai suoi figli, si impadronisce della camera della servetta e del salottino «vicino ’o studio» (II, p. 185). O alla fine, quando la tenda, che divide la camera da pranzo dallo studio, è completamente chiusa (did., III, p. 200): perché lo studio di Domenico, che del resto non è mai stato tale (Non un libro, non un giornale, non una carta,

ma solo coppe, «Primi Premi» guadagnati dai suoi cavalli da corsa, did., I, p. 162), si trasformerà nel luogo ‘‘intimo’’ della cerimonia nuziale

(III, p. 210).

Ma fin dall’incipit la particolare scenografia e dislocazione dell’ambiente, con l’animarsi del «quadro» in «azione», risultano perfet-

tamente funzionali alla disposizione e al movimento in esso dei «personaggi». Di modo che il senso di indiscrezione che lo spettatore prova mettendo il naso nei fatti altrui è non solo ridotto al minimo: per la composizione chiasmzica dell'insieme (personaggi/ambiente) la sensazione dello spettatore è di essere tradotto «al centro del quadro»!!. Un quadro, d’altronde, che proprio al levarsi del sipario sembra pervaso da una tensione rattenuta al mz0vizzento: la scena appare come bloccata nel suo divenire naturale, per l’attitudine dei quattro personaggi che ne formano gli angoli. FILUMENA, quasi sulla soglia della camera da letto, le braccia conserte, [...] è în atteggiamento [...] da belva ferita, pronta a spiccare il salto sull’avversario (did., I, p. 162); nell'angolo opposto, e precisamente in prima quinta a destra, DOMENICO SorIANO, or4 è li, in pantalone e giacca di pigiama, sommariamente ab-

bottonati, pallido e convulso come un domatore in attesa dell’aggressione; a sinistra della stanza, nell’angolo, quasi presso il terrazzo [...] in piedi, RosALIA SOLIMENE, «donna del popolo» e aiutante di Filumena, segue, ansiosa, i movimenti di Domenico, senza perderlo d’occhio un istante (did., I, p. 163); rel quarto angolo anche ALFREDO AMORO-

so, «che riassume tutto il passato del suo padrone», è in atteggiamento di attesa

(Id.).

I quattro personaggi, i due minori come duplicazione dei due

11 Ricordiamo la volontà di Boccioni ‘‘futurista’’, di grande importanza anche in materia di teatro del ’900: «I pittori ci hanno sempre mostrato cose e persone poste davanti a noi. Noi porremo lo spettatore al centro del quadro»: cfr. U. BoccioNI, G% scritti editi ed inediti, a c. di Zeno Birolli, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 9.

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maggiori (dei quali testimoniano il passato), serzbra che stiano li, per divertirsi come dei bimbi; ed è la vita invece che li ha scaraventati così,

l'uno contro l’altro. Pausa lunga. Il drammaturgo onnisciente (in quanto narratore) gioca col tempo scenico, oltreché con lo spazio, la sua partita teatrale con lo spettatore: crea subito l'attesa, fermando il tempo, immobilizzando i suoi personaggi su/ punto di agire, e mettendosi subito, astutamente, nella prospettiva del pubblico (si scorge... si scor-

ge... cosi troviamo...).

Quando la scena si anima, l’attacco è (e dev'essere per contrasto con l’immobilità rattenuta di prima) singolarmente vivace: Domenico (schiaffeggiandosi ripetutamente con veemenza ed esasperazione) Pazzo, pazzo,

pazzo!

Ciento vote,

mille vote!

(I, p. 163).

E il primo atto appare subito quello delle rivelazioni: la prima dev’essere per lo spettatore, che si trova di colpo trasportato ir medias res, ma la seconda è anche per il protagonista maschile della storia, Domenico, l’amante/antagonista di Filumena. Sapremo via via, infatti, tutto della «finzione» da lei operata avanti l'incipit scenico, e sapremo pure, ma stavolta insieme alla vittima, tutto di un’altra «finzione» che ha segnato il passato dell’«eroina». Quella finzione che lei ha sostenuto per venticinque anni, e che costituisce quindi, davvero, l’«avvenimento» del dramma:

nascita, vita e miracoli di ben tre figli, la

cui segreta esistenza ha portato Filumena, la Madre, a fare poi quello che ha fatto! Filumena, da donna che conosce le leggi della vita a modo suo e a modo suo le affronta (did., I, p. 162), ha finto di morire, «s’è coricata, s'è aggravata e si è messa in agonia» (I, p. 165), per farsi

sposare in extremis dal suo amante/sfruttatore. Uno sfruttatore ‘per bene”, di quelli che non intascano i soldi (ne ha già tanti di suo, Don Mimì!) ma sfruttano i sentimenti, l’esistenza stessa della femmi-

na che a loro si affida: T°aggio fatto ‘a serva! (A Rosalia e Alfredo) ’A serva l’aggio fatta pe’ vinticinc’anne [...]. Quanno isso parteva pe’ se spassà: Londra, Parigge, ‘e ccorse, io facevo ’a carabbiniera [...] Ll’aggio purtata ’a casa nnanze meglio ’e na mugliera! Ll’aggio lavate ’e piede! [...] Sempe comm’a na cammerera c’’a nu mumento all’ato se pò mettere for”a porta! (I, p. 166).

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E quando il momento arriva, quando Don Mimì a sessant’anni si è incapricciato d’una ragazza giovane e sta per mettere alla porta la sua matura amante/tuttofare, lei si è ribellata: s'è finta morta e appena se n’è ghiuto ’o prèvete, me so’ mmenata ’a dint’’o lietto e ll’aggio ditto: «Don Dummi’, tanti auguri: simmo marito e mugliera!»

(Id.).

Questa è la prima rivelazione: la «situazione» che precede l’animarsi del quadro dei «quattro cantoni»; il drammaturgo rinunzia all’effetto spettacolare di metterla in «azione», per trasportarci appunto al centro del quadro, un attimo dopo che il ‘‘colpo di scena’’ è avvenuto: ma il clima è tanto più arroventato proprio a causa degli effetti, delle «reazioni» che si producono

(bic et nunc) nei testimoni e nei

protagonisti dell'accaduto. Procedimento quasi-tragico: con quella femmina pallida, cadaverica (un po’ per la finzione di cui si è fatta protagonista [...], un po’ per la bufera che, ormai, inevitabilmente dovrà affrontare) che è appena ‘‘resuscitata’’ per farsi beffe di quel maschio ‘ben vissuto” che si sente offeso, oltraggiato, colpito in qualcosa, secondo lui, di sacro. «Secondo lui», perché, come scopriamo subito dal rovente dialogo/scontro fra i due antagonisti principali, l'’«onore» del «signurino Mimf», i cui capricci giovanili fecero epoca (si raccontano ancora ora a Napolî), ha sempre coinciso coll’‘‘apparire vincitore” al cospetto della gente: in materia di donne come di cavalli. La sua collera (che esplode in scena) contro

quella donna

«da niente»

(che, per tanti anni, è stata

trattata da lui come una schiava e che ora lo tiene in pugno: «Malafemmena! Malafemmena si’ stata e tale si’ rimasta!», I, p. 165) è provo-

cata soprattutto dalla paura che adesso «’o vico, ’o quartiere, Napule, "o munno... Tutte quante» l’abbiano a pigliare «pe’ fesso»! Eduardo parte da un naturalistico fait divers!?, ossia dalla «bef12 Lo spunto Eduardo lo prese, come al solito, da un fatto di cronaca: «L’idea

di Filumena Marturano [...] mi nacque alla lettura di una notizia: una donna, a Napoli, che conviveva con un uomo senza esserne la moglie, era riuscita a farsi sposare soltanto fingendosi moribonda. Questo era il fattarello piccante, ma minuscolo: da esso trassi la vicenda ben più vasta e patetica di Filumena, la più cara fra le mie creature»; cfr. V. BUTTAFAVA, Pensa per un anno a una commedia e la scrive in una settimana cit.

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fa», rappresentandolo in forma di «situazione-limite»!?, e ne ricava

una potenziale tragedia (Domenico grida all’inizio: «O Dàteme

rivòlvere...

’o revòlvere!»); la quale si arresta però sull’orlo della cata-

strofe, per trasformarsi in un’altra «commedia umana». Difatti il ‘““processo” che si celebra in scena, subito dopo l'evento, può trasformare l’imputata in accusatrice, i testimoni a carico in testimoni a favore, mediante lo scavo — tradotto in una partitura dialogica intensamente viva e vibrante — degli antefatti, delle ragioni che hanno provocato i fatti. Così l'accaduto diventa anche più spettacolare: anzitutto non viene ‘‘raccontato’’, bensì — per la tecnica eduardiana dell’informazione dialogata — sceneggiato e recitato a due o a più voci: Domenico [...] E quanno ’o prèvete, doppo che aveva parlato cu’ te, me dicette: «Sposatela în extrezzis, povera donna, è l’unico suo desiderio; perfezionate questo vincolo con la benedizione del Signore»... io dicette...

FILUMENA ... «Tanto che ce perdo? Chella sta murenno. È questione ’e n’atu paro d’ore e m”’a levo ’a tuorno». (Beffarda) È rimasto male, don Domenico, quanno [...] RosaLia Io aggio fatto chillo zumpo! E m'è venuta chella resata! (Ne ride ancora)

[...] (I, p. 165-166).

In tal modo l’evento, che rappresentato in scena sarebbe apparso come «unico» (cioè corrispondente al dato punto di vista del drammaturgo), si spezza in un certo numero di «sottostrutture» (quanti sono i personaggi che lo rievocano, ciascuno secondo il proprio punto di vista) non contraddittorie, ma indipendenti e diverse, e crea a livello

di testo e di rappresentazione la possibilità di «atti contemporaneamente regolari e imprevisti»!4. Ovvero la polisemia dell’accaduto, rivissuto da protagonisti e testimoni «con i propri occhi» e riportato nei diversi linguaggi di ciascuno, si accresce:

13 Il nucleo strutturale è quello stesso di tanti atti unici eduardiani, e dell’«atto unico» novecentesco. 14 Cfr. Ju.M. LorMAn, La struttura del testo poetico cit., p. 293: «Il testo artistico si presenta come un sistema complesso costruito mediante combinazioni di ordinamenti locali e generali di diversi livelli. Ciò influenza in maniera diretta la costruzione dell’intreccio».

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[La verità] artistica [è contenuta]

nella reciproca corrispondenza

dei diversi campi semantici contemporaneamente

(Lotman, p. 288).

Naturalmente in questo contesto (e testo) particolare il gioco d’armonizzazione dei diversi «campi semantici» è condotto dal drammaturgo in modo da privilegiare quello della protagonista: l’unica, per Eduardo, ad essere depositaria e portatrice (4 m0do suo) di valori veri, universali: che si possono sintetizzare nella frase-formula, ancora un /eit-motiv, «E figlie so’ ffiglie!». Perché Filumena è l’autrice della «beffa» ma è anche colei che riesce a trasformare questa beffa — agli occhi del pubblico — in motivo di dolorosa e risoluta rivendicazione della propria e ‘‘universale” identità umana. La favola «a lieto fine» di Filumena Marturano manifesta sì analogie di struttura con la novella burlesca o la farsa, ma supera a livello semantico i confini tradizionali di tale struttura. Come l’eroe farsesco, Filumena agisce nel campo semantico «povertàricchezza»: a cui corrisponde sempre la contrapposizione «bricconesciocco»!5. Non a caso del suo antagonista beffato, Domenico Soriano, si mettono subito in rilievo l'ipocrisia ed anche l’età avanzata (in rapporto ai suoi capricci); invece di Filumena, l’origine plebea (che essa non nasconde né vorrebbe nascondere) e l’intelligenza. Perché, appunto, l’Eroe d’ogni beffa è un «povero», ma a differenza degli altri personaggi del proprio ambiente (o anche di ambienti superiori) è fornito di mobilità: ha intelligenza, iniziativa e persino il diritto di porsi al di fuori dei divieti morali convenzionali. L'intreccio della 15 Sinonimi di «briccone» (nella farsa) sono: «intelligente», «abile», talvolta «giovane»; sinonimi di «sciocco» sono: «bonaccione»,

ma soprattutto «vecchione», «ipo-

crita». Se però nell’«ipocrita» sono molto sottolineate le caratteristiche del «briccone», egli può suscitare simpatia (cfr. Lorman, Ibidem). Per esempio Pulcinella. In Lu curaggio de nu pompiere napulitano (libero adattamento di Eduardo, come sappiamo, da un canovaccio del padre), Pulcinella, nel ruolo del servo astuto ed anche ipocrita nei confronti del suo sciocco padrone, ha una funzione importante nell’intreccio: al punto che non solo, alla fine, vince al Lotto giocando i numeri dell’ «incendio» (Pulcinella ha iniziativa, intelligenza ma anche fortuna), ma scioglie l’intrigo

degli equivoci per il «lieto fine» di tutti: PuLcINELLA «Signorina Virginia, e parlate! Signor Barone, come al solito non avete capito niente! Qua si tratta solamente di un puntiglio d’amore tra la signorina Virginia e vostro figlio: i due ragazzi si amano, si vogliono bene e si vogliono sposare! Questa è la verità», III, p. 47, in Eduardo De Filippo presenta quattro commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta cit.

24

farsa è in genere la storia di una birbanteria fortunata, che fa del povero un ricco, di uno sfortunato amante un amante o un marito felice. Il meccanismo di Filuzzena Marturano riporta a questo schema, però il dramma è ben lontano dal ridursi ad esso. Lo scavo nelle motivazioni della beffa - incipit della Protagonista conduce infatti alla seconda “rivelazione”: «È n’ata cosa che voglio ’a te... e m’’a daie! Tengo tre figlie, Dummi”!» (I, p. 168); la rivelazione, per tutti, del

primo atto. Sarà questa a produrre il salto di qualità, dall’opposizione semantica povertà-ricchezza verso altre significazioni essenziali: FiLumenA (seria) “E figlie so’ ffiglie! [...] Hanno ’a sapé chi è "a mamma... Hann’ a sapé chello c'ha fatto pe’ Iloro... M’hann’ ‘a vulé bene! Il grande mito meridionale,

mediterraneo,

della Maternità

(qui l’ar-

chetipo di Medea rovesciato) genera subito, entrando in vibrazione la corda personale e civile dell'Autore, l’universale semantico del riscatto della personalità umana: (Infervorata) Nun

s’hann’

’a mettere

scuorno

vicino all’at'uommene:

nun s’hann’a sentf avvilite quanno vanno pe’ caccià na carta, nu documento: ‘a famiglia, ‘a casa... ’a famiglia ca s’aunisce pe’ nu cunziglio, pe’ nu sfogo... Sann’’a chiammà comm’a mme! [...] Comme me chiamm’io...

Simme

spusate:

Soriano!

(I, p. 17619.

Ancora una volta il «famigliarismo» eduardiano si configura come specchio del vivere sociale: la Madre non solo rivendica a sé il diritto di possedere i propri figli ma anche quello di appartenere, lei e i figli, ad una Famiglia: «io aggio spiso na vita pe’ furmà na famiglia [...]. Me volevo arrubbà nu cugnume!»,

come

dirà Filumena nel se-

condo atto. Una famiglia in cui i figli sono tutti uguali, e che s’auzisce pe’ nu cunziglio, pe’ nu sfogo..., una famiglia vera e una famiglia-mito, 16 Al tempo della sua prima rappresentazione, e per molti anni ancora, in Filumena Marturano (come scrive la Di Franco) c’era anche un richiamo allo Stato italia-

no per la triste situazione dei figli illegittimi (Le commedie di Eduardo cit., p. 143). Ce lo conferma l'Autore: «[...] dopo Filumzena Marturano c’è stata una interpellanza

alla Camera e hanno fatto qualcosa per i figli di ignoti», cfr. in V. PANDOLFI, Intervista a quattrocchi con Eduardo De Filippo cit.

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proiezione d’una società ideale, fondata sulla solidarietà, come quella immaginata da Luca Cupiello nel suo Presepio. Solo che Filumena — l’unica donna ‘‘protagonista’’ nel teatro di Eduardo!” — il presepio ha faticato a farselo non con le statuine, la colla e la stagnola, ma con «criature» vere, di carne.

Ha dovuto

lottare prima per farle nascere («Sentevo ncapo a me ’e vvoce d’’e ccumpagne mieie: ‘A chi aspetti! Ti togli il pensiero! Io cunosco uno molto bravo...”’», I, p. 171), contro la stessa volontà del padre, Domenico o gli altri uomini come lui («No una, ma ciento volte, me l’avarisse fatto accîdere!», II, p. 199), e poi per farle vivere, ma-

gari rubando a quel padre per il quale non sarebbero neppure nate, le sue «criature». Questa donna-protagonista unisce infatti la potenza ‘‘visionaria”’ dei protagonisti maschili alla capacità ‘‘pratica’’ delle figure femminili, generalmente in subordine o in antitesi nel repertorio eduardiano. La forza del personaggio Filumena sta proprio nella sua mescolanza di certi attributi ‘‘maschili’’ e “femminili” di solito separati nel teatro dell'Autore: la caparbietà e l'accortezza, l’ostinazione contro tutti e contro tutto nel perseguire la propria visione del mondo e il senso della realtà, che non le manca

mai.

Ciò è significato nei potenti mzorologhi che segnano — atto per atto — lo svolgimento della commedia. Quei monologhi in cui si versa, oltre alla prospettiva del personaggio, quella stessa dell’ Autore quando egli si esprime nel linguaggio dei suoi protagonisti. Nel primo atto è la rievocazione dell’episodio per cui la Madre decide di «far vivere» i propri figli: monologo dialogato perché il drammaturgo, sdoppiando la recitazione della protagonista, la fa parlare con la «Madonna d’’e rrose»: 17 Come sappiamo, la commedia costituisce un doveroso e affettuoso ‘‘omaggio’’ alla sorella Titina, allo scopo di offrirle finalmente un ruolo che le consentisse di esprimere le sue grandi doti di interprete. Il personaggio di Filumena era davvero “cucito addosso’ a Titina, così come i protagonisti maschili del teatro di Eduardo erano o sarebbero stati cuciti addosso all'autore e interprete principale. Nel caso di Filumena, la protagonista ha appunto l’età di Titina all’epoca della ‘‘prima’’ (Titina era nata nel 1898 e la ‘‘prima”’ della commedia è del ’46) e il suo ritratto, nella didascalia che funge da ‘‘inquadratura’’ del personaggio, corrisponde a quello dell’attrice: «I suoi gesti sono larghi e aperti; il tono della sua voce è sempre franco e deciso, da donna

cosciente,

ricca d'intelligenza istintiva e di forza morale

[...). Non

ha che

quarantott’anni, denunciati da qualche filo d’argento alle tempie, non già dagli occhi che hanno conservato la vivezza giovanile del “nero” napoletano» (did., I, p. 162).

213

Senza vulé, cammenanno

cammenanno,

me truvaie dint’’o vico mio,

nnanz’ all’altarino d’’a Madonna d’’e rrose. L’affruntaie accussi (Punta i pugni sui fianchi e solleva lo sguardo verso una immaginaria effige, come per parlare alla Vergine da donna a donna...) (I, p. 171).

Nel secondo atto è la rivelazione ai figli, contro «o munno. O munno c'u tutt’’e llegge e cu’ tutt’’e diritte...», della propria maternità: (Più aggressiva che commossa) Me site figlie! E io so’ Filumena Marturano, e nun aggio bisogno ’e parlà. Vuie site giuvinotte e avite ntiso parlà ’e me... (II, p. 196).

Nel terzo è il tentativo di interrompere, finché è in tempo, l’indagine ansiosa del padre su quale dei tre sia il proprio figlio: [stavolta] comzzzossa per il tono accorato e affranto [di Domenico], cerca di raccogliere tutti î suoi sentimenti più intimi per trarne, in sintesi, la

formula di un discorso persuasivo, che finalmente dia all'uomo delle spiegazioni concrete e definitive... (did., III, p. 208 e sgg.).

L’essenza di questi monologhi al femminile non è nel ragionamento, nella disquisizione, nel cavillo (quelle sono le armi del mondo,

del linguaggio d’«’'o munno ca se defende c’’a carta e c’’a penna»); è nella potenza e suggestione delle irzzzagini. Le immagini concrete di un’esperienza di vita che, anche nel presunto incontro mistico con la Madonna,

conserva

la coscienza della realtà:

(Con arroganza vibrante) [alla Madonna]: Rispunne! (Rifacendo macchinalmente il tono di voce di qualcuno a lei sconosciuto che, in quel momento, parlò da ignota provenienza:) «E figlie so’ ffiglie!» [...] Forse

se m’avutavo avatrfa visto o capito ’a do’ veneva ’a voce: ’a dint’a na casa c’’o balcone apierto, d’’o vico appriesso, a copp’a na fenesta... (pod).

Le immagini d’un passato che ritorna sempre, anche nel ricordo, colorato dalle tinte acri d’un vissuto bestiale, che spinge uomini e donne alla delinquenza e alla prostituzione: Avvoca’, ’e ssapite chilli vascie... (Marca la parola) I bassi [...] Nire,

214

affummecate... addé ’a stagione nun se rispira p’’o calore pecché ‘a gente è assaie, e ’a vvierno ’o friddo fa sbattere ’e diente... Addé non ce sta luce manco

a mieziuorno...

[...] Quant’èramo?

Na folla!

[...] Sempe ch’’e ffaccie avvutate, sempe in urto ll’uno cu’ Il’ato [...] A sera ce mettévamo attuorno ‘a tavula... Unu piatto gruosso e nun saccio quanta furchette. [...] Pareva comme si m’’avesse arrubbato, chellu magnà!... [...] Tenevo tridece anne. [Ptemo] me dicette: «Te staie facenno grossa, e ccà nun ce sta che magnà, ’o ssaje?» (II, p. 196).

Quel passato di miseria e di degradazione, anche quando un poco si trasforma, perché qualcuno degli «attori plebei», non per «brama» ma per necessità «del meglio» (Verga), come Filumena si ribella alle «leggi del mondo», continua a segnare profondamente chi ne porta il peso: Dummi’, ’o bello d’’e figlie l’avimmo perduto!... ’E figlie so’ chille che se teneno mbraccia, quanno so’ piccerille, ca te dànno preoccupazione quanno stanno malate e nun te sanno dicere che se sèntono... Che te corrono incontro cu’ ’e braccelle aperte, dicenno: «Papà!»... Chille ca ’e vvide ’e veni d’’a scola cu’ ’e manelle fredde e ’o nasillo russo e te cercano ’a bella cosa... (III, p. 209).

E Filumena è sempre stata sola a portarne il peso. Sola col suo bagaglio di passato, con la sua ostinazione sorda, senza lacrime, a co-

struirsi un futuro diverso: una farziglia diversa da quella che ha avuto lei (non tanto perché era «povera» quanto perché non era una «famiglia»: «Io ’a famiglia mia nun saccio che fine ha fatto. Nun ’o voglio sapé. Nun m’”o rricordo», II, p. 196), e una casa diversa da quel buco squallido e soffocante al cui confronto persino «chella ‘‘casa’’ [là, te ricuorde?...] le pareva na reggia...». Lei pretende una casa il cui «calore» non sia quello asfittico dei corpi accalcati («'A notte, quando se chiudeva ’a porta, nun se poteva respirà»), bensì quello morale della confidenza e della solidarietà reciproca. Ma la solitudine di Filumena è anche la sua fierezza: d’essere contro, d’essere diversa

dagli altri — Quasi gridando: «Nun Il’aggio accise ’e figlie! ‘A famiglia... ’a famiglia! Venticinc’anne ce aggio penzato!» (II, p. 197). L’ossessione «famigliare» della protagonita le fa attraversare una via crucis di umiliazioni e di fatiche; tesa, pronta, vigile ai cambia-

menti d’umore del suo «padrone», ma mai del tutto «sottomessa» («Sem215

pe cu’ na faccia storta, strafuttente...»), senza mai dargli la soddisfa-

zione di vederla piangere. Ogni fine d’atto segna in questo modo la fine d’una ripresa del match tra Filumena e Don Domenico: dove lei vince sempre ai punti. Mentre cade la tela sul primo atto, la Donna canticchia (seduta al tavolo di fronte al pubblico) beffardamente: «Me sto criscenno nu bello cardillo»..., senza curarsi affatto delle minacce e ritorsioni dell'Uomo, che ride sghignazzando per abbassarla e oltraggiarla. Alla fine del secondo, proprio mentre lei deve rinunciare al suo sogno, trova la forza di controbilanciare il peso di quelle «carte» scritte (gli articoli di legge) con cui si difendono il suo antagonista e il mondo, e che potrebbero

soffocarla nella sua ignoranza,

con quel «pezzettino» di un «consunto biglietto da cento» — a Domenico: «Ci avevo segnato sopra un conticino mio, nu cunticiello ca me serve. Tiene» (II, p. 199) — che sarà capace di rovesciare le sorti dello scontro: (fredda) «Pecché uno ’e chille tre è figlio a te!». Quella carta «’e ciento lire» con cui Domenico, e gli altri uomini

come lui, pagano non solo la «merce-amore» ma pretendono anche, talvolta, di pagare l'illusione, la ‘‘finzione dell'amore’ (... na sera me diciste: «Filume’, facimm’ avvedé ca ce vulimmo bene», e stutaste ’a luce. Io, chella sera te vulette bene overamente. Tu, no, tu avive fatto avvedé... E quanno appicciaste ’a luce n’ata vota me diste ’a soleta carta ’e ciento lire. II, p. 198),

non può comprare i figli: «E figlie nun se pàvano!». È la terribile vendetta di questa donna, mezza cuore e mezza cervello, che non scioglierà mai per l’uomo, il maschio, l’ultimo enigma: per aver voluto (e dato) soltanto l’illusione dell’amore, egli potrà avere in cambio soltanto l'illusione della paternità. Il sistema semantico dell’opera è dunque fondato, all’inizio, sull'opposizione fra l’imzzzobilità dell’antagonista maschio (che si sforza di restare ancorato al proprio passato giovanile di vitellone napoletano, sebbene «il tempo passi per tutti...») e la capacità di rzetarzorfosi della protagonista femmina (la quale s’è adattata sempre nella sua travagliata esistenza ai cambiamenti di luogo senza però riuscire a cambiare ruolo: dal basso della fame alla casa di tolleranza, all’appartamentino a San Petito «dint’a chelli tre cammere e cucina...» fino alla casa Soriano, in cui continua a fare la prostituta e la serva). L’«eroi-

216

na» entra nel dramma solo quando decide di presentarsi come membro della società umana, ossia quando essa vuole fermamente mutare il proprio stato di subalterna in quello di pari-grado: essere riconosciuta come «moglie» (e come «madre» dai suoi figli) vuol dire per lei acquistare finalmente un ruolo nella società e nella famiglia che la rappresenta. Si spiega così, anche dal punto di vista semantico, la particolare struttura di questo «dramma»: l’ex abrupto dal momento in cui Filumena Marturano è riuscita, 4 #20do suo, a trasformarsi in

Filumena Soriano. La sfera dei rapporti intersoggettivi le appare dunque quella essenziale alla propria «esistenza»; libertà e vincolo, volontà e decisione, come le sue determinazioni più importanti. Difatti, appena emancipata da una condizione di «schiavitù» che l’ha costretta a fingere e a rubare, le sue «azioni» successive — quelle che mettono in moto l’intreccio della commedia — si determinano in una serie di volizioni atte, invece, a fare chiarezza, a farla uscire dal tunnel delle menzogne

e della dissimulazione. Rivela a Domenico l’esistenza dei tre figli, convoca in casa (finalmente) «sua» i tre «uomini» che ha generati, per rivelare ad essi la propria e la loro «identità». Ma in questo sforzo di metamorfosi essa si scontra necessariamente con l’immobilità del suo partner, il quale si rifiuta, appunto, di cambiare. Ciò è significato anche dallo sgomento stizzito di Domenico di fronte alle «trasformazioni spaziali» che Filumena, nel secondo atto, opera nell’ambiente a lui consueto: Domenico

(II, p. 185).

Se pò ssapé ched’è sta trasformazione in casa mia?

Il meccanismo drammatico dell’opera è azionato dallo scontro (che è ancora un’impossibilità di incontro) fra i due personaggi in opposizione: solo alla fine, nel terzo atto, l’incontro si verifica, quando an-

che Domenico riesce a cambiare e solo allora a comprendere le ragioni di Filumena, «la ragione degli altri»... La vendetta di Filumena si trasforma perciò in affettuosa preoccupazione, anche per la felicità di lui: se sciogliesse l’ultimo enigma «Dummi?...

e sarebbe la nostra rovina. Ma nun he visto che, non

appena io ti ho detto c’’o figlio tuio era l’idraulico, subito he cominciato a penzà ai denari... ’o capitale... il grande negozio...», III, p. 7A

209) egli seguiterebbe a rincorrere il passato proiettandolo nel «proprio» figlio, egoisticamente, invece i figli «quanno so’ gruosse, quanno song’uommene, o so’ figlie tutte quante, o so’ nemice...» (Ib.). Questa donna ‘‘generosa” può anche commuoversi, ora che ha combattuto e vinto, di fronte all’ansia, all’angoscia del suo vecchio antagonista, ormai completamente mutato: Non un gesto, non una intonazione che caratterizzavano la sua natura autorevole, si scorgono in lui. E diventato mite, quasi umile. I capelli sono un po’ più bianchi (did., III, p. 200).

È patetico e un po’ ridicolo nella sua interrogazione guardinga ai tre giovani, nel tentativo di scoprire nelle tendenze, negli atteggiamenti di ognuno ur gesto, un accenno, ricollegabile alla sua giovinezza

(Cid PEN p 220501 Perché l’Autore non si scorda mai di pizzicare la sua corda comica, proprio nel raffigurare le situazioni più dolorose o drammatiche: come qui quando il povero padre in cerca di identità (quell’identità umana che solo la certezza d’un figlio vero, suo, potrebbe dargli) resta deluso e irritato dal coretto scordato e inumano di quei tre «napulitane ca nun sanno cantà!» (III, p. 205). Per non parlare di quel gioco di equivoci verbali e gestuali sul motivo del «caffè» che avvia il secondo atto, culminante nell’ironizzazione che accomuna padrone e galoppino (Don Domenico e Alfredo), per la manìa napoletana dei «tribunali»: Domenico Ma io ricorro in tribunale, in appello, ‘a Corte Suprema! ALereDo (sbalordito) Don nu surzo ’e cafè?

Dummi’,

prammor’

’a Madonna!

Pe’

Ma anche questa situazione esilarante è capace di provocare, attraverso la risata, la riflessione dello spettatore: Domenico (a/ quale non è sfuggita la metamorfosi spirituale del suo interlocutore, s’intenerisce, rassegnato, ad accettare l’incomprensione di Al-

fredo) Che parlo a ffa cu’ te? ’E che pozzo parlà cu’ te? D’ ’o passato... Ma te pozzo parlà d’’o ppresente?... (II, p. 183). L’incomprensione,

218

il dialogo equivoco e incomunicante,

fra i due —

che in altro contesto ricorda il «dialogo inessenziale» fra Andrej e il sordo Ferapont nelle Tre sorelle di Cechov —, consente l’individuazione di un principio di metamorfosi nell'animo di Domenico: Gli anni passano e passano per tutti quanti... T'’o ricuorde a Mimf Soriano, don Mimî, t’’o ricuorde? [...] Parigi, Londra... ’e ccorse... Me sentevo nu Padreterno! [...] E mo? Mo me sento finito, senza vuluntà, senza entusiasmo! E chello che ffaccio, ’o ffaccio pe’ dimustrà a me stesso ca nun è overo, ca songo ancora forte, ca pozzo ancora vencere l’uommene, ’e ccose, ’a morte... (III, p. 183-184).

È il Jeit-motiv crepuscolare, forse cechoviano, del «tempo che passa», la malinconia dell’invecchiare che attraversa spesso il teatro di Eduardo (fin dalle sue prove giovanili, Gennareniello, La parte di Amleto...), tavolta anche «con rabbia», come proterva difesa dei diritti acquisiti (Uro coi capelli bianchi). Tema che si coniuga, nel finale,

con il /eit-m0tiv portante di questa commedia — «'E figlie so’ ffiglie! E so’ pruvvidenza» (III, p. 211) —, col grande Mito meridionale della Vita che si prolunga oltre la Morte stessa, nella speranza d’un riscatto eterno attraverso i figli, tutti i figli del Mondo... Domenico Soriano è «personaggio immobile» finché rifiuta di crescere, di maturare, di invecchiare con saggezza: ma «nella [sua] mediocre ed egoistica personalità [...] l'istinto della paternità ha forza redentrice, che, sola, può portare quel piccolo uomo al livello morale della sua antagonista»!8. Quando questo personaggio che vuole apparire sempre vincitore si dichiara sconfitto, e si trasforma, l’Autore

(insieme alla sua «eroina») mostra compassione per lui (nel senso etimologico di patire insieme): perché, come affermerà Eduardo più tardi, «la giovinezza della vecchiaia è altruismo; è dare, senza ricevere

più. Dare, dare agli altri invece di voler ricevere per forza»!?. "E cavalle nuoste [...] se so” fermate [riconosce alla fine Domenico e] mo, aggiu capito ca s'erano fermate già ’a nu sacco ’e tiempo! (Mo-

18 Cfr. G. TREVISANI, Storia e vita di teatro cit., p. 637. 19 Dall’intervista a Eduardo in «Primo piano», RAI TV, 19 ottobre 1984 (regia

di Leandro Castellani), sul tema L'arte di invecchiare; anticipata in gran parte dal «Corriere della Sera»,

13 ottobre

1984.

219

stra i giovanotti) Mo hann”a correre Iloro! [...] Che figura faciarrfamo si vuléssemo fa’ correre ancora ’e cavalle nuoste? Ce faciarrfamo ridere

nfaccia, Alfre’! (III, p. 211).

«L’apoteosi del sentimento della maternità, che vince la miseria,

redime dall’abiezione, supera gli egoismi umani; afferma il diritto all’uguaglianza dei tre fratelli; stimola il sentimento della paternità come purificatore di tutte le brutture sociali»?0, richiama il Mito e sfiora l’Utopia. Tuttavia la Donna che veste di nuovo e di concreto il Mito può 4/4 fine, quando ha ottenuto giustizia dalle stesse «leggi del mondo» che aveva combattuto, mostrare i suoi piccoli peccati d’egoismo (anche lei)2!; non solo ma finalmente è capace, come

catartico della quotidianità, di ‘‘sciogliersi in lacrime” Fumena chiàgnere... Domenico

(felice) Dummi’,

sto chiagnenno...

nel rito



Quant'è

bello a

(stringendola teneramente a sé) È niente... è niente. He

curruto... he curruto... te si mmisa appaura... si’ caduta... te si’ aizata... te si’ arranfecata... [...] Mo nun he ’a correre cchiù, non he ’a

penzà cchiù... Ripòsate! [...] 'E figlie so’ ffiglie... E so’ tutte uguale... Hai ragione, Filume’, hai ragione tu!... (E tracanna il suo vino, mentre cala 'laltela) (IU

tp. 0212)22

20 Cfr. G. TREVISANI,

op. cit., p. 633.

21 Pensiamo all’episodio in cui Filumena, prossima a sposarsi, rimprovera aspramente Teresina, la sarta, per averle sottratto un po’ di stoffa dal vestito di nozze per farne un abito alla sua bambina (III, pp. 205-206). L’Autore non dimentica mai di ridimensionare i suoi protagonisti, anche quelli che gli sono più cari: gli «eroi» del suo teatro hanno e debbono avere sempre, per risultare «veri», un tallone d’ Achille! 22 A conferma della polisemia dei ‘‘testi’’ eduardiani consideriamo anche la rappresentazione dell’opera per la regia di Egisto Marcucci (Teatro La Pergola di Firenze, 1986): con Valeria Moriconi nella parte di Filumena e Massimo

De Francovich

in quella di Domenico. Se la Moriconi interpreta la protagonista anche e proprio nel senso ‘‘virile’”’ da noi rilevato nel testo, De Francovich sottolinea nel personaggio del suo antagonista un aspetto di decadente rassegnazione, che smorza notevolmente il lieto-fine nell’ultima scena.

220

LIE NEL PAESE DEL FANTASTICO: BUGIE, MAGIE, ILLUSIONI, INCUBI

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AI ciclo delle commedie del dopoguerra appartengono, dopo la trilogia di «capolavori» appena esaminati, anche Le bugie con le gambe lunghe (47), La grande magia e Le voci di dentro (48). Che si tratti di un ciclo, cioè di commedie concepite organicamente allo scopo di affrontare e discutere problemi scottanti del tempo, lo conferma l’Autore stesso nell’intervita a Pandolfi del ’56: Da Napoli milionaria fino alle Voci di dentro c’è un linguaggio Se legge tutte quelle commedie in ordine lei trova che c’è una za, a parte tutte le pagliuzze. Ricorda che in Napoli milionaria de il sipario su Gennaro che dice: «S’ha da aspettà, Ama’. passa’ ’a nuttata». Dopo ho scritto Filuzzena Marturano!.

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Nelle intenzioni di Eduardo, Filumzena doveva essere una continuazio-

ne di Napoli milionaria!, quasi una commedia allegorica che ‘‘parlasSei

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ne dell’abbinamento è contemporaneamente anche un’altra: bisogna-

va accostare ad un personaggio con la pretesa di avere superiorità di natura sullo spettatore e sulle leggi che gli sono familiari un personaggio inferiore al medesimo spettatore, deriso dal testo, e cioè un ‘‘testimone” poco attendibile (dal momento che il protagonista stesso lo chiama

«cretino»!).

Altro indizio a favore della natura mistificante del ‘‘santo’”’ è costituito dall'aspetto delle «prove» da lui esibite: quelle gigantografie in bianco e nero della sola testa, di personaggi che ridono a bocca spalancata, sghignazzanti, col capo riverso all'indietro, di profilo, di tre quarti,

come apparizioni allucinanti (did., I, p. 311), che Isidoro colloca una per volta su un grosso cavalletto e volta a volta Geronta commenta, come in un'esposizione da fiera. Si alternano però, nel corso del primo atto, altri fattori: contro-

indizi o indizi fuorvianti, come nel giallo a enigma. Non solo l’atteggiamento ‘‘insospettabile’’ del protagonista e la sostanza innocente, anzi evangelica, del ‘‘contratto”’: ma per esempio la fiducia nella sua credibilità confermata e ribadita — continuamente — dal Brigadiere. Il quale ripete al giornalista: «Geronta Sebezio non ne fa una speculazione [...] Ha subìto un’inchiesta,

le autorità se ne sono occupate

[...] È un santo», e addirittura sostiene: «Due o tre di quelle persone che avete visto qui fotografate le ho conosciute e lo hanno detto a me che lui le ha resuscitate» (I, p. 312). 439)

La catena degli indizi e dei contro-indizi appare comunque serrata per buona parte dell’opera, a strutturare un testo capace di mantenere nell’«esitazione», il più a lungo possibile, lo spettatore. In questo tipo di operazioni acquista importanza, naturalmente, il «tempo di percezione» dello spettatore stesso: perciò (come già si è osservato) tempo di percezione e tempo di rappresentazione tendono a coincidere.

Non si tratta infatti di una temporalità naturalistica: l'accento posto sul tempo di percezione, che pare «irreversibile» (bisogna seguire l’andamento della commedia dall’inizio alla fine), accomuna il testo eduar-

diano sia al «fantastico» che al «giallo a enigma». Anche nel Contratto c’è una «verità» da scoprire: siamo posti di fronte ad una catena rigorosa di cui non si può spostare il minimo anello. Ma a riguardo dobbiamo aprire una parentesi. Infatti per Todorov si adatta a tutti i generi di «temporalità accentuata» (al «fantastico» come al «giallo a enigma») la definizione freudiana del «motto di spirito»: [... la] particolarità del motto di spirito consiste nel produrre il suo pieno effetto sull’uditore soltanto quando possiede il fascino della novità, quando lo sorprende. Questa proprietà [...] dipende apparentemente dal fatto che l’impossibilità di avere successo una seconda volta risiede nella natura stessa della sorpresa o del tranello. Quando si ripete un motto di spirito, l’attenzione è orientata dal ricordo della prima volta in cui fu pronunciato!?.

Tuttavia, a nostro avviso, bisogna distinguere sempre il livello dei testi esaminati: il livello del motto di spirito non è certamente lo stesso, per esempio, del testo artistico, e del testo artistico d’autore. Si è visto infatti come

«la caratteristica dell’intreccio

artistico [...]

consista nella presenza contemporanea di diversi significati per ogni elemento dell’intreccio», e che «una simile contemporaneità si ha solo [... al] livello del testo d’autore»

(Lotman,

p. 292).

Dunque il senso di questa temporalità accentuata — pur restando elemento comune, strutturalmente, sia del motto freudiano, sia del

10 Cfr. S. FreUD, Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio (1905), iniOpercicit)lp_(92;

440

fantastico, sia del giallo a enigma — è diverso a seconda che si tratti di testi artistici o meno. Restando nel campo teatrale, molte delle «sintesi» futuriste rappresentano casi di «temporalità irreversibile»: provocano un’impressione diversa fra la prima e la seconda lettura/fruizione. Lo stesso può dirsi per opere teatrali — più propriamente d’autore — che si accostano per struttura al «fantastico» o all’«enigma»: Così è (se vi pare) di Pirandello, Le voci di dentro o Il contratto di Eduardo... Alla seconda lettura o rappresentazione viene a mancare ovviamente il fascino della novità, della «sorpresa». Effetto che sia sul piano comico sia su quello drammatico è tenuto in alta considerazione dagli Autori. Così Eduardo: «devono accadere delle cose impreparate, delle sorprese! Il teatro è così [...] avvenimenti, sorprese; ma anche tragiche, anche drammatiche, non solamente comiche»!!. Ecco che la re-

plica di uno di questi testi per uno stesso lettore o spettatore implica necessariamente una meta-lettura. Ma è qui la differenza sostanziale fra testo artistico e testo non artistico: per quello non-artistico c’è davvero l'impossibilità di aver successo una seconda volta, perché il successo dipende esclusivamente all’effetto «sorpresa»; per quello artistico invece non esiste tale impossibilità, anzi i valori di senso del testo si accrescono spesso alla seconda, alla terza... lettura o fruizione, si accrescono quanto il testo stesso riesce a proiettarsi nel terzpo grande. Si perde qualcosa, certo, il valore d’un impatto nuovo, magari rivoluzionario, di un’opera con il suo pubblico, ma si acquista qualcosa d’altro, cui non nuoce affatto che l’attenzione, da parte di quel pubblico, sia orientata dal ricordo della prima volta in cui quel testo — nel caso del testo teatrale — è stato rappresentato, si è offerto alla sua interpretazione. Anzi il confronto fra diverse interpretazioni o diverse percezioni dello stesso testo accresce l’interesse dello spettatore per lo spettacolo. Si torna per questa via alla poliserzia del testo artistico: bisogna uscire dal campo dei rilievi strutturali per entrare in quello del valore semantico dell’opera. La suspense, per esempio, consente di tenere continuamente desta l’attenzione del lettore/spettatore, e necessita di una organizzazio-

11 Cfr. E. De Firpo,

Lezioni di teatro cit., p. 48.

441

ne particolarmente serrata dell’intreccio: per ciò, come strumento, è usata sia nel fantastico, sia nel giallo a enigma, e da autori che sfiorano o svariano dall’uno all’altro ‘‘genere’’ nei loro testi artistici come Pirandello, Eduardo e Fo. Tanto per restare nel campo del testo teatrale d’autore del Novecento italiano; ma lo stesso potrebbe dirsi per il Beckett di Aspettando Godot... Bisogna mantenere sempre la suspense, continuamente; insomma la tattica per arrivare in fondo: i vari punti fermi. Sono tre atti ...] (bidem):

II a. en

con ciò Eduardo vuol significare che, per ogni atto, ci sono dei «punti» in cui il drammaturgo deve soffermarsi per calamitare su determinati, e determinanti, poli di senso l'interesse del pubblico. E questione di ritmo. Se sono tre atti, il ritmo semantico dell’opera dev'essere conforme a tale scansione triadica. Respiro del testo e respiro dello spettatore devono procedere all’unisono. Ogni atto di I/ contratto — per ritornare all'opera che ci ha fatto aprire la parentesi — incomincia con una scena o una battuta che propone e poi ripropone il tema dell’Enigma, del Mistero; così lo spettatore è costretto a riprendere in considerazione il /eit:mz0tiv conduttore del testo, rinnovando l’attenzione per l’azione in corso e approfondendone il senso. Si è detto della scena iniziale fra Isidoro e Geronta (primo atto), e si è accennato pure alla scena finale dello stesso atto in cui si concentra, dopo la chiamata telefonica in ora particolarmente ‘tarda’, ‘‘strana”’, l’attesa dello spettatore per ciò che dovrà avvenire, e il suo interesse per l’«intervento» che il Protagonista va a compiere... Ma anche il secondo atto inizia con una battuta atta a ricatturare l’attenzione del pubblico, riassumendo in certo qual modo i dubbi dello spettatore stesso: SILVIA Tutto un mistero, tutta una matassa di pussibilità e impussibilità impenetrabili che più uno vuole cercare di trovare il filo, più diventa scura e misteriosa. pa22)!

Tutto un mistero, tutto un mistero.

(II,

Quindi l’atto termina con la scena, già esaminata, in cui l’Autore

442

delude l’aspettativa del pubblico — circa l'esito dell’esperimento di Geronta — facendo calare maliziosamente il sipario sull’esperimento in corso... Procedimento simile per il terzo atto: ma con un esito stavolta (come si è detto) definitivo. All’inizio ci troviamo infatti nello stanzone di Geronta, però trasformato dalle decorazioni volgari, esagerate, iperboliche, della «festa di nozze» di Napoleone Botta: quindi invaso dal Caos!2. Ma in mezzo a tanto scompiglio, visuale e sonoro — il vociare confuso [...] degli invitati, ora più distante, ora più dappresso, riecheggia nello stanzone mentre il bagliore delle luci festanti illumina dal basso gli squarci delle finestre spalancate, creando un netto contrasto con la solita illuminazione a petrolio dell'interno (did., III, p. 346)

—, sta un nuovo personaggio, una figura misteriosa perché in evidente antitesi con l’ambiente così stravolto: Seduto in un angolo, c'è un uomo scuro

di mezza età, occhiali e abito

[...]; controlla coi talloni una valigetta anch’essa scura, sistemata

tra la sedia e le gambe. È immerso nella lettura di certe sue carte [...]. L’uomo rimane completamente estraneo a tutto ciò che succede nello stanzone e intorno al casale (did., Id.).

Si introduce così, con il figurino enigmatico del notaio Lanciano!?,

una nuova incognita, a sollecitare la curiosità dello spettatore...

12 Come si è accennato nella nota 1, proprio l'incipit del terzo atto ha subito cambiamenti nell’ultima edizione dell’opera: infatti la scena è divenuta più essenziale, tagliando l’episodio iniziale della figlia del Brigadiere molestata da uno degli invitati avvinazzati;

e nell’introdurre

subito Geronta

(di ritorno da Napoli)

focalizza

l’azione sul dialogo fra lui e Lanciano. 13 Gioviale dà una sua interpretazione di questo «personaggio bizzarro e singolare»: «I suoi simili non lo possono soffrire e lo evitano, quasi vedessero in lui — sembra suggerire Eduardo — l'emblema scoperto e ripugnante della società in cui vivono: il mondo della roba e della taccagneria, dell’adorazione per il denaro e della calcolata diffidenza verso il prossimo, dell’arrivismo spregiudicato e dell’accumulazione»; ma Lanciano ha almeno la «sincerità» di ammettere il suo «amore vizioso e sviscerato per il denaro» e Geronta «ambiguamente [...] finge [...] di amarlo, finendo con l’avvicinare al pubblico questo personaggio sordido e taccagno che la società odia perché in esso vede senza veli la parte peggiore di se stessa» (op. cit., p. 146).

443

Questi ‘‘segni”’, posti e disposti accortamente nel testo, hanno certamente una «funzione pragmatica»: rispondono alla relazione da intrattenere fra essi e i loro fruitori, il pubblico. Ma contemporaneamente hanno una funzione «sintattica» — perché si richiamano gli uni con gli altri — e una funzione «semantica»: quella che riguarda il rapporto fra i segni e ciò che designano, la loro referenza. L’insieme costituisce un universo semantico particolare: quello proprio del testo in esame.

Si tratta dunque non solo di stabilire la presenza di certi elementi ‘‘architettonici”’ nell'opera, ma di cercare di interpretare il senso che questi elementi, in interrelazione complessa fra loro, danno all’opera stessa. Il terzo atto mette fine all’ambiguità che ha caratterizzato, per buona parte della commedia, sia la «situazione» sia il «protagonista»: già nel corso del secondo abbiamo intuito che Geronta ‘“‘finge” ma non conosciamo ancora i modi della sua ‘finzione’; all’ultimo

si svela, con procedimento

«a sorpresa»,

non

tanto la natura

tartufesca di quest'altro Mago partenopeo quanto l’origine e l’andamento dei suoi trucchi.

Tuttavia la funzione del Protagonista oltrepassa l’immoralità del suo «carattere»: un carattere scenico che l’Autore ha costruito a poco a poco. Quest’Angelo Nero, questo Corvo astutissimo, assolve a suo

modo ad una funzione riequilibratrice, perché se è vero che il suo «amore per il prossimo» è tutt’altro che disinteressato, è anche vero che il suo «contratto» porta ad una ridistribuzione delle ricchezze!!. Il contraente,

infatti, non

solo deve risarcire un parente povero e

sfortunato («una delle vittime designate da una società irreparabilmente spaccata tra i fortunati e i derelitti, tra i furbi e i poveri di spirito»)!5, ma non deve dimenticare nel testamento «chi lo ha servito e qualche bisognoso che per il passato egli ha fatto finta di non vedete». (Iepai05)}

Con procedimento inverso a quello del Sindaco del Rione Sanità, Eduardo mette in scena un personaggio ‘‘negativo”’ per fargli assolvere una funzione ‘‘positiva’”’, o almeno relativamente positiva data la

14 Cfr. B. SCHAECHERL, I contratti di Geronta, «Rinascita», 20 ottobre 1967, PI25Ì

P Cfr. F. GIOVIALE, op. cit., p. 146.

444

negatività di tutto il «contesto». Anche in quest'opera, come già nel Sindaco e in De Pretore Vincenzo, è in primo piano la problematicità della «giustizia»: laddove però nel Sindaco si trattava della giustizia legale, di quella (male)amministrata dai tribunali terreni, e in De Pretore si affrontava addirittura il problema della giustizia ultra-terrena, da amministrarsi nell’ Aldilà, ma sempre per rispecchiarvi i problemi sociali dell’aldiquà; nel Contratto si discute della giustizia economica del Mondo, in una prospettiva tuttavia che oltrepassa l’hic et nunc della vita nella sua (talvolta) bestiale materialità. Non a caso tornano

in questa commedia i motivi-chiave del teatro eduardiano: i Temi della Morte e della Roba, della Famiglia e della Società, sullo sfondo di un Sud del sottosviluppo e del benessere messi insieme!6. I/ contratto, più che un’allegoria, è una parabola paradossale, che richiama

il senso (altrettanto paradossale) di quella evangelica dell’«amministratore disonesto ma astuto» (Luca, 16). Ma con un risvolto comico,

più del solito, amarissimo; «un giorno», racconta Fo, «chiacchierando [con Eduardo] di situazioni comiche, ci trovammo d’accordo su un

particolare determinante: ‘La grande comicità nasce dal tragico” [...]. E i temi sui quali si sviluppa il tragico sono semplici e si possono elencare su una mano

sola: la morte, la fame, il sesso, il potere, la

spocchia, la violenza del potere»!?. Infatti il Corvo più furbo smaschera tutti gli altri corvi resi ottusi dall’avidità. Vediamo la scena in cui Geronta, alla fine del «pantagruelico banchetto», mette a disposizione di «tutti» le ricchezze accumulate da Napoleone Botta: GERONTA Lo volete morto, Napoleone? TuTTI Nooo! GeronTA Lo vogliamo vivo e prodigo. (Rivolto a tutti) Servitevi

16 Si veda ancora F. GIoviaLe, Ibidem, p. 150. E P. Grassi, «Il contratto nuovo di Eduardo», Prefazione a E. De Fiuippo, Il contratto, Torino, Einaudi, 1967, p. 6. Ma, osserva Blandi, l'amarezza e il pessimismo che serpeggiano sotto la pantagruelica festosità del banchetto di nozze non colpiscono soltanto la «società contadina meridionale, come scriveva acutamente Alvaro: ‘Sotto la favola scenica di Eduardo,

possiamo trovare la favola della vita italiana”, di una società in cui il denaro è il solo mezzo

per restituire a nuova

18 ottobre

1967).

17 Cfr. D. Fo, Testimonianze,

vita un uomo»

(cfr. A. BLANDI, «La Stampa»,

nel Catalogo della Mostra

cit., p. 189.

445

di questo ben di Dio con cui egli ha voluto riempire la mia casa, pigliatevi la frutta, le galline, le uova fresche, formaggi, salami... Napoleone ne sarà felice. Napoleone ha conosciuto l’amore [...]. Una catena d’amore che unisce tutti voi e vi tiene cristianamente legati nel rispetto dei comuni interessi. Amore puro, vero, disinteressato... (III, p. 361).

Ma — conclude la didascalia — gli altri non stanno seguendo la fine del brindisi: gli altri sono febbrilmente occupati a strappare limoni e arance dai festoni, ad ammucchiare a terra, ognuno per suo conto, polli, galline,

formaggi. E cala il sipario (did., Id.).

L’azione violentemente grottesca, la grande abbuffata depredatoria e smantellatrice — in cui si dinamizza quella «fame antica e primitiva, che è come una forza elementare che muove gli uomini come l’egoismo sfrenato, l'interesse più cieco»!8 —, fanno da epilogo concreto e simbolico al discorso fortemente, scopertamente ironico del Protagonista. Un sermone che nella sua spietata antifrasi!? non ci sembra sfidare quel suo pubblico di braccianti e coloni ignoranti o superstiziosi, avidi o soltanto affamati, che il mascherato istrione dall’alto

del suo seggiolone dorato spingerebbe a «meditare sulla propria dabbenaggine»?°: mentre Napoleone non distoglie lo sguardo incantato da Geronta, gli altri non aspettano neppure la fine del discorso! Ci pare piuttosto provocare il pubblico-noi, seduto in sala, a ‘‘prendere coscienza”. Qualcuno ha voluto vedere nella ieraticità con cui il «vecchio saggio» si avvia e si asside sul troro una simbologia anticlericale. Il protagonista simboleggerebbe la Chiesa, con i suoi «contratti» che

danno la certezza della resurrezione?! Che l’opera possieda anche questo

18 Cfr. A. LAzzerI, Il bene a caro prezzo di un mago-imbroglione, «L'Unità», 13 ottobre 1967. 19 Ci riferiamo alla definizione classica di «ironia» come «antifrasi»: si intende cioè esattamente il contrario di ciò che si dice. Ma in proposito si può vedere il saggio di M. Mizzau, L'ironia (Milano, Feltrineli, 1984), che introduce il concetto dell’ironia come «citazione». 20 Vedi ancora GIOVIALE cit., p. 148. 21 Cfr. M.B. MicnoNE, I/ teatro di Eduardo cit., p. 272. Mignone porta a sostegno della propria tesi una dichiarazione dell’autore stesso; tuttavia, come abbiamo più volte osservato, Eduardo, particolarmente nelle ‘‘spiegazioni’’ a posteriori delle sue

446

cassetto segreto è possibile: fin da Io, l'erede, l’Autore ha dimostrato di accusare la «carità» fatta per assicurarsi il «paradiso», in stridente contrasto essa stessa con il senso del messaggio evengelico. La polisemia del testo può comprendere anche la polemica contro certo cattolicesimo dello ‘‘scambio’’, confermata dal linguaggio pseudo-clericale del protagonista. Ma così come il teatro di Eduardo non è mai direttamente ‘‘politico’’, non è mai neppure direttamente ‘‘anticlericale’’ è l'Uomo che interessa l'Autore, più dell’Istituzione, politica o religiosa che sia. Anche questa differenza di interesse e di bersaglio lo separa da Fo: pur nella vicinanza, talvolta, del piglio battagliero e polemico.

opere, tende sovente a ridurne il senso, talvolta anche (sospettiamo) per il suo innato gusto del paradosso; così nell’’81, in occasione della messa in onda televisiva della commedia, afferma del suo protagonista: «Per me non è affatto un imbroglione, anche se infila l’una dopo l’altra parecchie ribalderie», e prosegue nell’intervista a Giorgio Pillon: «Un imbroglione, scrissero tutti nel 1967 e anche dopo. Invece no. [...] È a suo modo un benefattore. Lo è diventato anche per difendersi dalla legge. [...] Tutti, al secondo atto, saranno convinti che Geronta sia un mariuolo. Ma alla fine del terzo atto spero che il mio ‘‘messaggio’’ venga capito» (cfr. G. PiLon, La scommessa di Eduardo, «Il Gazzettino», 13 giugno 1981).

447

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L'ARTE

DELLA

GOMMEDIA

Significativamente, l'Autore elegge a punto di vista critico e polemico nell’ Arte della commedia! quello di un attore sui generis, l’«Inattuale»?, ovvero il portatore di una tradizione superata nel tempo storico in cui si pone l’azione, quindi apparentemente estrazeo al contesto teatrale di cui si discute in scena. Ma la polemica scaturisce dall'insieme dell’opera, ché il discorso del Protagonista resta sospeso sul filo d’una sconcertante ironia: «sofistico, cavilloso, fanatico [...] fastidioso», lo definisce il Prefetto, l’Antagonista (I, p. 227).

Quando De Caro, dopo aver snocciolato il rosario dei luoghi comuni e dei «miti ipocriti» sul Mondo del Teatro (la «crisi paurosa», il «disorientamento del pubblico», il «repertorio» che è sempre «la stessa zuppa» oppure contiene «oscuri messaggi», invece «lo spettato-

re va a teatro per divertirsi», «un vero scrittore di teatro non esiste

1 L’arte della commedia, due tempi, 1964: fu rappresentata la prima volta 1°8 gennaio 1965 al Teatro San Ferdinando di Napoli dalla Compagnia «Il Teatro di Eduardo», e ripresa solo in TV, ancora da Eduardo (con F. De Ceresa, G. Palumbo, M. Scaccia, Luca De Filippo, A. Ippolito...), il 9 gennaio 1976. Esce per la prima volta insieme all’atto unico Dolore sotto chiave nella «Collezione di teatro», diretta da Paolo Grassi e Gerardo Guerrieri, Torino, Einaudi, 1965 (con una ‘‘avvertenza’’ dell’ Autore); e nel III volume della Cantata dei giorni dispari, ivi, 19661. Nell'edizione °794 (*82) della Cantata, da cui citiamo, il testo presenta qualche variante rispetto

alla prima: la più importante è l'aggiunta di un Prologo che comprende oltre a Campese, il protagonista, il Piantone, e Palmira, padrona dell’osteria. 2 Per la Giammattei «è lecito [...] ipotizzare una sorta di sistema pre-testuale, organizzato intorno ad un Archipersonaggio, l’Inattuale — nella fattispecie [...] l’artista degradato — * via via verificato in progressive trascrizioni linguistiche»: a partire da Uomo e galantuomo, attraverso Sik-Sik, l'artefice magico e La parte di Amleto, La grande magia, per arrivare appunto a L'arte della commedia, l’opera conclusiva di un ciclo per così dire «meta-teatrale» (cfr. E. GiaMMATTEI, Eduardo De Filippo

Cit. pp. 25:29)

451

più» mentre «lo Stato ha garantito largamente la dignità dell’attore»: c'è un Ministero apposta!), ricevendo ogni volta la circospetta ma sospetta risposta di Campese («Da un certo punto di vista sf»), lo provoca a dirgli finalmente il «suo» di punti di vista, il capocomico mette le mani avanti: Il mio non conta niente. Io sono figlio d’arte [...] e sono a capo di un gruppo di comici [...] tutti figli d’arte come me. Da guitti discendiamo e guitti siamo noi stessi. Sia l'argomento degli scrittori di teatro che quello degli attori [...] mi riguarda soltanto di riflesso (I, p. 216).

La scelta di questo ‘‘punto di vista” non ha tanto il senso nostalgico d’una tradizione mitica, e magari da ripristinare, che sembra dargli la Giammattei (e che sembra confermato dal Prologo, in cui lo stesso Campese in funzione di epico ‘‘allocutore’’ potrebbe anche apparire un laudator temporis acti?, ma acquista nel vivo dell’azione la portata, sempre ambigua, d’un Sosia eduardiano: per quel rapporto dialogico che l’Autore tende a instaurare, in se stesso, fra Tradizione, appunto, e Innovazione.

Egli infatti non sa nascondere quell’affettuoso attaccamento al vecchio mondo comico (nel suo caso il mondo ancor più singolare degli «attori dialettali» ed ancor più personale di un’infanzia vissuta magicamente sul palcoscenico) che si risolve spesso nell’omaggio alle radici del proprio mestiere, della propria «arte»; di qui anche il dipanatsi, a effetto, del filo dei ricordi di Campese: Durante il finale della Morte Civile, mentre su quattro tavole improvvisate mio padre faceva torcere di dolori il pacco intestinale di Corrado [...], tra le quinte, mia madre, assistita dalle compagne e lunga distesa sul trono dell’Amleto, si torceva negli ultimi dolori espulsivi del parto. L’applauso fragoroso del pubblico coronò quella sera due successi di mio padre: quello di aver fatto «morire» molto bene Corrado e quello di aver fatto «nascere» molto male me... (I, pp. 217-218). 3 Spunti nostalgici, ed anche direttamente polemici, sono di fatto riscontrabili nel “monologo”’ didascalico ed auto-commentativo che precede l’azione: non a caso, però, il Prologo è un’aggiunta posteriore (dovuta forse alle reazioni critiche e soprattutto “politiche’’ suscitate dalla prima rappresentazione dell’opera); risponde quindi ad una tentazione esplicativo-teorica da cui solitamente l'Autore rifugge.

452

Ricordi di una casta a sé: i «figli d’arte» (De Caro: «Pit figlio d’arte di cosî...»), nati e cresciuti proprio fra quinte e proscenio; la cui esistenza appare scandita dalle ‘‘stagioni’’ delle compagnie di giro («... per i continui spostamenti del ‘‘Capannone” da un paese all’altro, mio padre non avrebbe mai potuto farmi frequentare assiduamente una scuola»), e dai ritmi di una finzione-convenzione scenica, oltre la quale nulla sembra avere senso. Queste memorie di usanze

ormai decadute, e magari risibili in una prospettiva «borghese» sia della vita che della vita di teatro‘, non affiorano tuttavia nel discorso

del capocomico-protagonista alla luce di una nostalgia fine a se stessa, ma, come nel lazzo retrospettivo di Campese-bambino «contrariato» dal fatto che fra le «Arti e mestieri» del Sillabario «... l’attore non c'è» (I, p. 218), vengono inglobate in una moderna esigenza di dignità, nella volontà di un riconoscimento sociale e anche giuridico («l’ Al-

bo professionale»).

4 Sebbene gli anni Sessanta, in cui Eduardo scrive L’arte della commedia, siano già lontani dalla stagione del teatro cui fa riferimento Campese, il Prefetto continua a vedere l’‘‘attore’’ in una prospettiva antica, stereotipa, buffonesca e subalterna: «[...] gli attori sono sempre uomini originali, stravaganti, un poco matti, ma brava gente... se ti fanno perdere del tempo, in compenso guadagni un poco di buon umotep{k

p: 212).

3 Del resto, proprio nel fenomeno storico della ‘Commedia dell’ Arte”’ si riconosce la nascita del professionismo a teatro; tutta una serie di studi individua nel professionismo la specificità di questo «oggetto misterioso» (come lo definisce Zorzi), complesso e composito, il quale ha affascinato, specialmente negli ultimi secoli, il mondo del teatro stesso, e che fin dal proprio tempo (negli scritti stessi dei comici che volevano difendere l’autonomia e l’originalità del proprio lavoro e della loro opera) ha incominciato a subire un processo di mitizzazione. «Essere in arte» significa, da allora, far parte di una categoria, di una «corporazione», secondo lo specifico valore semantico dell’uso medioevale del termine. E verso il riconoscimento della dignità del proprio mestiere si muovevano le aspirazioni e gli sforzi degli attori e dei capocomici più avvertiti (come Flaminio Scala); dal momento che il Garzoni, frate romagnolo autore di una Piazza universale di tutte le professioni del mondo (1586), specie di trattato di microsociologia dei mestieri, poneva sì i comici, gli istrioni, i saltinpanca, i cerretani, in posizione di serialità con le altre professioni del tempo — con riconoscimento sempre maggiore degli autori del «Sillabario» di Campese! —, ma li vedeva come cultori di mestieri pratici, un po’ bizzarri. Cfr. L. Zorzi, Intorno alla Commedia dell'Arte, in AA.VV., Scene e figure del teatro italiano, a c. di E. Garbero Zorzi e Sergio Romagnoli, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 123-137. Si vedano anche: lo studio critico e la raccolta di documenti sugli inizi della Comme-

453

L’atteggiamento di Eduardo è quello di chi può e sa capire la «sapienza» secolare da cui muoveva quel teatro ( «l’attore napoletano [...] possiede naturalezza, ritmo, creatività; se è bravo sa improvvisare [...]; ha un bagaglio tradizionale di sotterfugi, malizie, lazzi, conven-

zioni sceniche che è utile qualora ad esso si unisca senso della misura, intelligenza, sensibilità») ma è anche consapevole che occorre filtrar-

ne, oggi, l’innegabile forza persuasiva e il suo valore di rito, rinunciando invece alle pratiche e alle convenzioni ormai inadeguate: il «limite» degli «attori dialettali» è «l’ignoranza; possedendo un’esperienza secolare, finora hanno potuto fare a meno della cultura, ma

oggi non più» (Id.). Di qui la ragione stessa del titolo, L’arte della commedia, che come al solito rovescia una formula accreditata”: CAMPESE [...] non siamo più gli istrioni di un tempo che improvvisavano la commedia dell’arte, abbiamo imparato ormai a recitare con arte la commedia (I, p. 227).

Nell’Autore c'è sempre la volontà di non negarsi alla curiosità

dia dell'Arte a cura di F. MAROTTI, per il volume FLAMINIO ScaLa, I/ teatro delle favole rappresentative, 2 tomi, Milano, Il Pontifilo, 1976; G. DAvico Bonino, Prizzi documenti della Commedia dell'Arte, in La commedia del Cinquecento, Tomo III, Il teatro italiano II, Torino, Einaudi, 1978; R. TessarI, Commedia dell'Arte: la Maschera e l'Ombra, Milano, Mursia, 1981; C. MoLINARI, La Commedia dell’Arte, Milano, Mondadori, 1985; Commedia dell’Arte, I-II, a cura e con Introduzione di S. FERRONE, Milano, Mursia, 1985; F. TAvIANI, M. ScHIno, I/ segreto della Commedia dell’Arte, Firenze, La casa Usher, 19862. 6 Cfr. Epuarno, Sull’arte della recitazione, in risposta alle domande di Toby

Cole, da Actors on Acting cit.; ora in Polemiche, pensieri, pagine inedite cit., p. 172. ? Fondamentale comunque la domanda di Zorzi: che significa ‘Commedia dell'Arte’? Formula relativamente tarda: il primo ad usarla sarebbe stato il Baretti (in una recensione della «Frusta letteraria» al volume dell’edizione Pasquali delle commedie del Goldoni), e in riferimento alla ‘riforma’ del Goldoni stesso: «Quelle che Goldoni chiama le Commedie dell’arte». Quindi la formula, l'etichetta, appartiene già alla metà del Settecento. Il fenomeno abbraccia invece perlomeno due secoli: e prima di essere così etichettato è variamente indicato dai testimoni come «comme-

dia di istrioni», «commedia improvvisa» o «a braccio», «commedia degli zanni»... Il legame fra le varie definizioni starebbe proprio nella sua specificità, nell’essere la «commedia degli attori» (cfr. L. Zorzi, op. cit.).

454

dei tempi e al clima di rinnovamento e di «sperimentazione», nella sua quasi goldoniana aspirazione a procedere verso una «commedia riformata», capace di rinnovare l’incontro fra spettacolo e testo al di là degli steccati geografici: «Lo sforzo di tutta la mia vita è stato quello di cercare di sbloccare il teatro dialettale portandolo verso quello che potrei definire, grosso modo, Teatro Nazionale Italiano»8. Anche se talvolta riaffiora la celebrazione di una nostalgia né ingenua, peraltro, né avventata, tesa a preservare piuttosto, in favore del presente in trasformazione, le norme di un codice professionale eticamente esemplare: «Oggi i giovani non vogliono studiare per diventare attori, pensano che l’importante sia essere naturali, veri... ma non capiscono che la recitazione naturale è la cosa più difficile e costruita che ci sia»?. Perché «arte» significa sempre, per Eduardo, professionalità: si chiarisce in tal senso il suo rapporto con i «comici» e con il «pubblico»: la sua sfida culturale si pone anzitutto sul terreno del teatro, per l'innalzamento qualitativo sia degli attori che degli spettatori. Si potrebbe estendere anche a lui la formula elaborata da Baratto per Goldoni: la società deve essere riforzzata, ma è il teatro che egli vuole trasformare!®. Perciò L'arte della commedia, come già Il teatro comico goldoniano (1750) e forse i Sei personaggi pirandelliani, è un testo di bilancio-riflessione, con aspetti di pedagogia teatrale. Nei confronti del «teatro all’antica italiana»!!, dialettale

o meno

(nella commedia in esame non si tratta di guitti specificatamente napoletani), Eduardo assume un prospettiva generale a favore dell’«attore» come persona consapevole, un professionista forse più freddo («non è la propria commozione che un attore deve trasmettere al pub-

8 Cfr. Epuarpo, Polemiche, pensieri, pagine inedite cit., p. 172. ? Cfr. EpuARDO, Riflessioni sul teatro, in Polemiche, pensieri, pagine inedite cit., preaioza 10 Cfr. M. BaraTTO, in La letteratura teatrale del Settecento in Italia. Studi e letture su Carlo

Goldoni,

a c. di G. Da Pozzo,

F. Fido, M.

Santagata,

Vicenza,

Neri Pozza, 1985: «Se il Goldoni pensa sempre più sicuramente che la società vada riformata, è il teatro che egli vuole trasformare: che è poi il modo a lui congeniale, perché del tutto ragionevole, di collaborare alla trasformazione della società» (p. 26). 11 È il titolo del libro di SERGIO Torano, I/ teatro all'antica italiana e altri scritti sul teatro, a c. di A. Tinterri, Roma, Bulzoni, 1985 (edito per la prima volta nel 1965); un prezioso documento di vita teatrale ottocentesca, ed anche (come scrive Meldolesi nel presentare la ristampa bulzoniana) un bel «romanzo teatrale».

455

blico»)!2 ma meno approssimativo, più attento alla cura dei particolari interpretativi che volto a perfezionare «l’arte di arrangiarsi». Non a caso l'Autore afferma a proposito dell’attore dialettale (che d’altra parte rappresenta, per lui, il prosecutore naturale della tradizione della Commedia dell'Arte): «Gli attori napoletani vanno scomparendo ed è bene perché essi hanno già assolto il loro compito»!3. Non senza tuttavia quel poco di amarezza che gli deriva dalla coscienza, appunto, dell'importanza che questi «figli d’arte» hanno avuto per la costituzione del teatro occidentale: «I ‘figli d’arte”’ vanno scomparendo; ai superstiti non resta che raccogliere l’irriconoscenza di quelli adottivi»!*. Di qui la portata d’ambiguo Sosia eduardiano assunta da Campese nell’ Arte della commedia. In quanto «figlio d’arte» e guitto girovago, Campese (come abbiamo visto) si trova e si sente estrazeo al mondo del teatro cosiddetto «regolare» e «stabile». Appartiene alla «razza vagabonda dei comici antichi, magnificentissimi; di pane e di gloria famelici; senza focolare e senza silenzio», come li descrive ancora Si-

moni: l’attore incomincia la sua nel caffellatte pezzetti di brioches se poi si richiama al maledettismo pi: «In Inghilterra ci deve essere

«conferenza sul teatro» intingendo e mangia (did., I, p. 217), anche della sua gente, dai tempi dei temancora una corda che mise fine alle

tribolazioni di un Arlecchino» (I, p. 222). Eduardo, da parte sua, si trova e si dice estraneo, in quanto autore-attore-regista accettato

e seguito dal grande pubblico, alla «crisi del teatro»: che pure, nella lettera aperta al Ministro dello Spettacolo, ha già sentito il dovere di denunciare, attribuendone la responsabilità alla posizione ambigua dello Stato, in apparenza sensibile ai valori dell'Arte, ma in realtà «tirannico, che per sembrare mecenatesco e liberale non esita a fare

il più largo uso dell’ipocrisia e della corruzione»!. I due punti di 2 Cfr. EpuarDo, 13 Cfr. Epuarpo,

Polemiche, pensieri, pagine inedite cit., p. 148. Ibidem., p. 172.

14 Cfr. Epuarpo, Ibidem., p. 152. 15 Nella ‘lettera aperta” del 1959 all’allora Ministro del Turismo e dello Spettacolo Tupini, Eduardo non parlò a proprio nome, perché le sue opere erano favorevolmente accolte sia in Italia sia all’estero, «ma non ci si può sentire paghi di una posizione di privilegio in mezzo alla terra bruciata; nella società moderna le torri d’avorio possono trovare posto solo nei musei». (Cfr. L. BEAGONZINI e F. ZARDI, Teatro anno

456

zero, Firenze, Parenti,

1961, pp.

143-144).

vista, uno per così dire basso l’altro per così dire 4/to, finiscono tea-

tralmente (e astutamente) per coincidere: come Campese nell’ Arte de/la commedia, lo stesso Eduardo potrebbe dire (l’aveva pur scritto alle Autorità): CAMPESE Le mie riserve sulla vita del teatro mi vengono suggerite da un naturale senso critico, ma mai da un interesse preciso o da ambizioni personali (I, p. 216).

Trait-d’union fra i due personaggi (anche Eduardo è un personaggio, tutt'altro che lineare, che pare a tratti balzar fuori dal repertorio dei suoi prototipi teatrali) è comunque, da un lato, l’origine di entrambi come «figli d’arte» e, dall’altro, l'aspirazione, palese anche nel protagonista quando propone la messinscena di una ‘‘commedia nuova”, Occhio al buco della serratura, ad innovare appunto il repertorio teatrale secondo

la visione

(propriamente

eduardiana)

di un teatro

«specchio della vita umana, riproduzione esatta del costume e immagine palpitante di verità; di una verità che abbia dentro pure qualcosa di profetico» (I, pp. 222). Né può sfuggire come quest’opera annunciata, che sembra assumere nel titolo il punto di vista naturalistico,

si prefiguri invece (nella presentazione che ne fa il Capocomico) coi caratteri quasi d’uno spettacolo «sintetico»: «Invece di raccontare una

sola vicenda, che a volte si stiracchia per tre atti, hanno pensato di raccontarne quindici, brevemente, e indipendenti l’una dall’altra [...]»!6 (CAMPESE, I, p. 225). E di fatto l’opera si realizza, nel secondo tempo dell’ Arte della Commedia, secondo una prospettiva meta-teatrale che rovescia quella del convenzionale voyeuriszzo scenico: i «casi insoliti»

16 Cfr. Il Manifesto I/ teatro futurista sintetico: «Gli scrittori che vollero rinnovare il teatro (Ibsen, Maeterlinck, Andrejeff, Paul Claudel, Bernard Shaw) non pensa-

rono. mai di giungere a una vera sintesi, liberandosi della tecnica che implica prolissità, analisi meticolosa, lungaggine preparatoria [...]. Tutto questo teatro passatista o semi-futurista, invece di sintetizzare fatti e idee [...], distrusse bestialmente la

varietà dei luoghi (fonte di stupore e di dinamismo) insaccandolli ...] nell’unico salame di una camera. Così questo teatro è statico» (F.T. MARINETTI, É. SETTIMELLI, B. Corra), 1915, in L. Scrivo, Sintesi del futurismo cit., p. 116. Notiamo anche che gli otto attori di Campese riescono a presentare al pubblico quarantadue perso-

naggi: «ci trucchiamo, alteriamo le voci, diventiamo grassi, magri, grossi, gobbi [...] e in sole due ore di spettacolo» (CAMPESE, I p. 225).

457

(forse troppo insoliti per essere del tutto persuasivi), rappresentati dagli ambigui personaggi che sfilano, ma si intersecano anche, nello Stanzone-palcoscenico della Prefettura, fanno tutti riferimento ad un’azione che si è svolta, si svolge o si svolgerà fuori, nella strada, nella piazza, o perfino in una scuola di montagna. Indicativo l’atteggiamento di Padre Salviati: (Alzandosi e trascinando la sedia verso il balcone [...] si è seduto quasi di spalle allo scrittoio, in modo da poter guardare la strada attraverso i vetri) Da qua, parliamo lo stesso; intanto posso tener d’occhio l’ingresso della chiesa (II, pp. 241-242).

Insomma, anche attraverso quest'opera «strana» (come l’Autore definisce L'arte della commedia: «formalmente e sostanzialmente diversa dalle altre»)!7 si cerca di ristabilire per il pubblico quella prospettiva, dall’interno all’esterno, che risulta funzionale alla visione eduardiana del teatro; in modo che l’«occhio» dello spettatore, dopo aver penetrato e attraversato la quarta parete della Scatola scenica, possa rimbalzare fuori da quella Scatola e rivolgersi su se stesso. Quindi L’arte della commedia, ricorrendo come altre di Eduardo alla figura del protagonista-testimone (tematicamente l’«attore» ma anche implicitamente, per la seconda parte, il «regista»), non intende condurre soltanto una polerzica teatralizzata (contro «tutte le crisi del teatro e le abusive e spesso sprovvedute intromissioni delle autorità»)!5, ma nel complesso teatralizzare una poetica sempre legata alla triadica personalità dell’autore-attore-regista!?.

7 Cfr. E. De Fiuppo, nell’Avvertenza premessa a L’arte della commedia, Torino, Einaudi, 1965. 18 Cfr. B. ScHAECHERL, «Rinascita», Roma, 22 gennaio 1966, riguardo a L'arte della commedia: «il tono è polemico, sconcertante nella sua ironia, lancinante e inesorabile nella meticolosa puntualizzazione di tutte le crisi del teatro [...]». 19 Rispondendo alle domande di Toby Cole (1970), Eduardo ricorda che «essendo io autore e regista, oltre che attore, il mio è un caso un po’ particolare». Riguardo

al rapporto in cui sta il suo lavoro d’attore con quello d’autore, tuttavia risponde: «Nello stesso rapporto che c’è, o che dovrebbe esserci, tra un autore e il suo interprete: una certa distanza e rispetto reciproco. Autore e attore dovrebbero completatsi, non sovrapporsi, e rispettare ognuno i limiti dei propri compiti», cfr. Polemiche,

pensieri, pagine inedite cit., p. 170.

458

«Arte della commedia»,

scriveva Mario Stefanile sul «Mattino»

di Napoli all'indomani della ‘‘prima’’, «è proprio la somma di Eduardo tiomo di teatro, il quale con coerente amarezza, con aspra e mesta

polemica, con risentito orgoglio pone [...] il problema del teatro in quanto funzione primaria della vita sociale» (9 gennaio 1965). Certo, il nodo polemico del testo è rappresentato dalla domanda retorica che Campese rivolge al Prefetto, ovvero all'Autorità: «[...] questo benedetto teatro è di interesse nazionale o no?» (I, p. 220). (E si badi

bene che la polemica ancora una volta non è contro le Istituzioni in astratto, bensì contro gli uomini che concretamente, e male o «a metà», le gestiscono: campese — «Il Governo si fa in quattro per sollevare le sorti del teatro, ma gli uomini responsabili cui è demandato il compito, si sono sempre fermati ai margini del problema, non lo hanno mai affrontato fino alle radici. Le cose fatte a metà non hanno

mai dato buoni risultati», I, p. 217).

Lo stesso legame, di consequenzialità, che si pone fra il primo e il secondo Tempo, fra la parte di polemica teatralizzata e la parte di azione dimostrativa, è costituito scenicamente ma anche semanticamente dall’ultima battuta amabilmente eppure ironicamente minac-

ciosa che il Capocomico rivolge a chi lo ha messo alla porta, magari con un «foglio di via» prepagato: No, Eccellenza. Pirandello non c'entra niente: noi non abbiamo

trattato il problema dell’«essere e del parere»

— si è trattato semmai, bisogna aggiungere, del problema della «confusione»?° che si verifica sempre, nell'universo linguistico eduardiano,

«in conseguenza della contraddizione che esiste tra il dire e il fare» (I, p. 219) — Se mi deciderò a mandare i miei attori qua sopra, lo farò allo

20 Già nella ‘‘lettera aperta” cit. Eduardo affermava di aver rotto «il cerchio di silenzio e di omertà — reso più impenetrabile dalla confusione delle idee e dei suggerimenti interessati» — (op. cit., p. 154). Quindi CAMPESE: «[...] Ritengo soltanto che il teatro si dibatte in un clima di assoluta confusione, la quale determina nel pubblico quel tale disorientamento che viene poi interpretato, non sappiamo se in buona o in mala fede, come crisi teatrale» (I, p. 216).

459

scopo di stabilire se il teatro svolge una funzione utile al proprio paese o no. Non saranno personaggi in cerca di autore ma attori in cerca di autorità. La saluto, Eccellenza, buona giornata e stia attento. (Esce)

ndo

Se l'Autore risolve la prima parte in una specie nuova di ‘‘monologo dialogizzato” del Protagonista, cui in fondo De Caro e talvolta il suo segretario, Giacomo Franci, fanno da ‘‘spalle’’: nell'azione dimostrativa, ancora una volta, i ‘‘casi’”’ dei personaggi-persone che si presentano al Prefetto, esitante tra finzione e verità, come su un palco-

scenico (quel «qua sopra» che sfugge a Campese è rivelatore!) sono esplicitamente addetti ad esemplare «i problemi di tutti»?!. Infatti la seconda parte, tutta sostenuta e animata da un doppio registro, comico e tragico (come nel migliore teatro eduardiano), conseguente all’ambiguità del punto di vista sulle situazioni in atto (uomini o attori?) e al gioco di prestigio o equivoco colossale dello scazzbio delle liste incautamente provocato dal solerte segretario, culmina nell’altra battuta di Campese, ritornato in scena per accomiatarsi dal suo pubblico finto e da quello vero: Attori o non attori i fatti non cambiano. Se ritiene che i problemi di cui è venuto a conoscenza, siano di tale portata da richiedere tempestivamente interventi dello Stato, agisca in proposito, indipendentemente da quella che può essere la vera identità di questi signori. [...] Io che c’entro? Il Prefetto è lei (II, p. 257).

21 Nell’Avvertenza premessa all'edizione Einaudi (1965) dell’ Arte della comme-

dia, Eduardo aggiunge alla fine: «Voglio farvi solo una raccomandazione: tenete presente che questa commedia non l’ho scritta solamente per la gente di teatro — come alcuni affermano —, ma per tutti noi, giacché i problemi di cui tratta riguardano la nostra vita e quella dei nostri figli». Ma siamo sostanzialmente d’accordo con R. RADICE, il quale scrisse sul «Corriere della Sera» (Milano, 9 gennaio 1965): «[...] fra le due parti (della commedia) corre un divario notevole, la prima riguardando

esclusivamente la condizione del teatro e la sua gente, la seconda assurgendo da quella premessa a una più vasta significazione, quasi a stabilire che la condizione del teatro è in definitiva lo specchio di una condizione umana e sociale che pure invoca i suoi rimedi [...]. L’appassionato credo eduardiano trova nella seconda parte [...] un ritmo e un calore trascinante: grazie ad essi, quello che potrebbe essere un successo ideologico si trasforma ancora una volta in un successo sentimentale».

460

Perciò abbiamo parlato, per questa commedia, non solo di polemica teatralizzata ma anche di teatralizzazione di una poetica: la verifica scenica dell’utilità o meno del teatro dipende sostanzialmente dalla visione eduardiana del teatro come vita. Al di là delle ambigue segnalazioni di ciò che è o pare (pensiamo al gustoso gioco degli equivoci che, sul piano del linguaggio, intesse il dialogo fra il medico condotto Quinto Bassetti e il Prefetto)?2, la rappresentazione dei «sei personaggi» che hanno invaso lo Stanzone (segnatamente caotico e antiquato) dell'Autorità solo sul piano concreto della vita può e deve trovare

la propria conferma di utilità sociale, se artistica. Il prototipo pirandelliano è ancora una volta citato ma capovolto (e qui dichiaratamente).

Consideriamo

la morte in scena del farmaci-

sta, vero o presunto (non sappiamo): richiama, anche per la sua collocazione alla fine del testo, il suicidio del Ragazzo nei Sei personaggi in cerca d’autore. Ma il problema,

secondo Campese-Eduardo,

non

è e non dev'essere quello dell’«essere e del parere», se la finzione del Teatro è funzionale alla conoscenza della verità della Vita. CAMPESE Eccellenza, ma che gliene importa a lei, se si è trovato

22 Il gioco degli equivoci nasce dal linguaggio, e ancora una volta dalla possibilità di ‘“‘letteralizzare’’ il linguaggio figurato: QUINTO DE Caro

[...] Avevo spaccato prima del previsto (Sollevato dalla frase to reale) Ah, ecco!

la gola di un cadaverino. Il sipario si chiuse e troppo bruscamente. conclusiva di Bassetti, a cui attribuisce il significa E la gente?

QUINTO

Tutti seduti, fermi, come paralizzati e in silenzio. Poi cominciarono quelli in piedi... C'era pure gente in piedi [...]. E allora, urli bestiali: «Buffone!» «Pagliaccio!» [...] «Recitate la parte a memoria, ma siete degli assassini!» [...] «Sono perduto», dico, mi guardo intorno e in un attimo infilo la porta...

De CARO QUINTO

Del palcoscenico? Quale palcoscenico? (II, p. 235).

Ma l’equivoco seguita per tutta la scena del ‘‘discorso’’ di Quinto dal balcone di casa sua:

QUINTO

Lo spettacolo era finito. Un attimo di silenzio e poi un applauso fragoroso [...] «Bravo!» «Bene!». Ringraziai quattro cinque volte, ma

DE Caro

come

in sogno [...].

[...] E ci furono repliche? (Id., p. 236).

461

di fronte a un farmacista vero o a una farmacista falso? A mio avviso dovrebbe essere pit preoccupante un morto falso che un morto vero. tm

solo apparentemente

un paradosso:

Quando in un dramma teatrale c'è uno che muore per finzione scenica, significa che un morto vero in qualche parte del mondo c’è stato o ci sarà. Sono le circostanze che contano;

vanno

considerate

e approfondite le particolari condizioni di vita delle persone umane, che ci permettono di chiarire le ragioni di quell’atto. Ecco perché le ho detto stamattina: «Venga a teatro, Eccellenza [...]}> (II, p. 257).

Il filtro intellettualistico attraverso il quale passano, in Pirandello, «personaggio» e «teatro» manca, si sa, in Eduardo. La sua stessa comicità discende da tradizioni e intelligenze remote (o comunque diverse) rispetto all’«umorismo» pirandelliano. Il suo «riso» sembra conservare l’antica funzione di rovesciamento (i protagonisti eduardiani sono spesso portatori di un «mond à l’envers»); ha ancora una funzione aggregante, socializzante, e non solo di demistificazione??. Il teatro di Eduardo non si fonda sulla dialettica fra personaggio e persona, tantomeno assicura al primo il sopravvento sulla seconda («vanno considerate e approfondite le particolari condizioni di vita delle persone umane»). Sembra estraneo in tal senso al grande teatro della Krisis europea otto-novecentesca, alla stessa «incertezza della nostra personalità». Laddove i sintomi di questo «male di vivere» contemporaneo sono resi dal Siciliano con tristo umorismo: l’«umorismo tragico» che tende a scomporre il carattere del personaggio e a rappresentarlo nelle sue incongruenze, a mostrare una vita «nuda» irta di contraddizioni, accogliendo (quasi accumulando) l’imprevisto e la disarmonia che sono nell’esistenza; lo sforzo costante del Napoletano,

sia pure ostacolato o frustrato dalla «realtà», è stato quello di ridare consistenza «umana» ai suoi personaggi-persone. Non ci sono nel teatro 23 Si fa riferimento alla nota teoria bachtiniana («mondà l’envers»). Ma, riguar-

do al nostro autore, si pone anche la fondamentale interpretazione sociologica del “riso” di H. Bergson

(I/ riso cit.) sulla cui linea si collocano i successivi sviluppi

di E. DuPRÉEL (Le problème sociologique du rire, «Revue philosophique de la France e de l’étranger», 106, 1928, pp. 213-260) e poi di L. OLBRECHTS-TYTECA (in I/ comzico del discorso, Milano, Feltrinelli, 1977).

462

di Eduardo

delle «maschere

nude».

Se Pirandello, individuando

la

dicotomia tra finzione e realtà, tende a porre l'accento sul primo termine al punto che i due si confondano e la vita diventi teatro, Eduardo conclude all'opposto che la finzione è sì presente nella realtà, ma non come essenza bensì come incidente o ostacolo, che bisogna comunque tentare di superare. Pienamente cosciente, come si è visto, del disorientamento del-

l’Individuo nei suoi rapporti con gli Altri, con il Mondo che lo circonda, egli torna a considerarlo da fenomeno esistenziale — quasi metafisico nell’ultimo Pirandello — fenomeno storico, sociale e politico in senso ampio; e comunque, nella disgregazione generale, tenta di salvare il «volto», che per lui è l’essenza «comunicabile» del personaggio come dell’uomo. Se il personaggio pirandelliano, come dice Morabito, esprime «la propria inabilità a costruirsi un ruolo attendibile», e «il solo tipo di eroismo» ammesso nel suo mondo è quello di chi «decide di perseguire fino in fondo il ruolo assegnatogli [...], perseguire strenuamente una finzione»?4, l’‘‘eroe’’” eduardiano si sforza invece di superare l’ostacolo della finzione, quasi per avverare la premonizione o l’auspicio di Giacomo Debenedetti, del riscatto del «personaggio-uomo»??. Forse perché attraverso il «tempo grande», la «memoria» dei generi popolari, si ricollega alla Maschera della Commedia dell’ Arte, il personaggio eduardiano salta l’îmzpasse naturalistico e supera la dialettica novecentesca fra la «maschera» e il «volto», riproponendo la Maschera come archetipo creaturale dell’ Uomo intero. Ad ogni modo, nell'Arte della commedia, la ‘‘forma’’ teatrale e

artistica, ben lontana dal vanificare la concretezza della ‘‘persona”’, diventa strumento per comunicare quella concretezza allo spettatore: nel ‘‘personaggio’’ casuale ed esemplare. Ma facciamo parlare ancora Campese, là dove ripete il punto di vista del suo Autore: Lo spettatore è ormai maggiorenne e giudica di testa sua [...]. Il pubblico è maturo, vuole il suo autore, quello che gli racconta i fatti di casa sua, e che gli fa riconoscere se stesso tra i personaggi

24 Cfr. R. Moragito, Il mondo del teatro. Considerazioni a partire da Pirandello, in Parola e scrittura cit., p. 115. 25 Cfr. G. DEBENEDETTI, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo cit.

463

della commedia. L’autore riconosciuto per tale, entra dalla porta del palcoscenico ed esce insieme al pubblico a braccetto, da quella della platea: (I, \p. (223).

Alla base, come si vede, sempre un'esigenza di dialogicità, e di contatto quasi fisico fra il Teatro e la Vita: anche perché «le parole del teatro» si riferiscono ad «una realtà fisicamente presente sulla scena»26, Si tratta (è ovvio) d’una realtà fortemente modellizzata, ma con ciò non meno

attuale, viva...

Ci sovviene un’osservazione di Jacobbi: «la vita ricostruita — che è il dramma — testo pià interpretazione — è una somma di aspetti d’alta intensità umana e sociale a cui il ritzzo dell’azione dà forza drammatica.

La realtà sarà, a volte, più brutale; ma nulla è

più drammatico del dramma [...] nel suo giusto e inconfondibile tenore di concentrazione e densità»?7; perciò «l’arte continua ad avere il suo valore di scandalo, di unicum, di imprevisto, di violenza, so-

prattutto l’arte del teatro, la drammaturgia in quanto unico genere (anche letterario) dove i/ destinatario è presente fin dalle origini»?8. Ma è una «realtà materiale» il referente del discorso drammaturgico: il quale è scritto presupponendo il fatto che il «tu» a cui si rivolge un attore sia un altro attore, cioè «una persona in carne ed ossa»

(rapporto autore-attore/personaggio), e le «parole» — nel momento in cui verranno pronunciate — giungano anche allo spettatore, un destinatario che può vedere, eventualmente toccare, quella «realtà» (rapporto testo/spettacolo-pubblico)??. Utile il teatro, proprio perché nel suo linguaggio sintetico — afferma anche Eduardo — ha «più forza di penetrazione», è più informativo delle lingue naturali?°. D'altra parte, che dallo spettacolo

26 Cfr. 2? Cfr. 28 Cfr. formazione ro, Giorgio

R. MORABITO, op. cit., pp. 103-104. R. JacoBBI, Teatro da ieri adomani, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 14. R. JacoBBI, nel testo registrato della discussione fra critici di diversa e metodologia (Roberto De Monticelli, Federico Doglio, Ottavio SpadaProsperi, Luigi Squarzina, Renzo Tian...) premesso al 1° numero della

«Rivista Italiana di Drammaturgia», 1976, cit., p. 14. 2? Cfr. A. BARSOTTI, recensione a R. MORABITO, op. cit., in «Ariel», I, n. 1,

gennaio/aprile 1986, pp. 182-184. 30 Cfr. EpuaRDO, Lezioni di teatro cit.

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risulti vita è un imperativo che sta confitto nella sua condizione di «arte viva»: «l'importante è che [le mie commedie] siano nate vive»3!, capaci cioè di stabilire un contatto col pubblico. Tutto il pubblico: è forse l’Utopia eduardiana: «Io scrivo per tutti: ricchi, poveri, operai, professionisti...! Tutti, tutti! belli, brutti, cattivi, buoni, egoisti...

Quando il sipario si apre sul primo atto d’una mia commedia, ogni spettatore deve potervi trovare una cosa che gli interessa»??. Ma il teatro è utile, per l'Autore, anche perché ci aiuta ad avere «un po’ di spasso», a trovare nella vita «un mezzo purgatorio»?3. Perciò anche nell’ Arte della commedia, dopo aver cercato di «far pensare» il Prefetto (e le Autorità che possono riconoscersi nel personaggio), non rinuncia a prendersi gioco un’ultima volta di lui, coinvolgendo il pubblico — collaboratore e vittima insieme — nel godimento perplesso del suo ennesimo «razzo» finale. Proprio quando tutti (Prefetto compreso) ci aspettiamo dall’arrivo del Maresciallo con gli agenti la ‘‘soluzione’’ dell’enigma (uomini o attori?): Tutti col fiato sospeso (noi compresi) fissano la porta d’ingresso — CAMmPESE

Un momento!

De Caro

(illuminandosi) Ah, finalmente hai deciso di venire a

miti consigli! Campese No, Eccellenza. Volevo soltanto farle sapere che fra il vestiario di una compagnia teatrale non è difficile trovare una divisa da Maresciallo dei carabinieri. (Rivolto alla porta) Avanti! Sipario (II, p. 258).

Consideriamo allora un altro aspetto dell’opera, la sua vicenda scenica, che pare legarsi agli altri due più propriamente testuali, di polemica teatralizzata e di teatralizzazione della poetica. E una vicenda che, investendo concretamente il campo dei rapporti fra Teatro e Potere, sembra paradossalmente prefigurata dal ‘‘caso”’ occorso al protagonista della commedia: il Capocomico, si è visto, messo bruscamente alla porta dal Prefetto (al quale si è rivolto per aiuto) proprio

31 Cfr. EDUARDO, Riflessioni sul teatro, 1970, in Polemiche, pensieri, pagine inedite cit., p. 142.

32 Ibidem. 33 Cfr. Epuarpo,

Lezioni di teatro cit., p. 133.

465

perché si è permesso di discutere quelle istituzioni che consentono e controllano il lavoro della «gente di teatro». Di fatto, L’arte della commedia, rappresentata per qualche settimana al San Carlo di Napoli nel gennaio del ’65, censurata subito da una rubrica televisiva sulle prime dello spettacolo, fu poco dopo tolta dal cartellone (e sostituita a Roma dalla ripresa di Uomzo e galantuomo) a causa delle reazioni polemiche suscitate «in alto loco»4. Un caso, più ancora che di censura, di «autocensura»: di cui Tian

sembra rimproverare Eduardo: «Rimane da dimostrare che i timori sulle reazioni di determinati ambienti siano sufficienti a sottrarre una commedia al suo giudice naturale, il pubblico» («Il Messaggero», Roma, 19 marzo 1965)??. Ma si tratta proprio di quella «autocensura» denunciata da Campese nella commedia: Eccellenza, se non c’è la censura, c’è l’autocensura, a cui l’autore deve spontaneamente sottostare. Infatti, la gente di teatro muove i propri passi in funzione di una volontà precisa, di un indirizzo obbligato, non verso lo scopo vero, che sarebbe quello di dare al pubblico l’immagine

della verità (I, p. 223).

Coscientemente o inconsciamente Eduardo, in quanto «uomo di teatro», anche per questo aspetto della «paura perniciosa, costituzionale, congenita... che accompagna la gente di teatro dalla loro nascita ad oggi» (I, p. 222), non fa che testimoniare sul piano della vita e della vita dello spettacolo quella continuità del presente con il passato

7 Cfr. B. SCHAECHERL, op. cit.; ma anche F. Di Franco, Eduardo, Roma, Gremese, 1983: «La polemica che suscitò questa commedia al suo apparire a Napoli fece sì che Eduardo non la rappresentasse più né a Roma né a Milano, dove avrebbe dovuto essere messa in scena, e la sostituisse con Uomo e galantuomo, che, pur affrontando

anch'essa i problemi del teatro, lo fa con mano più leggera» (p. 187). 35 Cfr. R. Tian: «Eduardo De Filippo è tornato [...] a inaugurare la sua stagione romana [...] con una ripresa. O per meglio dire, ha tolto dal cartellone romano la sua commedia nuova [...] L’arte della commedia. I motivi di questa esclusione sono stati esposti dall'autore in una recente intervista: dichiarandosi certo in anticipo dell'accoglienza negativa che sarebbe stata riservata alla commedia in certi ambienti romani, Eduardo preferiva tornare a Uorzo e galantuomo, farsa scritta una quarantina di anni fa, ‘‘che diverte e non fa pensare’’» (cit.).

466

(riguardo agli ambigui rapporti fra il «comico» e il «Signore»)?5 che ha prefigurato nel testo dell’ Arte della commedia. Perché Campese va dal Prefetto? O, in senso lato, perché l’«attore capocomico» si rivolge alle Autorità, come faranno o avrebbero fatto il «medico condotto», il «parroco», il «farmacista», la «maestra

comunale»? Non per chiedere sussidi, ma per chiedere un giusto riconoscimento della propria funzione sociale?”. Campese Eccellenza ma io non sono venuto per chiederle dei viaggi gratis. Con sacrifici personali e con il mio lavoro ho sempre provveduto alle spese di trasporto del «Capannone» (I, p. 225).

Tanto che il Prefetto, sarà costretto ad ammettere, sia pure sprezzantemente: «Guarda quanta dignità... chissà quante volte ha viaggiato sui carretti» (I, p. 227).

Eppure in questa «dignità» di Campese restano tracce di una subalternità nei confronti del potere politico, radicata nella forma mentis della «gente di teatro», sia pure per ragioni storiche ed economiche;

36 Cfr. L. Zorzi, op. cit. A proposito dell’ambiguità del rapporto che, nell’epoca della sua maggiore affermazione, legava il comico dell’arte al signore, Zorzi avverte come il potere politico, pur variamente avversando l’attività dei comici, non tardasse ad accorgersi dell'importanza del nuovo ‘genere’ e dell’utilità di appropriarsene; dunque i Signori offrivano ospitalità alle compagnie, allestendo appositi locali (come il teatrino della Dogana o della Baldracca a Firenze, a partire dal 1576) cui accedeva

il nascente pubblico borghese e artigiano. Il Granduca in persona «non disdegnava di assistere» alla commedia, accompagnato da «ospiti e familiari», da «dietro una grata che schermava gli stanzini [...] riservati al principe e alla sua corte». «Il signore, con la propria presenza dissimulata e ammonitoria, vessava il comico; e questi talvolta se ne vendicava, osando salaci e irriverenti parodie». Ma il rapporto, pur fondato sulla separazione e sulla differenza, esisteva, né si poteva definire, da parte del comico, eversivo (pp. 136-137). 37. Fiorenza Di Franco, nel suo Le commedie di Eduardo cit., stabilisce infatti una serie di rispondenze fra le esigenze dei personaggi che nella seconda parte do-

vrebbero interpretare «i problemi di tutti» e quelle del personaggio (Campese) che interpreta nella prima i problemi della «gente di teatro»: «All’attore che cerca un riconoscimento della propria professionalità fa riscontro il medico che rivendica la dignità morale e scientifica della sua opera. All’attore che si sente socialmente emarginato [...] si ricollega la figura della maestrina di montagna la cui follia scaturisce dai disagi e dall’angoscioso isolamento. L’inutilità dei diplomi dell’Accademia è sottolineata dal dramma del farmacista, che non sa che farsene della farmacia [...]» (p. 234).

467

infatti il suo gio...», teatro

Campese chiede al Prefetto di «onorare con la sua presenza» spettacolo («Dalla ribalta le rivolgerei un indirizzo di omagI, p. 225), così da poter attirare il pubblico dei «signori» nel comunale dove il suo solito pubblico (quello che riempiva il

«Capannone»:

braccianti, contadini, serve, bottegai...) «si vergogna

di entrare» (I, p. 214)?8. Insomma, per poter rappresentare la sua «commedia nuova» e al tempo stesso rispondere adeguatamente e dignitosamente alle esigenze del «vitto» (già motore primo, per Tessari, della Commedia dell’Arte)3? l’Attore, secondo Eduardo, è ancora oggi (o almeno negli anni Sessanta)

costretto

a intrattenere

rapporti di subalternità

col -

Potere.

E quando il Potere si sente offeso, la commedia nuova sparisce dal cartellone... È un dato di fatto: «arte» sì, il teatro, ma fra le più dipendenti, nella prassi, dalle condizioni extra-artistiche, dalle esi-

genze del mercato e dalla configurazione della società. Per cui la vita conferma anche per questo aspetto la verità annunciata dal teatro,

38 Con ciò Campese non manifesta l'ambizione di salire di grado, rivolgendosi ad un pubblico socialmente più elevato, ma spera semplicemente di superare l’irzpasse in cui si trova dopo l’incendio del ‘Capannone’: al Comunale il suo solito pubblico non entra perché «si vergogna»

e-«i signori se ne stanno

a casa perché la solita

zuppa non la vogliono», perciò il teatro resta vuoto. Se invece il Prefetto si mostrasse al suo spettacolo, «l'annuncio soltanto metterebbe a rumore il paese [...]. Garantisco

un teatro gremito. E cosi parto con i soldi miei...» (I, p. 214). 39 Si tratta di un artigianato teatrale che lega «diletto» (e tecniche del diletto)

a «mercede» in forme che continuano ad essere praticate ancora, per Tessari, nell’industria del divertimento (op. cit.). D'altronde, come avverte Ferrone, i protagonisti

della Commedia dell’Arte furono (anch'essi) per lo più attori-autori, i quali, in quanto capo-comici, organizzatori di compagnie, furono quasi costretti (da necessità prati-

che oltreché da aspirazioni di distinzione) a fabbricare i propri «scenari» o testi (Ixtroduzione a Commedie dell’Arte, I, cit., p. 13). Come si vede, Eduardo parte da questa realtà antica (tramandatasi per molti aspetti in quella fineottocentesca e primonovecentesca delle compagnie dialettali di cui egli stesso ha fatto esperienza) per ‘‘costruire’’ il suo Campese, attribuendogli tuttavia riflessioni e aspirazioni moderne, che gli appartengono. Non a caso l’Autore ha detto a Mario B. Mignone di aver preso lo spunto, per la sua commedia, dalla trovata di fondo dei Comzici e l'avvocato Marulli (cfr. M.B. Mignone, I/ teatro di Eduardo De Filippo. Critica sociale cit., p. 258), ma nelle argomentazioni del protagonista si colgono molti punti in comune con la “lettera aperta” scritta da Eduardo

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al ministro Tupini (op. cit.).

ed Eduardo si conforma, pur prendendosene come Campese le sue vendette... Non solo riprendendo al posto dell’ Arte della commedia un lavoro come Uorzo e galantuomo, che sotto l’aspetto di farsa «che diverte ancora e non fa pensare» proponeva già il problema dei rapporti fra Teatro e Potere; ma dando alle stampe, subito, la sua commedia nuo-

va con una Avvertenza che delega direttamente al «lettore» (in attesa di poterlo fare con lo «spettatore») il compito di giudicare l’opera, non solo dal punto di vista artistico ma anche (la polemica è sottesa ma chiara) dal punto di vista politico: [...] desidero [...] che il lettore giudichi con la propria testa, si formi una sua idea del lavoro, e decida da solo se la commedia è valida o no, teatrale o non teatrale (alcuni l’hanno ritenuta una «noiosa conferenza sul teatro»), pericolosa (al punto da meritare una censura televisiva) o no9.

La cesura che si istituisce, d’altronde, fra testo e giustificazione («Vorrei spiegare perché L'arte della commedia va in stampa senza prefazione») conferma un tratto peculiare di Eduardo, che si ricollega sia al carattere dell’opera in questione, di polemica e di poetica comunque teatralizzate, sia al suo atteggiamento generale di artista che elude o tende ad eludere il momento teorico, puramente monologico. Anche perciò non ci piace quel Prologo aggiunto più tardi, che, oltre a premere troppo i tasti della «nostalgia» e della «polemica», toglie all'ingresso del Protagonista nello Stanzone della Prefettura quell’effetto di imprevisto, di «sorpresa», come focalizzazione di un fenome-

no importante, che nel teatro dell'Autore ha sempre una funzione drammaturgica e spettacolare specifica. Sia pure riferito alla vicenda particolare di questa sua «opera strana», il desiderio «che il lettore giudichi con la propria testa» rappresenta un topico /eit-motiv eduardiano. Le prefazioni che vogliono spiegare le intenzioni dell’autore non

40 Cfr. E. DE Fiuppo, Avvertenza cit. all'edizione Einaudi ’65 di L'arte della. Commedia.

469

le ritengo necessarie. È compito del lettore scoprirle, ed egli lo farà certamente se lo scrittore ha saputo esprimersi, afferma ancora nel ’73 nella Nota ai suoi «Capolavori» Einaudi

(p.

VII). È un’opinione che si lega appunto al suo rifiuto della teoresi come «forma immobile». Eduardo infatti non ha mai voluto lasciare alla speculazione dei posteri l'occasione di un suo scritto teorico, e,

pur avendo scritto moltissimo, ha preferito sempre scrivere opere e non discorsi... Questa sua convinzione, dell’inutilità o della transitorietà d’ogni scritto teorico, si riferisce sia all’«arte della recitazione» che all’«arte della commedia» (perché «la stessa cosa della recitazione è con la scrittura»)4!. «Non ho mai voluto scrivere sull’arte della recitazione per-

ché il teatro si evolve continuamente, come la vita [...]. Ancora oggi attori e registi usano, per esempio, i metodi di Stanislavskij oppure di Brecht, mentre, se questi due grandi'artisti fossero vivi e operanti, essi avrebbero già abbandonato tali metodi, passando ad altri e poi altri ancora. [...] L'importante è capire che tutti noi uomini di teatro

viventi siamo momenti generati da momenti precedenti e che a nostra volta generiamo momenti della futura evoluzione teatrale, la quale, secondo me, cesserà soltanto con la fine dell'umanità»: si legge in un suo scritto del ’70, dove, proprio per coerenza con i suoi principi, preferiva rispondere alle domande di un’amica (Toby Cole) anziché monologare teorizzando*?. Perciò, nell’analisi della sua commedia più teorica (L’arte della commedia appunto), abbiamo cercato di integrare i ragionamenti del suo Sosia scenico (Oreste Campese) con i «pensieri» che l'Autore ha

via via espresso in interventi pubblici o privati e poi nelle sue «lezioni di teatro»: per incominciare ad inquadrare (se possibile) la sua poetica di autore-attore-regista. D’altronde, i Pensieri come le Lezioni hanno in comune con la commedia un prevalente andamento dialogico*, pro-

41 Cfr. EpuarDpo, Lezioni di teatro cit. 42 Cfr. EpuarDo, Polemiche, pensieri, pagine inedite cit., p. 169. 43 Queste riflessioni e considerazioni sul teatro (interviste, «frasi brevi e lunghe,

piccole poesie, dialoghi, parole pronunciate durante le prove») appaiono in gran parte raccolte nel libro che Isabella Quarantotti dedica al marito, intitolandolo col suo nome proprio e d’arte, e soprattutto di battaglia, semplicemente «Eduardo»; le Lezio-

470

prio perché Eduardo ha preferito sempre esprimere nelle interviste o già a colloquio con gli studenti, Egli tende il più possibile ad evitare il ‘“monologo’’, sto non sia una specie di ‘‘allocuzione al pubblico”,

le proprie «idee» «a tu per tu»... almeno che quequasi una confes-

sione, come quel bellissimo Prizzo... secondo. Aspetto il segnale, in cui il pubblico è evocato, visionariamente, anche nel chiuso della sua stanza.

Eppure lo ‘‘zibaldone’’ dei pensieri dell’ Autore (anche gli aforismi o le battute dettate dal perdurante gusto del paradosso) costituisce, a ben guardare, un sistema di poetica teatrale: un sistema più organico di quanto non sia apparso finora ai critici (alcuni dei quali insistono sul suo «istinto» e la sua «mancanza di facoltà critica») e forse a lui stesso, nemico dichiarato (si è visto) di ogni sistemazione

ni (come sappiamo) sono edite a cura di P. Quarenghi e con prefazione di F. Marotti (1986). I due volumi (dai quali abbiamo citato anche in precedenza) sono apparentati dal loro carattere di testimonianza diretta, dove il montaggio delle rispettive curatrici avviene su un materiale che è, essenzialmente, ‘‘voce’’ dell'Autore (neppure il libro della moglie vuol essere tanto un libro ‘‘su’’ Eduardo quanto un libro ‘‘di’’ Eduardo). Da qui in avanti citeremo nel testo usando l’abbreviazione Pensieri per il primo volume, e Lezioni per il secondo. 44 Si noti come questo ‘‘pezzo”’ sembri riecheggiare Co/loquii coi personaggi di Pirandello (Novelle per un anno, II, cit.). Pirandello racconta infatti di quelle «ombre brulicanti nell'ombra» che, nella tristezza del primo anno di guerra, spiano l’autore da un angolo della sua stanza: «Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro» (p. 1131; cit. in C. VICENTINI, I/ problema del teatro nell’opera di Pirandello, in AA.VV., Pirandello e il teatro del suo tempo, a c. di S. Milioto, Atti del Convegno di Grosseto, ottobre 1982, edizione del Centro Naziona-

le di Studi pirandelliani, 1983, p. 14). Mentre Eduardo in un brano da noi più volte citato: «Cosa aspetto in questo mio studio, fin dall’indomani sera della mia ultima recita a Roma?

Io lo so: aspetto il segnale che dia il ‘‘chi di scena”

[...].

Infatti mi circondo di mille volti; con la mia immaginazione cerco di mettere uno spettatore in ogni piccolo angolo della mia camera... Eccoli seduti sul davanzale della finestra, altri fanno a gomitate per guadagnare il posto migliore; hanno persino tolto gli sportelli della libreria e si sono seduti sugli scaffali al posto dei libri. [...] Senza pubblico! Come può vivere un attore senza pubblico? [...] E se scrivessi? Con il continuo stridio della penna, riuscirò ad avvicinarmi alla folla, a rivedere i mille volti? Ci proverò, e nel risentire io stesso quello che penso sarò una volta tanto spettatore di me stesso» (Pensieri, pp. 123-124). Ai fantasmi assillanti dei ‘‘personaggi”, Eduardo sostituisce quelli degli ‘‘spettatori”’, i quali soltanto possono stimolare l’attore-autore ad ‘‘acciuffare’’ i fantasmi dei personaggi.

471

scritta dalle proprie «riflessioni», che nell’oralità dovevano sembrargli più in sintonia con l’evoluzione e la trasformazione del teatro come vita. Ci pare confermino, sia i Pensieri sia le Lezioni, come l’effetto di semplicità del suo teatro sia stato ottenuto a costo di una notevole complicazione del testo, nella sua duplice accezione e funzione di «testo drammaturgico» e di «testo spettacolare». Eduardo si è posto sempre il problema di costruire testi artistici (organizzati) che simulassero (con piena coscienza di questa ‘‘simulazione”, che egli chiama «gioco simbolico») ciò che non era artistico (non organizzato): la vita. Il suo obiettivo era di creare, ai vari livelli,

una struttura che fosse recepita come ‘‘mancanza di struttura”. Ma, proprio per suscitare nel Pubblico (interlocutore e antagonista) l’impressione di semplicità, di naturalezza (sui piani della lingua parlata e del gesto, o dell’immediatezza dell’intreccio), bisognava che l’«architettura» (di cui parla subito ai suoi studenti del corso di Dramma-

turgia) fosse notevolmente complessa, e comprendesse specialmente l’affermazione della contemporanea possibilità di molti «punti di vista». «Non ci dobbiamo occupare di noi stessi: non è un’autoconfessione, la commedia», ripete quindi ai suoi allievi; «dobbiamo generalizzare l’idea [...], perché possa arrivare poi ad un pubblico. [...] La prima cosa è il distacco da quello che uno

deve scrivere [...]. Gli

spunti, le situazioni da citare bisogna coglierli in giro con l’osservazione, ma con l’osservazione sugli altri [...].. E prendere appunti, segnare, segnare...». Ma ciò non significa fare una trascrizione dei fenomeni della realtà: perché «il teatro è sintesi» e «bisogna avere sempre l'orecchio al teatro [...]. Bisogna vedere l'applicazione di quella battuta o di quella frase — presa ad esempio su un tram —, nel contesto . dove la vuoi applicare: può diventare realistica, comica, tragica...» (Lezioni, pp. 35-37).

Dunque, l'affermazione o la resa di più «punti di vista», in una commedia, è operazione di architettura complessa, ben lontana dalla fotografia o dalla registrazione della «vita»: perché è comunque chi scrive — sempre prevedendo la realizzazione spettacolare del testo — che organizza e «manovra» fatti e personaggi, allo scopo di rivelare, ma solo «alla fine», dopo aver mantenuto costantemente la suspense (come nel «giallo»), il proprio «punto di vista». Il quale, allora, non è più un’autoconfessione, ma scaturisce come We/tanschauung dalla polifonia dell'intera opera-spettacolo (Lezioni, p. 20 e p. 37). 472

Certo, fra i generi letterari e artistici, il «teatro» è quello che di per sé offre maggiori possibilità all’esistenza di diversi punti di vista all’interno di uno stesso testo: mediante «l'intersezione di alcuni testi in prima persona (discorso diretto), nella forma di sistemi aventi, ciascuno all’interno di se stesso, la verità (forma dialogica)».

Non

a caso Eduardo dà tanta importanza al «dialogo» come la «fase» più difficile, «la fase definitiva della commedia»: nella composizione, in-

fatti, bisogna procedere dall’«idea» alla scrittura del «soggetto», alla «scaletta» (lo «sceneggio») e «solo dopo dialogare» (Lezioni, p. 30). Ma il tratto più significativo della sua poetica, al di là del fatto tecnico, è nel principio: in un’epoca come la nostra, in cui la forma dialogica è entrata in crisi (sia come forma «primaria» di comunicazione fra gli uomini, sia come forma «secondaria» di comunicazione fra i personaggi), Eduardo si propone di ripristinarla, rinnovandola. Ecco perché il leit-motiv ‘‘tematico’’ di molte sue commedie — l'esigenza e la ricerca inesausta di comunicazione fra gli uomini — diventa, dai Pensieri alle Lezioni, parte integrante di un discorso meta-teatrale, di un discorso ‘‘sul’’ teatro fatto ‘attraverso’ il teatro... Instancabilmente, lo sappiamo, Eduardo ripete questo principio irrinunciabile: il Teatro deve comunicare col Pubblico. Persino quando parla del «trucco teatrale», afferma: «il trucco teatrale... è il primo passo dell’affascinante e complessa simbologia teatrale che permette l’intesa magica tra lo spettatore e il tizio che sta in scena» (Pensieri, pp. 174-175). E non a caso, nell'Arte della commedia, quella «cassetta dei trucchi» salvata miracolosamente dall’incendio del «Capannone» rappresenta un /eit-motiv determinante per lo svolgersi dell’azione: proprio in quanto ferro del mestiere indispensabile perché si realizzi il gioco di prestigio degli attori, nella loro magica funzione di intermediari fra il teatro e la vita. De Caro (passeggiando nervosissimo e parla come a se stesso) Si camuffano, si trasformano... diventano alti, bassi, grassi... hanno salvato la cassetta dei trucchi... Cambiano le voci! Giacomo Chi?

De Caro (furente e con disprezzo) I teatranti! (I, p. 228).

4 Cfr. Ju.M. LotMmAn, La struttura del testo poetico cit., p. 315. 46 Cfr. EpuarDo, Io mi trucco così, da «Vogue», marzo 1984.

473

Siccome in teatro ci sono «personaggi» e non uomini veri, e que-

sti personaggi devono comunicare col pubblico, le «parole» create dall’«autore» per il personaggio debbono essere, a loro volta, ri-create dall’«attore», che è «il vero confessore spirituale del personaggio», proprio perché ha a disposizione oltre al codice verbale anche altri codici non-verbali: «gesti, sguardi, movimenti»: «m'interessa più l’attore creativo che quello obbediente; quest’ultimo non vuole imparare, aspetta ordini; è un impiegato, non un collaboratore» (Pensieri, p. 170). Ma anche il destinatario, il «pubblico», dev'essere

‘‘creativo”’,

perché via via può indicare «con le sue reazioni» — all'attore ma anche all’autore — «la vera natura teatrale del personaggio». In questo tiro incrociato di apporti comunicativi, il «regista» ha soprattutto il compito di «armonizzare l’insieme», organizzando il gioco di squadra e creando il «ritmo» dello «spettacolo» (Id.): «il vero pubblico

vuole applaudire alla fine della rappresentazione quando, staccandosi dalla finzione scenica, s’accorge con quanta umiltà abbiano lavorato assieme

autore,

attori e regista» (Id., p. 151).

È questo bel gioco-delle-parti che sta a fondamento del teatro: infatti l'armonia dell’insieme può creare, a sua volta, la «tradizione»,

proiettandosi nel futuro (anche «noi dobbiamo essere un insieme», ha detto Eduardo ai suoi allievi ad apertura del corso). Ma la «tradizione» è «la vita che continua» solo se è recepita come tale, altrimenti significa immobilità, «morte». Ed anche in questa prospettiva una delle costanti ‘‘tematiche’’ del teatro eduardiano — il rapporto VecchiGiovani, Padri-Figli — acquista uno spessore meta-teatrale. I «figli», i «giovani», «figli d’arte» compresi, hanno il diritto di ‘“dare un calcio” all'esperienza dei «padri», dei «vecchi», solo dopo aver approfondito lo studio di quell’esperienza, magari per fare cosa diversa, ma mai pretendendo di partire da zero. Da parte loro, i «padri», i «vecchi», se pretendono di restare ancorati al passato, e che i «figli», i

«giovani» facciano lo stesso, non potranno mai conquistare, alla fine del loro «ciclo», quell’«immortalità» terrena che è la speranza di sopravvivere nel futuro: «una immortalità umana, quindi limitata, ma all'uomo è stato concesso il dono di sognare, che non è poi piccola cosa...»

(Pensieri,

p. 182).

‘4? Cfr. EpuaRDO, dalla Conferenza inaugurale dello Studio Internazionale dello Spettacolo, Montalcino, luglio 1983, cit.

474

Acquista così un nuovo significato, sul piano biografico-artistico, il rapporto dello stesso Eduardo con il padre naturale e d’arte Scarpetta. In un'intervista per «Oggi» del maggio 1980, alla domanda di Luigi Compagnone: «Il tuo era un padre severo o un padre cattivo?», egli rispondeva apoditticamente: «Era un grande attore» (Pensieri, p. 6). Come l’acquista il suo rapporto successivo, ma altrettanto importante perché iniziatico ad una diversa «cultura», col maestro e ‘‘padre’” adottivo Luigi Pirandello: Tutti noi scrittori e anche tutti noi uomini dobbiamo molto al genio di Pirandello. Quando Arthur Miller dice che se non ci fosse stato lui, egli scriverebbe diversamente, dice cosa giusta, ma quando si volesse accusare Miller di Pirandellismo, ecco, sarebbe inaccettabile (A colloquio con gli studenti, 1976, Pensieri, pp. 172-173).

E forse, in questa stessa prospettiva, assume una luce diversa anche il «difficile» rapporto fra Eduardo e Peppino: rapporto impostato inizialmente come fra «padre» e «figlio» (ricordiamo che Peppino nel Natale era Nennillo, e che Eduardo molto presto, a diciannove anni, ha incominciato

a interpretare «ruoli di vecchio»).

Non a caso

la Quarantotti ripropone la storia dei due fratelli presentandola con l’«architettura» d’una delle commedie del marito (o è viceversa?). Co-

me un «dramma dell’incomprensione». Un dramma «famigliare» ma tanto più grave perché «di mezzo non c’era una donna o l’interesse, ma il teatro» (Pensieri, p. 35): da una parte, il «gelo» delle «abitudini

teatrali» del fratello maggiore (quel «gelo» che Eduardo stesso si riconosce)8, dall’altra l'esuberanza del più giovane, «di carattere allegro, ansioso di vivere fino in fondo la sua stagione di gloria» (Id., p. 30). Un dramma, dunque, consumato a teatro e per il teatro: finanche alla ‘‘scena madre” della lacerazione, che avviene sintomaticamente 48 Così Eduardo, in uno dei suoi ultimi discorsi in pubblico, alla Festa del Teatro di Taormina, nel settembre 1984: «Fare teatro sul serio significa sacrificare una vita. Sono cresciuti i figli e io non me ne sono accorto... Meno male che mio figlio è cresciuto bene [...]. Luca è venuto dalla gavetta, sotto il gelo delle mie abitudini teatrali... quando sono in palcoscenico a provare... quando ero in palcoscenico a recitare.... È stata tutta una vita di sacrifici. E di gelo: così si fa il teatro»; cfr. R. Parazzi, Eduardo, un gran cuore in una grande festa, «Corriere della Sera», 17 settembre 1984; cit. anche in Pensieri, p. 30.

415

in teatro, durante le prove... È la scena della catastrofe, d’una lacera-

zione nel seno della «famiglia» I De Filippo — una magnifica famiglia, una perfetta «compagnia» — che non potrà più risarcirsi se non in extremis*?: forse perché dei due fratelli il più vecchio non volle mai rinunciare al ruolo di «padre» e il più giovane volle sottrarsi al ruolo di «figliov?0. E non sarebbe difficile verificare come questo «dramma dell’incomprensione», nella prospettiva di vita e d’arte che abbiamo assunta, abbia influito sulle tematiche drammaturgiche dell’ Autore proprio negli anni che seguono la «rottura» con Peppino: nelle varianti del rapporto Padre-Figlio: Fratello-Fratello e Fratello-Sorella?!. 49 I due fratelli faranno pace solo sul letto di morte del più giovane. «Adesso mi manca», dirà Eduardo nel 1980, ricordando Peppino dopo la sua scomparsa, «come compagno, come amico, non come fratello» (dalla Conferenza stampa di Eduardo per annunciare la nuova stagione al teatro Manzoni di Milano, cit. in Pensieri, pp. 32-33).

50 Commentando il discorso cit. del marito (Taormina/Arte ’84), così Isabella Quarantotti: «Forse, oltre che a Luca, idealmente si rivolgeva a quel giovanotto dal naso aguzzo e dal genio comico che insieme a lui aveva creato una compagnia perfetta, ma non aveva saputo capire (come invece, anni dopo, capì Luca) che sul piano artistico Eduardo voleva l’abnegazione assoluta» (in Pensieri, p. 31).

51 Se in Napoli milionaria! il ruolo del Fratello del Protagonista scompare, nella topica ‘‘famiglia” eduardiana, questo ricompare, in un rapporto esclusivo fra i due, in Le voci di dentro. Dove, anzi, il minore prepara ai danni del maggiore un ‘“‘tradimento”, cercando di svendere di nascosto il ‘‘patrimonio di tradizioni” che avevano in comune: e proprio la scoperta di ‘‘quel’’ tradimento fa esplodere tutta l'amarezza di Alberto! Ricordiamo che Eduardo incolpava, della diserzione di Peppino, i «mercanti» che lo «assediavano per la loro cassetta». Quindi il ‘“dramma dell’incomprensione’ rispunta, nella variante Padre-Figlio, con Mia famiglia: c'è un ‘“‘padre’’ che non accetta l'emancipazione del ‘‘figlio”’, né gli parla, e un ‘‘figlio’’ che matura segretamente la propria ‘ribellione’. Anche qui il padre accusa il figlio d’essersi fatto abbagliare dal miraggio del guadagno facile, mentre il figlio ribatte: «Io non volevo arricchirmi illecitamente. Ho scelto una via come un’altra. Volevo sganciarmi da te [...]: ognuno è padrone della sua vita» (II, p. 48). Ma l’interesse dell’ Autore per

la “famiglia” come luogo di conflitti non meno che di affetti, particolarmente adatto a rivelare gli interessi egoistici — travestiti da sentimenti altruistici —, è confermato, con note anche troppo aspre e polemiche, dalla commedia subito successiva: Bene mio e core mio. Dove il titolo, frase idiomatica con cui si commentano ironicamente

a Napoli i torti insospettati ricevuti dai parenti stretti, e la situazione principale fanno riferimento ai ‘difficili’ rapporti tra Fratello e Sorella... Ma il raffronto potrebbe continuare: perché indubbiamente per Eduardo (come del resto per Peppino) quella «rottura» d’affetti e d’arte ha determinato «un dolore tremendo che lo ha accompagnato per tutta la vita» (Cfr. I. QuARANTOTTI DE FILIPPO, in Pensieri, p. 45).

476

D'altronde ci interessa sottolineare non tanto l’aspetto biograficoesistenziale di questa ‘‘storia’’, quanto appunto il suo iscriversi in un percorso esistenziale-artistico: perché quest'ottica, sul piano biografico come su quello artistico, risulta confacente al Personaggio... Si scopre così come le tematiche del teatro dell'Autore risultino quasi sempre congruenti con la sua Visione della Vita e del Teatro. Tuttavia, ripetiamolo, è il teatro il punto di vista privilegiato da cui Eduardo guarda alla società e al mondo. Per lui il teatro è vita, non in senso mimetico o naturalistico e neppure soltanto metaforico, ma in quel senso speciale, comune forse soltanto ai grandi uomini di teatro completi: che attraverso il teatro hanno vissuto. Quasi alla fine della sua ‘‘commedia’’ esistenziale dirà: «solo il teatro è quello che mi ha dato gioia, sempre. È quello che mi ha dato contatto col pubblico, possibilità di parlare, possibilità di cambiare, di evadere... Insomma, per me è passata la vita in un attimo. Meno male» (Lezioni, p. 138); e il suo paradosso più significativo — «La mia vera casa è il palcoscenico, là so esattamente come muovermi, cosa fare: nella vita sono uno sfollato» (Pensieri, p. 148) — richiama quello stesso di Campese nell'Arte della commedia: [...] quando cammino per le strade e mi capita di battere due o tre volte il piede in terra perché mi si è attaccato qualcosa sotto la scarpa, mi sorprende sempre il fatto che quei colpi battuti non producono lo stesso rumore di quanto batto il piede sulle tavole di palcoscenico; se tocco con la mano il muro di un palazzo [...], lo faccio sempre con estrema delicatezza e con la sensazione di avvertire sotto le dita la superficie della carta o della tela dipinta (I, p. 217).

Ma proprio questa sua esistenza da artista di teatro, un po’ da nomade e un po’ da Don Chisciotte anche quando gli arride la Fortuna — su un palcoscenico sempre mobile, «sempe apierto» sul Fuori, sull’«umanità», sulla «natura», sulla «strada» (Pensieri, p. 142) —, gli

ha consentito di cogliere gli aspetti più pregnanti della vita come fenomeno mobile e complessivo. Da questo punto di vista straniato o sintetico, i principî che

informano la sua Visione e Vita teatrale diventano quelli che regolano, o dovrebbero regolare, la vita anche fuori del Teatro. Così la comunicazione e la chiarezza di linguaggi, indispensabili per il suo teatro, diventano mezzi fondamentali anche per il ripristino della ‘‘nor477

malità”” dei rapporti intersoggettivi, inter-umani. Il rapporto dialogico continuo fra Tradizione e Innovazione, basilare perché il teatro non muoia o non balbetti soltanto («Naturalmente,

se si resta ancorati

al passato, la vita che continua diventa vita che si ferma — morte —

e cioè

ma, se ci serviamo della tradizione come d’un trampolino,

è ovvio che salteremo assai più in alto che se partissimo da terra!»), si concretizza nel rapporto Vecchi-Giovani quale circuito necessario per garantire l’immortalità ai primi e la maturazione ai secondi. Infine la necessità — nel testo drammaturgico — che un personaggio, sia pure il protagonista, non schiacci gli altri, o — nel testo spettacolare — che una compagnia teatrale proceda di concerto, armonicamente, è vista anche come principio di solidarietà esistenziale, per cui nessuno, dalla famiglia alla società, deve procedere mai da solo,

ma sentire il proprio destino legato sempre (il mito della ‘‘catena’’) a quello degli altri... Non si può scambiare questa proiezione del Teatro sulla Vita (o viceversa?) con una forma di estetismo né, all’opposto, con una identificazione della ‘‘verità’’ della vita con il ‘‘verismo”’ teatrale. Eduardo è consapevole che il teatro è «finzione»: una finzione artistica, utile ad espungere quella, disutile e dannosa, che si può riscontrare nella vita (ciò diversamente da Pirandello). «Il teatro deve essere non verità ma verosimile; perché la verità nuda e cruda è noiosa» (Lezioni,

p. 122). E già nel ’36: «aspetto [...] il fatidico ‘primo... secondo’, che manda su il sipario e scopre per il pubblico la realtà costruita, e per l’attore la finzione reale» (Pensieri, p. 121). Quanto all’‘‘arte

della recitazione’”’: «le vere lacrime, negli occhi di un attore che stia interpretando una scena drammatica, disincantano il pubblico dalla finzione scenica» (Id., p. 148); «la recitazione naturale è la cosa più difficile e costruita che ci sia» (Id., p. 152); «l’attore deve misurarsi,

controllarsi, costringersi ininterrottamente. Mai commuoversi 0 immedesimarsi... se il personaggio gli è estraneo, meglio ancora» (Id., p. 30). Quanto all’‘‘arte della commedia”’, il Maestro non finisce mai di ripetere ai suoi allievi: «Questa è una favola, è un paradosso, e come

tale bisogna portarlo» (Lezioni, p. 130), o più in generale: «E poi è teatro, signori! Tutto è giustificato quando è coerente con un’idea» (Id., p. 152). Per concludere, ancora, con le parole di Oreste Campese: «A teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione» ll Sepe b,09). 478

Ciò non significa, d'altra parte, che l’azione teatrale sia fine a se stessa o pura evasione, ricordiamo: «E alla fine, mentre ringrazio

degli applausi [:/ pubblico], la mia gioia è sapere che uscendo dalla platea ognuno si porterà via con sé qualche cosa che gli sarà utile nella vita d’ogni giorno» (Pensieri, p. 142).

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VI PUNTO DI ARRIVO ... PUNTOTDI PARTENZA

1. IL

ROMANZO TEATRALE EDUARDIANO

Eduardo scrive e rappresenta le sue commedie l’una dopo l’altra come se si trattasse di un rozzanzo, in cui egli in quanto autore-attoreregista si riserva una parte importante: si proietti o meno nel personaggio-protagonista. Queste commedie spesso si assomigliano ma

non sono mai gratuite o ripetitorie: si è contenti di ritrovare nell’ultima elementi che comparivano nelle precedenti (temi, problemi, espedienti...) ed anche elementi nuovi che ci rivelano a che punto egli sia giunto nella sua vita e nel suo pensiero su determinati argomenti. Eppure tutto il romanzo viaggia sul filo di un’ambiguità eminentemente teatrale: è un’opera con tanti cassetti segreti, piena di doppi

fondi e di ‘‘sorprese’’: facilissima da capire anche per un bambino, ma subito moltiplicabile in una estrema varietà di suggestioni e di significati. Perché in quella folla di personaggi, buffoneschi e melodrammatici, lieti e minacciosi, là in un angolino della foto di gruppo... ci siamo anche noi! Nel romanzo teatrale eduardiano lo spettatore agisce, modernamente, quale ‘‘concorrente del personaggio’’: concorrente ma interlocutore indispensabile. Unendo il particolare all’universale, restringendo la proporzione ma innalzando il significato della Storia, nelle sue storie l'Autore ha abbassato l’altezza del mondo, in modo che tutti

possiamo toccarlo. Naturalmente e spontaneamente dalla parte dell'Uomo, che nonostante tutto crede o spera nell’Armonia delle forze della Ragione, ci ha dato antieroi che ostinatamente restano fedeli a se stessi o maturano soprattutto quando nel cielo rombano i motori del Male. Di qui anche la coerenza della sua scelta ‘‘comica’’, con tutte le sfumature possibili di intelligente amarezza: per la sua convinzione, che lo sorregge anche nei momenti più difficili, che l’apporto del teatro alla conoscenza o alla coscienza è tanto più efficace quanto più il pubblico ride, di quel «riso» che passa per il «cervello». «Così le onde si agitano incessantemente — scrive Bergson — alla 483

superficie del mare, mentre negli strati inferiori v’è pace profonda. [...] Talvolta il flutto fuggente abbandona un poco di spuma sulla rena della spiaggia [...] di un’acqua più salata e più amara di quella dell’onda che l’ha gettata sulla rena. Il riso nasce come questa spuma [...J: è anch’esso una spuma a base di sale; e come la spuma scintilla.

Il filosofo», ma più semplicemente lo spettatore intelligente, per Eduardo, «trova talvolta una gran dose di amarezza in così esigua sostanza». Eduardo ha quindi esaltato con la ‘‘sorpresa’’ delle parole e dei gesti, più ancora che delle situazioni, un modo di rappresentare apparentemente tradizionale, attento a immortalare la sospensione comica (ma anche drammatica) del particolare senza mai dimenticare il contesto generale. Il suo modo di narrare ‘‘storie’’ ha molto dell’atto del ricordare, e non solo là dove il mondo come rappresentazione sconfina nel sogno ad occhi aperti: storie di gente che ha vissuto, amato, sofferto, riso, deriso ed è stata derisa; ha provato gli inverni della guerra e le primavere della pace, trovato sia negli uni che nelle altre «giorni pari» e «giorni dispari». Perché la ‘‘gente’’ eduardiana, che ha guardato il mondo con l’aiuto o nel disorientamento di sempre più perfezionate ‘‘scoperte’’ (ricordate il Sindaco? «la Radio, la Televisione, l’atomica, lo Sputnik...»), non ha mai perso di vista il suo

punto di riferimento essenziale, una Città, una famiglia... Nato esattamente agli inizi del secolo (1900), l’Autore testimonia con la sua opera lo svolgimento della nostra epoca (se si esclude l’ultimo, ancora indecifrabile, ventennio); perché è difficile immagi-

nare un’opera più completa, più ricca e più sensibile di questa, per chi vorrà da oggi in poi, in futuro, osservare il nostro Novecento. Ma anziché mettere la parola ‘‘fine’’, costituire il «punto d’arrivo», il suo romanzo teatrale mette la parola ‘‘inizio’’, o potrebbe almeno rappresentare un «punto di partenza» per comprendere l’oggi e il domani: appunto perché lascia che la memoria personale e collettiva riaffiori, con i suoi complessi di colpa che non vengono rimossi, portando allo scoperto le motivazioni e le conseguenze dei fatti accaduti. «Non so quando le mie commedie moriranno e non mi interessa», afferma Eduardo, e su questo punto mente, ma dice la verità

quando ribadisce: «l'importante è che siano nate vive» (Pensieri, p. &

1.Cfro.H,.BERGSON:.

484

Il risoscitmppa12/128.

142); perché «il teatro muore quando si limita a raccontare fatti accaduti; solo le conseguenze dei fatti accaduti possono raccontare un teatro vivo» (Persieri, p. 151). Solo in tali «conseguenze» è per lui, infatti, ma anche per noi, il nocciolo di quella «verità» teatrabile «che abbia dentro pure qualcosa di profetico» (L’arte della commedia, I, cit.). Nel senso di futuro che l'Autore attribuisce alla genesi del «vero teatro» consiste dunque la vitalità di un’opera: quella capacità di filtrare e anticipare la ‘‘memoria’’ di un’epoca che dev'essere qualcosa che continua, attraverso il ‘‘vivo”’ dialogo col Pubblico. Almeno con il pubblico: se non si riesce — dati i rapporti difficili fra gli uomini — a far dialogare fra loro i personaggi-uomo o prototipo dell’uomo. Perciò questo Autore, che può apparire eccentrico o perfino estra-

neo rispetto al cosmo delle avanguardie (storiche e neo-), affronta di continuo il problema della ‘‘comunicazione difficile’’, sia nei suoi testi più ‘‘famigliaristici’’ sia in quelli dove vibra la sua ‘‘corda civile’. E senza compiere vistose rivoluzioni tecniche, o piuttosto travestendole di semplicità, manifesta questo «problema centrale» con un insieme di soluzioni, espedienti, ‘‘trovate’’ drammaturgiche e spettacolari che lo segnalano costantemente. Ma i segnali — del perenne conflitto semantico fra Mondo dell’Io e Mondo degli Altri, d’una lacerazione epocale che interrompe drammaticamente nei vari testi l’auspicata, forse utopistica armonia — appartengono, modernamente, al campo del Linguaggio. Si è visto infatti come lo scontro o la mancanza di incontro fra Io e Mondo si concretizzi verbalmente ma anche scenicamente in una distonia o divaricazione di linguaggi: attraverso i diversi tentativi eduardiani, in gran parte riusciti, di rendere teatrabile la crisi del dialogo. Si ha talvolta l'invenzione di un ‘‘linguaggio privato’”’ o alternativo da parte del Protagonista (Sik-Sik, l'artefice magico); ‘‘antilinguag-

gio” che si esprime anche in formule verbali iterate caparbiamente dal Soggetto ( e con effetti comici dirompenti) finché queste non vengano recepite e accolte dagli Altri nel loro senso ‘mitologico’. Accoglimento impossibile nel caso del ‘‘pazzo’”’ Michele Murri (Ditegli sempre di sì): solo parziale per il ‘‘Natale’’ di Luca Cupiello: ma completo per la frase-formula («’'A guerra non è fernuta») e relativa visio-

ne del mondo di Gennaro Jovine. Comunque, anche laddove il linguaggio del protagonista non venga compreso dagli altri personaggi, il suo senso arriva allo spettatore: dal lucido ma allucinato delirio 485

di Michele all’incubo rivelatore di Alberto in Le voci di dentro. Talvolta la distonia dei linguaggi si manifesta teatralmente come tendenza al monologo di un Protagonista:

per questa via si aprono

parentesi ‘‘essenziali’’, ma canali privilegiati di comunicazione con il Pubblico, nel dialogare ‘‘apparente’’ con gli Altri personaggi. Nel Natale lo scontro fra il protagonista e il gruppo antagonistico è già di fatto apparente, perché non si regge su dialoghi né su discussioni comunicanti: se il mondo degli altri parla un ‘linguaggio speciale’ che lo esclude, Luca stesso si autoesclude chiudendosi nel proprio “mondo privato”: il leit-mz0tiv del sognatore è una provocazione fissa, immutabile. Ma il fenomeno monologico si realizza soprattutto a partire dalle commedie del dopoguerra, attraverso la Cantata dei giorni dispari. In Napoli milionaria!, dove il problema della comunicazione

difficile si manifesta appunto nella tendenza al monologo del protagonista, la ‘formula magica” riesce tuttavia a sciogliersi in una soluzione di ‘‘dialogo’’ inter-soggettivo alla fine...?. D'altronde l’incepparsi del meccanismo comunicativo — che per l'Autore, ricordiamo, è un guasto da rilevare, da riparare —

risalta

in quelle opere che testimoniano o presentono traumi o crisi di trasformazione nella società, in momenti o fasi cruciali della sua storia

e del suo sviluppo. Crisi che investono direttamente i rapporti fra l’Individuo e gli Altri: siano questi d/tri i famigliari, i vicini, gli amici o i vari esponenti, a diverso titolo, del gran consorzio umano. Ripensiamo a Questi fantasmi! (1946), a Le voci di dentro (1948), a Mia famiglia (1954). Si passa dal dialogo-monologo di Pasquale Lojacono con il fantasma-uomo («con un altro uomo, cu’ n’ommo comm’

a me, nun avarrfa parlato») al linguaggio dello ‘‘sparavierze’’ Zi’ Ni-

? Facciamo ancora riferimento alla definizione szondiana («formula magica») della frase pronunciata come /eit-motiv dalla Figlia di Indra in Il Sogno di Strindberg («Quanta pena mi fanno gli uomini!»): «Contenutisticamente queste parole esprimono compassione, ma dal punto di vista formale distanza e distacco, e possono quindi diventare una formula magica grazie alla quale la figlia del dio può sollevarsi al di sopra dell'umanità» (cfr. P. SzonpI, op. cit., p. 41). In altro contesto, il /eit-motiv di Gennaro Jovine («A guerra non è fernuta») ha, come abbiamo visto, la funzione di attualizzare un mondo (quello del paese ancora lacerato dalla guerra) che durante l’azione si cerca di esorcizzare confinandolo nel passato, e al tempo stesso stabilisce una differenza fra il “redivivo” protagonista e gli altri, sui quali egli mostra una superiorità di ‘‘coscienza’’.

486

cola, alternativo rispetto alla prosa parlata dagli infidi mortali, per arrivare alla scelta del ‘‘silenzio”’, drastica anche se ancora strumenta-

le, di Alberto Stigliano. Quindi l'espediente tecnico d’una sfasatura di linguaggi — che consente al ‘‘dramma’’ di conservare un ‘‘dialogo apparente” sconfina nelle opere più critiche dell'Autore — non a caso più insidiate dal pirandellismo — nella soluzione radicale del silenzio: un silenzio né crepuscolare o intimista, né cechoviano, ma concretamente prodot-

to dalla rinuncia ad ogni compromesso o ipocrisia della ‘‘parola parlata”. Il passo dal ‘‘monologo”’ al ‘‘mutismo’’ del resto è breve: ma rende ancora più evidente il rifiuto di quei rapporti interumani che, espressi nel dialogo convenzionale, sono divenuti ‘‘finzione’’. Non la finzione propria dell’arte e della poesia, quindi anche della macchina teatrale, che per Eduardo

si risolve in un atto conoscitivo, ma

la finzione delle parole usate dal contesto sociale, da quanti se ne servono per nascondere o alterare la realtà. Mediante la soluzione del silenzio, il linguaggio privato o la tendenza al monologo del Protagonista portano l’anti-linguaggio al suo grado zero.

Eppure l’elaborazione di un linguaggio individuale o la negazione del linguaggio standard conservano nel teatro dell’ Autore anche un senso che supera quello del puro isolamento dal Contesto: si tende o si tiene a passare dalla trattazione/rappresentazione dei Temi dell’Io

a quella, implicitamente ricostruttiva sul piano non solo famigliare ma anche sociale, dei Temi del Tu. I quali si formano (ripetiamolo) a partire dalla relazione che si stabilisce, nel discorso, fra due interlocutori. Dal punto di vista ‘‘tematico’’ la rinuncia a un dialogo ‘‘essenziale” non appare quasi mai definitiva: a significare la costante o ritornante tensione eduardiana a superare la divaricazione — che pure riconosce ed esprime — fra Individuo e Mondo. Si è visto come il mutismo volontario di Alberto Stigliano (Mia farziglia) rappresenti paradossalmente l’incidente che costringe gli altri (e infine lui stesso) a riparare e a rimettere in moto la macchina della comunicazione... D'altronde la contrapposizione fra Io e Mondo — che costituisce anche l’ossatura ‘‘formale’’ dei drammi di Eduardo — assume aspetti vari: di volta in volta è Sik, in Questi fantasmi!, ma anche nel Contratto ‘presente’, in Natale in

l’antitesi fra nella Grande (dove l’illuso casa Cupiello,

‘‘illusione’’ e ‘‘realtà”’, in Sikmagia, in De Pretore Vincenzo, è il Mondo!): fra ‘‘passato’’ e in Mia famiglia, nel Monumen-

487

to, ma anche fra ‘‘presente’’ e ‘‘futuro”’, in Napoli milionanta!, in Sabato, domenica e lunedi e nel Sindaco nel Rione Sanità: fra ‘‘soggettività” autentica e falsa ‘‘oggettività’’, in Le voci di dentro e in Gli esami non finiscono mai (dove il soggettivismo non è relativismo, bensì capacità di vedere oltre le apparenze). Nel rilievo di questa situazione drammatica esistenziale, che talvolta sbocca sulla scena in uno scontro al limite della rottura o della ‘‘comunicazione impossibile’, Eduardo sembra allacciarsi o procedere all'unisono con il teatro colto europeo: da Pirandello a Ionesco a Beckett. Gli manca l’esasperazione intellettuale, la portata metafisica del problema — rispetto a quegli altri — per giungere a un conflitto drammatico irreparabile o, peggio, alla impossibilità del conflitto drammatico. Ma è una mancanza che si traduce in fattore di grande originalità: le sue opere mettono in scena la vita quotidiana, quella dei rapporti inter ed infra-famigliari rivelatori di più vaste strutture della socialità contemporanea; mostrano le ‘‘tragedie’’ che si consumano nell'esistenza anonima di uomini normali, determinate dall’incomprensione, dalle frustrazioni, dalla volontà di illudersi, ma che non giungo-

no che raramente a uccidere lo spirito della ‘‘commedia’’, perché tendono a risolversi nella consapevolezza. L'impegno di Eduardo orzo di teatro consiste proprio nella continua ricerca di questa consapevolezza, cui concorrono insieme «ricognizione sociale» ed «invenzione linguistica»?: in quel ritmo alternato di aggiustamenti e di contraccolpi che rappresenta l'apporto del Teatro alla conoscenza, tanto più efficace quanto anche divertente, della Realtà contemporanea. Ricerca progressiva, anche da parte del personaggio centrale d’ogni scontro, il Protagonista: la quale, se conosce battute d’arresto, non finisce mai. Nel ciclo del ‘‘famigliarismo”’ anni Cinquanta: se in Mia farziglia l'opposizione semantica binaria fra Vecchi e Giovani sembra ambiguamente dar ragione ai primi (anche se il protagonista riconosce alla fine il suo difetto di comunicazione),

in Sabato, domenica

e lunedi

è un Giovane (la figlia Giulianella) ad insegnare ai Vecchi (al padre specialmente) ad usare parole nuove, capaci di andare al cuore del problema.

} Cfr. ancora M. BaraTTO Settecento in Italia cit., p. 25.

488

riguardo a Goldoni, in La letturatura teatrale del

Ma prendiamo anche il più significativo dei drammi eduardiani in cui vibra la ‘‘corda civile’’: I/ sindaco del Rione Sanità. Il padrepadrino protagonista giungerà al punto di coprire col silenzio il proprio ferimento mortale, per la sfiducia atavica che egli nutre nella giustizia pubblica (alla quale ha sostituito tribalmente la propria giustizia privata di capo): ma alla fine il medico Della Ragione rigetterà questo sistema fondato comunque sull’omertà, decidendo, costi quel che costi, di parlare. L’eroe eduardiano è dunque un ‘‘eroe del nostro tempo”, ‘‘non tragico”, ‘‘bastonato”’, ma cosciente, che raramente

si arrende, ma

impara: o, se non impara lui, imparano gli altri. Tutto ciò senza il ricorso a situazioni-limite. La banalità diventa davvero nel romanzo teatrale di Eduardo casualità e universalità al tempo stesso. Di qui l’importanza, lo spessore polisemico dell’amzbiguità eduardiana, come impossibilità di schematizzarne in termini manichei i contrasti drammatici: si può sempre trovare una chiave interpretativa diversa o più

penetrante — rispetto a quella a portata di mano, persino a quella fornita dall’Autore' — per le sue tragicommedie; inseguendole nei 4 Eduardo, in interviste promozionali o a colloquio con gli studenti, non manca di riconsiderare talvolta il senso dei suoi lavori, dandone interpretazioni storicosociologiche o esistenziali. Per esempio, a proposito del «ciclo della storia vista attraverso la vita di un artista»: «Nel mio caso, durante la dittatura fascista c’era il desiderio della libertà; con la ‘liberazione’ venne la giusta aspettativa di una società migliore e di un’umanità diversa; poi sono venute le prime delusioni: poco è cambiato, i figli illegittimi legalmente sono ancora figli di N.N. (Filumzena Marturano; De Pretore Vincenzo); il matrimonio è ancora una catena che solo la morte di uno dei coniugi può spezzare (Questi fantasmi!, L’arte della commedia); la vita sociale è sempre basata sulla sfiducia reciproca (Le voci di dentro); la famiglia è diventata e resta un'’istituzione basata sull’ipocrisia e sull’interesse (Bene nzi0 e core mio, Mia famiglia, Il contratto, Gli esami non finiscono mai), la giustizia è sempre più incoerente e ingiusta (Sindaco del Rione Sanità); le parole come patria, eroismo, guerra, svuotate del significato vero e umano diventano anacronismi retorici e senza alcun senso per chi deve subire il potere (Il monumento) ecc.» (A colloquio con gli studenti, Roma, Teatro Eliseo,

1976, in Pensieri, pp. 173-174). Tuttavia al di là dell’evidenziazione di alcuni motivi polemici presenti e ritornanti nel ‘‘romanzo teatrale’ eduardiano, si tratta pur sempre di interpretazioni ‘‘parziali’’ che non esauriscono, come abbiamo più volte osservato, la polisemia delle singole opere. Del resto l'Autore afferma che: «Chissà, forse un giorno la gente si scervellerà per capire, dalle mie commedie, qual era la mia concezione della vita e non s’accorgerà che neanche io ho capito niente, che nessuno capirà mai niente e che forse capire, in fondo, è inutile» (Pensieri, p. 147).

489

loro itinerari linguistici dalla farsa popolare alla commedia dialettale al dramma borghese ‘‘anteguerra’’, al neorealismo e surrealismo, sem-

pre in bilico entrambi fra vero e fantastico, del ‘‘dopoguerra’’, fino al teatro degli anni Settanta, al visionico Monumento, all’epico G% esami non finiscono mai.

490

2.+GLI ESAMI NON FINISCONO MAI DTDEIREAFSENTEIPAIPROTAGONISTICA

Sebbene proprio in quest’ultima opera!, che avrebbe dovuto essere la summa, una specie di testamento morale e teatrale, la feconda

‘‘ambiguità’’ dell'Autore si pieghi dalla parte della tesi: la tesi del Protagonista. Qui la We/tanschauung eduardiana sembra improvvisamente consuonare con quel «mondo di vecchi» che è «la metafora allibita, in chiave drammatica ma prevalentemente grottesca, del teatro di questi nostri anni. Il teatro di oggi — quello in cui esiste ancora

la ‘‘parola’



è un

teatro

di vecchi»

(De Monticelli).

Non a caso Gli esami seguono da vicino un testo ‘‘melanconico’’ come I/ monumento?, in cui si esprime «il terrore di esistere»: nella ! Gli esami non finiscono mai, un Prologo e tre atti, è stato rappresentato dalla Compagnia «Il Teatro di Eduardo» (scene e costumi di Mino Maccari, musiche a cura di Roberto De Simone) in ‘‘anteprima’’ il 19 dicembre e in “prima” il 21 dicembre 1973, al Teatro La Pergola di Firenze; ripreso l’anno dopo a Roma, al Teatro Eliseo (11 gennaio 1974), e in TV (da studio) il 16 gennaio 1976. L’Autore

aveva già concepito il ‘‘soggetto’’ nel 1953 (prima dunque di Mia famiglia) e l’aveva narrato a Raul Radice: «La commedia in diciotto quadri narra la vita di un ragazzo dal momento in cui festeggia il conseguimento della propria laurea, fino alla morte che lo coglierà molti anni dopo. Tutta la sua vicenda è un esame: prima da parte dei futuri suoceri, poi della moglie, degli amici di casa, dei figli, dei conoscenti (c’è anche ‘‘un esame del cornuto”), infine del medico e del prete. È un esame finale? No, perché il sacerdote rammenta al morituro quale altro rendiconto lo aspetta nell’al di là» (cfr. R. RADICE, «Europeo», Milano, 22 gennaio 1953). E a Giorgio Prosperi ha spiegato perché ha atteso fino al ’73 a mettere in scena Gli esami: «Il soggetto era pericoloso. Vi si rappresentava una famiglia senza tanti complimenti, in modo negativo, e allora la morale era ancora chiusa, i gusti non erano evoluti come adesso. [...] Rifare sempre gli esami agli altri è un vizio dell’uomo. Vedi, un autore spera sempre che una sua commedia serva a qualche cosa [...]}» (cfr. G. ProspERI, «Il Tempo», Roma, 17 febbraio 1974). Per il testo citiamo dal vol. III della Cantata dei

giorni dispari. 2 Il monumento, tre atti, 1970: ‘‘anteprima”’ per i giovani, il 24 novembre 1970, al Teatro La Pergola di Firenze; ‘‘prima”’, nello stesso teatro, il 26 novembre 1970.

491

“memoria” del “vecchio” protagonista si consuma il contrasto fra un passato perduto e un terribile presente. Già qui, come nell'ultimo dramma, l'Autore vuole rappresentare «una vita mancata»: l’idea fondamentale è l’urto col mondo di oggi (presente) di un uomo che ha vissuto isolato (nel passato) per più di vent'anni. Ma «la contrapposizione epica di soggetto e oggetto» che si presenta, nel teatro di Brecht, nella modalità «scientifico-pedagogica» (Szondi), si realizza qui nell’antiStoria di un Uomo che diventa nella sua specularità con l’Oggetto, il monumento,

materia

di introversione

visionaria:

Ascanio Io da questo buco non esco. SABINA Ma di notte, chi ti vede? Ascanio

(duro, scattante) Io, mi vedo

(I, p. 372).

La composizione circolare dell’opera conferma, di per sé, il senso di astrazione da ogni dettaglio o sviluppo storico: inizia all’alba di un certo giorno, con «un uomo in carne e ossa» seduto sulla savonarola del «monumento», finisce all'alba di tre giorni dopo, con lo stesso uomo seduto allo stesso posto, ma ricoperto da un lenzuolo bianco. L’ultimo Eduardo ci presenta nel ‘morto vivente’ Ascanio Penna, ex maresciallo ausiliario, l'estremo paradosso, l’ossimoro più depresso del suo teatro fantastico. Questo vecchio che vive soltanto della e

nella memoria del proprio passato, quando la violenza del mondo impedirà la sua ‘‘fuga immobile’’, smantellando il suo tumulo-tana, diventa un ‘‘vivo morto”, vivendo soltanto, ma davvero, nella memoria

di chi l’ha amato: SABINA (... alza il viso, con espressione sognante: sta rincorrendo ora altri ricordi) Soltanto con me parlava... certe cose soltanto a me le diceva: si sfogava. Mi diceva: «Per quello che ho dato alla patria, in ventidue anni di servizio militare, un monumento lo dovrebbero fare a me!». (Si volta verso il monumento) E te l’hanno fatto. [...] Hai capito, Ascanio? Si toglie il lenzuolo, proprio come lo tolgono quando c'è lo scoprimento di un monumento vero [...] (III, p. 418).

» Mentre la prima versione del testo, edita nella «Collezione di teatro» Einaudi 1971, termina con queste parole di Sabina —

monumento»

492

«E stato un eroe, se lo meritava un

(p. 11) —, la seconda, nell’edizione riveduta del terzo volume della

Ma se la ripetizione memoriale di un passato illusorio impedisce di vivere, al punto che la sua profanazione, con un break-out traumatico, non fa altro che letteralizzare la morte: soprattutto nel silenzio finale, e fine a se stesso, di Guglielmo Speranza ci pare di riconoscere quella riduzione dell’anti-linguaggio al suo grado zero, che denota l’irrigidimento mentale dei «grandi vecchi» di Beckett. Pensiamo anche a certe coppie senili di Ionesco, che hanno come unico interlocutore un «coro di sedie»: l’interlocutore di Guglielmo morente non è forse il nastro del registratore, che soverchia il bla-bla del presente con la ripetizione del bla-bla del passato?4 Anche la Pantomima finale del ‘‘vecchio” eduardiano è insieme distruttiva e autodistruttiva. Eppure confluiscono in quest’opera, quasi in un estremo riepilogo, temi e costanti di fondo del romanzo

teatrale dell’ Autore; ma

l’autore (esplicitamente citato nel Prologo) ci ripropone il contrasto fra il Protagonista e gli Altri personaggi nei modi assoluti e definitivi di un’Allegoria della condizione umana: L’eroe di questa commedia non è un “tipo”, bensf un prototipo di noi tutti, un eroe la cui esistenza è caratterizzata dagli aspetti positivi e negativi della nostra stessa esistenza, e perciò sarebbe impossibi-

Cantata dei giorni dispari (dove Il monumento compare per la prima volta) ricalca alcune frasi dette dall’Autore stesso (cfr. S. SCORNAVACCA, La storia della ‘‘Ggente” attraverso l’opera di Eduardo, Tesi di Laurea presso l’Università degli Studi di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1969-70, in Appendice: A colloquio con Eduardo; cfr. M.B. Mignone, op. cit., p. 276). Nel 1973 Eduardo spiega già le ragioni per cui muterà il finale del testo: «Ho guardato la commedia a distanza di tempo con altri occhi, e ho visto che ha cose buone ma anche cose strane, che potevano far

pensare all’esistenza di un doppio gioco. È stato un errore mio: ora la rivedrò, soprattutto nel terzo atto al quale darò la conclusione giusta, per cercare di far capire il vero significato della commedia e la parte che assumono i personaggi principali» (cfr. C. GALIMBERTI, Le tre barbe del dottor Speranza, «Corriere della Sera», 12 otto1973).

bre

4 Alle voci dei tre luminari della medicina, che esaminano alla fine il corpo di Guglielmo, si sovrappongono quelle degli studenti che nel Prologo fingevano goliardicamente di ‘‘visitare’’ il neolaureato: E i/ nastro continua ripetendo la scena del prologo con le voci degli attori che l'hanno interpretata mentre i tre medici si prestano a questa specie di doppiaggio, appropriando i gesti alle parole (did., III, p. 490). In questa scena la pantomima del Protagonista è lavorata su una trama naturalistica di base — fiati, gesti e le minime pignolerie del reale — per ascendere a qualcosa di spettrale, cui mettere tuttavia sempre il morso dell’umorismo.

493

le trovare un vestito che rispecchiasse la sua complessa personalità (Prologo, p. 425);

dove il leit-motiv dell’‘‘abito”’ si carica di un peso anche troppo scopertamente

simbolico:

Un simbolo si riconosce per ciò che pensa e dice, non per il vestito che indossa (Id.).

E l'Autore si serve per darci questa immagine assolutamente definitoria della solitudine dell’Uomo, perseguitato eternamente (perfino dopo morto) dai «falsi esami» della Famiglia e della Società, d’una forma ‘‘epica’’, tra «narrativa» e «visionica»v?; pur traendo succhi dalla tradizione dello spettacolo e dell’avanspettacolo popolare napoletano, si ricollega evidentemente ai modi della più avanzata drammaturgia occidentale, da Strindberg a Brecht a Wilder, con punte di Assurdo*. Le «scenette», interrotte ma tenute insieme dal «dialogo diretto

5 Pensiamo alla «Narrazione visionica futurista», le cui «regole fondamentali» appaiono indicate nella Lettera che Pino Masnata, futurista della seconda generazione, premette a Tocca a me! («Roma Futurista», n. 71, 22 febbraio 1920), il suo primo «esperimento teatrale»: il «protagonista, che ha subito tragedie, drammi, commedie, si reca alla ribalta (a sipario chiuso) per narrare [...] la sua vita». Il procedimento è però basato sull’alternanza scenica della narrazione (epico-lirica) con il recitativo (drammatico-visionico), il secondo stimolato dal «ricordo»: «Le parti più importanti di questa narrazione non vengono esposte ma recitate: il protagonista ferma il suo dire; le tele si aprono ed appare la scena con i personaggi utili. Si svolge l’azione [...], e quando le tele si chiudono il protagonista, [...] sulla ribalta, seguita...» (cfr. in M. VERDONE, Teatro Italiano d’ Avanguardia cit., pp. 265-266). È un procedimento che si riconnette, «mediante gli itinerari spesso misteriosamente intrecciati delle avanguardie, attraverso l’espressionismo mittel-europeo al ‘‘teatro epico” brechtiano. Ma anche da noi trova riscontri nelle opere di drammaturghi più tardi: come ‘‘ricordanza’”’ sceneggiata, nelle ‘‘finzioni della memoria” evocate da Albertina di Bompiani (l’invenzione di quest'opera rimanda agli stretti legami del suo autore con Savinio), o addirittura nella medesima struttura de Gli esami non finiscono mai di Eduardo De Filippo» (così abbiamo già osservato nel nostro articolo I/ zzondo visionico di Masnata: drammaturgia dell’«io» nel Secondo Futurismo, «Il Ponte» cit. > p 68). 6 È ancora De Monticelli che sottolinea gli aspetti beckettiani di quest'opera: cfr. R. DE MonticeLLI, Il monologo silenzioso di Eduardo, «Corriere della Sera», 1 marzo 1974, p. 3.

494

del personaggio principale con il pubblico»?, costituiscono i quadri o le tappe della laica via crucis di un ‘‘borghese’’, costretto appunto a subire continui scacchi (morali piuttosto che materiali) nel banale

attraversamento della sua vita; la cui rappresentazione appare brechtianamente scandita anche dagli «intermezzi musicali» che, insieme alle tre «barbe» dal colore simbolico, segnalano il trascorrere del ‘‘tempo” (dagli anni Venti della ‘‘giovinezza’’ ai Settanta della ‘‘senilità’’). Così i mutamenti di scena a vista, l’uso del flash-back, la ricorrenza

della strada dove ci si incontra per caso come luogo deputato o sfondo per le azioni, appaiono tutti accorgimenti formali e spettacolari che rispondono all’esigenza novecentesca di «epicizzare» il dramma e la sua rappresentazione.

Appena un anno prima di G/ esami, Eduardo aveva preso le distanze da Brecht: «non sono Brecht, io, e non vorrei neppure esserlo. Non ammetto comizi a teatro»*. Ma del teatro brechtiano rifiutava l’aspetto didattico-politico, non le soluzioni tecniche (dalle quali aveva già attinto, come abbiamo visto per De Pretore Vincenzo). D’altronde il ‘‘silenzio’”’ cui approda o in cui si rifugia il protagonista eduardiano, prima ancora che sopraggiunga per lui la morte fisica, non è forse ‘“a suo modo” un comizio a teatro gestito da un attoreautore-regista che proprio nella sperimentazione espressiva del silenzio aveva raggiunto la più eloquente capacità comunicativa? Il silenzio di Guglielmo Speranza è definitivo, e perciò assume la portata di un messaggio che, indipendentemente dalla volontà dell’ Autore, può avere anche un significato ‘politico’. Ma Eduardo affida all’Attore che interpreta il Protagonista il compito di offrire agli Spettatori la chiave interpretativa del suo lavoro: con una soluzione scenica che ha richiamato a Ruggero Jacobbi il Prologo di I Pagliacci di Leoncavallo?, che a noi ricorda, oltre l’epicità brechtiana, l'impostazione formale di Piccola città di Wilder!9, ? Cfr. 8 Cfr. p. 140. ? Cfr. XXIX, n. 10 Ma

F. Di Franco, I/ teatro di Eduardo cit., p. 220. S. Lori, Intervista a Eduardo, «Il Dramma», novembre-dicembre

1972,

R. JacoBBI, Guglielmo Speranza, un eroe della rassegnazione, «Sipario», 324, febbraio 1974, p. 7. in Piccola città di Thornton Wilder (1938) c’è un personaggio nuovo,

al di fuori dell'ambito tematico, «nel punto archimedico del narratore epico»: il regista; mediante la sua introduzione nell’opera «all’azione drammatica si sostituisce la

495

e che testimonia sempre la persistente fedeltà dell’ Autore ai generi e sottogeneri del teatro comico (nell’ossequio al pubblico, che già troviamo in bocca all’illusionista Sik-Sik, con la chiamata di correo del pubblico stesso come personaggio i La didascalia iniziale sottolinea con evidenza lo straniamento’’ (103

dell’interprete dal suo personaggio: Con gesto rapido e padronanza del mestiere, Guglielmo Speranza si presenta al pubblico, spaccando in due il velluto nero e avanzando al centro della ribalta (Prologo, p. 425).

La «padronanza del mestiere» è quella dell’‘‘attore’’ (un attoreregista naturalmente, trattandosi di uno spettacolo eduardiano) e non

del ‘‘personaggio’’: infatti, dopo l’inchino d'obbligo, l'attore si toglie rispettosamente il berretto goliardico ricavato da un foglio di giornale e inizia il suo discorsetto introduttivo (Id.).

narrazione epica» (P. Szonpi, op. cit., pp. 117-118). Indubbiamente nel testo di Eduardo compaiono certe caratteristiche «formali» presenti in quello di Wilder: l’ordine degli eventi è stabilito dal narratore, così che le singole parti non si generano da sé come nel «dramma», «ma sono composte e saldate in un tutto dall’io epico, secondo uno schema che trascende i singoli eventi, generalizzandoli», e anche qui il «carattere rappresentativo dell’azione è così evidente che il Regista può supplire con le parole dove la realizzazione scenica non giunge» (p. 119). O a un certo punto il «narratore epico» ha la facoltà di tornare indietro nel tempo e ritrasformare in «presente scenico» il colloquio fra Guglielmo e sua moglie all’origine del successivo, ma già rappresentato, tradimento di lui: GugLieLMo — «[...] Mi ci hanno messo, mi ci hanno sbattuto contro! E allora ho il dovere di darvi una spiegazione. Chiarezza e verità. E alla fine pietà, almeno pietà da parte vostra (i/ sipario di velluto si apre, scoprendo il soggiorno di casa Speranza; Gigliola è seduta sul divano con un'aria compunta ma vigile e sorvegliatissima). Ecco Gigliola ed ecco quello che accadde sei anni fa. (Dopo breve silenzio, passandosi la mano sulla fronte, come per richiamare alla memoria il dialogo che si svolse tra lui e Gigliola, avvicina una sedia al tavolo e siede di fronte alla moglie) Allora?» (III, p. 466). Tuttavia, al di là del gioco delle parti del Prologo, in cui l’Attore presenta il suo personaggio, straniandosi in un primo momento sia da esso sia dall’Autore (che egli finge di aver interrogato), il «narratore epico» nei successivi quadri (ad eccezione dell’ultimo atto in cui, per il mutismo di Guglielmo, è la moglie a venire alla ribalta, ma con una serie di informazioni chiaramente “di parte’) coincide con il Protagonista, in quanto narratore della propria vita. È un «dramma soggettivo» quello di Guglielmo Speranza, anche se proposto al pubblico in quanto emblematico.

496

Di qui l’incipit epicizzante: a partire da quel ‘‘gesto’”’ che spoglia il personaggio del primo attributo con cui inizierà, poi, l’azione («il berretto goliardico»), per lasciare sulla scena l’interprete e tessitore di una storia, i cui meccanismi sente la necessità di spiegare al pubblico. Qui però anche il paradosso dell’opera: una tesi solipsistica viene enunciata e commentata in maniera didascalica. Sembra quasi che Eduardo non abbia più fiducia nella comunicatività insita nel testo, in un suo testo, oltre che nella comunicazione fra gli uomini: non a caso negli stessi anni aveva premesso una Nota all’edizione del Monumento!!. Certo la soluzione di Gl esamzi, con l'Autore che in un gioco di ‘‘straniamenti’’ reciproci (autore-attore-personaggio)!? si

rivolge ai suoi spettatori, parlando direttamente con essi (anche per eludere i pericolosi filtri dei critici), è senza dubbio teatrale, richiamandosi anche ad una tradizione comicale antica e illustre; tuttavia

svela una preoccupazione di non essere compreso che contrasta con l’assioma fondamentale eduardiano: «il teatro si fa, non si discute».

D'altra parte i momenti più avvincenti della commedia sono proprio quelli in cui l’Attore, nei panni ormai del protagonista che si confessa (ricordiamo che «l'attore è il vero confessore spirituale del

11 A causa delle reazioni discordi del pubblico e dei critici che, secondo lui, non avevano inteso appieno il senso della sua opera, Eduardo scrisse una premessa all'edizione a stampa del testo: «Ferma restando la mia convinzione che il pubblico e la critica debbono essere liberi di giudicare un’opera teatrale senza che l’autore

spieghi cosa abbia inteso dire, nel caso di I/ monumento sento il bisogno di dire due parole che vogliono essere solo una premessa a questa commedia [...]» (cfr. E. De Fiuppo,

I/ monumento,

Torino,

Einaudi,

1971, p. 5). La formula è la stessa

della Nota premessa nel ’65 al testo di L'arte della commedia, ma l’interpretazione dell'autore qui appare esplicita. Poi Eduardo eliminerà la premessa (per l’edizione ?79 della Cantata)

ed interverrà

direttamente

sul testo mutandone

il finale.

12 Così l’attore nel Prologo: «Non vi stupirete, spero, se questo personaggio, che io stesso farò vivere al centro della vicenda e che accompagnerò dalla giovinezza fino alla vecchiaia non cambierà mai di abito [...]. L'ho chiesto all’autore e lui mi ha risposto [...]» (Prologo cit.). Il passaggio dall’attore al personaggio è risolto poi da Eduardo in due tempi (all’interno dello stesso Prologo che in tal modo ‘‘dissolve’’ in vicenda): nel primo l’attore si trucca da personaggio — Guglielmo: «Ecco! (si applica sul viso la barba nera)» — ma personaggio ancora straniato — «ho venticinque anni, mi sono appena laureato...» (p. 426); nel secondo, con l’apertura del «sipario di velluto» sulla «strada dove ci si incontra per caso» si dà adito al primo quadro in azione, dove l’attore agisce in quanto personaggio.

497

personaggio»), interrompe un recitativo drammatico-visionico talvolta un po’ scontato (nei contenuti) «per parlare con i ‘‘suoi’’ spettatori,

nell’ansia di dir tutto fino in fondo, con parole, domande e ammiccamenti dietro ai quali», osserva Tian, «si potrebbe vedere una ricerca di complicità se Eduardo stesso non pronunciasse una parola diversa e più alta: pietà» (I, pp. 445-447, e II, p. 466)!5. Come di grande effetto è il lungo «monologo silenzioso» di Guglielmo che si fa il «piacere» di andarsene «al più presto all’altro mondo»: anch'esso un canale di comunicazione privilegiata col pubblico, attraverso quel misurato ma amarissimo dosaggio di gags (la trovata del figaro-Valentino che gli rade l’ultima «barba») e di lazzi mimici; tragico-farsesco al punto da focalizzare, sul coro in animazione, il ‘‘primo piano” del malato o del moribondo immaginario tutto teso a difendersi, col suo mutismo

e con la sua immobilità, che sono

anche divertita ironia,

dall’impietoso e meschino assalto di una «famiglia sbagliata» e di una «società corrosiva»!4.

Se infatti l’Epilogo, con la ormai topica ‘crisi di cordoglio” eduardiana, richiama quello di Natale in casa Cupiello: qui all’enfasi, non più naturale, ma chiaramente falsa dei famigliari, irrigiditi in una affannosa ma distratta ripetizione di gesti e di parole (tale da provocare, bergsonianamente, effetti comici)!5, non si contrappone più il balbettio delirante ma ostinatamente utopistico di un Lucariello bensì il silenzio intenzionale e dispettosamente scettico di un Guglielmo Speranza. Forse perché al milieu ‘‘popolare’’ di quell’antica commedia si è sostituito (come nei testi più attivamente critici dell’ Autore) un più esteriore miley ‘borghese’: forse perché l’Autore stesso si è trovato

13 Cfr. R. Tian, «Il Messaggero», Roma, 11 gennaio 1974. 14 Cfr. M. STEFANILE, «Il Mattino», Napoli, 28 gennaio 1975. 15 Cfr. H. Bergson, I/ riso cit. Vedi la scena in cui Gigliola introduce nella bocca del marito tre pillole, aiutandolo a deglutire con un bicchiere d’acqua: I/ gesto — avverte la didascalia — che la donna compie, abitudinario, quasi distratto [...] fa sî che l’acqua trabocchi e si riversi giù per il mento, la gola e coli attraverso il colletto della camicia da notte [...]. Gigliola però non si accorge dell’errore, continua a versare acqua senza badare ai contorcimenti cui si abbandona il malcapitato quando il liquido

freddo gli attraversa il petto e la pancia (did., III, pp. 481-482); come se ciò non bastasse la scena si ripete identica subito dopo, ad opera di una seconda “infermiera” distratta. Sono lampi di ‘‘nera’”’ comicità, per cui la ‘‘risata’”’ scatta provocando però, nello spettatore, un effetto di complice ‘senso di colpa”.

498

per una volta, con quest'opera, a toccare il fondo della «parabola naturale dell’uomo», quella della «vecchiaia: delusione e amarezza»!5. Che tuttavia l’autore-attore-regista (ben presente nel testo con le sue perentorie didascalie gestuali e mimiche) continui, al di là della

‘‘tesi’’, a colloquiare col pubblico è un dato di fatto, che emerge già dalla lettura dell’opera: ed è tematicamente confermato dall’azione finale del Protagonista, il quale ricomincia a muoversi, paradossalmente, proprio durante il suo funerale, quando è venuto meno qualsiasi tipo di comunicazione con gli altri personaggi. Abbigliato come una macchietta, un figurino da avanspettacolo, contro le sue stesse ultime volontà, sfrutta finalmente la maschera che la famiglia e la società — pirandellescamente — gli impongono per uscire dai panni di uno sdegnoso Lear, e recitare per il ‘‘suo’’ pubblico — giocosamente — la parte del ‘‘finto morto”. Facendosi beffe con lo sguardo di quell’elogio funebre, capolavoro oratorio di ipocrisia e di malignità, che il suo inevitabile Sosia, Furio La Spina, non rinuncia a dedicargli, Guglielmo non avverte il senso di ridicolo che, da vivo, egli temeva gli sarebbe caduto addosso da morto, anzi si diverte, si sente al centro di

un gioco talmente infantile da farglielo ritenere uno dei doni più assurdi e affascinanti che la fantasia beffarda dell'umanità abbia concesso all’uomo

(did., III, p. 499).

È la fantasia bizzarra della creazione teatrale, della magica finzione scenica, l’aldilà che consente all’artista di prendersi gioco persino della morte: La tragedia moderna è quella che fa ridere [...] ma affondando il dito nella piaga [...], nella tragedia comune [...]. Noi ridiamo di tutto in questo momento, perfino della morte! (Lezioni, p. 92).

116 Cfr. Epuarno, A colloguio con gli studenti, in Pensieri, p. 172: «Quello che voi chiamate un periodo di pessimismo è la parabola naturale dell’uomo: gioventù con alti e bassi di speranza e disperazione, entrambe illogiche e meravigliose; maturità, cioè grandi aspettative confortate dall’aiuto del pensiero; vecchiaia: delusione e amarezza. O, se vogliamo, è il ciclo della storia vista attraverso la vita di un artista. [...] Insomma

il mio sogno di un mondo

migliore è come

un pallone in cui, anno

per anno, si sono andati a infilare spilli in quantità, sgonfiandolo sempre di più...». Tuttavia «rimangono i giovani, la vostra generazione, in cui sperare... Speriamo bene!»

(p. 174).

499

Non mancano scene, quindi, di grande efficacia poetica e spettacolare in quest'opera: e «rimane il ricordo», come testimonia Tian, «di un Eduardo con la mano tesa al di là della ribalta», proteso appunto a comunicare direttamente ed esclusivamente al personaggioPubblico l’impossibilità di comunicazione fra gli uomini (che non sono più uomini ma bestie: perciò la scelta di Guglielmo, anche per sé, del medico-veterinario). D'altra parte, memori di una dichiarazione di poetica dell’ Autore («Tendi sempre una mano al Pubblico, vedrai che lui te la stringerà nella sua destra. Non tendergli anche l’altra mano [...] vedrai che

sarà lui a tenderti la seconda [...] e allora sarai tu a rifiutargliela, facendogli però intendere che una sera o l’altra gliela: tenderai affettuosamente», Pensieri, p. 148), pur apprezzando quello che un critico ha definito non solo un amaro messaggio ma anche un «messaggio di umiltà»!7, ci vien fatto di rimpiangere quell’altro colloquio col pubblico, tanto più fecondamente ambiguo, che l’autore-attore fingeva di improvvisare nei modi suoi più congeniali della ‘‘chiacchierata dal balcone”’, attraverso il ‘‘borghese’’ tanto più estroso e visionario di Questi fantasmi!. Dove non solo il gioco delle parti (autore-attorepersonaggio) si realizzava nell’obliquo e segreto dialogo con gli spettatori (senza bisogno di spiegazioni, senza dover mettere le mani avanti), ma

alla fine la «pietà» che l’Uomo

sulla scena

chiedeva

all’an-

tagonista-complice Fantasma e al Pubblico non escludeva del tutto «la speranza di aprire un varco nella scorza dura e spinosa del mondo»!8.

7 Cfr. M. Dursi,

«Il Resto del Carlino»,

Bologna,

22 dicembre

1973.

!8 Cfr. A. SPADONI, Programma — Gli esami non finiscono mai, Stagione 1973-74.

500

3 oMaprdb< UGO: AS GE MEGGHIO: PO TeBIANEBIANO= DIVENTI ALGIONANE»

Ma Gli esami non potevano essere davvero il testamento di Eduardo, come uomo e come uomo di teatro: difatti il suo testamento è contenuto piuttosto nei suoi successivi interventi, anche civili, e nel-

l’attività che egli ha continuato a svolgere (continuando ad affrontare ‘gli esami” che ‘“‘non finiscono mai’’) per oltre dieci anni da quella commedia; in quella ‘‘pratica’’ del teatro e della vita, insieme, che il grande vecchio ansioso di ringiovanire ha considerato sempre fondamentale per non morire mai... «Anche stasera mi batte il cuore, e continuerà a battere perfino quando si sarà fermato»: così l’Artista ha accolto il riconoscimento di «Una vita per il teatro», con quell’emozione

sempre

‘giovane’

che ha segnalato la sua presenza ‘‘diversa” a Taormina (Taorminaarte °84)!. Alla fine del suo ‘“‘ciclo’’ il personaggio-uomo Eduardo si contraddice fecondamente, se ripensiamo ad una sua precedente dichiarazione sulle cerimonie d’onore: «Quando le autorità, la stampa e i tuoi colleghi decidono d’organizzare una cerimonia in tuo onore per festeggiarti, significa che sei arrivato alla fine dei tuoi giorni. Se ti lasci sedurre dall’invito, non potrai esimerti dal pronunciare il discorsetto di prammatica [...]. Alla fine della manifestazione t’ac-

corgerai d’esserti prestato a rendere spassosa la prova generale del tuo prossimo funerale»

(Pensieri, p. 167).

Ma «l’uomo nasce vecchio, poi pian piano diventa giovane», eliminando, eliminando sempre più «certe cose inutili che ci danno l’impossibilità di essere liberi»: è ancora nel superamento cosciente dell’egoismo, dell’egocentrismo onnivoro, l’«arte» per ringiovanire, per non sclerotizzarsi?. 1 Cfr. R. Parazzi, Eduardo, un gran cuore în una grande festa cit. 2 Cfr. EpuarDo, L’arte di invecchiare, Intervista televisiva («Primo Piano») di C. DonaT CATTIN, 19 ottobre 1984; anticipata in «Corriere della Sera», 13 ottobre 1984, cit.

501

Bisogna dunque che i Vecchi siano coscienti di rappresentare per gli altri, i Giovani, dei «punti di partenza», mai «d’arrivo»: in ciò

consiste la loro «eredità» — «Soltanto così [...] i cicli, sempre uguali e sempre diversi, si susseguono, accogliendoci tutti nella loro inarrestabile evoluzione». È nel testo della Conferenza/Spettacolo con cui Eduardo ha inaugurato a Montalcino il ‘‘Teatro-Stage”’ 83. Ma, non a caso, alcuni di questi concetti compaiono già nei dialoghi che il vecchio maestro intreccia coi suoi giovani allievi del corso di Drammaturgia.

Di qui il suo rifiuto a pubblicare, in testa alle sue Lezioni, la prolusione al corso — ma lui avrebbe preferito chiamarla una ‘‘chiacchierata” — effettivamente pronunciata il 24 novembre 1981; anche se in essa non si era presentato come ‘‘professore’’ ma ancora come

‘figlio d’arte’’, come scrittore venuto dalla bottega del teatro (e più tardi ripeterà agli studenti: «Io ho scritto per necessità, perché mi hanno fatto copiare continuamente copioni... Ha fatto la scuola ricopiando commedie... Quindi sugli errori degli altri mi sono curato io», Lezioni, p. 135).

«Quel capitolo», riferisce la Quarenghi, «gli suonò come una superflua introduzione», appunto perché gli era sempre parso inutile, anzi dannoso, rettere le mani avanti. «Mettere le mani avanti», insiste

con gli allievi, «significa togliere al pubblico la soddisfazione di scoprire da solo i meriti e i demeriti della propria idea e punto di vista dello spettacolo [...]. Se un’idea, un punto di vista vengono realizzati bene, allora non c’è dubbio che tutti capiranno...» (Lezioni, p. 55).

Neppure come

‘maestro’

vuol mettere le mani avanti: perciò non

può né vuole dirsi ‘‘professore’’, perciò le sue non sono delle ‘‘lezioni” accademiche (è l’equivoco in cui è caduto qualche critico, e forse anche qualche allievo deluso). Certo, si può apprendere da lui una «tecnica» ovvero «la parte artigianale del lavoro di un commediografo» — anche mediante le sue memorie di vita e d’arte —, ma ciascu-

no secondo le proprie forze, secondo le proprie possibilità (se ne ha), deve reinventarla, questa tecnica, perché «il teatro non ha una tecnica rigida, non l’ha mai avuta...». E anche (ancora) una questione di ‘“‘linguaggio’’ l’anti-accademismo delle lezioni eduardiane, condotte sempre nella forma dialogicoseminariale del ‘‘laboratorio’’ ed impostate sullo «spirito di collaborazione» e insieme sulla «discussione»: «Ma voi dovete litigare! Dovete

502

dirmi: “Tu stai sbagliando!”’. La discussione porta pure a qualche cosa. E la comunicazione...» (Lezioni, p. 31 e p. 32). Si ha addirittura

l’impressione di un divaricarsi dei linguaggi fra il maestro e gli allievi. Egli si sforza di trasmettere loro la propria cultura, soprattutto pratica, ‘‘incarnata’’, di uomo di teatro, per rinnovare con essi il rapporto maestro-apprendista della ‘‘bottega’’ artigiana nel campo specifico della scrittura scenica («A teatro io devo star solo, con gli allievi o con gli attori che devono provare un lavoro», Id., p. 122). Ma il suo linguaggio talvolta li disorienta: perché questi giovani non sono attori, i suoi attori, né tantomeno i suoi fratelli del “laboratorio’’ I De Filippo. Così all’intellettualismo spesso un po’, magari ingenuamente, esibizionistico dei suoi allievi, il maestro, pur lasciandoli parlare (tutto serve al teatro!), contrappone il suo senso creativo, familiare, della letteratura e della storia (e Shakespeare diventa Guglielmo...). Questi studenti sembra perfino che ‘‘sdottoreggino’”’, parlino in stile da libro o da saggio critico, laddove Eduardo sterza verso la quotidianità e la concretezza delle «cose da fare». «Qui c’è dentro il gergo teatrale», ripeterà ad una studentessa in crisi perché non riesce a comunicare con lui: «Tu non hai a che fare con un accademico, hai a che fare

con una ‘bestia di teatro”’. Lo sai che significa ‘bestia di teatro”’? [...] Se non lo apprendi non lo capisci [...]}. Sennò devi andare dove

si fa accademia, non dove si fa teatro. Questo è il punto» (Id., pp. 152-156).

Ma è utile anche quest’ultima fatica, l’ultimo «lavoro» che Eduardo compie insieme agli studenti: anzitutto «perché ci unisce, ci mette in condizione di conversare», e poi perché «pur sapendo che le cose torneranno ad essere quelle che sono, noi abbiamo il dovere di salvare l'avvenire, il futuro», e soprattutto il teatro «che è fantasia, libertà...». Si conferma così la sostanza di una poetica o di un discorso metateatrale che l'Autore intende realizzare, facendo teatro: quel teatro che è “parola di vita” proprio perché ‘‘eccedente’’ rispetto al reale, capace quindi di dominare o di riscattare la storia. Possiamo intendere anche in senso metaforico l’aforisma eduardiano: «In teatro la parola, l'incanto, l’inventiva contano infinitamente più di una messa in scena grandiosa, perfetta» (Pensieri, p. 164). Per cui è entrata, sì,

in crisi una certa parola a teatro: la parola a senso unico, la paroladialogo solo fra «personaggi a tutto tondo» che esclude «il personaggio in più», lo spettatore; ma si può inventare un’altra parola, che 203

resista, perché necessaria. Attraversando un’epoca in cui la Parola (parlata o scritta) sembra cedere in tutti i campi all’Immagine, e riuscendo tuttavia a comunicare, col suo linguaggio impastato di scrittura e di oralità, con intere e diverse generazioni’, il Teatro di Eduardo potrebbe rispondere all’ipotesi di Jacobbi: Questa resistenza della parola ha [...] una implicazione sociale in questo senso: che probabilmente il teatro è l’ultimo punto di resistenza di una civiltà della parola, contro una invadente, totalitaria, illibe-

rale civiltà dell'immagine’.

Infatti neppure la trovata o la soluzione del si/erzio, il silenzio dell’attore-personaggio in scena, portano mai (come abbiamo visto) alla rinuncia al dialogo con lo spettatore: i silenzi eduardiani non rinunciano ad essere viatico e spettacolo, essendo tecnica e simbolo di comunicazione teatrale. Una comunicazione che vuol essere «trasposizione della vita al teatro; trasposizione del testo al palcoscenico; e [...] trasposizione del palcoscenico alla platea. Restituzione della vita alla comunità, chiusura di un ciclo vastissimo, che abbraccia po-

poli e tempi diversi, per una vicenda di due o tre ore»). D'altronde in ogni sezione del ‘‘romanzo teatrale’ di Eduardo (famigliaristica o civile che sia) la possibilità di superare la divaricazione fra Io e Mondo sembra affidarsi, comunque, al recupero della Parola: la parola che nasce «colorata» e libera, mentre le parole stan-

3 Ricordiamo ancora il brano di Prizzo... secondo (Aspetto il segnale) cit.: «Recito da venticinque anni e ne ho trentasei... È incredibile, ho già divertito due generazioni: gli ultimi dell’ottocento e i primi del novecento [...]. Dunque, terza generazione. Fra qualche anno, se incontrerò ancora il loro gusto, reciterò anche per loro [i bambini del ’36], e sarò lieto di aver divertito nel 1914 i nonni, nel 1930 i papà e le mamme e nel 1945 [...] questi piccoli che mi sembra già di vederli e... perché no? di averli già visti» (Napoli, agosto 1936, in Persieri, p. 130). Secondo i suoi calcoli, arrivare al '45 avrebbe significato recitare per un pubblico composto di tre generazioni: la realtà è andata ben oltre l'immaginazione profetica di Eduardo, se consideriamo che ha continuato a recitare, stabilmente, fino al 1981 e a comporre commedie «sue» fino al ’72. 4 Cfr. R. JacoBBI, Della drammaturgia, per la fondazione di una rivista, dibattito CILS PARI 5 Cfr. R. JacoBBI, Teatro da ieri a domani cit.

504

dardizzate, le parole del Potere (come dice l’Autore in una sua poesia) sono «... tutte eguale e d’’o stesso culore: grigio scuro»S. Nel tentato recupero del ‘‘colore’’ delle parole è qualcosa che aiuta a vivere, ad andare avanti... Perciò il ‘‘maestro’’ parlando coi suoi giovani allievi ridiventa talvolta ‘‘personaggio’’, uno dei suoi tanti personaggi con la loro tensione affabulatoria: Io ho sempre considerato la terra, il mondo una sala d’aspetto. Immaginate una sala d’aspetto di un dentista dell’Ottocento [...]. E in questa sala d’aspetto c'erano mille distrazioni: c’era la lanterna magica, c’era il cinema d’allora che si faceva attraverso le silhouettes, c’e-

rano le cartoline a doppio che davano il rilievo [...]}. Ed uno stava lf in mezzo a tutte queste distrazioni e aspettava [...]. Noi ci dobbiamo distrarre in qualche modo per tirarci questo dente definitivo [...]. E il dono che abbiamo avuto, di aver capito questo, ha fatto nascere Michelangelo, Picasso, Morandi, che hanno avuto delle soddisfazioni... E poi se ne vanno all’altro mondo e ti saluto! E viene la nuova generazione: il punto di arrivo, il punto di partenza... Anch'io ho provato molto piacere ad occuparmi [del teatro], che mi ha fatto passare la vita in un momento;

mettiamoci

e sono tranquillo, non mi importa... . Forza,

sotto e lavoriamo!

(Lezioni, p. 133).

Comunque: Stasera sono venuto perché voglio vedere anch’io il teatro che cammina, che non si arrende, che va avanti con i giovani e con i vecchi

come

me

(Taormina-arte

’84).

C’è sempre un pizzico di protervia nei ‘‘vecchi’’ eduardiani, an-

che in quelli più disarmati, perfino nel candido Luca Cupiello... È l’irresistibile ‘‘ambiguità”’ dell’autore, che passa, senza scarti, senza

infingimenti, dalla persona al personaggio, dal personaggio alla persona.

6 Cfr. ’E pparole, in Le poesie di Eduardo cit., p. 11.

505

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APPENDICE

NOTA

SULLE «CANTANTE» DI EDUARDO EDIZIONI E VARIANTI

Eduardo De Filippo ha raccolto in vita le sue commedie (almeno quelle che ha ritenuto di pubblicare) in due «Cantate»: la Cantata dei giorni pari e la Cantata dei giorni dispari. La prima comprende nell'ultima edizione Einaudi (1982) 17 commedie, scritte tra il 1920 e il 1942; la seconda, suddivisa (sempre nell’ultima edizione ’82) in tre volumi, comprende 22 commedie, scritte tra il 1945 e il 1973. Per le citazioni dai testi abbiamo ritenuto opportuno utilizzare, per entrambe le

«Cantate», l'edizione più recente, appunto l’’82, identica alla precedente «riveduta» del 1979. Tuttavia dobbiamo segnalare un fatto che non è stato finora messo in rilievo dalla critica: nella “storia” di queste edizioni, storia complessa perché legata allo svolgimento della produzione di un autore che è stato anzitutto “uomo di spettacolo”, gli “avvenimenti” rappresentati dalle pubblicazioni delle diverse commedie non solo non si succedono in modo lineare, ma testimoniano di ripensamenti o revisioni attraverso testi che appaiono variati in alcune “tappe” cruciali del percorso. Proprio perché la storia dello spettacolo (e degli spettacoli) si intreccia alla storia della composizione dei testi (e a quella delle loro diverse composizioni), l'itinerario delle edizioni del Teatro di Eduardo appare particolarmente significativo, e il corpus finale reca le tracce di metamorfosi,

spostamenti, inversioni, aggiunte o espunzioni, che lo rendono

“vivo”.

Senza voler entrare dettagliatamente nel merito (per fare un lavoro esaustivo e approfondito bisognerebbe dedicarsi solo a questo, e prendere in esame non solo le edizioni delle «Cantate» ma anche quelle dei Capolavori e dei testi via via pubblicati, sempre da Einaudi, nella «Collezione di teatro»), ci sembra utile riassumere alcune note, che risultano già dalle nostre ricerche compiute nel corso di seminari ed esercitazioni con gli studenti della Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, e che troveranno compimento nella tesi di una nostra laureanda, Renata Paladini. Per la Catata dei giorni pari, che conta fino ad oggi 9 edizioni dal 1959! al 1982?, le “tappe” più importanti risultano, a partire dalla prima (1959: 16 commedie), quella del ’62’, del ’71” (edizione riveduta), e del 1979 (altra edizione riveduta) uguale all’ul-

tima del 1982.

Dal punto di vista della strutturazione della Cantata, l'edizione ’62 elimina (rispetto alle precedenti) La fortuna con l’effe maiuscola [1942] ed inserisce al suo posto Ditegli sempre di sì, nella versione del 1932 (quella messa in scena il 10 novembre ’32 al Teatro Nuovo di Napoli dalla Compagnia «Teatro Umoristico I De Filippo»). Ma più rilevante, dal punto di vista della revisione dei testi, è l'edizione 1971, alla quale

corrispondono le ristampe del ’73, ‘74, ’75: dove Ditegli sempre di sì appare nella versione del 1927 (probabilmente quella rappresentata dalla compagnia di Vincenzo

509

Scarpetta); è inserita Nor ti pago [1940], con l’eliminazione di Il dono di Natale [1932]; e risultano modificati alcuni testi. Mentre subiscono varianti minime, di ordi-

ne grafico o relative all’elenco dei personaggi, Uorzo e galantuomo [1922], Quei figuri di trent'anni fa [1929], Natale in casa Cupiello [1931], e Sik-Stk, l'artefice magico perde soltanto una parte della didascalia iniziale; Gennarerniello [1932] e Io, l'erede [1942] presentano rispetto all'edizione ’59 varianti di maggior rilievo. Nel ’79 (id. ’82) infine viene inserita Reguie all’anema soja ... [1926] col doppio titolo I morti non fanno paura [1952] (per cui le commedie diventano 17, e subiscono varianti: Uomo e galantuomo, Quei figuri di trent'anni fa, Natale in casa Cupiello (per le quali si può parlare di una seconda versione); mentre appaiono nuovamente modificate (sia rispetto al ’59 che rispetto al ’71) Gennareniello e Io, l'erede. Per la Cantata dei giorni dispari l’iter è ancora più complesso, per l’accrescersi via via, nel tempo, della stessa produzione eduardiana. Infatti, se il primo volume esce nel 1951 ed il secondo nel 1958 (avanti cioè la prima Cantata dei giorni pari), la prima edizione dei tre volumi è del 1966, l’ultima ancora dell’’82. Si capisce come la crescita del corpus comporti lo spostamento meccanico di alcuni testi da un volume in quello precedente. Ma, al di là di questo meccanismo editoriale, si segnalano alcuni spostamenti d’autore. Nor ti pago e I morti non fanno paura [1952], inseriti nel 1958! nel secondo volume della Cantata dei giorni dispari, spariscono il primo dall’edizione 71” ed il secondo dall’edizione 79? dello stesso volume (ed. riveduta), per essere inseriti nelle corrispondenti ("71 e ’79) edizioni della Cantata dei giorni pari. E dal punto di vista delle revisioni eduardiane anche il percorso della Cantata dei giorni dispari conta delle “tappe” importanti: oltre alla prima del primo volume (°51), del secondo (58), e del terzo (*66), il 1971 (riv.) e il 1979 (riv.) per tutti e trei volumi. (Consideriamo ancora che le edizioni ‘73, "74, ‘75, sono uguali a quella del "71, e l’82 è identica al ’79). In questo contesto, se Le voci di dentro [1948] fra il 1951! (primo volume) e il 1979!° (’82!) presenta una variante minima, De Pretore Vincenzo

[1957], L’arte della commedia [1964], Il contratto [1967] subiscono maggiori modificazioni. Come abbiamo visto: De Pretore dall'edizione 1958! del secondo volume all'edizione (riv.) del 1979? (8219); L'arte della commedia dall'edizione 1966! del terzo volume all’edizione 19794 (*82°) dello stesso; I/ contratto dall’edizione 1971! (riv.) del

terzo volume all'edizione 1979" (’82°) dello stesso. Un discorso a parte meriterebbe I/ monumento [1970], che compare la prima volta nell’ultima edizione riveduta della Cantata dei giorni dispari (vol. III, ’79/°82), ma pure presenta delle varianti rispetto alla sua precedente pubblicazione nella «Collezione di teatro» Einaudi (1971). Così come il testo di Gli esazzi non finiscono mai,

uscito per la prima volta nella «Collezione di teatro» Einaudi (1973) ed inserito poi nel terzo volume della Cantata dei giorni dispari (1979) con varianti che si conservano nelle successive ristampe o edizioni dello stesso volume. Questi i rilievi di carattere macrotestuale; abbiamo cercato nel corso di questo lavoro di fornire caso per caso (in nota) alcuni confronti microtestuali, anche se ci siamo accontentati di accennare, aprendo magari la strada ad altri...

510

SENATO

DELLA

REPUBBLICA

Roma, 22.2.83

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BIBLIOGRAFIA

OPERE

DI EDUARDO

RIVEDUTA E ACCRESCIUTA (*)

DE FILIPPO

Teatro

I testi teatrali sono per la gran parte raccolti in: Cantata dei giorni pari, Torino, Einaudi, 1959-91! (presentano varianti le

edd. 1962}, 1971”, 19798). Cantata dei giorni dispari, Torino, Einaudi, 3 voll.: vol.I, 1951-91!4 (presentano varianti le edd. 1971, 197919); vol.II, 1958-91! (presentano varianti le edd. 19717, 1979°); vol.III, 1966-9158 (presentano varianti le edd. 1971”, d9v5a):

Cantata dei giorni dispari, con Introduzione e a cura di A. BARSOTTI, 3 voll., Torino, Einaudi, 1995 (nuova edizione nei «Tascabili»). Sono usciti anche nella «Collezione di teatro» Einaudi (diretta da P. GRASSI e da G. GUERRIERI): Natale in casa Cupiello (n. 34, 1964); Questi fantasmi! (n. 35, 1964); Filumena Marturano (n. 36, 1964); Le voci di dentro (n. 37, 1964); Napoli milionaria! (n. 47, 1964); L'arte della commedia - Dolore sotto chiave (n. 66, 1965); L'arte della commedia (n. 66, 1973 riv.); Uomo e galantuomo (n. 88, 1966); Non ti pago (n. 94, 1966); Il contratto (n. 115, 1967, 1979? riv.); Il monumento (n. 139, 1971, 19774 riv.); Ogni anno punto e da capo (n. 147, 1971, 19784 riv.); Il sindaco del Rione Sanità (n. 163, 1972); La grande magia (n.

(*) Nelle «Opere di Eduardo De Filippo» si aggiungono i testi non catalogati nella prima edizione del nostro libro e quelli usciti in seguito; nella «Critica su Eduardo De Filippo» si aggiungono, fra parentesi quadra, i contributi non catalogati nella prima edizione, e nella finale «Bibliografia aggiornata» si inseriscono quelli usciti in seguito. Per facilitare la consultazione della rassegna critica abbiamo ritenuto opportuno raggruppare, come nella precedente edizione, i contributi di uno stesso autore all’in-

terno dell’ordine cronologico complessivo.

DIS

164, 1973); Gli esami non finiscono mai (n. 172, 1973, 1977? riv.); Sabato, domenica e lunedì (n. 175, 1974); Mia famiglia (n. 178, 1974); Bene mio e core mio (n. 179, 1974); De Pretore Vincenzo (n. 185, 1974, 1977? riv.); Ditegli sempre di sì (n. 186, 1974); Io, l'erede (n. 200, 1976); Le bugie con le

gambe lunghe (n. 229, 1979); Il figlio di Pulcinella (n. 230, 1979); Chi è cchiù felice ‘è me! (n. 231, 1979); Tommaso d’Amalfi (n. 237, 1980). Alcuni testi sono raccolti in I Capolavori di Eduardo, 2 voll., Torino, Einaudi,

1973-91°. Una scelta è in E. DE Fiuippo, Teatro, con Pietcinne e a cura di G. Davico Bonino, Milano, Edizione CDE,

1985.

E. DE Fiuppo, Tre commedie (Le bugie con le gambe lunghe, La grande magia, Bene mio e core mio), con Nota introduttiva e a cura di G. DAvico BonINO, Torino, Einaudi, 1992.

Adattamenti e lavori teatrali in collaborazione: Pulicinella ca va’ truvanno ’a fortuna soia pe’ Napule di P. ALTAVILLA (libero adattamento di E. De Fio), Napoli, Edizioni del Teatro San Ferdinando, 1958. La fortuna con l’effe maiuscola (in collaborazione con A. Curcio), in Cantata dei giorni pari cit., 1959; ora anche in I/ teatro di Armando Curcio, Milano, Curcio, 1977.

Peppino Girella (originale televisivo tratto da una novella di I. QUARANTOTTI DE Firpo), Roma, Editori Riuniti, 1964; poi Torino, Einaudi, 1988. Eduardo De Filippo presenta quattro commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta (tranne Na santarella liberi adattamenti di E. DE Fiuppo), Torino, Einaudi, 1974.

Simpatia (commedia in collaborazione con gli allievi della Scuola di Drammaturgia di Firenze, su soggetto di E. DE FiLipPo, con Prefazione di G. MACCHIA), ivi, 1981. La tempesta di William Shakespeare nella traduzione in napoletano di Eduardo De Filippo, Torino, Einaudi, 1984. Mettiti al passo! (commedia di C. BracHINI, allievo del corso di Drammaturgia dell’Università di Roma «La Sapienza», su soggetto di E. DE FILIPPO), ivi, 1984.

L’erede di Shbylock (commedia di L. Lippi, allieva del corso di Drammaturgia dell’Università di Roma «La Sapienza», su soggetto di E. DE FILIPPO), ivi, 1984.

Un pugno d'acqua (commedia di R. IAnnì, allievo del corso di Drammaturgia dell’Università di Roma «La Sapienza», su soggetto di E. DE FiuPPO), ivi, 1985.

Copioni inediti conservati nel «Fondo Censura Teatrale», Archivio Centrale di Stato:

514

È arrivato ’o trentuno (1930); La voce del padrone (1932); Tre mesi dopo (1934); Occhio alle ragazze (1936); Che scemenza (1937, con T. DE FiupPO); Basta il succo di limone (1940, con A. CuRcIO); Il mio primo amore (1937, radiotrasmissione, con P. DE FILIPPO). Con Mascaria (pseud. di M. ScARPETTA): Noi siazzo navigatori (1932); Cuoco della mala cucina (1932); Il thè delle cinque (1932); Una bella trovata!

(1932); Parlate al portiere (1933). Riduzioni inedite: L’ultimzo Bottone (1932, da P. Munoz-SEca); Il coraggio (1937, da A. NoveLLI); Il ciclone (1938, da A. AvERCENKO); In licenza

(1941, da E. SCARPETTA).

Poesia e narrativa

Il paese di Pulcinella, Napoli, Casella, 1951. Vincenzo Aprea, Scirocco a Napoli, Un frutto fuori stagione, tre racconti, in AA.VV., Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando, Napoli, Edizioni del Teatro San Ferdinando, 1954; poi do, Roma, Bulzoni & Teatro Tenda, O Canisto, Napoli, Edizioni del Teatro Le poesie di Eduardo, Torino, Einaudi,

anche in AA.VV., Eduardo nel mon1978. San Ferdinando, 1971. 1975-89!!, N’informazione (poesia), «Paese Sera», 19 giugno 1976. °O penziero e altre poesie di Eduardo, Torino, Einaudi, 1985. È asciuto ’o sole (1973, poesia inedita), «Mercurio» («La Repubblica»), n. 20, 19 maggio 1990.

Discorsi e altri scritti

Primo ... secondo (Aspetto il segnale), «Il Dramma», XIV, n. 240, 1936; poi

anche in Eduardo, polemiche, pensieri, pagine inedite, a cura di I. QUARANTOTTI DE Fiuippo, Milano, Bompiani,

1985.

Io e la nuova commedia di Pirandello, «Il Dramma», 1° giugno 1936. Colloquio con Pirandello alle prove de «L'abito nuovo», «Scenario», aprile 1937; poi, col titolo I/ giuoco delle parti, in AA.VV., Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando cit. Lettera al Ministro dello Spettacolo, in L. BEAGONZINI, F. ZARDI, Teatro anno zero, Firenze, Parenti, 1961. Sulla recitazione, in Actors on Acting, a cura di T. CoLE e H.K. CHinoy, New York, Crown Publishers, 1970; poi in italiano in Eduardo, polemiche, pen-

sieri, pagine inedite cit.

515

Il teatro e il mio lavoro, in Adunanze straordinarie per il conferimento dei premi «A. Feltrinelli», Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, vol. I, fasc. 10, 1973; anche in Nota introduttiva a I Capolavori di Eduardo cit. Spettatore di se stesso, «Corriere della Sera», 27 ottobre 1973.

Palcoscenico, «Il Messaggero», 13 luglio 1975. Per il teatro raccolgo la bandiera sventolata da Pertini, «Corriere della Sera», 3 ottobre 1981. Al pubblico la soddisfazione di scoprirmi, ivi, 9 febbraio 1982. I fantasmi siamo noi!, lezione-spettacolo, «Piccolo Teatro di Milano», n. 3, 1985,

Eduardo, polemiche, pensieri, pagine inedite, a cura di I. QUARANTOTTI DE FILIPPO, Cit.

Il punto di arrivo ... il punto di partenza, brano tratto dalla conferenza-spettacolo tenuta a Montalcino per l’inaugurazione dello Studio Internazionale dello Spettacolo, 9 luglio 1983, in Eduardo, polemiche, pensieri, pagine inedite cit. (testo completo edito nell’opuscolo d’accompagnamento ai dischi con la registrazione della conferenza, a cura della Discoteca di Stato, in collaborazione con il Centro Teatro Ateneo dell’Università di Roma, nell'album I/ favoloso Archivio della Discoteca di Stato, Anno Europeo delia Musica 1985).

Lezioni di teatro (all’Università di Roma «La Sapienza»), a cura di P: QuaRENGHI, con Prefazione di F. MAROTTI, Torino, Einaudi, 1986.

516

CRITICA SU EDUARDO

DE FILIPPO

Monografie F. FrascanI, —

La Napoli amara

di Eduardo

De Filippo, Firenze, Parenti,

1958. Eduardo, Napoli, Guida, 1974.

— Eduardo segreto (biografia), Napoli, Delfino, 1982. G. MagLiuLo, Eduardo, Bologna, Cappelli, 1959. G.B. DE Sanctis, Eduardo De Filippo commediografo neorealista, Perugia, Unione Arti Grafiche, 1959. L. COEN Pirzer, Il mondo della famiglia ed il teatro degli affetti. Saggio sull’esperienza «comica» di Eduardo, Assisi-Roma, Carucci, 1972. M.B. MIGNONE, I/ teatro di Eduardo De Filippo. Critica sociale, Roma, Trevi, 1974. F. DI Franco, I/ teatro di Eduardo, Bari, Laterza, 1975. — Eduardo, Roma, Gremese, 1978. — Eduardo da scugnizzo a senatore (biografia), Bari, Laterza, 1983. — Le commedie di Eduardo (repertorio), ivi, 1984.

C. Filosa, Eduardo De Filippo poeta comico del tragico quotidiano. Saggio su Napoletanità e Decadentismo nel teatro di Eduardo De Filippo, Napoli, La Nuova Cultura, 1978. G. AnTONUCCI, Eduardo De Filippo, Firenze, Le Monnier, 1981. A. BisiccHIa, Invito alla lettura di Eduardo, Milano, Mursia, 1982. E. GIAMMATTEI, Eduardo De Filippo, Firenze, La Nuova Italia, 1982.

Contributi vari

M. Bontempelli,

I De Filippo, «Il Mattino», 16 giugno 1932; poi, col titolo I/

teatro di Eduardo, in AA.VV., Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando cit. [F. PerRrIccione, Nuova generazione dialettale: I De Filippo, «Comoedia», giugno-luglio 1932.] Anonmo,

I De Filippo al Sannazzaro, «Il Mattino», 9 ottobre 1932.

[Anonmo, Ditegli sempre di sì, ivi, 11 novembre 1932.] S. Procina,



[Uomzo e galantuomo, «Roma», 24 febbraio 1933.]

Eduardo De Filippo collaboratore di Pirandello, «La Lettura»,

aprile

1963.

Anonmo, Chiarella: il debutto della Compagnia «I De Filippo», «La Stampa», 12 settembre 1933.

DI

[Anonmo, Chi è cchiù felice ’e me, «Il Messaggero», 7 ottobre 1933.] S. D'Amico, I De Filippo al Valle in «Sarà stato Giovannino», «La Tribuna», 18 ottobre 1933. — Questi fantasmi, «Il Tempo», 12 gennaio 1946. —

Filumena Marturano, ivi, 11 gennaio 1947.

[— Le bugie con le gambe lunghe, ivi, 17 gennaio 1948.] [— Le voci di dentro, ivi, 5 marzo

1948.]

[— Attualità di Eduardo De Filippo, ivi, 16 luglio 1949.] — Eduardo lirico del dialetto, ivi, 23 dicembre 1949; poi in AA.VV, Eduardo De Filippo e il teatro San Ferdinando cit. [— La grande magia, «Il Tempo», 21 gennaio 1950.]

[— La grande magia, «Sipario», n. 46, febbraio 1950.] [— La paura numero uno, «Il Tempo», 2 agosto 1950.] — De Filippo autore drammatico. Cantata dei giorni dispari, «Teatro-Scena—

rio», n. 11, 15 giugno 1951. vedi anche in Palcoscenico del dopoguerra ERI, 1953.

(1943-1952), 2 voll., Torino,

— Palummella zompa e vola, «Il Tempo», 4 novembre 1954. [— Mia famiglia, in E. De Fiuppo, Mia famiglia, Torino, Einaudi, 1956.] — vedi anche in Cronache del teatro (1914-1955), 2 voll., a cura di E.F. PALMIERI e S. D'Amico, Bari, Laterza, 1963-64; e in Storia del teatro drammatico, Milano, Garzanti, 1968, vol. IV (riv. e ampl.). L. ANTONELLI, Una «prima» al Valle, «Il Giornale d’Italia», 29 ottobre 955%

A. Consigcio, I De Filippo, «Scenario», n. 10, 1933.

[— Sik-Sik l'artefice magico, «Il Tirreno», 11 gennaio 1956.] — I De Filippo, voce in Enciclopedia dello spettacolo, Firenze-Roma, Le Maschere, 1954-68, vol. IV.

E. CONTINI, Natale in casa Cupiello, «Il Messaggero», 4 novembre 1933. [— Ditegli sempre di sì, ivi, 22 novembre

1934.]

[— Liolà, ivi, 6 giugno 1935.] [— Il berretto a sonagli, ivi, 15 novembre

1936.]

[— Natale in casa Cupiello, ivi, 12 giugno 1937.) — L'abito nuovo, ivi, 16 giugno 1937 [— Uno coi capelli bianchi, ivi, 27 gennaio 1938.] [— La fortuna con l’effe maiuscola, ivi, 29 aprile 1942.] [— Le voci di dentro, ivi, 26 febbraio 1949.)

— La grande magia, ivi, 21 gennaio 1950. — La paura numero uno, ivi, 7 aprile 1951. [— Bene mio e core mio, ivi, 12 novembre 1955.] [E. SERRETTA, Scoperta dei De Filippo, «Comoedia»,

518

n. 10, 1933.]

L. D’AMBRA, I tre umoristi del teatro: I De Filippo, «Il Dramma», n. 175, 1° dicembre 1933. M. INTAGLIETTA, I De Filippo, ibidem. R. Simoni, «Chi è cchiù felice 'e me!». Aria paesana, «Corriere della Sera», 16 marzo

1934.

[— Ditegli sempre di sî, ivi, 21 marzo 1934.] [— Sarà stato Giovannino, ivi, 28 marzo 1934.]

— Novità all’Odeon. Natale in casa Cuptello, ivi, 10 aprile 1934. — Gennarentello, ivi, 15 febbraio 1935. [— Sintetici ad ogni costo, ivi, 28 febbraio 1935.] — Tre mesi dopo, ivi, 8 marzo 1935.

— Il dono di Natale, ivi, 16 maggio 1935. [— Il berretto a sonagli, ivi, 26 marzo

1936.]

— L'abito nuovo, ivi, 2 aprile 1937. — — [— [— [—

Uno coi capelli bianchi, ivi, 17 gennaio 1939. Non ti pago, ivi, 31 gennaio 1941. La fortuna con l’effe maiuscola, ivi, 27 marzo Questi fantasmi!, ivi, 11 maggio 1946.]

1942.]

Filumena Marturano, ivi, 15 aprile 1947.]

[— Le bugie con le gambe lunghe, ivi, 27 aprile 1948.] [— Quinto piano ti saluto, ivi, 23 novembre 1948.] [— Le voci di dentro, ivi, 12 dicembre 1948.] [— La paura numero uno, ivi, 29 luglio 1950.] — vedi anche in Trent'anni di cronaca drammatica (1911-1952), Torino, SET, 1951-1960, vol.V. Anonmo, «Sik-Sik», la mascotte dei De Filippo, «La Sera», 14 febbraio

1935. [C.L., Gennariniello, ivi, 15 febbraio 1935.]

[— Questi fantasmi!, «Secolo Nuovo», 11 maggio 1946.] [— I/ dono di Natale, «La Sera», 16 maggio 1935.] [P. De FLavns, Gennariniello, «L’Ambrosiano», 16 febbraio 1935.] [AnonImo, L'ultimo bottone, «La Sera», 22 febbraio 1935.]

[M. Pompei, I De Filippo recitano a soggetto, «Scenario», luglio 1935.) E. BeRTUETTI, [Appunti sui De Filippo, «Il Dramma», 15 agosto 1935.] [— [— A. — [— — [—

I De Filippo, ivi, 1° marzo 1938.] Eduardo, umanità senza schermi, ivi, aprile 1962.] Vesce, [Liolà, «Il Mattino», 27 ottobre 1935.] Il berretto a sonagli, ivi, 15 febbraio 1936. La parte di Amleto, ivi, 16 marzo 1940.] Napoli milionaria, «Il Giornale», 27 marzo 1945. Filumena Martorano, «Il Mattino», 8 novembre 1946; poi in AA.VV.,

Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando cit.]

519

[Anonimo, Natale in casa Cupiello, «Il Mattino», 1° febbraio 1936.] [Anonmo, Chi è cchiù felice ‘e me, «Gazzetta del Mezzogiorno», 16 ottobre 193081

C.G., Quei figuri di trent'anni fa, «La Nazione», 4 marzo 1937. L. REPACI, L'abito nuovo, 4 aprile 1937, in Ribalte a lumi spenti, 1937-1939, Milano, Ceschina, 1939.

[— Mettimale in capelli bianchi, 29 gennaio 1939, in Ribalte a lumi spenti, 1938-1940,

ivi, 1941.]

[— «Difendo il domatore», ibidem.)

«Illustrazione Italiana», 28 gennaio

1940; poi

[— Irresistibilità di Edoardo e Peppino De Filippo, «Illustrazione Italiana», 30 giugno 1940; poi ibidem.) — Umorismo tragico dei De Filippo, marzo 1941, in Ribalte a lumi spenti, —

1940-1942, Milano, Ceschina, 1943. L'arte sommessa e discreta di Eduardo attore, ibidem.

[— La grande magia, 21 gennaio 1950, in Teatro d'ogni tempo, ivi, 1967.) G. Rocca, Edoardo De Filippo in «L'abito nuovo» di Pirandello, «Il Dramma», 15 aprile 1937. [— Nor ti pago, ivi, 1 gennaio 1940.] A. SavinIO, L’abito nuovo, «Omnibus», 26 giugno — Karaghiòz, ivi, 15 febbraio 1938. — Titina, ivi, 9 luglio 1938. — Teatro da ridere, ivi, 19 novembre 1938. [— Hanno votato per loro i santi, «Corriere della — vedi anche in Cronache teatrali per «Omnibus», BELLINGERI, «Rivista Italiana di Drammaturgia», poi in Palchetti romani, a cura di A. TinteERRI,

1937.

Sera», 4 luglio 1946.] 1937-1939, a cura di E. II, n. 5. settembre 1977; Milano, Adelphi, 1982.

[F.B., Uno coi capelli bianchi, «La Stampa», 10 marzo 1938.] [— Sabato, domenica e lunedì, ivi, 17 marzo 1960.] [Anonmmo, Uomo e galantuormo, «Corriere della Sera», 23 dicembre 1939.] E.F. PALMIERI, [in Teatro italiano del nostro tempo, Bologna, Testa, 1939.] — I De Filippo, «Scenario», n. 2, febbraio 1943. [AnonImo, Uozzo e galantuomo, «Il Dramma», 15 gennaio 1940.] [Anonmo, Tre novità all’Odeon, «Corriere della Sera», 20 gennaio 1940.)

E. FLarano, I De Filippo, «Oggi», 2 marzo 1940. —

Un teatro per sopravivere, «L’Europeo»,

1° settembre 1966.

— vedi anche in Lo spettatore addormentato, a cura di E. GIAMMATTEI e F. BERNOBINI, Milano, Rizzoli, 1983. G. SARNO, Intervista con Eduardo De Filippo, «Roma», 31 marzo

1940.

E. Bassano, [Edoardo e Peppino senza equivoci, «Il Dramma», 1° febbraio

1941.]

520

— Lettera a Eduardo e Peppino De Filippo, ivi, n. 373, 1942. [Vice, In licenza, «Il Messaggero», 31 maggio 1941.] [Vice, In licenza, «Il Giornale d’Italia», 1° giugno 1941.) [C. GIACHETTI, Io, l'erede, «Il Dramma»,

1° aprile 1942.)

A. PARENTE, Napoli milionaria, «Risorgimento», 27 marzo 1945. [Anonmo, Napoli milionaria, «Il Messaggero», 1° aprile 1945.) G. TraBucco, «Napoli milionaria» al Salone Margherita, «Il Popolo», 1° aprile 1945.

— Il fenomeno Eduardo, «Paralleli», 1° maggio 1946. [Anonmmo,

Napoli milionaria, «Giornale

del mattino»,

22 dicembre

1945.)

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— Intervista a quattrocchi con Eduardo De Filippo, ibidem; poi in Teatro italiano contemporaneo,



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Profitti e perdite di Eduardo,

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nuovo»,

novembre-dicembre

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[— Le bugie con le gambe lunghe, ivi, 15 aprile 1948.] [— Chi è cchiù felice “e me, «Il Momento», 3 luglio 1948.] [— La fortuna con l’effe maiuscola, «Momento Sera», 15 novembre

1958.]

IZ

[— Il sindaco del Rione Sanità, «Telesera», 10-11 dicembre 1960.] [F. MoniceLLI, I/ berretto a sonagli, «Momento Sera», 22 dicembre 1946.] P. Grassi, Filumena Marturano, «Avanti!», 15 aprile 1947. — Il contratto nuovo di Eduardo, Prefazione a E. DE Firpo, Il contratto, Torino, Einaudi, 1967. [— in Quarant'anni di palcoscenico, a cura di E. Pozzi, Milano, Mursia,

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[V. Marinucci, Le bugie con le gambe lunghe, «Il Momento»,

15 gennaio

1948.]

[P. Parsi, Le bugie con le gambe lunghe, «Il Quotidiano»,

15 gennaio

1948.]

[P.M. Tarico, «Le bugie con le gambe lunghe» di Eduardo all’Eliseo, «L'Italia socialista», 16 gennaio 1948.] G. GUERRIERI, [Le bugie con le gambe lunghe, «Sipario», gennaio-febbraio 1948.]



Passione civile di Eduardo, «Il Giorno», 23 aprile 1976.

— Un padrino nel «Rione Sanità», ivi, 7 giugno 1978. S. Quasimono, [Nor ti pago, «Omnibus», aprile 1948.] — Le voci «realizzate», «Il Dramma», 1° aprile 1949. [— La paura numero uno, «Omnibus», agosto 1950.]

[— Mta famiglia, «Tempo», marzo 1955.] [— Miseria e nobiltà, ivi, 14 aprile 1955.] [— Bene mio e core mio, ivi, dicembre 1955.]

[— Ditegli sempre di sì, ivi, gennaio 1956.] — vedi anche in Scritti sul teatro, Milano, Mondadori, 1961; [2° ed. col titolo Il poeta a teatro, a cura di A. Quasimopo, Milano, Spirali, 1984.] [G.B. Loverso, Né Pirandello né Ibsen, «Bis Settimanale», 27 aprile 1948.)

L. ANTONIOLI, «Le bugie con le gambe lunghe». Invece di intentargli una causa l’ultimo personaggio di Eduardo è andato ad applaudirlo, «Oggi», 9 maggio 1948.

G. [— [— [— [— [—

TREVISANI, [Le voci di dentro, «L'Unità», 12 dicembre 1948.] La nuova commedia di Eduardo, ivi, 30 luglio 1950.] Napoli milionaria, ivi, 17 ottobre 1950.] Questi fantasmi, ivi, 17 novembre 1950.] L'arte di Scarpetta rivive con Eduardo, ivi, 3 ottobre 1953.] Bene mio e core mio, ivi, 14 dicembre 1955.]

— Note introduttive all’antologia, in Teatro napoletano dalle origini, Bologna, Guanda, 1957.

IZ2

[— Natale in casa Cupiello, «L'Unità», 25 aprile 1958.]

[— Le bugie con le gambe lunghe, ivi, 19 aprile 1959.) [— Sabato, domenica e lunedì, ivi, 30 gennaio 1960.]

[— Il figlio di Pulcinella, ivi, 21 agosto 1960.) [— Filumena Marturano, «Calendario del Popolo», n. 247, 1965.]

— Eduardo De Filippo, voce in AA.VV., Le Muse. Enciclopedia di tutte le arti, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1965, vol. IIL — vedi anche in Storia e vita di teatro, 1947-1964, Milano, Ceschina, L. RIpENTI, Le voci di dentro, «Il Dramma», 1° gennaio 1949. — Sono stato da Eduardo, ivi, n. 202, 1954.

1967.

[M. SOCRATE, «Le voci di dentro» di Eduardo tarantella napoletana in tre atti, «L'Unità», 27 febbraio 1949.] A. Fiocco, Maschera seria dei De Filippo, «Il Quotidiano», 16 aprile 1949. [— I due Eduardi, «La Fiera Letteraria», 18 ottobre 1953.]

— vedi anche in [Teatro italiano di ieri e di oggi, Bologna, Cappelli, 1958; e in] Teatro universale dal naturalismo ai nostri giorni, ivi, 1971, vol. II [Vice, Non ti pago, «Il Paese», 25 giugno 1949.] E. Grassi, La grande magia, «Il Dramma», 15 gennaio 1950. [ Vecchio e nuovo San Ferdinando, 1954, in AA.VV., Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando cit.]

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1950.

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[— Riaperto a Napoli il San Ferdinando, «Corriere della Sera», 4 novembre 1954.] [— Eduardo con la casacca di Pulcinella, 1954, in AA.VV., Eduardo De Filip-

po e il Teatro San Ferdinando cit.) — L'arte della commedia. Novità di Eduardo in scena a Napoli, «Corriere della Sera», 9 gennaio 1965. — «Il contratto» di Eduardo al Festival della prosa di Venezia, ivi, 13 ottobre 1967.

523

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— Ogni anno punto e da capo, «Corriere della Sera», 6 ottobre 1971. — «Sabato, domenica e lunedì» di Eduardo De Filippo a Londra, ivi, 27 ottobre 1973. — Lunga strada di Sik-Sik, ivi, 19 dicembre 1973. — I sette sogni nel cassetto di Eduardo, ivi, 9 gennaio 1976. —

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[— «Il contratto» di E.De Filippo, «Il Dramma», ottobre 1967.) [R. SaurEL, Filumena Marturano, «Les lettres francaises», 6 novembre 1952, in AA.VV., Eduardo nel mondo cit.) [G. ANTONINI, Filumzena Marturano, «Sipario», n. 80, dicembre 1952.] [E. FERRIERI, in Novità di teatro (1945-1952), Torino, ERI, 1952.] C. MuscettA, Napoli milionaria!, 1950, in Letteratura militante, Firenze, Patenti 1953:

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— Il figlio di Pulcinella, «Il Mondo», 2 novembre 1962. — Un palcoscenico di pietre per Eduardo, «L'Espresso», 13 dicembre 1970. — vedi anche in Scritti sul teatro, a cura di M. CHIAROMONTE, Torino, Einaudi, 1976.

[— Un uomo di grande passione civile, «L'Unità», 2 novembre 1984.]

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C.G., Rivive Pulcinella nel teatro di De Filippo, «La Stampa», 21 gennaio 1954.

M. STEFANILE, Palummella zompa e vola, «Il Mattino», 23 gennaio 1954.

[— Qui fu Napoli qui sarà Napoli, 1954, in AA.VV., Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando cit.] [— Mia famiglia, «Il Mattino», 11 maggio 1955.) [— Bene mio e core mio, ivi, 28 aprile 1956.] — Eduardo De Filippo o la lezione di Pulcinella, in Labirinto napoletano, Na-

poli, ESI, 1958.

[— [— [— [— [— [—

Sabato, domenica e lunedì, «Il Mattino», 28 gennaio 1961.] Ur atto inedito di Eduardo, «Sipario», 4 novembre 1964.] L'arte della commedia, «Il Mattino», 9 gennaio 1965.] L'ultimo Eduardo, «Sipario», n. 226, febbraio 1965.] Il contratto, «Il Mattino», 25 ottobre 1967.] Il monumento, ivi, 5 marzo 1971.)

— La lezione di De Filippo, in AA.VV., Storia di Napoli, Napoli, Società Edi—

trice Storia di Napoli, 1971, vol.X. Gli esami non finiscono mai, «Il Mattino», 28 gennaio 1975.

[— Entusiasmo per Eduardo e «Natale in casa Cupiello», ivi, 9 settembre 1976.]

F. FrascanI,

[Con Eduardo

Pulcinella «Palummella»

torna al successo, «Il

Giornale», 23 gennaio 1954]. [— Evoluzione di un personaggio, 1954, in AA.VV., Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando cit.] [— Eduardo de Filippo, «Il Mattino», 14 agosto 1966.] — Eduardo De Filippo e il teatro napoletano, in AA.VV., Teatro Contemporaneo, Roma, Lucarini, 1981, vol. I. E. PossenTI, [«Palummella» di Antonio Petito nel nuovo teatro San Ferdinando, «Corriere della Sera», 23 gennaio 1954.] i — Mimica di Eduardo, 1954, in AA.VV., Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando cit. [— Mita famiglia, «Corriere della Sera», 8 marzo 1955.] [— Il medico dei pazzi, ivi, 6 aprile 1958.] [— La fortuna va in cerca di tasche, ivi, 28 maggio 1958.] [— Sabato, domenica e lunedì, ivi, 13 gennaio 1960.]

— Le bugie hanno le gambe lunghe, ivi, 19 aprile 1960. — Il sindaco del Rione Sanità, ivi, 12 gennaio 1962. — vedi anche in 10 anni di teatro, Milano, Nuova Accademia, 1964. G. Prosperi, [Rinato il San Ferdinando con Eduardo «Pulcinella», «Gazzetta

del popolo», 23 gennaio 1954.] [— È tornato Pulcinella sulle scene del San Ferdinando, «Il Momento», 23

gennaio 1954.]

D4I

— Non ti pago, «Il Tempo», 5 dicembre 1962. [— «Il contratto» di Eduardo vivamente applaudito a Venezia, ivi, 13 ottobre

1967.] Un asceta dell’imbroglio ne «Il contratto» di Eduardo, ivi, 11 gennaio



1968.

[— Cani e gatti, ivi, 4 aprile 1970.] [— Il monumento, ivi, 5 dicembre 1970.]

[— Questi fantasmi!, ivi, 22 gennaio 1971.] — «Napoli milionaria!» commedia d'oggi, ivi, 15 febbraio 1971. [— Napoli milionaria!, ivi, 10 maggio 1971.] [— Il sindaco del Rione Sanità, ivi, 8 febbraio 1973.]



Difesa della dignità dell’uomo nella novità di Eduardo, ivi, 11 gennaio 1974.



i

Eduardo ha depositato sei commedie nuove, ivi, 17 febbraio 1974.

[— Il coraggio del pessimismo, ivi, 23 giugno 1977.] — Attenti al teatro di regime, ivi, 3 gennaio 1980.

— Gli eroici 80 di Eduardo, ivi, 24 maggio 1980. —

Una laurea a Eduardo. 1980.

«Non

sono uno scrittore naif», ivi, 18 novembre

— — —

Il cittadino Pulcinella, ivi, 27 settembre 1981. Cinque fantasmi in cerca d'autore, ivi, 29 ottobre 1981. Il candido Eduardo al passo con gli allievi, ivi, 4 novembre

1982.

— vedi anche in Maestri e compagni di ventura (Profili e problemi di autori italiani da G.Verga a D.Fabbri), Roma, Sercangeli, 1986.

[E.B., Eduardo e Pulcinella, «Corriere del popolo», 24 gennaio 1954.] S. Lori, [Eduardo. Pulcinella 1954, «Film d’oggi», 4 febbraio 1954.] — Intervista con il grande autore-attore napoletano, «Roma», 7 maggio 1969.

— Intervista a Eduardo, «Il Dramma», novembre-dicembre 1972. E. BARBETTI, I/ caso De Filippo, «Il Ponte», n. 2, febbraio 1954.

A.G. BRAGAGLIA, [Bragaglia risponde a Eduardo De Filippo, «Film d’oggi», 4 —

marzo 1954.] Eduardo, «Arlecchino», n.10, 1954.

P. Ricci, Nuovi contenuti nella letteratura e nell’arte del Mezzogiorno, «Cro—

nache meridionali», marzo 1954. Il teatro di Eduardo De Filippo, ivi, V, n. 4, aprile 1958.

— Altissimo messaggio civile della novità di Eduardo, «L'Unità», 9 gennaio 1965. — Eduardo per un pubblico che pare fatto apposta per lui, ivi, 28 settembre 1976.

AA.VV., Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando, Napoli, Edizioni del

526

Teatro San Ferdinando, 1954 (oltre agli scritti cit. di Eduardo, comprende: V. VIvianI, Piccola storia del San Ferdinando; S.D'AMico, Eduardo lirico del dialetto cit.; R. RADICE, Eduardo con la casacca di Pulcinella; C. NAZzaRO, La grande magia; M. BONTEMPELLI, I/ teatro di Eduardo cit.; R. SimoNI, Questi fantasmi! cit.; A. Vesce, Filomena Marturano cit.; G. MagLIULO, Piccola storia di Sik-Sik; E. Grassi, Vecchio e nuovo San Ferdinando cit.; O. VERGANI, Eduardo poeta due volte non chiede mandolini, M. STEFANILE,

Qui fu Napoli qui sarà Napoli cit.; E. PosseNTI, Mimica di Eduardo cit.; F. FrascanI, Evoluzione di un personaggio cit.; E.A. MARIO, L'eredità di Pulcinella; R. MINERVINI, Visita a Federico Stella; E. SCALERA, Il testamento di Pulcinella; F. CALLARI, L'ultimo «acerrano»).

[Vice, Mia famiglia, «Il Messaggero», 19 gennaio 1955.] [W. CaroLi, Mia famiglia, «Idea», 6 febbraio 1955.] [C. TerRON, Mza famiglia, «Corriere Lombardo», 8-9 marzo

1955.]

M.Dursi, [«Mza famiglia» di Eduardo De Filippo, «Il Resto del Carlino», 20 aprile 1955; poi in Cinque festival di Prosa, Bologna, Cappelli, 1956.) — Ancora «promosso» Eduardo De Filippo, «Il Resto del Carlino», 22 dicembre 1973.

[L. BoccHI, Questi fantasmi!, «Corriere Lombardo», 7-8 giugno 1955.) N. AreLLo, Storia e antologia della Napoli proletaria, «Nord e Sud», luglio [955

[E. Muzn, Sik-Stk, «Contemporaneo»,

14 ottobre 1955.]

[t— Ditegli sempre di sì, ibidem.) S. De Feo, [Eduardo allo stato puro, «L'Espresso», 30 ottobre 1955.] — Un borsatolo sogna il paradiso, ivi, 5 maggio 1957. [— Eduardo interpreta Scarpetta, ivi, 18 ottobre 1959.] [— Sabato, domenica e lunedì, ivi, 25 dicembre 1959.] [— Il sindaco del Rione Sanità, ivi, 18 dicembre 1960.] — I silenzi di Eduardo, «Illustrazione Italiana», aprile 1962.

[— Nor ti pago, «L'Espresso», 16 dicembre 1962.] —

Un giacobino superstizioso, ivi, 20 ottobre

— Un santone col [— L'erede, ivi, 28 — vedi anche in Ix si, 1972, vol.II. [A. FRATELLI, Bene

1963.

conto in banca, ivi, 21 gennaio 1968. aprile 1968.) cerca di teatro, a cura di L. LUCIGNANI, Milano, Longanemio e core mio, 11 novembre

1955.)

Vice, Dai nemici mi guardi Dio dalle sorelle mi guardo io, «Corriere Lombardo», 14-15 dicembre 1955. [A. FRATEILI, Bere mio e core mio, «Sipario», dicembre 1955.] [— Il sindaco del Rione Santità, ivi, n. 177, gennaio 1961.]

[— Comicità del primo Eduardo, «Sipario», n. 229, maggio 1965.]

32%

S. Moranpo, Eduardo, l'attore composto, ivi, n. 109, 1955. V. BUTTAFAVA, Pensa per un anno a una commedia e la scrive in una settimana, «Oggi», 5 gennaio 1956. [— «Un padre severo, non un padre cattivo», «Il Tempo», 24 maggio 1980.]

AA.VV., numero monografico di «Sipario» dedicato a E.De Filippo, XI, n. 119, marzo 1956 (comprende: C. ALvaro, Eduardo; V. Pandolfi, Un umorismo doloroso e Intervista a quattrocchi con Eduardo De Filippo cit.; R. ReBoRA, La prova dei sentimenti; T. KezicH, Cinema su precedenti teatrali; L. COMPAGNONE, L’istinto del teatro). [G. LeMINIER, Questi fantasmi!, «Le Parisienne liberé», 14 marzo 1957, in AA.VV., Eduardo nel mondo cit.)

[L. FoRNI, I problemi del teatro russo sono gli stessi di quello italiano, «Momento sera», 28 marzo 1958.] G. PutLinI, in Teatro italiano fra due secoli, 1850-1950, 1958.

Firenze, Parenti,

— in Cinquant'anni di teatro in Italia, Bologna, Cappelli, 1960; poi Teatro italiano del ’900, ivi, 1971. [— in Teatro Contemporaneo in Italia, Firenze, Sansoni, 1974.] — Nel tempo la sua presenza di teatrante. Le tre stagioni. Tenero, ironico e giudice, «Il Tirreno», 2 novembre 1984. — in Tra esistenza e coscienza. Narrativa e teatro del ’900, Milano, Mursia, 1986. [Anonmo, La fortuna con l’effe maiuscola, «Corriere Lombardo», 30-31 marZOT1909]

E. Biaci, La dinastia dei fratelli De Filippo, «La Stampa», 5 aprile 1959. — Eduardo tragico anche se ride, «Corriere della Sera», 6 marzo 1977; [poi in Dicono di lei, Milano, Rizzoli, 1978.]

— Per Eduardo il palcoscenico del Senato, «La Repubblica», 27 settembre LOSÌ: [(— Eduardo non avrebbe gradito, «Panorama», 19 novembre 1984.] C.M. Pansa, [La fortuna con l’effe maiuscola, «Radiocorriere Tv», 12-18 apri-

le 1959.] — Eduardo 80: e adesso punto e da capo, «Epoca», 10 maggio 1980. [E. MontaLE, Eduardo De Filippo, «Corriere d'Informazione», 30 maggio 1959]

A. CoLomo, Commenti all'opera di Eduardo De Filippo, «Letture», luglio 1959.

— Eduardo De Filippo (con bibliografia e illustrazioni fotografiche), ivi, marZOMb962I G. DE CHiara, 1959.]

528

[Gt arrabbiati della domenica, «Sipario», n. 162, ottobre



L'avanguardia chiama Pulcinella, «L’Avanti!»,

[(— Un nome

19 ottobre 1975.

entrato da anni nella leggenda del teatro, ivi, 2 novembre

1984.]

— L'incontro storico tra Eduardo e Strebler, ivi, 7 maggio 1985. R. Tian, [Sabato domenica e lunedì, «Il Messaggero», 7 novembre [— I/ sindaco del Rione Sanità, ivi, 10 dicembre 1960.]

1959.)

[— Il figlio di Pulcinella, ivi, 21 ottobre 1962.) [— Non ti pago, ivi, 5 dicembre 1962.] — Eduardo ritorna alle origini con la farsa «Uomo e galantuomo», ivi, 19 mar—

zo 1965. Eduardo

resuscita i morti a patto che abbiano famiglia, ivi, 13 ottobre

1967.



Il monumento



A cosa servono questi fantasmi, ivi, 22 gennaio

vuoto la taverna dei poveri, ivi, 5 dicembre 1970. 1971.

[— Eduardo, ivi, 17 dicembre 1972.] — Domani a Eduardo il Premio Feltrinelli, ivi, 19 dicembre 1972. — Eduardo sindaco del Rione Sanità, ivi, 8 febbraio 1973. — Il prodigio di un Eduardo più moderno che mai, ivi, 11 gennaio 1974. — Auguri Eduardo, ivi, 28 febbraio 1974.

— Spirito allegro, ivi, 28 marzo 1974. —

Intervista con Eduardo: il teatro, la vita, ivi, 13 luglio 1975.

— — —

De Pretore Vincenzo, ivi, 3 gennaio 1976. Natale in casa Cupiello, ivi, 7 maggio 1976. Le voci di dentro, ivi, 21 gennaio 1977.

— Una serata per Eduardo nel ricordo di Titina, ivi, 1° luglio 1978. — La politica e il teatro, ivi, 27 settembre 1981. [— Ditegli sempre di sì, ivi, 11 febbraio 1982.] —

Traditore, anzi tradito, ivi, 5 novembre

1982.

— La tradizione? È un trampolino, ivi, 11 luglio 1983. G. ARTIERI, [in Napoli nobilissima. Uomini, storie, cose di una città, Milano, Longanesi, 1959.]



Quando Titina era in scena, «Il Tempo», 15 gennaio 1964.

— Eduardo e Napoli europea, in Napoli punto e basta?, Milano, Mondadori, 1980.

[A. Manco,

Recensione

della Cantata

dei giorni pari, «Il Ponte»,

n. 10,

1960.]

F. Maurino,

The drama

of De Filippo, «Modern

Drama»,

III, febbraio

I961E

[V. Tieri, Le voci di dentro, «Telesera», 10-11 maggio 1961.]

L. CopignoLA, Lettura di Eduardo, «Tempo presente», luglio 1961; poi, col titolo I/ teatro di Eduardo, in Il teatro della guerra fredda e altre cose, Università di Urbino, Argalia, 1969.

529

[— Reading De Filippo, «Tulane Drama Review», VIII, March 3, spring 1964.]

[— Eduardo e la famiglia all'italiana, «Sipario», n. 238, febbraio 1966.] [— Ma che cosa si pretende dal pubblico popolare?, «La Repubblica», 28 settembre 1976.] [E. Goumo, Dopo il ‘43, in Napoli dopo un secolo, Napoli, Marotta, 1961.) [F. GHIARDI, in Storia del Teatro, Como, Vallardi, 1961, vol.II.]

[M.L. Serini, I/ fachiro della Formicola, «L'Espresso», 14 gennaio 1962.]. R. ReBora, Riparliamo del sindaco del Rione Sanità, «Sipario», n. 190, febbraio 1962. [— De Pretore Vincenzo, ibidem.) [— Tommaso d’Amalfi, ivi, n. 214, febbraio 1964.] — Eduardo, operazione sul quotidiano, ivi, maggio 1966. [— Eduardo ritorna al suo mondo poetico, ivi, n. 259, novembre 1967.] F. CoLocnI, Antologia su Eduardo, «Vita e Pensiero», marzo 1962. A. Levi, Intervista a Mosca. Eduardo De Filippo parla del suo viaggio oltre cortina, «Corriere della Sera», 27 marzo 1962. [G. CasoLari, I/ ciclo televisivo del «teatro di Eduardo», ibidem.) [G. BoyacÈv,

Questi fantasmi!,

«Literaturnaja

Gazèta»,

7 aprile 1962, in

AA.VV., Eduardo nel mondo cit.)

;

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in

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1984.

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Il monologo

silenzioso

di Eduardo,

«Corriere

della Sera»,

1° marzo

1974.



La riscossa dell'attore, ivi, 3 ottobre 1977.

[— Un grande Eduardo dal verismo al grottesco, ivi, 27 dicembre 1977.] — — —



Eduardo, i mali di Napoli non finiscono mai, ivi, 9 febbraio 1979. Sarà come ritrovarsi con Peppino e Titina, ivi, 15 aprile 1980. I milanesi si voltano, è tornato Eduardo, ivi, 3 maggio 1980.

Nell’amore nuovo

di Milano

l’arte antica di Eduardo,

ivi, 4 maggio

1980.

— Eduardo imprendibile scappa sempre via dal suo gran monumento, ivi, 24 maggio 1980. — «Simpatia» la commedia dell’antipatico, ivi, 25 settembre 1980. — Eduardo entra in scena a Palazzo Madama, ivi, 27 settembre 1981. — Eduardo dà il via a Luca, ivi, 3 ottobre 1981.

[— Ditegli sempre di sì, ivi, 11 febbraio 1982.] [— Apparizioni, incantesimi, caccia ai fantasmi ..., ivi, 10 luglio 1983.]

331

— Eduardo esce di scena. In platea passa un brivido, ivi, 2 novembre 1984. —

Maschera e vita, riso e pianto, ibidem.

— Trionfale «magia» di Eduardo-Strebler, ivi, 7 maggio 1985. — L’Eduardo di Turi Ferro («Il sindaco del Rione Sanità» al Manzoni di Milano), ivi, 17 gennaio 1987. — vedi anche in L'attore, a cura di O. BERTANI, Milano, Garzanti, 1988. [G.A. Cisotto, Nel «Contratto» di Eduardo un moralismo tutto esteriore, «Il Gazzettino», 13 ottobre 1967.] A. BLANDI, Eduardo è tornato a Torino con la novità «Il contratto», «La Stam-

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«La Nazione», 24 novembre

Di retorica si muore, ivi, 26 novembre

1970.]

1970.

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2

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DD



Alla sua festa Eduardo

invita la sua Titina, «Paese Sera»,

1° luglio

1978.

— — [— [C.

E Eduardo Parla agli L’ ultimo VALLAURI,

riscopre il fascino del comico, ivi, 10 gennaio 1980. uomini con cura e coscienza, ivi, 27 settembre 1981, grande mimo, ivi, 2 novembre 1984.] «I/ monumento» di Eduardo De Filippo, «Ridotto», XXI, n. 1,

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Napoli milionaria!,

«The

Observer»,

9 maggio

1972, in

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La risata tragica di Eduardo, ivi, 8 settembre

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della Sera», 12 marzo

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i

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12 marzo

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-

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Una grande voce che aveva reso universale il dialetto, ivi, 2 novembre 1984.



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— Su quel palcoscenico più Napoli che Eduardo. («La fortuna con l’effe maiuscola» di Armando Curcio e De Filippo messo in scena dai fratelli Giuffrè), — —

ivi, 9-10 ottobre1983. Fra lacrime e risate ha parlato di tutti noi, ivi, 2 novembre 1984. Attore, creatore, maestro: Eduardo una sola maschera, ivi, 3 aprile 1985.

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1982.

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Ma Filumena vince ancora, ivi, 19 novembre

1986.

— È di nuovo «Natale în casa Cupiello», ivi, 10 gennaio 1986. — Eduardo rivisitato da Calenda: Sindaco mafioso al Rione Sanità, ivi, 16 gennaio 1987. [M. Carti, Mettiti al passo!, «Letture», marzo 1983.]

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L. LUcIGNANI,

Quando

mi dettava il suo «De Pretore»,

ivi, 2 novembre

1984.

— Eduardo professore? neanche per sogno, ivi, 9 maggio 1986. A.M. Mori, Ha dato a Napoli eterna dignità, ivi, 2 novembre 1984. L. VILLORESI, La morte di Eduardo, ibidem. — Eduardo è morto, viva Eduardo, ivi, 4-5 novembre 1984. M. ACCONCIAMESSA, Questi sono i «penzieri mieje», «L'Unità», 2 novembre 1984. M. ANSELMI, Così vicino alla gente, così schivo e segreto, ibidem.

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D. Fo, Mi mancherà il suo coraggio, ibidem. E. Manca,

Eduardo

ha dato

voce

universale

ai sentimenti

della

ibidem. P. MIRABELLA, I suoi ragazzi lo ricordano così, ibidem. G. NapoLITANO, «Non è finita la guerra non è finito niente», ibidem. F. D'Amico, I/ primo regista che capì Rossini, ibidem. F. PARENTI, Per 40 anni sono stato suo allievo, ibidem.

[N. MANFREDI, Mi voleva per «La Tempesta», ibidem. P. STOPPA, Litigavamo sì, ma io l’amavo, ibidem.

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gente,

[Y. Lyusimov, Con «Filumena» commosse Mosca, ibidem.

P. Maccio, ibidem. [C. CaraBBa,

«Sarà sempre Il «Cuore»

lui ad entrare per primo in palcascenico ...», di quel maestro,

«La

Nazione»,

2 novembre

1984.]

[R. PoLese, Cinema e TV: l’altra scena, ibidem.) [S. MAFFEI, Napoli e la sua casa: Dio come ti odio, Dio come ti amo, ibidem.) [A. MENCARELLI, Portò in Senato gli umori della sua gente, «Paese Sera», 2

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