Eco e Narciso 8833904350, 9788833904351

In - 8, brossura, pp. 158. In ottimo stato.

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Italian Pages 158 [161] Year 1981

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Eco e Narciso
 8833904350, 9788833904351

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MARINA MIZZAU

Eco e Narciso >arole e silenzi nel conflitto uomo-donna

Eco, condannata al silenzio o alla replica della parola di Narciso, deve ritrovare la propria voce anche per avere un rapporto reale con l’altro. Nel microcosmo della coppia che riflette le altre dimensioni del sociale, la ricerca di autonomia della donna passa attraverso il confronto e lo scontro verbale con l’uomo: la sua parola è di volta in volta opposizione diretta e rivendicazione confusa, ironia, paradosso e richiesta ambigua, è un non detto che attraversa il detto, un silenzio che si fa sentire. Oggetto di questo studio è il continuum parola-silenzio che ricopre le gamme della diffìcile e contraddittoria presa di coscienza femminile, nel momento in cui questa Eco costretta alla parola passiva comincia a parlare in proprio. L’autrice analizza la comunicazione uomo-donna come luogo di conflitto e di asimmetria di potere, esemplificando attraverso due testi letterari dell’ottocento (un romanzo di Tolstoj e un racconto di Dostoevskij), due storie rispettivamente di “parole che non servono” e di “silenzio a due voci”. Le analisi specifiche sono collocate nell’ambito di un’ipotesi generale del linguaggio come evento interattivo. La trattazione, pur toccando diversi settori disciplinari, utilizza prevalentemente strumenti della psicologia. A questo uso viene premesso un discorso critico sul rapporto oggetto-metodo nella scienza psicologica. Marina Mizzau insegna psicologia alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Bologna. Dopo la laurea in filosofia si è dedicata per alcuni anni a ricerche di estetica e attività di critica letteraria; successivamente, nel campo della psicologia, si è occupata soprattutto di problemi della comunicazione e dei rapporti interpersonali e, in questo ambito, della specificità della situazione della donna. E autrice, tra l’altro, di due libri: Tecniche narrative e romanzo contemporaneo (Mursia, 1965) e Prospettive della comunicazione interpersonale (IlMulino, 1974).

Lezioni e seminari

Boringhieri

marina mizzau

Eco e Narciso parole e silenzi nel conflitto uomo-donna

© 1979 Editore Boringhieri società per azioni Torino, corso Vittorio Emanuele 86 CL 74-8787-8 Prima edizione 1979 Ristampe 1980, 1981

Indice

Prefazione

1 Sull’oggetto e sul metodo

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SULL’OGGETTO Storie di donne e di parole II conflitto Lo spec­ chio Repressione e consapevolezza: la donna nel romanzo SUL METODO Le mani e gli occhi Generalità e particolarità I possibili­ reali I reali-possibili Testo e pretesto Storie di donne scritte da uomi­ ni La donna come soggetto di conoscenza

2 II detto e il non detto

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Comunicazione e interazione Sul parlare delle donne Dietro il parlare delle donne La comunicazione uomo-donna Livelli di significato Conte­ nuto e relazione Comunicazione disfunzionale Paradosso Regole della relazione

3 Anna Karénina: parole che non servono

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Anna fra represso e consapevolezza Anna e il suo narratore: il femminile e il maschile Tolstoj e la comunicazione Le donne non sanno parla­ re Analisi di due dialoghi Regole del potere e potere delle regole Ri­ chieste e contraddizioni Amore, potere, autonomia Analogie. Nota al diario di Sofija Tolstoj

4 Silenzio a due voci: la Mite

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Dostoevskij psicologo L’enigma II silenzio II sistema Potere e consa­ pevolezza La parola a più voci: un problema stilistico-psicologico

Riferimenti bibliografici

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AVVERTENZA Quando nel corso del testo sono citati libri di cui esiste la traduzione italiana, la data indica l’edizione originale, mentre i numeri di pagina rimandano alla traduzione. (Vedi riferimenti bibliografici alla fine del volume.)

Prefazione

Questo libro è diviso in quattro capitoli: nei primi due, a carattere teorico-metodologico, definisco le ipotesi su cui mi muovo e le categorie interpretative che esemplifico nei due successivi. Il primo capitolo è costituito da due parti. La prima è “sull’ogget­ to”, e in essa introduco il problema teorico, definisco e delimito il campo di analisi, tratto brevemente alcuni problemi collaterali che formano la cornice del discorso. La seconda parte è “sul metodo”, ed è scritta, tra l’altro, per giustificare quello che faccio in seguito, cioè l’uso della letteratura (narrativa) per fare della psicologia dei rapporti umani; ma questo giustificarmi è forse anche un pretesto per parlare della mia insoddisfazione per una scienza che tradisce i suoi fini. Poiché in questa sede ho anche la pretesa di mettere in discussione il rapporto tra l’oggetto e il metodo, ribadendone la reciproca interdi­ pendenza, la distinzione delle due parti è solo per comodità di lettura, e non corrisponde alla separazione dei discorsi. Nel secondo capitolo parlo della comunicazione, dei significati del detto e del non detto, di come il conflitto uomo-donna, e il potere legato ai ruoli sessuali, passi attraverso forme di “disfunzionalità” comunicativa, di come il linguaggio si articoli in modalità che sono causa-effetto di un rapporto di asimmetria contrastato ma non risolto. Presupposto di questo discorso è la parola come evento interattivo, “orientata sull’altro ”, luogo di significati definiti da una contestualità che si caratterizza come incontro e scontro. Nel terzo e quarto capitolo propongo la lettura di due testi: Anna Karénina di Tolstoj e La mite di Dostoevskij. Il primo come caso di

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PREFAZIONE

conflittualità interpersonale riflessa in un linguaggio che si rivela all’estremo dell’ambiguità (disfunzionalità) quotidiana; il secondo come analoga situazione in cui la (non) comunicazione, il silenzio, “l’enigma” fungono da strumenti di potere in un contesto di coppia. In entrambe le storie la donna appare come vittima-agita, ma anche agente: tramite di una consapevolezza che si risolve in fallimento perché intraduci bile, se non obliquamente, nel codice del linguaggio dominante. Parlo dunque di queste due donne e delle loro storie con uomini, e, credo, di molte altre donne (e uomini), del senso del loro parlare e del loro tacere. L’ordine della stesura definitiva di questi capitoli è inverso a quello in cui sono stati scritti inizialmente, e soprattutto pensati. Sono state queste letture di storie romanzesche, prima di altre letture, a farmi pensare, capire, stabilire un contatto tra il dicibile e l”‘indicibile”, tra la mia soggettività e quella altrui, tra il particolare e il generale. I modelli teorici sono venuti dopo, a confermare, a chiarire meglio anche a me stessa, a consentirmi di esprimermi (credo) con maggiore precisione, a comunicare “oggettivamente”. E in conseguenza di questa mia esperienza di procedimento nel conoscere che ho creduto opportuno seguire questo stesso procedi­ mento nel mio lavoro di insegnante di psicologia. Ho svolto alcuni corsi partendo da seminari sui testi qui analizzati e su altri affini. Quanto ho ricevuto dal contributo delle studentesse e degli studenti, dalle discussioni con loro, dall’incoraggiamento dovuto al loro interesse, è forse ciò che più mi ha motivato a scrivere. *

* Li ringrazio tutti, anche se di pochi posso ricordare il nome. Tra i molti validi elaborati, di gruppo e individuali, ricordo quelli di Cristina Cacciati, Veronica Cavicchioni (oggi collaboratrici di ricerche) e Mike Scullin, che per più anni hanno contribuito al funzionamento dei seminari con la loro attiva e intelligente partecipazione. Devo molto a tante donne con cui lavoro e con le quali ho discusso buona parte degli argomenti di questo libro: Raffaella Lamberti e Gianna Pomata, che hanno anche letto criticamente il dattiloscritto; Stefania Stame, Patrizia Brunori, Cristina Robotti, con le quali ho avuto gli scambi più frequenti e utili legati a comuni esperienze didattiche, tante altre da cui ho ricevuto contributi meno definibili ma non meno importanti. Ringrazio Gian Franco Minguzzi con cui ho polemizzato proficuamente. Grazie a Mario Socrate che mi ha tradotto alcuni passi controversi di Tolstoj. Sono particolar­ mente grata a Vanna Gentili che ha letto criticamente una prima stesura del libro e mi ha dato suggerimenti importanti.

Capitolo i

Sull’oggetto e sul metodo

SULL’OGGETTO

La parola diventa teatro della lotta di due intenzioni. Bacbtin

Storie di donne e di parole Due testi costituiscono il pretesto di questo mio scritto: un notissimo romanzo di Tolstoj, Anna Karénina, e un racconto non troppo noto di Dostoevskij, La mite. In queste due storie due donne parlano — o tacciono — come tante altre. Come altre subiscono parole e silenzi e infliggono parole e silenzi. Questo detto e non detto ci è insieme familiare e oscuro, ci turba come tutto ciò che rompe l’ordine del discorso, ma anche ci appare denso di senso. Ci richiama a esperienze note, in qualche modo vissute, e tuttavia ci provoca a conoscere l’ignoto che vi sta dietro, le storie che fanno sì che ciò che è detto venga detto così. Questi scambi comunicativi fanno parte di una situazione interatti­ va, di un contesto che è necessario conoscere per capire i significati più profondi di questi messaggi. Questo contesto è anzitutto definito da un rapporto a due e da una storia di questo rapporto, e all’interno di esso il linguaggio di ciascuno, come il silenzio, è parola a due voci, parola verso l’altra parola, verso il discorso dell’altro, è parola per l’altro ma anche parola contro l’altro. Le storie di questi scambi comunicativi sono infatti situazioni di conflitto, oltre che di amore e di infelicità: fare attenzione a questi messaggi significa cogliere i modi sottili attraverso cui il linguaggio può essere tramite di potere e desiderio, di lotta e di amore, e insieme modo di coprire tutte queste cose. A partire quindi da questi rapporti, e dalla loro storia, i significati sono il risultato di una particolare codifica e decodifica di parole, gesti e silenzi. Le parole denunciano il vuoto, e i silenzi comunicano

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CAPITOLO PRIMO

messaggi intricati. I messaggi espressi ne celano altri, le intenzioni manifeste stanno per altre intenzioni, consapevoli e inconsapevoli. I desideri vanno oltre le richieste, le concessioni sono rifiuti e i rifiuti offerte, le proposte più innocue sono sfide: il non detto prevale sul detto. Queste parole per/contro l’altro sono assunte dall’altro in un complesso equilibrio — o squilibrio — di comprensione e fraintendi­ mento: comprensione sulla base di una complicità che unisce e fraintendimento in funzione di uno scarto che divide e che fa sì che l’irriducibilità permanga, che la differenza sia conflitto. Questa può essere la situazione del rapporto uomo-donna, dove il rapporto di potere, mescolato e confuso con quello affettivo, trova espressione e trasmissione in complesse modalità comunicative, dove, secondo l’espressione di Barthes, si svolge una “scena” sulla quale il linguaggio rappresenta “la sua lunga carriera di cosa agitata e inutile” (1977, p. 243). Questa però è anche la situazione, più diffusa di quanto normal­ mente si pensi, del linguaggio, e metterla a fuoco, sia pure in contesti specifici, ma non certo inconsueti, significa andare a fondo nei risvolti pragmatici della comunicazione in generale e, in particolare, vederne le connessioni puntuali con alcune modalità del potere interpersonale. Mettere in luce le condizioni in cui si verifica, nella comunicazione, una rottura dell’isomorfismo tra espressione linguistica, intenzioni ed effetti significa anche parlare del rapporto tra linguaggio e potere. In queste analisi infatti si esemplifica, attraverso due situazioni interattive particolari che però assumono significati generali, come la comunicazione, nel rapporto uomo-donna, si articoli in modalità che sono sintomo e insieme strumento di ideologia, causa-effetto di un rapporto di dominazione e di un conflitto sul potere. Scelgo come terreno di analisi il microcosmo del rapporto di coppia, ritenendolo il terreno più adatto all’osservazione, poiché in esso la conflittualità si esplica nella compresenza immediata e diretta delle due controparti; ma ritengo anche che questo microcosmo rifletta ciò che in modo meno evidente avviene nel macrocosmo della contrapposizione dei sessi. Penso cioè che all’interno di un rapporto uomo-donna definito da implicazioni di carattere affettivo e sessuale si attui, con analoghe modalità, quello scontro per la definizione dei rapporti che, nel sociale, è scontro tra i sessi per la definizione del reale. La scelta di analizzare la dinamica del conflitto nei rapporti di

SULL’OGGETTO E SUL METODO

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comunicazione interpersonale, in particolare diadica, implica l’inten­ zione di evidenziare la dimensione del potere là dove essa è più coperta, meno esplicita, e si articola quindi in modi più sottili e sofisticati; nella convinzione che, nel rapporto di coppia così come nelle aree più vaste del sociale, “la lotta per l’eguaglianza, per la libertà, per l’identità culturale, implica, per le donne come per tutti i gruppi oppressi, minoritari, emarginati, deviami, la lotta per il diritto all’espressione, alla parola, per il diritto a definirsi, a denominarsi...” (Marina Yaguello, 1978, p. 195). Non credo che ci sia bisogno di giustificare una scelta di questo genere, né di pronunciare i soliti esorcismi per mettersi al riparo dalle critiche di “trascurare gli aspetti economi co-politici del problema”. Continuare a porsi il dilemma se la lotta dei sessi sia riducibile alla lotta di classe (in genere con risposta affermativa) credo risponda a una variazione delle modalità maschili di accantonare la specificità del problema; una prova del fatto che, come osserva anche Luce Irigaray,1 l’uomo riconosce l’esclusione della donna, ma decide lui in cosa consiste tale esclusione. Credo che oggi non si possa più permettere che il richiamo severo ai massimi problemi ci distolga da quello che ritengo un compito molto importante: vedere nel dettaglio la specificità delle articolazioni del potere e del conflitto dando spazio all’analisi dei vissuti soggettivi e intersoggettivi, indicare le connessioni tra i condizionamenti esterni e le responsabilità e connivenze individuali. Con specificità non intendo solo un richiamo all’analiticità descrittiva, ma intendo anche sottolineare (ed è una risposta al quesito cui ho alluso) la peculiarità irriducibile caratterizzante, nella lotta dei sessi, il rapporto che lega le due “controparti”: antagonisti ma insieme legati da un rapporto affettivo naturalmente necessario, il che rende la situazione più complessa, per la compresenza a volte contraddittoria degli elementi politici e personali che si intrecciano, ma anche forse più suscettibile di cambiamento. 2 1 “Il dilemma ‘lotta di classe’ o ‘lotta dei sessi’ mira di nuovo a ridurre la questione dello sfruttamento delle donne, dentro una determinazione del potere di tipo maschile (...) A questo proposito sembra che il rapporto tra il sistema d'oppressione economica tra classi e quello cbe possiamo chiamare patriarcale non sia stato quasi analizzato dialetticamente ma piuttosto, ancora una volta, collocato in una struttura gerarchica” (Irigaray, 1977, pp. 76 sg.). 2 “(...) nel caso del rapporto tra uomo e donna c’è qualcosa di più complicato e insieme di più semplice: la necessità naturale che reciprocamente li unisce e che la storia ha diviso. La sopraffazione dell’uno sull’altro poggia sempre su questa reciproca necessità, che può essere garanzia di un cambiamen­ to” (Franca Ongaro Basaglia, 1978, p. 101).

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CAPITOLO PRIMO

Il conflitto

Attraverso i modi della comunicazione passa il potere legato ai ruoli sessuali, ma anche, sempre attraverso la comunicazione, si articola la conflittualità intorno al potere. Poiché del linguaggio parlerò diffusamente nel capitolo successivo, qui mi soffermo piuttosto sull’altro polo del mio discorso: il rapporto uomo-donna come conflitto. Un’ottica questa, se si vuole, al negativo. Ma non un’ottica negativa, o almeno tale solo se misurata a un’ottica quanto meno distratta dei rapporti umani, che si accorge del conflitto solo quando è scontro diretto, e lo identifica in quanto eccezione che si frappone come ostacolo a rapporti umani astrattamente definiti al positivo, o l’annulla attraverso la cancellazione di uno dei due poli. Il conflitto è interno e come tale riguarda lo scontro tra alterità e dipendenza affettiva, bisogno dell’altro e affermazione dell’autonomia; ed è esterno, interpersonale, è ciò che è sempre stato indicato come “lotta dei sessi”. La conflittualità quindi in parte è legata a fattori esistenziali, forse ineliminabili, ma in buona parte è legata alla dimensione del potere, e in quanto tale viene vissuta in modo diverso dai due sessi e subisce delle modifiche storiche. Sempre legato alla dimensione del potere, è il fatto che la lotta dei sessi è stata, e in parte ancora è, coperta, scarsamente presente alla consapevolezza. (...) ci si deve chiedere perché si verifichi necessariamente tra i sessi una lotta per il potere. In ogni momento il gruppo più forte creerà un’ideologia adatta a mantenere la sua posizione e a rendere questa posizione accettabile al gruppo più debole. In questa ideologia la diversità del più debole sarà interpretata come un’inferiorità, e sarà dimostrato che queste differenze sono immutabili, fondamentali, o volute da Dio. Lo scopo di tale ideologia è quello di negare o nascondere l’esistenza di una lotta. Questa è una delle risposte alla domanda sollevata all’inizio perché si sia così poco consapevoli dell’esistenza di una lotta dei sessi (Karen Horney, 1967, p. 113). La storia del rapporto uomo-donna è storia di modalità del potere (dell’uomo sulla donna), ma anche di tentativi di contrastare questo potere. Storia di sopraffazioni, quindi, ma anche storia di conflitti. I momenti in cui il potere dà luogo a conflitto sono momenti privilegiati rispetto a quelli in cui l’oppressione avviene senza che abbia luogo una reazione. Sono infatti momenti di presa di coscienza da parte della donna. Questi momenti sono sempre esistiti, anche

SULL’OGGETTO E SUL METODO

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prima che una coscienza e un movimento collettivo li rendessero pubblici, e individuarne alcuni, come cercherò di fare, significa anche mettere in luce gli ostacoli interni, conseguenza evidentemente di quelli esterni, che interferiscono con questa presa di coscienza. Penso che una teoria del rapporto amoroso non possa prescindere da questa dimensione del conflitto, strettamente legata alla diversità. Una teoria che non tenga conto di questo non tiene conto di qualcosa che è per definizione inseparabile dal rapporto amoroso, e cioè l’essere questo un evento interattivo. Una teoria che non tiene conto di questo può farlo solo grazie a una scotomizzazione paradossale del punto di vista di una delle due parti del rapporto, la donna. Una teoria siffatta ha per referente solo il maschile, e su questo referente costruisce la definizione del rapporto amoroso, i valori su cui misurare le evoluzioni-involuzioni storiche di questo concetto. Prendo come riferimento esemplificativo il saggio L'amore ,e l’occidente di Denis de Rougemont (1939), libro suggestivo per l’intelligenza con cui vengono demoliti i miti d’oggi, irrisi i luoghi comuni del progresso, neutralizzate le banalità del sociologismo contemporaneo. Che l’amore sia essenzialmente egotismo, amore di sé, e come tale meno interessato all’oggetto che agli ostacoli che lo alimentano; che esso si identifichi in ultima analisi con la ricerca di morte; che le recenti invenzioni (credute tali) romantiche dell’amore-passione non siano altro che il riflesso di questa grande verità scoperta nel Medioevo, e insieme la difesa banalizzante e minimizzante di fronte a questa scoperta, tutto ciò può essere valido anche a prescindere dal contesto mistico su cui de Rougemont innesta le sue analisi. Ma, come emerge dall’acuto saggio introduttivo di Armanda Guiducci, il discorso di de Rougemont è una descrizione al maschile dell’amore al maschile; è un discorso che in ultima analisi ignora il senso dell’amore al femminile. Che il concetto dell’amore abbia subito una degradazione, dal mito ad oggi, sottomettendosi al culto della “spiegazione dal basso”, è un’affermazione che contiene spunti di verità. Ma è un problema, questo, che non tocca la donna, degradata da sempre: allora nel mito, nella stereotipia dell’angelicata-consacrata; oggi nei mass-media, nella dissacrazione del corpo-sesso che altro non è che il rovesciamento del mito. In questa prospettiva mas eh io centrica non c’è spazio per il conflitto, perché il conflitto implica la presenza di due soggetti. Il conflitto nel rapporto amoroso è centrale invece in altri contesti

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CAPITOLO PRIMO

teorici, ad esempio nella prospettiva esistenzialistica. Per Sartre il conflitto è il senso originario deH’“essere-per-altri”, l’amore è il luogo dove più si verifica lo scontro tra due soggettività, ciascuna delle quali vuole essere l’oggetto per cui la libertà dell’altro si aliena.3 Malgrado ciò le differenti posizioni della donna e dell’uomo all’interno del conflitto sono scarsamente evidenziate dall’esistenzia­ lismo, ove si fa riferimento a una struttura ontologica comune ai due sessi. Tanto che si è potuti giungere alle conclusioni che, nella letteratura esistenziale “il problema della coppia (...) è solo uno dei tentativi della coscienza per realizzare il suo ‘essere-per-altri’. L’aliena­ zione tra la donna e l’uomo è il problema dell’alienazione tra tutti gli uomini” (Hélène Nahas, 1957, p. 144). Conclusione affrettata, tratta da un’analisi dei testi che impoverisce la posizione di chi, nel panorama esistenzialista, è su questi problemi l’interlocutrice più attendibile, cioè Simone de Beauvoir. Posizione che voglio richiamare, in questa parte introduttiva, perché mi riconosco in essa — al di là di alcuni aspetti che del resto Simone de Beauvoir ha recentemente riveduto — e che considero valida oggi, anche nella contraddittorietà che non è da “giustificarsi coi tempi” come si suol dire in questi casi, ma tutto sommato da rivendicare come strettamente connessa al suo “andare fino in fondo ad ogni problema esistenziale, non accettare le soluzioni facili, non accontentarsi di risposte comode” (Renate Zahar, 1976, p. 8). Voglio dire che ancora oggi nessuna ha trovato un modo che non sia semplicistico e banalizzante per uscire dalle alternative che si contrappongono via via nell’opera di Simone de Beauvoir. Da una parte vi è in essa il peso della matrice esistenziale, per cui la rinuncia della donna alla trascendenza, all’essenzialità, per un’accettazione dell’immanenza attraverso l’alibi del determinismo, è una “colpa”; l’impietoso distacco con cui certi aspetti del “femminile” vengono messi in luce, che si traduce nel continuo rifiuto della rassegnazione e del vittimismo; la sua insistenza sulla connivenza della donna alla propria oppressione cui fornisce essa stessa alibi agli uomini; una certa 3 “Io esigo che l’altro mi ami e do tutte le mie forze per realizzare il mio progetto: ma se l’altro mi ama, mi delude per questo suo stesso amore: io esigevo da lui di fondare il mio essere come oggetto privilegiato, mantenendosi lui come pura soggettività di fronte a me; e, poiché mi ama, mi sente come soggetto e si sprofonda nella sua oggettività di fronte alla mia soggettività. H problema del mio essere-per-altri rimane quindi senza soluzione...’’ (Sartre, 1943, p. 461).

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tendenza ad assolutizzare il metro della “trascendenza” maschile che sfocia in appelli più o meno emancipazionistici. E dall’altra parte emergono nell’opera di Simone de Beauvoir tendenze contrapponibili alle precedenti: il fastidio per posizioni nominalistiche e moralistiche astratte (“Certo che la donna è come l’uomo un essere umano: ma questa affermazione è astratta; il fatto è che un essere umano concreto ha sempre la sua particolare situazione”, 1949, vol. 1, p. 14); la convizione che, se è vero che la subordinazione della donna fondata su basi biologiche è diventata una realtà che non ha più necessità storica ed è quindi responsabilità della donna “non tornare mai all’essenzia­ le”, è anche vero che i giochi le vengono imposti fin dalla primissima infanzia, quando parlare di “consenso del soggetto”4 non ha molto senso; quanto alla parità, non è sul piano dell’alienazione maschile che va ricercata (si tenga conto del recente parziale recupero che Simone de Beauvoir fa delle “qualità femminili”, storicamente fondate, non tutte riconducibili al concetto negativo di immanenza). E, sempre per quanto riguarda le alternative riferite al discorso del conflitto, che è quello che qui mi interessa, la soluzione ottimistica, la possibilità di stabilire con l’altro un “rapporto di reciprocità”, “il riconoscimento reciproco dell’io e dell’Altro nella più acuta coscienza dell’Altro e dellìo”, l’alterità che resta ma non ha più un “carattere ostile”, non dà più luogo alla “lotta dei sessi” (ivi, voi. 2, p. 150)... Possibilità ottimistica che mi va benissimo come ideale regolativo, ma che non può cancellare la coscienza della sua difficoltà, quasi-impraticabilità, se si tengono presenti altre cose, sempre dette da Simone de Beauvoir. Cioè che, a rafforzare il gioco della disparità del potere imposta dalla norma del vivere sociale, a riprodurre il circolo vizioso in cui la malafede e l’inconsapevolezza si alternano, stanno i comporta­ menti di due individui che sono al tempo stesso “complici e avversari”: da una parte, la diffidenza maschile che sospetta della reciprocità come attentato alla sua superiorità, quando “pretende che la donna faccia onestamente il suo gioco, mentre, con la sua diffidenza, con la sua ostilità, le nega le carte indispensabili”; e dall’altra parte la donna, mentre rivendica la sua autonomia, “sponta­ neamente cerca la salvezza nella via che le è stata imposta, quella della 4 “Ogni volta che la trascendenza ripiomba sull’immanenza c’è uno scadere dell'esistenza nell“in sé’, della libertà nella contingenza; tale caduta è una colpa morale se è accompagnata dal consenso del soggetto; ma se gli è imposta prende l'aspetto di una privazione e di un’oppressione; in ambedue i casi è un male assoluto’’ (ibid., vol. 1, p. 27).

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CAPITOLO PRIMO

passività”: “il circolo vizioso è tanto difficile a spezzare perché i due sessi sono ognuno vittima nello stesso tempo dell’altro e di sé” (ivi, voi. 2, pp. 511 sg.). La donna è complice e avversaria dell’uomo, e di conseguenza anche di sé stessa. Questo rilievo sulla collusività del rapporto di potere tra i sessi è essenziale se si vuole parlare di conflitto con una finalità implicitamente costruttiva e non solo consolatoria.

Lo specchio Per secoli le donne sono state gli specchi magici e deliziosi in cui si rifletteva la figura dell’uomo raddoppiata (...) se la donna comincia a dire la verità, la figura dell’uomo si rimpicciolisce; l’uomo diventa meno adatto alla vita.

Virginia Woolf

E inevitabile, in questo discorso sul conflitto e sull’assenza di conflitto, un accenno al concetto di masochismo e a quello ad esso strettamente collegato di narcisismo. Per Simone de Beauvoir, il “masochismo appare quando l’individuo sceglie di rappresentare soltanto un puro oggetto nella coscienza degli altri, di mostrarsi a sé stesso come cosa, di giocare a essere cosa” (ivi, voi. 2, p. 148). Il masochismo, nella sua accezione di meccanismo di autopunizione, diventa allora assunzione di colpevolezza per questo I farsi oggetto. Delle altre due accezioni freudiane di masochismo, la prima (legame tra dolore e voluttà) non è riferibile alla donna più che all’uomo; la seconda (accettazione femminile della dipendenza eroti­ ca) è per Simone de Beauvoir strettamente collegata al narcisismo: “(...) la fanciulla accetta immaginario il dominio di un semidio, di un eroe, di un maschio; ma è solo un gioco narcisistico” (ivi, voi. 2, p. 147). “Poiché non sono niente, molte donne limitano ferocemente i loro interessi al proprio Io, ipertrofizzandolo in modo da confonderlo col Tutto” (ivi, voi. 2, p. 415). Anche Simone de Beauvoir mette a fuoco solo il narcisismo femminile, senza correlarlo, se non indirettamente con quello, forse diverso, maschile. “La donna è condotta al narcisismo da due strade che convergono. Come soggetto è delusa, da bambina è stata privata di quell’a/r^r ego che è per il maschio un pene; più tardi la sua sensualità aggressiva è rimasta insoddisfatta” (ivi). Poiché ai fini del discorso sulla comunicazione mi interessa cercare un collegamento tra i due narcisismi, mi sembra opportuno vedetele origini del discorso.

SULL’OGGETTO E SUL METODO

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Per Freud la donna è narcisista. La “natura enigmatica della donna”, almeno di quella che corrisponde al “tipo femminile più puro e autentico”, è derivata dal suo narcisismo che “non risulta propizio alla configurazione di un amore d’oggetto vero e proprio con la relativa sopravvalutazione sessuale (...) Queste donne amano, con intensità paragonabile a quella con cui sono amate dagli uomini, soltanto sé stesse. In verità i loro bisogni non le inducono ad amare, ma piuttosto ad essere amate”. A questa donna, chiusa nella sua “autosufficenza”, incapace di amare oggettualmente, narcisista, viene contrapposto invece l’uomo capace di scelta oggettuale: “Il paragone tra l’uomo e la donna rivela poi che nei confronti del tipo di scelta oggettuale esistono fra i due sessi differenze di fondo, ancorché non riscontrabili ovviamente in ogni singolo caso. L’amore d’oggetto che corrisponde pienamente al tipo di scelta oggettuale per appoggio è invero caratteristica tipicamente maschile” (Freud, 1914, pp. 458 sg.). Narcisista non l’uomo quindi, ma la donna. La causa è l’invidia del pene.5 Ma come mai questo uomo capace di amore oggettuale, non narcisista, può amare questa donna chiusa in sé stessa, interessata solo a sé stessa, incapace quindi di desiderio autonomo? Come può farlo se non, malgrado Freud, a causa del suo stesso narcisismo, della sua “autosufficienza” che lo fa disinteressato al desiderio dell’altra, interessato solo all’affermazione del suo Sé attraverso il possesso di, il potere su, un oggetto che non si qualifica come dotato di una soggettività autonoma pensante e desiderante? Non è il narcisismo dell’uomo alle origini del narcisismo della donna; o, non sono quanto meno queste due autosufficienze correlate? Scrive Armanda Guiducci nel già citato saggio introduttivo alV Amore e l'occidente (p. 29): (...) esiste, in effetti, una diversità profonda fra la struttura psichica femminile e la maschile. Quest’ultima risulta strutturata nel senso di una contrapposizione decisa fra io e gli altri-, io e il mondo. Netti sono tutti i confini; l’identità personale, cioè il senso di sé come opposto agli altri, è fortemente rilevata. Si pronuncia qui, a mio avviso, quella dell’egotismo maschile anche nell’amore, che de Rougemont rintraccia ' “Noi attribuiamo il narcisismo in maggiore misura alla femminilità, ed esso influisce tra l’altro sulla scelta oggettuale della donna, così che essere amata è per lei un bisogno più forte di quello di amare. Nella vanità fisica della donna ha la sua parte anche l’effetto della invidia del pene, dal momento che essa deve tanto maggiormente stimare le sue attrattive in quanto tardivo risarcimento per l'originaria inferiorità sessuale’’ (Freud, 1932, p. 531).

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nel cuore di Tristano, e che tanta dolorosa poesia femminile lamen con lancinante chiarezza. La psiche femminile non ha, sembra, confini così netti; il sen: dell’identità personale sembra consistere di tutti i rapporti che donna (in quanto figlia, moglie, madre ecc.) ha, in base al suo ruol con gli altri. La psiche femminile è solamente tutti i suoi rapporti co la certezza femminile, la certezza o stabilità di tutti i suoi rapporti.

Costretta a essere solo identità per gli altri, in termini di ruolo, definirsi nelle aspettative degli altri, la donna ripiega sul proprio amandolo in quanto amato dagli uomini (e non per sé stesso, con vuole Freud). Il narcisismo passivo della donna è l’arma di difesa-atta co contro la disgregazione della propria identità: questo comport mento le è imposto dal narcisismo maschile attivo, inteso con disposizione ad amare le proprie modalità di amare.6 Queste due modalità diverse di narcisismo, per egocentrismo quel] maschile, per eccesso di de centramento quello femminile, sono and alla base della diversità della comunicazione tra i due sessi, diversii che diventa a volte contrapposizione. Nel mito, Narciso ama sé stesso. L’unica cosa che lo attrae è propria immagine riflessa nello stagno, e vi annegherà nel van tentativo di possedere sé stesso. Come nota Juliet Mitchell (1974, ] 35), molti, Freud compreso, tendono a tralasciare la parte che h Eco nel mito. Eco ama Narciso, trasformato in fiore dopo la su morte. Eco, condannata da Giunone, per il suo eccesso di loquacità, parlare solo come replica di un altro, è relegata al silenzio. Non pu parlare autonomamente, e l’unico essere con cui desidera intrecciare discorso (ma può farlo solo come “eco”) è Narciso che ama. M Narciso, che ama solo sé stesso, non le rivolge mai la parola. Entrambi sono condannati all’infrasoggettività muta. Se Nards potesse dimenticare sé stesso e rivolgere la parola a Eco, Eco potrebbe parlare. Ma anche, se Eco potesse parlare di propria iniziativa, fora Narciso potrebbe uscire da sé stesso per risponderle. Parità di responsabilità, circolarità di causa-effetto? Forse sì, anche 6 Esiste anche una versione al positivo del narcisismo femminile, ed è quelli sostenuta da Lou Salomé. Accanto alla prima accezione di narcisismo conx “riferimento della libido a noi stessi’’ sta il narcisismo inteso come “il nostro proprio radicamento nello stato originario” in cui il femminile si riconosce piu che il maschile. In questa seconda accezione il narcisismo non è altro che “il sapere, oscuramente conservato nell’esperienza affettiva, che il più soggettivo io noi è il punto di aggancio con l’oggettivo” (Lou Andreas-Salomé, 1921, pp- 134 e 149).

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se la chiusura egocentrica di Narciso è primaria, mentre Eco, che in origine sapeva parlare di sua iniziativa, per questa sua stessa colpa è condannata alla parola passiva. La donna è muta, condannata al silenzio o a riflettere la parola dell’uomo. A questo problema della (non) comunicazione come potere il problema della (non) identità della donna è strettamente legato. La sirenetta di Andersen, che ama il principe-uomo, dovrà rinunciare per ottenerlo alla sua felice vita del mare, dovrà sacrificare la sua coda, che la fa sé stessa, per rendersi uguale a lui e dovrà soffrire per sempre per questa amputazione. E, ciò che è più importante, il prezzo che la strega chiede per la trasformazione è la voce della sirena. Essa dunque non potrà più parlare, neppure per spiegare al principe dò che ha sacrificato per lui, neppure per spiegare l’equivoco sulla sua identità (cioè di essere lei quella che il principe cerca). Per essere sposata dal principe-uomo, la sirena-donna ha dovuto rinunciare alla sua identità compresa la parola, ma la rinuncia alla parola l’ha resa incapace di far capire all’uomo il significato della sua rinuncia e quindi di essere amata per sé stessa. Questo paradosso ha segnato per molto tempo la situazione della donna. Per molto tempo la donna non ha parlato, e il suo narcisismo secondario, il suo ripiegarsi in sé stessa, ha colluso con quello dell’uomo, ha concorso a creare lo squilibrio di due individualità coesistenti-separate. La rinuncia al narcisismo e la rottura del narcisismo dell’altro, per il recupero dell’amore oggettuale, dell’amore di relazione, è inevitabil­ mente, almeno per la donna, il conflitto. Ma il conflitto, perché possa spostare l’equilibrio del rapporto di potere, richiede una ristrutturazione della modalità di comunicare, è quindi anche conflitto su chi ha il diritto alla parola, o a non farsi sottrarre il diritto alla parola; è conflitto sulle regole del conflitto stesso. La sirena deve ritrovare la sua voce, Eco deve imparare a non essere più eco, a parlare di sua iniziativa. Dopo, forse, Eco potrà parlare anche a Narciso. Che poi Narciso da parte sua riesca a distrarsi da sé stesso e a parlare all’altra, è cosa che riguarda Narciso.

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Repressione e consapevolezza: la donna nel romanzo Desideravate guardare la vita coi vostri occhi ma non vi fi dato: foste punita per questo desiderio; proprio nell’abisso de, convenzionale vi hanno gettato. //. James, Ritratto di signora

Nel romanzo dell’ottocento le donne cominciano a parlare con voci diverse, voci attraverso cui trapela il conflitto e riemerge, a diversi livelli di lucidità, il represso. Il ritorno del represso è, secondo Francesco Orlando, una costante della letteratura. Per “ritorno del represso” si intende l’emergere, nell’opera letteraria, di “contenuti censurati da una repressione sessuale” e quindi “di contenuti censurati da una repressione ideologi co-politica”7 dove si intende che una repressione del primo tipo è anche una repressione del secondo tipo. Rispetto ai contenuti dei romanzi dell’ottocento mi sembra allora che esistano ricorrenze abbastanza costanti da permettere una generalizzazione, e cioè che l’istanza eversiva, la funzione di far riemergere il represso, è quasi sempre affidata alle donne. Nella sua posizione di emarginata, “la donna è, in questo assetto patriarcale, l’area depressa e conseguentemente il punto su cui lo scrittore fa perno per ridescrivere la realtà” (Nadia Fusini, 1974, p. 9). Anna Karénina e la “Mite”, così come Emma Bovary, madame de Renal e Mathilde di II rosso e il nero, Effi Briest del romanzo omonimo di Fontane, Isabel di Ritratto di signora di James, e tante altre, mettono in discussione l’ordine costituito, sempre però nell’ambito del privato, della famiglia, della morale sessuale. Ad esso contrappongono a volte un’alternativa — al matrimonio l’adulterio, al marito un altro uomo — che in ultima analisi non si rivela tale. Il conflitto, interno-esterno, riflette l’opposizione romantica tra esigenze individualistiche e costrizione dell’istituzione, tra desiderio e norma sociale. Rappresentanti di una borghesia in cui la funzione tradizionale 7 II rapporto tra represso e ciò che del represso emerge, il grado cioè di derepressione, si articola in modo diverso nella serie dei contenuti dell’opera letteraria, a secondo che esso sia: A, inconscio, B, conscio ma non accettato,C, accettato ma non propugnato, D, propugnato ma non autorizzato, E, autorizza­ to solo in alcuni codici di comportamento. Ad esempio il romanzo dell’Ottocento ricadrebbe nella situazione C: “Le poetiche del cosiddetto romanticismo sembrano spesso comportare la scelta individualistica in un ritorno del represso accettato ma non propugnato” (Orlando, 1973, p. 86).

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della donna, nel senso di figura produttiva attiva in seno alla famiglia, comincia a svuotarsi di contenuti e di significati, queste donne, cui sarebbe irrealistico affidare una consapevolezza della natura politica della propria oppressione, si ribellano tuttavia ad essa circoscrivendo l’attacco a ciò che più direttamente la personifica. Tanto più la famiglia, il matrimonio, diventano luoghi consacrati degli affetti, tanto più diventa impossibile eludere la verifica diretta di un rapporto che, non trovando più solo nella istituzione la sua ragione d’essere, deve cercarla nel confronto — che diventa scontro — dei due individui coinvolti nel rapposto stesso. “In questo senso l’uomo diventa bersaglio inevitabile della sua [della donna] aggressione, segno di un’impotenza che non trova modo di esprimersi se non attaccando ciò che, volontariamente o involontariamente, rappresenta ai suoi occhi la realtà e il potere (trait d'union concreto con la realtà e il potere)” (Franca Ongaro Basaglia, 1978, p. 93). Da queste lotte le donne, in questi romanzi scritti da uomini, a parte casi rarissimi, escono sconfitte: ad esse tocca una fine drammatica, generalmente autopunitiva, che segna non tanto l’esito del conflitto esterno quanto la conclusione interna dell’impossibilità di una via d’uscita. (Un altro ordine di spiegazione, concernente l’autore, l’ha fornita Orlando utilizzando l’ipotesi freudiana della negazione: il represso può riemergere nell’opera letteraria a patto che questo ritorno venga anche negato da elementi suggeriti nell’opera stessa.) Ciò che mi interessa mettere in rilievo è che i personaggi femminili del romanzo dell’ottocento non solo cercano una via d’uscita, inevitabilmente inadeguata e quindi destinata al fallimento, alla situazione di emarginazione e soggezione, ma la cercano cambiando, rispetto a epoche precedenti in cui, paradossalmente, il non potere delle donne è il loro potere, gli obiettivi e i modi di difendersi e di affermarsi. Rinunciando cioè ad usare le armi tipiche della donna, armi che possono fare vincere battaglie ma non guerre, che possono far raggiungere obiettivi particolari ma non mutare le condizioni generali, per tentare un confronto con l’uomo sul suo stesso terreno. Facendo questo confronto penso alle figure femminili del romanzo del Settecento; emblematici i personaggi delle Amicizie pericolose (1782) di Laclos, in particolare la “diabolica” marchesa di Merteuil, simbolo di astuzia e perfidia femminile, nelle intenzioni dichiarate dell’autore, per noi segno di una singolare commistione tra consapevo­ lezza e cecità. La storia della sua formazione di donna è la storia di

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chi, consapevole fino in fondo della repressione, l’utilizza anziché combatterla, ne sfrutta le regole per volgerle a proprio vantaggio. Vale la pena di citare alcuni punti salienti di questa storia paradigmatica narrata nella famosa lettera autobiografica (lettera 81). In essa la protagonista narra di come ha acquisito l’arte di dissimulare ciò che apprende di pari passo al suo apprendere: “Mentre gli altri mi credevano stordita e distratta, io, ascoltando ben poco i discorsi che tutti si sentivano in dovere di farmi, raccoglievo con cura quelli che cercavano di nascondermi. Quest’utile curiosità servì insieme ad istruirmi e ad insegnarmi l’arte di dissimulare (...).” Il controllo delle espressioni e delle parole, come dei sentimenti servirà a garantirle la proprietà assoluta del pensiero: “(...) a partire da quel momento il mio pensiero fu cosa veramente mia e di quel che pensavo mostravo solo quel che mi interessava mostrare (...)”. La cultura verrà assimilata per imparare ciò che si dovrà far finta di non sapere: “Affinai il mio spirito investigativo con letture (...) e giunsi a capire quel che si può fare, quel che si deve pensare e quel che bisogna parere.” 11 resto è racconto delle tecniche di seduzione e insieme delle tecniche per nascondere queste azioni, del “come togliere alle mie avventure quel carattere di verosimiglianza in base alle quali di solito si giudicano le azioni”, del continuo giocare su due piani, quello di un’apparenza virtuosa e quello di una realtà peccaminosa e dissoluta (così non può che giudicarla l’autore, succubo a sua volta, almeno esteriormente, alle convenienze dell’epoca, che per la stessa ragione farà fare alla protagonista una fine orrenda, come d’uso in questi casi). Questo emblematico personaggio gestisce la lotta dei sessi con la profonda convinzione che i presupposti della lotta stessa non possono essere rimossi, e che le uniche possibilità di vittoria per una donna consistono nel far leva proprio su quelle istanze della norma sociale che le vuole perdenti: l’inferiorità intellettuale, l’irresponsabilità, le virtù passive, trasformandole attraverso l’astuzia in arte del sedurre. Correlato psicologico di questo atteggiamento non può essere che quel narcisismo che Freud vede caratterizzante il comportamento amoroso della donna. L’amore di sé, del proprio corpo, la rinuncia all’amore oggettuale, è l’unica condizione per un’autonomia che è anche proposito di vendetta. L’“enigma della femminilità” è una costruzione di difesa ma anche un’arma vincente in un contesto che però dà per scontata l’assenza di ogni possibile relazione di trasparenza (ancor meno pensabile, di parità). Che cosa avviene quando la donna protagonista del romanzo passa

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da una consapevolezza della propria situazione, che però ha come sbocco solo la rinuncia o la trasgressione cinica, a un altro tipo di consapevolezza, che in qualche modo tende a una modifica dei presupposti stessi che regolano la diseguaglianza dei sessi? Avviene ciò che avviene nella realtà in un’epoca in cui la donna comincia a domandarsi “cosa sia questo rapporto che resiste solo finché lei non esiste” (Franca Ongaro Basaglia, p. 100). La dialettica dell’ostacolo, teorizzazione al maschile dell’amore, il gioco collusivo dell’astuzia femminile che si sottrae fittiziamente all’altro per dominarlo, cede gradualmente il posto al non più fittizio conflitto tra i sessi. Coesistono queste due concezioni della dinamica amorosa in Stendhal: il concetto di “cristallizzazione”, definito nel trattato Dell’amore come il momento chiave in cui, attraverso l’ostacolo e il dubbio, l’altro-pretesto d’amore acquista per il soggetto caratteristiche di perfezione, è indubbiamente consonante alla defini­ zione egotistica dell’amore. Tuttavia nel romanzo II rosso e il nero (1838) assistiamo a un cambiamento fondamentale. Nella storia del rapporto tra Julien e Mathilde, Stendhal curiosamente attribuisce al personaggio femminile le stesse modalità di comportamento maschili — lo stesso tipo di narcisismo — teorizzate nel trattato, e questo fa sì che la lotta tra i sessi si sposti dal piano coperto della diseguaglianza sancita a quello scoperto della simmetria competitiva. La storia di questi due personaggi è la storia di uno scontro di relazione che si riproduce secondo uno schema ricorrente: i momenti di massimo coinvolgimento di uno dei due coincidono con l’indifferenza e l’ostilità dell’altro; né 1’una né l’altro possono concedersi di amare apertamente, pena la perdita della posizione di potere; le punte più alte dell’innamoramento non sono che il seguito o il preludio di una separazione. Il conflitto non lascia spazi, è l’ambito stesso dell’amore, si identifica in esso. E in questo conflitto, naturalmente, Mathilde, come le altre donne del romanzo dell’ottocento, è destinata a perdere. Verrà abbandonata, non solo dal protagonista, ma anche dall’autore, solidale con lui, che le preferirà alla fine madame de Renai, concedendo a questa il vantaggio, sia pur modesto, di morire con Julien. Il rapporto paritario con Mathilde, realisticamente descritto come illusorio, viene alla fine ideologicamente condannato come ingiusto. Il narcisismo di Julien viene confermato e gratificato nella nobiltà della sua morte; il narcisismo di Mathilde, che non può usufruire della morte propria ma solo può godere degli onori riflessi della morte dell’amante, è oggetto della benevola ironia dell’autore.

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Altri personaggi femminili del romanzo dell’ottocento possono essere visti emblematicamente come momenti di una presa di coscienza di cui rappresentano sfumature diverse e diversamente articolate. Dalla ribellione quasi senza consapevolezza di madame Bovary l’aggettivo derivato dal suo nome sta a indicare insoddisfazione, bisogno confuso e inadeguatamente appagato di evasione e ha quasi sempre una connotazione negativa — alla rassegnazione senza ribelli^ ne di alcuni personaggi di Maupassant: Jeanne, di Una vita (1883), che percorre senza ribellarsi le tappe di una infelicità che progressivamente gli uomini — padre, marito, figlio — le costruiscono attorno, per trovare, al fondo della disperazione e della disgregazione mentale, una tenue felicità quando tutti gli uomini saranno scomparsi dalla sua vita per lasciare spazio a una nascente solidarietà tra donne. A un altro suo personaggio, la protagonista di Mont-Oriol (1887), Maupassant affida una più analitica coscienza dell’infelicità subita per causa degli uomini, così come la scoperta della differenza, del profondo divario di significato che assumono le stesse esperienze per l’uomo e per la donna, e che rincontro amoroso non annulla, ma se mai esaspera. L’irriducibilità di questa differenza, della distanza tra l’immaginario femminile e quello maschile, segna anche la presa di coscienza di Berta Garland, la protagonista di un romanzo di Schnitzler (ma siamo già nel 1900). La consapevolezza si manifesta attraverso sfumature complesse, ma non per questo risulta meno perdente, nei personaggi femminili di molti romanzi russi, evocatori di un represso che emerge conflittual­ mente e spesso tragicamente: emblematica Nastasia Filippovna dell’Idiota (1868), che ha accettato la sua devianza con orgoglio (consapevole forse delle cause storiche della sua situazione che la rendono “innocente”) traducendola in disprezzo verso le norme sociali che ha calpestato; e tuttavia è vittima dell’adesione interna, prima ancora che dell’imposizione esterna, a queste stesse norme, adesione che non le permette di accettare le proposte di “salvezza” del principe. La sua “follia”, prima ancora che la sua uccisione, è il risultato di un conflitto insolubile fra trasgressione oggettiva e soggettiva della norma, e impossibilità di inserire questo atteggiamento di trasgressione in un contesto ideologico che lo faccia diventare valore. Qual era, del resto, in Russia come altrove, il contesto ideologico in cui la ribellione individuale della donna avrebbe potuto trovare un

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consenso? Attraverso i romanzi le voci della coscienza femminista trapelano nel sottofondo, filtrate dal distacco e dall’ironia degli autori; raramente prendono corpo e dignità di protagoniste, e spesso solo per essere oggetto di condanna e satira violenta. E il caso di un romanzo di James, l bostoniani (1886), in cui però, malgrado l’autore e il suo violento antifemminismo — che la tecnica del punto di vista circoscritto al personaggio maschile non basta a ricoprire — la lotta dei sessi si manifesta radicale, priva di compromesso, priva di scampo. Non si tratta più qui di conflitto tra istituzione repressiva e desiderio deviante, che in altri romanzi si intreccia e in qualche modo rende meno lineare il conflitto uomo-donna. Nella più giovane protagonista il conflitto è decisamente tra l’esistere come persona che si realizza in un “impegno” ideologico (denigrato fin che si vuole dall’autore che lo riduce a effetto di plagio, ma dò non ci interessa) e l’amore per un uomo che afferma il suo potere sulla donna sottraendola non solo agli altri, ma, soprattutto alle sue idee. Sceglierà l’uomo, e che la scelta sia in realtà una sconfitta dolorosa l’autore, nella sua sorprendente ambiguità, ce lo fa capire chiaramente nelle righe finali. Per restare a James, la storia del ritorno del represso sembra giungere a una prima, paradossale conclusione nella protagonista di Ritratto di signora (1881), il cui percorso, in certo senso inverso a quello precedentemente indicato, culmina nella lucida, consapevole scelta della repressione. Di cosa muore — psichicamente — Isabel, questa giovane donna “ricca di immaginazione”? La risposta alla domanda non consente semplificazioni manichee, non permette di sottrarsi all’individuazione di una connivenza della donna nell’opera di annientamento. Certo, Isabel muore dell’inganno dell’uomo, dell’inganno di un’altra donna a sua volta vittima dell’uo­ mo, della società che le restringe inesorabilmente quella libertà di vita che aveva progettato. Ma Isabel muore anche dell’inganno fatto a sé stessa della propria immaginazione, immaginazione che ha escogitato, per dare il meglio di sé, di farle investire sull’uomo peggiore le qualità migliori; della trappola del femminile, che, malgrado tutto, ha costretto questa immaginazione a selezionare nella direzione della dedizione all’uomo; dell’introiezione dei falsi valori della società che accetta per le stesse ragioni per cui aveva scelto di contrastarli; di una fedeltà a sé stessa che alla fine assume la forma perversa della fedeltà al tradimento di sé stessa, di una negazione della sessualità della quale il silenzio dell’autore parla. Muore di masochismo, se vogliamo a tutti i costi sintetizzare in questa dubbia diagnosi che ritorna spesso a proposito di queste donne e della loro fine auto punitiva. /

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Le quali però insegnano anche che il masochismo non è un male primario, un amore di sofferenza insito della natura femminile, ma piuttosto il risultato di un complesso processo in cui l’intersoggettività gioca come momento di mediazione tra l’esterno e l’interno. Queste fini autopunitive sono a volte il segno di un limite nella presa di coscienza, ma a volte anche dell’impossibilità di andare oltre alla realizzata consapevolezza. E il caso di Anna Karénina, che porta avanti il più possibile l’istanza eversiva, ma solo per verificare l’impossibilità di realizzarla nell’assoluta assenza di rispondenza dell’ambiente. E ciò vale anche per la “Mite” ambiguo personaggio dostoevskijano dalla cui storia la consapevolezza emerge paradossalmente attraverso l’enigma e il silenzio. Una consapevolezza diversa dalla situazione della donna comincia quindi a delinearsi con i personaggi femminili del romanzo dell’Otto­ cento. Questa consapevolezza si fa strada faticosamente, attraverso il confronto e lo scontro verbale con l’uomo, attraverso la parola, la parola che di volta in volta assume le forme dell’opposizione diretta, del rifiuto, del disprezzo e della rivendicazione confusa, dell’ironia e della richiesta ambigua, che sconfina nel silenzio denso di significati. E una parola che non sta più al gioco: al gioco del consenso e della dissimulazione, della sottile arte dell’inganno e della manipolazione occulta, della seduzione, del falso potere. Questo continuum parolasilenzio che ricopre le gamme della ribellione femminile, nel momento in cui questa Eco condannata al silenzio o alla parola passiva comincia a parlare in proprio, iniziando un processo che non è ancora terminato, è l’oggetto della mia ricerca. SUL METODO Un seul petit fait, s’il est bien choisi, ne suffit-il pas à l’expérimentateur pour decider d’une loi générale qui fera connaitre la vérité sur des milliers de faits analogues? Proust

La seconda parte del mio lavoro verte, come ho detto, sull’analisi di due casi letterari. Userò queste due storie per argomentare quello che voglio dire. Prenderò in considerazione due eventi “finti” e “particola­ ri” per dimostrare — convincere di, esprimere — una qualche “verità generale”. Questa operazione si presta a un’infinità di obiezioni, obiezioni relative alla non verificabilità e non generalizzabilità dei dati presi in

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considerazione, da una parte; dall’altra, obiezioni all’approccio conte­ nutistico dell’opera letteraria. Provo ad anticiparne alcune e a rispondere ad esse, e altre ne affronterò quando se ne presenterà l’occasione; anche se sono convinta che un’eventuale risposta soddisfa­ cente può derivare solo dalle analisi compiute, e non dall’argomenta­ zione a priori. Poiché questo mio lavoro, se deve essere collocato in una qualche area disciplinare, è da considerarsi uno studio di psicologia, ritengo di dover dare maggior spazio alle possibili obiezioni provenienti da psicologi. Parto quindi da questa: la mia ricerca utilizza concetti e categorie interpretative ricavate da modelli o teorie psicologiche. Perché non ricorrere allora a un approccio sperimentale che fornisca dati quantitativamente significativi? Oppure, perché non battere la strada della cosiddetta “psicologia clinica”, lavorando su materiale “reale”?

Le mani e gli occhi Se un cieco mi chiedesse: “Hai due mani? non me ne accerterei guardandomi le mani. Sì, non so perché, se mai ne dubitassi, dovrei credere ai miei occhi. Infatti, perché non debbo mettere alla prova i miei occhi guardando se vedo tutte e due le mie mani? Che cosa si deve controllare, e con quale mezzo? (Chi decide su che cosa sia assodato? )

Wittgenstein

Giustificare l’uso del caso letterario per fare della psicologia significa per me anzitutto accennare alle ragioni di insoddisfazione per buona parte della scienza psicologica ufficiale. Cercare conoscenza nel romanzo è infatti sintomatico di sfiducia nei procedimenti euristici della psicologia sperimentale e nello stesso tempo comporta un accreditare il senso comune, sia pure nelle sue forme più qualificate, come fonte di conoscenza valida. La valorizzazione del senso comune del resto non è una novità neanche da parte degli psicologi. La più organica rivalutazione di esso è quella fornita da Heider nella sua teorizzazione della “psicologia ingenua”, che consiste “nei princìpi inespressi che utilizziamo per rappresentarci l’ambiente sociale attorno a noi e che guidano le nostre reazioni nei suoi confronti” (1958, p. 12). Casi privilegiati di questa psicologia ingenua sono “le intuizioni sui rapporti interpersonali contenute nelle fiabe, nei romanzi e in altre forme letterarie” (ivi, p. 14) e ciò esprime la convinzione di altri psicologi, tra cui Lewin (1936, pp. 13 sg.):

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Le descrizioni più complete e concrete delle situazioni sono quelle che ci sono state date da scrittori come Dostoevskij. Tali descrizioni hanno raggiunto ciò che le caratterizzazioni statistiche non sono riuscite a dare, cioè un quadro da cui risultino in modo preciso j rapporti tra i vari elementi dell’ambiente individuale e tra questi e l’individuo stesso (...) Ma non intendo tanto sostenere la validità del senso comune in se — problema questo quanto mai complesso e che richiederebbe un discorso ben più articolato — quanto mettere a confronto In squalificazione sistematica che viene fatta del senso comune con la sopravvalutazione del valore euristico del “metodo scientifico”. La diffidenza della psicologia ufficiale nei confronti del senso comune è infatti oggi controbilanciata da alcune operazioni di recupero di esso, basate sul sospetto, in molti casi suffragato da prove, che ciò che si va “scoprendo” con metodo scientifico è già risaputo dall’“uomo della strada”. C’è di più: ci si va accorgendo che, per quanto riguarda le scoperte che differiscono dalle opinioni del senso comune, ci sono molte ragioni per ritenere che non siano valide in quanto falsate dal metodo stesso di scoperta; mentre fino ad ora erano state considerate valide, tautologicamente, proprio in virtù del valore euristico indiscutibile conferito al metodo.8 La questione del senso comune è quindi strettamente collegata a quella del metodo, e il deprezzamento del senso comune è in buona parte collegato a quello che è da considerarsi il vizio capitale della psicologia accademica, la svalutazione dell'oggetto a favore del primato del metodo. La devozione per il “rigore metodologico” definito univocamente e finalizzato a sé stesso fa perdere di vista il contenuto e la finalità della ricerca. L’oggetto finisce per essere sacrificato al metodo attraverso modalità diverse: viene impoverito più o meno radicalmente, per adattarlo agli strumenti di indagine; a volte questo impoverimento diventa contraffazione, sostituzione dell’oggetto di ricerca con qual­ cos’altro che, con un’operazione concettuale del tutto arbitraria, viene a stare per esso; in altri casi sfocia in una rinuncia che riguarda B “(...) è troppo comodo presumere che, quando le conclusioni dello psicologo vanno contro il senso comune, siano le conclusioni dello psicologo ad essere esatte e il senso comune ad avere torto, ed è, tutto considerato, troppo comodo presumere che, quando le conclusioni dello psicologo si accordano col senso comune, ciò che prima era soltanto una congettura diventi verità stabilita o attendibile” (R. B. Joynson, 1974, pp. 26 sg.).

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soprattutto gli oggetti complessi della psicologia e che prelude a una puntigliosa segmentazione dell’oggetto di analisi, di cui si perde il senso più generale; a volte dà luogo a una laboriosa ricerca dell’ovvio. Nell’affannosa elaborazione di strumenti di misurazione, si dimentica che il problema non è solo come, ma soprattutto cosa misuriamo: il metodo diventa il letto di Procuste dell’oggetto, il dito sostituisce la luna.9 Si tratta della ripresa di una vecchia polemica. Già nel 1929 Politzer denunciava l’insoddisfazione da parte di molti psicologi nei confronti dell’astrattezza della psicologia classica, responsabile di avere “disconosciuto l’unità e la totalità della persona; di essersi accontentata della combinazione di elementi che sono al di fuori del significato; di avere realizzato esperimenti troppo astratti, concernenti esclusivamente problemi funzionali, che è molto difficile, se non impossibile, integrare nella vita reale della persona”; e individuava come una delle cause la sopravvalutazione del metodo rispetto all’oggetto: “Non si è mai abbastanza soddisfatti degli accorgimenti presi e degli strumenti impiegati; soltanto di una cosa si è compietamente soddisfatti: si tratta proprio di quello che è assolutamente insufficiente, cioè il modo in cui è concepito l’oggetto dell’esperimen­ to” (pp. 75 e 111). E tuttavia a cinquantanni di distanza, e malgrado la ripresa della polemica sullo sperimentalismo, continuano a proliferare esperimenti di laboratorio, o ricerche strutturate su questionari, in cui appare evidente la scotomizzazione delle “condizioni interne”, delle variabili soggettive, in nome di quello che Holzkamp chiama il “concetto nomotetico di soggetto sperimentale”, entità astratta, che si comporta come “organismo”, al di là dei condizionamenti contestuali che invece operano nella sua realtà quotidiana. La semplificazione delle condizio­ ni, dette “di disturbo”, cui si fa ricorso per formulare delle leggi psicologiche, sembra condurre a delle generalità che non riguardano nessuno. Naturalmente il discorso non vale per tutti i settori della psicologia, ma ciò che è criticabile è proprio la trasposizione di un metodo, valido per alcuni oggetti, ad altri oggetti: un metodo che ha ottenuto buoni risultati nello studio della percezione, trasportato in altri settori, quelli ad esempio delle relazioni interpersonali, può non solo non essere * "Quando un dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito” (proverbio cinese).

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euristico, ma addirittura fuorviarne. Il fatto di trasporlo, perché né primo caso si è rivelato funzionante, è sensato quanto utilizzare m canocchiale per guardare i microbi, dal momento che serve per stelle. Generalità e particolarità Fintantoché seguiamo lo sviluppo del caso a ritroso, a partire dal suo esito finale, la catena degli eventi ci appare continua e pensiamo di avere raggiunto una visione delle cose del tutte soddisfacente e fors’anche completa. Ma se percorriamo la vii opposta, se partiamo dalle premesse a cui siamo risaliti mediante le analisi, e cerchiamo di seguirle Tino al risultato l’impressione di una concatenazione necessaria e non altrimenti determinabile viene completamente meno. Ci accorgiamo immediatamente che l’esito avrebbe potuto essere diverso e che questo diverso esito avremmo potuto capirlo e spiegarlo altrettanto bene. La sintesi non è dunque altrettanto soddisfa cente dell’analisi; in altre parole, la conoscenza delle premesse non ci permetterebbe di prevedere la natura del risultato. Freud (1920)

Scendendo nello specifico di certi oggetti complessi della psicoio * già, Famore, il conflitto, il potere, le relazioni interpersonali in genere, si constata che le “leggi” scoperte da certe ricerche sperimentali hanno, al massimo, valore di generalizzazioni tanto ovvie quanto suscettibili di eccezioni. Alcune ricerche sociometriche ci informano che, secondo l’ipotesi della congruenza, esiste una correlazione tra attrazione e somiglianza, e infatti dice il proverbio che “il simile ama il suo simile”; e tuttavia l’opposta opinione del senso comune, “gli opposti si attraggono” è anch’essa avvallata dalle stesse ricerche sociometriche (magari come “eccezione” all’altra regola; anche il fatto che “ogni regola ha un’eccezione” è patrimonio del senso comune). A questo punto ci si può chiedere qual è il valore esplicativo e predittivo che si può dare a una “legge” di questo genere, una volta che se ne cerchi un’estensione al di là della situazione di laboratorio. Per cercare di prevedere il comportamento di un individuo per quanto riguarda le sue scelte affettive, per decidere se ha più probabilità di ricadere nell’una o nell’altra delle due generalizzazioni, bisognerà andare alla ricerca di tutta una serie di informazioni: relative alle sue esperienze precedenti, al valore positivo o negativo che attribuisce ad esse, al suo modo di reagire alle esperienze passate (reagisce alla frustrazione in modo stereotipato-perseverante, o adattativo? ); relati­

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ve ai valori dell’universo culturale cui appartiene e al suo modo di rispondere ad essi; relative al settore in cui colloca la sua scelta (lavoro, amicizia, relazioni amorose). Naturalmente si potrebbe continuare all’infinito in ipotesi e sottoipotesi. Tutte queste informa­ zioni comunque d possono al massimo condurre a delle sottogenera­ lizzazioni solo relative, probabilistiche, che non consentono una previsione. Non sto sottoscrivendo la teoria spiritualistica dell’inconosdbilità e ineffabilità dell’animo umano, ma molto più semplicemente ribadisco la praticamente inesauribile ampiezza delle componenti che entrano nel gioco della formula lewiniana C=f(PA), uno dei soliti modi pretenziosi pseudosdentifid per dire null’altro che il comporta­ mento individuale ha a che fare sia con la persona (?) sia con l’ambiente. Dal punto di vista della psicologia sperimentale penso che sia un falso problema chiedersi se questa impossibilità sia anche teorica oltre che pratica, e che d si possa rispondere, con Weber (1922, p. 225):

Il modo in cui afferro e agito il bossolo dei dadi, prima di gettarli, è una componente assolutamente determinante per il numero in concreto che io getto — ma non c’è alcuna possibilità, nonostante ogni fede superstiziosa intorno ai “dadi”, di pensare anche soltanto una proposizione empirica la quale asserisca che un determinato modo di eseguire il landò “sia appropriato” a favorire un determinato numero.

Del resto alcuni psicologi, tra cui lo stesso Lewin, non accettano il modello di legge probabilistica, e affermano che la psicologia deve aspirare alla “legge senza eccezioni”, modello che si avvicina di più a quello nomo logico deduttivo. Una legge senza eccezioni è una legge che contiene tutte le specificazioni per comprendere (spiegare, descrivere) l’evento; che, alternativamente o insieme, aggiusta l’ogget­ to o le specificazioni, in modo da fornire, per un evento, una spiegazione che non lasda residui, non lasda doè spazio alle eccezioni. Ma, proprio facendo riferimento all’esempio dtato, nasce il dubbio che questa legge, che tanto è più ricca di connotazione (intensione) tanto è più povera di denotazione (estensione), finisca per essere una “legge ” caso singolo. E ciò urta con l’affermazione che la ricerca sdentifica non si interessa degli eventi particolari, ma solo degli eventi che possono essere osservati ripetutamente. In altre parole, il comportamento di x è così so vrade termi nato che la spiegazione del comportamento di x finisce per coinddere con la descrizione della storia di x, e l’eventualità che una generalizzazione tratta dalla storia

CAPITOLO PRIMO

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di x abbia potere di previsione anche per y ha sempre un valore £))] Questa prospettiva riguarda le congetture dell’uomo su come lei pensa che lui la veda. Mi sembra che rientri in questa prospettiva il citato episodio della rivoltella: Quando io, avendo incontrato il suo sguardo e avendo sentito il revolver contro la mia tempia, avevo a un tratto chiuso gli occhi e non mi ero più mosso, come se dormissi profondamente, essa aveva senz’altro potuto pensare che io dormivo davvero e non avevo visto nulla, tanto più che era assolutamente inverosimile che io — avendo visto tutto quello che avevo visto — richiudessi poi gli occhi in un tale istante. Sì, era inverosimile. Ma lei tuttavia avrebbe potuto anche indovinare la verità!

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CAPITOLO QUARTO

L’uomo si chiede se la donna ha capito che lui ha percepito le intenzioni omicide di lei e fa due supposizioni opposte. 5.2 P -+ [D *- (P *- P)] Riguarda le congetture dell’uomo su come lei pensa che egli veda sé stesso. Non mi sembra che ci siano passi espliciti che esemplifichino questa prospettiva. Essa però è implicita nel senso che P ha come punto di riferimento del suo “progettò” un’immagine di come la donna pensa che lui giudichi sé stesso, che coinciderebbe con quella che lei ha di lui (4.1); mentre lo scopo di lui è quello di fare mutare questa immagine facendola coincidere con quella che lui ha di sé stesso (3.1). La serie dei passaggi riscontrabili nei vari punti del racconto potrebbe essere schematizzata così :

Per semplificare non abbiamo completato la serie dei passaggi che inizia con la prospettiva diretta dell’autore sulla donna, prospettiva che abbiamo indicato come solo ipotetica. Sempre per semplificare si sono presi in considerazione solo gli esponenti principali, trascurando altre prospettive concernenti perso­ naggi secondari, ad esempio le zie, la donna di servizio Lukere’ja, gli ufficiali dell’esercito ecc. C’è anche da tener conto, come si diceva inizialmente, di un’altra catena di prospettive possibili, anche se di ordine logico diverso: quella che riguarda il rapporto che P cerca di instaurare con l’“altro generalizzato”, con l’interlocutore immaginario, col lettore ipotetico di questo diario. Rapporto collusivo, simile, ma non identico, a quello che cerca di instaurare con la moglie, e questa immagine naturalmente non si identifica con quella che il lettore ha effettivamente di lui. Questo sforzo di dare a L un’immagine di sé — P-* (£-► P) — implica un’immagine che P ha di L. Si ritornerebbe quindi da P ad L, il che darebbe allo schema un carattere di circolarità. Naturalmente l’identificazione tra L,'= lettore ipotetico, interlocutore ideale del

SILENZIO A DUE VOCI: LA MITE

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protagonista e L" = lettore-noi, lettore empirico o funzione-destinata­ rio, è arbitraria e vale solo a livello logico. Questo schema ha solo la funzione di formalizzare e quindi chiarire il problema delle inferenze nell’ambito di un contesto narrativo, non certo di risolverlo. Ritengo che possa essere usato per mettere a fuoco di volta in volta i momenti di incertezza circa i livelli di conoscenza, per avvertirci delle eventuali indecidibilità delle inferenze che andiamo facendo, per distinguere le fonti di ciò che veniamo a sapere, per renderci attenti a quegli indici metalinguistici che distinguono la voce dell’autore da quella del personaggio. Per fare un esempio, riprendo l’episodio della rivoltella. P pensa che D possa pensare che lui, P, ha visto il gesto di D, e che sa quindi che lei lo vuole uccidere. O che non lo vuole uccidere, ma semplicemente fargli capire che può farlo. Ma P può anche pensare che D possa pensare che P non ha visto il gesto di D, perché incosciente. Il passaggio 5.1 è quindi sotto il segno dell’incertezza, è cioè il protagonista che si pone dubbi su quanto sta avvenendo. Il passaggio 2.1 invece non è incerto, in quanto l’autore riferisce lo stato di incertezza testimoniato dal personaggio senza che ci sia motivo di credere che ne dubiti a sua volta. Lo stesso si può dire del passaggio precedente, 1 (L -► A) in quanto il lettore non ha ragione di supporre altro da dò che l’autore-personaggio comunicano. In questo caso quindi l’incognita è la fantasia (per usare il termine nell’accezione di Laing) della donna per l’uomo; l’indecidibilità quindi fa parte della vicenda, e non del rapporto che lega la vicenda alla finzione narrativa. Analizziamo invece un altro passo dove P non dubita delle sue percezioni, ma il testo suggerisce una sdssione tra la percezione del personaggio e quella dell’autore (e la nostra).

Vorrei impadronirmi bene di tutto questo, di tutto questo fango. Oh, che fango! Da che fango la tirai fuori quella volta! Ma lei questo avrebbe dovuto capirlo e apprezzare il mio gesto! (pp. 511 sg.). Nella frase “da che fango la tirai fuori” ricorre una percezione nobilitante di sé stesso da parte di P (passaggio 3.1). Questa percezione che P ha (vuole avere) di sé non è evidentemente quella dell’autore, il quale si pone in un atteggiamento di scissione, critica o ironica, nei confronti della parola di P. Vediamo infatti che il “fango” nasce come per associazione dalla fine della frase precedente, dove invece il “fango” è la situazione attuale, quella in cui lo stesso P si

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CAPITOLO QUARTO

vede sommerso, e dalla consapevolezza della quale si ritrae con uno slittamento semantico scorretto: una delle tante modalità di copertura della verità ottenuta attraverso la ‘‘parola scappatoia”.14 Questo slittamento di contesto ci dà quindi un indice per dissociare l’autore dal personaggio, il rapporto 2.1 (A -* P) da 3.1 (P-+ P). Successivamente P sembra riavvicinarsi a una percezione autocritica del Sé:

(...) Mi solleticavano anche certe altre idee; ad esempio, che io avevo quarantanni e lei soltanto sedici. Questa idea mi affascinava, mi dava una sensazione di superiorità straordinariamente dolce, davvero dolcissima e quindi il rapporto di identificazione tra A e P sembra ricostituirsi pro vvisor iame n te. Questi sono solo due esempi di una ricerca stilistica utilizzata per l’analisi del testo, della quale lo schema che abbiamo costruito non è che un’operazione preliminare. Operazione preliminare forse artificio­ sa e riduttiva come tutti gli schemi, che mi è parsa però utile per rendere sempre presente l’intreccio di voci su cui si struttura questo racconto polifonico (malgrado si presenti come un monologo). Su questa base è stato più facile stabilire intersoggettivamente quegli indici metalinguistici per una verifica interna del testo, per una lettura che, pur dando massimo spazio ai possibili, tenga conto degli elementi oggettivi che delimitano la libertà del processo di decodificazione. Questi possibili emergono dall’intreccio delle voci contrastanti e antagonistiche di cui è composta la parola del narratore; e attraverso questa parola parla anche un intreccio di silenzi. Silenzio a due voci che, come la parola, “diventa teatro di lotta di due intenzioni” (Bachtin, p. 251), luogo emblematico di scontro di un maschile e di un femminile.

14 Per Bachtin la “pàrola scappatoia in generale ha un’enorme importanza nell’opera di Dostoevskij”. Per “scappatoia della coscienza e della parola” Bachtin intende “il lasciarsi aperta la possibilità di mutare il senso ultimo della propria parola”, tecnica cui molti personaggi ricorrono per sfuggire a una verità precedentemente ammessa e per evitare quindi la determinazione definitiva del sé da parte dell’altro (p. 305).

Riferimenti bibliografici

Sono indicate le opere cui è stato fatto esplicito riferimento, mentre, per i testi di narrativa, sono riportati solo quelli dai quali sono state tratte citazioni. Le citazioni contenute nel testo si riferiscono alla traduzione italiana, là dove è riportata in bibliografia.

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Stampato in Italia dalla litografia Silvestri di Torino Gennaio 1981