È questo il "carcer tetro"? Lettere dal carcere 1934-1935 8870181340

161 99 5MB

Italian Pages 164 Year 1991

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

È questo il "carcer tetro"? Lettere dal carcere 1934-1935
 8870181340

Citation preview

‘Sdi

ali NASITI>

Carlo Levi

il 66

IMCHEGCEH

TErro:-

Lettere dal carcere 1934-1935

il melangolo

39

Digitized by the Internet Archive in 20283 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/equestoilcarcert0000levi

opuscula / 40

Saro ubi

E questo il ‘“carcer tetro” ? Lettere dal carcere 4821

1934-1935

a cura di Daniela Ferraro

neartas) ENO fiSRIGAOTA

%, TL

il melangolo

Copyright © 1991, il melangolo s.r.l. Genova - via di Porta Soprana, 3-1 per le illustrazioni: Copyright © Carlo Levi, by SIAE

ISBN 88-7018-134-0

1991

INTRODUZIONE

Da queste lettere ai famigliari non aspettiamoci i luoghi rituali della comunicazione carceraria, lamentele e minuzie sulle condizioni di vita del prigioniero politico, anche se tale è stato Carlo Levi due volte, nella primavera del 1934 a Torino e nella

primavera-estate 1935, prima a Torino poi a Roma, in seguito a una vicenda di presunte cospirazioni ebraiche, soffiate alla polizia e conseguenti retate, che lo portò dritto da Regina Coeli al confino in Lucania: Cristo si è fermato a Eboli, il libro più famoso di Levi, è il felice risultato creativo di un’esperienza tutt’altro che favorevole. Risaputi sono i trascorsi politici dell’uomo, il sodalizio torinese con Gobetti e la collaborazione alla ‘‘Rivoluzione liberale’’; poi ‘‘Giustizia e libertà’’, con vari articoli sui ‘*Quaderni’’ e un intenso lavoro di tramite fra Torino e i fuorusciti italiani a Parigi, dove Carlo, dopo la laurea in medicina nel ’24, soggiornava spesso per assecondare la propria attività di pittore.

Ed è proprio la sua figura vitalistica di intellettuale libertario, di uomo di cultura intero che spicca dall’epistolario, al di là delle strategie difensive, connaturate al tipo particolare di lettera che è la corrispondenza sottoposta al censore, destinatario senza volto ma avvertito come un intruso onnipresente in una comunicazione che vorrebbe, e non può, restare del tutto privata.

Le proteste di innocenza che punteggiano le missive vanno naturalmente ascritte all’intento di persuasione obliqua: affermazioni come ‘‘io non ho davvero nulla sulla coscienza’’ (lettera VI); “l’innocenza finirà bene per vincere, con la sua evidenza, i sospetti o le prevenzioni”’ (X); ‘‘la politica è sempre stata estranea al mio orizzonte mentale’ (XXXI) non sono certo indirizzate ai parenti; così come non lo sono l’esibita fiducia in una giustizia di cui lo scrivente conosce fin troppo bene la parzialità (‘‘poichè nulla può essermi giustamente rimprovarato, nulla posso temere da un giusto giudizio’’, XXIV) e infine l’enfasi posta sulla propria figura di pittore ‘‘capace, forse più di chiunque altro in Italia, di fissare in modo universale sulla tela le passioni, i sentimenti, il modo di pensare del proprio tempo” (XII). Levi insiste non solo sul suo contributo benefico al ‘‘pubblico interesse’”’, ma anche sul principio della serenità o autonomia dell’arte, immune da interessi pratici e men che meno politici. Sfoderando astutamente l’assioma crociano per depistare gli inquirenti dalla sua figura di antifascista, il carcerato si dichiara anche provvisto di robuste virtù passive, come pazienza, temperanza e fortezza: l’altalena snervante fra timore e prospettiva di liberazione diventa ‘‘un ottimo esercizio per il carattere’ (XXIII), mentre Levi col Tibullo elegiaco canterà in falsetto dal fondo della cella ‘‘crura sonant ferro, sed canit inter opus”’ (XI). Atteggiamenti e percorsi argomentativi rintracciabili anche nel Ricorso alla Commissione d’ Appello contro il provvedimento di confino (se ne veda la trascrizione in nota alla lettera XL). All’autoritratto d’artista schizzato a disdoro di chi sorveglia e giudica fa gioco pure l’affoltarsi di letture, dal Paradiso dantesco, scorso in un solo pomeriggio con lo sguardo circolare che abbraccia una cattedrale gotica, al Petrarca, dalle opere di Goethe alla letteratura inglese, da Cesare e Cicerone a S. Agostino e ai filosofi moderni. Ma farebbe torto al mittente chi leggesse l’intero epistolario alla luce di un’argomentazione simulatoria e autoapologeti-

ca. L’universo della comunicazione differita e del dialogo sincero, che la lettera vuol prolungare nonostante la separazione, chiama in causa un altro più importante orizzonte di ricezione, il polo familiare, rappresentato qui dall’elemento femminile, madre e sorelle, mentre il padre è lasciato in disparte per timore di coinvolgerlo in un faccenda pericolosa (nel ’34 fu arrestato anche Riccardo, fratello di Carlo). Ed è per la consolazione delle

amate donne che Levi convoca la letteratura carceraria di Boezio, Cervantes e Campanella, commentando con orgoglio che ‘“gran parte della più alta letteratura di tutti i popoli è nata in queste celle e dietro queste inferriate’ (XXIX): un oroscopo azzeccato alla luce delle future opere leviane, nate dal negativo della segregazione e dell’esilio. Fatta la tara al desiderio di lenire le ansie materne, spicca l’energico impulso dialogico: se ‘scrivere (...) è la stessa cosa che conversare”, la presenza evocata in forza di magia allocutiva invita alla mescolanza di cose gravi e leggere, proprio come in un dialogo liberamente articolato, ove la varietas o interazione di registri stilistici si apre alla battuta scherzosa e al racconto. La funzione liberatoria della burla verte sulle carceri, ‘‘di-

ventate una specie di sinagoga’’ per il fatto che la maggior parte dei quindici arrestati per la vicenda di Ponte Tresa erano ebrei (V), sulla fortuna di essere messi in galera nel ventesimo secolo e non nel Seicento inglese, in cui ‘‘si poteva, senza ragione, 0 pel solo fatto di essere cattolici o di non esserlo, essere squartati, decapitati, impiccati, annegati, bruciati vivi, sventrati, aver mozze le orecchie o il naso o la lingua o qualche altra parte del corpo”’ (XI). L’olimpico Levi celia volentieri sulla sua condizione presente e riesce perfino a inquadrarla da un punto di vista contemplativo: con l’occhio spassionato del regista filma per la madre la tumultuosa partenza da Torino e la trasferta a Roma, in un vagone cellulare buio e asfittico, come in certi film americani tutti azione e ritmo (XXX). Ugualmente la proiezione narcisistica nel futuro ironizza su

9

se stessa in affabulazioni ricche di humour come quando il pittore immagina i posteri intenti a studiare l’influsso della prigionia sulla sua pittura o si domanda, nell’imminenza ormai del confino, a quale città o villaggio la critica intitolerà il suo nuovo ‘‘periodo’’ (XXVIII e XLI). Si affaccia, insomma, dalle lettere, quello stesso trentenne solare e padrone di sé, conversatore di proverbiale incanto caro agli amici degli anni torinesi. Così lo ricorda Vittorio Foa: ‘‘Non si presentava a noi più giovani, e persino giovanissimi, come un umanista predicatore, ma come un uomo legato a interessi vivi e concreti, artistici e scientifici. Di qui il fascino, che esercitava fin dal primo incontro. (...) Carlo non sentiva la crisi italiana in termini di angoscia, ma solo in termini di ricerca attiva di forze attive: il suo linguaggio non è mai stato, neanche nei momenti più duri, tor-

mentato o profetico”’.! Aldo Garosci ne rievoca la conversazione fluente parallela al lavoro sulla tela, da cui Levi a un certo punto si ritraeva sempre persuaso di ‘‘irraggiare intorno a lui bellezza. E in quella

stessa luce di ammirazione e di gloria, di cui circonfondeva se stesso, nascondendo in fondo alla non espressione, con un’ammirevole padronanza dei suoi nervi, le tensioni che continuamente dominava, avvolgeva l’amico e l’interlocutore, e quanto e

quanti lo circondavano’’.? Ottimismo, calma interiore, capacità apollinea di prender le distanze dalla contingenza sono doti intrinseche e non solo ornamenti della figura in ipostasi inscenata nell’atelier del carcere a scorno del censore e conforto dei parenti. Un terzo destinatario si delinea nelle strettoie cartacee dei poveri fogli lesinati un paio di volte la settimana e vistati dalla

censura. Questo destinatario è lo scrivente medesimo quando si fa scrittore o un a/ter ego paragonabile al lettore implicito dell’opera letteraria. Stanno qui le riflessioni sulla pittura e il conseguente passaggio allo scrivere, in poesia e prosa, all’insegna 10

di un’unità dello spirito idonea a salvare, per trasposizione, l’attività fantastica impedita ai pennelli. Soprattutto nel secondo periodo di detenzione Levi risente il danno dell’ozio forzato per il linguaggio pittorico, che ‘‘si crea facendolo”’, in una osmosi tra esperienza e fantasia cui cono in-

sufficienti i pur beati giardini della memoria: ‘‘i quadri non si pensano se non si fanno, non si pensano prima di averli fatti’’; di qui il giudizio piuttosto vero sull’aridità e difficoltà di aderenza agli oggetti delle tele successive alla prima carcerazione (cfr. XXXIII e XXXIV). Anche il disegno, ottenuti finalmente matita e qualche foglio di carta, non appaga un artista dedito più alle campiture di colore che alla linea. A detta dell’autore, sempre lucido e pungente, dall’avarizia del materiale se ne esce ‘‘un disegno assai stentato, che somiglia alquanto, nello stento, a un disegno di Morandi, forse anche per il soggetto che, come quelli che piacciono a lui, e che egli ripete costantemente da 20 anni, è di frutta e carabattole e bottiglie varie’ (XXXVI). Per ovviare al silenzio creativo già nel ’34 Carlo esperiva la circolarità dei mezzi d’espressione e si misurava con i versi, sillabati dentro di sé come nelle tradizioni orali e poi trascritti sui margini delle responsive: ‘‘tanto per non dimenticarmi del tutto quello che penso e per non render del tutto vuote queste ore’’ (XI). Sono cose estemporanee, spunti nati accanto alle lettere per un singolare nomadismo

tematico, dove dominano

il

cielo tra le sbarre, i muri amorfi della cella, i rumori trauditi dalla segregazione, le letture. Rispetto alle lettere, nei versi c’è semmai più chiaroscuro, un’escursione tonale più viva nello scat-

to verso la positività e il baluginare di vaghi fantasmi femminili (si vedano gli esemplari che la curatrice Daniela Ferraro pone in calce alle lettere, traendoli dai più vasti materiali del Fondo Manoscritti di Pavia). Si inaugura qui quel sistema di fissaggio che sarà fondamentale per l’elaborazione di Cristo si è fermato a Eboli, cui — a detta dello scrittore — la base ‘‘oggettiva’’ fu fornita da

1l

poesie e dipinti e, aggiungiamo noi, anche dalle lettere dal confino: cartoni preparatori paritetici a futura memoria. Un cenno epistolare al fonosimbolismo che ‘‘suona cupo?’ nella parola prigione, mentre in carcere ‘ha il rumore della ferraglia’”’ si materializza nei versi fonicamente irti che accompagnano (o meglio, se badiamo alla data, precedono) la lettera I: ‘“‘Prigione, sento camminare/ sul mio capo qualcuno,/ batter ferri, cigolare/ porte ignote”. Talvolta un moto di ripulsa per l’esclusivo nutrimento intellettuale s’impossessa del recluso, alle prese con S. Agostino, Cartesio, Rosmini, Gentile: ‘li darei tutti in cambio di un bel mazzo di fiori, che io cogliessi freschi e colorati in giardino, e potessi dipingere a modo mio’’ (XXIX); donde rifluisce nella poesia: ‘‘Darei Sant’ Agostino/ per un mazzo di fiori/ e Rosmini e Gioberti/ per un po’ di colori...’’. Ma più spesso l’ottimismo della volontà vince il risucchio dell’atonia proprio nell’esercizio creativo: e sarà l’invocazione al sole sulla falsariga di Campanella che chiude la poesia gemellabile alla lettera III; oppure, a partire dal muro informe e bianco, dall’indistinzione di stagioni e rumori di cui parla VIII, l’elogio della durata interiore nei versi provocati dalla stessa occasione: ‘Ma trova ogni colore/ la fantasia in questi bianchi muri:/ variando crea di queste forme uguali/ pensieri più maturi/ e in azzurro si volge anche senz’ali’’. Molto interessante e fecondo di ulteriori progetti letterari è poi il tema del tempo sospeso, indotto dalla clausura. Tempo sospeso è quello di chi sia privato, come recluso, della normale percezione spazio-temporale, ma lo è anche l’ora della lettera, il presente fantomatico sempre teso verso un d//ora passato o futuro e ‘‘preda dell’impossibilità di essere se stesso’”’.3 Se teniamo conto della duplice incrinatura del tempo, in rapporto al genere epistolare e al perdersi dell’oggetto di esperienza quotidiano nella vita carcararia, capiamo meglio il ripetersi a eco, tra lettere e versi, del binomio speculare infanzia/ vecchiaia, mi-

12

nacciose metafore entrambe di temporalità ‘‘malata’’: passiva e dipendente l’una, chiusa e senza sbocchi l’altra. Ecco qualche raffronto: Questo fissarsi della vita al solo ricordo, questo continuare come ripetizione meccanica di vizi, pensieri, abitudini passate che cosa è altro se non la vecchiezza? (...) A vedermi porgere premurosamente i cibi e le cose necessarie, e curare ogni particolare materiale della vita, mi fa l’impressione di essere in infanzia (III).

A volte, davvero, seduto su questo letto, mi par d’essere vecchissimo, di aver vissuto per un tempo infinito, di aver visto e provato tutte le cose di questo mondo (XX). Fissati si vive al passato privi di vita presente: vecchiezza, chi a te consente è come chi qui sta serrato. Meccanicamente imparato

ripete suo gesto e non sente: ricorda soltanto e risente il sole che è tramontato.

La crisi del soggetto procura quella dell’oggetto, sicché la Roma barocca tutta piazze e fontane, quella Roma a lui negata, sull’onda di un ricordo lettarario (cfr. XXX con la citazione dalla prima delle Elegie romane di Goethe) diviene simbolo di un non-luogo coassiale al: non-tempo: Questi imprigionamenti sono davvero (...) vere fratture nel corso del tempo: l’idea stessa del tempo ne rimane in certo modo interrotta, come per l’intervento di un elemento estraneo al pensiero. La misura del tempo sono le nostre azioni, o il corso delle stelle (...) Immerso in questo tempo che non è né di vita né di morte, giaccio in uno spa- . zio altrettanto irreale. Questa cella è a Roma, ma non è Roma; e poiché manca qualunque altro luogo per confrontarla, essa potrebbe con ugual ragione essere il centro dell’universo, o nessun luogo (XXXIV).

Dall’incombente nulla di un tempo o di uno spazio irreali sorge l’idea di un libro non erudito né di pura critica, una ‘‘au-

13

tobiografia pittorica, delle confessioni proiettate nel tempo”; insomma un percorso nel mondo delle idee che chiuda nel cerchio unitario di un’esperienza individua note di lettura, spunti di critica d’arte, ricordi di viaggio. Il ‘quaderno verde?’’ di cui parlano le lettere XXXVII-XXXIX c’è davvero ed è l’inedito Quaderno di prigione, iniziato il 14 luglio ’35 e mai portato a termine come tanti altri diari. Con impressionanti analogie anche formali vi si riprendono gli argomenti di lettere e poesie: la pallida contemporaneità di cose senza corpo, l’esistere fuori di ogni età nel sistema di opposti (tempo-non tempo, luogo-non luogo) che si annullerebbero a vicenda se non intervenisse un principio ricostruttivo assunto organicamente sotto la tutela benefica della memoria

o coscienza, ove il ‘‘reale’’ è riassorbito

in immagini felici o impressioni stabilite per sempre. Nel Quaderno c’è una sorta di divinazione del futuro scrittore, librato in un sogno di durata esistenziale, che vaga liberamente dalla storia di tutti a quella individuale e comunica la presenza di un altro tempo o altro mondo dentro il mondo e il tempo di volta in volta offerti allo sguardo. È già operante in questo progetto la doppia direzione delle lancette de L’oro/ogio, la temporalità mobile e ben padroneggiata del viaggiatore che intreccia il presente dell’URSS alla sua infanzia torinese ne // futuro ha un cuore antico. Ed è prefigurazione di un destino questo passo del Quaderno, che sintetizza e proietta nel futuro lo sforzo di libertà interiore dell’intero epistolario dal carcere: ‘‘Tuttavia, in questo mondo che non è tale, pure io vivo, e lo guardo, e porto in me tutto quello di cui è privo. Se nulla mi è dato, io debbo dare tutto, ricostruire, cavandoli di dentro a me, i termini e le distinzioni, e, senza mattoni e calce, riedificare la città, e, riedificata, operosamenta abitarla”’. La privazione della libertà ha insegnato all’intelligenza duttile di Carlo Levi che le parole sono mattoni e calce, esattamente come i colori della tavolozza. Maria Antonietta Grignani

14

1. V. Foa, Carlo Levi ‘‘uomo politico”’, in ‘*Galleria’’, a. XVII, n. 36, maggio-

dicembre 1967, pp. 204-205. 2. A. Garosci, L’era di Carlo Levi, in C. Levi. Disegni dal carcere 1934. Materiali per una storia, Roma 1983, p. 9. 3. Janet Gurkin Altman, Epistolarity. Approaches to a Form, Ohio State Press 1982, p. 127.

15

Ù

:

7

È:

SUSA E

n

Chi

ee

ci

sé AT

Ò

Pa

A @

Va

%

a

x 1)

da

ai

“%

*

Ù

Pn

25

Sc

i

|

è

E

È

to

E

tester :

i

ve



no

lAur per Mea & ld

st i

fini

id

La

,T

;

i

al

Di

O :

- A

IL



Se

5 LL

Ra

i ci

/

,@

n;

\

î

e:

i

DI

DI

n

ni

Der La

=

2



JO

Vel

Mel «WL°

e n

I) pi

a

ar

pe

i dat LI

i:

ire

®

u

SI Song:

Ù “e

=“

pause:



Lal Sk,

É eni

tl»

@

ti

si pe

a

asi

*

®" P®ia

ue è

NOTA

AI TESTI

Carlo Levi visse alcune fra le più significative esperienze dell’antifascismo di ispirazione liberale: l’amicizia con Gobetti, i contributi a “Rivoluzione Liberale’’, la stesura del programma di Giustizia e Libertà, la collaborazione ai ‘‘Quaderni’’, i contatti a Parigi con i fuo-

riusciti italiani e l’attività clandestina. Tuttavia, nonostante un profondo

e agguerrito impegno contro il regime, su Levi, medico e affermato pittore, la polizia riuscì a raccogliere solo indizi. Di fatto il primo fermo (13 marzo 1934) avvenne quasi casualmente in seguito all’ondata di arresti abbattutasi su numerosi ebrei dopo la vicenda di Ponte Tresa. Si trattò di una operazione di polizia basata sulle delazioni di René Odin, “‘fiduciario’’ della polizia che operava con lo pseudonimo di Togo. Grazie a quelle informazioni, due corrieri di G.L. con volantini che invitavano a votare ‘‘No’’ in occasione del plebiscito, furono bloccati al confine italo-svizzero. Uno dei due, Mario Levi, riuscì a fuggire gettandosi nel lago e raggiungendo la sponda svizzera a nuoto; l’altro, Sion

Segre, venne arrestato e due giorni dopo subirono la stessa sorte sedici persone, tra le quali vi erano Carlo e Riccardo Levi. Dopo alcuni mesi passati nelle carceri giudiziarie di Torino, i due fratelli vennero

rilasciati e ammoniti (9 maggio 1934). Nel periodo successivo Carlo si mantenne prudentemente isolato cercando di evitare i contatti con persone

compromettenti, ma la polizia fascista riuscì ad introdurre nel movi-

mento sovversivo lo scrittore Pitigrilli durante il processo a Leone Ginzburg e Sion Segre, gli unici due arrestati contro i quali fu possibile

17

raccogliere prove tali da giustificarne la comparsa davanti al Tribunale Speciale. Pitigrilli (pseudonimo di Dino Segre, cugino di Sion), si mise in contatto con Parigi e sfruttando la sua parentela con uno dei due imputati riuscì a raccogliere notizie che rivelate alla polizia fecero scattare il secondo arresto di Carlo Levi, avvenuto il 15 maggio 1935. Il delatore così scrive nella sua corrispondenza con l’O.V.R.A.: “Torino, 19 novembre 1934. Ho finalmente potuto conoscere Carlo Levi, il pittore. Ho fatto le cose cautamente, lasciandomi, secondo il metodo suggeritomi da voi, assorbire progressivamente. Dopo avermi tenuto in osservazione alcuni mesi, Vittorio Foa mi ha condotto ieri in Piazza Vittorio Veneto

(non ho guardato per

prudenza il numero, ma saprei tornarci), dove a un quinto piano, Carlo Levi ha uno studio di pittura in una grande sala che fu lo studio del pittore ottocentista Delleani. Pare che sia, anche dopo le avventure del marzo scorso, in ottimi rapporti con Oppo, Maraini, col prefetto di Savona, con un certo Pappalardo che deve essere un personaggio abbastanza importante. Nell’antifascismo torinese Carlo Levi è un uomo di primo piano. La sua attività risale a parecchi anni prima dell’inizio della attività di Vittorio Foa. Ho la certezza che parallelamente alla spedizione (uso apposta questa parola perché fa parte della loro terminologia) Segre-Levi a Lugano (11 marzo) avevano luogo altre «spedizioni» con ogni probabilità organizzate da Carlo Levi; parlando di Barbara Allason, ha detto che questa signora sapeva di altre spedizioni,

ma non era informata della spedizione Segre-Levi.”’ “Torino, domenica 25 novembre 1934. (...) prima che io parta per Parigi mi darà due articoli; uno di certo sopra questioni sanitarie. Questo è firmato Parodi, ma è stato scritto da Tec, un nome che sento per la prima volta. Non so chi sia questo Tec [vedi lettera I nota 2], certamente però è un ingegnere. L’articolo è destinato ai Quaderni. Esso era già stato scritto fin dal marzo scorso. Era in casa di uno degli arrestati al momento della perquisizione. Non so chi sia. So però che era in casa di costui, perché egli lo aveva scritto a macchina e aveva voluto conservare il manoscritto. Una copia dell’articolo era in tasca a Carlo Levi al momento dell’arresto di Alassio. Egli ne fece un rotolo e lo lasciò cadere dietro la schiena. Gli agenti non si accorsero di nulla.’

(in Domenico Zucaro (a cura di), Lettere di Pitigrilli all’O.V.R.A., Roma, Parenti Editore, 1961, pag. 83-85, 90). Benché queste rivelazioni non costituissero certamente delle prove schiaccianti, tuttavia, insieme ad altri elementi significativi se inseriti

in un quadro generale, furono sufficienti per far condannare il pittore a tre anni di confino in Lucania, dove egli vivrà quella fondamentale immersione nel mondo arcaico e contadino che costituisce la materia del Cristo si è fermato ad Eboli.

18

Le 42 lettere qui pubblicate si riferiscono sia al primo periodo di detenzione nelle carceri giudiziarie di Torino (13 marzo - 9 maggio 1934), sia al secondo periodo, prima nelle carceri di Torino, dal 15 maggio al 4 giugno 1935, poi a Roma, dal 7 giugno alla fine di luglio dello stesso anno. Nel 1934 furono spedite ventitré missive (di cui otto cartoline illustrate), mentre le restanti diciannove appartengono all’epoca del secondo arresto. Trentuno originali dell’intero corpus, che probabilmente è completo, sono conservati nel Fondo Manoscritti d’ Autori Contemporanei dell’Università di Pavia, mentre le lettere che vanno dal 7 giugno al 26 luglio 1935 (ad eccezione della XXXI) appartengono alla famiglia Levi, che ci ha gentilmente concesso di riprodurle e

studiarle.! Nella trascrizione abbiamo rispettato le abitudini dell’autore per quanto riguarda la punteggiatura, la forma sintattica e la grafia, non sempre regolari, intervenendo su minimi elementi e limitando l’uso del [sic] al solo caso in cui una cancellatura non integrata ha privato di senso il periodo (lett. XII 20/3/1934). Si possono leggere perciò costruzioni come quella della lettera X (22/III/1934): ‘‘(...) e ho tornato a constatare (avevo già fatto la prova altre volte) come questa specie d’esercizio, che può parere per altro un po’ forzato, sia necessario a scoprire certe bellezze di costruzione, (...)??. Parentesi uncinate indicano le lacune prodottesi per ragioni meccaniche, integrate dal curatore; le cassature censorie, che hanno irrimediabilmente mutilato il testo, nonché datazioni ipotizzate o dedotte dal timbro postale, sono entro pa-

rentesi quadre. Una particolare annotazione va dedicata alle poesie citate in calce. Si tratta per la maggior parte di testi trascritti durante la carcerazione sui margini bianchi di quattro lettere che Levi ricevette dalla famiglia, datate A 26/3/1934, B 8/4/1934, C 20/5/1935, D s.d. Leggiamo quindi in A i componimenti: Prigione sento camminare lett. I In questa fetta di melone lett. I Pochi istanti ancora d’inchiostro lett. III In B: L’uguaglianza delle cose lett. V Come potrebber nascere dei versi lett. VIII Se terrestre parere lett. XIII

19

IDE: Darei Sant’Agostino lett. XXIX In D: Spinoza tu mi insegni lett. XXIV. Tutti i testi di A, B, C e D più altri dello stesso periodo furono copiati su due quadernetti da mano ignota; Levi però curò la trascrizione, tanto più che una poesia dei quadernetti (Tornato al noto

26-27/5/1934) è sicuramente autografa. Tenuta a base questa trascrizione in pulito, ora a Pavia, segnaliamo che tra A,B,C, D e i quadernetti vi sono alcune varianti e divergenze di datazione. Differente la questione per le poesie Dea Roma, tu m’accogli (lett.

XXX) e Tempo non tempo (lett. XXXIV), riprodotte da copie dattiloscritte custodite nell’archivio pavese, poiché mancano notizie degli ori-

ginali.? Infine ricordiamo che tutte le citazioni tratte dalle responsive dei familiari a Levi provengono dalle lettere conservate presso la Fondazione Carlo Levi di Roma, a cui siamo grati per averci concesso di accedere agli archivi. Ringraziamo inoltre: Mimita Lamberti, Lorella Bernini, Rossana Saccani, Gianfranca Lavezzi, Patrizio Vignola e tutti coloro che col loro aiuto hanno facilitato il nostro lavoro. Un grazie particolare a Maria Antonietta Grignani che con pazienza e disponibilità ci ha guidato lungo tutto il corso della ricerca.

1. Una prima descrizione del Fondo Manoscritti ‘‘*Carlo Levi’’ di Pavia è stata pubblicata a cura di Lorella Bernini e Daniela Ferraro in ‘‘Autografo’’, n° 8, giugno 1986. Inoltre le lettere VII (3/4/1934) e VIII (6/4/1934) compaiono in: ‘‘Strumenti critici”’, n° 59, anno IV, gennaio 1989; la lettera XXVII (31/5/1934) in: Carlo Levi, Disegni 1920-1935, Corbo e Fiore Editori, Palazzo Querini Stampalia, maggio-giugno 1980; parte della lettera XLI (26/7/1935) in: AA.VV., Carlo Levi. Un’esperienza culturale e politica nella Torino degli anni Trenta, Torino, s.d.; le lettere I (17/3/1934), III (23/3/1934), V (27/3/1934) in “‘Millelibri’’, n° 33, agosto 1990. Brevi parti delle lettere I (17/3/1934), IV (27/3/1934), VIII (6/4/1934), X (13/4/1934), XIII (27/4/1934) si leggono in: AA.VV., Carlo Levi. Disegni dal carcere 1934. Materiali per una Storia, Roma, De Luca, 1984. Le lettere XXXII (14/6/1935), XXXIII (17/6/1935), XXXIV (21/6/1935) compaiono in «Linea d’ombra», n° 55, dicembre 1990. 2. Durante la stesura di questa nota è stata pubblicata una raccolta delle poesie di Levi dal titolo: Carlo Levi, Poesie inedite 1934-1946, Roma, Carlo Mancosu editore, 1990. In quest’edizione, priva di curatore, note filologiche e commento, come di indicazioni circa la provenienza e la natura dei testi, compaiono ancha le poesie: Prigione sento camminare, In questa fetta di melone (lett. I) e Pochi istanti ancora d’inchiostro (lett. III).

20

È QUESTO

IL ‘‘CARCER

LETTERE

TETRO”??

DAL CARCERE 1934/1935

i

de:

ni

= ima

-

N

sa

è

n

Y

= dd n

ni 5

pa

* n

Ma; taste

Vie

è

SATA I

iui anat,

NGI «o di20000 x

lag



tom

da

per

17 marzo

Mamma

1934

mia cara,

Vorrei invece di parole mandarti baci e carezze e tutte le cose più affettuose: ché questo è uno dei vantaggi della prigione, di far sentire più cari e vicini e sensibili gli affetti. Quanto al resto, essa è veramente assai migliore di quello che generalmente si creda: il ‘‘carcer tetro’’ non è poi così tetro; le celle non sono affatto oscure, e ci si vive, regolati e serviti in tutto come bambini con maniere tutt’altro che rudi; e (almeno per conto mio) non si sente alcuna privazione materiale.! Si impara anzi a godere più dell’usato del sole che entra dalla finestra, o del sapore di un pane immerso nel vino. Se sto seduto a questo tavolo a leggere Dante o le lunghissime (e piuttosto noiose, checché dicano i critici entusiasti) Confessioni di un Ottuagenario, non c’è proprio nessuna differenza che se fossi seduto al tavolo di camera mia. Fino a ieri sera trovavo dunque in questa curiosa e inesplicabile avventura ragioni di un’esperienza divertente e (forte in questo della sicurezza della coscienza) certamente innocua. Iersera ho saputo dal Giudice che un’avventura analoga tocca a tante altre persone, e, veramente mi dispiace. A me non

23

può succedere nulla di male né oggettivamente (perché in questa faccenda non c’entro in nessun modo) né soggettivamente (perché non son di natura — e la presente esperienza me lo conferma — da lasciarmi abbattere da nessun fatto esteriore, e ho sufficienti riserve di pensiero e di interessi umani da popolare la più lunga solitudine senza alcun pericolo di inaridirmi). Giova la fantasia a render vive le cose più quotidiane; e, se davvero dovessi lamentarmi, mi sarebbe così facile — aiutando forse in questo qualche ricordo ancestrale — trasformare il letto dove sono seduto nel monte da cui qualche profeta alzava i suoi lamenti. Ma se questi possono prendere questo alto tono, quello che è sorte personale e quindi realmente dolorosa, non interessa più. Vedete dunque come sono corazzato contro questa strana e inaspettata avventura, che del resto, per quello che riguarda me e Riccardo, non potrà non risolversi al più presto e nel mo-

do migliore.? L’unico cruccio reale che mi può restare è il pensiero della tua materna inquietudine — e veramente non so come chiederti perdono di averti, sia pure così innocentemente e involontariamente, procurato queste angoscie. Vorrei che tu e tutti in casa foste assolutamente tranquilli; che la vita vi scorresse nel modo più normale; che andaste ai concerti e al cinematografo, esattamente come prima — e che in nessun modo la vostra vita si fissasse o polarizzasse su un fatto così estraneo come questo nostro imprigionamento. Vorrei sapere che Lelle continui a cantare le sue ariette mozartiane — che del resto mi tengono grande compagnia anche qui — a ballare, e a leggere Stendhal. Immagino lo stupore e la meraviglia delle infinite persone che mi conoscono: voi raccontate pure la cosa serenamente a tutti gli amici, evitate di parlarne troppo con gli estranei. Domani farò domanda al Direttore) delle Carceri perché mi permetta di dipingere.? Spero che la concessione mi sarà accordata: in tal caso voi mi porterete il necessario): tele 38x46 e S0x 61, colori (non dimenticate il rosso Indiano Lefranc, di cui faccio grande uso),

24

penne