Questo è il punto. Istruzioni per l’uso della punteggiatura 9788842099420

Si può imparare a usare la punteggiatura divertendosi come quando si guarda un film? La risposta è sì, se a spiegarci co

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Economica Laterza 672

Francesca Serafini

Questo è il punto

Istruzioni per l’uso della punteggiatura Prefazione di Luca Serianni

Editori Laterza

© 2012, 2014, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Edizioni precedenti: «i Robinson / Letture» 2012 Nella «Economica Laterza» con una Prefazione di Luca Serianni Prima edizione gennaio 2014

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Anno 2014 2015 2016 2017 2018 2019

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-1057-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Indice

Prefazione di Luca Serianni

Introduzione

1. Capirsi senza pause

ix xiii

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2. Punteggiatura e sintassi: quando l’etimologia inganna

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3. Il punto della situazione: una guida in forma di glossario

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4. Appunti di stile

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5. Arrivati a questi punti

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Riferimenti e consigli bibliografici

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Indice dei nomi

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a Fabio, il mio punto fermo

Prefazione di Luca Serianni

Può colpire la grande fortuna editoriale (specie in tempi come questi) di repertori e prontuari linguistici. Restando in area laterziana e nel recinto dell’interpunzione, pensiamo al successo – meritatissimo e consolante, ma forse inatteso nelle proporzioni – che ha arriso al Prontuario di punteggiatura di Bice Mortara Garavelli, apparso per la prima volta nel 2003. In gioco c’è, come sempre, l’intrinseca qualità di un libro, la sua capacità di venire incontro a un’aspettativa dei lettori o di stimolarne la curiosità. Ma forse c’è anche un diffuso bisogno di sicurezze linguistiche, specie in un settore, quello della punteggiatura, nel quale la tradizionale istruzione ricevuta a scuola è particolarmente carente. Tornare idealmente dietro i banchi, allora? Credo che pochi avrebbero voglia di farlo; o lo farebbero, semmai, per aree di sapere decisamente extra-scolastiche, magari con ricadute sulla salute (“come mangiare meglio”, “come mantenersi in forma senza sforzo”), sul portafoglio (“come investire i vostri risparmi”), sul tempo libero e sui viaggi (“come imparare il cinese in dieci mosse”). Il rischio della noia è quanto di più lontano ci sia da questo volumetto di Francesca Serafini, che non fa mai la maestrina, pur vantando una solida institutio (e movendo ­­­­­ix

da un non recente interesse per questo tema). Forse anche perché il suo mestiere di sceneggiatrice ed editor freelance per diverse case editrici ne ha affinato le sue naturali doti di scrittura: una scrittura guizzante, ironica e autoironica (a partire dalla dedica al consorte, definito non casualmente «punto fermo»), nutrita di letture varie e talora imprevedibili, da Babel’ a Sedaris, da Doctorow a Blumenberg, per ripercorrere i sentieri tracciati nelle prime pagine. È un libro tramato di esempi reali, com’è naturale; ma gli esempi e le norme non eccedono mai i limiti della leggibilità. A p. 69, ad esempio, per illustrare l’uso della lineetta, si cita un brano di Tiziano Scarpa. Sono nove righe, anche se le lineette compaiono soltanto nelle prime tre. «Se vi state chiedendo – commenta l’autrice – che bisogno c’era, nella citazione, di andare oltre lo scambio dialogico utile all’esempio, la risposta è che tutto questo paragrafo stava diventando troppo tecnico: c’era bisogno di letteratura». Per mostrare che cosa significhi punteggiare efficacemente uno scritto, è giusto dunque partire da un brano di Francesca Serafini. Quasi all’inizio del libro si paragona l’apprendimento della lingua a un videogioco a più livelli, chiamando in causa Urban chaos, un videogame del 1999, appartenente al genere “avventura dinamica” (come apprendo da Wikipedia: i videogiochi sono tra le tante cose di cui non so assolutamente nulla): Ecco, per arrivare a una consapevolezza piena della propria lingua, si procede allo stesso modo. Al primo livello c’è il lessico: la scoperta delle parole (da quelle d’uso quotidiano fino alla capacità di scalare tutti i registri; o di attingere ai serbatoi ­­­­­x

settoriali). Al secondo, si apprende che quelle parole devono essere declinate [...] (p. 5).

Lasciamo da parte gli usi interpuntori codificati (e praticati anche a scuola), come le due virgole che incorniciano la finale implicita iniziale per arrivare [...] lingua, e soffermiamoci su quelli meno ovvi. I due punti dopo lessico svolgono qui una tipica funzione sintattico-descrittiva, in quanto «arricchiscono di particolari quanto è stato detto prima» (p. 34). Il lessico non è un inventario di lemmi, ma appunto la «scoperta delle parole» in tutto lo spessore della loro potenzialità comunicativa a seconda dei vari contesti d’uso. L’esemplificazione è inserita tra parentesi, a contrassegnare il carattere marginale dell’informazione «rispetto al fuoco principale del discorso» (p. 38), rappresentato dall’enumerazione degli snodi dell’argomentazione: Al primo, Al secondo e, successivamente, al livello più alto. All’interno della parentesi figura un segno di punto e virgola, quello che, come scrive Serafini (p. 58), è l’«Highlander della punteggiatura», l’ultimo immortale: «Ciclicamente qualcuno ne lamenta infatti l’agonia sulle pagine dei giornali [...], eppure questo segno continua a sopravvivere, incurante dei detrattori». Qui, rispetto alla virgola, la sua funzione è quella di distinguere più nettamente i due membri della disgiuntiva: un conto è dominare i registri (madre/mamma, gatto/micio), un conto è maneggiare i lessici settoriali, in senso proprio (“fisiologia d’alta quota”: l’insieme dei fenomeni che si producono naturalmente per fare adattare l’organismo alla diminuita pressione atmosferica, come l’aumento della ventilazione polmonare e della gittata car­­­­­xi

diaca) o in senso figurato (“la fisiologia della violenza nella guerra”: la violenza è ineliminabile nella guerra, ma va distinta da quella che potremmo chiamare la patologia, ossia dalle rappresaglie sulla popolazione inerme, dall’uccisione di bambini ecc.). Infine notiamo la virgola dopo secondo: è una virgola che ci avverte, con discrezione, di un’ellissi, quella del sostantivo livello. Solo poche volte, riconosciamolo, un’errata interpunzione ha conseguenze clamorose: è la storia della cappa di Martino o, per aggiornare l’aneddoto con un episodio reale che Serafini evoca nell’esordio, di una virgola omessa in una cifra tra numero intero e decimali. Ma molto spesso (anzi: sempre) un’interpunzione consapevole ed efficace segna la differenza tra chi scrive per professione o comunque ambisce a qualcosa di più della semplice accettabilità, e l’inesperto o lo scrivente occasionale.

Introduzione

Partiamo da un azzardo. Immaginiamo il narratore russo Isaak Babel’ ancora vivo nel 2009 e – già che ci siamo – con un po’ meno anni di quelli che avrebbe avuto allora: tipo ottanta, magari portati bene. Non solo: pensiamolo anche come intestatario di un conto corrente con Poste Italiane. E poi concentriamoci sulla mattina del 10 ottobre di quell’anno, nel momento in cui la cassiera di un supermercato romano restituisce allo scrittore il suo Postamat, con l’imbarazzo che c’è sempre quando una transazione viene rifiutata, specie a una persona anziana. Babel’ non capisce: si tratta solo di una quarantina di euro, e sul suo conto ce ne sono almeno ventimila. “Giusto ieri ne ho prelevati trecento per le spese di condominio”, dice sorpreso alla cassiera, mentre cerca in tasca la ricevuta con relativo saldo finale. Ma il problema è proprio quello. Lui non sa che nella notte un guasto al sistema informatico ha fatto saltare la virgola dei decimali su tutti i conti Poste Italiane, trasformando il prelievo di 300,00 euro in uno dunque di 30000, superiore all’intero ammontare del suo deposito. Quando il direttore della filiale, scusandosi, glielo spiega, rassicurandolo sul fatto che il problema verrà risolto in poche ore e il saldo ripristinato, Babel’ non replica, concentrato com’è su un’idea che vorrebbe appun­­­­­xiii

tarsi prima di perderla. Per questo se ne torna subito a casa: appena entrato, senza neanche togliersi la giacca, cerca tra i libri uno dei suoi. Quando lo trova, sfoglia le pagine con foga, finché si ferma, illuminato, su un passo: «Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto». Babel’ annuisce soddisfatto. Prende una matita e finalmente si siede, aggiungendo a margine: Senza contare quello che può fare una virgola. È andata così. Più o meno: anche se purtroppo senza Babel’. A causa di una virgola, la notte tra il 9 e il 10 ottobre del 2009, circa sei milioni di correntisti con Poste Italiane hanno visto i loro conti prosciugati di colpo. Una lezione estrema di grammatica: la più efficace della storia della lingua italiana per spiegare quanto l’uso improprio di un segno interpuntivo – in questo caso l’omissione – possa creare danni. A volte perfino irreparabili, come è capitato al monaco Martino: quello che per un punto messo al posto sbagliato perse la cappa, secondo la storia che racconteremo più avanti della carriera talare stroncata e poi immortalata nel famoso proverbio. Si tratta, certo, di casi clamorosi, ma sbagliare la punteggiatura, specie in tempi in cui la scrittura è diventata uno strumento importante di comunicazione quotidiana, può generare fraintendimenti fastidiosi: un danno anche solo affettivo per chiunque ci tenga a essere capito dal prossimo. A volte infatti un punto può cambiare completamente il senso del nostro pensiero, con tutte le conseguenze del caso. Per esempio. Immaginate di aver appena ritrovato su Facebook un amico che non frequentate da anni: uno sim­­­­­xiv

patico, con cui avete passato decine di serate spensierate. Quando lo riconoscete sull’immagine sorridente del profilo vi viene subito voglia di rivederlo. Così, per rompere il ghiaccio, esordite con un classico: “Ehi, quanto tempo. Come va?” L’amico è contento anche lui, per questo vi risponde subito, dal telefonino, mentre guida. Ma in quelle condizioni gli scappa un punto di troppo e, invece di scrivere un rassicurante “Sono vivo e vegeto” (dopo tanti anni è giusto precisarlo), lascia partire – citando involontariamente Paolo Cananzi – “Sono vivo. E vegeto”. Addirittura?, pensate subito. Uno allegro come lui, così attratto dalla vita: che cosa può essere successo? E allora cominciate a domandarvi se ha perso il lavoro, se sua moglie lo ha lasciato o se, nel frattempo, sono venuti a mancare i genitori a cui era tanto legato. E la domanda a quel punto diventa: avreste ancora voglia di passarci insieme una serata, con tutti i problemi che avete già, compresi quelli degli amici che non avete mai smesso di frequentare? La risposta – quella che digitate un secondo dopo – è: “Mannaggia, è arrivato il mio capo, devo chiudere. Stai su, eh... ci sentiamo presto”. Cioè: mai più. E chissà che allora alla questione gigantesca posta da Cesare Pavese – «come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri» – non si possa rispondere con un infinitamente piccolo e interlocutorio “intanto proviamo almeno a non sbagliare la punteggiatura”. Sembra una cosa da niente, una soluzione banale in confronto al «problema della vita». Ma siamo sicuri che sia così semplice? A parte gli accidenti – il guasto informatico di Poste Italiane o la fretta nel digitare sul telefonino in condizioni precarie  – ­­­­­xv

sapremmo dire con certezza come usare quell’insieme di segnetti che nella scrittura si alterna sempre con le parole? Per esempio, quando va usato il trattino? E le virgolette, le parentesi? Perché mai c’è anche il punto e virgola a complicare le cose? Ci vorrebbero regole, indicazioni sicure per tutte le circostanze. Ma dove trovarle? Qualcuno potrebbe osservare che basta rivolgersi ai grammatici per avere tutte le soluzioni. Giusto, allora proviamo. Cominciamo con Luca Serianni. E leggiamo nella Prima lezione di grammatica: «la punteggiatura parrebbe situarsi in una zona della lingua con debole statuto normativo. Ciò dipenderà in buona misura dal fatto che la scuola media e superiore ha considerato tradizionalmente secondaria la scarsa competenza interpuntoria rispetto ad altri decifit espressivi». Ecco. Butta male, perché Serianni ha ragione. Non è stato così anche per voi, quando andavate a scuola? Su quale altro aspetto della scrittura ricordate tanta indulgenza da parte dei vostri insegnanti di italiano? E questo atteggiamento parte da lontano. Già Carlo Collodi nella Grammatica di Giannettino (1883) scriveva: «se sbaglierai a metter bene una virgola o un punto non sarà poi la rovina del mondo». Il corrispettivo, traducendo in gergo calcistico, delle «lievi trattenute» tollerate dagli arbitri di cui parla Andrea De Benedetti nella sua «piccola grammatica immorale», Val più la pratica. Niente da sanzionare con severità, dunque, anche perché un’infrazione esiste solo in confronto a una regola, ma la punteggiatura – come scrive Bice Mortara Garavelli nel suo Prontuario – ha una «natura polimorfa», con statuti labili, «mutevoli nel tempo e non ben definiti», e allora «non di norme si deve parlare, ma ­­­­­xvi

di usi accettabili». Il risultato è che non ci salva neanche Il Salvalingua – il manuale di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota «per risolvere tutti i dubbi dell’italiano parlato e scritto» – che sulla punteggiatura denuncia una resa: «non ci sono regole che dicano in modo netto e sempre valido quando si deve usare un segno d’interpunzione piuttosto che un altro». È un momento difficile, mi rendo conto. L’infanzia è finita. La punteggiatura, nella scrittura, è un banco di prova per la maturità, perché non si riesce a trovare nessuno che ci dica che cosa dobbiamo fare e come. Per alcuni studiosi, infatti, l’interpunzione serve soprattutto a indicare le pause del respiro durante la lettura; per altri è uno strumento logico-sintattico. Da qui la «natura polimorfa» di cui ha parlato Mortara Garavelli, e anche l’indulgenza scolastica. Ecco che allora in un solo colpo perdiamo un punto di riferimento essenziale e il gusto eventuale di trasgredirne la lezione. Di fronte a questo scacco, ci si sente un po’ come JD, il protagonista di Scrubs (2001-2010). Si tratta della serie televisiva creata da Bill Lawrence – in otto stagioni (più una) – in cui appunto JD, specializzando in medicina, ha come supervisore il dottor Cox, un medico brillante ma irascibile e problematico, come il suo collega forse più celebre Gregory House. JD prende servizio all’ospedale Sacro Cuore che è ancora fresco di studi, con migliaia di nozioni apprese sui libri di testo a indicargli la strada. Solo che l’ago della sua bussola ci mette poco a impazzire nella pratica quotidiana del reparto. Per questo JD cerca continuamente il parere di Cox, che elegge subito a mentore. Ha bisogno ­­­­­xvii

di un riferimento solido che lo aiuti a prendere decisioni da cui dipende, in qualche caso, la vita stessa dei suoi pazienti. Ma più lui si rivolge al superiore per ogni piccolo e grande dubbio, più Cox si ritrae, rispondendo alle sue domande con altre domande, in monologhi interminabili – sempre sarcastici e irresistibilmente comici – che, anziché rassicurare lo specializzando, lo rendono ancora più incerto sulle scelte da fare. Non c’è indifferenza, né cinismo ottuso nell’atteggiamento di Cox: i tempi lunghi della narrazione seriale hanno permesso di approfondire anche i lati migliori del suo carattere. C’è, semmai, la consapevolezza che il vero mentore non è quello che si pone come tale, ma quello che aiuta in modo maieutico l’allievo a sviluppare in sé la consapevolezza necessaria anche quando lui non ci sarà. Messa così, forse, fa un po’ meno male. La grammatica, allora, è il nostro dottor Cox, con i suoi stessi pregi e difetti; la stessa riluttanza a proporsi come mentore. Lo studio della lingua, del resto, è il territorio del dubbio: più se ne conoscono le varietà, i cambiamenti nel tempo, le infinite possibilità espressive, più l’orizzonte dei riferimenti si allarga e le scelte diventano responsabilizzanti. E in questa intuizione risiede la forza della grammatica di De Benedetti, in risposta alle tante forme di intolleranza dei «puristi della domenica», come li chiama lui. Perché i linguisti di professione, al contrario, non sono dispensatori di divieti (a patto, certo, che evitiate frasi tipo Me parlare bello un giorno, se non siete David Sedaris). Non prescrivono mai. Piuttosto descrivono – come ricorda De Benedetti – perché il loro compito «non è quello di irreggimentare la lingua ma solo di capire come funziona e di darne una rappresentazio­­­­­xviii

ne». Non fanno altro che indagare l’italiano in tutte le sue varietà, anche al netto del loro gusto e secondo un criterio «sanamente empirico», come dice Serianni nella sua Grammatica italiana. E in questo modo ci mettono a disposizione gli strumenti utili a rendere le nostre scelte consapevoli, non casuali, e coerenti col contesto comunicativo in cui un pensiero deve essere espresso. Una nozione, quella di contesto, su cui questo libro tornerà più volte, perché – come vedremo – fondamentale e molte volte dirimente. Lo spiega bene il Prontuario di Mortara Garavelli; che, allo stato attuale, in materia interpuntiva, è senz’altro il corrispettivo della versione più disponibile e rassicurante del dottor Cox con cui JD abbia mai avuto a che fare. Nel frattempo, dacché Bill Lawrence ha smesso di scrivere Scrubs, nessuno sa più quello che ne sarebbe stato, invecchiando, del vero dottor Cox. E sarà la nostalgia che ne ho da spettatrice, la frenesia a fantasticare da sceneggiatrice, o semplicemente la distanza dagli anni degli studi che mi ha resa più purista della domenica che linguista di professione; sta di fatto che mi immagino Cox, ovunque si trovi a godersi la pensione, finalmente deciso ad aiutare il suo allievo di un tempo a varcare la soglia oltre il dubbio. Lo vedo che si avvicina a JD – che ha smesso di crescere e anche lui ha cominciato a invecchiare – e gli rivela: “se vuoi che la tua bussola funzioni, assicurati che intorno non ci siano magneti”. E tutt’a un tratto questa qui mi sembra la strada da battere anche per la punteggiatura. A pensarci, se il suo ago (la norma) non si è mai del tutto stabilizzato è perché per secoli due forze della stessa intensità se ne sono contesa la punta: da un lato la concezione ­­­­­xix

prosodico-pausativa delle interpunzioni (l’idea che a ogni segno corrisponda una pausa nella respirazione durante la lettura); dall’altro quella logico-sintattica (per cui la posizione dei vari segni determina cambiamenti di significato). E se non ci decidiamo una volta per tutte a scegliere tra queste due forze, nessuna stabilità normativa sarà mai possibile. Per quello che mi riguarda, allora, la concezione pausativa è il magnete; quella sintattica il Nord. Forse mi sbaglio, ma mentre lo scrivo già vedo l’ago che si blocca e come per incanto indica una prima regola. Una certa, riconosciuta da tutti: e cioè che non va messa la virgola tra soggetto e verbo, o tra verbo e complemento oggetto. È così. Se ci convinciamo che la punteggiatura non risponde alle pause del parlato, ma contrassegna i rapporti logico-sintattici esistenti tra le varie parti di una frase (o tra le frasi nel periodo), ecco che riusciamo a individuare almeno una regola per ogni segno interpuntivo, indipendentemente dal fatto che poi possiamo scegliere di trasgredirla per motivi espressivi. E questa è la strada che intendiamo percorrere nelle pagine che seguono, andando oltre le concezioni della punteggiatura del passato, per abbracciare nella trattazione un’ottica dichiaratamente contemporanea che possa essere d’aiuto nella pratica. Se si vuole superare lo stallo, serve infatti il coraggio di sbarazzarsi di tutto quello che un tempo era regola e oggi è fuorviante. Altrimenti si rischia di fare la fine dei fratelli Collyer, raccontati da Edgar L. Doctorow, sepolti da tutti gli oggetti accumulati nel corso degli anni nella loro casa, incapaci com’erano di disfarsene a causa della sindrome da cui erano affetti e che da loro prende il nome. ­­­­­xx

Certo, non si deve arrivare, nel nostro caso, a non prendere in considerazione tutto ciò che non ha a che fare con una concezione puramente segmentatrice o sintattica della punteggiatura, perché anche quello sarebbe un errore: come classificare allora il punto esclamativo, per fare un solo esempio? Si tratta, semmai, di fare una selezione tenendo conto che alcuni segni interpuntivi hanno soprattutto una funzione espressiva e intonazionale (come l’esclamativo, appunto), che altri hanno una funzione logico-sintattica e che tutti – indiscriminatamente – devono tener conto della tipologia del testo in cui sono inseriti. Per spiegarci tutto questo, ad Anton Čechov – tanto per tornare su uno scrittore russo – sono bastate poche pagine: quelle in cui i vari segni interpuntivi si presentano in un incubo a Jefìm Fomìc Perekladin, segretario di collegio, per verificare le sue conoscenze in materia, messe in discussione a una cena da un giovinetto insolente. Nel sogno, il segretario mostra di essere piuttosto preparato sui segni sintattici che usa quotidianamente per lavoro, e invece si trova a disagio davanti al punto esclamativo (che è anche il titolo del racconto di Čechov). Nelle sue lettere impiegatizie non ne ha mai usato uno, perché in quel tipo di testo non rientrano «le espressioni di entusiasmo, di sdegno, di gioia, di collera e di altri sentimenti», generalmente veicolati proprio dall’esclamativo. E mentre, nel rendersene conto, a Perekladin si apre il baratro della meccanicità algida del suo mestiere, tutto insieme opprimente e intollerabile, al lettore si chiarisce il mistero della punteggiatura, improvvisamente svelato in una battuta del giovinetto che è una lezione per l’impie­­­­­xxi

gato, e per tutti: «Non basta che i segni d’interpunzione li poniate correttamente... non basta! Bisogna porli consapevolmente!» Giusto: la sfida è lanciata. Incurante delle insidie, questo libro è intenzionato a raccoglierla, provando a indicare una strada per una consapevolezza possibile. E la sua ambizione è il vero azzardo.

questo è il punto Istruzioni per l’uso della punteggiatura

1.

Capirsi senza pause

Se siete arrivati a questa pagina senza passare per l’introduzione, non potete avere idea di quanto possa essere sfacciatamente ambizioso questo libro. Allora è bene ripartire dalla questione posta da Cesare Pavese: «Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri». Il proposito di questo manualetto è infatti quello di cercare di affrontarla imparando a conoscere la punteggiatura, che nella scrittura è, per l’appunto, «un additivo ad usum lectoris, essenziale alla chiarezza comunicativa» (Maraschio, 1981). Se avete aggrottato la fronte, leggendo queste righe, vuol dire soprattutto due cose: che la pretenziosità di cui sopra ora vi è chiara; e che tuttavia, proprio in virtù di quell’espressione di perplessità, la missione potrebbe non essere impossibile, perché allora la comunicazione in qualche modo c’è stata e ha provocato una reazione. Usare le parole giuste, combinarle correttamente tra loro, magari non ci fa sentire meno soli, ma almeno mette in contatto le nostre solitudini, che è il massimo di comunicazione che ci possiamo aspettare a qualunque livello di consapevolezza linguistica. Poi sono le idee e i significati a permettere un ulteriore salto di qualità nella nostra reciproca comprensione; anche ­­­­­3

se spesso i problemi, compresi quelli linguistici, possono nascere proprio da lì. A volte, infatti, sembra la nostra lingua a essere confusa, e invece in qualche caso può essere che quella fatica non sia altro che il risultato di un pensiero zoppicante. I due aspetti procedono insomma appaiati. Lo gridava già Nanni Moretti in Palombella rossa (1989) – «Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!» – e il concetto vale tanto più per chi scrive. Anche perché spesso non si dà ascolto a quello che consigliava di fare Francis Scott Fitzgerald e cioè di scrivere solo quando «si ha qualcosa da dire» e non tanto «per dire qualcosa». Naturalmente Fitzgerald si riferiva alla scrittura letteraria, ma la sua distinzione dovrebbe valere per ogni tipo di testo, compreso perfino un post di uno qualunque dei social network su cui invece tutti quanti scriviamo continuamente; spesso, appunto, senza avere niente da dire. Questa divagazione serve a farci coraggio, perché provare a spiegare come comunicare correttamente le proprie idee, per contrasto, appare di colpo infinitamente più semplice che provare a spiegare come avercele, le idee (ammesso che ci sia qualcuno intenzionato a realizzare quest’impresa). D’altra parte, sono con Hans Blumenberg quando sostiene che «Possiamo esistere solo perché facciamo digressioni. Se tutti andassero per la via più breve, arriverebbe uno soltanto». E forse una delle idee fondanti della sua filosofia – l’importanza della metafora – può indicarci la direzione per tornare sul tracciato della nostra ricerca. Proviamo allora a pensare all’apprendimento della lingua come a un videogioco a più livelli. Uno di quelli, nar­­­­­4

rativamente complessi, che grazie a Steven Johnson – il gigante di Tutto quello che fa male ti fa bene – cominciano a godere di un certo rispetto anche negli ambienti della cultura “alta”. Bene, pensiamo per esempio a Urban chaos (1999), la storia di D’Arci Stern, recluta del dipartimento di polizia dell’immaginaria Union City, alle prese con una banda di criminali, dietro la quale, si scoprirà all’ultimo livello, ci sono forze ben più grandi e oscure. Per arrivare lì – e ottenere la «gratificazione ritardata» di cui parla Johnson in proposito – ci sono ventitré prove da superare, con un crescente coefficiente di difficoltà. Al primo stadio, c’è l’addestramento minimo (preparazione fisica, guida, uso delle armi, ecc.); all’ultimo, il confronto diretto con la forza a quel punto non più oscura. Ecco, per arrivare a una consapevolezza piena della propria lingua, si procede allo stesso modo. Al primo livello c’è il lessico: la scoperta delle parole (da quelle d’uso quotidiano fino alla capacità di scalare tutti i registri; o di attingere ai serbatoi settoriali). Al secondo, si apprende che quelle parole devono essere declinate (i sostantivi per numero, gli aggettivi anche per genere) o coniugate (i verbi, in base al modo, al tempo, alla persona e al numero). Poi, al livello più alto, c’è la sintassi, che combina le singole unità della frase in un insieme che acquisisce senso; e poi ancora le frasi tra di loro. Se stiamo al gioco, dunque, nella scrittura il mostro più difficile da abbattere – ma anche l’aspetto più gratificante della sfida – si incontra lì. La sintassi è la parte della lingua che si lega al pensiero: è il pensiero che si dispiega in lingua. Per averne un completo dominio servono – oltre, appunto, alla solidità dell’idea che deve ­­­­­5

essere espressa – competenze linguistiche che vanno oltre l’apprendimento mnemonico di regolette (come può essere invece per la fonologia e per la morfologia). Serve un’esperienza della lingua a cui si arriva soltanto con l’esercizio continuo nella lettura e nella scrittura. Quando si arriva a quel livello, nessuna parola in sé – fatta eccezione per quelle che hanno un valore affettivo e appartengono al lessico famigliare di ognuno di noi – esercita lo stesso fascino di un bell’ordito sintattico. Usare le parole è come prendere un aereo per arrivare da una destinazione all’altra. La sintassi però è la cabina di comando. È la macchina (l’aereo), più l’estro e la tecnica dell’uomo. Cambi di marcia, rapide accelerazioni, rallentamenti: tutte manovre legate ai movimenti della cloche – la barra di comando – che, nella scrittura, è rappresentata proprio dalla punteggiatura. Si capisce allora perché, per tornare al videogioco, la sua conoscenza si collochi al livello più alto di difficoltà, e perché, di conseguenza, nella scuola dell’obbligo si sia radicata quella tolleranza nei confronti dell’errore interpuntivo a cui abbiamo fatto cenno nell’introduzione. Non a caso, la sintassi nel suo complesso è studiata più avanti nel percorso scolastico, a un diverso livello di maturità; e, anche nelle grammatiche, i capitoli relativi alla sintassi della proposizione e a quella del periodo sono tra gli ultimi. Prendere coscienza del fatto che la punteggiatura si colloca in quella zona è un primo passo verso la consapevolezza di cui parlava il giovinetto di Čechov. Se il riferimento vi sfugge ma vi mette curiosità, fate lo sforzo, una volta per tutte, di leggere l’introduzione: d’altra parte, ci sarà una ragione se tradizionalmente è collocata all’inizio, no? ­­­­­6

Così come ce n’è uno per cui David Foster Wallace nel suo romanzo postumo, Il re pallido (2011), ha posizionato la sua nel capitolo 9: ma qui siamo su un altro pianeta, uno di quelli che non smetterà di brillare anche se – ahimè – non potrà stupirci più. Tornando sulla terra: considerare i segni interpuntivi uno strumento sintattico sembra scontato, un dato ormai definitivamente acquisito, visto che già nel 1803 il filosofo Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy scriveva: «Ho dovuto menzionare la punteggiatura per completare l’enumerazione di tutti i nostri mezzi della sintassi». E in Italia, nel 1881, nel suo studio Sintassi italiana dell’uso moderno, Raffaello Fornaciari riteneva giusto dedicare un capitolo ai segni di interpunzione. Eppure, nel 1924, il filologo Pio Rajna – definito da Eugenio Montale «un esemplare di ciò che fu l’homo sapiens prima che la sapienza fosse peccato» – sosteneva che le interpunzioni «non sono altra cosa che indicazioni di pause: pause di durata diversissima». Una concezione della punteggiatura talmente diffusa e metabolizzata che in uno dei racconti di Dino Buzzati – “Sciopero dei telefoni” – si dice di una certa signora Franchina «che parlava velocissima senza interpunzioni»; come se, insomma, interpunzione fosse a tutti gli effetti un sinonimo di pausa. Anche solo, magari, una pausa di riflessione – l’anticamera di ogni separazione – come è nel testo del cantautore Dente “Puntino sulla i” (contenuto nell’album Io tra di noi del 2011): Punto, punto e virgola pausa di riflessione, ­­­­­7

puntini di sospensione Punto esclamativo trattino, lineetta virgola, virgoletta come mai non mi scrivi più?

E questa convinzione radicata – l’associazione fuorviante tra punteggiatura e pausa, in senso più stretto, nella respirazione – è il nostro magnete: ciò che continua a disturbare l’ago della bussola normativa. E va contrastata con la consapevolezza che le uniche pause che segnalano i segni interpuntivi sono quelle logico-sintattiche. E allora – non ce ne vogliano Rajna e Buzzati – ripartiamo da qui, e concentriamoci sul fatto che le interpunzioni sono istruzioni che lo scrivente fornisce al lettore perché «possa compiere una serie di ben determinate operazioni mentali il risultato delle quali sia la comprensione da parte del lettore del brano o della frase che ha letto» (Parisi - Conte). D’accordo, ma quali sono allora i segni interpuntivi? Perché in effetti il numero varia a seconda degli studiosi. Per esempio, riprendendo le classificazioni da Storia, regole, eccezioni, alcuni linguisti – come Serianni nella sua Grammatica – includono nell’insieme della punteggiatura, oltre ai segni interpuntivi tradizionali (punto fermo, punto e virgola, due punti, virgola, punti interrogativo ed esclamativo), alcune convenzioni grafiche come l’apostrofo, l’accento, le parentesi, le virgolette, il tratto d’unione, l’asterisco, i puntini di sospensione. Vincenzo Scherma ritiene invece non pertinenti all’àmbito della punteggiatura alcuni tipi di segni tradizionalmente accolti nell’insieme: ­­­­­8

«segni d’interesse tipografico (spazio bianco, caratteri speciali, segno di paragrafo, ecc.), segni appartenenti più propriamente al dominio ortografico (maiuscola, accento, apostrofo, tratto d’unione, ecc.) e segni poco stabilizzati in quanto ad uso (per esempio le parentesi graffe) o appartenenti ad ambiti strettamente specialistici (per esempio, le sbarre verticali)». Arrigo Castellani ha risolto il problema coniando la nozione più ampia di «segni paragrafematici» in cui sono raggruppati sia i segni interpuntivi classici sia altre convenzioni grafiche come l’apostrofo. Si tratta di tutti quei segni, cioè, accomunati dal fatto di non essere pronunciati durante la lettura, pur condizionandone lo svolgimento. Di un punto esclamativo, per intenderci, si tiene conto nell’intonazione di una frase ma non si legge “punto esclamativo”. E lo stesso vale per l’apostrofo. I segni paragrafematici sono dunque strumenti propri dello scritto, pur avendo un rapporto inevitabilmente col parlato. Per Walter J. Ong, del resto, «scrivere è sempre un’imitazione del parlare»: un’imitazione ottenuta attraverso una tecnologia differente rispetto al parlato e cioè la scrittura. Ma come fa la scrittura a “tecnologizzare” la parola? Di quali strumenti si avvale? Uno di questi, senza dubbio, è proprio la punteggiatura, che – e da qui in poi lo daremo come un dato definitivamente acquisito – riguarda lo scritto, pur avendo per forza di cose originariamente relazioni col parlato. E un riscontro significativo in questo senso ci è dato dal fatto che, nel LIP (Lessico di frequenza dell’italiano parlato), gli autori omettono volutamente tutti i segni interpuntivi «salvo il caso del punto interrogativo come ­­­­­9

espressione dell’intonazione interrogativa», proprio perché non considerati pertinenti al parlato. La punteggiatura è infatti un «sistema, specifico dello scritto, essenzialmente orientativo, guida indispensabile per il lettore nella comprensione delle scritture» (Maraschio, 1981). E per questo fanno bene Domenico Parisi e Rosaria Conte a contestare l’idea troppo a lungo tramandata che la virgola rifletta una pausa breve, il punto una pausa lunga, e il punto e virgola una pausa di lunghezza intermedia. Scrivono in proposito i due studiosi: «Questa affermazione ci sembra semplicemente non vera. Se si registra un discorso orale e si individuano le pause e la loro lunghezza, si scopre che non vi è alcuna correlazione di qualche interesse tra pause e presenza della punteggiatura, e tanto meno una correlazione tra lunghezza delle pause e tipo di punteggiatura usata». Allo stesso modo, si dovrebbe contestare il carattere aggiuntivo attribuito al sistema interpuntivo: «non tanto cioè legato al momento primario, ideativo di un testo, quanto ad una fase posteriore di preparazione di quel testo in vista della sua presentazione e degli scopi comunicativi che l’autore si prefigge per esso» (Solarino). Separare le due fasi – ideazione del testo e inserimento della punteggiatura – sarebbe come parlare in una lingua diversa da quella in cui si pensa; e tutti sanno che i veri poliglotti sono quelli che pensano – addirittura sognano – nella lingua in cui hanno bisogno di esprimersi. Può valere, a riprova, quello che scrive Raymond Carver a proposito di Evan Connell: «si rendeva conto di aver finito un racconto quando, rileggendolo, si sorprendeva a togliere delle virgole e poi lo rileggeva da capo e rimetteva ­­­­­10

le virgole al loro posto». Cioè quando, in sostanza, la punteggiatura gli restituiva pienamente il senso originario di ciò che intendeva trasmettere. Anche se, è giusto ricordarlo, Alberto Moravia a proposito degli Indifferenti ha raccontato esattamente il contrario: fu notato che la punteggiatura del libro lascia molto a desiderare. Ciò dipende dal fatto che mentre lo scrivevo non usavo alcuna punteggiatura, limitandomi a separare l’un periodo dall’altro con una lineetta o uno spazio bianco. E questo perché sebbene scrivessi in prosa, ogni frase mi veniva fuori con la proprietà ritmica e solitaria di un verso. Poi, a composizione finita, distribuii un po’ a caso la punteggiatura. Ma in molti luoghi il periodo era così fatto che mi accorgo troppo tardi che forse non avrei dovuto mettere alcuna punteggiatura e presentare il libro così come m’era venuto fatto di scriverlo.

Sull’opportunità di questo ripensamento, per fortuna tardivo, avremo modo di tornare tra poco. Ma resta il fatto che in àmbito di scrittura letteraria le intenzioni degli autori rispondono a esigenze espressive spesso provocatoriamente in contrasto con la chiarezza che andiamo cercando da queste parti. Louis Aragon, per esempio, nel suo Traité du style (1928) ha scritto: «Personalmente, mi piacciono le frasi che si leggono in due modi, e sono per questo ricche di due sensi tra i quali la punteggiatura mi forzerebbe a scegliere. Ora, io non voglio scegliere». Ed Edoardo Sanguineti chiude Postkarten/62, una poesia con la punteggiatura volutamente stravagante, con il verso: «oggi il mio stile è non avere stile:», con i due punti in chiusura, invece del punto. ­­­­­11

Questo per quanto riguarda i ribellismi d’autore; cercando invece punti fermi per una pratica più comune di scrittura, può essere utile ricondurre il nostro fiume di divagazioni nella classificazione delineata nella Grammatica di Serianni (che già ho ripreso in Storia, regole, eccezioni), in cui si riducono a quattro le funzioni fondamentali della punteggiatura. Funzione segmentatrice: i segni interpuntivi possono determinare un cambiamento di significato. Succede quando separano tra loro i diversi elementi di una frase o di un periodo per evitare possibili ambiguità, facilitando in questo modo la piena comprensione del testo. Pensiamo a un esempio tipo: Gli alunni della III E che hanno saltato la lezione dovranno recuperarla.

Gli alunni della III E, che hanno saltato la lezione, dovranno recuperarla.

Nel primo caso si capisce che alcuni alunni della III E hanno saltato la lezione e dunque quelli – e solo loro – dovranno recuperarla; nel secondo, grazie all’inciso, è l’intera classe ad aver lasciato l’aula vuota: si prospetta, cioè, un recupero di massa. E una segmentazione del periodo di questo tipo è anche all’origine del proverbio sul monaco Martino già citato che, volendo abbellire il portale del monastero di Asello con una testimonianza di accoglienza, commissionò una targa con l’iscrizione: Porta patens esto. Nulli claudatur honesto. ‘La porta resti aperta. Non sia chiusa a nessun uomo onesto’. ­­­­­12

Il fatto è che l’incisore sbagliò a mettere il punto, col risultato di un significato opposto alle intenzioni del monaco: Porta patens esto nulli. Claudatur honesto. ‘La porta non resti aperta per nessuno. Sia chiusa all’(uomo) onesto’.

Proprio per questo punto che alterava il senso del messaggio, per volere delle alte sfere della Chiesa, Martino perse la cappa, cioè il mantello di abate, e la carica corrispondente. Funzione sintattica: quando i segni interpuntivi uniscono tra loro due o più frasi all’interno di un periodo (o vari elementi all’interno di una stessa frase), stabiliscono un legame sintattico, esplicitando le gerarchie tra le varie parti. Pensiamo al passo tratto da Gli indifferenti di Moravia (ripreso dalla Grammatica di Serianni): – Il tennis – rispose Carla; dopo di che senza abbracciarsi andarono ciascuna nella propria stanza.

L’esempio – mostrando chiaramente come un segno interpuntivo (nella fattispecie il punto e virgola) può, tra le altre cose, scandire la successione temporale dell’azione – offre anche uno spunto per smentire Moravia a proposito dell’inutilità della punteggiatura nel suo romanzo. Funzione emotivo-intonativa: è quella sconosciuta al Perekladin di Čechov e tipica di tutti quei segni interpuntivi – il punto esclamativo, il punto interrogativo e i ­­­­­13

puntini di sospensione – che danno indicazioni sull’intonazione di una determinata frase e, di conseguenza, anche sul significato della frase stessa. «Hai dormito?», «Hai dormito!» o «Hai dormito...» sono infatti proposizioni diverse non soltanto sul piano intonativo (un attore dovrebbe leggerle in modo diverso), ma anche sul piano del significato. I segni interpuntivi di questo tipo sono talmente comunicativi che in certi casi possono fare anche a meno delle parole. Si pensi all’esempio che segue, tratto da 5 è il numero perfetto di Igort, tra i massimi autori di graphic novel all’italiana (anzi: alla partenopea, vista la robusta presenza di napoletanismi nei dialoghi).

Il punto interrogativo ha in questo caso il ruolo di un’intera battuta (del tipo: «E questa ora che cos’è? Da dove salta fuori?»). Esempi del genere sono molto frequenti nei fumetti, in cui uno o più segni interpuntivi, magari combinati tra loro («?!?!»), sono in grado di esprimere perplessità, sconcerto o disappunto, senza la necessità di parole. Stessa cosa vale per le battute nei dialogati dei romanzi. Quello che segue costituisce l’incipit del capitolo 3 del già citato Il re pallido di David Foster Wallace. ­­­­­14

– A proposito, tu a cosa pensi quando ti masturbi? – ... – ... – Eh?

Si capisce che i puntini rappresentano l’imbarazzo di fronte a una domanda tanto scomoda. Si può dire insomma, con Antonio Frescaroli, che in casi come questo «con i puntini si dà la parola al silenzio: un silenzio che talora è più eloquente dell’eloquenza stessa». Funzione di commento (o metalinguistica): è la funzione tipica, per esempio, delle virgolette alte, o del corsivo, quando segnalano l’uso improprio di un termine, oppure quello particolare che se ne fa in un determinato contesto. È un modo per indurre il lettore a prestare un’attenzione speciale alle parole così evidenziate, come avviene per esempio in un passo del romanzo di Sam Lipsyte, tradotto da Anna Mioni, Chiedi e ti sarà tolto (2011): «Usavamo parole come sistemico, interpolare, apparato critico, ingerenza. Non erano cazzate, ricordo che pensavo allora. Però non erano nemmeno il contrario». A queste quattro funzioni si possono ricondurre tutti i segni interpuntivi, anche se alcuni – come vedremo – hanno cambiato o specializzato nel tempo il loro valore, parallelamente all’evoluzione che nei secoli ha conosciuto la lingua italiana, creando incertezze anche tra chi ha fatto della scrittura il proprio mestiere o – addirittura – la sua stessa ragione di vita. Non sono pochi, infatti, gli autori – tra quelli almeno che pongono la chiarezza tra i loro ­­­­­15

obiettivi espressivi – che avanzano dubbi nell’uso di punti e di virgole; il che, già di per sé, li mette al riparo dall’unico vero rischio, e cioè quello di una mancata consapevolezza (fossero anche solo consapevoli di sbagliare). Truman Capote, per esempio, nella sua “Prefazione” a Musica per camaleonti, vede come spettro contro cui attrezzarsi «la complessità dei paragrafi, della punteggiatura, del dialogo». Un problema che il futurista Filippo Tommaso Marinetti aveva proposto di risolvere alla radice con il proclama: «Le parole liberate dalla punteggiatura irradieranno le une sulle altre, incroceranno i loro diversi magnetismi, secondo il dinamismo ininterrotto del pensiero». Al contrario, nel secolo precedente, Giacomo Leopardi aveva sostenuto che «spesse volte una sola virgola ben messa dà luce a tutto il periodo» e si era mostrato decisamente contrario all’uso di puntini e di lineette: «La scrittura dev’essere scrittura e non algebra», si legge in una pagina dello Zibaldone, «deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l’esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell’animo, è ufficio delle parole così rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica». Leopardi, come ricorda Bruno Migliorini, aveva intenzione di scrivere un Trattatello della punteggiatura che tuttavia non risulta essere stato portato a compimento. Magari solo per mancanza di tempo, o forse perché, per farlo, come ricordava Orazio Lombardelli – a cui si de­­­­­16

ve il primo trattato in materia, L’arte del puntar gli scritti (1585) – sono necessari da parte dell’autore molte fatiche e «molto travaglio». Sta di fatto che Leopardi, magari proprio per questo, è in ottima compagnia, come stiamo per scoprire. Sull’importanza della punteggiatura, tutti d’accordo: ma quanto pochi ne capiscono la portata! Uno scrittore che trascuri la punteggiatura, o punteggi male, si espone a essere frainteso: cosa che, stando alle idee correnti, è la somma di tutti i mali provocati dalla negligenza e dall’ignoranza. Sembra che tutti ignorino che, anche quando il senso è perfettamente chiaro, una frase può perdere metà della sua forza, del suo spirito, del suo carattere per colpa di una punteggiatura sbagliata. Basta che manchi una virgola, e un assioma sembra subito un paradosso, un sarcasmo si trasforma in predicozzo. Non esistono studi sistematici su questo tema, e non esiste un tema su cui uno studio sistematico sia più necessario. A quanto pare circola la nozione vulgata di un argomento basato sulla pura convenzione, non riconducibile entro una norma stabile e comprensibile. Eppure, a guardarla bene, tutta la questione è tanto semplice che il suo fondamento logico si coglie a colpo d’occhio. Se nessuno mi batte sul tempo, uno di questi giorni proverò a scrivere un articolo sulla «Filosofia del Punto».

La pagina riportata (tradotta da Ludovica Koch ed Elisabetta Mazzarotto) è di Edgar Allan Poe, anche lui fermo a un proposito, per quello che ne sappiamo, mai realizzato. Ma in genere ciò che muove un autore – come dovrebbe essere secondo Fitzgerald – è la voglia di far conoscere anche ad altri qualcosa che gli sembrava di non aver compreso fino a un momento prima. E si capisce che questo ­­­­­17

non può valere per Poe, perché in queste poche righe (in cui non fa mai riferimento alla funzione pausativa) mostra di sapere già tutto l’essenziale sulla punteggiatura. Così, tanto per dire.

2.

Punteggiatura e sintassi: quando l’etimologia inganna

Quanti tra quelli che staranno leggendo queste righe sanno già che il significato della parola sfiga deriva dalla ‘sfortuna’ rappresentata, in un’ottica evidentemente maschile (se non maschilista, come è spesso la lingua), dalla negazione, tramite la s privativa, del «massimo bene [...] dell’uomo, origine del mondo» (Fruttero)? Scommetterei, tra i non linguisti, molto pochi. Il fatto è che nel tempo i significati delle parole si possono evolvere fino a disperdere completamente, nella percezione comune, il legame con la loro origine. Al contrario, nel caso della punteggiatura e della sua considerazione distorta, si potrebbe dire che la “sfiga” consista proprio in un significato etimologico che invece non sembra essersi perso: quello di asindeto. Per sapere di che cosa si tratta, torniamo alla grammatica, che tradizionalmente individua tre diversi tipi di relazione tra le frasi che compongono un periodo: la coordinazione o paratassi (quando ognuna delle frasi è autonoma, cioè – almeno apparentemente – indipendente rispetto a quella cui la lega una congiunzione; e avremo modo di tornare sul perché di quell’apparentemente); la subordinazione o ipotassi (quando una o più frasi dipendono gerarchicamente da ­­­­­19

una principale); e quella che ci interessa di più nel nostro caso: la giustapposizione o asindeto (quando le frasi non sono legate tra loro da congiunzioni ma solo da segni interpuntivi). E dunque qual è l’etimologia di asindeto? È certo che, passando per il latino tardo asyndĕton, la parola deriva dal greco ἀσύνδετον, composto da -ἀ privativo e συνδέω ‘legare insieme’. Asindeto significa quindi ‘senza legami’. Ecco, tenendo conto di tutto quello che si è detto nelle pagine precedenti, non vi sembra che in quella a iniziale ci sia qualcosa di ingiusto nei confronti dei segni interpuntivi? Una mancanza di riconoscimento, una negazione fuorviante? Come se, per il solo fatto che non sono parole, e quindi durante la lettura non corrisponda loro un suono, i punti e le virgole non possano essere considerati segni pieni (e invece abbiamo già detto quanto sia vero il contrario). Per certi versi si tratta allora di un’etimologia ingannevole (o, almeno, che andrebbe superata, in una considerazione più moderna della punteggiatura). Perché, anche quando sono segnalati da una virgola, appunto, i legami ci sono eccome; e di natura sintattica riconoscibile e varia, esattamente come nel caso di quelli stabiliti dalle congiunzioni. Qualcuno potrebbe dire che una congiunzione (e questo è un caso in cui il significato etimologico coincide con quello corrente) è come un ponte che fa muovere i significati da una frase all’altra, mentre i segni interpuntivi, anche solo per la loro natura grafica, sembrano piuttosto dighe o barriere, volte più a dividere che a legare. Di questo – se la punteggiatura unisca o separi – si potrebbe discutere a lungo, come si fece qualche tempo fa a proposito ­­­­­20

del trattino nel composto centro-sinistra. Per i moderati, quel trattino era necessario a separare il loro centro dall’urticante parola sinistra; per i progressisti, la mano tesa per unirsi tutti in un’unica famiglia contro la destra. E allora verrebbe in mente, esasperando la metafora del ponte, che la punteggiatura ne rappresenta uno levatoio, come quelli dei castelli medievali, che all’occorrenza può sia dividere sia unire, a seconda che stia assolvendo a una funzione segmentatrice – che serve, come detto, proprio a separare le parole con intento disambiguante – o sintattica: e quest’ultima funzione riguarda la giustapposizione. Ma quali sono le funzioni sintattiche che i segni interpuntivi possono svolgere all’interno del periodo caratterizzato da giustapposizione? Che tipo di legame sanciscono? La risposta è secca: esattamente quelli stabiliti dalle congiunzioni. Tanto che potremmo classificare il tipo di connessione che determinano negli stessi raggruppamenti usati di solito per le congiunzioni. Con un’unica differenza costituita dal fatto che, nel caso del legame asindetico, entrambe le parti sono considerate sintatticamente autonome, mentre non è così per quelle introdotte dalle congiunzioni. Un esempio per chiarire: in un periodo come “Non riesco a dormire. Ho mangiato troppo”, il rapporto tra le due proposizioni è di tipo causale, equivalente alla forma “Non riesco a dormire perché ho mangiato troppo”. Nel primo caso, però, le due frasi che compongono il periodo (“Non riesco a dormire”; “Ho mangiato troppo”) sono indipendenti: potrebbero, insomma, non aver bisogno l’una dell’altra per reggersi logicamente e sintatticamente; al contrario della ­­­­­21

frase introdotta dalla congiunzione (“perché ho mangiato troppo”), che invece da sola sembra restare sospesa. E, pur non volendo esagerare, questo potrebbe valere anche per le proposizioni introdotte da alcune congiunzioni coordinative. Non vi sembra, per esempio, che in un periodo come “capisco i vegetariani però non so fare a meno del prosciutto”, la frase introdotta da però, presa in sé, suoni un po’ come incompiuta? Ma a dirla tutta – e dunque sì, esageriamo – non direste che questo possa valere addirittura per alcuni tipi di frasi principali o reggenti? La risposta arriva da Marco Svolacchia che, soffermandosi sull’esempio di un periodo come «Mio fratello vuole che Maria vada a casa sua», ha osservato: la frase principale non è indipendente perché deve essere completata dalla frase dipendente; infatti ‘*Mio fratello vuole’ è una frase inaccettabile in quanto incompleta. La ragione è che il verbo volere richiede un complemento, rappresentato nella frase da ‘che Maria vada a casa sua’, detta appunto ‘frase completiva’ (= frase complemento).

Si potrebbe dire in proposito che la sintassi del periodo chiarisca meglio di qualunque trattazione giuridica il concetto di federalismo, per come dovrebbe essere: con parti solo apparentemente autonome, perché in definitiva acquistano significato solo in relazione tra loro e nel contesto dello stato che tutte insieme costituiscono. Tornando a noi, quanto osservato da Svolacchia vuol dire soprattutto due cose. La prima è che non solo asindeto ma anche altri termini tecnici, come appunto indipendente (se stiamo al loro crudo significato), a volte sembrano ina­­­­­22

deguati e quindi è bene usarli con la consapevolezza che si tratta comunque di una convenzione utile per intenderci, né più né meno del nome proprio delle persone (il cui significato spesso è distante – se non addirittura antitetico – dall’individuo a cui è associato). La seconda è che tutte le parti di un periodo contribuiscono, sia pure in misura diversa, al raggiungimento di un unico significato, che non sarebbe lo stesso se una parte mancasse. Come avviene, su un altro piano, nella narrazione, quando si parla di personaggi principali e secondari: potremmo dire – e su questo si rimanda al saggio di Giordano Meacci Fuori i secondi – che Don Chisciotte sarebbe stato lo stesso senza l’interazione con Sancho Panza? O Sherlock Holmes senza quella col dottor Watson? Tenendo presente, a questo punto, la sostanziale e reciproca dipendenza delle parti del periodo, e senza voler associare alla considerazione alcun giudizio di valore, si tratta solo di stabilire una gerarchia tra le varie proposizioni, in ragione di un principio di minore o maggiore presunta indipendenza. Vediamo allora che cosa succede se pensiamo al periodo come a una specie di famiglia, in cui la funzione genitoriale evidentemente è assolta dalla frase principale (con la consapevolezza, anche qui, che, una volta messo al mondo un figlio, nessun genitore può dirsi del tutto indipendente). Nel caso dell’asindeto ci troveremmo di fronte a un livello avanzato di maturità da parte delle frasi-figlie, perché, anche se legate ai genitori, sono perfettamente in grado di scegliersi la loro direzione. Mentre nel caso di quelle introdotte dalle congiunzioni, si capisce che attraversano la strada tenendo ancora stretta la mano della mamma o del papà. ­­­­­23

Qualcuno qui potrebbe storcere il naso, tenendo conto di come vengono considerate tradizionalmente le frasi subordinate. Ma leggiamo che cosa dice Serianni nella sua Grammatica: Se è indubbio che l’ipotassi rappresenta la dimensione propria dell’elaborazione letteraria, non vale necessariamente e automaticamente l’inverso, vale a dire che la paratassi o la giustapposizione siano indizio di stile «ingenuo» o «primitivo». Anzi, è stato addirittura affermato che, almeno nei testi colti, «la strutturazione asindetica implica sempre una fase anteriore di chiarificazione dei rapporti che solitamente vengono indicati dalle congiunzioni».

E Serianni aggiunge (citando a sua volta Pietro Trifone): «in diversi casi la non esplicitazione dei rapporti logici tra le proposizioni, propria della giustapposizione, “costituisce pertanto uno stadio più avanzato rispetto all’ipotassi, volto a potenziare la tensione espressiva”». Per fortuna non si tratta di una gara, né siamo costretti a una scelta irreversibile, nel senso che possiamo tranquillamente continuare a svariare tra un tipo di sintassi e l’altra, a seconda del contesto, dello stile e del ritmo che vogliamo imprimere alle diverse parti del testo che stiamo scrivendo. Quello che è importante ribadire, per esserne definitivamente consapevoli, è che la punteggiatura è a tutti gli effetti uno strumento sintattico e, come le congiunzioni, può legare tra loro frasi con diverse funzioni nel periodo. Proprio a partire dalla classificazione di queste funzioni – come si è detto – potremmo individuare altrettante eti­­­­­24

chette con cui raggruppare i segni interpuntivi a seconda del tipo di connessione che stabiliscono. Per esempio, proprio come le congiunzioni avversative (ma, tuttavia, nondimeno, ecc.), il punto, i due punti o il punto e virgola possono legare una proposizione a un’altra dal significato contrario, o possono limitare o specificare quel significato, come nel caso di: “Non vado mai in discoteca. Stasera farò un’eccezione”. In un periodo di questo tipo, al posto del punto, si diceva, si potrebbe usare anche il punto e virgola o i due punti. Le differenze sono sul piano logico. Se ci pensate, il segno interpuntivo sembra un gradino per caricare il saltello che ci sposta da un significato all’altro. Quel gradino può essere alto, come nel caso del punto, in modo che non si riesca a vedere di là da quello e il ribaltamento di senso ci sorprenda. O può essere più basso, come nel caso del punto e virgola (“Non vado mai in discoteca; stasera farò un’eccezione”), cosicché il lettore si possa preparare a quello che lo aspetta oltre il salto, per quanto ancora incerto degli sviluppi. Oppure, ancora, nel caso dei due punti (“Non vado mai in discoteca: stasera farò un’eccezione”), il gradino può essere sottile quanto la soglia di una porta già spalancata per il lettore verso l’ultimo significato che acquisirà il periodo completo. Un altro tipo di connessione può essere quella esplicativa, che si ha quando in un periodo la proposizione iniziale viene spiegata dalla successiva, che ne chiarisce il senso con una o più esemplificazioni. In questo caso bisogna usare sempre i due punti. L’esempio tipico è quello di un elenco solo nominale, come nel periodo “L’inglese è lingua nazionale in molti paesi: il Regno Unito, gli Stati Uniti, l’Au­­­­­25

stralia, tra gli altri”. Qui i due punti hanno lo stesso valore della congiunzione esplicativa cioè, e con questa funzione possono introdurre anche una o più proposizioni complesse, come per esempio in “Ho fatto tante cose ieri: ho letto in un fiato Un segno invisibile e mio di Aimee Bender, che mi è sembrato bellissimo; ho fatto la spesa, cucinato la cena per i miei amici e ho scritto metà del soggetto che devo consegnare”. Altre volte i due punti svolgono la funzione della congiunzione infatti (ancora esplicativa), come nell’esempio offerto dal romanzo di Nicola Lagioia Riportando tutto a casa (2009), in cui più in generale i due punti sono usati spesso (anche dove ci aspetteremmo altri segni) e con funzioni sintattiche diverse: «Ed eccoci perfettamente svegli: sfrecciamo sulla tangenziale appena rimessa a nuovo». In qualche caso i segni di punteggiatura possono sostituire anche le congiunzioni subordinative, quelle cioè che introducono una proposizione subordinata come la causale, a cui abbiamo già fatto cenno, e anche qui – come ricordano Della Valle, Patota e Serianni nella grammatica L’italiano, da cui sono tratti gli esempi che seguono – si possono usare, con differenti sfumature, la virgola, il punto, il punto e virgola e i due punti. «L’uomo scese dall’auto e si fermò. Due automobili poste trasversalmente gli impedivano di proseguire» equivale alla forma corrispondente con congiunzione: “L’uomo scese dall’auto e si fermò poiché due automobili poste trasversalmente gli impedivano di proseguire”; esattamente come «Non ti ho telefonato. Ero stanco» sta per “Non ti ho telefonato perché ero stanco”. Naturalmente, tutto questo non significa che i segni in­­­­­26

terpuntivi hanno un valore sintattico solo quando il periodo procede per asindeto. Tra l’altro, spesso si trovano in combinazione proprio con le congiunzioni, definendo una volta di più i confini tra una proposizione e l’altra (lo so, forse pensate che, se segna i confini, allora la punteggiatura divide più che legare, e questa convinzione è la ragione per cui falliscono molti matrimoni, come se due unità distinte non potessero essere unite senza confondersi l’una nell’altra, quando invece i legami durano proprio se si accetta il contrario, ma ora non c’entra; mi rendo conto). L’uso combinato di congiunzioni e di punteggiatura è uno di quelli che nella pratica suscitano maggiori incertezze, forse proprio perché le due soluzioni sono avvertite come alternative non solo quando si trovano tra una proposizione e l’altra, ma anche all’interno di una singola frase, e quindi non si capisce se si può, o quando appunto si deve, usarle insieme. Si rimanda a questo proposito al Prontuario di Mortara Garavelli, che risponde in modo circostanziato a molti dubbi su questo aspetto (come per esempio: «in quali casi una virgola non si mette e in quali invece si può, o si deve, mettere immediatamente prima della congiunzione e»?); dubbi che però hanno a che fare più con la funzione segmentatrice della punteggiatura che con quella sintattica. Per questo, qui ci basta ricordare che, se il nostro fine è la chiarezza comunicativa, qualunque scelta ci permetta di restituire sulla carta il pensiero che abbiamo in testa, senza il rischio di ambiguità, è una scelta giusta. Anche ignorando, all’occorrenza, il bagaglio di regolette astratte che ci resta dalla scuola, dove ci avranno ripetu­­­­­27

to mille volte che prima della e non ci vuole la virgola. Un esempio per chiarire, tratto da La punteggiatura di Simone Fornara: la frase «Il bottino venne spartito in parti uguali tra il capo-banda, la talpa, il complice e la sua compagna» è diversa da «Il bottino venne spartito in parti uguali tra il capo-banda, la talpa, il complice, e la sua compagna». Nel primo caso, infatti, si deduce una divisione in tre parti (una al capo, una alla talpa, e una al complice e alla sua compagna, che quindi si dividono in due una parte di tre); nel secondo, proprio grazie alla virgola, la compagna invece sembra essere degna di una parte (di quattro) tutta sua. In questo modo, un segno interpuntivo rende tutto molto chiaro. E i dubbi che restano allora – ripulendo per un attimo il pensiero e concentrandoci solo sul significato della frase, nelle due varianti – sono di altro tipo, e cioè: a quale titolo la compagna del complice riceve un compenso? Tanto più che il complice non è neanche il capo-banda (infatti distinto da lui nell’elenco). E perché le compagne del capo-banda e della talpa non dovrebbero aspirare allo stesso trattamento? O dobbiamo dedurre che i due siano single, o separati, o vedovi? E se invece la donna avesse avuto parte attiva al colpo, perché non nominarla in base al ruolo svolto – come vale per gli altri elementi della banda – e non in quanto «femmina dell’uomo» (secondo la definizione di donna dei dizionari del passato)? Tutto questo solo per tornare a Fitzgerald, e al fatto che a volte, anche quando si ha in testa molto chiara la cosa da dire (come succede negli esempi fittizi creati con un intento mirato nelle grammatiche o in saggi come il nostro), se consideriamo gli aspetti della lingua a compartimenti stagni, ­­­­­28

c’è sempre qualcosa che sfugge al controllo. Per questo molti scrittori considerano la loro attività una dannazione: perché scrivere è difficile. E Truman Capote lo ricorda in Musica per camaleonti: «Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l’auto flagellazione». Ho aspettato un po’ per dirvelo, ma è tempo che sappiate che a questo serve la consapevolezza di cui parlava Čechov: a essere spietati con tutte le cose che scriviamo. Una volta buttata giù una frase, e poi un periodo, e poi un intero paragrafo, quando ci rileggiamo non ci dobbiamo fare sconti, a costo di perderci il sonno come il povero Perekladin; e questa qui – davvero – è l’unica regola della scrittura valida per tutti. Coraggio.

3.

Il punto della situazione: una guida in forma di glossario

Abbiamo cominciato questo viaggio intorno ai punti paragonando la grammatica al dottor Cox della serie televisiva Scrubs. Entrambi restii a svolgere il ruolo di mentore nei confronti di chi, smarrito tra i dubbi, va in cerca di consigli: che sia uno scrivente insicuro sull’uso della punteggiatura, o lo specializzando in medicina JD alle prese con un paziente difficile. Il fatto, però, che la grammatica non ci sappia suggerire soluzioni a tutti i dubbi interpuntivi non significa che non ce ne indichi nessuna. Paletti ci sono eccome – sulla base dei quali, poi, lo scrivente può esercitare il proprio libero arbitrio – ed è sempre bene tenerli in considerazione. Una specie di corrispettivo delle nozioni che JD ha acquisito con la laurea: magari insufficienti a risolvere tutti i problemi del reparto, ma certo imprescindibili. Un conto, per intenderci, è non riuscire a formulare una diagnosi certa sulla base di sintomi magari comuni a tre diverse patologie, un conto è non sapere come si misura la pressione. Questo capitolo serve dunque a mettere in fila le nozioni di base sui vari segni interpuntivi (organizzati in ordine alfabetico come in un glossario). Serve, insomma, a piantare paletti per non mandarvi fuoripista. E l’ennesimo parallelo – questa volta con lo sci – vale il consiglio di ri­­­­­31

manere sul tracciato, se non siete sciatori esperti. Lasciate serpentine e scodinzoli arditi agli scrittori di professione; e anche quando andate alla ricerca di un vostro stile, state attenti a non stravolgere quel patto convenzionale che rende possibile la comunicazione. A che cosa servirebbe un libretto di istruzioni IKEA espressionista? A che cosa un messaggio in chat, se la persona di cui vi siete innamorati, per una virgola di troppo, non riesce a capire che la state invitando a cena? E allora, prima di entrare nel dettaglio dei vari segni, ancora qualche raccomandazione di carattere generale (valida per qualunque tipo di testo): – di fronte alla pagina bianca, cercate di avere prima di tutto chiaro in testa quello che volete dire (molte inesattezze sintattiche derivano proprio da quello che i linguisti chiamano “cambio di progetto”: quando il ragionamento vira bruscamente rispetto a una sua impostazione iniziale, come succede nel parlato, con l’affiorare affastellato dei pensieri); – cominciate col curare la singola frase, facendo attenzione a non separare con la punteggiatura, se non in un inciso, elementi appartenenti alla stessa unità logica (soggetto-predicato, predicato-complemento diretto, ecc.); – a quel punto, legate tra loro le frasi, facendo attenzione di nuovo a non separare unità logiche più complesse (un’intera frase soggettiva dal predicato corrispondente, ecc.). Quando poi i singoli paragrafi vi sembrano conclusi, e nella loro successione il vostro testo è finalmente ­­­­­32

compiuto, non dimenticate una revisione complessiva, per verificare, come prima cosa, se le vostre parole vi restituiscono sulla carta proprio quell’idea che dovevate avere chiara in testa prima di cominciare a scrivere (sia pure variata, o addirittura confutata, proprio in ragione dell’esame a cui sempre una scrittura efficace sottopone il pensiero). Arrivati al punto finale, allora (la doppia mandata a porta chiusa), non dimenticate una ricognizione come quella che si dovrebbe sempre fare prima di uscire di casa controllando che l’interruttore del gas sia chiuso, il telefonino e il portafoglio siano in tasca e le chiavi della macchina a portata di mano. E a quel punto, in caso di dubbi, sottoponete il vostro testo alla verifica del glossario che segue. Magari non ci troverete tutte le risposte che vi servono, ma è possibile che vi aiuti almeno a formulare le domande giuste. AVVERTENZA: ogni lemma è organizzato in modo da avere per ogni segno l’elenco delle sue funzioni principali con relativi esempi; a quello segue, quando è il caso, un riquadro dei divieti e degli usi consentiti, ed eventuali eccezioni letterarie, su cui pure si tornerà nel prossimo capitolo.

due punti 

:

Per certi versi i due punti mostrano meglio di qualunque altro segno, tra gli interpuntivi tradizionali, l’infondatezza della concezione pausativa della punteggiatura: perché quasi mai scandiscono il periodo – e mai, appunto, ­­­­­33

secondo presunte pause della respirazione – che invece espandono con informazioni utili per «illustrare, chiarire, argomentare quanto affermato in precedenza», come dice nella sua Grammatica Serianni, da cui si riprende anche la ripartizione delle funzioni specifiche che segue. – Funzione sintattico-argomentativa: i due punti possono introdurre la conseguenza logica di quanto espresso nella reggente. Come per esempio nel caso di: «Ho letto tante volte la Grammatica di Serianni: posso fare citazioni a memoria». In questo caso i due punti si pongono come una specie di porta aperta tra due dimensioni regolate da un rapporto logico di causa ed effetto. – Funzione sintattico-descrittiva: è quella che svolgono i due punti quando arricchiscono di particolari quanto è stato detto prima. Per esempio: «Il buio oltre la siepe è un romanzo bellissimo: emozionante, divertente, con una commovente voce narrante». – Funzione appositiva: i due punti possono introdurre una frase che ha – rispetto a quella che la precede – il valore di un’apposizione nell’analisi logica. Per esempio: «Il buio oltre la siepe di Harper Lee è un romanzo bellissimo: il racconto di una famiglia speciale». – Funzione segmentatrice: i due punti introducono il discorso diretto, e sono seguiti o dalla lineetta o dalle virgolette (dopo le quali va sempre la lettera maiuscola iniziale). Per esempio, sono ugualmente accettabili le due ­­­­­34

forme: “Quando ha cominciato a leggere, un’amica mi ha chiesto: «Che c’entra il dottor Cox in un libro sulla punteggiatura?»” e “Quando ha cominciato a leggere, un’amica mi ha chiesto: – Che c’entra il dottor Cox in un libro sulla punteggiatura?”. C’è poi chi, come Paolo Sortino, nel suo romanzo d’esordio Elisabeth (2011), per il discorso diretto omette i due punti e usa sia le virgolette sia la lineetta, a seconda che sia, potremmo dire, in presa diretta, o riferito dalla voce narrante (come se si trattasse, insomma, di una citazione). Si trovano cioè passi come questo: – E come cazzo faccio senza sapone, senza un asciugamano, senza un ricambio, senza niente di niente, me lo dici? E con questo nodo ai piedi... – Devi portare pazienza, amore mio. – Dimmi come faccio.

E poi altri come questo: Voltava lo sguardo dall’altra parte e si tappava le orecchie per non sentire. E quando le disse di piantarla, di non mugugnare certe preghiere perché lo innervosivano, sicura di sé rispose che «ci sono più relazioni tra il pensare e il secernere di quante ne sospettiamo tra la carne e lo spirito».

Ancora, più comunemente i due punti vengono usati per introdurre un’enumerazione: l’esemplificazione, cioè, attraverso un elenco, di ciò che li precede. Come nel caso che segue: “Ecco i cinque più grandi marcatori di tutti i tempi nel campionato italiano con la stessa maglia secondo Wiki­­­­­35

pedia: Francesco Totti, Gunnar Nordahl, Giuseppe Meazza, Alessandro Del Piero e Giampiero Boniperti”. SÌ

NO

quando introducono un complemento oggetto;

Marco chiese il conto.

Marco chiese: il conto.

o quando precedono una frase subordinata.

Visto il conto, Marco ha detto che si sentiva male.

Visto il conto, Marco ha detto: che si sentiva male.

I due punti NON vanno usati

nel discorso indiretto dopo i verba dicendi (chiedere, dire, domandare, ecc.):

In genere i grammatici tendono a vietare i due punti anche nelle enumerazioni quando dividono il soggetto dal suo predicato, come in: “Nella dispensa c’erano: scatole, barattoli e bottiglie”; o il predicato dal completo oggetto, come in: “Ha preso dalla borsa: la sciarpa, il cappello e i guanti”. L’impressione, tuttavia, è che in questi casi si possano tollerare, e che la violazione procurerebbe danni alla comprensione solo se al posto dei due punti ci fossero altri segni (come il punto, la virgola o il punto e virgola). I due punti, infatti, assolvono a un ruolo «metatestuale (e metacomunicativo)», come ha scritto Mortara Garavelli nel suo Prontuario: «si lasciano interpretare come annunci riguardanti il discorso in atto». È come se dicessero – aggiunge ancora Mortara Garavelli, citando a sua volta CortiManzotti-Ravazzoli – “Attenti che adesso segue qualcosa”, richiamando in questo modo l’attenzione su ciò che arriva subito dopo, permettendo di tenere saldamente sotto controllo il filo del discorso, e dunque rendendo possibile la sua piena comprensione. Come in un passo dell’intro­­­­­36

duzione di questo libro, quando si è detto: «La risposta – quella che digitate un secondo dopo – è: “Mannaggia, è arrivato il mio capo, devo chiudere. Stai su, eh... ci sentiamo presto”». In quel caso, infatti, stando alla norma non avremmo dovuto inserire i due punti tra è e la risposta tra virgolette. Si tratta dello stesso uso che fa Gianluigi Ricuperati nel romanzo Il mio impero è nell’aria (2011) in frasi tipo: «Il problema era: “il suicidio”» (e l’autore gioca più volte a forzare la natura dei due punti anche in altri modi, come in «Non c’erano stati traumi, o grandi fratture. Soltanto: non mi andava di parlarci, e lui non era quel che si direbbe un oratore»). E ancora: proprio perché in definitiva quello che conta nella distribuzione dei segni interpuntivi è rendere possibile la comunicazione (col pensiero fisso a Pavese), sarebbe meglio evitare l’uso dei due punti in sequenza, tipico delle opere di Carlo Emilio Gadda, come nell’esempio tratto da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957): All’anulare destro, sulla mano bianca dalle lunghe dita di signore, che gli servivano da scotere la sigaretta, er signorino ci aveva un anello: d’oro vecchio, assai giallo: magnifico: un diaspro sanguigno nel castone; un diaspro ovale con una cifra a matrice.

Se non si è Gadda, insomma, meglio evitare di perdersi nel labirinto di porte aperte, e restare concentrati sul filo logico del periodo, ricorrendo a forme interpuntive canoniche e più facilmente controllabili.

­­­­­37

parentesi  ( ) Le parentesi – aperta e chiusa ( ) – contengono un inciso, esattamente come una coppia di virgole o di lineette, anche se la loro forma (una barriera più alta da superare) suggerisce, rispetto a quelle, una separazione più netta rispetto al resto del periodo. Scrive in proposito Antonio Porta: (Parentesi, come muro. In certi punti devo tracciare il segno della separazione, non della separatezza: voglio essere capace, poter toglierla o metterla quando mi pare necessario. E quando potrà sembrare necessario? Filo spinato. Cocci di bottiglia, muretto a secco ricoperto di rovi... Quando la volontà di comunicare sarà così forte da premere con tanta energia sull’argine che la piccola diga cede e la scrittura fuoriesce, e si presenta come lavoro, come il mio lavoro, e va usata, deve servire, meccanismo iperdelicato, mano...)

In genere, proprio per questo stato di «separazione», il contenuto delle parentesi è marginale rispetto al fuoco principale del discorso e costituito da informazioni accessorie, come nell’esempio che segue: “indossava un cappotto rosso (comprato a Parigi) e un cappello talmente vistoso che era impossibile non notarla”. Le parentesi possono inoltre contenere esemplificazioni di quanto è stato già detto, come in: “non ama la frutta (specie le mele e le arance), e invece mangia volentieri ogni tipo di verdura”. In tutti questi casi si tratta dunque di elementi non indispensabili: saltando l’inciso nella lettura il senso logico del discorso resta ugualmente comprensibile. Forse è per questo che in letteratura le parentesi sono meno frequenti ­­­­­38

rispetto agli altri segni interpuntivi (gli scrittori, quando si prendono troppo sul serio, tendono a considerare imprescindibile ogni parola uscita dalla loro penna); o forse perché per tanto tempo, anche a scuola, si è tramandata l’idea secondo cui le «numerose parentesi, specialmente nella prosa, possono essere indizio nello scrittore di disordine e di poco accurata analisi dei concetti» (Malagòli). Anche se, in effetti, avere consapevolezza di una gerarchia delle parti del discorso sembra più prova di ordine e di controllo, che il contrario; tant’è che Alfredo Panzini, nello sconsigliare l’abuso delle parentesi, ne fa più che altro una questione estetica, con riferimento alle riprese del discorso a cui costringerebbero: La parentesi è molto comoda, ma è prudenza non fare parentesi o troppo spesse o troppo lunghe. Il lettore perde il filo oppure crede che l’abbia perduto l’autore, tanto è vero che dopo si trova ripreso il discorso ripetendo la parola lasciata là in mezzo alla strada, oppure con un dicevo prima, dicevamo, che sono come un gancio per riattaccare; ma sono poco belli.

C’è poi il tentativo di Antonio Frescaroli di una classificazione in base al contenuto delle parentesi (da quelle dettaglio, che spingono l’attenzione del lettore a sostare su un particolare, a quelle aneddoto che contengono divagazioni narrative, solo per fare qualche esempio), ma le sue categorie, a volte fantasiose (come la variante pettegolezzo), sembrano astrazioni che confondono anziché aiutare a capire l’uso di questo segno; anche perché, come ha scritto Mortara Garavelli (ma questa volta in uno studio sulle frasi incidentali del 1956): ­­­­­39

Anche ad una prima, sommaria valutazione non è possibile prescindere dalle infinite sfumature tonali che distinguono le frasi parentetiche; una distinzione basata unicamente su costanti di carattere formale si vedrebbe preclusa una vasta sfera, senza dubbio la più interessante, e si troverebbe continuamente inceppata dalla propria insufficienza a cogliere in maniera adeguata l’essenza della manifestazione linguistica. In altri termini, si tratta del valore espressivo della parentesi, che uno studio limitato a considerazioni d’indole grammaticale e sintattica non può arrivare a proporsi come oggetto di ricerca.

Nei casi in cui troviamo le parentesi in letteratura, in effetti, il loro contenuto ha quasi sempre un valore espressivo. È così nella parentesi metalinguistica citata da Porta; ed è così nel racconto contenuto in Live (1996) di Sandro Veronesi in cui l’autore intervista il collega inglese Ian McEwan. Dopo qualche domanda e risposta in successione, c’è una lunga parentesi, staccata dal resto del discorso e segnalata anche dal corsivo: (A questo punto dell’intervista accade una cosa che la condizionerà, e della quale devo dunque dar conto: un irlandese ubriaco si avvicina al nostro tavolo, vi appoggia sopra la birra e ci chiede di tenerla d’occhio mentre lui va in bagno. Poi, barcollando, va in bagno.)

Da quel momento in poi, il controcanto egocentrico dell’ubriaco, al rientro dal bagno, si alternerà alle domande di Veronesi e alle risposte di McEwan fino a che Eugene – è questo il nome dell’irlandese – si prende del tutto la scena, pretendendo, “fuor di parentesi”, un’intervista tutta sua, che trasforma quella di partenza in un racconto vero e proprio. ­­­­­40

Ancora, valore espressivo hanno anche le parentesi usate nel suo romanzo d’esordio, Più leggero dell’aria (2010), da Fabio Guarnaccia. Una specie di cantuccio dei pensieri dell’io narrante, quasi sempre ironici, come nel caso di: «Mi alzo e vado verso il tabernacolo, lascio impronte umidicce su tutto lo sportello (come diavolo si apre?)». O ancora: «Al che mi mordo la lingua per non parlare. Lascio che sia Elio a risponderle. Ma Elio si limita a bofonchiare qualcosa (ma come? Com’è possibile che non dica nulla, persino adesso?)». Un autore che già qualche tempo fa usava spesso le parentesi è Tommaso Landolfi. Le parentetiche sono solo uno dei vari tipi di incidentali che si moltiplicano nella sua sintassi, dall’architettura complessa e sontuosa; e il loro contenuto spesso denuncia la sua insaziabile «volontà di linguaggio» (per dirla con Giorgio Vasta, tra i narratori contemporanei, insieme a Michele Mari, il più vicino alla sua ricerca), perché la lingua a disposizione sembra sempre insufficiente, come fosse un’istantanea sfocata a cui l’autore sente di dovere aggiungere una didascalia. In molti casi le parentesi accolgono infatti forme di correctio (‘correzione’), come le ha definite in altro contesto Pier Vincenzo Mengaldo (1991), e cioè postille per correggere, appunto, o attenuare quanto detto prima, nel tentativo di dimostrare «che la lingua non può dire tutto, ma forse riesce a dire qualcosa, a patto che la si circuisca e quasi la si corteggi con assidua pazienza, disposti allo scacco». Qualche esempio per chiarire, tratto dall’antologia landolfiana di racconti curata da Italo Calvino: «Ora di riscomparire nell’inferno (macché, devi dire: nel baratro infernale)...»; «tenero e sdilinquito ­­­­­41

e (se così si può dire) sdilinquente»; «Quella misteriosa e dilagante grandigia interiore (come anche potremmo arrischiarci a chiamarla)». Ancora, pensiamo a Il mestiere più antico del mondo (2011) di Antonio Leotti. Qui le parentesi tra le altre cose servono alla voce narrante in prima persona per separare la consapevolezza del presente della scrittura dal passato narrato, come nel brano che segue: Non mi piacevano i comunisti (che avevo sotto gli occhi dalla nascita), nulla di personale, ma detestavo (e detesto) il loro dogmatismo, il settarismo, il modo, invero poco trasparente, con il quale gestivano (e gestiscono) il potere, quell’appartarsi nelle segrete stanze dei “bottoni”, sempre e solo tra loro, i santi eletti e selezionati dai capi, odiavo (e odio) quello sguardo di condiscendenza dolente e di superiorità, quel vittimismo capzioso di chi pretende di portare il mondo sulle spalle che avevano (e hanno) quando si degnavano di parlare con te.

In un testo di tipo argomentativo (come la prosa saggistica), le parentesi possono contenere i rimandi bibliografici. In questo libro, per esempio, alla fine di una citazione – quando non è esplicitato il titolo del testo ripreso – si trova tra parentesi il nome del suo autore, secondo il criterio spiegato nei riferimenti bibliografici in coda al volume. Le parentesi sono poi usate nei testi teatrali o nelle sceneggiature per le didascalie all’interno del dialogo, con indicazioni per l’attore sui gesti da fare in combinazione con le battute, o sul tono che deve assumere nel pronunciarle. L’esempio è tratto dalla sceneggiatura del film Il ladro di ­­­­­42

bambini (1992), scritta dal regista Gianni Amelio con Sandro Petraglia e Stefano Rulli: scena 31 Reggio Calabria. Bar-ristorante – Interno giorno

Antonio entra, seguito dai due bambini. Gli va incontro un ragazzetto (raffaele) vestito da cameriere raffaele

Il locale è chiuso, dovete andar via. C’è una ceri-

monia. Antonio lo guarda, divertito. antonio Raffaele! E non mi riconosci più!... (lo prende affettuosamente per il collo e lo stringe a sé)... Oh, si’ tu che si’ cresciuto, no io. raffaele

Zio Antonio!

antonio

Eh! Unn’è ’a mamma?

raffaele

(facendo segno) Di là. E la divisa?

(indicando il borsone) La divisa, qua sta. (S’inoltra nel locale) [...] antonio

Oltre alle parentesi tonde, che sono di gran lunga le più diffuse, esistono anche le quadre [ ] e le graffe {}: tutte usate anche in matematica (impossibile dimenticare la loro comparsa, a un certo punto del percorso scolastico, nelle espressioni aritmetiche); e tutte quante da adoperare sempre in coppia. Il perché ce lo spiega a modo suo Gianni Rodari: C’era una volta una parentesi aperta ­­­­­43

e uno scolaro si scordò di chiuderla. Per colpa di quel somaro la poveretta buscò un raffreddore, e faceva uno sternuto al minuto. Passato il malore fece scrivere da un pittore il seguente cartello: “Chi mi apre, mi chiuda, per favore”.

Da ricordare ancora che le parentesi quadre si usano in sostituzione delle tonde quando una coppia è contenuta in un’altra, tipo le scatole cinesi, come quando si cita tra parentesi un testo che ne contiene a sua volta. Per esempio in: “alcuni hanno criticato il padre di Eluana Englaro, lasciandolo solo in quello che è stato prima di tutto un gesto d’amore (Michele Serra il 5 febbraio ha scritto in proposito: «E l’accettazione della morte, che è il più difficile dei pensieri, si manifesta meglio, in questa vicenda, nel campo cosiddetto laico, nella pietosa e interminabile veglia di un padre che parla a nome di una sola persona [sua figlia] e non ha al fianco le moltitudini che confidano, beate loro, nell’aldilà»)”. E ancora, le quadre racchiudono i tre puntini per indicare un taglio in una citazione (come nella scena ripresa in precedenza dal film di Amelio, interrotta prima della sua reale conclusione). Nei dizionari poi – secondo una convenzione della linguistica – appena dopo il lemma, le parentesi quadre possono racchiudere la sillabazione della parola (per esempio nel DISC: punteggiatura ­­­­­44

[pun-teg-gia-tù-ra] s. f.); e, in alternativa alla sbarretta, contengono la pronuncia di un termine, secondo l’alfabeto fonetico (punctuation [ˌpʌŋktʃʊˈeɪʃn] ‘punteggiatura’). Quanto alla combinazione con altri segni interpuntivi, le regole da tenere presenti sono nel riquadro che segue. Posizione degli altri segni interpuntivi in presenza di parentesi



NO

Punto interrogativo e punto esclamativo vanno inseriti all’interno di parentesi

Mi sono detta (avrò ragio­ ne?) che alla fine la spunterò.

Mi sono detta (avrò ragione)? che alla fine la spunterò.

Mi ha dato una spinta (farabutto!) e io sono caduta a terra.

Mi ha dato una spinta (farabutto)! e io sono caduta a terra.

Per la festa ha portato frutta (fragole, lamponi e kiwi), verdura (insalata e zucchine); e salumi affettati (prosciutto, coppa e mortadella).

Per la festa ha portato frutta (fragole, lamponi e kiwi,) verdura (insalata e zucchine;) e salumi affettati (prosciutto, coppa e mortadella.)

Punto, virgola e punto e virgola vanno posti dopo la parentesi chiusa, senza spazi

puntini di sospensione, sospensivi  ... A proposito di questo segno, innanzitutto una domanda: come mai si chiamano puntini se sono della stessa dimensione del punto fermo? Se non ci complicasse la vita in un àmbito già molto condizionato dal libero arbitrio (e solo per questo resisteremo alla tentazione), la logica porterebbe a chiamarli direttamente punti di sospensione (o sospensivi), come avveniva fino al XIX secolo; e immagino ­­­­­45

che dopo di allora il diminutivo si sia consolidato per il suo valore vezzeggiativo, adatto a rappresentare il tipico uso espressivo dei puntini. In tutti i casi, bisogna sempre usarli in numero di tre (erano quattro fino all’Ottocento e solo Gadda si prende il lusso di restare a quella cifra, ma sappiamo come è fatto); per questo il programma di videoscrittura Word, quando se ne mettono tre in fila, riduce automaticamente lo spazio tra i vari punti e considera il segno come un unico carattere (vale a dire che per cancellarli basta tornare indietro col cursore digitando una volta sola). Generalmente si mettono alla fine di una frase, per indicare che il discorso resta in sospeso; ma qualche volta si possono trovare anche in apertura, come ideale continuazione di un discorso già iniziato (e in questo caso la frase che segue comincia con la lettera minuscola, sempreché non si tratti di un nome proprio, naturalmente). Con i puntini si può alludere a diversi sottintesi, tutti con un valore emotivo (imbarazzo, allusione, ecc.). E in questo caso, sì, effettivamente il segno rappresenta una pausa (ma neanche qui coincidente con la respirazione): una virata, rispetto al filo del discorso. Proprio per questo i puntini si usano all’interno di parentesi quadre nei tagli operati in una citazione: per segnalare che c’è un’interruzione e che il discorso riprenderà da un’altra parte. Pensiamo all’esempio espressivo offerto da una pagina di «Topolino»: ­­­­­46

Nella battuta «Sto portando Pluto a fare una passeggia­ tina... igienica», Topolino esita per imbarazzo, alla ricerca ­­­­­47

di una parola non sconveniente per alludere ai bisogni del cane di fronte al Commissario Basettoni. Rimanendo in tema scatologico, nel suo libro La Jolanda furiosa (2008), Luciana Littizzetto usa i puntini per arrivare a un risultato opposto: I cinesi sono un casino, un tot randellano i monaci tibetani e gli altri si dannano l’anima per inventare boiate. Allora la grande invenzione è la seguente. Un water doppio che si chiama Two da loo dove lui e lei possono evacuare insieme. Io la trovo un’idea così romantica... Fare la cacca in stereo.

Si capisce che in questo caso l’esitazione non tradisce alcun imbarazzo, e semmai prepara la chiusa comica verso il basso, secondo un tipico uso «brillante» dei puntini (così lo ha definito Serianni nella sua Grammatica). Un’abitudine sempre più diffusa nelle comunicazioni informali (e che non risparmia neanche la prosa giornalistica), al punto da sviluppare nello scrittore Andrea Bajani «una particolare e talvolta isterica idiosincrasia [...] che però suona subito pedante». Anche se – detto con le parole di Andrea De Benedetti – «a me pare che la vera pedanteria sia quella di coloro che terminano tutte le frasi coi puntini di sospensione come se ti stessero facendo perennemente l’occhiolino o ti volessero spiegare una barzelletta». Va anche detto però che l’espressività dei puntini torna utile in tutte quelle forme di scrittura che simulano il parlato, come il fumetto (lo abbiamo appena visto); come nei dialogati in narrativa, o nei dialoghi in teatro e al cinema. In Sangue del suo sangue (2011) di Gaja Cenciarelli si legge a un certo punto: ­­­­­48

“[...] Sì, d’accordo. Allora che fai? Lavori?” “No che non lavoro, Pier. Non lo sai che non lavoro? Non posso lavorare, devo star dietro a Massimiliano...” “Già, sì. Dev’essere una noia mortale stare sempre in casa a lavare e cucinare, però... Insomma, sei una ragazza in gamba... Non ti piacerebbe avere un lavoro vero? Essere indipendente, staccarti da Massimiliano, decidere da sola... Margherita? Ci sei?”

Nella lunga battuta di Pierfrancesco, i puntini segnalano i ripetuti “cambi di progetto” del parlato: i momenti in cui il personaggio si rende conto di aver imboccato una strada impervia (non è semplice mettere una persona di fronte ai limiti della propria vita) e per questo si interrompe bruscamente, cercando di rimediare con un complimento («Insomma, sei una ragazza in gamba...») a sua volta chiuso dai puntini, per sfumare verso una ripresa del discorso precedente, con più delicatezza nei confronti di Margherita. Esempi ancora più marcati di questo uso dei puntini si possono trovare nei dialogati dei romanzi di Paolo Volponi. Pier Vincenzo Mengaldo (1994) ha parlato in proposito di un «effetto disgregante» che si riscontra «tanto più quanto la battuta è lunga e quindi vorrebbe essere costruttiva: personaggi che parlano, ma in realtà balbettano, non-parlanti». Per capire a che cosa si riferisce Mengaldo, prendiamo un passo dal romanzo Le mosche del capitale (1989), peraltro – per i temi trattati – di straordinaria attualità: Saraccini tornò nel suo ufficio e convocò i collaboratori: – Il professore, – disse con tono di sconforto e anche con un po’ di insofferenza, – continua a non volermi capire. Insiste nel suo ­­­­­49

disegno... Vuole sostituire gli attuali amministratori con due dirigenti non ben definiti, uno di fuori e uno interno, un tecnico e uno libero... – Uno come te, intelligente e bravo, studioso e conoscitore, pratico... Nasàpeti fa bene, la sa lunga... se vuole mettere uno come te sa che non troverebbe altri... che non ce n’è nemmeno uno come te... – proclamò un ardito. – Oltretutto, Nasàpeti prepara la successione... lui, prima o poi, vuole tornare alla politica, e non ha tanto tempo davanti, vuole fare il ministro, governare l’economia... e saprà farlo... qui dentro ha imparato molto. La storia lo segue e gli dà ragione. Lui vede in te giustamente il futuro presidente... per intanto amministratore delegato... magari insieme a un altro... per prudenza, per lasciar maturare le cose... poi, quando se ne andrà, tu sarai il presidente che potrà succedergli con continuità di vedute e di stile, e anche di potere. E lascia che ti dica una cosa, tu, come presidente, sarai ancora più bravo e invincibile che come amministratore delegato... per cultura, ma più ancora per natura... la tua umanità, il tuo senso civile, la tua chiarezza politica... accetta la proposta di Nasàpeti...

Solo Woody Allen nei suoi film appronta un dialogo tanto punteggiato (con battute certo più brevi, perché nella concitazione della rappresentazione nessuno lascerebbe un personaggio concludere una perorazione tanto lunga senza intervenire). Le sue sceneggiature – una più bella dell’altra, va detto, qualunque cosa si pensi dell’ultima produzione – proprio per l’eccesso di puntini sembrano scritte in codice Morse (e qui magari c’è chi ne avrebbe messi subito tre in chiusura, per sottolineare la battuta). È proprio nelle sceneggiature – e più in generale in tutti ­­­­­50

quei tipi di testi pensati per essere “parlati”, come anche i testi teatrali – che i puntini possono diventare uno strumento importante di verosimiglianza, dal momento che danno indicazioni all’attore per ricordargli di parlare come se i pensieri affiorassero in quel momento: frammentati e “sporchi” (si direbbe in gergo), come succede nella vita. Certo, quando non sono proprio necessari, è bene non abusare dei puntini neanche in quel contesto, facendo in modo che la sospensione non diventi di maniera, ma segnali scarti o passaggi significativi del dialogo. Proprio come accade, a un certo punto, nella sceneggiatura di Tutto su mia madre (1999), di Pedro Almodóvar, tradotta da Paolo Collo e Paola Tomasinelli. Per capire dove siamo, bisogna sapere che Huma (il personaggio) è un’attrice e Manuela non ha nessuna confidenza con lei: la conosce solo di fama, perché suo figlio, proprio per chiederle un autografo, all’inizio del film muore investito da una macchina. Nella scena Huma è preoccupata, perché non ha notizie di Nina, una ragazza tossicomane a cui è legata e che spesso si caccia nei guai. Manuela la aiuta a cercarla. scena 61 Barcellona. Auto di Huma - Esterno notte

Escono con l’auto dal parcheggio. Guida Manuela. Appoggia la borsa accanto a sé. huma

(mormora) Io non so guidare. È Nina che guida...

Huma accende una sigaretta, con due boccate profonde riempie di fumo l’abitacolo. huma Ho iniziato a fumare per colpa di Bette Davis. Per imi-

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tarla. A diciott’anni fumavo già come un carrettiere. Per questo mi faccio chiamare Huma. manuela huma

è un nome molto bello...

Il fumo è l’unica cosa che ho avuto nella vita.

manuela

Ha avuto anche il successo.

huma Il successo non ha sapore, né odore, e quando ti ci abitui è come se non esistesse più. Dio mio, dove si sarà cacciata quella ragazza?

Almodóvar usa i puntini soltanto in due occasioni. La prima volta dopo che il discorso porta Huma a nominare Nina: il pensiero va subito alla ragazza e, nello spazio di quei tre puntini, la tensione sale di colpo, tant’è che Huma, per allentarla, sente il bisogno di accendersi una sigaretta. La seconda volta, in una battuta di Manuela. La sua frase resta appesa, perché non sa che cosa dire a Huma: per questo le esce d’istinto una battuta scontata. E allora si interrompe, rendendosene conto; infatti Huma prosegue come se l’altra non avesse parlato e si prende la scena, tirando via tutta d’un fiato la battuta (e la sigaretta, sarebbe il caso di dire), finché il pensiero che ha cercato di allontanare si riaffaccia prepotentemente: «Dio mio, dove si sarà cacciata quella ragazza?» punto 

.

Il punto si pone a conclusione di un periodo e segnala generalmente un cambio d’argomento nel discorso: determina dunque un’interruzione forte, ma solo sul piano del contenuto. L’interruzione può essere amplificata andando ­­­­­52

accapo dopo il punto, cominciando in questo modo un nuovo paragrafo. Per quel suo arrivare alla fine, che sia di una frase o di un capitolo, il punto evoca, in uno scrittore come Giorgio Manganelli, uno scenario desolante: Ci troviamo noi nel deserto del dopopunto, nello spazio nudo, conseguito per spazio incolmabile, forse già nell’affollata tebaide, al capolinea della fine del mondo, il vacuo colmo, lo scaffale inconsultabile dei cataloghi; o codesto punto ci sta alle spalle come rovinoso, taciturno strapiombo, e a noi abissanti si offre un lungo fiato, anzi la signorile, distensiva, leggermente viziosa pausa della virgola?

Ma chissà se Manganelli avrebbe scritto la stessa cosa ai nostri giorni, in tempi in cui, specie negli articoli di giornale, il punto sempre più spesso non rappresenta la fine di niente, usato com’è a volte in sostituzione dei due punti, del punto e virgola o della virgola stessa, col risultato di un discorso frammentato in tanti piccoli tasselli. In questo senso, il punto – a parte quello definitivo che chiude un articolo o un libro – ricorda piuttosto il tappo dello spumante che salta a mezzanotte di Capodanno: segna una fine, ma nello stesso tempo l’inizio di qualche altra cosa. A volte anche con un eccesso di fuochi d’artificio – l’abuso del punto, come in molti lo definiscono, è una «soluzione stilistica di facile effetto» (Antonelli, 2008) – che, per dare identità allo stile, finisce per impoverire le possibilità della lingua. Un esempio per chiarire, tratto da un articolo del 10 ottobre 2011 di Ilvo Diamanti, editorialista del quotidiano «La Repubblica» (chiamato in causa a questo propo­­­­­53

sito da molti linguisti tra cui Serianni, Dardano e Mortara Garavelli): Sono passati pochi giorni dalla tragica morte di cinque ragazze, travolte dal crollo di una palazzina, a Barletta. Nel sottoscala, dove le vittime lavoravano “in nero”. Anche se ci si ostina a chiamarle morti “bianche”. Per sottolineare come a provocarle non sia l’intervento diretto di qualcuno. Ma, perlopiù, l’assenza di norme e di strumenti di prevenzione nei luoghi di lavoro. Con il rischio di svalutare il fenomeno mentre lo si nomina. Le morti “bianche” evocano, infatti, morti minori. Di persone minori. Senza identità.

Non vi sembra che nel brano ci sia un eccesso interpuntivo? E siamo sicuri che la frammentarietà aiuti il discorso a essere più chiaro e non accada piuttosto il contrario? Non dobbiamo sottovalutare la funzione che svolge il colpo d’occhio nella lettura. Quando, ancora prima di seguirne il senso, ad apertura di pagina ci rendiamo conto della lunghezza di un periodo, ci predisponiamo a una considerazione del complesso del testo che condiziona poi la lettura nel suo dispiegarsi. Se il concetto non vi è chiaro, provate a leggere quello che segue in grassetto: Lo sapevate che il il cervello nasconde le cose inutili, come il secondo “il” che avete appena letto?

Si tratta di un giochino che è circolato in rete (più o meno in questa forma) all’inizio del 2012 e che, in questo caso, può servire a dimostrare come (se il vostro occhio non è stato tanto scaltro da vanificare l’esperimento), nella ­­­­­54

lettura, la prima cosa di cui andiamo in cerca è il senso complessivo. Se la punteggiatura ci obbliga a una fruizione a singhiozzo, quel senso si frammenta: magari non ci sfugge neanche un refuso, per intenderci, ma rischiamo di perdere la visione d’insieme, fondamentale nei periodi ricchi di subordinate, come nel brano citato. La frammentazione non ci deve ingannare, infatti. Non si tratta sempre di coordinate (che godendo di un certo grado di autonomia avrebbero senso anche in sé), ma di subordinate mascherate (una concessiva, una finale, ecc.) – come ha notato in altro contesto Francesco Sabatini – in uno style coupé (‘stile spezzato’) che è tale soltanto per gli occhi. Al polo opposto di questa frammentarietà del discorso si colloca la ricerca stilistica di autori che – sulla scia del lungo monologo interiore dell’Ulisse di Joyce (in cui c’era però il preciso intento di riprodurre il pensiero nella fase precedente alla riorganizzazione linguistica) – hanno scritto un intero romanzo senza punteggiatura: Eden, Eden, Eden (1970), di Pierre Guyotat; Matilde (1993), di Giovanni Mariotti (che però in qualche caso si concede il lusso dei punti interrogativi) e Zona (2011), di Mathias Énard. E anche Gabriel García Márquez aveva fatto un esperimento simile nel romanzo L’autunno del patriarca (1975). Ora, gli scrittori possono prendersi queste libertà, così come, naturalmente, un giornalista della statura di Diamanti è libero di usare tutti i punti che crede; ma visto che qui stiamo cercando di stabilire indicazioni per i comuni scriventi, vale la pena consigliare di usare la gamma completa dei segni interpuntivi, sfruttando a pieno le loro ­­­­­55

sfumature, a tutto vantaggio, come sempre, della chiarezza comunicativa. Su un altro piano, il punto viene usato anche per le abbreviazioni. Nel riquadro che segue si indica dove deve collocarsi nelle parole ridotte, a seconda del tipo di abbreviazione. Le parole possono essere ridotte:

Parola

Abbreviazione

– alle sole lettere iniziali e finali e il punto va in mezzo;

gentilissimo

gent.mo

– a una sequenza di sole consonanti e in questo caso il punto va in fondo;

seguente

sg.

– alle lettere iniziali e anche in questo caso il punto va in fondo.

dottore

dott.

Quando si usano in fine di periodo parole abbreviate che terminano con il punto, questo vale anche come punto finale, che dunque non deve essere ripetuto. In una frase come “Va sempre maiuscola la lettera iniziale dei titoli dei film, dei libri, ecc.” non ci vuole un altro punto alla fine oltre quello che abbrevia ecc. Con l’occasione ricordiamo anche che, dopo il punto, la parola che segue deve avere sempre la lettera iniziale maiuscola. Ma anche qui non mancano eccezioni d’autore. Giancarlo Pastore nel 2003 ha pubblicato il romanzo Meduse completamente senza maiuscole; e, molto prima di lui, Charles Bukowski ha violato nelle sue opere quella e altre regole della punteggiatura. I versi di E così vorresti fare lo scrittore? (che è anche il titolo italiano della raccolta postuma che li contiene, tradotta da Simona Viciani), oltre ­­­­­56

a fornire esempi di omissione di maiuscola (che detto così sembra un reato da codice penale, un po’ come l’omissione di soccorso), dovrebbero essere scolpiti in tutti i manuali di scrittura, e poi imparati a memoria in tutti i corsi di creative writing. Non c’è altro modo per capire che, a volte, se non troviamo la punteggiatura giusta è perché stiamo solo perdendo tempo: se non ti esplode dentro a dispetto di tutto, non farlo. a meno che non ti venga dritto dal cuore e dalla mente e dalla bocca e dalle viscere, non farlo. se devi startene seduto per ore a fissare lo schermo del computer o curvo sulla macchina da scrivere alla ricerca delle parole, non farlo. se lo fai solo per soldi o per fama, non farlo. se lo fai perché vuoi delle donne nel letto, non farlo. se devi startene lì a scrivere e riscrivere, non farlo. se è già una fatica il solo pensiero di farlo, non farlo. se stai cercando di scrivere come qualcun altro, lascia perdere. [...]

­­­­­57

punto e virgola 

;

Ed eccoci all’Highlander della punteggiatura. Il punto e virgola. Vi chiederete come mai questa parola inglese per definirlo. Il fatto è che, dopo il successo del film del 1986 con Christopher Lambert e Sean Connery, in italiano Highlander sta per “ultimo immortale”: proprio come il punto e virgola. Ciclicamente qualcuno ne lamenta infatti l’agonia sulle pagine dei giornali (i primi segnali si attestano già negli anni Trenta del secolo passato), eppure questo segno continua a sopravvivere, incurante dei detrattori e discreto anche nei confronti di chi vorrebbe tenerne alta la bandiera. La verità è che però in inglese highlander significa semplicemente ‘abitante delle Highlands’, e questa è la condizione anche del punto e virgola. A tutti gli effetti cittadino della punteggiatura, saldamente ancorato a un territorio apparentemente ostico proprio come le catene montuose delle Highlands, anche se qualcuno, di tanto in tanto, se lo dimentica. Silvia Avallone, per esempio, il 21 settembre del 2010 firma un articolo sulle pagine del «Corriere della Sera» sostenendo l’importanza di usare questo segno. Curioso notare come nell’articolo però, a parte il punto e virgola presente nella citazione di Dostoevskij che avvia la perorazione (chissà se originale o dovuto al traduttore), la scrittrice non ne usi in tutto l’articolo nessun altro. Forse un’occasione persa; perché, data la difficoltà per il comune scrivente a coglierne le sfumature, un uso appropriato del punto e virgola in quel contesto, da considerare come modello, magari avrebbe giovato alla causa più dell’articolo a suo sostegno nel suo complesso. Che invece, paradossalmente, finisce per dimostrare ­­­­­58

come, tutto sommato, del punto e virgola si possa fare a meno anche in un tipo di prosa – come quella argomentativa – dove spontaneamente dovrebbe collocarsi. Il fatto è che il punto e virgola non serve sempre. Non va usato al posto del punto, o della virgola (nel qual caso si tratterebbe di una scelta marcata in senso stilistico, come nel caso del punto e virgola “compensatorio”, usato qualche riga più su dopo «un’occasione persa»), perché si colloca in una zona di frontiera. Per certi versi il punto e virgola svolge all’interno del periodo la stessa funzione della virgola all’interno della frase, in particolare nelle enumerazioni, in cui la virgola separa i membri della frase (nomi, aggettivi, ecc.) e il punto e virgola le frasi tra loro. Serve infatti a regolare sintatticamente periodi complessi, creando un’interruzione forte sul piano della forma, ma non sul piano del contenuto (altrimenti bisognerebbe usare il punto). Il discorso, dopo il punto e virgola, prosegue sempre sullo stesso argomento, ma aggiunge altri elementi. Prendiamo per esempio un brano tratto da “Magari no”, il racconto di Christian Raimo contenuto nell’antologia La qualità dell’aria (2004): All’autogrill lascio Francesca in macchina, ha le vertigini che le fanno lanciare delle voci stridule, i giramenti di testa che la portano a dondolare anche se sta seduta; vuole prima che le compri degli zuccheri in qualche formato, e poi che torni alla macchina per lasciarla andare al bagno.

Le due parti del periodo che precedono e seguono il punto e virgola hanno una loro autonomia formale, po­­­­­59

trebbero cioè reggersi anche da sole. Ma entrambe riguardano lo stato di salute di Francesca, e il punto e virgola le lega secondo un rapporto di causa ed effetto: poiché Francesca sta male (ha le vertigini, i giramenti di testa), allora sente bisogno di zuccheri. Il punto e virgola, dunque, permette un tipo di sintassi più ariosa, meno asfittica di quella continuamente puntellata dal solo punto fermo e dalla virgola; per questo in genere è adatto – oltreché alla scrittura letteraria – alla prosa argomentativa, che ha bisogno di circoscrivere il tema del discorso con accostamenti progressivi. Prendiamo una pagina della grammatica di De Benedetti espressamente rivolta ai «puristi della domenica», in cui una sfilza seriale di punti e virgola accerchia l’obiettivo prima del colpo decisivo: Quando qualcuno, magari un linguista, prova a spiegargli che la grammatica – in particolare una certa grammatica di tradizione scolastica – è spesso incoerente e inaffidabile; che non si può ridurre tutto alla dicotomia giusto/sbagliato ma esistono tante sfumature intermedie di accettabilità; che alcune regole tramandate di generazione in generazione addirittura non esistono; che non sta scritto da nessuna parte che non si possa scrivere, e soprattutto dire, «il libro l’ho letto»; che la lingua, come scriveva uno dei più illustri presidenti dell’Accademia della crusca, Giovanni Nencioni, «esiste prima della grammatica»; quando – dicevo – qualcuno prova a spiegargli tutto questo, la loro reazione è insieme di delusione e di incredulo scetticismo, come se un prete gli andasse a raccontare che Dio non esiste.

Ma qui non vi allarmate, perché il punto e virgola invece esiste. Evviva!

­­­­­60

!

punto esclamativo 

Il punto esclamativo si mette alla fine di frasi che contengono un’esclamazione (come quella che chiude il paragrafo precedente). Dà, dunque, indicazioni rispetto all’intonazione della frase (ascendente-discendente, cioè il contrario di quella interrogativa); e spesso accompagna un’interiezione (ah!, eh!, oh!, boh!, ahimè!). Si colloca per questo, insieme al punto interrogativo e ai puntini di sospensione, in quella zona della punteggiatura che ha una funzione principalmente espressiva e che Giacomo Devoto ha definito interpunzione affettiva, distinta da quella intellettuale (o logica), per via di quei «fattori soggettivi e occasionali» che intervengono nel suo uso. È il motivo per cui il Perekladin di Čechov non aveva mai avuto modo di usare l’esclamativo nelle sue lettere impiegatizie. Le esclamazioni segnalano l’emozione nel momento in cui si prova: per questo sono tipiche – proprio come i puntini – di tutte quelle forme di scrittura che simulano il parlato (dal fumetto ai dialoghi cinematografici, ecc.). Nel fumetto, a volte il punto esclamativo può rappresentare un’intera battuta che rende un’espressione di sgomento, o di spavento. È questo anche il senso del segnale stradale che deve richiamare la nostra attenzione in vista di un pericolo:

Stesso simbolo, ma capovolto, si può trovare anche ne­­­­­61

gli imballaggi di oggetti delicati, per segnalare la necessità di “maneggiare con cura”. Il punto esclamativo può trovarsi tra parentesi con intento ironico, anche in un testo di prosa: “mi ha detto che ci restituirà tutti i soldi (!) e io ho fatto finta di crederci”. Nella prosa argomentativa (anche giornalistica), inoltre, in combinazione con l’avverbio latino sic (‘così’), il punto esclamativo è usato quando un autore vuole sottolineare negativamente un elemento di un testo da cui sta citando (in genere un’inesattezza; o comunque qualcosa da cui prendere le distanze). Immaginiamo per esempio che qualcuno, in futuro, abbia la necessità di citare questo libro, anche solo per stroncarlo. E che questo qualcuno non sia per niente d’accordo su quello che si dice a proposito delle sceneggiature dei film di Woody Allen. Ecco allora come potrebbe segnalare il suo parere nella citazione: Le sue sceneggiature – una più bella dell’altra, va detto, qualunque cosa si pensi dell’ultima produzione [sic!] – proprio per l’eccesso di puntini sembrano scritte in codice Morse.

Va ricordato che l’esclamativo un tempo si chiamava punto ammirativo, e la sua comparsa, rispetto agli altri segni interpuntivi, è piuttosto tarda, anche se negli ultimi anni, per via del suo largo impiego nelle comunicazioni di tipo personale (SMS, chat, ecc.), ha recuperato il terreno perduto, risultando il segno interpuntivo maggiormente diffuso tra le generazioni più giovani, secondo una tendenza all’iconismo (Antonelli, 2008) – quella a usare segni grafici di diversa natura invece che ­­­­­62

parole, come gli emoticon – di cui parleremo nel prossimo capitolo. Viene da chiedersi in proposito che cosa direbbe ai nostri giorni Ugo Ojetti, che già nel secolo scorso scriveva: Odio il punto esclamativo, questo gran pennacchio su una testa tanto piccola, questa spada di Damocle sospesa su una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il buon senso, questo stuzzicadenti pel trastullo delle bocche vuote, questo punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani, quest’asta della bestemmia, questo pugnalettaccio dell’enfasi, questa daga dell’iperbole, quest’alabarda della retorica. ...Adesso v’è anche chi te l’accoppia all’interrogativo, che par di vedere Arlecchino appoggiato a Pulcinella.

Come al solito, queste crociate non predispongono alla solidarietà. Intanto perché la nostra lingua ha dimostrato nel corso del tempo di avere gli anticorpi necessari per selezionare quello che si deve sedimentare in modo naturale, senza forzature da parte di nessuno. E poi perché, di nuovo, più segni a disposizione sono sempre meglio di meno segni; e quindi portiamoci a casa anche l’esclamativo: cerchiamo solo, come negli altri casi, di usarlo quando davvero necessario. E intanto leggiamo queste righe: Tra le sbarre del cancello e la piccola biblioteca troneggiava la palestra a cielo aperto, un manto d’asfalto su cui una mano di vernice avrebbe ancora delimitato il campo di pallavolo se le intemperie non lo avessero ridotto a un democratico paesaggio lunare. Ma noi studenti non ce ne lamentammo mai una volta, e gridavamo «fuori!» quando la palla superava una linea di gioco ricostruita dall’immaginazione con assoluta sicurezza. Così ­­­­­63

come non protestammo quando poche dita di ghiaccio fecero esplodere le tubature, e tutti durante l’inverno meridionale – lungo e fastidioso quanto un battito di ciglia davanti allo splendore del creato – seguimmo le lezioni senza mai toglierci i cappotti.

Sono tratte dal già citato Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia, un romanzo in cui gli inserti dialogici sono piuttosto limitati e non rispondono a un intento mimetico (non sono scritti, cioè, per riprodurre fedelmente il parlato); anche perché, nella realtà dei fatti raccontati e ambientati a Bari, i personaggi in molti casi avrebbero usato il dialetto (che la voce narrante ci dice quasi subito di detestare). Tutto questo per dire che, quando serve, Lagioia usa il punto esclamativo, e che quel punto ci sta bene: il «fuori!» pronunciato dai ragazzi che giocano a pallone ci cala immediatamente in quella realtà; non si capisce, allora, perché, in casi come questo, dovremmo privarcene. Magari cerchiamo solo di non esagerare con il numero: uno solo, messo al posto giusto, ha abbastanza forza per caricarsi sulle spalle le emozioni che gli vogliamo attribuire. Una curiosità tipica sul punto esclamativo è se deve essere maiuscola l’iniziale della parola che lo segue. In genere i linguisti suggeriscono di lasciare la minuscola se il discorso prosegue sullo stesso argomento, e quindi non prevale il valore del punto ma quello dell’esclamazione; consigliano invece la maiuscola se l’esclamativo chiude anche il discorso. Tuttavia, per evitare di sbagliarsi, meglio lasciare sempre la maiuscola; meglio anche da un punto di vista grafico, come se la lettera reagisse all’attenti che il punto sottintende. Ecco! ­­­­­64

punto interrogativo 

?

Il punto interrogativo è anche chiamato comunemente punto di domanda. In effetti si pone sempre alla fine di una frase interrogativa (“Ti sta annoiando questo libro?”), che può esprimere anche solo un dubbio (“Sarà vero che la punteggiatura è così difficile da usare?”). Il punto segnala la curva intonativa della frase (in questo caso discendenteascendente). In passato Carlo Dossi (e poi di recente anche Dario Voltolini) ha lamentato, per il punto interrogativo e per il punto esclamativo, la mancanza di una segnalazione a inizio frase, come i punti rovesciati dello spagnolo ([¿] [¡]); e anche Serianni nella Grammatica trova «scomodo» non sapere da subito quale intonazione assumere durante la lettura. Ma in effetti, per quello che si è già detto a proposito della rapidità del nostro occhio nella visione d’insieme, sono piuttosto rari i casi in cui questa mancanza ci costringe a una rilettura, una volta arrivati in fondo. Una cosa da ricordare, a proposito di questo punto, è che non va inserito nelle interrogative indirette, secondo lo schema che segue. Frasi interrogative



NO

Diretta

Ha detto che la letteratura con­temporanea non vale niente e a quel punto le ho chiesto: “Conosci Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan?”

Ha detto che la letteratura contemporanea non vale niente e a quel punto le ho chiesto: “Conosci Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan”.

Indiretta

Ha detto che la letteratura contemporanea non vale niente e a quel punto le ho chiesto se conoscesse Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan.

Ha detto che la letteratura contemporanea non vale niente e a quel punto le ho chiesto se conoscesse Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan?

­­­­­65

Quanto alla necessità della lettera maiuscola nel caso di una sequenza di interrogative, vale quanto detto a proposito dell’esclamativo: non esiste nessuna regola fissa, ma, nel dubbio, meglio usare sempre la maiuscola. Come fa per esempio Michele Mari in Verderame (2007): «Allora perché? Perché questa indistinta memoria di un padre assente e questo assoluto oblio di una madre presente? Era illogico, illogicissimo». sbarretta 

/

La sbarretta (in inglese slash) è diventata in epoca recente, grazie al web, un segno fondamentale nella punteggiatura informatica. Si usa infatti nella formulazione degli indirizzi dei siti: http: //it.wikipedia.org/wiki/Punteggiatura. Sul modello dell’inglese – che usa spesso sbarrette e trattini di vario tipo – si sono diffuse anche in italiano sigle e diciture che contengono questo segno: come L/C (Letter of Credit ‘Lettera di Credito’) o la più comune c/o (care of ‘presso’). Un calco dall’inglese è anche e/o (da and/or) che il Salvaitaliano di Della Valle e Patota consiglia di usare «con discrezione, e solo nei giusti contesti, cioè in lettere commerciali e in scritti di argomento tecnico-scientifico». Più in generale, la sbarretta si usa con diversi scopi: – per indicare l’alternativa tra due possibilità (in una frase come “I viaggiatori diretti a Roma/Napoli saranno instradati via Firenze”, Roma/Napoli vale ‘diretti a Roma o a Napoli’); ­­­­­66

– per unire due parole specificando che sono una in funzione dell’altra (mentre con il trattino non sarebbe sottintesa alcuna relazione), come nel caso di “km/h”, in cui indica più precisamente il rapporto (inteso proprio in senso matematico) tra lo spazio percorso e il tempo impiegato; – per indicare il capoverso nella citazione di testi lirici scritti di séguito senza gli accapo (riprendiamo, per esempio, alcuni dei versi di Bukowski già citati: «se non ti esplode dentro / a dispetto di tutto, non farlo. / a meno che non ti venga dritto dal / cuore e dalla mente e dalla bocca»). Gli attori spesso ricorrono alla sbarretta per preparare il testo di un reading, segnalando le pause: questa necessità mostra, ancora una volta, come il compito della punteggiatura non sia quello di facilitare la lettura ad alta voce (agli attori spesso non è sufficiente, appunto), ma quello di rendere il testo comprensibile. Il che non esclude, naturalmente, che i due piani a volte possano coincidere, e che quindi l’attore si trovi a sovrapporre la sbarretta a un punto già presente nel testo. trattino 

-   o anche  lineetta 



Il trattino e la lineetta sono rappresentati dallo stesso segno grafico (sia pure di diversa lunghezza e spessore) ma hanno specializzato nel tempo le loro funzioni. Il trattino si usa per vari scopi: – per indicare la relazione tra due nomi: “la tratta Firenze-Bologna”, “il derby Roma-Lazio”; ­­­­­67

– per unire due sostantivi (“episodio-pilota”, “guerralampo”, ecc.) o due aggettivi (“ha gli occhi grigio-verde”, “una salsa agro-dolce”); – per unire un prefisso a un nome, come succede spesso nella prosa giornalistica (“maxi-tangente”, “anti-juventino”, ecc.). In questi casi il trattino non è usato sistematicamente, e non c’è una regola per stabilire se e quando è obbligatorio metterlo. Il consiglio è quello di lasciarlo sempre nelle formazioni originali che non conoscono larga diffusione, e di ometterlo in quei composti usati da tempo e che sono ormai avvertiti come un’unica parola (più avanti troverete per esempio senza trattino autobiografia; e certo, per la stessa ragione, si poteva omettere tranquillamente anche in agro-dolce). E questo vale anche per le altre categorie esemplificate; – in composti ripresi da lingue straniere (“T-shirt”, “fast-food”, “week-end”, ecc.): anche qui non in modo sistematico, al contrario in particolare dell’inglese che invece è piuttosto rigoroso nel suo impiego; – in editoria, in fin di riga, quando si va accapo, per segmentare una parola che non entra nei margini della pagina. Un esempio per capire, nelle parole sottolineate del saggio “L’arte come furto” contenuto nella raccolta di Giuseppe Pontiggia I contemporanei del futuro (1998): Leggendo queste prodigiose commedie di Plauto pensavo alla operosa idiozia di quei registi, traduttori e interpreti che, anziché imparare l’arte dai classici, la insegnano a loro: e tagliano, cuciono, alterano i testi. Convinti che un genio abbia bisogno di una mediocrità che lo spieghi, riducono il suo orizzonte illimitato al piccolo in cui si aggirano loro. ­­­­­68

In alternativa, nella scrittura a mano, come viene insegnato a scuola, a questo scopo si può usare la doppia lineetta [=]; – per separare due cifre scritte in numero (“12-15 ­luglio”) oppure in lettere (“avrà un quaranta-quarantadue anni”). La lineetta si usa con diverse funzioni: – per introdurre un discorso diretto, soprattutto nei dialogati dei romanzi, prima di una battuta, in alternativa alle virgolette (ma questo dipende dalle scelte grafiche che variano da editore a editore: o, meglio, dalla forza di contrattazione degli autori nell’imporre all’editore la propria preferenza, indipendentemente dalle scelte redazionali): è andata così. Io gli ho detto: – Sono incinta. Lui mi ha detto: – Abortisci. Si è offerto di pagarmi le spese della clinica, fino all’ultimo centesimo. E così, nella vita sentimentale si è formata all’istante una nuova coppia. Ho lasciato il gentiluomo. Mi sono legata per sempre al mio bambino. Alla fine un aborto l’ho fatto. Ho abortito il padre di mio figlio.

Il brano è tratto dal racconto di Tiziano Scarpa “Sto aspettando il mio primo bambino”, contenuto nella raccolta Cosa voglio da te (2003). E se vi state chiedendo che bisogno c’era, nella citazione, di andare oltre lo scambio dialogico utile all’esempio, la risposta è che tutto questo para­­­­­69

grafo stava diventando troppo tecnico: c’era bisogno di letteratura. Le righe in più, tra l’altro, offrono un altro esempio di stile giocato sulla predominanza del punto fermo. Tornando alla lineetta, ecco ancora a che cosa serve: – per racchiudere le frasi incidentali, in luogo delle parentesi, o di una coppia di virgole. Dal punto di vista grammaticale non ci sono differenze tra questo tipo di incisi e quelli tra parentesi, anche se in genere quelli tra virgole tendono a essere più brevi. E questo anche per via di quella «separazione» a cui faceva riferimento Antonio Porta, nel brano chiamato in causa a proposito delle parentesi. Un esempio di inciso tra lineette, dal tipico valore metalinguistico, si trova nel romanzo già citato di Gianluigi Ricuperati Il mio impero è nell’aria: Sentivo il divieto. Il divieto era una separazione. Mi sembrava di essere tornato a diciannove anni, a quel genere di confusione. Ma ne avevo otto di più, e l’unica cosa che avevo imparato – che verbo ridicolo: imparare – era smettere di preoccuparsi e puntare a caso.

Negli incisi, le lineette sono sempre due, come nel caso delle parentesi. Va anche detto però che si sta diffondendo sempre più l’uso (di origine anglosassone) della lineetta anche singola, per isolare una parte del discorso, lasciando poi che prosegua. Come se si trattasse di una virgola rinforzata; o dell’equivalente dei due punti, come nell’esempio offerto – tra molti altri – dalla traduzione italiana di Giuliana Lupi dello straordinario Open (2011), l’autobiografia ­­­­­70

del tennista Andre Agassi (rielaborata col premio Pulitzer J.R. Moehringer): Il mio primo torneo da professionista è a Schenectday, New York. Raggiungo la finale di un torneo da centomila dollari, poi perdo con Ramesh Krishnan, 6-2, 6-3. Non me la prendo, però. Krishnan è un grande, migliore del suo ranking di quarantesimo o giù di lì, e io sono un adolescente sconosciuto arrivato alla finale di un torneo piuttosto importante. Questa è davvero una cosa rara – una sconfitta che non fa male. Non provo altro che orgoglio. Anzi, nutro anche un pizzico di speranza, perché so che avrei potuto giocare meglio, e so che Krishnan lo sa.

Rimanendo in àmbito sportivo viene in mente in proposito la lineetta singola (ma raddoppiata in lunghezza ––) usata da Sandro Veronesi nell’intervista al calciatore siciliano Totò Schillaci (famoso per i goal messi a segno, quanto per l’italiano stentato), contenuta in Cronache italiane (1992). Qui la lineetta segnala tutte le volte che la lingua mette in scacco l’attaccante, costringendolo a lasciare in sospeso parole e pensieri. Come quando risponde alla domanda «Ma ci si riesce a curare giocando due partite alla settimana?» in questo modo: «Normalmente –– bisogna stare una settimana o quindici giorni fermi. Però, così ci vorrà di più –– più tempo, ci vorrà due mesi, quindi –– siccome non mi tiro mai indietro, e quindi vado sempre avanti anche contro il dolore –– ora sta scomparendo». Ed è Veronesi stesso a spiegarci il metodo scelto per riprodurre il parlato: Così ho direttamente sbobinato la conversazione registrata, senza aggiungere o correggere nulla, ma solo preoc­­­­­71

cupandomi di restituire l’essenza di quel fraseggio sporco e doloroso; per rappresentare le sue frequenti pause, non pause riflessive ma piuttosto di respiro (colpi di frizione tra l’una e l’altra delle sue marce corte) ho utilizzato il doppio trattino –– così; non ho tagliato i “quindi” adoperati come intercalare, né le ripetizioni, né le frasi lasciate a metà. Ora però vorrei che tutto questo non autorizzi nessuno a sorridere di lui, per il mero fatto che non dispone di un italiano corretto. Specie dopo averlo incontrato, sono convinto che Totò Schillaci sia l’ultima, tra le persone celebri, di cui si possa sorridere con supponenza.

Per stabilire dove collocare gli altri segni interpuntivi in combinazione con le lineette di un inciso, valgono le indicazioni che avevamo dato per le parentesi: l’interrogativo, l’esclamativo e i puntini di sospensione sempre davanti alla lineetta di chiusura; tutti gli altri andrebbero invece fuori. Il condizionale non è casuale, per via di una personale idiosincrasia nei confronti della lineetta unita ad altri segni. Prendiamo un esempio inventato come: La domenica, quando la Roma giocava in casa, si andava tutti all’Olimpico – mio padre ha perso il suo a otto anni, e gli unici ricordi di loro due insieme sono allo stadio di Testaccio –; al rientro, bisognava nascondere a mia madre i pericoli che avevamo corso, altrimenti non ci avrebbe più mandati: mio padre si raccomandava, diceva che era un patto tra noi, eccetera eccetera.

Ecco, anche se la punteggiatura del brano da un punto di vista normativo è ineccepibile, in casi come questo tenderei a evitare sequenze come quella usata [–;]. E questo ­­­­­72

vale anche per il contrario, vale a dire per il segno interpuntivo prima della lineetta, come la virgola nel brano di Volponi citato a proposito dei puntini («– Il professore, – disse con tono di sconforto [...]»), dove la lineetta sarebbe bastata ad assolvere anche alla funzione segmentatrice senza la necessità di un altro segno. Per questo, in casi simili, è preferibile piuttosto riformulare il periodo, magari mettendo nell’inciso le parentesi al posto delle lineette; oppure eliminare proprio l’inciso, rivoluzionando la punteggiatura in questo modo: La domenica, quando la Roma giocava in casa, si andava tutti all’Olimpico: mio padre ha perso il suo a otto anni, e gli unici ricordi di loro due insieme sono allo stadio di Testaccio. Al rientro, bisognava nascondere a mia madre i pericoli che avevamo corso, altrimenti non ci avrebbe più mandati: mio padre si raccomandava, diceva che era un patto tra noi, eccetera eccetera.

Naturalmente, non mi aspetto che prendiate a modello il mio gusto personale. L’essenziale è che tra due strade ugualmente accettabili non vi avventuriate in una terza impercorribile: in un caso come quello citato, insomma, non inserite mai il punto e virgola prima della lineetta. Il bello delle libertà stilistiche in fondo è questo: un Leopardi che detesta i trattini (come abbiamo già avuto modo di dire, citando lo Zibaldone), e un Poe che si lamenta con chi glieli toglie: Chiunque scriva per essere stampato, e possieda un minimo di senso di accuratezza, non può non essersi spesso seccato, e mortificato, perché il tipografo gli ha stravolto le frasi sostituen­­­­­73

do, secondo l’abitudine ormai invalsa, virgole e punti e virgola ai trattini dell’originale. Il disuso totale, o quasi, del trattino è un effetto di reazione al suo uso eccessivo una ventina d’anni fa. I poeti byroniani erano tutti un trattino.

virgola 

,

La virgola è – si passi questa definizione – il segno interpuntivo più femminile di tutti, perché, come le donne, si fa carico dell’ordinario (mandare avanti il discorso) e dello straordinario (quando svolge altre funzioni, come negli incisi, per esempio), senza mai prendersi la scena. Senza gridare, come il punto esclamativo; senza manie di protagonismo, come gli altri punti, quando sgomitano, nello stile di qualche autore, per ricoprire un ruolo più adatto ad altri segni. Sarà per questo che José Saramago ha eletto proprio la virgola a regina della sua prosa, preferita a tutti gli altri punti nella progressione del discorso; anche quello diretto, che l’autore svincola dalle catene dei due punti, della lineetta o delle virgolette, affidandone l’esecuzione alla sola virgola, appunto, seguita dalla maiuscola iniziale della parola che la segue, come in: «[...] finalmente questa pace con la Francia è fatta, vengano ora le altre con gli altri paesi, Ma nessuno mi può ridare la mano che ho perduto, dice Baltasar, Lascia perdere, tu e io abbiamo tre mani, questo risponde Blimunda». L’esempio è tratto dalla traduzione di Rita Desti di Memoriale del convento (1982), in cui si legge anche: ­­­­­74

Quando Baltasar entra in casa, sente il parlottare che viene dalla cucina, è la voce della madre, la voce di Blimunda, ora l’una, ora l’altra, appena si conoscono e hanno tanto da dire, è la grande, interminabile conversazione delle donne, sembra cosa da niente, questo pensano gli uomini, neppure loro immaginano che è questa conversazione che trattiene il mondo nella sua orbita, se non ci fossero le donne che si parlano tra loro, gli uomini avrebbero già perso il senso della casa e del pianeta.

Sarà bene però, se non si è capaci di tanta bellezza, non prendere come modello di punteggiatura questo brano e quel suo procedere discreto – grazie alla virgola – che sembra riprodurre proprio «il parlottare» delle donne di cui si sta raccontando. E detto questo, ora possiamo passare ai consigli per i comuni scriventi (e qui, meglio, verrebbe da dire “per i comuni mortali”). La virgola serve, come detto, a più funzioni: – per legare tra loro, all’interno del periodo, frasi prive di congiunzione (“Appena lei ebbe finito, se ne andò senza neanche replicare”); – negli elenchi di nomi o di aggettivi, all’interno della frase (“Ho comprato un film, un paio di libri, una bottiglia di vino e dunque un biglietto per una serata perfetta”). In questi casi, Carducci era solito non usare le virgole, di cui D’Annunzio, più in generale, si definì nimico «come la Cicogna invisa colubris è nimica delle serpi», magari solo per misoginia; – prima di un’apposizione (“Mi piace Chuck Palahniuk, uno scrittore straordinario”); ­­­­­75

– davanti e dopo un vocativo (“Alfredo, amami!” o “Amami, Alfredo!”); – in luogo di lineette o di parentesi nelle frasi incidentali (che possono contenere anche solo una parola): in questo caso devono essere necessariamente due, proprio come nel caso degli altri tipi di incisi (“Alla Juventus, per via di Calciopoli, è stato revocato uno scudetto”); – per dividere alcuni tipi di subordinate dalla principale, come per esempio la concessiva (“anche se non avevo alcuna voglia, sono andata alla sua festa”). Proprio per quel suo mandare avanti il discorso, la virgola sottintende qualcosa di incompiuto, nel senso di qualcosa che deve ancora compiersi nelle righe che seguiranno. Per questo non può essere usata alla fine del discorso (che è lo spazio del punto, come detto). Ma, anche qui, non mancano provocazioni letterarie. Così come Sanguineti aveva chiuso una poesia con i due punti, Luca Lorenzini (l’inventore, su Facebook, dei Romanzi brevi) scrive così in Non mi fido (2012):

­­­­­76

Ci sono poi altri casi in cui è necessario evitare la virgola. La virgola NON va usata:



NO

– tra soggetto e verbo (anche quando al soggetto sono associati aggettivi o altri complementi come quello di specificazione);

Mio nonno adorava la Barbera.

Mio nonno, adorava la Barbera.

Il grande Gatsby di Fitzgerald è stato scritto in stato di grazia.

Il grande Gatsby di Fitzge­ rald, è stato scritto in stato di grazia.

– tra predicato e complemento oggetto;

Ho comprato il biglietto per il concerto dei Radio­ head.

Ho comprato, il biglietto per il concerto dei Radio­ head.

– tra verbo essere e la parte nominale (costituita da un aggettivo, da un sostantivo, o da entrambi).

L’arcobaleno è meraviglio­ so.

L’arcobaleno è, meraviglioso.

Fabrizio De André è un poeta straordinario.

Fabrizio De André è, un poeta straordinario.

Generalmente, si aggiunge alla lista dei divieti l’inserimento della virgola prima dei complementi indiretti (tutti quelli, cioè, introdotti da preposizioni come di, a, da, ecc.) collocati in coda a una frase, come nel periodo: “Paolo e il suo amico hanno bevuto tutta la sera; poi lui è finito a casa di Lucia”. In effetti, in questo caso, non andrebbe la virgola tra “casa” e “di Lucia”. Ma se venissimo a conoscenza dell’antefatto di questa storiella – e cioè che Paolo era andato a bere col suo amico per sbollire la litigata con Lucia, a cui poi aveva detto che non sarebbe più tornato – vi sembrerebbe ancora così inaccettabile quella virgola? O piuttosto – nel periodo così riformulato: “Paolo e il suo amico hanno bevuto tutta la sera; e poi lui è finito a casa, di Lucia” – quella virgola, che sottolinea di chi è la casa, non fa altro che lasciare intendere un lieto ­­­­­77

fine con rappacificazione? A questo può servire a volte la virgola, anche dove secondo la norma non dovrebbe esserci: a mettere in evidenza un elemento significativo del nostro discorso. Per certi versi, ha ragione Antonio Frescaroli quando dice che l’uso della virgola «è regolato per un quarto dai paragrafi della grammatica; e per i restanti tre quarti dal temperamento dell’uomo» (ed è ovvio che questo potrebbe estendersi alla punteggiatura nel suo complesso). In base alle sfumature che vogliamo attribuire al discorso, in effetti, possiamo tollerare eccezioni a tutte le regole che abbiamo elencato fin qui; in qualche caso perfino a quella più importante, e cioè l’inscindibilità dell’asse soggetto-predicato. Puerto Plata Market (1997) di Aldo Nove per esempio comincia così: «L’amore, ha lo stesso meccanismo del gratta e vinci». E nel romanzo di Francesco Piccolo La separazione del maschio (2008) si legge: «La cosa più spaventosa da immaginare, è che i piccoli movimenti quotidiani rappresentano qualcos’altro, sono la sineddoche della complessità». Poi c’è chi, come Paolo Nori, mette una virgola tra soggetto e verbo addirittura in un titolo – Si chiama Francesca, questo romanzo (2002) – in una disposizione degli elementi della frase che ha un chiaro valore enfatico. Naturalmente, una violazione di questo tipo può essere accettata solo a questo livello di consapevolezza; in tutti gli altri casi, il rischio è quello di creare confusione, ostacolando la comprensibilità del discorso. Quindi è meglio evitare usi simili della virgola in tutti i testi non letterari. Anche perché qualcuno, perfino in caso di ­­­­­78

pubblicazione, ricordandosi della lettera ai “Correttori di bozze” di Cesare Zavattini, potrebbe intervenire nottetempo ed eliminarla: Che cos’è una virgola? Una virgola è un suono, il galoppo invece del trotto, una fanciulla che divide l’aria dalla nebbia. Oh, una virgola, voi dite... E sotto il vostro occhio cadente passano le virgole in punta di piedi, se ne vanno dai giusti periodi verso il limbo. Voi mi avete dato grandi dolori, correttori miei, mi avete amareggiato tante giornate di primavera. È la vostra vendetta: per la poesia che avete ancora nel cassetto, per la lunga novella che i vostri famigliari attendono da lustri sul giornale dove lavorate. Correttori di bozze, voi invidiate gli scrittori, piccoli o grandi [...]. Il vostro sogno è questo: che i libri dei grandi escano pieni di tzhrrms, di estrrllng...; e senza virgole.

virgolette 

«»  

“”  

‘’

Le virgolette sono di tre tipi: quelle basse, dette anche caporali per via della somiglianza con le mostrine militari (« »); quelle alte (“ ”) e gli apici (‘ ’). Nel corso del tempo queste varianti hanno specializzato il loro uso, anche se, in àmbito tipografico, gli impieghi sono sempre determinati dalle scelte redazionali dei singoli editori. E, in proposito, va fatta una precisazione che riguarda questo libro: sono tra virgolette basse le citazioni d’autore (come si può dedurre anche dal fatto che c’è sempre un riferimento alla fonte, esplicitato nella trattazione o tra parentesi); gli esempi inventati sono invece tra virgolette alte. Le virgolette basse si usano in genere: ­­­­­79

– per indicare il titolo di un quotidiano o di una rivista («La Repubblica», «Vie Nuove», ecc.); – nelle citazioni, non solo di frasi o di brani tratti da altri scritti, ma anche delle dichiarazioni a voce di una persona, come avviene sempre più spesso negli articoli di giornale: «un modo brillante», secondo Frescaroli, «per far dire ad altri ciò che si vorrebbe dire in proprio». Tullio De Mauro è molto meno disponibile nei confronti di questa tendenza (di cui si dirà anche nel prossimo capitolo): Nel suo bel Dizionario della lingua italiana alla voce «virgolette» Carlo Passerini Tosi scrive: «Si usano dopo i due punti, nel passaggio dal discorso indiretto a quello diretto, per includervi parole altrui riferite testualmente, una citazione precisa e simili». Così è in italiano. Nel nostro giornalismo, invece, troppo spesso non è così. Troppo spesso le virgolette sono un ornamento retorico usato per vivacizzare il periodo. Ma se forse si vivacizza il periodo, certo si avvolgono in un fumo opaco le fattezze e i connotati precisi delle cose di cui si parla. I lettori si diseducano, le notizie circolano imprecise e incontrollabili. E l’una e l’altra cosa favoriscono le resistibili ascese dei più loschi figuri.

– molti editori usano le virgolette basse per gli inserti dialogici nei testi narrativi. Un esempio dalla traduzione di Giuseppe Strazzeri del romanzo di Dave Eggers L’opera struggente di un formidabile genio (2001): Mamma guarda lo spettacolo ogni sera; è l’unico programma che riesce a vedere senza addormentarsi, cosa che durante il giorno fa continuamente, appisolandosi e risvegliandosi. Ma di notte non dorme. «Ma sì che dormi, la notte» dico io. ­­­­­80

«Invece no» dice lei. «Tutti dormono di notte» dico io – è una vecchia discussione tra di noi – «anche se non sembra. La notte è troppo, troppo lunga per stare svegli dall’inizio alla fine. Voglio dire, ci sono state volte in cui ero sicurissimo di non aver chiuso occhio, come quella volta in cui ero sicuro che i Vampiri delle Notti di Salem... – te lo ricordi, quello con David Soul? Con la gente impalata sulle corna d’animale? E insomma, avevo paura di addormentarmi e così avevo deciso di stare sveglio tutta la notte piazzandomi la tv portatile sulla pancia, per tutta la notte, con la paura che avevo di abbandonarmi al sonno perché ero sicuro che stavano solo aspettando il momento giusto, proprio quando mi sarei addormentato, per arrivare in volo fino alla mia finestra o lungo il corridoio e mordermi, lentamente...» Mia madre sputa nella mezzaluna e mi guarda. «Ma che diavolo stai dicendo?»

Dal brano possiamo anche dedurre che non si mette il punto dopo le virgolette di chiusura, se la battuta (ma questo vale anche per le citazioni) si conclude con uno dei segni espressivi (in questo caso i puntini e il punto interrogativo). Le virgolette alte sono usate: – in funzione metalinguistica, quando si intende segnalare che una parola (o un’espressione) è usata in senso improprio, o traslato, o ironico. Per esempio, rispondendo a un lettore di «Vie Nuove», Pier Paolo Pasolini scriveva nel 1961: «È disumano, dunque, e disonesto, chiedere agli scrittori e ai registi “impegnati” di fare quello che non possono fare». In questo caso le virgolette specificano che non si tratta di un impegno generico (impegnati non sta per ‘occupati’, insomma) ma di quello politico, nella fattispecie a sinistra. ­­­­­81

Questo tipo di segnalazione, da molto tempo a questa parte, comincia a essere verbalizzata anche nella comunicazione orale: si dice l’espressione “tra virgolette” quando, appunto, anche nello scambio a viva voce vogliamo prendere le distanze da una cosa che stiamo dicendo. È un’abitudine di origine anglosassone che molto spesso, specie tra i giovani, è accompagnata dal gesto con l’indice e il medio uniti delle due mani per mimare le virgolette. Ce ne offre un esempio Debra Winger in un film del 1990 di Karel Reisz (non all’altezza, va detto, del cast artistico e tecnico di primissimo ordine): Everybody wins. In una delle prime scene, il personaggio di Angela spiega a Tom (interpretato da Nick Nolte) di essere finlandese, anche se tutti la chiamano “la svedese”, come se fosse la stessa cosa (il film, ricordiamolo, è ambientato negli Stati Uniti). E qui la Winger accompagna appunto la parola “svedese” con il gesto delle mani, che però non è indicato nella sceneggiatura di Arthur Miller (in quel passaggio troviamo solo, dopo la parola tra virgolette, la segnalazione «Slight pause», cioè ‘lieve pausa’, rigorosamente tra parentesi come si fa nelle sceneggiature); – per indicare il titolo di un racconto (di una poesia o di una canzone, ecc.) in modo da distinguerlo dal titolo della raccolta che lo contiene, che generalmente è in corsivo. Per esempio: “Circolazione” di Rick Moody è pubblicato in Burned Children of America; – in alternativa a quelle basse nelle citazioni: questo sempre a seconda delle scelte editoriali. Per citare un caso, nel brano che segue, tratto dal romanzo di Jeffrey Eugenides Le vergini suicide (1993), la traduttrice Cristina Stella ­­­­­82

usa le virgolette basse per le battute di dialogo e ricorre alle virgolette alte per citare i versi di una canzone: Lo invitammo a farci sentire la sua solita canzonetta, quella che gli aveva insegnato il signor Eugene: “Oh, le scimmie di Sambo Wango son senza coda, oh, le scimmie di Sambo Wango son senza coda, non ce l’hanno gliel’han mangiata le balene” e noi giù ad applaudire, noi, le sorelle Lisbon e Lux, che si addossava a Joe lo Scemo, il quale era troppo tonto per apprezzare quel contatto.

Gli apici sono usati: – per spiegare il significato di un vocabolo, anche da una lingua all’altra (come poche righe fa «Slight pause» ‘lieve pausa’); – al posto delle virgolette alte quando si trovano al loro interno, nello stesso gioco di scatole cinesi delle parentesi quadre nelle tonde. Per esempio: “e lui mi ha detto: ‘che cosa credi di fare?’ Io non ho risposto”. In genere, in questi casi, per evitare la sequenza di tre apici ’”, meglio inserire le virgolette basse se la citazione interna coincide con la fine della citazione tout court. Mi spiego: se l’esempio citato si fosse fermato a ‘che cosa credi di fare?’, in quel caso sarebbe stato preferibile diversificare la sequenza con i caporali, in questo modo: “e lui mi ha detto: «che cosa credi di fare?»”. In funzione metalinguistica (per segnalare per esempio le parole straniere), o in qualche caso nelle citazioni, in alternativa alle virgolette, si può usare – anche qui senza ­­­­­83

abusarne – il corsivo, che rientra tra quei segni paragrafematici (secondo la definizione di Castellani) che hanno una qualche parentela con la punteggiatura e servono per mettere in evidenza un elemento del discorso. Come il grassetto, o lo s p a z i e g g i a t o , oggi caduto in disuso ma in passato largamente impiegato, per esempio, negli scritti di Benedetto Croce. O l’asterisco ripetuto tre volte in luogo di un nome proprio che non si può o non si vuole indicare apertamente, come fa Manzoni nei Promessi sposi («il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni»). L’asterisco può essere usato anche come richiamo per le note, specie in narrativa, e con questa funzione si trova per esempio nel romanzo di Teresa Ciabatti I giorni felici (2008). Qui, in particolare, rimanda alle brevi biografie di personaggi realmente vissuti e nominati durante la narrazione: quelli diventati famosi da bambini che poi hanno avuto problemi da adulti, citati nella prima parte del romanzo; e nella seconda, in una struttura narrativa a chiasmo, simmetrica e bilanciata, quelli diventati famosi proprio per i fatti drammatici di cui sono stati protagonisti durante l’infanzia. In questo discorso rientra anche l’uso dello spazio bianco tra lettera e lettera o tra le varie righe, che in certi casi può caricarsi di un valore espressivo. In proposito, lo studioso Michel Favriaud ha parlato di «punteggiatura bianca», a volte in grado di imprimere a un testo un ritmo più marcato rispetto alla «punteggiatura nera» (quella cioè costituita dai segni intepuntivi tradizionali). Come avviene spesso nell’ultima produzione di Mario Luzi. Nella poesia “Nel sogno, nell’essere”, contenuta nella raccol­­­­­84

ta Frasi e incisi di un canto salutare (1995), «lo “zigzagare” dello spirito che assapora per “lampi”, per “baleni”, frammenti di una “felicità perduta / e ritrovata”, sembra incarnarsi nella stessa mise en page zigzagante» (Tonani). La pagina stessa, insomma, sembra imitare graficamente l’azione espressa dai versi: Nel sogno, nell’essere, nella sua parte più ima... Via, noi lesti sguisciando nell’aria e nella luce della vivida mattina, non meno alacremente altri leggeri zigzagando in quell’azzurro in quei lampi e baleni di piscina... Brividi, quelli, soprassalti d’una felicità perduta e ritrovata o solo fausto proscioglimento dall’umano? E cima?

Allo stesso modo, in anni più recenti, il «vuoto significante degli spazi bianchi» diventa uno degli strumenti di ­­­­­85

ricerca nei «versi a gradino» di Sara Ventroni, come quelli con cui si apre Nel gasometro (2006): Operai arrampicati sui pali elettrici di mattina che fanno? dove riparano il guasto? E se anche si parte per un lavoro di manutenzione mi trovo d’accordo con questi della stazione con le tute fluorescenti. Altri rimuovono tettoie di amianto, [le antenne abbinate come ai rami vecchi di altri tempi morti: i rami stanno attenti: il cielo non si muove. Toccava mettersi i guanti e una maschera sottile di carta davanti alla bocca, scarponi di fibra casomai colasse altra scoria. La rimozione del ferro: acqua mista a ruggine acqua mista a terra che diventa fango. Altri spostano basamenti di cemento spargendo ghiaia, usando dell’aria compressa, un fiato diretto che stacca. I vermi stanno sotto il masso è cresciuto il muschio nella centralina. Altri ancora si attengono alle istruzioni, all’igiene. Non toccano a caso ma eseguono, nemmeno parlano. Certo che quando un perno cede bisogna cambiare l’osso e l’osso in circolo per il sangue è inquinamento. Intorno a un altro asse un altro osso un altro corpo tocca colare stendere da una latta di tinta una lingua nuova a terra come un terreno rosso. ­­­­­86

Storicamente, il primo autore a usare in modo espressivo spazi e segni grafici particolari come l’asterisco è stato l’inglese Laurence Sterne, nel romanzo Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (1760-1767). In quel contesto – in cui si stravolge il canone del romanzo appena costituito – Sterne usa provocatoriamente artifici di tutti i tipi: «dalla manina con l’indice puntato, agli asterischi, ai trattini, all’impiego delle maiuscole, dei caratteri gotici, di pagine bianche, nere, marmorizzate» (Melchiori). Un esempio per capire meglio (nella traduzione di Antonio Meo ripresa da Storia, regole, eccezioni): Mia madre andò giù, e mio padre andò avanti nella lettura del capitolo a questo modo. ** * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * ...–Benissimo – disse mio padre, – ** * * * * * * * * ** * * * * * * * * * * ...anzi, se offre quei vantaggi... *

Proprio a Laurence Sterne si rifà, a settant’anni di distanza, il francese Charles Nodier che in L’Histoire du roi de Bohême et de ses sept châteaux (‘Storia del re di Boemia e dei suoi sette castelli’) «finge di riprendere la narrazione interrotta di un racconto che inizia in Tristram Shandy» (Pickford), usando nel testo – che finì per mandare in ro­­­­­87

vina il suo editore – vari tipi di stravaganze tipografiche. Nodier è lo stesso che in un racconto del 1799, Moi-même (‘Me stesso’), aveva scritto un intero capitolo (il nono, intitolato “Le meilleur du livre” ‘Il meglio del libro’) costituito solo da segni interpuntivi (come farà, nel 1916, Ernest Hemingway nei suoi Versi sciolti):

4.

Appunti di stile

Con un eccesso di semplificazione si potrebbe dire che nella lingua le regole e le eccezioni sono da sempre un serpente che si morde la coda. Un serpente di lunghezza secolare che arriva, con i suoi cambiamenti di pelle ma il corpo sostanzialmente integro, fino ai nostri giorni. Succede così: un bel giorno un numero sempre più grande di persone comincia a parlare (e a un livello più avanzato anche a scrivere) in un certo modo. E quando quel modo si diffonde fino al punto da imporsi come dominante, arriva un grammatico che si mette lì e, con pazienza e con scrupolo, deduce da quello un modello le cui regole da quel momento in poi, almeno secondo lui, andranno seguite da tutti per parlare e per scrivere correttamente. Fino al giorno in cui a qualcun altro quelle norme iniziano ad andare strette, e allora – più o meno consapevolmente – parlando o scrivendo le cambia; e altri cominciano ad andargli dietro fino a quando un altro grammatico capisce che è tempo di rivedere le regole del vecchio modello, codificando quelle del nuovo, in un processo in cui – chiudendo con un modo di dire speculare a quello usato in apertura – non si saprebbe più dire se è nato prima l’uovo o la gallina. Anche per questo si parla di “lingua viva”: perché gli usi di chi la pratica alimentano ogni giorno uno straordinario ­­­­­89

racconto seriale, con un numero di episodi potenzialmente infinito. Di qui il compito dei grammatici – lo abbiamo detto nell’introduzione – di fotografare la lingua in un determinato momento storico, dando conto non solo delle regole ma anche di certe apparenti eccezioni che devono essere sottoposte alla verifica del tempo, per capire se si tratta di mode destinate a tramontare o se in futuro potranno imporsi a loro volta come regole. Questo, almeno, secondo un’ottica contemporanea, cioè che ha alle spalle secoli di pratica e di diffusione dell’italiano; perché va anche detto che nel passato lontano i grammatici erano tendenzialmente molto più militanti e si davano battaglia tra loro, anche aspramente, per promuovere un tipo di italiano piuttosto che un altro. E questa disputa centenaria è nota come “questione della lingua”. Ad avviarla è stato Dante, nel primo Trecento, con il De vulgari eloquentia; e il dibattito è andato avanti per secoli, arrivando fino a Pasolini e a Calvino, dopo aver conosciuto le sue fasi più accese all’inizio del Cinquecento, cioè a ridosso dell’invenzione della stampa, e nell’Ottocento, specie nei decenni intorno al raggiungimento dell’unità nazionale. È proprio con la nascita delle tipografie che da più parti si sente l’esigenza di un sistema ortografico valido per tutti, al quale ricorrere per ottenere la più larga comprensibilità (e di conseguenza diffusione) dei testi che venivano stampati. Anche la punteggiatura per come la conosciamo adesso arriva direttamente da lì – con tutti i segni passati in rassegna nel capitolo precedente – ed è uno dei risultati più significativi del sodalizio tra il tipografo Aldo Manuzio e Pietro Bembo. I due avevano concertato insieme le ­­­­­90

regole per l’edizione a stampa del De Aetna (1496), prosa latina dello scrittore veneziano, usando per la prima volta gli stessi segni che conosciamo oggi, compreso il punto e virgola moderno (un segno molto simile, nell’antichità, aveva invece il valore di punto interrogativo). Naturalmente, perché la loro proposta – rispetto a quelle concorrenti di altri grammatici dell’epoca – si consolidasse come modello vincente, servirono almeno tre secoli di pratica dell’italiano. Solo allora (siamo alla fine del Settecento), una scelta interpuntiva (o linguistica in senso lato) distante dal modello che si era andato affermando a partire da Bembo assume i contorni di una scelta stilistica: volta cioè ad assecondare le personali esigenze espressive di un autore, volutamente in contrasto con la norma. Un esempio per intenderci, partendo dalle considerazioni di Bruno Migliorini sulla punteggiatura nel Cinquecento: Nella scrittura, l’interpunzione rimane più a lungo scarsa e confusa. L’Ariosto conosce il punto (che serve anche da virgola e da punto e virgola), la virgola e il punto doppio (che si equivalgono), l’interrogativo, la parentesi, l’accento e l’apostrofo; ma non li adopera quasi mai nello scrivere consueto. Il Guicciardini conosce solo la virgola (nella forma /), i due punti (applicati anche per il punto e virgola e per il punto in fine di proposizione), il punto fermo (solo in fine di periodo), il punto interrogativo, ma li adopera molto parcamente.

Ora, qui qualcuno potrebbe ricordarsi di quelle che a scuola si chiamavano “licenze poetiche” (le eccezioni alle regole generali), e di conseguenza potrebbe far rientrare in quella categoria gli usi di cui parla Migliorini, dato che ­­­­­91

oggi Ariosto e Guicciardini sono considerati come dei classici. Ma sarebbe un errore di prospettiva storica: non tanto perché non si potesse avere coscienza della loro grandezza già a quell’epoca, quanto perché le eccezioni (comprese quelle d’autore) esistono per definizione solo rispetto a una regola che si dà per assodata, e questo non può valere per la punteggiatura a quell’altezza cronologica. Il che non significa, ovviamente, che Ariosto e Guicciardini fossero privi di un loro stile, ma non è a quello che si devono le loro stravaganze interpuntive (rispetto alle nostre regole). Il fatto è che a quel tempo la norma era troppo giovane per essere già avvertita da tutti come incontestabile (o contestabile, appunto, per precise esigenze stilistiche). Solo alla fine del XVIII secolo, allora – quando trattati come L’arte del puntar gli scritti (1585) di Orazio Lombardelli e grammatiche come le Lezioni di lingua toscana (1737) di Domenico Maria Manni avevano elaborato e ribadito come norma il modello apparso la prima volta nel De Aetna – in àmbito letterario può avere senso parlare di usi d’autore. È da quel momento, infatti, che l’eccezione acquisisce il sottinteso che le riconosciamo oggi: e cioè il modo che gli scrittori si sono trovati per non far schiacciare la propria voce da regole comunemente accolte, ma a volte avvertite come inadeguate alle loro istanze espressive. In altre parole, appunto, lo stile. Pensiamo a Foscolo; e alla sua smania di modernità, che lo porta a scegliere, per la sua più importante prova di prosatore, il romanzo epistolare (secondo il modello dell’opera di Goethe I dolori del giovane Werther). Intenzionato a svecchiare la lingua «dalla ruggine dell’antichi­­­­­92

tà», Foscolo cerca di concepire per le Ultime lettere di Jacopo Ortis (1801) uno stile che si avvicini – nella sua carica di naturalezza e di spontaneità – il più possibile al parlato. E lo fa attraverso una serie di espedienti linguistici, compresi certi usi inediti per l’epoca di alcuni segni interpuntivi, tra cui la lineetta. Come messo in evidenza nello studio di Bianca Persiani, Foscolo usa questo segno in funzione espressiva prima o dopo interiezioni o frasi vocative (è il caso di «Italia placa l’ombre de’ tuoi grandi. – Oh! io mi risovvengo col gemito nell’anima, delle estreme parole di Torquato Tasso»); e poi per segnalare un brusco cambio di progetto nella sintassi, quando una frase viene lasciata in sospeso in periodi come «ne’ miei sogni quest’anima è in paradiso, e Teresa è al mio fianco, e mi sento sospirar su la bocca, e – perché mi trovo un vuoto, un vuoto di tomba?». Al contrario è noto il rifiuto di qualunque forma di trattino o di lineetta da parte di Leopardi, che più in generale si mostra sempre molto attento nell’uso della punteggiatura, «nelle Operette morali, abbondante e meticolosissima» (Schiaffini), come si può vedere nel brano tratto dal “Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco”: La materia in universale, siccome in particolare le piante e le creature animate, ha in se per natura una o più forze sue proprie, che l’agitano e muovono in diversissime guise continuamente. Le quali forze noi possiamo congetturare ed anco denominare dai loro effetti, ma non conoscere in se, né scoprir la natura loro. Né anche possiamo sapere se quegli effetti che da noi si riferiscono a una stessa forza, procedano veramente da una o da più, e se per contrario quelle forze che noi significhiamo con ­­­­­93

diversi nomi, sieno veramente diverse forze, o pure una stessa. Siccome tutto dì nell’uomo con diversi vocaboli si dinota una sola passione o forza: per modo di esempio, l’ambizione, l’amor del piacere e simili, da ciascuna delle quali fonti derivano effetti talora semplicemente diversi, talora eziandio contrari a quei delle altre, sono in fatti una medesima passione, cioè l’amor di se stesso, il quale opera in diversi casi diversamente.

Già in queste poche righe, si può notare come punti e virgole svolgano «la funzione di mettere in rilievo i singoli membri del discorso, di sottolineare il loro valore sentimentale» (Fubini), secondo un preciso intento stilistico che porta l’autore a usare per esempio la virgola tra soggetto e verbo nel periodo: «Né anche possiamo sapere se quegli effetti che da noi si riferiscono a una stessa forza, procedano veramente da una o da più». C’è poi il caso di Manzoni e della sua puntuale ricerca linguistica, esemplificata nelle due redazioni (1827 e 1840) del romanzo italiano per eccellenza. Il passaggio dall’una all’altra versione dei Promessi sposi tende, consapevolmente, a svecchiare la lingua “troppo” scritta della tradizione, attingendo alle movenze del parlato (toscano); non senza conseguenze sul piano delle scelte interpuntive, che infatti sono orientate «in funzione non tanto della scansione logica delle frasi quanto dei ritmi del parlato» (Serianni, 1993). Ecco che allora, come aveva già notato Francesco D’Ovidio, nell’edizione del 1840 la punteggiatura è più estesa, con un’abbondanza soprattutto di virgole. Mettiamo a confronto, per esempio, le due versioni della descrizione del castello dell’Innominato che apre il XX capitolo del romanzo. Si legge in quella del 1827: ­­­­­94

Il castello dell’innominato era posto a cavaliere ad una valle angusta e uggiosa, su la cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è non si saprebbe dir bene se congiunto ad essa o separatone, per un mucchio di greppi e di dirupi, e per un andirivieni di tane e di precipizii, così sul di dietro, come sui fianchi. Il lato che risponde nella valle è il solo praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuo; a pascoli in alto; a colture nella più bassa falda, e sparso qua e là di abituri. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un, secondo la stagione, rigagnolo o torrentaccio, che allora serviva di confine ai due dominii. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno pure un po’ di falda lentamente inclinata e coltivata, ma un breve tratto; il resto è schegge e macigni, erte, ripide, senza via e nude, salvo qualche cespuglio nei fessi e sui ciglioni.

Invece, nella versione del 1840: Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno anch’essi un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi e sui ciglioni.

Già nelle prime righe notiamo l’aggiunta delle due virgole che segnalano l’inciso «non si saprebbe dir bene», solo per fare un esempio. ­­­­­95

Proprio ragionando su quest’uso analitico della punteggiatura, secondo una modalità più pausativa che logica, D’Ovidio osservava come tutto questo comportasse perplessità nei lettori e indecisione nei confronti di chi, scrivendo, volesse seguire quel modello. Se I promessi sposi costituiscono a tutt’oggi un caposaldo della lingua italiana nel suo complesso, per la punteggiatura, insomma, a un diverso livello di consapevolezza rispetto a Manzoni, meglio non prenderli come modello. Per un grande autore che mette tante virgole (anche troppe), eccone subito un altro che – lo abbiamo già detto – in qualche caso le elimina del tutto. Si parla di Carducci e della sua abitudine di omettere le virgole negli elenchi, come nelle prime righe del brano tratto da Mosche cocchiere (attuale in un modo che inquieta): Questa Italia, per contro, è un deserto di troppe città maleducate che si ostinano a mangiare maccheroni o risotto o mortadella e a ber Chianti o Barolo o Genzano anzi che racchiudersi ne’ teatri a batter le mani alle perseveranti novità drammatiche di quei signori o raccogliersi nelle sale di lettura a dormire malinconicamente su le audacie loro sperimentali e sociali; e questa lingua, questa sciagurata lingua d’Italia, tutta ancora irta di selvatichezza dantesca, ed esangue d’idrope boccaccevole, e zoppicante di sgrammaticature machiavelliche, e balbuziente d’imprecisioni galileiane, grave insomma di tutti i peccati di tanti autori che l’Europa lesse e ammirò, tradusse e cantò, è da lasciare alla rettorica dei meetings e alle delizie della gente che non si diverte a certe commedie e si addormenta su certi romanzi.

Per capire la natura squisitamente stilistica della punteggiatura in questo brano, bisogna notare la cesura che verso ­­­­­96

la metà crea il punto e virgola (usato in luogo del punto, che di norma lì sarebbe stato preferibile). Prima di quello, non compare nessun altro segno interpuntivo, quasi a rendere lo scorrere dei fiumi di vino che accompagnano gli eccessi a tavola. Subito dopo, invece, quando l’autore arriva alla sua materia, pulsante di risentimento, ecco che le virgole interrompono il flusso continuo, come per invitare il lettore a sostare su ognuna delle invettive, per prenderne coscienza. Ancora più ardite le soluzioni interpuntive di Carlo Dossi, uno degli esponenti dell’espressionismo tardo ottocentesco, a cui si deve quella proposta di anticipare nelle esclamazioni e nelle interrogative il segno rovesciato, così come avviene nello spagnolo. Ma questa mancanza non è la più importante avvertita da Dossi, che in una delle Note azzurre scrive: «per quanti punti e per quanti accenti si trovino e si usino, resterà sempre inindicabile il più importante di tutti – l’accento della passione». E però che succede da qui in poi con tutta questa libertà a disposizione? Leggiamo che cosa ne dice lo studioso Fernando Maria Brignoli in un articolo del 1956: l’aver scoperto che l’interpunzione è sintattica o stilistica, e cioè oggettiva o soggettiva, logica o estetica (ma non è la lingua stessa l’una e l’altra cosa?), anziché placare gli animi, ha ravvivato le discordie, perché ha dato all’una e all’altra fazione in lotta una bandiera da difendere. Sicché dall’interpunzione del Boccaccio, esemplare e perfetta; da quella, per noi stravagante, del Bembo; dalla minuziosa e attenta punteggiatura del Leopardi; dalla più ricca e viva, ma non meno meditata, del Manzoni, siamo arrivati, ieri, all’abolizione di ogni punteggiatura da parte dei futuristi (che del resto hanno abolito anche ­­­­­97

la sintassi), e oggi, ai capricci della scuola ermetica che l’interpunzione il lessico la sintassi il verso ha travisato sminuzzato dissolto in variopinti frantumi da sventagliarsi nel caleidoscopio della «poesia dell’assoluto».

Da queste poche righe si capisce che, se si intende ricercare nell’uso degli autori un modello valido anche per il comune scrivente, la proliferazione di scelte di cui parla Brignoli non può non esser letta che come una devastazione. Ma se si prova a svincolare la letteratura da una funzione “pedagogica”, tutta quella varietà ci può apparire, in definitiva, solo una ricchezza. Ecco allora, nel primo Novecento, il «ribellismo inter­ puntorio» di D’Annunzio, volto a potenziare il valore evocativo affidato alla parola – come ricorda Serianni (1993) – grazie agli accenti o all’uso del corsivo per «sottolineare uno sdrucciolo raro e prezioso (la zàffara e gli aròmati del Piacere)»; o degli spazi bianchi «per potenziare l’alone connotativo di un vocabolo o di un’espressione che vengono isolati nella pagina, dai frequentissimi accapo (specie nel Notturno)». Si è già fatto cenno al rifiuto dei punti da parte dei futuristi, ma vale la pena ricordare qui almeno i primi punti del Manifesto tecnico della letteratura futurista di Marinetti (1912): 1. Bisogna distruggere la sintassi disponendo i sostantivi a caso, come nascono. 2. Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all’io dello scrittore che osserva o immagina. [...] ­­­­­98

3. Si deve abolire l’aggettivo, perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. [...] 4. Si deve abolire l’avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l’una all’altra le parole! L’avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono. 5. Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguito, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera, donna-golfo, folla-risacca, pizza-imbuto, porta-rubinetto. [...] 6. Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti.

Non ce ne voglia Marinetti, ma avete mai letto niente di più clamorosamente fallimentare? Non mi riferisco al fallimento a cui la storia, in generale, ha condannato queste proposte. Penso a quello interno al testo, in cui – per rendere chiaro e comprensibile il suo messaggio – Marinetti non può fare a meno degli stessi elementi che invita ad abolire. A parte la presenza di aggettivi (nudo, essenziale, fastidiosa, ecc.), di avverbi (elasticamente, naturalmente, ecc.) e di verbi regolarmente coniugati, non si può non notare la punteggiatura posta in modo sempre pertinente (i due punti prima di un elenco: «Esempio: uomo-torpediniera, donnagolfo, folla-risacca, pizza-imbuto», ecc.; l’esclamativo per l’invettiva contro l’avverbio: «vecchia fibbia che tiene unite l’una all’altra le parole!»; ecc.). Certo Marinetti si riferiva alla scrittura letteraria, che è altra cosa da una dichiarazione d’intenti come è il suo manifesto, in cui è importante per pri­­­­­99

ma cosa farsi capire. E questa sua schizofrenia interpuntiva non fa altro che evidenziare in modo netto la differenza tra punteggiatura logica (in cui prevale l’aspetto comunicativo) e quella stilistica (in cui prevale quello espressivo), che poi – e qui coerentemente con il manifesto – nel caso di Marinetti scompare nelle pagine letterarie. Prendiamone per esempio una di Zang tumb tumb del 1914, in cui tuttavia non possiamo non notare il punto nelle abbreviazioni (in T. S. F. e m.) e il trattino tra Pascià e Costantinopoli:

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Se della scrittura interessa il lato grafico e visivo, come è chiaro da questa pagina, ecco che allora, al posto dei segni interpuntivi convenzionali, i futuristi sperimentano i simboli della matematica o della musica, usati in combinazione con tutte le potenzialità tipografiche del testo (dagli spazi bianchi alle maiuscole, dal grassetto alla differente dimensione di caratteri, ecc.), con cui stabiliscono la gerarchia dei significati e delle espressività. E per questo aspetto, se stiamo a quella tendenza all’iconismo contemporanea a cui abbiamo già accennato, va anche detto che le proposte futuriste si sono mostrate realmente avanguardiste. La cura degli elementi iconici della scrittura arriva infatti ai nostri giorni da lì, passando per altri esperimenti come il Non libro di Cesare Zavattini (1970) in cui si legge:

Più in generale si può notare come, nel Novecento, le scelte interpuntive di uno scrittore a volte possono variare anche da opera a opera, a seconda del genere scelto (o di altri fattori), col risultato di una coerenza in qualche caso ­­­­­101

esclusivamente interna a un solo testo, magari a sé stante da questo punto di vista rispetto al resto della produzione del suo stesso autore. Pensiamo a Giuseppe Ungaretti: nella raccolta L’Allegria (che riprende nel 1931 i testi dell’Allegria dei naufragi del 1916), la ricerca della parola isolata – «la parola-verso, la parola nuda, cellula o monade tematica» – si realizza anche nella totale dissoluzione della punteggiatura, «che accresce gli spazi di silenzio, derivando mente da Apollinaire» (Mengaldo, 1991), fondamental­ come nella poe­sia “Noia”. Anche questa notte passerà Questa solitudine in giro titubante ombra dei fili tranviari sull’umido asfalto Guardo le teste dei brumisti nel mezzo sonno tentennare

Poi, nella raccolta Sentimento del tempo (pubblicata nel 1933), la ricerca cambia, ed ecco che il recupero della punteggiatura si sposa col ritorno a versi tradizionali come l’endecasillabo, e a una maggiore complessità metrica. Nel testo che segue intitolato “Alla noia” (variazione sul tema rispetto all’altro dello stesso Ungaretti), il campionario dei segni interpuntivi è pressoché completo: Quiete, quando risorse in una trama Il corpo acerbo verso cui m’avvio. ­­­­­102

La mano le luceva che mi porse, Che di quanto m’avanzo s’allontana. Eccomi perso in queste vane corse. Quando ondeggiò mattina ella si stese E rise, e mi volò dagli occhi. Ancella di follia, noia, Troppo poco fosti ebbra e dolce. Perché non t’ha seguita la memoria? È nuvola il tuo dono? È mormorio, e popola Di canti remoti i rami. Memoria, fluido simulacro, Malinconico scherno, Buio del sangue... Quale fonte timida a un’ombra Anziana di ulivi, Ritorni a assopirmi... Di mattina ancora segreta, Ancora le tue labbra brami... Non le conosca più!

Ai nostri giorni non mancano esempi di scelte interpuntive completamente diverse all’interno addirittura di una stessa opera, come è il caso di Baci Scagliati Altrove (2011) di Sandro Veronesi. La raccolta si apre con “Profezia”, la ­­­­­103

prefigurazione postuma e struggente degli ultimi giorni di vita del padre del narratore. A mano a mano che nel racconto la tensione emotiva cresce, il punto scompare perché non c’è alcuna cesura logica tra le frasi che conducono, con ritmo convulso, alla fine inevitabile. E però, nella stessa raccolta, nell’incipit di un altro racconto – “La voce vecchia” – al contrario l’unico segno usato è il punto, per sottolineare l’ansia che pressa il protagonista: «Ho fretta. Mi sono svegliato tardi. Ho un appuntamento importante all’altro capo della città. Piove. Ci sarà l’ingorgo. Non farò in tempo». E qui vien fatto di immaginare Veronesi nella cabina di comando del suo aereo, alle prese con la cloche, per imprimere al suo testo forti accelerazioni, o brusche frenate, nell’unico intento di far atterrare il suo lettore sulla giusta pista emotiva. Ed è questa la lezione più importante da apprendere dagli scrittori: adeguare sempre le scelte stilistiche al contesto e alla materia da gestire. Più in generale, a più di vent’anni di distanza, vale ancora quello che ha scritto Vittorio Coletti nel suo saggio Italiano d’autore: Da tempo ormai gli scrittori non fanno più testo nella grammatica dell’italiano. Sempre più raramente poesie o romanzi, saggi o racconti sono chiamati a fornire modelli di lingua, ad autenticare forme e usi. Insomma: la letteratura ha cessato di condizionare e orientare la lingua, che cerca altrove le proprie autorità: mass media, pubblicità, industria, sport, politica, ecc. tengono oggi lo scettro linguistico che in passato spettava a poeti e romanzieri.

Dal Novecento in poi, infatti, non solo la lingua letteraria non è più il modello dominante per la lingua comune, ­­­­­104

ma in tutte le sue varietà si profila invece come rielaborazione consapevole dell’infinita gamma di stimoli extraletterari. Con scrittori – pur diversissimi tra loro per temi trattati e contenuti – che occasionalmente, per alcune di queste scelte, si trovano incasellati nello stesso insieme. Valga a riprova, tornando in àmbito interpuntivo, ciò che ha scritto Giuseppe Antonelli (1999) a proposito del ricorso frequente di molti autori a una figura sintattica «oggi talmente comune da aver perso gran parte della sua forza espressiva»: Ci si riferisce all’abitudine di isolare – tramite una virgola, un punto e virgola, più spesso un punto fermo – l’ultimo elemento della frase, in modo da dare vita a una struttura melodica regressiva. Una tecnica che, imponendo al lettore una pausa più o meno lunga, dà luogo a una sorta di periodo caudato. L’attenzione viene così focalizzata sull’ultimo elemento, che ha la funzione di determinare, circoscrivere, come conferma lo statuto grammaticale degli elementi messi in rilievo, soprattutto aggettivi.

Ecco allora che gli esempi vanno da Dacia Maraini (La lunga vita di Marianna Ucrìa: «Il cugino Olivo li osserva da un altro tavolo, immusonito»), a Gesualdo Bufalino (Le menzogne della notte: «[...] con magra visione del basso, essendone gli strambi ad arte obliqui, sì da precluderla, quasi»), fino ad arrivare ad Alessandro Baricco (Castelli di rabbia: «Non durò che pochi istanti. Lunghissimi»). E alla lista si potrebbe aggiungere, tra gli altri esempi possibili, anche l’incipit del romanzo La vita oscena di Aldo Nove: «Mio padre morí all’improvviso, di ictus»; tanto per dare l’idea di come certe scelte possono essere comuni anche ­­­­­105

tra autori in generale molto diversi tra loro. Le opere di quelli appena citati, infatti, con buona probabilità non hanno nient’altro in comune se non questa scelta sintattica, magari del tutto occasionale. Il risultato è che – ma qui andando oltre le considerazioni di Antonelli – a caccia di esempi interpuntivi significativi, presumibilmente, si potrebbe scandagliare con lo stesso metodo tutta la nostra storia letteraria più recente, arrivando a individuare infiniti raggruppamenti dove inserire – a seconda degli usi – ora l’uno ora l’altro autore, senza avere la possibilità di stabilire un modello generale valido per tutti. Per Elsa Morante, tornando al pieno Novecento, la punteggiatura è il mezzo proprio della chiarezza analitica (come sottolinea nel suo studio del 1994 Pier Vincenzo Mengaldo): nella sua prosa infatti «abbondano non a caso le interrogative, anche retoriche, e le esclamative». E ancora, nelle opere di Primo Levi, alla «sintassi snella, veloce e concisa, sostenuta da figure di ripetizione molto più costruttive che espressive, che a volte legano perfino capitolo a capitolo» si accompagna – sempre secondo Mengaldo, ma questa volta citato per La tradizione del Novecento – una «punteggiatura estremamente analitica, quasi manzoniana, che guida inesorabilmente il lettore (perché nella scrittura leviana coesistono due impulsi, uno democratico che la vuole trasparente, e uno autoritario)». Per non parlare di Giuseppe Berto, che nel romanzo Il male oscuro (1964) non segnala gli incisi, provocando una «mescolanza indistinta di riflessioni del protagonista e considerazioni del narratore». Come ha osservato nel suo studio Antonelli (1999): ­­­­­106

Mancano infatti quelle parentesi, virgole, lineette che s­ ono diventate, nella narrativa italiana contemporanea, gli argini al­ l’interno dei quali il discorso del narratore o quello metanarrativo fra autore e pubblico possono scorrere indisturbati, seguendo un percorso parallelo a quello del racconto. È questa infatti la funzione che gli incisi rivestono in molte pagine di Pavese, di Bassani, della Morante. Sino a rappresentare – in alcuni casi – un evidente tentativo di tridimensionalizzare la scrittura: così accade, per esempio, in Lalla Romano.

Ora, questa carrellata di esempi, per quanto insufficiente a dar conto di più di due secoli di scelte letterarie, forse è servita almeno a rendere più chiaro il senso dell’esortazione di Čechov – tante volte chiamata in causa in questo libro – a usare i segni interpuntivi non tanto correttamente quanto consapevolmente. Perché la partita, in letteratura, si gioca lì. Se i limiti della norma sono forzati consapevolmente, per ragioni estetiche – ebbene sì, per accendere bellezza: non è forse a questo, in ultima analisi, che punta lo stile? – le eccezioni d’autore non solo possono essere tollerate ma arrivano addirittura a sedurre. Pensiamo all’incipit di Pesci (2011) di Evelina Santangelo – «Se qualcuno avesse solo voglia di chiederle a cosa stia pensando, ammesso che stia pensando a qualcosa, risponderebbe che, sì. Sta pensando a sua nonna» – e alla forza magnetica di quel punto. E pensiamo, ancora, alle prime righe di Cinacittà (2008) di Tommaso Pincio: Ma i romani esistono davvero? C’è questa bambina di tre o quattro anni. Un’ebrea. Sfoglia un libro illustrato sull’antica Roma strabuzzando gli occhi di ­­­­­107

fronte alle immagini dell’ordinaria violenza di allora. Gladiatori che combattono nell’arena, leoni in procinto di sbranare martiri cristiani, cose così. Assiepata sui gradoni del Colosseo, la folla lancia grida di giubilo, reclama sangue, inneggia alla mattanza. La bambina aggrotta la fronte, pensierosa. Si tormenta il labbro inferiore coi dentini da latte. Poi, con voce tremula, domanda: – Ma i romani esistono davvero? Ho tanta paura dei romani.

Leggendo tutto il brano, si capisce che la domanda d’esordio è posta dalla bambina. Quindi è una battuta di dialogo, cioè un inserto di discorso diretto che, come sappiamo, di norma andrebbe racchiuso tra virgolette o preceduto dalla lineetta, e introdotto dai due punti, come infatti avviene nella ripresa finale. Ma è proprio l’omissione iniziale che rende, nella sua ambiguità, l’incipit più suggestivo; e più forte la foderatura che ne svela i contorni. Evidentemente non c’è indifferenza nei confronti della regola. C’è semmai la volontà di tradirla perché la frase risuoni come una domanda assoluta, oltre l’hic et nunc del suo contesto; che inchiodi il lettore in quel limbo alle soglie del testo: frontiera tra il mondo reale e quello con cui si sta per stringere il famoso patto narrativo. Se, come a me, leggendo queste righe vi è venuta voglia di accettare il patto proposto da Pincio, lasciare la domanda di partenza senza risposta sarebbe crudele; tanto più che il darne conto ci permette di confermare, con un esempio perfetto, la tendenza a isolare l’ultimo elemento di una sequenza per dargli più forza (nella fattispecie «Me»): Devo darti una brutta notizia, bambina ebrea. Quegli uomini tanto cattivi dominarono il mondo per secoli. Proprio come è ­­­­­108

scritto nel libro. Posso fornirti una prova della loro esistenza, se non ci credi. Una prova in carne e ossa. Un loro discendente in linea diretta. Me.

A questo serve la consapevolezza. Quella che gli editor dovrebbero verificare con gli autori ogni volta che si trovano di fronte a una stravaganza interpuntiva, o linguistica in senso lato. Nella speranza, certo, di non avere mai a che fare con reazioni come quella immaginata da Alessandro De Roma nel suo romanzo metanarrativo Quando tutto tace (2011): Mi fanno un baffo le tue virgole e i tuoi punti. Guarda, anzi già mi adeguo: te ne metto quanti ne vuoi: ...;;...;;;; carini i punti e virgola, eh? Eleganti, sì! Un po’ demodé, magari. Sembrano ballerine di can-can pronte a sollevare la gambetta speriamo almeno si siano lavate la passera altrimenti sai che afrore nelle prime file del teatro! niente in contrario; comunque; contro; i; punti; e; virgola;;; a parte che fanno venire il singhiozzo al lettore;; Ti dirò: sono perfino disposto a parlare tra virgolette come tutti gli altri ma sia chiaro che disprezzo profondamente quello che stiamo facendo”;

Al polo opposto di questo tipo di ribellione autoriale, si collocano le scelte di molti scrittori di più largo consumo, il cui stile è basato – quando non appiattito – sul modello di lingua diffusa dai mass media. Come è il caso di Va’ dove ti porta il cuore (1994) di Susanna Tamaro, un vero e proprio caso editoriale. Dal punto di vista linguistico, le ragioni del successo del romanzo vanno ricercate nell’uso ­­­­­109

di una lingua facilmente accessibile. Lo stile segue infatti le forme e i modi del parlato: la prosa, controllata e dominata da similitudini quotidiane, si presenta scorrevole ma attenta alla norma. Dal punto di vista interpuntivo, nella fattispecie, si segnala il fatto che «la frase tende ad essere uniproposizionale e a ogni azione corrisponde di solito un periodo» (Antonelli, 1999). Si tratta, per questo, di una prosa quasi di stampo giornalistico, con frasi brevi e asciutte e il ricorso a un insieme limitato di segni interpuntivi: perlopiù virgole, due punti e punto fermo. Una prosa che rappresenta pienamente lo scenario delineato nel 1993 da Nicoletta Maraschio: Nel settore interpuntivo è senza dubbio in atto un riassestamento dell’uso dei diversi segni. In declino è il punto e virgola, mentre crescente è il successo dei due punti che si sono affermati innanzitutto nella prosa giornalistica, in connessione con una sintassi tipicamente giustappositiva o con procedere elencativo che si avvale spesso anche di particolari grafici (incolonnamenti, spaziature, numerazione evidenziata). In ascesa sono anche le parentesi che permettono di evidenziare/marginalizzare incisi, all’interno dei quali è possibile «concentrare [...] una quantità notevole di informazione o richiamare argomenti già trattati».

Si è già detto che cosa pensiamo a proposito della decadenza, tutt’altro che inesorabile, del punto e virgola. Che infatti si trova usato regolarmente nei giornali, almeno nelle pagine culturali e negli articoli di fondo (come in quelli di Eugenio Scalfari, per esempio). E secondo necessità anche nella cronaca, che più in generale è caratterizzata da uno stile più simile a quello del romanzo di Susanna Tamaro, ­­­­­110

con frasi brevissime e interruzioni forti e ravvicinate. Un sistema interpuntivo in questo contesto dunque ridotto, ma sostanzialmente integro, come sottolineato da diversi studiosi (Antonelli, Giovanardi, Raffaelli, Serianni, ecc.), a dispetto degli allarmismi dei «puristi della domenica» di cui parlava De Benedetti. Naturalmente ci sono differenze da autore ad autore, e vale, per le penne più autorevoli, quanto detto a proposito dei letterati, con scelte stilistiche che possono variare da un pezzo all’altro, e in qualche caso anche all’interno dello stesso testo. Pensiamo all’ultimo articolo licenziato da Giuseppe D’Avanzo, Così comprò i giudici per creare un impero (10 luglio del 2011); tanto per sublimare la «nostalgia del futuro» che ha suscitato la sua scomparsa prematura: Se non si ricorda come sono andate le cose venti anni fa, ci si può lasciare confondere dal frastuono sollevato dai commessi ubbidienti dell’Egoarca. Dunque. Due privati cittadini, capi d’impresa, si trovano in conflitto per la proprietà della Mondadori. Accade che gli eredi del fondatore (Arnoldo Mondadori) pattuiscano con Carlo De Benedetti (editore di questo giornale) la cessione della loro quota entro un termine, 30 gennaio 1991. Tra i soci c’è anche Silvio Berlusconi. Mai schietto, lavora nell’ombra. Traffica. Intriga. Ottiene che gli eredi passino nel suo campo. Nasce una lite. La decidono tre arbitri a favore di De Benedetti.

L’attacco è veloce. Frasi brevi, alcune costituite da una parola sola; e il punto e la virgola come unici segni interpuntivi. Ma a mano a mano che la trattazione si dispiega, ecco comparire via via parentesi, lineette per gli incisi, in­­­­­111

terrogativi, virgolette metalinguistiche e virgolette per le citazioni; perfino una teoria di punti e virgola, quando si sciorinano tutti gli «“attrezzi” del Mago: evasione fiscale; falso in bilancio; manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio; corruzione della politica (che gli confeziona leggi ad hoc);» ecc. Il repertorio completo dei segni interpuntivi, insomma, messo al servizio della chiarezza comunicativa: un modello di eleganza formale per chiunque sia davvero intenzionato a imparare a usare questo strumento prezioso. Sempre a proposito dei giornali, un discorso a parte andrebbe fatto per i titoli, tradizionalmente improntati all’effetto facile; ma su questo si rimanda allo studio di Maurizio Dardano, La stampa italiana nell’età della TV (1994). In quel contesto il linguista ha inoltre evidenziato un’altra tendenza giornalistica, sempre più in espansione, e per lui vera e propria cifra stilistica dei giornali d’oggi: cioè quella di concepire gli articoli come mosaici di citazioni. Un modo come un altro, da parte di chi scrive, per prendere le distanze dai contenuti trattati, specie quando la materia si mostra incandescente. Ma per verificare direttamente lo stato di salute del sistema interpuntivo italiano nella pratica dei quotidiani, vale la pena mettere alla prova almeno un campione di articoli di cronaca. Prendiamo allora, nell’edizione del 26 novembre 2011 di cinque diverse testate («Avvenire», «Corriere della Sera», «Il Giornale», «Il Messaggero» e «La Repubblica»), gli articoli relativi alla notizia che a Giovanni Scattone – condannato per aver ucciso il 9 maggio del 1997 la stu­­­­­112

dentessa Marta Russo – è stata assegnata temporaneamente una docenza nello stesso liceo frequentato per tre anni dalla sua vittima. Evitando commenti sul contenuto e concentrandoci sullo spoglio, bisogna dare subito due buone notizie. La prima è che in tutti e cinque i pezzi si riscontra una sola significativa deviazione dalla norma, e cioè la virgola tra soggetto e verbo nell’attacco dell’articolo pubblicato senza firma su «Avvenire»: «Tra le tante foto che lo storico barista del liceo scientifico Cavour di Roma, ha affisso all’ingresso del suo locale c’è anche quella della classe di Marta Russo». La seconda è che, pur trattandosi di articoli di cronaca, il punto e virgola esiste e lotta insieme a noi, comparendo appropriatamente nel pezzo di Carlo Picozza («La Repubblica»): «“A me”, aggiunge un altro professore, “Scattone fa tenerezza, è timido, riservato; non sono sorpreso che insegni al Cavour, ne ho viste tante stando al di qua della cattedra”». Per il resto, le scelte stilistiche variano da articolo ad articolo, con l’unica costante della lingua tra virgolette delle citazioni. In tutti i pezzi, infatti, compaiono stralci di dichiarazioni di varie persone intervistate, proprio come aveva notato lo studio di Dardano. In un caso – il pezzo firmato da Flavia Fiorentino per il «Corriere della Sera» – la citazione compare in apertura, giocando sul sicuro impatto emotivo suscitato dalla reazione della madre di Marta Russo: «È un paradosso che faccia l’educatore, come può insegnare dopo quell’atroce delitto? Mi sento perseguitata dal destino, ma è la legge, so che non si può far nulla». ­­­­­113

Questo solo per dare qualche esempio delle scelte e degli usi dei professionisti della scrittura. Ma va anche detto che da qualche tempo a questa parte, grazie all’espansione di social network come Facebook o Twitter o degli SMS e delle e-mail, il numero di persone che usa abitualmente la scrittura è cresciuto vorticosamente rispetto al passato. E se quest’uso «frettoloso e impulsivo della parola» per Michele Serra comporta in generale la «prevalenza dell’emotività sul ragionamento», nel nostro contesto bisogna registrare le conseguenze anche sul piano della punteggiatura, i cui segni acquisiscono nuove funzioni. La necessità di comporre messaggi in tempi molto ristretti – nelle chat il botta e risposta è sempre molto concitato – costringe gli utenti a servirsi di frasi brevi e di sigle spesso di origine inglese (del tipo ASAP As Soon As Possible: ‘il più presto possibile’) oltreché di una punteggiatura ridotta al punto e ai segni espressivi (puntini di sospensione, punti esclamativo e interrogativo). Gli altri segni tuttavia non cadono in disgrazia, e al contrario conoscono nella rete una nuova fortuna: il punto e virgola e la virgola, per esempio, servono a dividere gli indirizzi dei destinatari in un messaggio elettronico inviato a più persone contemporaneamente; la sbarretta [/] è invece un elemento cardine della sintassi telematica visto che si usa nella scrittura degli indirizzi dei siti (per esempio: http://www.laterza.it/). E un segno come il cancelletto [#], in passato esclusivo appannaggio degli informatici, ora è un elemento imprescindibile della sintassi di Twitter per introdurre gli hashtag, cioè le parole chiave di un messaggio, che, nel motore di ricerca del social network, può essere intercettato dagli interessati ­­­­­114

all’argomento grazie a queste etichette. Per esempio, volendosi agganciare proprio su Twitter alla polemica che ha suscitato l’articolo di Michele Serra citato poco fa, si potrebbe scrivere: ha ragione #Micheleserra: «per comunicare basta scrivere “io esisto”. Per scrivere, spesso è necessario dimenticarlo». Più in generale, usati in combinazione, i segni interpuntivi tradizionali possono sviluppare il loro potenziale iconografico, formando quelle faccine, o smile o emoticon, che si diffondono sempre più e non solo tra i giovanissimi. Scrive in proposito Stefano Bartezzaghi (2011): La storia degli emoticon nasce con le e-mail, i forum, gli SMS, i diversi mezzi tramite i quali le persone hanno preso a scriversi l’un l’altra molto più di quanto non usasse dai tempi delle cartoline postali. Si è già detto molte volte che si è instaurato allora uno stile di scrittura che insegue l’oralità e vuole ripeterne il più possibile la flessibilità e la vivacità espressiva. Si è così generalizzato l’uso di disegnare sorte di faccette, sorridenti o immusonite, per sottolineare buffamente il carattere allegro o amaro di un’affermazione.

Si tratta di segni come quello che trascrivo qui tra parentesi quadre [;-)] e che ha lo stesso valore dell’ammiccamento di un occhiolino. E questo è forse il più resistente, insieme al canonico smile [:-)], tra gli emoticon classificati già nel 1998 nel Dizionet di Fabio Rossi. La maggior parte, a distanza di anni, è invece scomparsa dall’uso, secondo quel processo di selezione che da sempre ha caratterizzato la storia della lingua e che evidentemente non risparmia neanche le faccine. Stando a Wikipedia (l’enciclopedia telematica compila­­­­­115

ta dai suoi stessi utenti), il primo autore a usare uno smile in un testo letterario è stato Daniele Luttazzi nel racconto “Daumenlutschen Ausdruckserscheinungen von Entfremdungsgefuehl” contenuto in Adenoidi (1994). Ma molto prima di lui, nel romanzo Uno, nessuno e centomila (1926), Luigi Pirandello in una descrizione ricorre a un simbolo che ricorda molto la faccina [^_^] con la quale si manifesta contentezza: Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri difetti...

E dunque si torna di nuovo alla letteratura (confesso di non poterne fare a meno). Alla sua capacità di proiettarsi nel futuro; oppure di recuperare forme e modi del passato, da rivitalizzare in uno stile nuovo. In una storia fatta di regole e di eccezioni che di secolo in secolo rinnova la tradizione, arrivando fino a noi. Conoscerla dovrebbe far parte della deontologia professionale di chiunque voglia scrivere e aspiri a diventare un autore. Anche magari solo per metterla in discussione, che poi è sempre la cosa più difficile da fare. Non a caso pare che Pablo Picasso – e dipingere, da questo punto di vista, non è diverso da scrivere – una volta abbia detto: «A dodici anni dipingevo come Raffaello, però ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino». Ecco.

5.

Arrivati a questi punti

Ora che questa storia sta per volgere al termine, la prima cosa che mi torna in mente è «il deserto del dopopunto» di cui parlava Manganelli. Quel «vacuo colmo» – «lo scaffale inconsultabile dei cataloghi» – che mi inquieta sempre alla fine di un libro letto (figuriamoci di uno scritto); di un film o di una serie televisiva, come Scrubs. Dovendo separarsi da JD, alla fine dell’VIII stagione (nella IX, intitolata Scrubs: Med School, JD non sarà presente in tutte le puntate), anche Bill Lawrence vive la fatica di lasciare andare la sua creatura, e infatti lo lascia indugiare sulla porta del Sacro Cuore, dove JD è entrato come specializzando e ora sta per uscirne da medico fatto, con un incarico in un altro ospedale. È difficile mettere il punto a una storia così lunga, per questo Lawrence gioca su una delle caratteristiche del suo personaggio – quella di fantasticare a occhi aperti, immaginando evoluzioni comiche degli eventi che gli stanno succedendo (vera e propria cifra stilistica della serie) – e gli concede un ultimo viaggio con la fantasia, ma questa volta serio. Chiunque altro, a parte Alan Ball nel finale di Six feet under, in quella situazione, avrebbe fatto rivivere al personaggio i momenti salienti del suo passato (tanto più ­­­­­117

che la fotografia si sgrana secondo l’effetto dei proiettori casalinghi di un tempo); ma non Lawrence, che invece lascia intuire a JD – e allo spettatore che si dovrà separare da lui – il suo futuro. Ecco che allora, accompagnate dalle note di “The book of love” di Peter Gabriel, davanti agli occhi commossi di JD scorrono immagini del matrimonio con Elliot, l’arrivo del loro bambino, le feste in famiglia con l’amico del cuore Turk; e poi l’ineludibile mentore, disposto, dopo essersi negato centinaia di volte, finalmente a un abbraccio che JD commenta così: «odori di figura paterna». Ora, chi legge questo libro non sarà ancora arrivato, in fatto di punteggiatura, al livello di consapevolezza di JD in quell’episodio (si parla, ovviamente, di un lettore comune, senza specifiche conoscenze linguistiche), perché manca la pratica con cui mettere alla prova tutta la teoria immagazzinata fin qui. Si trova, invece, più o meno dalle parti della IV stagione di Scrubs, nell’ultima settimana da assistente di JD, che per la prima volta deve fare tutto da solo (ma ancora al Sacro Cuore); e infatti Cox lo liquida subito con un: «Pivello, devi arrangiarti. Abituati». Da quel momento in poi, insomma, JD dovrà mettere insieme le nozioni apprese sui libri all’università e l’esperienza maturata accanto a Cox; dovrà rielaborare tutto nel suo personale modo di essere medico (quello che nell’ultima stagione gli farà aggiudicare il nuovo incarico), che magari poi finirà in qualche manuale di medicina: proprio come gli autori, nel tempo, continuano ad alimentare la grammatica con il loro stile. E se questa vi sembra una brutta notizia – se siete spaventati dall’idea, da ora in poi, ­­­­­118

di dover fare da soli – allora non vi ricordate più quanto fastidio vi davano le regole quando ve le imponevano a scuola. Può essere così nella vita? Una metà a reclamare uno spazio libero di azione, e l’altra ad aspettare che qualcuno ci suggerisca di riproporre gesti meccanici, togliendoci tutto il gusto della scelta? Coltivate quel gusto, invece. Consapevolmente. Quello che sapete in fatto di punteggiatura è sufficiente per restare a galla nell’acqua alta, rendendo possibile la comunicazione. Da qui in poi, sta solo a voi stabilire se siete fatti per galleggiare; o se potete osare una bracciata con stile, che sia rana, o delfino. O uno tutto vostro ancora da inventare, con le parole e i punti che ci sono già. Perché in fondo la lingua – ce lo ricorda Chuck Palahniuk – «altro non è che il nostro personale modo di spiegare lo splendore e la meraviglia del mondo. Per decostruirlo. Liquidarlo. [...] la gente non è in grado di reggere la vera bellezza del mondo. Il fatto che non possa essere spiegata o compresa». Questo è il punto.

Riferimenti e consigli bibliografici

Se vi sembra di non averne avuto abbastanza di punti e di virgole, e cercate altre pagine sull’argomento, questo spazio fa al caso vostro, con i riferimenti bibliografici relativi a tutti i testi citati, durante la trattazione, tra virgolette basse o in corpo minore (a seconda della lunghezza del passo ripreso). Troverete indicazioni riguardanti sia gli studi specifici in materia interpuntiva sia le opere letterarie (di cui si è indicata nella citazione, quando significativa, la data della prima uscita italiana, non necessariamente coincidente con quella dell’edizione ripresa in bibliografia) da cui abbiamo tratto gli esempi che hanno illuminato questa ricerca con lampi di bellezza. In tutti i casi, per approfondire la conoscenza della punteggiatura e della sua storia, bisogna partire dai testi che sono stati la nostra bussola durante il viaggio (solo in questo caso ordinati per data): – B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1960. – L. Serianni (con la collaborazione di A. Castelvecchi), Grammatica italiana, Torino, UTET, 19912 (in particolare: pp. 5482). – L. Serianni, P. Trifone (a cura di), Storia della lingua italiana, (SLIE), vol. I (I luoghi della codificazione), Torino, Einaudi, 1993. – A. Baricco, F. Taricco, G. Vasta, D. Voltolini (a cura di), Punteggiatura, voll. I-II, Holden Maps, Milano, Rizzoli, 2001; in ­­­­­121

particolare: F. Serafini, Storia, regole, eccezioni (volume II, pp. 5-225). – B. Mortara Garavelli, Prontuario di punteggiatura, Roma-Bari, Laterza, 2003. – B. Mortara Garavelli (a cura di), Storia della punteggiatura in Europa, Roma-Bari, Laterza, 2008. E poi c’è Scrubs. Per chi volesse recuperarne gli episodi, tutte le stagioni della serie sono disponibili nei cofanetti distribuiti da Walt Disney Studios Home Entertainment. Di certo non vi aiuteranno con la punteggiatura, ma tutte insieme costituiscono uno straordinario romanzo di formazione senza il quale questo libro sarebbe stato tutta un’altra cosa. AGASSI = A. Agassi, Open (traduzione di G. Lupi), Torino, Einaudi, 2011. Almodóvar = P. Almodóvar, Tutto su mia madre (traduzione di P. Collo e P. Tomasinelli), Torino, Einaudi, 1999. AMELIO - PETRAGLIA - RULLI = G. Amelio, S. Petraglia, S. Rulli, Il ladro di bambini, Milano, Feltrinelli, 1992. ANTONELLI = G. Antonelli, Sintassi e stile della narrativa italiana dagli anni Sessanta a oggi, in N. Borsellino e W. Pedullà (a cura di), Storia generale della letteratura italiana, Milano, Federico Motta Editore, 1999, vol. XII, pp. 682-711. ANTONELLI = G. Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione, Bologna, Il Mulino, 2007. ANTONELLI = G. Antonelli, Dall’Ottocento a oggi, in Mortara Garavelli (a cura di), Storia della punteggiatura in Europa, cit., 2008, pp. 178-210. ARAGON = L. Aragon, Traité du style (1928), vedi BENINCASA. AVALLONE = S. Avallone, Punto e virgola. Perché perda chi urla di più, in «Corriere della Sera», 21 settembre 2010. «AVVENIRE» = articolo non firmato intitolato Scattone insegna ­­­­­122

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Indice dei nomi

Agassi, Andre, 71. Allen, Woody, 50, 62. Almodóvar, Pedro, 51-52. Amelio, Gianni, 43-44. Antonelli, Giuseppe, 53, 62, 105106, 110-111. Apollinaire, Guillaume, 102. Aragon, Louis, 11. Ariosto, Ludovico, 91-92. Avallone, Silvia, 58. Babel’, Isaak, x, xiii-xiv. Bajani, Andrea, 48. Ball, Alan, 117. Baricco, Alessandro, 105. Bartezzaghi, Stefano, 115. Bassani, Giorgio, 107. Bembo, Pietro, 90-91, 97. Bender, Aimee, 26. Berlusconi, Silvio, 111. Berto, Giuseppe, 106. Blumenberg, Hans, x, 4. Boccaccio, Giovanni, 97. Boniperti, Giampiero, 36. Brignoli, Fernando Maria, 97-98. Bufalino, Gesualdo, 105. Bukowski, Charles, 56, 67. Buzzati, Dino, 7-8. Calvino, Italo, 41, 90. Cananzi, Paolo, xv. Capote, Truman, 16, 29.

Carducci, Giosue, 75, 96. Carver, Raymond, 10. Castellani, Arrigo, 9, 84. Cˇechov, Anton, xxi, 6, 13, 29, 61, 107. Cenciarelli, Gaja, 48. Ciabatti, Teresa, 84. Coletti, Vittorio, 104. Collo, Paolo, 51. Collodi, Carlo, xii. Collyer, fratelli (Homer Lusk e Langley), xx. Connell, Evan, 10. Connery, Sean, 58. Conte, Rosaria, 8, 10. Corti, Maria, 36. Croce, Benedetto, 84. D’Annunzio, Gabriele, 75, 98. Dante Alighieri, 90. Dardano, Maurizio, 54, 112-113. D’Avanzo, Giuseppe, 111. De André, Fabrizio, 77. De Benedetti, Andrea, xvi, xviii, 48, 60, 111. De Benedetti, Carlo, 111. Della Valle, Valeria, xvii, 26, 66. Del Piero, Alessandro, 36. De Mauro, Tullio, 80. Dente (pseudonimo di Giuseppe Peveri), 7. De Roma, Alessandro, 109.

­­­­­135

Desti, Rita, 74. Destutt de Tracy, Antoine-LouisClaude, 7. Devoto, Giacomo, 61. Diamanti, Ilvo, 53, 55. Doctorow, Edgar L., x, xx. Dossi, Carlo, 65, 97. Dostoevskij, Fëdor Michailovicˇ, 58. D’Ovidio, Francesco, 94, 96. Egan, Jennifer, 65. Eggers, Dave, 80. Énard, Mathias, 55. Englaro, Eluana, 44. Eugenides, Jeffrey, 82. Favriaud, Michel, 84. Fiorentino, Flavia, 113. Fitzgerald, Francis Scott, 4, 17, 28, 77. Fornaciari, Raffaello, 7. Fornara, Simone, 28. Foscolo, Ugo, 92-93. Frescaroli, Antonio, 15, 39, 78, 80. Fruttero, Carlo, 19. Fubini, Mario, 94. Gabriel, Peter, 118. Gadda, Carlo Emilio, 37, 46. García Márquez, Gabriel, 55. Giovanardi, Claudio, 111. Goethe, Johann Wolfgang von, 92. Guarnaccia, Fabio, 41. Guicciardini, Francesco, 91-92. Guyotat, Pierre, 55. Hemingway, Ernest, 88. Igort (pseudonimo di Igor Tuveri), 14. Johnson, Steven, 5.

Joyce, James, 55. Koch, Ludovica, 17. Krishnan, Ramesh, 71. Lagioia, Nicola, 26, 64. Lambert, Christopher, 58. Landolfi, Tommaso, 41. Lawrence, Bill, xvii, xix, 117-118. Lee, Harper, 34. Leopardi, Giacomo, 16-17, 73, 93, 97. Leotti, Antonio, 42. Levi, Primo, 106. Lipsyte, Sam, 15. Littizzetto, Luciana, 48. Lombardelli, Orazio, 16, 92. Lorenzini, Luca, 76. Lupi, Giuliana, 70. Luttazzi, Daniele, 116. Luzi, Mario, 84. Malagòli, Giuseppe, 39. Manganelli, Giorgio, 52-53, 117. Manni, Domenico Maria, 92. Manuzio, Aldo, 90. Manzoni, Alessandro, 84, 94, 9697. Manzotti, Emilio, 36. Maraini, Dacia, 105. Maraschio, Nicoletta, 3, 10, 110. Mari, Michele, 41, 66. Marinetti, Filippo Tommaso, 16, 98-100. Mariotti, Giovanni, 55. Mazzarotto, Elisabetta, 17. McEwan, Ian, 40. Meacci, Giordano, 23. Meazza, Giuseppe, 36. Melchiori, Giorgio, 87. Mengaldo, Pier Vincenzo, 41, 49, 102, 106. Meo, Antonio, 87.

­­­­­136

Migliorini, Bruno, 16, 91. Miller, Arthur, 82. Mioni, Anna, 15. Moehringer, J.R. (John Joseph), 71. Mondadori, Arnoldo, 111. Montale, Eugenio, 7. Moody, Rick, 82. Morante, Elsa, 106, 107. Moravia, Alberto, 11, 13. Moretti, Nanni, 4. Mortara Garavelli, Bice, ix, xvixvii, xix, 27, 36, 39, 54. Nencioni, Giovanni, 60. Nodier, Charles, 87-88. Nolte, Nick, 82. Nordahl, Gunnar, 36. Nori, Paolo, 78. Nove, Aldo, 78, 105. Ojetti, Ugo, 63. Ong, Walter J., 9. Palahniuk, Chuck, 75, 119. Panzini, Alfredo, 39. Parisi, Domenico, 8, 10. Pasolini, Pier Paolo, 81, 90. Passerini Tosi, Carlo, 80. Pastore, Giancarlo, 56. Patota, Giuseppe, xvii, 26, 66. Pavese, Cesare, xi, 3, 37, 107. Persiani, Bianca, 93. Petraglia, Sandro, 43. Picasso, Pablo, 116. Piccolo, Francesco, 78. Pickford, Susan, 87. Picozza, Carlo, 113. Pincio, Tommaso (pseudonimo di Marco Colapietro), 107-108. Pirandello, Luigi, 116. Plauto, 68. Poe, Edgar Allan, 17-18, 73. Pontiggia, Giuseppe, 68.

Porta, Antonio, 38, 40, 70. Radiohead, 77. Raffaelli, Lucia, 111. Raffaello Sanzio, 116. Raimo, Christian, 59. Rajna, Pio, 7-8. Ravazzoli, Flavia, 36. Reisz, Karel, 82. Ricuperati, Gianluigi, 37, 70. Rodari, Gianni, 43. Romano, Lalla, 107. Rossi, Fabio, 115. Rulli, Stefano, 43. Russo, Marta, 113. Sabatini, Francesco, 55. Sanguineti, Edoardo, 11, 76. Santangelo, Evelina, 107. Saramago, José, 74. Scalfari, Eugenio, 110. Scarpa, Tiziano, x, 69. Scattone, Giovanni, 112-113. Scherma, Vincenzo, 8. Schiaffini, Alfredo, 93. Schillaci, Totò, 71-72. Sedaris, David, x, xviii. Serianni, Luca, xvi, xix, 8, 12-13, 24, 26, 34, 48, 54, 65, 94, 98, 111. Serra, Michele, 44, 114-115. Solarino, Rosaria, 10. Sortino, Paolo, 35. Stella, Cristina, 82. Sterne, Laurence, 87. Strazzeri, Giuseppe, 80. Svolacchia, Marco, 22. Tamaro, Susanna, 109-110. Tasso, Torquato, 93. Tomasinelli, Paola, 51. Tonani, Elisa, 85. Totti, Francesco, 36.

­­­­­137

Trifone, Pietro, 24. Ungaretti, Giuseppe, 102. Vasta, Giorgio, 41. Ventroni, Sara, 86. Veronesi, Sandro, 40, 71, 103104.

Viciani, Simona, 56. Volponi, Paolo, 49, 73. Voltolini, Dario, 65. Wallace, David Foster, 7, 14. Winger, Debra, 82. Zavattini, Cesare, 79, 101.