Linee di confine. Filosofia e postcolonialismo 9788833970745

I cosiddetti "studi postcoloniali", avviati negli anni ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti e diventati

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Linee di confine. Filosofia e postcolonialismo
 9788833970745

Table of contents :
Indice......Page 204
Frontespizio......Page 5
Presentazione......Page 2
Prefazione......Page 7
Introduzione......Page 19
Dedica......Page 26
Parte prima - Tempo, storia, scrittura......Page 27
1.1. Storia-mondo: la fine del «fuori»......Page 28
1.2. Temporalizzazione e anacronia......Page 36
1.3. La frontiera ambigua: eccezione e liberazione......Page 43
2.1. Controstorie......Page 54
2.2. Archivi del silenzio......Page 59
2.3. Narrative del possibile......Page 65
3.1. Il diritto del passato: rovine e altri resti......Page 71
3.2. Sublime storico e narrazione......Page 77
Parte seconda - Mappe, soggetti, traduzione......Page 84
1.1. Macchine di scrittura......Page 85
1.2. Capitale globale e «differenza storica»......Page 95
2.1. Identità culturale e ambivalenza......Page 104
2.2. Linguaggio e minorità......Page 109
2.3. Logica, retorica, silenzio......Page 115
3.1. Geografia del dominio, cartografie della subalternità......Page 125
3.2. La parola politica......Page 133
3.3. Differenza e posizioni: le alleanze situate......Page 140
Bibliografia......Page 152
Indice dei nomi......Page 185

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Presentazione Negli ultimi vent’anni del Novecento una revisione radicale e destabilizzante ha coinvolto i presupposti etnocentrici del pensiero antropologico, filosofico e politico dell’Occidente. Stava cambiando la geopolitica del pianeta e cominciava a vacillare la proiezione sulle altre culture delle nostre categorie di soggettività, storia, sovranità, cittadinanza, universalità, emancipazione. Il nuovo assetto ha sollecitato il fiorire di studi cosiddetti «postcoloniali», accomunati dalla pratica del contagio. Da allora la contaminazione fra concezioni a prima vista inconciliabili della vita associata appare più proficua dell’arroccamento difensivo, mentre il migrare di concetti e principi segue la diaspora dei corpi in carne e ossa: perde il suo connotato privativo per trasformarsi in uno stato d’elezione. Essere sempre «fuori posto» aiuta infatti a guardare il mondo e se stessi con occhi diversi. Di questo «contrabbando incontrollato di idee al di là delle linee» – secondo il motto fulminante di Edward Said – il saggio di Emanuela Fornari costituisce la prima, completa ricognizione in chiave filosofica. Non c’è linea di frattura o spostamento di confine disciplinare che sfugga alla sua indagine ricostruttiva. Nella consapevolezza che non tutto è trasferibile da una cultura a un’altra, e che va salvaguardato quel coefficiente di intraducibilità di fronte al quale è possibile solo un silenzio a più voci. Emanuela Fornari è ricercatrice presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Tre, dove insegna Ermeneutica filosofica e Filosofia sociale. Ha pubblicato, oltre a diversi saggi in volumi collettanei e riviste italiane e straniere, Modernità fuori luogo. Democrazia globale e «valori asiatici» in Jürgen Habermas e Amartya Sen (2005),

di cui è apparsa l’edizione inglese nel 2007.

Nuova Cultura-Introduzioni 254

© 2011 Bollati Boringhieri editore ISBN 978-88-339-7074-5 Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol Schema grafico della copertina di Pierluigi Cerri www.bollatiboringhieri.it Prima edizione digitale 2011 Realizzato da Jouve Quest´opera è protetta dalla Legge sul diritto d´autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Prefazione di Étienne Balibar

Il libro di Emanuela Fornari è magnifico per chiarezza, precisione, profondità. E il fatto che l’autrice abbia voluto citare, nel corso della sua argomentazione, saggi o lavori in cui io stesso avevo accostato alcune delle questioni di cui si occupa, non mi impedirà in alcun modo di tesserne l’elogio: poiché, come per tutte le altre sue fonti, l’uso che ne fa è in tutto e per tutto originale. È per me un onore presentare il suo libro al pubblico italiano (così come, spero, ad altri lettori ancora). E mi offre l’occasione per misurare il cammino compiuto da una nuova generazione di filosofi di cui l’autrice illustra brillantemente le qualità di riflessione, informazione e provocazione. È un loro merito, se tutti noi possiamo già adesso, e potremo d’ora in avanti, continuare a lavorare senza ripeterci troppo. Nel titolo dell’opera di Emanuela Fornari, i due lemmi che ne delimitano tematicamente il campo – «filosofia», «postcolonialismo» – detengono un eguale rilievo: il significato della congiunzione che li lega deve essere, di conseguenza, accuratamente soppesato. Non si tratta qui di un semplice lavoro di storia delle idee o di documentazione, come i diversi e utilissimi contributi già esistenti (essenzialmente in lingua inglese) che troviamo debitamente «repertoriati» e consultati nella presente opera, ma piuttosto di una problematizzazione concettuale che si assume il rischio di generalizzare e valutare le formulazioni degli autori «postcoloniali», in modo da comprendere ciò che essi pensano, come lo pensano, e come obbligano noi stessi a

pensare dopo di loro. Tuttavia questa sintesi, attenta alle sfumature, alle evoluzioni e alle opposizioni, in breve alla vita delle ricerche di cui rende conto, non procede da un punto di vista illusoriamente dominante (ciò che, va subito detto, sarebbe particolarmente aberrante trattandosi di una corrente di pensiero che ha sottoposto a una critica radicale tutti i presupposti della storia intellettuale elaborati e proiettati dall’Occidente sull’insieme delle culture del mondo). Al contrario, essa si distingue per una vera e propria esposizione alla differenza, e per un intenso sforzo volto a penetrare le motivazioni, la logica, le implicazioni di nuovi discorsi che hanno rivoltato gli strumenti della razionalità filosofica contro il loro uso tradizionale. Questo riconoscimento dell’alterità, in quel che esso comporta di sorprendente e di destabilizzante, non si accompagna, pertanto, ad alcun servilismo, ad alcuna abdicazione allo spirito critico. L’autrice procede passo dopo passo, domandando le loro ragioni agli autori postcoloniali, cercando senza posa ciò che fa la loro forza collettiva e all’occasione li divide, portandosi ai limiti di ciò che essi avanzano e rivelando con ciò stesso il coefficiente di incertezza che intacca e permea di sé il loro pensiero. Il libro di Emanuela Fornari illustra così una concezione profondamente impegnata, non soltanto dialogica ma dialettica, della filosofia. Ritengo con lei che si tratti della sola via feconda per la nostra disciplina nelle nuove condizioni che la «mondializzazione» le impone: condizioni che essa deve saper padroneggiare per avere ancora oggi un senso e un’utilità. Questo libro permetterà dunque a numerosi lettori di apprendere qual è la posta in gioco teorica rappresentata dalla nascita e fioritura del postcolonialismo, ma contribuirà anche – così almeno io spero – a far sì che questo «paradigma» si universalizzi e si approfondisca. Il pensiero postcoloniale ha ormai prodotto effetti sufficientemente rivoluzionari sulle nostre concezioni della storicità, della «pratica teorica», della soggettività, dell’universalità, della capacità politica collettiva, per poter

affrontare l’effetto di ritorno dei suoi stessi enunciati. Lavori accurati, rispettosi, incisivi, come quello di Emanuela Fornari (di cui, a dire il vero, non conosco al momento equivalenti in alcun’altra lingua), ne faranno emergere progressivamente le poste in gioco. Risiede qui, del resto, una delle funzioni insostituibili della filosofia. La diagnosi del presente che ne sottende le elaborazioni concettuali deve sempre comportare una dimensione autocritica. È per questa ragione che a me pare così importante osservare come in questo libro il rigore di un impeccabile metodo storico ed esegetico proceda di pari passo con l’audacia delle ricostruzioni e l’assoluta libertà delle interpretazioni e delle comparazioni. Nei limiti di questa presentazione, che non vuol essere in fondo nient’altro che il rendiconto delle impressioni di un primo lettore, non intendo evidentemente riassumere il contenuto del libro che ci si accinge a leggere. Una simile mossa non potrebbe condurre che a semplificarne e a snaturarne le analisi. Vorrei tuttavia evocare tre questioni che mi si sono imposte leggendolo, e che forse, giunti alla fine, i lettori dell’opera vorranno tentare di risolvere a loro modo, prolungando così il movimento che essa avrà potentemente iniziato. La prima riguarda la nuova pragmatica del «soggetto» implicata dall’elaborazione della categoria di subalternità da parte dell’intero lavoro critico scaturito dalle formulazioni del gruppo dei Subaltern Studies, e più precisamente quello che si potrebbe chiamare il «doppio vincolo» dell’emancipazione di cui questa categoria nomina l’esigenza a un tempo etica e politica. La seconda questione concerne la modalità dei conflitti che modellano un «universalismo» senza altra fondazione che le differenze, di cui «l’intraducibile» rappresenta al contempo la fonte di energia e il limite invalicabile. La terza, infine, verte sulla geografia politica e istituzionale nel cui ambito si inscrive un’attività intellettuale che, in maniera spettacolare, ha finito per collocare il riconoscimento delle frontiere, dei territori, delle localizzazioni, al cuore della sua ricostruzione

della storicità; da cui la delicata questione di sapere in che misura quella che essa definisce come una transizione potrebbe essere, sotto certi aspetti, nient’altro che transitoria. Qualche parola di spiegazione, dunque, su ciascuno di questi punti. Cominciamo, tagliando corto il più possibile, dalla questione del soggetto. Due sono in particolare gli aspetti sorprendenti che la ricostruzione meticolosa dei dibattiti postcoloniali e il loro confronto con la tradizione ermeneutica occidentale mettono qui bene in rilievo – dalla delimitazione paradossale degli «archivi del silenzio» alla caratterizzazione dell’identità-in-costruzione in un mondo decolonizzato segnato da un’essenziale ambivalenza. La prima è che l’idea di subalternità aggiunge un capitolo che è certo irriducibilmente nuovo, ma che a ben guardare non era impensabile, alla costruzione moderna della soggettività come unità, che l’etimologia indirettamente segnala,1 di soggezione ed emancipazione. La seconda è che solo il contesto postcoloniale era suscettibile, per delle ragioni necessarie (al tempo stesso storiche, antropologiche e politiche), di far emergere in primo piano la pluralità, a volte violentemente contraddittoria, degli «interessi emancipativi» dei gruppi assoggettati al dominio e collocati in posizione «subalterna»; e che – allo stesso tempo – questa situazione e il «doppio vincolo» politico o strategico che essa comporta hanno un significato molto più generale, che segna ormai tangibilmente ogni pensiero della liberazione. La questione della soggettività è al cuore della filosofia occidentale moderna: dove essa ha permesso al tempo stesso di conferire alla libertà un significato ontologico (la libertà, o lo sforzo di liberazione, è l’essere medesimo del soggetto individuale o collettivo) e di farne la chiave di un’interpretazione del «senso della storia» come progresso e come ideale di emancipazione (di qui l’importanza che rivestono i «grandi racconti» della liberazione messi in forma da Kant, Hegel e Marx). Sotto questo profilo, il fatto

che le lotte di «liberazione nazionale» delle colonie o semicolonie europee abbiano potentemente contribuito a far emergere il significato ideologico (inteso come maschera e strumento di dominazione) dei discorsi umanisti che allestiscono e mettono in opera questo apparato concettuale, non impedisce – tutt’al contrario – che quelle lotte riprendano in conto e portino più lontano di prima il movimento insurrezionale che conduce il «soggetto» a sollevarsi dal suo assoggettamento a un’autorità esteriore, e a reclamare il diritto di organizzare la vita di una comunità di cittadini secondo regole immanenti di autodeterminazione. Cionondimeno la nozione di «subalternità» – trattando la quale Emanuela Fornari mostra bene come essa, mutuata nei fondatori dei Subaltern Studies dal modo in cui Gramsci aveva tentato di analizzare i fenomeni di «colonialismo interno» del mondo borghese europeo, sia divenuta oggetto di un rimaneggiamento critico radicale (in particolare grazie all’intervento di Dipesh Chakrabarty e di Gayatri Spivak) – evoca immediatamente una complessità e un’ambivalenza di grado superiore. Da una parte, in effetti, ciò che il «subalterno» deve rimettere in que-stione non è soltanto una dominazione materiale, quanto piuttosto il dominio delle «idee» e delle «forme» di questa dominazione, che possono giungere a «informare» la stessa ribellione che essa suscita (ha radice qui la scottante questione dell’egemonia della forma-nazione e del «nazionalismo» in seno alle lotte anticoloniali, che tende precisamente a creare una «postcolonia», nel senso di un doppio mimetico della colonia che sopravvive alla sua abolizione ufficiale ed è amministrato dai «liberatori» medesimi). D’altra parte, il subalterno in senso proprio non è tanto il «soggetto» semplice, quanto il soggetto di secondo grado o il soggetto del soggetto (che si rivela essere più spesso una «soggetta», un soggetto al femminile), dominato /a e ridotto/a al silenzio al tempo stesso dall’ordine coloniale e dalle strutture di potere «tradizionali» che la colonizzazione esacerba o strumentalizza (con la stessa

pretesa di abolirle o con l’invocazione della loro «barbarie» come giustificazione per quel che essa presenta come sua opera di civilizzazione e di modernizzazione). Un tale soggetto del soggetto si trova preso nel double bind di dover cercare la propria liberazione al tempo stesso con e contro coloro che, in seno alla sua propria «comunità», gli assegnano un’identità subalterna. Quel che connota la nozione del subalterno è dunque una profonda divisione degli interessi emancipativi nel cuore dello stesso processo di soggettivazione, e forse anche una doppia divisione: divisione tra la restituzione di una memoria obliterata la cui sola espressione autentica possibile è, sotto certi aspetti, il silenzio, o l’inscrizione nel racconto di una zona di silenzio, a simboleggiare un’esperienza alla quale come tale è stato interdetto l’accesso all’espressione, 2 e il sorgere di una parola politica che si appropria della logica e della retorica dell’universale, affermando con ciò stesso la propria modernità. Ma anche divisione tra le voci multiple, discordanti, delle emancipazioni «maggioritarie» e «minoritarie» che fanno fronte strategicamente alla comune oppressione ma non conseguono mai (salvo che nel mito «nazionale») l’unanimità di un unico «soggetto rivoluzionario», o che, detto altrimenti, non possono né confondersi in una stessa interiorità né lasciarsi dividere dall’ester-no. Ancora una volta, è storicamente necessario che questa complessità interna, contrassegno di una finitudine radicale della liberazione che esclude ogni messianismo sostanziale, si sia dispiegata sulla scorta dell’esperienza postcoloniale e delle sue dolorose contraddizioni vissute. Ma è probabile che essa comporti una lezione irreversibile per ogni problematica del soggetto e del suo rapporto con la storia nel mondo attuale, a condizione di saper identificare in modo differenziato le modalità della sua «postcolonialità» generalizzata. 3 L’enigma di un «silenzio a più voci» funziona qui, mi sembra, come l’allegoria stessa di ciò che la nostra filosofia va cercando al di là del suo lessico

secolare. Queste considerazioni mi conducono direttamente a una seconda questione. Nelle prime pagine del suo libro, Emanuela Fornari mi ha voluto attribuire il progetto di un’«aporetica dell’universale» che prenderebbe atto della sospensione d’evidenza che risulta, per le grandi categorie della cittadinanza, dei diritti, dell’individualità (e a fortiori del progresso o della civilizzazione), dalla messa in rilievo del loro carattere «geopoliticamente differenziato» (Spivak). La questione che intendo porre qui è dunque non tanto una risposta, quanto un tentativo di esplicitare ciò che la sua analisi mi ha insegnato circa le implicazioni di un simile progetto. L’aspetto che Emanuela Fornari è riuscita a stabilire in maniera convincente, non è tanto, a mio avviso, che il movimento degli studi e del pensiero postcoloniale sarebbe alla ricerca di una concezione dell’universale ancora a venire, e dunque relativamente indeterminata, ma al contrario che questa concezione, portato al contempo di innumerevoli esperienze sociali, pratiche di comunicazione quotidiane e imprese di scrittura potentemente creatrici, è già presente, messa in opera e attiva in seno al nostro mondo. È per questa ragione che la problematica degli studi postcoloniali, per quanto possa imbattersi in tenaci resistenze ideologiche e istituzionali, non rappresenta tanto l’annuncio di una cultura ipotetica quanto la descrizione e la riflessione di una cultura onnipresente, che è la nostra. Il mondo in cui vivia-mo non è ormai né quello in cui seguita a dominare il vecchio universalismo «borghese», «eurocentrico» e «umanista», né quello in cui esso cede il posto ai particolarismi, ai comunitarismi ripiegati su se stessi o ai nichilismi distruttori di ogni rappresentazione comune o «generica» dell’umano, quale che sia la realtà di queste tendenze, ma è il mondo di un nuovo universalismo. La parola-maestra (maître-mot) di questo universalismo in atto, benché ancora in attesa del suo riconoscimento (e della sua presa in conto da parte delle istituzioni di trasmissione del sapere e della cultura), è beninteso «differenza», ma

soprattutto – se si segue la dimostrazione proposta da Emanuela Fornari – traduzione generalizzata, senza punto di partenza assoluto né punto d’arrivo definitivo (e, di conseguenza, senza «codice» egemonico). Una traduzione, come spiega Dipesh Chakrabarty, sempre in transizione, produttrice di significati e di linguaggi nuovi piuttosto che assoggettata all’impossibile compito di colmare lo scarto tra i linguaggi dati.4 Una tale traduzione-transizione, infatti, interiorizza le frontiere tra identità culturali, dominanti e dominate, attraverso il lavoro del linguaggio, facendo simultaneamente di quest’ultimo il motore stesso del processo di superamento dell’alternativa astratta tra identità e differenze. Muovendo dalla stessa base, io mi pongo tuttavia la questione di sapere come incorporare – dialetticamente, se si vuole – in una tale concezione dell’universale (alla quale, senza la critica postcoloniale dei nostri «assoluti» narcisistici, non avremmo mai avuto accesso) il riconoscimento delle contraddizioni e dei conflitti che essa anche comporta, e che in un certo senso coincidono con la sua stessa vita. Penso beninteso alle concezioni, fra loro violentemente antitetiche, del «multiculturalismo», che si presenta oggi come l’erede e il superamento delle vecchie utopie cosmopolitiche (una fra queste, a giusto titolo, è privilegiata in questo libro, poiché pone, benché non sia certo la sola, i problemi categoriali più difficili e più interessanti: quella che si fonda sui modelli dell’ibridità, del métissage, della créolité, dell’eteroglossia). Ma penso soprattutto alla questione di sapere come far rientrare in una problematica delle «traduzioni» e delle «transizioni» le differenze comunitarie e le politiche identitarie surdeterminate dai conflitti religiosi (o che si enunciano come tali). Potrebbe darsi che proprio là sia rintracciabile, se non una frontiera assoluta della traducibilità, come vogliono le ideologie del clash of civilization (dello «scontro di civiltà»), almeno un’altra modalità dell’intraducibile, alla quale il modello di un universalismo delle differenze – per quanto centrato (o «decentrato», come dice Nḡugī wa

Thiong’o, che parla allegoricamente di «spostare il centro del mondo») sulla conversione dell’intraducibile in segno di riconoscimento (anche conflittuale) – si adatta ancora solo imperfettamente. A dire il vero, per quanto il «pensiero postcoloniale», come è qui definito e ricostruito, si presenti come un culturalismo critico puntellato su una teoria del dominio e del potere materiale e su una ermeneutica della scrittura, del racconto, del silenzio, che esclude qualsiasi nozione di «cultura» autoreferenziale, esso continua nondimeno ad apparire come un culturalismo. È per questo, d’altronde, che la sua genealogia, a partire dal processo di mutazione dei Cultural Studies (operato in particolare da Stuart Hall e dai suoi continuatori, come ad esempio Paul Gilroy) riveste una funzione esplicativa tanto centrale. Non dico che questo sia un errore o anche solo un limite dell’analisi. Mi pongo, tuttavia, la questione di sapere quali conseguenze ciò comporti per l’avvenire del paradigma postcoloniale nella nuova transizione che si sta sviluppando; ovvero, per dirla nel modo più provocatorio possibile, la questione di sapere ciò che, in una problematica della transizione come movimento di universalizzazione autocritica ed eterogenea, potrebbe essere soltanto transitorio. Piuttosto che ritornare agli schemi classici della successione di fasi «critiche» e fasi «organiche» (o egemoniche) nella storia, perfettamente solidali con il grande racconto eurocentrico dell’evoluzione lineare delle civiltà (o dei «modi di produzione»), penso potrebbe essere fecondo discutere la questione a partire da quelle stesse nozioni di geografia intellettuale e politica la cui inscrizione al cuore delle differenze culturali ha costituito, come mostra questo libro, la leva strategica del postcolonialismo. Tale percorso potrebbe svilupparsi su diversi livelli. Uno di essi consisterebbe nel caratterizzare i siti del pensiero postcoloniale, al tempo stesso in termini di istituzioni del lavoro intellettuale (in particolare universitario) e in chiave di «territorialità» nazionale. Questi siti sono sempre

essenzialmente sdoppiati, o divisi; e ciò è alla radice della mobilità e della creatività che essi autorizzano. Si osserverà, forse, che i protagonisti del discorso di cui Emanuela Fornari ricostruisce le domande e le proposizioni appartengono essenzialmente a due «mondi»: quello degli storici e dei teorici della letteratura americano-indiani (e più precisamente americano-bengalesi) e quello degli antropologi e degli scrittori provenienti dalla «diaspora» antillana (o caraibica) anglo-francese (il che non significa che ella abbia ignorato altri apporti, provenienti in particolare dall’Africa e dall’America Latina). È in questi due universi, largamente aperti agli idiomi e alle problematiche della «teoria critica» del XX secolo europeo, che è stata inventata una decostruzione della filosofia trascendentale e della filosofia della storia dell’Europa moderna che ne rimette in questione tutti i presupposti senza nulla ignorare della loro logica propria (dimostrandosi così capace di elevare il confronto-incontro tra identità e alterità al piano di un antagonismo dialettico). Ma questi due universi storici, quasi-biografici, per quanto rappresentativi essi siano, non comprendono la totalità delle nuove geografie del lavoro intellettuale di oggi, e saranno forse domani marginalizzati dalla crisi delle istituzioni universitarie di cui fanno eminentemente parte. Una questione analoga si pone a un secondo livello, che investe direttamente la geopolitica e le tendenze economiche «pesanti» della mondializzazione. Si vedrà in questo libro fino a che punto il dibattito postcoloniale sia «informato» da una riflessione sull’imperialismo e sulle sue nuove modalità che emergono, per così dire, al di là degli «imperi». La questione che qui torna periodicamente è sapere fino a che punto capitalismo e imperialismo (o «Impero») siano categorie essenzialmente equivalenti, o anche semplicemente convergenti: dal momento che, sotto il profilo storico, i processi di dominazione corrispondenti non sono evidentemente dissociabili. Tale questione era già presente nelle discussioni e nelle critiche suscitate dal presunto

«testualismo» di un’opera come Orientalismo di Edward Said (critiche alle quali Emanuela Fornari si riferisce in apertura della sua seconda parte), e la si ritrova nei tesi dibattiti cui oggi dà luogo il problema dell’interfaccia tra la continuità e la discontinuità degli «effetti di soggezione» (o di «subalternità») indotti dalla colonizzazione «classica» e dalle migrazioni internazionali che precipitano poveri e rifugiati verso le antiche metropoli che, per quanto irte di barriere securitarie, sono avide di uomini «usa-e-getta» da impiegare nei bassifondi di un welfare state in preda alla decadenza. Ma essa sta cambiando di oggetto e di referente, nella misura in cui le strutture della dominazione capitalistica si delocalizzano e rilocalizzano, passando da Occidente a Oriente, o anche dal Nord al Sud, o se si vuole nella misura in cui l’Occidente e il Nord strutturali cessano di coincidere con un Occidente e un Nord culturali, per innestarsi su nuovi centri di accumulazione «postcoloniali». Non soltanto questi trasferimenti di potenza non aboliscono affatto gli schemi rappresentativi dell’universalismo «egemonico», ma tendono a perpetuarli e a ridurli al loro nocciolo di utilitarismo puro (quello che viene talvolta chiamato l’impero del «neoliberalismo»). La questione che si pone allora con particolare acutezza è sapere quali risorse il pensiero postcoloniale potrà trovare, a partire dai suoi siti attuali o emigrando verso altri siti (in Estremo Oriente?), per analizzare le nuove configurazioni del potere di dominazione e di rappresentazione: senza per ciò stesso rinnegare il rapporto critico con gli Imperi e i loro «soggetti», di cui esso non ha cessato di pensare la tensione costitutiva, e che gli conferiscono la sua modalità di scrittura (o di riscrittura) della storia, la sua «poetica» propria. La messa a punto sui rapporti filosofia-postcolonialismo prospettata in Linee di confine, a questo riguardo, non si tiene affatto «sul far della notte», ma sulla soglia di una dura giornata di prove. Spero che Emanuela Fornari e i suoi lettori mi perdoneranno per avere innestato sulla presentazione del suo libro domande senza risposta che io stesso mi pongo.

Ma, a dire il vero, cosa è leggere un libro, nel senso forte del termine, se non cercare di esplicitare le questioni che esso solleva? Non ho dubbio alcuno che nuovi problemi e numerose altre domande sorgeranno in tutti coloro che si daranno il piacere e il profitto di leggere quest’opera.

Introduzione La costellazione della critica postcoloniale – di cui in questo libro si tenterà di tracciare alcune linee guida, muovendo da un costante confronto con alcuni dei temi canonici della filosofia europea – fa segno a un complesso e variegato campo di studi che, affermatosi nel corso degli anni ottanta su suolo statunitense sull’onda della pubblicazione del celebre Orientalism (1978) di Edward W. Said, ha indagato e rimesso in questione alcuni (sottaciuti) presupposti eurocentrici alla base della codificazione (occidentale e moderna) di concetti cardine della teoria e della pratica filosofica, storica, letteraria e politica. Nel corso degli anni tale campo di studi ha significativamente testimoniato l’ampliarsi del proprio spettro di indagine (dai testi letterari all’analisi della costituzione delle culture quali più vasti sistemi simbolici, dai concetti portanti della teoria sociale all’interesse per la pratica storiografica e i suoi moduli metodologici) nonché l’accrescersi di figure che hanno assunto le vesti di veri e propri «fondatori»: oltre allo stesso Said, hanno infatti acquisito crescente importanza intellettuali di origine indiana come Homi Bhabha e Gayatri Chakravorty Spivak, Dipesh Chakrabarty e Ranajit Guha – autori che hanno introdotto nel dibattito teorico internazionale temi e concetti indubitabilmente cruciali quali l’idea di un sostanziale «ibridismo» delle culture, o l’appello a tentare una radicale (e liberatoria) «provincializzazione dell’Europa». Gradualmente esauritosi nella sua spinta politicamente sovversiva all’interno del panorama culturale degli Stati Uniti, il «paradigma postcoloniale» ha recentemente incontrato in Europa un rinnovato e rinvigorito interesse, andandosi a incrociare in maniera criticamente feconda con l’esperienza (a tratti drammatica) delle migrazioni transnazionali, della riconfigurazione del tessuto urbano a partire dai movimenti che ne sconvolgono

(e travolgono) le periferie e del più generale processo di ricomposizione dell’identità europea a partire da una discussione sui suoi limiti e sui suoi confini (geografici, geopolitici, geoculturali). In questo senso, è parso lecito ad alcuni parlare di una vera e propria «frattura coloniale» che attraverserebbe oggi le società europee, a segnalare il ritorno di un rimosso che – presentandosi come sintomo di un passato non ancora pienamente assunto e riconosciuto da parte europea – richiederebbe un’ottica genealogica, tesa a indagare la «lunga durata» al di fuori delle singole storie nazionali (cfr. Blanchard, Bancel e Lemaire 2005). È sotto questo profilo che una ricostruzione del paradigma postcoloniale – e in particolare dei suoi momenti teoricamente più significativi, racchiusi ad esempio nell’esperienza dei cosiddetti Subaltern Studies indiani – appare proficua non solo al fine di denunciare gli «effetti di accecamento» indotti da una determinata concezione (occidentale ed eurocentrica) della ragione, dell’umanismo e dell’universalismo, ma anche – sul versante lato sensu costruttivo – per elaborare un pensiero della «contaminazione» che consenta di visualizzare secondo nuovi parametri concetti cardine quali quello di identità o di soggettività. E ciò rimanendo costantemente fedeli alle potenzialità critico-ermeneutiche racchiuse nello sguardo di soggetti che sono (e si intendono) come sempre «fuori posto» o, secondo quanto recita il titolo della suggestiva autobiografia di Edward Said (1999), «sempre nel posto sbagliato». Secondo queste premesse, le pagine che seguono mirano a configurarsi come una sorta di mappa o, ancora meglio, come una mappatura (dotata di elementi di dinamismo e forme di ricorsività teorico-concettuale) organizzata attorno a polarità tematiche il cui centro di gravitazione si racchiude nell’endiadi che fa capo ai due termini-concetto di «storia» e di «soggettivazione». Il principio di selettività che ha orientato la delimitazione dei «quadri» analitici di volta in volta allestiti ed esplorati corrisponde, come si è accennato,

al tentativo di scandagliare, nei presupposti come nelle implicazioni, quanto si è venuto raccogliendo nel corso dei decenni sotto il lemma di «postcoloniale»: una nuova configurazione del «mondo», fattosi materialmente uno e tuttavia attraversato oggi più che mai da crepe, turbolenze e linee di frattura; una radicale revoca in questione degli universali sorti all’alba dell’Illuminismo europeo (in primis, l’idea di una storia «uni-versalmente» orientata), che prende la forma non di una mera «critica dell’ideologia» ma di una sovversione – ossia, alla lettera, di una sub-versione – immanente al tessuto dell’identità occidentale; un riposizionamento, infine, dell’indagine teorica attorno a categorie quali «soggetto» e «identità» sul terreno delle dinamiche esperienziali e politiche di soggettivazione. Non si tratterà, tuttavia, di tracciare semplici genealogie di concetti , bensì di affrontare più ambiziosamente «figure» o «costellazioni», obbedendo all’esigenza critica di procedere per conglomerati perlomeno doppi di categorie (storia/frontiere, scrittura/memoria, traduzione/transizione, ecc.). E ciò in ragione del fatto che ciascuna delle categorie prese in esame, lungi dal rimandare all’univocità di un significato o di un referente stabile e predefinito, sottende un intero processo, del quale occorre esplicitare in sede teorica al contempo l’articolazione e il conflitto. Tale condizione di dinamicità concettuale è d’altronde adombrata dal termine stesso «postcoloniale» che, sul piano strettamente epistemologico, allude a uno stato di transizione dei sistemi di conoscenza che non si raccoglie in una mera esigenza di «interdisciplinarietà», additando piuttosto un programma transdisciplinare: un programma che – secondo le parole di Said – sappia evolversi in modo virtuoso attraverso un costante «attraversamento di confini, una sorta di contrabbando incontrollato di idee al di là delle linee» (Said 1988, p. 27). Gesto epistemologico inaugurale della critica postcoloniale è infatti, muovendo dall’opera seminale di Said, una revoca in questione delle discipline come datità dai contorni prestabiliti, e la concomitante

denuncia della complicità tra la «teoria» e la storia politicoeconomica del mondo: a partire dalla consapevolezza che gli stessi confini che sono alla base delle specializzazioni accademiche e disciplinari hanno molto spesso rappresentato «un’estensione sul piano culturale di quell’imperialismo che ha sempre operato attraverso il principio del divide et impera» (ibid.). E tuttavia, il termine «postcoloniale» fa segno in prima istanza a una soglia storica, che trova sì nelle pur alterne vicende legate ai processi di decolonizzazione la propria scaturigine materiale, ma che rimanda al contempo – su un piano che, a giusto titolo, può definirsi globale – a una più complessiva riconfigurazione dei vettori spaziali e temporali che organizzano l’esperienza del presente o, foucaultianamente, dell’attualità. Una soglia storica segnata non tanto da un mero processo di «de-centramento» (o di «perdita del centro») quanto da una ben più radicale e spiazzante «perdita della periferia» (Sloterdijk) o, ancor di più, da una condizione di periferia mescolata che fa saltare il dispositivo storico e istituzionale organizzato attorno alle coordinate di «interno» ed «esterno», o di «inclusione» ed «esclusione». Il tempo del «post»-coloniale appare così non come un generico tempo del «dopo» (dopo il colonialismo, dopo l’imperialismo, o dopo il moderno), bensì come un tempo di passaggi, di transiti concettuali e materiali che ridisegnano la geografia territoriale e simbolica del mondo, dando luogo a uno spazio non più classico, non più euclideo: uno spazio in cui le forme di dominio e di confinamento, caratteristiche dell’esperienza coloniale, si estendono a ricoprire il globo intero, mettendo in scacco ogni tentativo di tracciare una cartografia lineare degli odierni dispositivi di potere e delle correlate pratiche soggettive di liberazione e di «resistenza». Sotto questo profilo, la condizione «postcoloniale» acquisisce un carattere in senso stretto sintomale: segnalando un rimosso che, gettando un’ombra sui processi di globalizzazione, mette a nudo l’iscrizione della forma coloniale nel cuore stesso dell’idea europea di

civilizzazione. Le colonie appaiono infatti come un «nonluogo fondatore» (de Certeau) dell’operazione teoricopolitica e storiografica occidentale: un «non-luogo» che, codificato come inizio o grado zero del tempo, ha costituito (da Hegel sino allo stesso Marx) la condizione di possibilità di ogni storicizzazione, configurando l’intera narrazione storica eurocentrica come una forma di écriture en miroir: una storia, cioè, organizzata sin dal suo inizio dal dovere di finire. Tuttavia, è proprio sul «potere surrettizio e alterante del rimosso», sull’«inquietante familiarità» di un passato che il presente ha preteso di cancellare, che la migliore critica postcoloniale ha fatto leva per riaprire un discorso teorico e politico sulla modernità nel suo complesso: distante da ogni presa di partito piattamente relativistica e al tempo stesso in grado di porre le categorie universali che pretendono di comprendere le formazioni sociali e culturali in uno stato di sospensione, di tensione irrisolta: di porle, in altri termini, «sotto cancellazione». Seguendo questo «doppio regime» – che assume la costellazione semantica della modernità europea (con le parole-chiave che la contraddistinguono, quali Stato e società civile, cittadinanza e individuo) come referente imprescindibile e tuttavia incompleto – il presente lavoro si accosta criticamente ad alcuni nodi tematici la cui analisi consente una scomposizione prismatica di categorie che costituiscono il vocabolario fondamentale dell’identità teorica occidentale. A partire, in prima istanza, dalla concezione – sedimentata lungo l’intero arco della filosofia moderna – della Storia, o meglio, da una ben determinata codificazione del tempo storico, che ne ha fatto non solo il medium di una entelechia della Ragione universale che nell’Occidente troverebbe il proprio alveo e il proprio punto d’arrivo, ma anche il vettore – questa volta ferocemente materiale – dell’impulso all’annessione e alla conquista del geopoliticamente altro. Da Ranajit Guha a Dipesh Chakrabarty, a Homi Bhabha e Gayatri Chakravorty Spivak, i maggiori critici postcoloniali ingaggiano infatti un’agguerrita

battaglia sul terreno perimetrato dalla nozione di Weltgeschichte: vale a dire dall’idea di una «storia-mondo» intesa come processo globalmente orientato, caratterizzato dai due vettori della uni-direzionalità e della linearità. La revoca in questione della costellazione semantica della Geschichte – quale riunione, in un unico lemma, delle res gestae e della historia rerum gestarum – non si risolve tuttavia in un semplice gesto di rovesciamento della reductio ad Unum che, agli albori della modernità, ha dato luogo al «singolare collettivo» della Storia (Koselleck). Ma mira piuttosto a scardinarne i presupposti epistemologici, al fine non solo di storicizzare la storia, ma anche di gettar luce sul «cono d’ombra» che questa costellazione ha prodotto – e continua a produrre – quando viene tradotta nelle ideologie eurocentriche della «modernizzazione» e dello «sviluppo». Attraverso un confronto con la filosofia della storia hegeliana (Guha) o con l’ambiguità della prosa marxiana (Spivak, Chakrabarty), gli studi postcoloniali tracciano una linea tra un preteso eccesso (o difetto) temporale – codificato sotto le rubriche etnoantropologiche del «ritardo», dell’«arcaico», dell’«anacronistico» – e una manifesta eccedenza critica, racchiusa nell’esigenza (a un tempo teorica ed etica) di «restituire lo sguardo» all’Occidente imperialista. La Storia appare così, per parafrasare Spivak, come una catacresi, una metafora senza referente letterale, una forma vuota al cui interno si scontrano e articolano «ritmi» temporali talora dissonanti. E tuttavia, tale dissonanza, lungi dal condurre a un’opposizione lineare tra la Storia e le storie, è alla base di un progetto teorico che assume la violazione abilitante (Spivak), la contemporaneità di progresso e catastrofe introdotta nello spazio non-europeo dall’impresa coloniale, come quadro al cui interno rinegoziare i parametri dell’universalismo. Di qui si disegna una geografia della subalternità (termine, quest’ultimo, mutuato dall’opera gramsciana) che opera come un lavorio carsico nei limiti e attraverso i limiti del pensiero europeo. A partire dai codici dell’appartenenza e della cittadinanza, squadernati dalla

denuncia dell’ambivalenza costitutiva dell’autorità nazionale (Bhabha) e dall’anelito immediatamente translocale dei movimenti di soggettivazione di minoranze altrimenti soggiogate e razzializzate (Gilroy). Passando per una revisione dell’intera architettonica dell’impresa storiografica, di cui viene denunciata l’intima complicità con l’individualismo e il realismo, o il «regio-empirismo» (Rancière), su cui si è edificata la filosofia politica europea. Sino – e non per ultimo – allo spostamento dell’indagine teorica dai destini del Soggetto alle dinamiche congiunturali e impreviste di soggettivazione politica dei soggetti sociali: tema, quest’ultimo, che trova nel femminismo postcoloniale la sua cifra maggiormente emblematica, nella forma di una riarticolazione radicale dei rapporti tra la politica e un’ontologia in modo solo apparentemente paradossale storicizzata. La scommessa su cui verte la critica postcoloniale – e su cui queste pagine intendono sostare – è dunque sì una denuncia delle strutture «geopoliticamente differenziate» dell’umanesimo europeo (nella sua declinazione della cittadinanza, dei diritti, dell’individuo). Ma ciò a partire da un orizzonte ermeneutico che Étienne Balibar ha efficacemente nominato come un’aporetica dell’universale: un orizzonte, in altri termini, che lungi dal cancellare le conquiste dell’universalismo sorto con la modernità europea, le sottopone costantemente a tensione, riconoscendone al tempo stesso l’incancellabile storicità e l’ineludibile indispensabilità.

Linee di confine

A mio padre, al suo indimenticabile sorriso

Parte prima Tempo, storia, scrittura

1. Margini della storia L’Impero ha creato il tempo della storia. L’Impero ha deciso di esistere non nel tempo lento, ricorrente, circolare delle stagioni, ma in quello acuminato del trionfo e della sconfitta, del principio e della fine, della catastrofe. L’Impero si condanna a vivere nella storia e complotta contro la storia stessa. Un solo pensiero occupa la mente sommersa dell’Impero: come non finire, come non morire, come prolungare la sua era. John Maxwell Coetzee, Waiting for the Barbarians Noi non possiamo più pensare in termini di «mondo» né di «senso» le esperienze anteriori o esteriori all’Occidente. Jean-Luc Nancy, Le Sens du monde

1.1. Storia-mondo: la fine del «fuori» La questione del «mondo» – ha affermato di recente JeanLuc Nancy – è l’asse di decostruzione che percorre l’intera storia dell’onto-teologia: di quella storia che, rivolgendosi alle condizioni di pensabilità dell’essere, del soggetto e della prassi, non ha potuto che riferirsi al «mondo» come luogo primo e ultimo del senso, del valore e della verità. Dalla logica antinomica kantiana all’insistenza di Marx sulla «mondialità» (la coesistenza) e la «mondanità» (l’immanenza), il «mondo» ha sempre più assunto, en philosophe, le veci di soggetto del proprio stesso «farsimondo», del proprio «mondializzarsi», al punto tale da condensarsi oggi nell’interrogativo sul senso di quell’inedita «creazione del mondo» che va sotto il nome di mondializzazione (cfr. Nancy 2002; ma da un punto di vista

strettamente filosofico cfr. Clavier 2000). La diagnosi di Nancy, in effetti, è oltremodo netta e radicale: il mondo si produrrebbe oggi innanzi tutto nel senso di un’«agglomerazione», glomus piuttosto che globus. Un «cattivo infinito» dell’accumulazione sregolata e scatenata coincidente in tutto e per tutto con il ciclo dell’investimento, dello sfruttamento e del reinvestimento: insomma, una sorta di deregulation del «cattivo infinito» (cfr. Nancy 2002, pp. 6 sgg.). La traccia diagnostica affacciata dal filosofo francese si inserisce agevolmente all’interno di un dibattito che, in eccesso rispetto a semplici diagnosi o cartografie sociologiche e politologiche relative all’emergere di un nuovo e per certi aspetti inedito «spazio globale», si interroga invece sul senso di quel che si potrebbe definire un mondo divenuto fatto: un mondo ridotto alla propria nuda fattualità (cfr. ad es. Balibar 1997, pp. 233 sgg.).5 Per un verso, infatti, l’emergere di un «mondo mondializzato», un mondo ricondotto a una dimensione materialmente unitaria, ripropone il problema – magistralmente indicato da un giurista pienamente incardinato nel XX secolo come Carl Schmitt nel suo fondamentale Der Nomos der Erde (1950) – del rapporto tra lo spazio europeo e lo spazio mondiale: vale a dire di quella planetarietà originariamente inscritta nel progetto europeo che ha fatto sin dagli albori dell’ordine territoriale dell’Europa un ordine mondiale (cfr. Schmitt 1950; ma per una rilettura di Schmitt alla luce del dibattito sulla «mondializzazione» cfr. in particolare Marramao 2003, pp. 123-42). Per altro verso, il problema dell’«unità del mondo» non può che richiamare la questione – questa volta squisitamente filosofica – della totalità: del potere simbolico e performativo di ogni progetto totalizzante incarnato in un principio processuale e inglobante di reductio ad Unum delle diverse differenze e singolarità. Da questo punto di vista, è stato efficacemente sostenuto come l’epoca odierna sia rappresentabile unicamente nella figura di una totalità non totalizzabile; di un «tutto» che, lungi dal raccogliersi in un Uno o in un sistema, non fa che intensificare le relazioni (di

antagonismo, di esclusione) tra le proprie parti (cfr. Jameson 1998). È lungo una simile traiettoria di ricerca che è possibile collocare la variegata costellazione dei cosiddetti «studi postcoloniali».6 E ciò non solo perché in essi è dichiaratamente presente una tematizzazione, al tempo stesso teorica e storica, del potere materiale e performativo della «totalità», che ha preso corpo in quello che Said ha denunciato come il «progetto imperiale» europeo inseparabile dal costituirsi stesso della modernità e dei suoi apparati categoriali (cfr. Said 1993; ma sul tema della «totalità» cfr. anche Young 2004, p. 14). Ma anche perché, nel reinterrogare i presupposti materiali ed epistemici dell’emergere della modernità europea, gli studi postcoloniali portano allo scoperto una condizione che vede oggi l’Europa reinvestita dalla violenza del proprio stesso atto di autocostituzione: scomposta e reinterrogata dal gesto originario di cancellazione (e di dominio) dell’alterità che ne ha sin dal principio definito l’identità. In questo senso, un intellettuale eterodosso come Peter Sloterdijk ha potuto recentemente sostenere che, nella temperie odierna, si assiste a un’inedita e radicale «perdita della periferia» (Sloterdijk 2005, p. 59), a una «de-ontologizzazione dei contorni» e a una «catastrofe delle ontologie locali» ben più spaesante di qualunque discorso sulla «perdita del centro»; a quella che, con altre parole, si potrebbe definire la fine di ogni proiezione eterotopica del progetto europeo e occidentale e al conseguente raggio d’azione ormai irrevocabilmente globale raggiunto dal suo ambivalente progetto di «modernizzazione». E sempre in questo senso un filosofo come Balibar ha potuto scrivere che «ciò che ha veramente unificato il pianeta, non è la sola espansione coloniale, ma sono le rivolte, le lotte di liberazione che rimettono in causa la “differenza di natura” tra l’umanità delle metropoli e quella delle colonie, o piuttosto è la loro dialettica che sfocia in un rovesciamento dei ruoli, una “particolarizzazione” delle vecchie metropoli e una “universalizzazione” delle vecchie colonie» (Balibar 2003,

pp. 162-63). Proprio tale «dialettica del rovesciamento» posta in luce da Balibar registra un movimento, al contempo storico e culturale, di retroazione delle colonie sulle metropoli che segna non solo la perdita delle coordinate orientate sulla dicotomia di «interno» ed «esterno» (o «inclusione» ed «esclusione»), ma anche una condizione spaziale e temporale di periferia mescolata che induce una ricategorizzazione della stessa idea di limite: ricategorizzazione che investe tanto la diagnosi sull’attuale processo di riconfigurazione dei confini e delle frontiere nazionali e culturali, quanto la funzione al tempo stesso materiale ed epistemica che la categoria di «limite» ha rivestito nel costituirsi della cosiddetta «storia del mondo» (Weltgeschichte, world-history). Sotto questo profilo, è bene porre in evidenza come una parte imponente della critica postcoloniale abbia lavorato in prima istanza a una revoca in questione del secolare «monopolio geopolitico della storicità» (Gilroy 2004, p. 28) da parte europea e occidentale, prendendo le mosse dall’esperienza di una contrazione del tempo che, cristallizzata nell’esperienza imperiale e coloniale, ha condotto temporalità radicalmente eterogenee a essere irrevocabilmente e violentemente unite, in eccesso rispetto a ogni schema lineare e pacificante di reductio ad Unum della pluralità delle storie nella generalità della Storia. Come ha scritto il teorico e maggior esponente dei Cultural Studies britannici Stuart Hall: Il modo in cui la differenza fu vissuta nelle società colonizzate dopo la brusca e violenta rottura della colonizzazione fu – e non poteva essere altrimenti – decisamente diverso dal modo in cui queste culture si sarebbero sviluppate se lo avessero fatto isolatamente, ciascuna per conto proprio. Da quel punto di svolta verificatosi negli ultimi decenni del XV secolo in poi non c’è stato naturalmente nessun «tempo (Occidentale) singolare, omogeneo, vuoto». Ma ci sono le condensazioni e le ellissi

che insorgono quando tutte le diverse temporalità, pur rimanendo «presenti» e «reali» nei loro effetti differenziali, vengono comunque lacerate dal loro essere messe insieme, costrette a segnare la loro «differenza» sotto gli effetti sovradeterminanti delle temporalità e dei sistemi eurocentrici di rappresentazione e potere. (Hall 1997, p. 308) È tuttavia soprattutto al lavoro dello storico indiano (e fondatore del collettivo dei Subaltern Studies) Ranajit Guha che si deve il tentativo più articolato di formulare una genealogia filosofica del concetto occidentale di storia tramite l’adozione del «punto di vista di chi è stato escluso dalla storia del mondo» (Guha 2002, p. 20):7 «Mondo e storia: si potrebbe pensare che insieme costituiscano uno spazio sufficientemente ampio da comprendere tutta la storiografia. Ma non è stato così: interi continenti e le loro popolazioni sono sempre stati esclusi dalla storia» (Guha 2002, pp. 32-33). Attraverso un serrato confronto con la filosofia della storia hegeliana, lo storico indiano mira a mettere a nudo le esclusioni attraverso le quali la storia – o meglio, la Geschichte quale riunione, in un unico lemma, dell’eterogeneità dei Geschichten, degli «accadimenti» – è assurta a modalità egemone di relazione con la storicità e il passato. Più specificamente, Guha evidenzia non solo come in Hegel la «mondializzazione» (o la storicizzazione) dello Spirito corrisponda a una concomitante spiritualizzazione della storia, ma anche – e ben più in profondità – come la rappresentazione stessa del mondializzarsi del Geist si fondi nel filosofo sull’istituzione di un limite assoluto tra «popoli storici» e «popoli senza storia» (ma sul concetto di «popolo senza storia» cfr. il classico Wolf 1982): limite in virtù del quale i secondi hanno giocato il ruolo di fondazione primitiva e assoluta della storia convenzionale e di cifra di un ritardo ontologicamente incolmabile rispetto alla vicenda europea (sul ruolo epistemologicamente cruciale giocato dall’Africa nel quadro

del costituirsi delle scienze umane cfr. ad esempio Mudimbe 1988; ma per un’altra prospettiva, incentrata su un’analisi dell’impianto «necropolitico» alla base della razionalità occidentale, cfr. Mbembe 2001). Tale limite si configura così, per riprendere una formula di Michel de Certeau, come quel «non-luogo fondatore» che – codificato come inizio o grado zero del tempo – ha costituito la condizione di possibilità di ogni storicizzazione, ricostellando l’intera narrazione storica eurocentrica come una forma di écriture en miroir: come una storia, cioè, organizzata dal «dovere di finire».8 Detto altrimenti, la conversione dei confini spaziali in confini cronologici (cfr. Mignolo 1998) si è trovata alla base di un’articolata strategia epistemica e cognitiva di «negazione della contemporaneità» (Fabian 1983) – vale a dire di cancellazione delle temporalità autonome e originali dell’«altro» non-europeo – che non ha fatto che collocare costantemente popolazioni e culture in un’implacabile e fissa «gerarchia cronologica» piuttosto che in luoghi spaziali e geografici. Facendo leva su una simile traccia diagnostica, Guha ha reinterpretato il «limite» tra «storia» e «non-storia» come una linea o un solco tracciati nella stessa storicità, a dividere l’hegeliana «prosa della storia» (fondata sull’«incontro delle coordinate dello spazio intercontinentale con quelle del tempo universale, della geografia con la storia», cfr. Guha 2002, p. 28) da una fitta ed eterogenea «prosa del mondo» che, seppure relegata nel regno della «preistoria», costituisce – sostiene lo storico – il deposito di temporalità e forme narrative irriducibili ai canoni della filosofia della storia di derivazione eurocentrica. In particolare, lo storico indiano mette in luce come la codificazione hegeliana della Geschichte quale «intimo sostrato comune» alle res gestae e alla historia rerum gestarum (Hegel 1996, p. 167) abbia dato luogo a un modello di storiografia per il quale il «racconto» (o la relazione con il passato) viene sottratto alla società e consegnato allo Stato, inteso come discrimine privilegiato tra «storia» e «non-storia». Secondo una mossa le cui

implicazioni hanno investito l’intera architettonica del pensiero europeo, Hegel caratterizza infatti i «popoli senza storia» come «popoli senza scrittura» e, in virtù di una consequenzialità derivante dalla sua stessa macchina di conversione metafisica, come popoli senza Stato: istituendo, con questo stesso gesto, un nesso inestricabile tra storia, Stato e scrittura che ha relegato lo spazio non-europeo in una preistoria priva di forme di politicità.9 Là dove Hegel afferma che «un popolo nella sua epoca preistorica, quando è solo una nazione, una tribù, e non forma ancora uno Stato né persegue fini in sé saldi subisce la violenza senza storia del tempo» (Hegel 1997, p. 517, corsivo mio), egli reinscrive al contempo l’opposizione tra «storico» e «non-storico» come un’opposizione tra Stato e tempo. In questo modo, non solo la forma statale diviene il discrimine tra «civiltà» e «barbarie» (o tra «storia» e «preistoria»); ma la stessa «scrittura» storica – concepita come documentazione dello sviluppo dell’autocoscienza nazionale di un popolo – finisce per incarnarsi in un paradigma statocentrico di storiografia inteso quale unica norma e modello di narrazione del passato. Di qui la denuncia, da parte di Guha, delle implicazioni dello «statalismo» per la storiografia: implicazioni tanto più rilevanti in quanto si sono tradotte in una interiorizzazione della perimetrazione statal-nazionale nello stesso immaginario delle società colonizzate. L’interiorizzazione del «confine coloniale» nel cuore stesso dell’immaginazione politica dello spazio postcoloniale è d’altro canto al centro delle importanti analisi che Partha Chatterjee (altro esponente di spicco dei Subaltern Studies) ha dedicato ai movimenti nazionalisti postcoloniali, coniando per essi l’efficace formula di derivative discourse. Il nazionalismo anticoloniale («derivando» le sue coordinate da una pervasiva colonizzazione dell’immaginario) non ha cioè potuto che avvalorare ciò che d’altra parte contestava, obbedendo in tal modo a un double bind, o a una doppia ingiunzione, secondo la quale l’accesso dello Stato coloniale alla «narrativa occidentale della modernità» poteva

coincidere unicamente con un’identificazione ideologica con quel nazionalismo che pure aveva giocato il ruolo di ragione e fondamento dell’impresa imperiale di «civilizzazione»: I testi nazionalisti si indirizzavano sia al «popolo» che si diceva costituisse la nazione sia ai padroni coloniali la cui pretesa di governare il nazionalismo contestava. A entrambi, il nazionalismo cercò di dimostrare la falsità della pretesa coloniale che i popoli arretrati fossero culturalmente incapaci di governarsi nelle condizioni del mondo moderno. Il nazionalismo negò la pretesa inferiorità del popolo colonizzato; asserì anche che una nazione arretrata poteva «modernizzarsi» mantenendo la propria identità culturale. Esso produsse così un discorso in cui, sebbene venisse sfidata la pretesa coloniale al dominio politico, erano anche accettate le stesse premesse intellettuali della «modernità» sulle quali il dominio coloniale era basato. (Chatterjee 1986, p. 30) Tale accettazione delle premesse epistemiche della modernità – racchiuse sotto le rubriche normalizzanti dell’individuo e dello Stato-nazione – si è materialmente tradotta in un’ideologia dello «sviluppo» e della «modernizzazione» secondo la quale l’ingresso nello spazio della «civilizzazione» si darebbe unicamente attraverso un passaggio dalla tradizione al tempo storico: vale a dire attraverso l’ingresso nella «storia universale» e, di conseguenza, una ripetizione del percorso evolutivo europeo.10 Ma proprio su questo terreno – perimetrato da una disamina radicale delle contraddizioni e aporie veicolate da un concetto «eurocentrico» di storicità e processualità temporale – si dispiega uno degli aspetti più corrosivi della critica postcoloniale a cui è necessario rivolgersi, incentrato su una serrata critica dello «storicismo» e della correlata idea del «progresso» come processo stadiale e su un’altrettanto radicale denuncia di quell’ideologia che vorrebbe i popoli non-europei inesorabilmente condannati

all’anacronismo o alla ripetizione.

1.2. Temporalizzazione e anacronia È in particolar modo al lavoro di Dipesh Chakrabarty – e, nello specifico, al volume Provincializing Europe (2000) – che si deve una delle critiche più articolate allo «storicismo» occidentale: dove, sotto l’etichetta di «storicismo», si deve qui intendere l’assunto di un’unità strutturale di fondo del tempo storico che consente di qualificare come anacronistici momenti e pratiche del presente, secondo le figure etnoantropologiche dell’«arcaismo» o della «coscienza arretrata». Nel manifesto programmatico del 1992 sulla «provincializzazione dell’Europa», Postcoloniality and the Artifice of History (che costituisce il nucleo germinale dell’importante volume successivo), Chakrabarty muoveva dalla «disparità dell’ignoranza» che regola il rapporto asimmetrico tra la storiografia eurocentrica e le narrazioni storiche non-occidentali – disparità in virtù della quale l’Europa si trova a operare come referente silenzioso nell’intero spettro della conoscenza storica: per quanto riguarda il discorso accademico della storia – vale a dire la «storia» come discorso prodotto all’interno del contesto istituzionale dell’università – l’«Europa» rimane il soggetto teorico sovrano di tutte le storie, incluse quelle che chiamiamo «indiana», «cinese», «keniota» e così via. Tutte le altre storie diventano, in modo molto particolare, variazioni di una narrazione principale che può essere definita «storia dell’Europa». (Chakrabarty 2000, p. 45) Le esclusioni e omissioni su cui la storia, in quanto disciplina, costruisce il proprio edificio appaiono così tutt’altro da una mera registrazione differenziale degli «accadimenti», rivelandosi piuttosto esclusioni squisitamente epistemologiche: esclusioni in rapporto alle

quali il prefisso pre- (prefisso che intercala le diverse analisi disciplinarmente orientate sulle società pre-moderne o precapitalistiche) fa eco a una relazione non solo e non tanto cronologica, quanto (e ben più in profondità) teorica. L’Europa – figura dell’immaginario piuttosto che spazio geograficamente codificato o codificabile – appare infatti come l’unico soggetto teoreticamente intelligibile rispetto a «storie» e a modalità dell’«essere-umani» che formano l’oggetto di indagini la cui verifica si dispiega sull’unico piano dell’empirico (sull’«immanente teleologia» che, nella storia dell’Europa, trasformerebbe secondo una logica necessaria e necessitante il mondo in «spirito» cfr., classicamente, Husserl 1954; ma sull’Europa come paradossale «singolare universale» cfr. anche Derrida 1991). Se la filosofia ha ritratto lo spazio europeo come medium esclusivo dell’entelechia della Ragione universale, ciò è avvenuto non solo perché essa ha rivestito il ruolo di sotterranea autocoscienza delle scienze sociali, ma anche perché – come messo in rilievo da Spivak in una feconda analisi della categoria marxiana di «modo di produzione asiatico» – essa ha al tempo stesso fornito un potente veicolo funzionale alla narrativizzazione eurocentrica e normativa della storia. In altri termini: in ogni occorrenza in cui l’«Oriente» compare, si assiste a una dissimulazione dell’alterità geopolitica sotto la cifra dell’empirico che tradisce lo spiazzamento derivato dalla messa in questione dell’uni-direzionalità del divenire storico: Il modo di produzione asiatico marca un momento venerabile nella teorizzazione dell’altro. Solitamente lo si riconosce sostenendo che Marx ed Engels abbiano escogitato tale espressione proprio in risposta alla domanda: perché la logica normativa del Capitale non si è determinata ovunque nella stessa maniera? O, più «teoreticamente», la storia del mondo è uni- o multi-lineare? Come l’interrogativo di Rousseau sull’origine delle lingue, l’interrogativo che ha portato alla formulazione, largamente insoddisfacente, del

Modo di Produzione Asiatico è: perché esiste la differenza? Perché l’«Europa» non è l’unico «medesimo» identico a se stesso? Perché esiste l’«Asia»? È risaputo che l’«Asia» in questa formulazione ha perso ben presto qualunque somiglianza con uno spazio empiricamente riconoscibile. (Spivak 1999, p. 92) Proprio un simile interrogativo sull’uni-linearità o la multi-linearità della storia costituisce il perno del programma teorico e storiografico rubricato da Chakrabarty sotto l’insegna della «provincializzazione dell’Europa». Tuttavia, il già citato manifesto del 1992 votato a questo progetto si concludeva con un appello a una «politica della disperazione» (politics of despair) e al tempo stesso con la registrazione di un’impossibilità: l’impossibilità di una storia che, rendendo visibili le proprie strategie e pratiche repressive, guardi in direzione della propria scomparsa indicando al contempo quanto le resiste e le sfugge: sia questo l’altro, la differenza, o il subalterno. Nel volume Provincializing Europe, per converso, Chakrabarty adotta un registro «decostruttivo», installandosi in una relazione contraddittoria con il pensiero sociale e politico europeo e riconfigurando la ricerca postcoloniale come un riattraversamento critico degli «universali» (storia, politica, cittadinanza) che costituiscono il fondamento delle scienze sociali, a partire dalla consapevolezza della loro simultanea indispensabilità e inadeguatezza per lo spazio postcoloniale (cfr. Chakrabarty 2000, p. 20). Indispensabilità dovuta non solo alle logiche di uniformazione globale che si dispiegano sotto il segno del capitale, ma anche al riconoscimento che la stessa critica anticolonialista non è stata possibile se non come conseguenza (seppure parziale) dell’Illuminismo europeo. E inadeguatezza perché quegli stessi universali (quali cittadinanza e individuo, sfera pubblica e società civile) oggetto di decostruzione recano in sé il segno indelebile del loro luogo d’origine, rischiando sempre di divenire veicolo di una nuova – e più sottile – forma di

colonizzazione dell’immaginario non-occidentale. Da questo punto di vista, la critica allo «storicismo» mira non solo a storicizzare la storia in quanto disciplina, ma anche a revocare in questione la stessa codificazione del tempo storico che è alla base dell’atto di storicizzare: nella misura in cui precipuamente «storicistico» è quel paradigma cumulativo-lineare del tempo storico che si è incarnato prima nell’idea hegeliana di Weltgeschichte o «storiamondo», e poi nelle ideologie eurocentriche dello «sviluppo» e della «modernizzazione». Sotto quest’ottica, vale la pena soffermarsi brevemente a considerare la modalità con la quale l’affermarsi dell’ordine temporale della modernità è stato ricostruito da parte della Begriffsgeschichte novecentesca, e in particolare dal lavoro di uno storico del calibro di Reinhart Koselleck. E ciò in ragione del fatto che in questa ricostruzione ne è andato proprio di una nuova concezione (autoriflessiva) del tempo come forza: vale a dire come fattore ontologicamente produttivo. In un insieme di ormai celebri saggi, Koselleck aveva infatti individuato nell’emergere di una serie di «singolari collettivi» e di «concetti di movimento» (storia, rivoluzione, progresso, decadenza) affermatisi alla fine del Settecento una vera e propria «temporalizzazione» (Verzeitlichung) del contenuto semantico delle categorie attraverso le quali la modernità ha acquisito il suo caratteristico orientamento al futuro (cfr. Koselleck 1979; ma sul tema cfr. anche Marramao 2005). In particolare, Koselleck ha scorto nell’emergere del «singolare collettivo» della «storia» (die Geschichte) non solo la riunione, in un unico lemma, delle res gestae e della historia rerum gestarum, dei pragmata e dei «resoconti», dei racconti storici, ma anche l’emergere di una sorta di «metaconcetto» che riportava a unità tutte le singole storie passate e quelle possibili in futuro. In altri termini, attraverso una sorta di «svolta trascendentale», con l’imporsi della Geschichte – e, ancor di più, con l’hegeliana Weltgeschichte – la storia (in quanto logica della storia) diviene «il soggetto di se stessa»,

tematizzando non solo gli eventi empiricamente accaduti, ma in primo luogo «le condizioni delle storie possibili» (Koselleck 2006, p. 45). Proprio attorno a tale figura della storia come metaconcetto su cui si articola un’immagine lineare, progressiva, cumulativa ed esemplare del tempo storico si dispiega la critica corrosiva condotta da Chakrabarty al pensiero «storicistico» dell’Europa moderna. La politicizzazione delle popolazioni e l’avvento della «modernità politica» al di fuori delle democrazie capitalistiche occidentali ha infatti condotto – rivendica lo storico indiano – a una pluralizzazione della storia del potere che questiona alla radice l’impianto epistemologico «storicista» compendiato nella formula: «prima in Europa e poi nel resto del mondo» (cfr. Chakrabarty 2000, pp. 21 sgg.). Tale schema storicista ha preso la forma (da John Stuart Mill sino allo stesso Marx) di un «non ancora» (not yet) ingiunto dall’Europa ai popoli colonizzati: vale a dire di una continua dilazione del tempo dell’indipendenza e dell’autogoverno vincolata al conseguimento di una presunta capacità di «governarsi da soli». Alla dimensione del «non ancora» – cifra simbolica del presunto intervallo storico di civilizzazione che ha confinato lo spazio non-europeo in un’immaginaria «sala d’aspetto della storia» – Chakrabarty contrappone l’urgenza dell’«adesso» (now) come dimensione in cui si dispiegano i movimenti e le battaglie per l’autonomia: a partire sì dal cruciale fenomeno novecentesco dell’introduzione nella sfera del politico di soggetti che, secondo i criteri del liberalismo classico, apparivano impreparati agli aspetti dottrinali e concettuali della cittadinanza. Ma a partire anche (e soprattutto) dalla rivendicazione teorica secondo la quale essere umani «non indica tanto la capacità di essere potenziali soggetti politici; significa invece essere implicitamente e da subito soggetti politici» (Chakrabarty 2003, p. 29). Il campo di tensione tra «non ancora» e «adesso» viene così ricodificato dallo storico indiano come polarizzazione tra una «Storia 1» (vale a dire il

tempo benjaminianamente «omogeneo e vuoto» dello storicismo) e diversificate «Storie 2» o «passati subalterni» che, tacitati dagli storici così come dal pensiero politico dominante, rappresentano altrettante «storie dell’appartenenza» irriducibili ai codici secolari e istituzionali del politico (cfr. Chakrabarty 2000, pp. 93 sgg.). Qui in gioco è, a ben vedere, una riconcettualizzazione dello stesso presente, al di fuori di ogni concezione additiva e cumulativa di «totalità» o «unità»: una riconcettualizzazione che insiste sull’eterotemporalità costitutiva del soggetto moderno e sulla coesistenza dinamica, in uno stesso presente sociale e culturale, di una pluralità di tempi storici segnati da specifiche forme di dominio e corrispondenti pratiche di liberazione. Scrive secondo linee analoghe Chatterjee: Il tempo vuoto e omogeneo è il tempo utopico del capitale; esso connette passato, presente e futuro in maniera lineare, creando la possibilità di tutti quegli immaginari di carattere storicistico – identità, nazionalità, progresso e così via – che Anderson e molti altri hanno reso familiari. Ma il tempo vuoto e omogeneo non si trova in alcun punto dello spazio reale – è utopico. Il vero spazio della vita moderna consiste di eterotopie […] In questo caso il tempo è eterogeneo e caratterizzato da densità differenti. […] È possibile cogliere nel mondo postcoloniale parecchi esempi di tempo denso ed eterogeneo: capitani d’industria che rimandano la firma di un contratto perché non hanno ancora ricevuto il responso degli astrologi di fiducia, operai che si rifiutano di toccare i nuovi macchinari prima che siano stati consacrati con l’adeguato rito religioso, elettori che si danno fuoco disperati per la sconfitta del leader politico, ministri che dichiarano apertamente di aver procurato posti di lavoro per i membri del proprio clan e di avere escluso chi non vi appartiene. Definire tali situazioni «co-presenza» di tempi differenti – il tempo del moderno e i tempi del pre-moderno – equivale a una riaffermazione dell’utopismo della modernità

occidentale. Gran parte dell’etnografia più recente ha dimostrato che i tempi «altri» non sono semplici vestigia di un passato premoderno, quanto piuttosto prodotti originali dell’incontro con la modernità. Bisogna dunque usare l’espressione «tempo eterogeneo della modernità». (Chatterjee 2004, pp. 22-23) Adottando l’ottica di un tempo non già storicisticamente «omogeneo e vuoto», bensì – come scrive suggestivamente Chatterjee – «eterogeneo e pieno», la «marginalità» nonoccidentale appare non più come un esterno o un residuato della potenza storicizzante della modernità, ma come uno spazio inter-medio (in-between) che, piuttosto che essere una tappa in un processo «stadiale», costituisce un luogo di paradossi che mettono in scacco il paradigma eurocentrico della modernizzazione. Tale riconfigurazione della «marginalità» come – per dirla con Homi Bhabha – spazio inbetween, come presenza dislocatoria rispetto alle narrative universalizzanti dello storicismo occidentale, richiama tuttavia inevitabilmente la funzione giocata dal concetto di Stato-nazione nella configurazione del mondo postcoloniale. E ciò nella misura in cui, come argomenta ancora Chatterjee, solo un’universalizzazione della forma-nazione quale unica comunità politica ha potuto condurre a una radicale sostanzializzazione delle differenze culturali, degradate in tal modo a marginalità e minoranze o, ancor di più, a «minorità» (cfr. Chatterjee 1993). Ma per comprendere il ruolo che l’immaginario statal-nazionale ha rivestito nella formazione dello spazio postcoloniale – e, soprattutto, la potenza di effrazione racchiusa nella decostruzione e nel decentramento dei suoi elementi costitutivi – è bene rivolgersi ai modi irriducibilmente ambivalenti con i quali sono stati e sono ancora «operazionalizzati» concetti cruciali (al tempo stesso storici ed epistemologici) quali i concetti di confine e frontiera.

1.3. La frontiera ambigua: eccezione e liberazione Il limite – o il confine –, quale forma e forza simbolica, si articola secondo una duplice modalità, al contempo verticale e orizzontale. Se, come si è visto, una parte della critica postcoloniale si concentra sulla funzione «verticalizzante» del limite, quale istanza di produzione e di legittimazione della narrativa occidentale sulla «storia universale», un’altra parte di essa assume invece come proprio fuoco d’indagine la funzione lato sensu «orizzontale» del limite: inteso come operatore della configurazione e compartimentazione statalnazionale del globo. A fronte del dilagare contemporaneo del dibattito sociologico e politologico sullo Stato-nazione e la sua crisi in relazione alla problematica (teorica e storica) dei confini, è opportuno muovere dallo statuto al tempo stesso epistemologico e ontologico della categoria di confine. Come rilevato da Étienne Balibar, la nozione di confine – o di frontiera11 – è infatti inscindibilmente concetto e immagine o, ancor più precisamente, un al di qua del concetto e dell’immagine che costituisce la condizione di possibilità di ogni definizione, intrattenendo per ciò stesso una relazione insormontabile con l’idea stessa del pensabile: «L’idea di una definizione semplice di ciò che è una frontiera è assurda per definizione: perché tracciare una frontiera è per l’appunto definire un territorio, delimitarlo e così registrare la sua identità o conferirgliela. Ma, reciprocamente, definire o identificare in generale non significa altro che tracciare una frontiera, assegnare dei confini […] il delimitabile, il definibile, il determinabile intrattengono una relazione costitutiva con l’idea stessa del pensabile. Mettere in discussione la nozione di frontiera […] significa dunque affrontare sempre in un certo modo l’impossibile, il limite di una determinazione da parte di se stessa, di una Selbstbestimmung del pensiero, significa cercare di pensare la linea sulla quale pensiamo, la condizione di possibilità o “l’arto nascosto” dai tagli e dagli schematismi» (Balibar

1997, pp. 206-12). Di più: lo stesso gesto di iscrizione di un confine (horos, finis, Grenze, border, boundary), quale atto di istituzione che de-limita la regione del «pensabile» e dell’«identificabile», è il supporto e l’operatore di una partizione (partage) dell’universale che ha dato materialmente luogo a un cortocircuito tra dimensione empirica e dimensione trascendentale. E ciò nella misura in cui la decisione speculativa su quel che significa definire un «interno» e un «esterno» non può che tradursi in un complesso e potente dispositivo di inclusione ed esclusione che codifica i parametri storici dell’appartenenza e della cittadinanza nazionale. Sotto questo profilo, confini e limiti non si configurano come semplici linee tracciate sulla carta geografica, ma posseggono lo statuto costitutivamente ambivalente di un’interfaccia che interviene nei processi di appropriazione e spartizione territoriale e simbolica, rinviando per un verso alla più vasta questione dell’istituzione di identità (nazionali, culturali, sociali) e per l’altro ai criteri di regolazione dell’appartenenza a un ordine statale o nazionale sulla base di una ben precisa codificazione di ciò che vale come «interno» (inclusione) e come «esterno» (esclusione). Proprio in un simile punto di tensione e intersezione tra dimensione territoriale (o materiale) e dimensione simbolica (o identitaria) gli studi postcoloniali si installano per operare una revisione radicale di categorie quali frontiere, madrepatria (homeland, Heimat) e «cultura nazionale», adottando come vertice prospettico le esperienze «privilegiate» della diaspora, dell’esilio e della migrazione (ma sulla centralità della categoria di esilio e sul suo ruolo epistemologico cfr. innanzi tutto Said 2000). Il primo gesto effettuato dalla critica postcoloniale in ordine a una riconsiderazione del più ampio problema dello Stato-nazione si effettua nel ricondurre la «potente idea storica» della nazione al suo luogo d’origine (l’Europa, l’Occidente) in contrasto, per riprendere le parole di Partha Chatterjee, con la «recente amnesia sulle origini del nazionalismo» e la conseguente esoticizzazione (o

«orientalizzazione») delle spinte nazionaliste e, ancor di più, etno-nazionaliste (cfr. Chatterjee 1993, p. 4).12 È in questo senso che la nazione può essere definita come «una tra le più importanti strutture di ambivalenza ideologica nell’ambito delle rappresentazioni culturali della “modernità”» (Bhabha, a cura di, 1990, p. 36), l’analisi della quale costituisce il presupposto imprescindibile per un progetto teso a elaborare un’«etnografia del contemporaneo». La categoria linguistico-psicoanalitica di ambivalenza è d’altro canto al centro della vera e propria decostruzione dei parametri della spazialità e della temporalità nazionale operata da Bhabha, in confronto diretto non solo con lo sfaldarsi dell’esperienza della nazione come forza stabilizzante e misura della sincronicità sociale, ma anche – in sede teorica – con le cruciali analisi di Benedict Anderson sullo spazio nazionale come «comunità immaginata» (Anderson 1983): vale a dire come spazio sociale e culturale letteralmente immaginato all’esistenza . Spingendo all’estremo la diagnosi di Anderson sullo statuto in senso stretto «metaforico» dello spazio-nazione, Bhabha reinterpreta infatti l’adesione nazionale come un’affiliazione eminentemente testuale e narrativa, tormentata e scavata al proprio interno dall’incompletezza costitutiva dei processi di significazione culturale e dalla «chiusura» (clôture) impossibile della «testualità»: Studiare la nazione attraverso la sua presentazione narrativa non significa soltanto prestare attenzione al suo linguaggio e alla sua retorica; vuol dire anche cercare di alterare quello stesso oggetto concettuale. Se la «chiusura» problematica della testualità mette in dubbio il carattere di «totalità» della cultura nazionale, il suo valore positivo sta nel mettere in luce l’ampia disseminazione con cui costruiamo il campo di significati e simboli associati alla vita nazionale. (Bhabha, a cura di, 1990, p. 36) Contro

ogni

forma

di

«pensiero

etnoterritoriale»,

incardinato in processi di normalizzazione e territorializzazione delle identità tramite il nesso (ritenuto costitutivo) tra nascita, cittadinanza, affiliazione etnica e identità nazionale, Bhabha rivendica l’«impossibile unità della nazione in quanto forza simbolica» (ibid., p. 33). In virtù del suo essere in primo luogo una «strategia narrativa» (o, derridianamente, un «prodotto di scrittura»), la nazione è infatti costantemente scompaginata e messa in tensione dall’oscillazione tra vocabolari eterogenei e dall’emergere di «temporalità interstiziali» che ne interrompono la narrazione lineare e ne scardinano la temporalità omogenea. Al tempo «continuo e cumulativo» del pedagogico (vale a dire di un principio di reductio ad Unum che si materializza nelle modalità «realistiche» della narrazione nazionale) si accompagna così, secondo Bhabha, il tempo «ripetitivo e ricorsivo» del performativo che, poggiando sulla necessità di una costante risignificazione dell’appartenenza (la nazione come «plebiscito quotidiano» di cui parlava Ernest Renan), apre lo spazio per scarti e slittamenti metonimici attraverso i quali avviene la presa di parola dei «margini» (cfr. ibid., pp. 478 sgg.). In tal modo, il critico indiano mette a fuoco non solo il tempo doppio, o meglio, la «dialettica senza sintesi» tra le varie temporalità – moderna, coloniale, postcoloniale – che mette in scacco ogni narrazione lineare e progressiva della nazione, ma anche la scissione costitutiva del soggetto nazionale: scissione in virtù della quale il «popolo» è sia oggetto di una «pedagogia» nazionalista che lo riconduce costantemente all’unità di un corpo sociale, sia soggetto di autonomi processi di significazione e di contro-narrazioni che evocano e cancellano di continuo i confini totalizzanti della nazione. Da una simile «temporalizzazione» della configurazione statal-nazionale non può tuttavia che discendere una concomitante ritematizzazione delle nozioni (e della funzione) di confini e frontiere. Le frontiere della nazione, infatti, appaiono qui innanzi tutto quali soglie di significato che vengono costantemente varcate, cancellate e tradotte nei processi di significazione culturale, là dove

l’effetto di tale «significazione incompleta» è una trasformazione di confini e limiti in spazi inter-medi (inbetween) nei quali e attraverso i quali sono negoziati i significati dell’autorità politica e culturale: Non appena la marginalità dello spazio-nazione è fondata, e la sua «differenza» trasformata da confine «esterno» in delimitazione «interna», la minaccia della differenza culturale non è più problema di un «altro» popolo: diventa questione dell’alterità del popolo-come-unità. (Bhabha, a cura di, 1990, p. 484) Il confine divenuto interno scinde così lo spazio nazionale, mostrando come l’«altro volto» della fantasia monocentrica del «popolo-come-unità» risieda nella formazione strategica di minoranze sociali (migranti, comunità gay e lesbiche, alleanze di lavoratori, ecc.) che spezzano il presunto «naturalismo» della nazione segnato da una codificazione ideologica del territorio, del genere e della genealogia. Tali minoranze – che recano su di sé il segno di storie spaziali di dislocazione culturale – rappresentano secondo Bhabha le forme «disgiuntive» che fanno della nazione innanzi tutto uno spazio di circolazione della cultura; o meglio, quelle forme di marginalità discorsiva che, avvalendosi della «logica supplementare della secondarietà» (ibid., p. 500), negoziano costantemente manovre strategiche di mediazione tra i confini etnici, razziali e culturali. Una simile moltiplicazione e produzione di spazialità e temporalità differenziali, diametralmente opposta alla rappresentazione dello Stato-nazione come «contenitore» dalla spazio-temporalità omogenea e unificata, è al centro delle feconde analisi avanzate dalla teorica e urbanista Saskia Sassen, che a propria volta mette in luce la coimplicazione di meccanismi di esclusione e inclusione derivante dalla sovrapposizione interattiva tra l’ordine del «globale» e l’ordine del «nazionale»: dal gioco tra due «master/monster temporalities and spatialities» (Sassen

2001a, p. 276). L’interazione tra ordine del «nazionale» e ordine del «globale», infatti, piuttosto che configurarsi come un gioco a somma zero in cui un termine perde pregnanza e pertinenza a spese del suo altro, dà luogo a zone dinamiche di intersezione i cui esiti sono caratterizzati da un elevato grado di imprevedibilità e di variabilità: zone per le quali Sassen conia la nozione di analytic borderlands (cfr. Sassen 2006, pp. 378 sgg.). L’utilità di un simile concetto – rivendica l’autrice in un monumentale volume dedicato alle trasformazioni della sovranità nel contesto globale – consiste innanzi tutto nello «sviluppare uno strumento euristico che consenta di considerare ciò che è comunemente rappresentato come una linea che separa due differenze, solitamente viste come mutuamente esclusive, come un campo concettuale – un’entità terza – che richiede la sua propria specificazione empirica e teorizzazione» (ibid., p. 379). In altre parole, Sassen registra l’emergere di specifiche «zone di frontiera» (frontier zones) e borderlands che, configurando un nuovo ordine spazio-temporale, pongono inedite sfide analitiche alle scienze sociali: sia nei termini delle attività e dei soggetti che le distinguono, sia nei termini degli strumenti teorici e politici necessari a impedire il loro collasso in demarcatori lineari di differenze. Tali zone di frontiera – un’istanziazione delle quali sono, seppure a un livello macrologico, le «città globali» (global cities) nelle quali si assiste alla trasformazione di gran parte dello spazio sociale in una border zone (cfr. Sassen 2001b; ma sull’esplodere, nella gran parte del mondo, del tessuto urbano in un indifferenziato e caotico «pianeta di slum», cfr. Davis 2006; un’analisi teorica incentrata sul caso francese delle banlieues si trova invece in Balibar 2008) – tendono infatti a essere marcate da operazioni di potere e di dominio che sfuggono ai codici tradizionali del politico: che si tratti della struttura reticolare e iperconnessa dei mercati finanziari o dello sfruttamento sommerso della forza lavoro migrante. In questo caso i confini, lungi dall’essere uno spazio di traduzione sociale e culturale, si caratterizzano

quali veri e propri stati di eccezione (o zone di «morte sociale») sottratti a ogni controllo politico o statale. Stati di eccezione che producono individui extra legem ossia, letteralmente, fuori-legge: migranti, clandestini o rifugiati ricondotti – secondo il lessico corrente – a una condizione di «nuda vita» radicalmente depoliticizzata (cfr. Agamben 2003) o, per riprendere le parole di Arjun Appadurai, a «una incerta zona grigia che si colloca tra cittadinanza vera e propria e umanità in generale» (Appadurai 2005, p. 28). È percorrendo questa linea di biforcazione tra la frontiera come spazio di traduzione culturale e di liberazione dal giogo dell’immaginario nazionalista e razziale – come, secondo le parole di Bhabha, sito di una «lotta per il diritto storico ed etico a significare» (Bhabha 1995, p. 51) – e la frontiera come spazio deterritorializzato di esclusione e di controllo, che occorre ritornare alle fondamentali analisi di Balibar. Quest’ultimo, infatti, ha posto al centro della propria indagine sull’odierna trasformazione degli spazi politici il nuovo statuto insieme di eterogeneità e di ubiquità delle frontiere: statuto in virtù del quale se per un verso nelle nuove «zone di transito internazionali» – quelli che Marc Augé ha definito «non-luoghi», o «spazi globalizzati del passaggio» (cfr. da ultimo Augé 2007) – si assiste a una feroce materializzazione del funzionamento differenziale delle frontiere, che per alcuni hanno funzione di un vero e proprio dispositivo di «esclusione interna», che fa della vita un’attesa di vita, o una non-vita; per l’altro verso non è più possibile «identificare» le frontiere secondo un codice semplicemente geografico, politico o amministrativo, essendosi queste ultime dislocate e disseminate ovunque si esercitino dei controlli selettivi o di sicurezza.13 Più in profondità, tuttavia, Balibar ha portato alla luce come intorno alla questione (teorica e storica) dei confini si sia giocata e si giochi un’intera concezione dell’universale e del particolare, per via di un effetto di surdeterminazione simbolica (di raddoppiamento e di relativizzazione insieme) che fa sì che l’atto stesso di determinazione di un confine –

nazionale, razziale, di classe o, aggiungiamo, di genere – sancisca al tempo stesso una configurazione del mondo: Le frontiere nazionali non potrebbero fissare (o tentare di fissare) delle identità , non potrebbero marcare la soglia in cui si giocano la vita e la morte […], in breve, per riprendere la formulazione decisiva elaborata da Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca del 1807, non potrebbero essere delle frontiere interne (frontiere interiorizzate, frontiere per l’interiorità) se non fossero idealizzate. E non sarebbero idealizzate, pensate come il supporto dell’universale, se non fossero immaginate come il punto in cui sono in gioco le «concezioni del mondo», quindi anche le concezioni dell’uomo: il punto in cui bisogna scegliere e scegliersi. (Balibar 1997, p. 216) La duplicità delle frontiere, il fatto che esse possano istituire e separare territori unicamente strutturando l’universalità del mondo, e che tale rilancio (o tale «raddoppiamento») sia la condizione del loro divenire frontiere interne, «frontiere dell’interiorità», è ciò che rimanda – per riprendere ancora le parole di Balibar – all’esigenza di una «radicalità democratica che incominci a decostruire l’istituzione frontaliera» (ibid., p. 211). È in rapporto a una simile esigenza di decostruzione democratizzante dell’«istituzione frontaliera» che appare opportuno rivolgersi in questo contesto a quella costellazione di studi che, concentrandosi sulle esperienze storiche della diaspora e della dislocazione spaziale e sociale di popolazioni lungo l’intera superficie del globo, ha rimesso in questione l’efficacia e l’effettualità della rappresentazione canonica e normativa della modernità statal-nazionale. Si pensi, quale esempio privilegiato, alla descrizione tracciata da Paul Gilroy del Black Atlantic, dell’ «Atlantico nero», come spazio non solo indelebilmente segnato dalla catastrofe e dalla violenza del cosiddetto middle passage – della tratta schiavista dei neri – ma anche reinventato e ripercorso a

ritroso dai neri stessi, in un anelito di liberazione irriducibile ai «codici chiusi di qualsiasi visione assolutista o comunque costrittiva dell’etnicità» (Gilroy 1993, p. 244; ma cfr. anche Linebaugh e Rediker 2000, e Mbembe 2006). Lo «spazio liscio» dell’Atlantico (solcato da confini razziali, nazionali e imperiali tanto più ferocemente violenti quanto più apparentemente invisibili) ha infatti visto il sorgere di culture e pratiche cosmopolitiche che, per via di un attraversamento costante dei confini e delle identità, hanno rinnovato le coordinate spazio-temporali della storia moderna, dando luogo a un’«ecologia dell’appartenenza» collocata al di fuori di ogni perimetrazione identitaria (cfr. Gilroy 1993, p. 19). La storia della diaspora africana – allontanandosi da un modello unidirezionale di dispersione lineare e reversibile: allontanandosi, in altri termini, da ogni «mito del ritorno» – avrebbe cioè dato luogo a un sentimento di appartenenza radicato non tanto in una forma di fraternità prepolitica immediata ed essenzialista, quanto piuttosto in un’esperienza eminentemente sociale caratterizzata da dispositivi di potere esercitati con violenza su corpi «razzializzati» e sottoposti a processi di othering , o di «alterizzazione», radicale. In questo senso, la produzione culturale della diaspora nera – intesa come una «controcultura» della modernità tesa a ridefinire i canoni della democrazia moderna – costituisce un esempio e un’istanza storica eminente di un ethos culturale vissuto come «essenza-non-essenziale», o come «tradizionenontradizionale»: in altri termini, di un modello di appartenenza intrinsecamente meta-etnico e, di conseguenza, intimamente transnazionale . Per nominare tale forma emergente di appartenenza «translocale», Gilroy prende in prestito il concetto di changing same messo a punto da Amiri Baraka nell’analisi della musica blues: dove il «medesimo che cambia» prende qui le vesti di una memoria storica che affonda le proprie radici innanzi tutto in un processo collettivo di elaborazione della sofferenza e in una drammaturgia del ricordo che «separa la genealogia dalla

geografia e il dimorare dall’appartenenza» (ibid., p. 31): Come alternativa alla metafisica della «razza», della nazione e della cultura territoriale delimitata, tutte codificate nel corpo, la diaspora è un concetto che disturba attivamente la meccanica storica e culturale dell’appartenenza. (Ibid., p. 36) Il «nazionalismo diasporico» (o quella che Appadurai denomina «transnazione delocalizzata»: cfr. Appadurai 1996, p. 223) configura così una forma di lealtà alternativa rispetto ai codici territoriali del nazionalismo europeo e dei suoi confini, costituendosi piuttosto come una figura della translocalità in contrasto con i processi di territorializzazione (e di normalizzazione) delle identità culturali. La coscienza diasporica, infatti, è il prodotto non già di un’identità fondata nell’affiliazione a un territorio, un linguaggio o un’etnia comuni, bensì di un’appartenenza irriducibile a ogni rigida perimetrazione statuale e radicata nella memoria storica e nelle dinamiche sociali del ricordo. È lungo queste linee che la figurazione della «diaspora» – in quanto esperienza di una radicale sospensione dell’identità – assurge a cifra simbolica di una riconfigurazione dell’esperienza dell’appartenenza che fa segno alla creazione di pratiche «transnazionali» che spezzano il legame tra identità e territorio: e ciò nella misura in cui – per prendere in prestito le parole di Gilroy – «sostare negli interstizi della solidarietà meccanica ci ricorda come il concetto di diaspora possa offrire alternative reali al duro legame di sangue primordiale e della fraternità prepolitica immediata. L’immagine popolare di nazioni, razze o gruppi etnici naturali, spontaneamente dotati di collezioni intercambiabili di corpi ordinati che esprimono e riproducono culture assolutamente distintive, viene rigettata con fermezza. […] Una volta spezzata la semplice sequenza dei legami esplicativi tra posto, luogo e coscienza, si può anche mettere in crisi il potere fondamentale del territorio nel determinare

l’identità» (Gilroy 1993, p. 36).

2. Scrittura, narrazioni Spetta allo storico tenere conto non del danno ma del torto? Non della realtà, ma della meta-realtà che è la distruzione della realtà? Non della testimonianza ma di ciò che resta della testimonianza quando è distrutta (dal dilemma), il sentimento? Evidentemente sì, se è vero che non si darebbe storia senza dissidio, che il dissidio nasce da un torto e si segnala attraverso un silenzio, che il silenzio sta a indicare che delle frasi sono in sofferente attesa del loro avvenimento, che il sentimento è questa sofferenza. Jean-François Lyotard, Le Différend Queste vite infinitamente oscure sono ancora tutte da documentare […] e con il pensiero continuavo a vagare per le strade di Londra, avvertendo con l’immaginazione il peso di quel mutismo, l’accumularsi di vita non registrata. Virginia Woolf, A Room of One’s Own

2.1. Controstorie Sin dalla pubblicazione nel 1978 di Orientalism da parte di Said, la colonial discourse analysis si è concentrata prevalentemente sullo studio delle «operazioni discorsive» del colonialismo: vale a dire sul nesso, tanto più sotterraneo quanto più materialmente attivo, che ha stretto il linguaggio e le forme di indagine storico-culturali con le catastrofi del colonialismo e dell’imperialismo. L’enfasi pressoché esclusiva posta da Said sulla rappresentazione e costruzione discorsiva dell’alterità è stata tuttavia bilanciata, nel corso degli anni, da una crescente attenzione alle realtà che quella rappresentazione escludeva o mancava: non solo la voce

soppressa dell’«altro», ma anche la «storia del subalterno», sia nei termini della vicenda «oggettiva» dei gruppi subalterni o marginalizzati, sia – sulla scorta di Frantz Fanon – nei termini dell’esperienza «soggettiva» degli effetti del colonialismo e della dominazione. Le revisioni più feconde dell’opera seminale di Said hanno dunque sì avuto per fuoco d’indagine la spinosa questione della «rappresentazione» dell’alterità; attraverso, però, la mediazione fornita da un’analisi di specifiche «controstorie» focalizzate sulle forme impreviste e non rappresentate di soggettività dei soggetti colonizzati (cfr. Young 1995, pp. 159-61). Per parafrasare Spivak, alle strategie eurocentriche di «narrativizzazione» imperialista della storia è venuta sempre più decisamente accompagnandosi la produzione di «contro-narrazioni», il cui fine è stato innanzitutto portare allo scoperto la «forclusione» (la cancellazione dal sistema simbolico dominante) del soggetto oppresso e colonizzato (Spivak 1999).14 È questo il caso dell’imponente lavoro teorico e storiografico intrapreso, a partire dagli anni ottanta, dal collettivo di storici indiani dei Subaltern Studies, cui obiettivo primario è stato non solo un allargamento delle «fonti» della pratica e della narrazione storiografica, ma anche una più generale messa in questione delle sue gerarchie e dei suoi assetti «tradizionali», con l’obiettivo epistemologico dichiarato di smantellare l’approccio elitario predominante nella narrazione ufficiale della conquista da parte dell’India dell’indipendenza dal dominio coloniale. Il progetto degli «studi subalterni» è d’altro canto singolarmente ruotato, sin dalla sua prima enunciazione nelle parole del suo fondatore Ranajit Guha, attorno al problema del «fallimento» (il «fallimento storico della nazione di creare se stessa») e dunque, secondo una mossa solo all’apparenza paradossale, attorno alla comprensione di una storia non accaduta. Scriveva Guha nel manifesto programmatico del 1982 (A proposito di alcuni aspetti della storiografia dell’India coloniale), che diede avvio al lavoro del gruppo:

È propriamente lo studio di questo fallimento storico della nazione di creare se stessa, fallimento dovuto all’inadeguatezza della borghesia così come della classe operaia nel determinare una vittoria decisiva sul colonialismo e una rivoluzione democratico-borghese – fosse essa di tipo classico, ottocentesco, sotto l’egemonia della borghesia, o di tipo più moderno, sotto l’egemonia della classe operaia e dei contadini, ossia una «democrazia nuova» –, è lo studio di quel fallimento ciò che costituisce a nostro avviso la problematica centrale della storiografia dell’India coloniale. (Guha 1988a, p. 39) Motore del lavoro degli «storici subalterni» era stato di conseguenza il tentativo di opporre ai protocolli della storiografia nazionalista, marxista ed elitaria, un modello di storiografia che avesse come proprio fuoco quelle forme di soggettività e di rivolta che – unanimemente tacitate dagli storici – costituivano il punto cieco delle narrative ufficiali sulla costruzione della nazione indiana. Secondo un movimento la cui genealogia affonda le proprie radici nella history from below britannica, nella black history e nella «storia delle donne» (cfr. ad esempio Traverso 2005, pp. 2224), obiettivo epistemologico cruciale era qui non tanto aggiungere un mero «supplemento» alla storia monumentale, contrapponendo alla storiografia tradizionale una «storia dell’altro» o «della periferia», quanto piuttosto assumere come fuoco della scrittura le forme di agency e di soggettività soggiogate dai paradigmi universalizzanti, obbedendo all’esigenza di recuperare le storie soppresse, l’esperienza dei «sommersi» dalla Storia del mondo, o il «cuore di tenebra» che i modelli di discorso dominante non erano riusciti a penetrare. È in questo contesto che acquisisce rilevanza il ricorso al concetto gramsciano di «subalterno» (cfr. in dettaglio infra, parte II, cap. 3, § 3.2.), inteso come «l’attributo generale della subordinazione nelle società dell’Asia meridionale, sia quest’ultima espressa in

termini di classe, casta, età, genere, professione o in qualsiasi altro termine» (Guha 1988a, p. 29). Se tuttavia, come scriveva Gramsci nelle Note sulla storia d’Italia, la «storia dei gruppi subalterni è necessariamente frammentaria ed episodica», proprio attorno a nozioni come «frammenti», «tracce» e «margini» si è trovato a ruotare il tentativo di rielaborare lo statuto del racconto storico così come la ricerca di narrative altre e alternative rispetto alla narrazione «imperiale». Attraverso un’inedita attenzione alle «piccole voci» (small voices) dei soggetti in rivolta (Guha 1996) e una strategia di lettura a ritroso, Guha si è in particolare rivolto allo studio della «prosa della controinsurrezione» (gli archivi e le fonti coloniali), esaminandone cesure, giunture e cuciture, «quelle che potremmo definire le sue cicatrici» (Guha 1988b, p. 46), alla ricerca di una presenza altra rispetto a quella dell’«io» elitario o coloniale: alla ricerca, si potrebbe dire, di una serie di «storie emergenti» o «insorgenti» (Prakash 1990, pp. 192-93). Come scrive significativamente Gyanendra Pandey ripercorrendo il lavoro del gruppo: «lo studio del frammento, o della voce dal margine, mira a portare allo scoperto punti di vista alternativi, altre prospettive e altri modi di scrittura, cerca insomma di catturare prospettive altre. Messo in opera in questo modo, il “frammento” non è solo una “parte” – il “pezzo staccato” indicato dal dizionario – di un tutto precostituito. Piuttosto, è un elemento inquietante, un “disturbo”, una contraddizione, potremmo dire, nell’autorappresentazione di quella particolare totalità e di coloro che acriticamente si rifanno a essa. Il frammento è, in questo senso, un appello a una prospettiva alternativa, o almeno alla possibilità di un’altra prospettiva. È una chiamata al tentativo di analizzare la costruzione storica delle totalità con cui lavoriamo, le contraddizioni che sopravvivono in esse, le possibilità che sembrano realizzare, i sogni e le potenzialità apparentemente soppresse: in una parola, la fragilità e l’instabilità dei “dati” (le “totalità significative”) della storia» (Pandey 2000, p. 296). In

ossequio a questo modulo metodologico – incentrato su «voci», «omissioni» e «cesure» –, la scommessa di Guha verteva dunque sulla ricerca, tra le pieghe e le fessure del tessuto narrativo, dei segni dell’esperienza autonoma del colonizzato quale effettivo «soggetto della ribellione» (Guha 1988b, p. 79), in contrasto con la quasi automatica classificazione degli eventi come «Storia» che aveva spesso giocato il ruolo di commutatore della storiografia indiana in una «conoscenza colonialista» interamente piegata al «codice della contro-insurrezione» (ibid., p. 67). E tuttavia, da un simile progetto storiografico – teso a recuperare l’«esperienza» e la «coscienza» dei subalterni e dei dominati dal fondo degli archivi coloniali – non potevano che discendere contraddizioni relative ai protocolli epistemologici materialmente adottati e, in primo luogo, alla centralità conferita alla categoria (di stampo esistenziale e fenomenologico) di «esperienza» (cfr. ad esempio O’Hanlon 2000). È davvero possibile, infatti, scrivere una storia dell’oppressione e dello sfruttamento? O, meglio ancora, è possibile rendere storico ciò che non è stato storico? E, soprattutto, è possibile farlo assumendo come autoevidente l’esperienza di coloro la cui «vita sepolta» si tenta di documentare? In un importante intervento attorno all’elaborazione di un paradigma diretto a formulare una «storia delle donne» alternativa alla storia ufficiale, la storica femminista Joan Scott ha efficacemente denunciato le aporie in cui è destinato a cadere qualsivoglia progetto di scrittura di una «storia della differenza», là dove esso si fondi sull’assunzione metodologica dell’irriducibilità e dell’autonomia dell’«esperienza»: vale a dire su una nozione referenziale di «evidenza» come ri-presentazione del reale (Scott 1992; ma cfr. anche Scott 1999). Non solo, infatti, l’appello all’esperienza riprodurrebbe il sistema ideologico dominante secondo il quale i fatti «parlano», ma con esso la «differenza» si troverebbe neutralizzata, e la «resistenza» collocata al di fuori della sua cornice discorsiva: nella misura in cui, come giustamente ricorda Scott, «non sono gli

individui che hanno esperienza, ma i soggetti che sono costituiti tramite l’esperienza» (Scott 1992, pp. 25-26). Se dunque l’esperienza è una categoria intimamente «fondazionale» che immette ogni tentativo di storicizzare l’oppressione in una logica ineluttabilmente circolare, una «storia della differenza» non può che tendere all’inverso a configurarsi come una storia non fondazionale o, ancor di più, come una «storia senza fondazioni». Proprio con il termine «storia post-fondazionale», d’altro canto, lo storico dei Subaltern Studies Gyan Prakash ha inteso indicare quell’alternativa al paradigma storiografico «fondazionale» – il paradigma che pensa che ogni storia sia fondata, e dunque rappresentabile, unicamente a partire da qualche identità (di individuo, di classe o di struttura) non ulteriormente scomponibile in parti eterogenee – incentrata sullo studio non già di «essenze», bensì di differenze, vale a dire di «relazioni e processi responsabili della creazione di identità contingenti e instabili»: di una «rete di rapporti e di pratiche» che induce a cogliere le identità (storiche, culturali, politiche) come relazionali anziché come essenziali (cfr. Prakash 1990, pp. 189 sgg.).

2.2. Archivi del silenzio È bene a questo punto rivolgersi a esaminare i modi e le forme con cui le considerazioni sopra formulate investono i protocolli della pratica storiografica e, nello specifico, l’inscrizione e la formazione di ciò che va sotto il nome di «archivio storico»: intendendo, con questo termine, non tanto un mero deposito di tracce e di documenti, quanto piuttosto il precipitato di specifiche istanze (storiche, sociali, istituzionali) di produzione del sapere di per se stesse inscindibili dall’operare di meccanismi e dispositivi di potere. Sebbene il concetto di «archivio» sia stato, com’è noto, magistralmente scandagliato ed esplorato in particolar modo da Michel Foucault e da Michel de Certeau (cfr.

Foucault 1969; de Certeau 1975; ma cfr. anche Ricœur 2000, pp. 234 sgg.), è bene qui soffermarsi su quanto scritto al proposito da Derrida in un testo dedicato all’«archeologia» psicoanalitica e freudiana: In qualche modo, il vocabolo rinvia […] all’arché nel senso fisico, storico o ontologico , cioè all’originale, al primo, al principiale, al primitivo, al cominciamento insomma. Ma ancor di più, e più-tosto, «archivio» rinvia all’arché nel senso nomologico, all’arché del comando. Come l’archivium o l’archium latino […], il senso di «archivio», il suo unico senso, gli viene dall’archeîon greco: in primo luogo una casa, un domicilio, un indirizzo, la residenza dei magistrati supremi, gli arconti, coloro che comandavano. […] Con uno statuto simile, i documenti, che non sono sempre delle scritture discorsive, sono custoditi e classificati in quanto archivi solo in virtù di una topologia privilegiata. Abitano questo luogo particolare, questo luogo di elezione dove la legge e la singolarità si incrociano nel privilegio. All’incrocio del topologico e del nomologico, del luogo e della legge, del supporto e dell’autorità, una scena di domiciliazione diviene assieme visibile e invisibile. (Derrida 1995, pp. 8-9) Vi sarebbe così una violenza dell’archivio, una violenza come archivio, o una «violenza archiviale» (ibid., p. 13), attraverso la quale il potere acquisisce il controllo della memoria e il monopolio del politico come res publica e «cosa comune». Secondo analoghe linee, in un importante volume dedicato alla rimozione e obliterazione – da parte della storiografia occidentale – della rivoluzione degli schiavi di Haiti del 1791 (prima rivoluzione vittoriosa di schiavi che avevano in tal modo rivendicato l’universalità dei principi giacobini contro i loro stessi enunciatori), lo storico haitiano Michel-Rolph Trouillot ha significativamente portato l’attenzione sullo specifico operare di dispositivi di potere che fanno in modo che ogni narrativa storica non sia altro che «un particolare fascio di silenzi» (Trouillot 1995, p. 27).

Dispositivi che fanno leva soprattutto su ben determinate strategie di occultamento e di silenziamento: dove il «silenzio» è «un processo attivo e transitivo: si “silenzia” un fatto o un individuo così come un silenziatore silenzia una pistola» (ibid., p. 48): I silenzi sono inerenti alla storia poiché ogni singolo evento entra nella storia con alcune delle sue parti costitutive mancanti. Qualcosa è sempre lasciato fuori mentre qualcos’altro viene registrato. Non c’è perfetta chiusura di alcun evento, comunque si decida di definire i confini di quell’evento. Così, qualunque cosa diviene un fatto lo diviene con le sue costitutive assenze, specifiche del suo stesso processo di produzione. In altre parole, i medesimi meccanismi che rendono la registrazione storica possibile assicurano anche che i fatti storici non siano creati uguali. Essi riflettono un controllo differenziale sui mezzi di produzione storica nel momento stesso della prima iscrizione che trasforma un evento in un fatto. (Ibid., p. 49) La revisione dei canoni della scrittura storiografica si configura così come un «campo di battaglia per il potere storico» (ibid.), dove ciò che è in questione è la stessa concezione della storia come rappresentazione istituzionalizzata del passato: una storia che si regge sul «realismo» come modalità privilegiata di narrazione e, dunque, su protocolli centrati sul soggetto di un umanismo astratto e universalizzante. Qui in gioco è, in particolare, la categoria di «evidenza storica», ossia l’individuazione di ciò che può essere addotto come «prova» delle verità storiche, implicando con ciò un’intera concezione su quel che vale come «realtà» e come «verità» (ma sulla questione di ciò che può valere come «prova» in storiografia e, in particolare, sui rapporti tra «verità storica», «prova» e «retorica», cfr. Ginzburg 2000). Già Jean-François Lyotard aveva a suo tempo denunciato la concezione strettamente «protocollare» dell’accertamento dello statuto di realtà di un evento

(concezione intimamente legata a un modello seriale di temporalità), definendola «totalitaria alla sua radice» e contrapponendovi un modello narrativo ricorsivo (Lyotard 1983, p. 21). Tuttavia, a differenza di alcuni esiti del cosiddetto postmoderno, la critica postcoloniale – mettendo in discussione il nesso fondante tra storicismo, realismo ed empirismo – non ne deriva una visione meramente «letteraria» o «narratologica» della storiografia, bensì una rilettura intimamente politica delle relazioni tra pratica storiografica e realtà storica: nella misura in cui il fuoco principale dell’indagine, e l’ineludibile campo di studio, continua a risiedere nell’analisi delle strutture del dominio e della subordinazione (cfr. ad esempio Prakash 1990, pp. 20203). Sotto questo profilo, è in particolar modo all’operazione di scavo di Dipesh Chakrabarty che si deve un’acuta focalizzazione delle contraddizioni che hanno tormentato i diversi tentativi di scrittura di una «storia dei subalterni»: come testimoniato dal fatto che, dopo aver rinvenuto in una radice «romantico-populista» la scaturigine delle aporie del progetto originario di Guha – che lo aveva condotto a sovrapporre un’«esperienza» (e una «coscienza») sempre già formata a un campo di battaglia sulle forme stesse di soggettività dei subalterni –, lo storico indiano intraprende un fecondo confronto con le prospettive di Hayden White (cfr. Chakrabarty 2004). In un noto saggio dal titolo The Politics of Historical Interpretation: Discipline and DeSublimation (1982), infatti, White aveva messo a fuoco un movimento di «disciplinamento» della pratica storiografica (un movimento di trasformazione della storiografia in «disciplina» codificata) in tutto e per tutto coincidente con una serie di negazioni e di esclusioni (solo all’apparenza «stilistiche») gravide di conseguenze rispetto al tipo di eventi che possono essere storicamente narrati (cfr. White 1987). Più specificamente, White registrava una resa della scrittura storiografica a un modello essenzialmente «deliberativo» (fondato sulle «regole dell’evidenza») di

discorso, dal quale discenderebbe – a parere dello storico – una forma di «addomesticamento politico dei fatti storici»: Sia per la sinistra sia per la destra […] è l’estetica del bello che presiede il processo con cui gli studi storici si costituiscono come campo disciplinare autonomo. […] Per questa tradizione ogni elemento di «disordine» che viene espresso da un documento storico diventa un semplice fenomeno di superficie: un prodotto delle lacune nelle fonti documentarie, degli errori nella sistemazione degli archivi o di precedenti errori o imprecisioni negli studi. Se questa confusione non è riducibile a quell’ordine che una scienza delle regole richiederebbe, può sempre essere ordinata dagli storici con un appropriato grado di comprensione. (White 1987, p. 70) Gli aspetti «disciplinari» della storia riguardano così una ricerca del «bello» che addomestica politicamente i fatti storici, impedendo loro di mostrare il proprio volto «sublime»: là dove, secondo White, il «sublime» corrisponde a un’innata resistenza della storia all’ordine. Di più: l’imputazione di un significato che «addomestica politicamente» la storia secondo i canoni di un’estetica del «bello» fa tutt’uno con una concezione della spiegazione storica quale, letteralmente, produzione di ordine. È tuttavia proprio in tale nesso tra «disciplinamento» della storiografia e produzione di una realtà «ordinata» che Chakrabarty giustamente individua la giuntura tra la storiografia eurocentrica egemonica e categorie derivate da (o strettamente imparentate con) la filosofia politica moderna. Se è vero che la prima tra le grandi operazioni della «disciplina», come sosteneva Foucault in Surveiller et punir (1975), è la produzione di «quadri viventi», di molteplicità «ordinate» (secondo l’ingiunzione della pratica disciplinare che individua per controllare), allora il metodo empiricoindividualista o, ancor meglio, l’individualismo metodologico caratteristico di quelle forme di storia che obbediscono,

secondo la formula di White, a un’estetica del «bello», allinea la disciplina storiografica con le pratiche disciplinari e normalizzanti dello Stato, rivelando un nesso non contingente bensì costitutivo tra la procedura individualizzante della storiografia egemonica e il mito hobbesiano della sovranità (cfr. Chakrabarty 2004, p. 247). In Les Mots de l’histoire (1992) Jacques Rancière – richiamato dallo stesso Chakrabarty – ha definito «regioempirismo» quest’ «alleanza tra il punto di vista della scienza e quello del posto del re» (Rancière 1992, p. 39): alleanza in virtù della quale non solo viene cancellata l’omonimia che tormenta il termine «storia» (quale «accadimento» e «racconto», history e story, o Geschichte e Historie ), ma gli stessi «assi» del tempo vengono schiacciati su un simultaneo presente «realista»: Ogni avvenimento, negli esseri parlanti, è legato a un eccesso della parola nella forma specifica di uno spostamento del dire: una appropriazione «fuori dalla verità» della parola dell’altro (delle formule della sovranità, del testo antico, della parola sacra) che la fa significare in maniera diversa […]. L’avvenimento trae la propria novità paradossale dal fatto di essere legato al ri-detto, a qualcosa di detto fuori contesto, fuori luogo. L’improprietà dell’espressione è anche una sovrapposizione indebita dei tempi. L’avvenimento ha la novità dell’anacronismo. E la rivoluzione, che è l’avvenimento per eccellenza, è per eccellenza il luogo in cui il sapere sociale si costituisce nella denuncia dell’improprietà delle parole e dell’anacronismo degli avvenimenti. […] Il fantasma originario del sapere sociale è la rivoluzione come anacronismo […]. L’analisi regio-empirista […] procede al contrario, sull’asse dei tempi, tramite la squalifica congiunta delle categorie del passato e del futuro. L’utopia che guida le sue interpretazioni è quella di una scienza le cui categorie sarebbero appropriate al loro oggetto perché ne sarebbero esattamente contemporanee. Il presente è il suo tempo. (Rancière 1992, pp. 52-53)

Contro tale modello «regio-empirista», Rancière prende in esame la rivoluzione delle Annales, che ha dato luogo al passaggio dalla storia dei re alla storia dei mari, degli spazi di «civilizzazione», della longue durée e della vita degli anonimi: una storia che, avendo spinto al limite l’indeterminazione del referente, recupera il proprio carattere di «discorso misto» che semantizza e narrativizza a un tempo. Ancor di più, Rancière – e con lui Chakrabarty – rivendica contro la violenza dei documenti e l’«individualismo metodologico della polizia e del diritto» (Chakrabarty 2004, p. 247) una «forma di sapere propria dell’età delle masse» (Rancière 1992, p. 136), che (facendo nuovamente sfumare la distinzione tra story e history, o tra Historie e Geschichte) sappia produrre «contro-storie» in cui sia inscritta la vita dei subalterni o, secondo l’espressione di Rancière, la «parola eccessiva e fuori luogo». Ma va da sé che un discorso che sia in grado di accogliere la «soggettivazione aleatoria» di singolarità de-essenzializzate e «luoghi di parola che non sono località designabili, bensì articolazioni singolari tra l’ordine della parola e l’ordine delle classificazioni» (ibid., p. 139) non possa che rimettere radicalmente in questione lo stesso statuto della temporalità storica (le sue modalizzazioni, e la funzione del «possibile» in storia) su cui si fonda la rappresentazione (fallace) del continuum alla base della storia monumentale.

2.3. Narrative del possibile Si è visto come, nel quadro della critica postcoloniale, il tentativo di disarticolare la «continuità» orientalista e imperiale si sia giocato innanzi tutto attorno allo sforzo di ripensare le coordinate della rappresentazione storica, a partire da una rivisitazione (postfoucaultiana) delle istanze dell’«archivio» e di ciò che vale come «prova» all’interno della narrazione storiografica, sino alla dichiarata esigenza

di dare luogo a «controstorie» che scardinino dall’interno l’ordine sequenziale su cui si fonda l’egemonia di un ben determinato concetto (unilineare e cumulativo) di processualità temporale. È bene in questa sede notare come una simile istanza di produzione di «controstorie» sia stata messa in opera, secondo coordinate in parte analoghe e nello stesso arco temporale, dal cosiddetto New Historicism (cui teorico ed esponente di maggiore spicco è Stephen Greenblatt), che – alla ricerca di un compromesso tra il radicalismo decostruzionista delle politiche testuali e l’umanesimo tradizionale – ha tentato di configurarsi come una storia delle possibilità che emergono alla superficie della «rappresentazione» attraverso le voci singolari e le visioni idiosincratiche rinvenibili tra le maglie del testo storico (cfr. Gallagher e Greenblatt 2000). In particolare, facendo leva su storie parallele (come la storia del corpo umano, quella dei motivi estetici o delle forme di discorso), il New Historicism ha opposto alla Storia continua e totalizzante della tradizione dominante una forma di «controstoria» il cui fine è stato portare alla superficie e rendere apparenti «gli slittamenti, le rotture, le linee di faglia e le assenze sorprendenti nelle strutture monumentali che hanno dominato il più tradizionale storicismo» (ibid., p. 17). In tale tentativo di delineare una «storia delle possibilità della storia» acquista rilevanza il ricorso strategico al petit récit e all’aneddoto come strumenti per disarticolare il continuum storico e al tempo stesso rivelarne l’eccedenza. In Marvelous Possessions. The Wonder of the New World (1991), ad esempio, Greenblatt – registrando il passaggio dalla meraviglia medioevale come modalità di spossessamento alla meraviglia rinascimentale come spinta all’appropriazione e alla «colonizzazione del meraviglioso» – aveva già fatto giocare le petites histoires (portatrici di uno «shock dell’insolito» e di una «eccitazione locale di meraviglie discontinue») contro il grand récit della storia integrata e progressiva, mostrando come il discorso storico fosse costantemente interrotto da lapsus e asserendo che «se gli

aneddoti sono la documentazione della singolarità del contingente – associati […] con il bordo piuttosto che con il centro immobile e totalizzante – essi sono riportati nello stesso tempo come aneddoti rappresentativi» (Greenblatt 1991, pp. 24-25). Sul piano teorico, il ricorso alla dimensione aneddotica si situa nel punto di intersezione tra le istanze della history from below britannica e un recupero di Foucault quale paradigma del pathos dell’aneddotica storica. Se tuttavia nella storia radicale britannica la contestazione del continuum unidirezionale alla base sia della storiografia liberale sia del determinismo marxista era stata condotta attraverso una dichiarata attenzione all’«esperienza», alla «coscienza», cioè al «fare-mondo» dell’esperienza vissuta (si pensi in particolare ai lavori di Edward Palmer Thompson), è in particolare sul metodo foucaultiano che il New Historicism fa leva per infrangere il continuum dei «grandi racconti». Attraverso di esso, infatti, l’aneddoto appare nella sua natura di residuo o, meglio ancora, di precipitato della lotta senza tregua condotta contro il potere disciplinare e normalizzante materializzato nell’archivio storico (cfr. Gallagher e Greenblatt 2000, pp. 49-73). Si pensi, ad esempio, a quello straordinario e densissimo testo che è La Vie des hommes infâmes (1977), in cui Foucault non solo offriva un «erbario di vite singolari», escluse dal canovaccio della Storia, ma lasciava emergere anche la scena di un potere che attende al varco, perseguita e, in questo modo, individua esistenze infime e infami: Perché qualcosa di esse giungesse fino a noi è stato […] necessario che un fascio di luce le illuminasse anche solo per un istante. Una luce che viene da un altro luogo. Quel che le strappa alla notte in cui avrebbero potuto, e forse avrebbero dovuto rimanere, è l’incontro con il potere: senza questo urto, non ci sarebbero qui parole per ricordarci il loro fugace percorso. […] Tutte queste vite destinate a passare al di sotto di qualunque discorso e a sparire senza mai essere dette, non hanno potuto lasciare tracce – brevi, incisive,

spesso enigmatiche – che nel loro punto di istantaneo contatto con il potere. (Foucault 1977, p. 249) Che cosa stava suggerendo in queste poche righe Foucault? Che lo «sguardo bianco» del potere paradossalmente preserva i soggetti esclusi nell’atto stesso di distruggerli; che il suo «breve lampo» rende visibile il proprio Altro (l’abietto, l’escluso dalla Storia) distruggendolo sì, ma al tempo stesso «pietrificandolo», facendo sì che un’altra storia prenda forma come eterno «paesaggio di rovine» (ma per una critica di tale modello foucaultiano di una cultura che non esiste al di fuori del gesto che la sopprime, si rimanda alla celebre Introduzione a Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg, che lì ingenerosamente taccia Foucault di «irrazionalismo estetizzante» e, ancor di più, di «populismo di segno rovesciato, populismo “nero” – ma pur sempre populismo», cfr. Ginzburg 1976, p. XVII). In tal senso, il richiamo alla potenza aneddotica messo in campo dal New Historicism opera come rimando a una storia liberata di ogni teleologismo: una storia che è la storia delle possibilità della storia, la storia della «virtualità storica» o, ancora, la «storia di ciò che sarebbe potuto accadere». Tale radicale pluralizzazione del passato, secondo la quale l’aneddoto interrompe il continuum storico rivelando «le impronte dell’accidentale, del soppresso, dello sconfitto, dello strano, dell’abietto o dell’esotico» (Gallagher e Greenblatt 2000, p. 52) addita dunque non alla dinamica lineare di una sola economia storica possibile, bensì alla struttura di un’economia alternativa che mette in questione nel modo più essenziale i confini tra modalità di narrazione. E tuttavia, già sul piano del retroterra teoretico, il New Historicism presenta alcune vistose aporie. Per un verso, infatti, l’approccio aneddotico ai testi storici e più generalmente culturali rischia di colludere con una forma intimamente «modernista» di «collezionismo»: là dove, come evidenzia James Clifford in un noto e suggestivo saggio

dedicato al rapporto tra antropologia e surrealismo, ogni «collezione» implica sempre una metastoria che «stabilisce quali gruppi o cose debbano essere riscattati da un passato umano in dissoluzione e quali debbano essere definiti come gli agenti dinamici, o tragici, di un destino comune» (Clifford 1988, p. 26; ma più in generale cfr. pp. 249-88). Le forme aneddotiche e «collezioniste» di descrizione culturale – argomenta Clifford – sono in verità inestricabilmente legate «all’ossessione, alla reminiscenza», proseguendo così la tradizione prettamente «modernista» di una soggettività acquisitiva che fa leva su una costante reificazione del passato, salvato in qualità di «origine» atemporale. Per altro verso, nonostante l’abbandono di un modello «continuista», imperniato sull’assunto di una sostanziale cumulatività della processualità storica, in favore invece di una concezione focalizzata sulle sue rotture e dislocazioni, permane nel New Historicism l’adesione al presupposto che non vi sia nulla «al di qua o al di là della storia»: nulla che non sia in senso proprio storicizzabile. Ma proprio un simile diniego della possibilità della presenza di un nucleo di resistenza alle narrative storicizzanti – della possibilità che qualcosa permanga sempre inarticolato in ogni trama storica – è ciò che conduce il New Historicism a isolare ogni momento storico da quello che lo precede e da quello che lo segue, e a ridurlo tautologicamente alla mera contemporaneità con se stesso. Si è visto viceversa come il campo degli studi postcoloniali, incentrati su una critica agguerrita della categoria stessa di «contemporaneità», abbia invece revocato in questione qualsivoglia forma di «naturalismo» del tempo storico – là dove, sotto il lemma «naturalismo», occorre intendere la convinzione teorico-pratica che tutto sia sempre integralmente storicizzabile – ponendo a tema i fenomeni di rimozione della fondamentale an-acronia (se non «a-cronia») che abita il tempo storico, e facendo emergere di conseguenza la paradossale logica «anacronistica» dei movimenti rivoluzionari e/o anticoloniali.15 È stato scritto –

sulla scia del già citato Rancière – che lo storico non può non tener conto dell’anacronismo, di quell’«altro tempo» che è «quel tempo che si sperimenta quando il tempo è, in modo molto shakespeariano, “fuori dei cardini”, quell’altro tempo che bisogna in ogni caso postulare, non foss’altro che per dare uno statuto a tutto ciò che, in un’epoca, si pensa prima di essa, sul modo dell’anticipazione» (Loraux 2005, p. 173): a tutto ciò, dunque, che ha a che vedere con la ripetizione.16 Un analogo imperativo teorico governa, come si è detto, la critica postcoloniale: e ciò nella misura in cui i «passati subalterni» (subaltern pasts) sono «passati che oppongono resistenza alla storicizzazione» (Chakrabarty 2000, p. 140), esponendo i limiti epistemologici di ogni «storicismo». Operando come «supplemento» del passato storico, essi sono «segnali che marcano il confine» (ibid., p. 152), portando alla ribalta una fondamentale non-contemporaneità del presente con se stesso che lacera la serialità del tempo storico e simultaneamente rimanda al doppio vincolo che tesse insieme presente e passato, al di là di ogni discorso accademico o disciplinare sulla storiografia.

3. Aporie della memoria La vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. È un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Marc Augé, Le temps en ruines

3.1. Il diritto del passato: rovine e altri resti La critica postcoloniale alla matrice «storicista» del pensiero storico e politico europeo e occidentale non si risolve in una semplice liquidazione del problema della storicizzazione. Il rapporto tra i «passati subalterni» e la storicizzazione, infatti, non si configura in alcun modo come una relazione di mutua esclusione, richiamando piuttosto l’attenzione su un campo di tensione generato da intersezioni multiple tra passato, presente e futuro, che mette in scacco qualsiasi visione lineare e progressiva del tempo storico. Nel descrivere la storia caraibica – storia di popolazioni violentemente derubate ed espropriate della propria storicità – Édouard Glissant arriva a concepire il passato in termini «profetici», come un passato ancora avvinghiato e fuso con il presente, passato la cui immagine il teorico e lo scrittore devono costantemente tentare di afferrare: Il passato, a cui eravamo soggetti, che non è ancora emerso come storia per noi, è tuttavia ossessivamente

presente. Il compito dello storico è esplorare questa ossessione, mostrare la sua continua rilevanza per l’immediato presente. Questa esplorazione, quindi, non è legata né a una cronologia schematica né a un lamento nostalgico. Essa porta all’identificazione di una nozione dolorosa di tempo e alla sua proiezione piena verso il futuro, senza l’aiuto di quegli strati nel tempo di cui l’Occidente ha beneficiato, senza l’aiuto di quel destino collettivo che è il valore primario di una ancestrale patria culturale. Questo è ciò che io chiamo una visione profetica del passato. (Glissant 1989, p. 64) Una simile «visione profetica del passato» – per la quale il passato è al contempo ossessione e proiezione verso il futuro – fa tutt’uno con una concezione della storia come costitutivamente «noncompiuta» o, per riprendere Walter Benjamin, unabgeschlossene. Il riferimento al Benjamin delle tesi Über den Begriff der Geschichte è d’altro canto persistente e cruciale in larga parte della critica postcoloniale. 17 E ciò non solo per la critica corrosiva indirizzata al concetto di «progresso» (Fortschritt) e al suo necessario correlato, ossia l’idea che «la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto» (Benjamin 1979, p. 45). Ma anche in ragione del radicale ribaltamento degli «assi» del tempo lì operato, in virtù del quale è il passato ad assurgere a terminus ad quem dell’anelito storico alla liberazione. Nella celebre tesi II, dopo aver affermato che ogni passato «reca in sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione (Erlösung )», Benjamin si domandava infatti: «Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute?» (ibid., p. 23). Le voci mute e soffocate dal racconto della continuità dei vincitori segnalano qui un originario diritto del passato, rinnovato costantemente da un «appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra» (ibid.). L’Erlösung, o la redenzione, prende così la forma non di una

mera rammemorazione storica delle vittime del passato, ma di un compimento, da parte del presente, di ciò che sarebbe potuto essere ma non è stato: una restitutio ad integrum o una restitutio omnium che è al tempo stesso un novum.18 L’immagine benjaminiana della storia come costellazione critica che un particolare frammento del passato forma specificamente con un particolare momento del presente, aprendosi in tal modo alla «redenzione», è in tutto e per tutto fatta propria dalla critica postcoloniale: per la quale il presente, incrociandosi con il «passato» (Vergangenheit ), si converte nell’«attimo» (Augenblick) – o meglio, nell’«adesso» (now) radicale e democratico di cui parla Chakrabarty – non già in virtù di una tensione utopica verso il futuro, ma in ragione del balenare dell’immagine del passato non risarcito degli oppressi, delle vittime e dei senza-nome.19 La potenza e l’attualità delle tesi benjaminiane da un’ottica postcoloniale risiedono dunque in una radicale riapertura del passato, incentrata sulla consapevolezza che la variante storica che ha trionfato non è l’unica possibile; che alla concezione storicista e quantitativa del tempo storico come «accumulazione» si contrappone un tempo qualitativo, eterogeneo e pieno: una «tradizione degli oppressi» radicalmente discontinua (nei Materiali preparatori delle tesi benjaminiane leggiamo: «La storia degli oppressi è un discontinuum […] Il continuum della storia è quello degli oppressori. Mentre l’idea di un continuum livella al suolo ogni cosa, l’idea del discontinuum è il fondamento della vera tradizione», cfr. Benjamin 1979, p. 83; ma sul concetto di «tradizione» in Benjamin cfr. soprattutto Arendt 2004, pp. 63 sgg.), intessutasi nel corso del succedersi delle forme storiche di dominazione e di oppressione. Il passato dal punto di vista degli oppressi non è infatti il continuum cumulativo delle conquiste, ma una serie interminabile di «interruzioni», di «fallimenti». In una suggestiva lettura delle Tesi sul concetto di storia Eric Santner ha individuato in tali fallimenti dei «sintomi» che insistono sul presente,

riconfigurando l’azione democratica e rivoluzionaria come un’azione volta a ripetere /redimere i tentativi falliti del passato: i sintomi non sono tanto azioni dimenticate, ma piuttosto fallimenti caduti nell’oblio, tentativi abortiti di sospendere la forza del legame sociale che inibisce gesti di solidarietà verso gli altri. I sintomi registrano non solo tutti i falliti tentativi rivoluzionari del passato ma, più modestamente, ogni mancata risposta a una chiamata all’azione o anche solo all’empatia per coloro la cui sofferenza appartiene alla forma di vita di cui si è parte. Occupano il posto di qualcosa che è là, che insiste sulle nostre vite pur non avendo mai raggiunto una piena consistenza ontologica. I sintomi, quindi, sono in un certo senso archivi virtuali di lacune, o meglio, difese contro le lacune che persistono nell’esperienza storica. (Cit. in Žižek 2002, pp. 75-76) Qui, come è stato notato, risiede il nesso inestricabile che stringe insieme postcolonialismo e anticolonialismo: nel senso profondo che acquisisce il fallimento storico di quest’ultimo, nel suo essere insieme un archivio di «lacune» e un «sintomo che insiste» sul presente (cfr. Mezzadra e Rahola 2003; ma sul rapporto strettissimo che intercorre tra anticolonialismo e postcolonialismo cfr. in generale Young 2001). Sotto questo profilo, la storia diviene non solo una storia «parziale» (in quanto dettata dalla «costellazione» di volta in volta singolare formata dall’incontro tra passato e presente), ma anche una storia «partigiana»: una storia critica che, mirando al riscatto del passato, si configura innanzi tutto come una soteriologia. Per riprendere le parole di uno studioso italiano quale Enzo Melandri, intento a esplorare la profondità di campo teoretica della categoria (insieme freudiana e foucaultiana) di «archeologia», una «“storia critica” non può certo esser risolta in pura e semplice metodologia storiografica. Essa deve ripercorrere in senso inverso la reale genealogia degli eventi di cui si

occupa. La divisione che si è venuta a stabilire fra storiografia (historia rerum gestarum) e storia reale (res gestae) è molto simile a quella che da sempre sussiste fra conscio e inconscio secondo Freud. Perciò la storia critica ha la funzione di una terapia mirante al recupero dell’inconscio come “rimosso” storico. […] Si tratta dunque di una regressione: non però all’inconscio come tale, bensì a ciò che lo ha reso inconscio – nel senso dinamico di rimosso. […] Così inteso, il concetto di regressione diventa tanto ampio da comprendere nella sua virtuale giurisdizione non solo il Don Giovanni di Mozart o la Traumdeutung di Freud, ma anche il Black Power e ogni altra emergenza del rimosso, dell’escluso e dell’alienato. La storia dunque può dirsi critica solo nella misura in cui è recupero dell’alienato, dell’escluso e del rimosso» (Melandri 2004, pp. 65-67). La «regressione non razionalizzatrice» di cui consiste, nelle parole di Melandri, la storia critica ha dunque come proprio oggetto e termine la «storia di una cosa non avvenuta», analogamente a quanto accade nel progetto storico-critico degli «studi subalterni». Essa, in altri termini, è sì una soteriologia, ma anche – al tempo stesso – una rovinologia: regredendo nel passato con lo sguardo rivolto al futuro, secondo una potente inversione simbolica della figura dell’angelo della storia benjaminiano. Così concepita, la storia appare come un costrutto allegorico che espone le rovine del tempo: là dove – come scrive Dipesh Chakrabarty in un saggio significativamente intitolato After History – alla domanda su che cosa venga «dopo la Storia», occorre ricordarsi non solo che quest’ultima sorge sulle rovine di altre forme di passato; ma anche che quei passati «muoiono» quando i loro oggetti cominciano ad apparire quali meri resti o spoglie (cfr. Chakrabarty 2005). Se è vero che le rovine non sono il semplice risultato di una sottrazione, di una consunzione, ma recano su loro stesse la traccia di forme in perpetua evoluzione in risposta allo sguardo che su di esse si posa, altrettanto vero è che esse rappresentano il segno di un tempo che sfugge o resiste alla Storia: alla pulsione storicizzante di un procedere temporale

che inghiotte e cancella il passato assorbendolo in una dimensione omogenea e indifferenziata. Un simile paradigma «rovinologico» e «stratigrafico» del tempo storico era stato d’altro canto evocativamente accennato già da Claude LéviStrauss proprio in relazione all’organizzarsi dell’etnografia occidentale rispetto ai tempi e ai luoghi «altri» cui si faceva incontro, là dove Lévi-Strauss in Tristes Tropiques si trovava ad affermare che, «archeologo dello spazio», era costretto a «ricostruire l’esotismo con l’aiuto di frammenti e rottami» (Lévi-Strauss 1955, p. 41). Ma l’analogia tra tempo e rovine si approfondisce poco oltre nel testo, additando a una dimensione del tempo che resiste a ogni spinta storicizzante e al tempo stesso dà luogo a un’economia temporale la cui fisionomia deve ancora essere oggetto d’indagine: Trascinando i miei ricordi nel suo fluire, il tempo, più che logorarli e seppellirli, ha costruito coi loro frammenti le solida fondamenta che procurano al mio procedere un equilibrio più stabile e contorni più chiari alla mia vista. Un ordine è stato sostituito con un altro. Fra questi due pilastri che segnano la distanza fra il mio sguardo e il suo oggetto, gli anni che li corrodono hanno cominciato ad ammassare i frammenti. Gli spigoli si assottigliano, intere fiancate crollano; i tempi e i luoghi si urtano, si sovrappongono o si capovolgono, come sedimenti smossi dal tremito di una scorza decrepita. Un antico particolare insignificante emerge come un picco, mentre interi strati del mio recente passato si cancellano senza lasciare traccia. Avvenimenti senza rapporto apparente, provenienti da periodi e da regioni eteroclite, scivolano gli uni sugli altri e all’improvviso si immobilizzano in una specie di castello del quale abbia studiato i piani un architetto più sapiente di questa mia storia. (Lévi-Strauss 1955, p. 42) Ma va da sé che un simile paradigma «rovinologico» – incentrato sulla consapevolezza della «capacità di morire» dei passati e sulla tensione a recuperarne il profilo e ciò che

in essi è stato teso alla liberazione – non può che implicare rilevanti conseguenze in ordine alla questione (politica e metodologica) della scrittura della storia.

3.2. Sublime storico e narrazione Si è visto come il rapporto di intersezione e di mutua e irriducibile coimplicazione tra le modalizzazioni del tempo cristallizzate nelle dimensioni del presente, del passato e del futuro, assuma – nel quadro di una critica postcoloniale che ha fatto propria e rielaborato la celebre revisione benjaminiana della cultura «storicista» europea e occidentale – un profilo radicalmente politico, là dove diviene strumento per ripensare l’asse della «liberazione» come ricongiunzione tra l’esperienza delle vittime del passato e l’agire di coloro che di quella sofferenza e oppressione «decidono» di farsi carico secondo l’urgenza dell’oggi o dell’attualità. È bene adesso tornare al dibattito attorno alla pratica storiografica e in particolare attorno alla «scrittura» della storia: di una storia «non accaduta» o, ancora meglio, di una storia «senza testimoni» (sulla categoria di «evento senza testimoni», elaborato in relazione alle catastrofi novecentesche, e più specificamente in rapporto alle ripercussioni di una storia nella sua essenza «non superata» (not over), una storia le cui conseguenze e ripercussioni sono in perpetua evoluzione, cfr. Felman e Laub 1992). In questo contesto, è ancora Dipesh Chakrabarty a offrire un’utile traccia di analisi, là dove – prendendo in esame opportunità e aporie della scrittura di una «storia dei subalterni» – rimanda alla nozione di Hayden White di «sublime storico»: vale a dire all’idea di un innato disordine della storia (o di una innata resistenza della storia all’ordine), irrecuperabile se non a partire da modelli retorici e narratologici che rinviano a loro volta a sottostanti scelte politiche e ideologiche (ma sulla dimensione ideologica o «metastorica» che, irriducibile in ogni resoconto storico,

renderebbe imprescindibile un modello di analisi «retorico», il riferimento canonico è a White 1973). Chakrabarty riprende tale categoria di «sublime storico», declinandola a partire dall’esigenza di scrittura di una storia degli oppressi e dei subalterni, e domandandosi di conseguenza: «Se i processi storici sono caratterizzati da quello che White chiama “disordine”, e se non si vuole semplicemente addomesticare questo aspetto “incomprensibile” della storia facendo sembrare tutto ordinato, come si potrebbe tuttavia affrontare la rappresentazione dell’irrappresentabile, ovvero il sublime?» (Chakrabarty 2004, p. 236). Per comprendere la posta qui in gioco è opportuno tuttavia prestare attenzione al contesto in cui White viene sviluppando, e in parte rivedendo, la posizione radicalmente «narratologica» e «costruttivista» elaborata nel suo testo più noto, Metahistory (1973), per la quale l’unica modalità per costruire e discriminare i resoconti storici risponderebbe a un criterio di «efficacia narrativa». L’idea di «sublime storico», infatti, introduce sì alla questione metodologica della «scrittura» della storia (con le connesse aporie legate al problema della «referenzialità» del discorso storico), ma rimanda ancor di più al problema della storicizzazione di eventi traumatici e delle modalità storiografiche di scrittura del trauma (di cui l’Olocausto è, con ogni evidenza, occorrenza paradigmatica e oggetto primario di studio): un problema, dunque, che non poteva che tormentare l’approccio squisitamente tropologico e retorico di White. Nell’importante saggio del 1992 The Historical Emplotment and the Problem of Truth, White si confronta con le aporie del proprio modello tropologico a partire dall’idea di «limiti assoluti» posti alla rappresentazione storica da parte di una certa classe di eventi traumatici particolarmente intrattabili alla luce di uno strumentario storiografico convenzionale, sia esso positivista o costruttivista. Il saggio di White si inserisce per la verità all’interno di una querelle svoltasi su suolo americano attorno alla nozione di «limite della rappresentazione»,

nozione che dà il titolo a un significativo volume curato dallo storico Saul Friedlander, Probing the Limits of Representation , che rende conto di un confronto tenutosi nel 1989 sulla nozione di «verità storica» contrapponendo studiosi come, per l’appunto, Hayden White e Carlo Ginzburg (cfr. Friedlander 1992). Le linee della discussione lì articolata ruotavano attorno all’idea di «limiti della rappresentazione», vale a dire attorno al problema dei prerequisiti di rappresentabilità di eventi estremi e della capacità delle forme canoniche di storiografia di accogliere esperienze storiche traumatiche quali la «soluzione finale». Come evidenziato da Paul Ricœur, in questo contesto la categoria di «limite della rappresentazione» va declinata secondo due registri differenti: poiché si tratta sia di un limite esterno, concernente l’esaurimento delle forme di rappresentazione disponibili nella nostra cultura, sia di un limite interno, di una «esigenza di essere detto» che si leva dal cuore stesso degli eventi, e che «impedisce di soggiornare in terra semiotica» (Ricœur 2000, p. 365). A partire da questo dibattito si è dispiegata una varietà di posizioni che ha revocato in questione i canoni della scrittura storiografica, sia essa concepita secondo il protocollo positivista-documentario o secondo il paradigma retorico-costruttivista. Per quel che qui ci interessa, tuttavia, è bene soffermarsi sul già citato saggio di White, ripreso e fatto proprio da Chakrabarty. In esso White, appellandosi al noto intervento di Roland Barthes Scrivere: un atto intransitivo?, invoca infatti un «analogo discorsivo» dell’antica «voce media» come modalità né oggettiva né soggettiva, ma oggettivo-soggettiva di scrittura dell’esperienza delle vittime (cfr. White 1992, pp. 98 sgg.). Ciò accade perché la «voce media» è una voce che non è né attiva (soggetto) né passiva (oggetto) e, di conseguenza, tende a mitigare a parere di White la dicotomia soggetto/oggetto che caratterizza il «realismo» disciplinare della prosa storica, facendo segno piuttosto a un rapporto di mutua immanenza tra agente e azione, discorso e referente:

a una dimensione, cioè, antecedente alla distinzione tra agente e paziente, soggettività e oggettività, fatto e finzione, storia e mito. In tal modo, la «voce media» giocherebbe il ruolo della différance derridiana, resistendo a qualunque opposizione binaria e configurandosi come la «voce inbetween» dell’indisponibilità e ambivalenza di ogni posizione. Tuttavia, come messo in luce in maniera cristallina dallo storico statunitense Dominick LaCapra, l’importante saggio di White presenta vistose aporie. LaCapra, infatti, non solo pone in evidenza come il dibattito generato dall’interrogativo sui requisiti di «rappresentabilità» storica dell’Olocausto sollevi, in forma accentuata, problemi che sorgono di fronte ad altre serie di eventi estremi e traumatici altamente «investiti d’affetto» (highly catheched) (cfr. LaCapra 2001): di fronte, in altri termini, agli «Olocausti degli altri» (cfr. Davis 2001). Ma indirizza anche lo sguardo sulla dimensione transferale del rapporto al passato (vale a dire sull’implicazione costituente del presente dello storico nel proprio oggetto di studio), denegata sia dagli approcci documentari sia dagli approcci costruttivisti. Di qui la proposta – accolta dallo stesso Ricœur – di applicare la coppia psicoanalitica di acting out e working through (corrispondente alla diade freudiana, formulata nel saggio del 1914 Ricordare, ripetere, rielaborare, di Wiederholung e Durcharbeitung: cfr. Freud 1914) alla comprensione delle dinamiche della scrittura storiografica.20 Da questo punto di vista, il saggio di White appare sintomatico di un’impasse in cui cade larga parte del pensiero contemporaneo, per il quale l’insistenza su indecidibilità e différance, aporie e double bind, appare come l’unica garanzia dell’assenza di totalizzazione metafisica e di chiusura della storia e del soggetto. Se è vero, infatti, che «c’è un senso in cui il transfert indica che si inizia la ricerca in una “posizione” di voce media», indecidibilità e différance, minacciando di disarticolare relazioni, di confondere sé e altro, e di far collassare ogni distinzione, «sono legate al transfert e prevalgono nel

trauma e nell’acting out post-traumatico, nel quale si è ossessionati o posseduti dal passato e catturati performativamente nella ripetizione compulsiva di scene traumatiche – scene in cui il passato ritorna e il futuro è bloccato o fatalisticamente preso in un feedback loop melanconico» (LaCapra 2001, p. 21). Si pensi, ad esempio, all’insistenza dell’ultimo Derrida sui temi della «spettralità» e del «lutto impossibile», sulla necessità di una logica della hantise o di una hantologie generalizzata (cfr. Derrida 2002), per la quale il ritorno del passato prende la forma dell’«ossessione» (hantise), della ripetizione, di un dis-sesto del tempo che, gettando i modi temporali nell’indistinzione, non fa che destabilizzare continuamente il presente. Ma se nell’acting out, o nella coazione-a-ripetere, ogni dualità o doppia iscrizione del tempo in passato e futuro collassa divenendo produttiva di aporie e double bind, proprio nell’insistenza su indecidibilità e ambivalenza – di cui White si è fatto sostenitore sul piano della storiografia – è possibile discernere una «struttura mitica» che si lega a una pratica di «ripetizione melanconica» (acting out) in virtù della quale il «trauma storico» è convertito, secondo una formula di sacralità dislocata, in occasione per il «sublime». A tale concezione incentrata sulla radicale ambivalenza di ogni posizione – o sull’«indecidibilità» di una «voce media» della storia – si contrappone una visione del passato storico come scena di perdite che possono essere narrate: dove il processo di working through (il freudiano Trauerarbeit, o la «ri-elaborazione») implica innanzi tutto una pratica di «traduzione» e di «figurazione» della perdita. Sotto questo profilo acquistano rilevanza pratiche tipicamente «postcoloniali» come il testimonio latino-americano e le diverse Commissioni sulla verità e la riconciliazione istituite negli ultimi trent’anni in America latina, Africa e Sudafrica. La pratica del testimonio – associata quasi esclusivamente con l’America latina e al centro di un esteso dibattito a partire dagli anni ottanta – consiste nella registrazione e trascrizione di un racconto orale di violenza e oppressione

da parte di un interlocutore esterno, scrittore, attivista o giornalista (cfr. Beverley 1989, e Beverley e Zimmerman 1990). Se la «testimonianza» nelle società occidentali è ricalcata per intero su un modello legale, qui si dà al contrario una radicale problematizzazione della distinzione tra storia e letteratura che riconfigura la stessa nozione di «verità» nella rappresentazione, costituendo una sorta di «zona di indeterminazione» che infrange le compartimentazioni tra i generi del discorso. L’obiettivo primario di una pratica quale il testimonio è infatti la costruzione di una intimidad pública e, soprattutto, di un soggetto collettivo del discorso che si faccia carico di una narrativa comune. Si pensi al celebre inizio di I, Rigoberta Menchú (Me llamo Rigoberta Menchú y asi me nació la conciencia) della guatemalteca Rigoberta Menchú (vincitrice, nel 1992, del Premio Nobel per la Pace): «Il mio nome è Rigoberta Menchú. Ho ventitré anni. Questa è la mia testimonianza. Non l’ho appresa da un libro e non l’ho appresa da sola. Vorrei sottolineare che questa non è solo la mia vita, è anche la testimonianza del mio popolo» (cfr. Menchú 1983, p. 1). Tale affermazione di un’autoidentità che è inseparabile dall’identità collettiva del gruppo oppresso quale modalità attraverso la quale la «verità storica» dell’oppressione può essere testimoniata, è alla base di quelle forme discorsive di rielaborazione pubblica di una memoria collettiva che sono state le diverse Commissioni sulla verità e la riconciliazione. In particolare, la celebre Truth and Reconciliation Commission sudafricana, voluta da Nelson Mandela e presieduta dall’arcivescovo Desmond Tutu dal 1996 al 1998, è ruotata attorno al tentativo di definire una «giustizia di transizione» (transitional justice) sulla base di una «politica della memoria» che, attraverso la rielaborazione di quella che in altro contesto Primo Levi ha definito «violenza non necessaria», fosse in grado di stabilire una nuova corrispondenza tra la realtà e le violenze del passato e l’appartenenza a un presente che di quel passato deve farsi carico. In questo caso, come sottolineato da Eva

Hoffmann, il gesto performativo del ricordo e del riconoscimento pubblico hanno avuto come obiettivo specifico una forma di ridirezionamento simbolico in grado di stabilire un «demarcatore metaforico» tra passato e presente: in grado, in altri termini, di separare il passato dal presente e, di conseguenza, di comprendere il passato come passato (cfr. Hoffmann 2004). Sebbene tali Commissioni abbiano rappresentato esperimenti spesso fragili e controversi di ricostruzione di una memoria politica e culturale condivisa nello spazio postcoloniale – di delineazione, cioè, di «figure del ricordo» entro le quali le singole memorie individuali e la memoria collettiva potessero essere ancorate –, esse costituiscono nondimeno l’istanza storica più preziosa di un «esercizio pubblico del lavoro di memoria e del lutto» (Ricœur 2000, p. 686), in grado di far segno a una riorganizzazione (politicamente costruttiva e al tempo stesso sottratta ai codici astrattamente storicizzanti di una temporalità che rimuove, assorbendolo, il suo passato) delle tre dimensioni, al tempo stesso storiche, sociali e individuali, del presente, del passato e del futuro.

Parte seconda Mappe, soggetti, traduzione

1. Traduzione e transizione Tutto nella storia umana ha radici nella terra, e se da una parte ciò ha significato per noi dover pensare in termini di spazio in cui abitare, dall’altra ha anche voluto dire che dei popoli hanno progettato di possedere territori più vasti e quindi hanno dovuto risolvere il problema degli indigeni che vi risiedevano. Fondamentalmente imperialismo vuol dire pensare in termini di territorio, colonizzare e controllare una terra che non è nostra, che è distante ed è abitata e posseduta da altri. Edward W. Said, Culture and Imperialism Il «colonialismo» e la «colonizzazione» sono dunque soltanto un’intensificazione della cultura, traumatismo su traumatismo, rincaro di violenza, foga gelosa di una colonialità essenziale… Jacques Derrida, Le Monolinguisme de l’autre, ou la prothèse d’origine

1.1. Macchine di scrittura In Orientalism (1978) Said ha ripetutamente descritto l’Oriente come un «universo testuale», come il residuo o il precipitato – al tempo stesso materiale e dottrinale – di una irrefrenabile pulsione dell’Occidente alla testualizzazione dell’alterità: dove, secondo lo stereotipo, il rap-presentare occidentale (materializzato in testi e resoconti letterari, etnografici, filosofici, o economico-politici) era immancabilmente contrapposto a un impenetrabile e irredimibile silenzio orientale (Said 1978, pp. 58 e 97 sgg.). Contro il presunto «testualismo» della riflessione di Said (e

della gran parte degli esponenti della critica postcoloniale) si sono concentrate, nel corso degli anni, le critiche più agguerrite di chi ha sostenuto che l’interesse prevalentemente testuale, se non letterario, della colonial discourse analysis sia avvenuto e avvenga alle spese di indagini storico-materialistiche puntuali, facendo tutt’uno con una radicale obliterazione della traiettoria intimamente capitalistica del progetto imperiale (cfr., da ultimo, Parry 2004; ma anche Ahmad 1992; Lazarus 1999 e Dirlik 2000). E tuttavia, non solo Said ha incessantemente rivendicato la densità storico-materiale, o la wordliness, delle trame testuali analizzate (cfr. Said 1983 e 2004), ma ha anche offerto una definizione del concetto di «orientalismo» (finito per coincidere col termine stesso di «colonialismo») che complica nel modo più essenziale la prospettiva sopra schematicamente delineata. A più riprese, infatti, Said ha portato all’attenzione e sottolineato la natura sistematica dell’imperialismo: il suo essere, in senso stretto, una «macchina» o un «sistema». Proprio tale concezione «sistemica» o «macchinica» dell’orientalismo ha costituito d’altro canto il terreno per leggervi un più articolato e complesso dispositivo di alterizzazione: una othering machine , per riprendere la formula di Spivak (1999), che procede attraverso la produzione incessante di confini e l’incorporazione differenziale di territori e popolazioni nel quadro del progetto imperiale. Una simile rappresentazione del colonialismo come «macchina» ha tuttavia non poche implicazioni in ordine a un ripensamento dello stesso concetto ambivalente di «testualizzazione»: soprattutto là dove si metta in luce come qualsivoglia «macchina di scrittura» (della terra, delle culture, dei significati) sia sempre, per implicazione, anche una «macchina di traduzione». È stato recentemente sottolineato come la traduzione sia non solo la dinamica politica del postcolonialismo (quale mappatura di dislocazioni linguistiche, culturali, geografiche), ma anche il punto cieco che l’analisi postcoloniale si propone di

illuminare (cfr. Young 2003, pp. 165 sgg.). Se è vero infatti che ogni processo traduttivo, lungi dall’avvenire in un vacuum, si dispiega in un continuum sul quale imprime tagli, cesure, rotture, muovendo da una relazione originariamente dissimmetrica (tra testi, autori, o sistemi); se è vero cioè che esso, piuttosto che rimandare a un rapporto di eguaglianza o equità, prende le vesti di un processo unidirezionale che implica sempre forme materiali e simboliche di violenza; appare tanto più evidente il nesso costitutivo che stringe colonialismo e traduzione (Bassnett e Trivedi 1999, pp. 2 sgg.; cfr. anche Adamo 2007, pp. 197 sgg.). E ciò non solo in ragione del fatto che pratiche di traduzione (di testi e universi culturali) hanno sistematicamente sostenuto le operazioni di conquista dei territori nativi, ma anche – e ben più in profondità – perché una colonia stessa nasce come una traduzione, come la «copia di un originale situato altrove» (Bassnett e Trivedi 1999, p. 5). Non pare allora azzardato guardare alla colonizzazione come a un processo di traduzione smaterializzante (Young 2003, p. 166): un processo nel corso del quale l’alterità (etnica e culturale) è stata tradotta, «decodificata», o ancora, «deterritorializzata», secondo protocolli linguistici ed epistemologici a essa estranei, per trovarsi poi «ricodificata» o «riterritorializzata» in una posizione di subordinazione radicale. Tale modello di «decodificazione» e «ricodificazione», o di «deterritorializzazione» e «riterritorializzazione», non può tuttavia che richiamare uno schema diagnostico delle dinamiche del capitalismo che, facendo capo a Gilles Deleuze e Félix Guattari, è stato oggi da più parti interamente reinvestito e rilanciato (Deleuze e Guattari 1972; Hardt e Negri 2000; Braidotti 2006). In l’AntiŒdipe (1972) – opera, peraltro, poco frequentata dagli autori postcoloniali – Deleuze e Guattari hanno infatti messo a punto un «modello dinamico per il processo di colonizzazione» (Young 2003, p. 170) che può fungere da efficace contraltare rispetto alla centralità talvolta preponderante attribuita, nell’ambito della critica

postcoloniale, alla sola dimensione della «costruzione discorsiva» dell’alterità. E ciò nella misura in cui nel primo dei due volumi di Capitalisme et schizophrénie si trova dispiegata un’analisi dei dispositivi capitalistici che si proietta immediatamente su una superficie globale, riconfigurando il capitalismo stesso come una forma di «cartografia» o, ancor meglio, come una «epistemografia» del globo terrestre nella quale dinamiche materiali e dinamiche immaginarie sono originariamente coimplicate: Spetta alla libido investire il campo sociale in forme inconsce, e quindi allucinare tutta la storia, delirare le civiltà, i continenti e le razze, e «sentire» intensamente un divenire mondiale. Niente catena significante senza un cinese, un arabo, un Negro, che sporgono il capo e vengono a turbare la notte d’un Bianco paranoico. (Deleuze e Guattari 1972, p. 109) Accanto a una teoria sociale del desiderio, una teoria del «fantasma di gruppo» che conduce ad «allucinare la storia», «delirare le razze» e «infiammare i continenti» (ibid., p. 117), Deleuze e Guattari elaborano un modello «geospaziale» delle dinamiche del capitalismo che include nel proprio seno un’analisi dello stesso colonialismo. Senza che sia possibile addentrarsi in questa sede nella complessa e controversa analisi sviluppata nell’Anti-Œdipe, è bene tuttavia qui soffermarsi su alcune delle sue coordinate teoriche fondamentali e, in primo luogo, sull’immagine lì delineata del capitalismo come, letteralmente, una «macchina di scrittura», incentrata sulle funzioni complementari di «decodificazione» e «ricodificazione» dei flussi sociali. Non solo, infatti, la decodificazione dei flussi sociali nella forma astratta del valore (e la conseguente «deterritorializzazione del socius») costituiscono, per Deleuze e Guattari, la tendenza più intima del capitalismo; ma quest’ultimo, per poter garantire la propria sopravvivenza, deve al tempo stesso invertire e inibire tale

tendenza, imbrigliando e riterritorializzando quanto ha precedentemente deterritorializzato: Il capitalismo non cessa […] di contrariare, d’inibire la sua tendenza nel tempo stesso in cui vi si precipita: non cessa di respingere indietro il suo limite nel tempo stesso in cui vi tende. Il capitalismo instaura o restaura ogni sorta di territorialità residue o fattizie, immaginarie o simboliche, sulle quali tenta, bene o male, di ricodificare, di tamponare, le persone derivate dalle quantità astratte. Tutto passa o ritorna, gli Stati, le patrie, le famiglie. […] c’è il duplice movimento della decodificazione e della deterritorializzazione dei flussi, e della loro riterritorializzazione violenta o fattizia. Più la macchina capitalistica deterritorializza, decodificando e assiomatizzando i flussi per estrarne il plusvalore, più i suoi apparati annessi, burocratici e polizieschi, riterritorializzano a più non posso assorbendo una parte crescente di plusvalore. (Deleuze e Guattari 1972, p. 37) Se tale doppio movimento, come vedremo, è coestensivo al capitalismo quale «assiomatica immanente» di flussi decodificati (flussi di denaro, di lavoro, di prodotti), occorre, in questo contesto, prestare attenzione a due aspetti preliminari. In primo luogo, la centralità che, in questo modello, è conferita alla questione fisicogeografica dello spazio: in virtù della quale è possibile affermare che l’«unità primitiva, selvaggia, del desiderio e della produzione, è la terra» (ibid., p. 155). Tale centralità, infatti, non solo rimanda all’atto originario di espropriazione violenta e di conquista territoriale su cui si è retta l’impresa coloniale, ricordando come il colonialismo abbia implicato innanzi tutto l’appropriazione fisica della terra, la distruzione dei territori nativi e la loro reinscrizione in accordo ai bisogni dell’apparato del potere occupante (cfr. Young 1995, p. 172). Ma segnala anche una tesi ben definita sulla natura e sui modi di funzionamento del potere moderno. Poiché se è vero

che nelle opere scritte entre-les-deux dalla coppia DeleuzeGuattari si dà passaggio da un paradigma statale, o «molare», del potere come esproprio, partizione, spartizione e appropriazione, nella direzione di un potere foucaultianamente diffuso lungo l’intero corpo sociale, l’AntiŒdipe sta a segnalare come l’uno non sostituisca l’altro, bensì lo rafforzi: come il potere quale spartizione/appropriazione della terra rimanga il fondo muto e oscuro dei micropoteri diffusi. È stato, d’altra parte, un geografo marxista quale David Harvey a sottolineare come proprio nella tensione tra «logica di potere territoriale» e «logica di potere capitalistica» risieda la matrice di quella spazializzazione compulsiva che fa tutt’uno con il procedere storico del capitalismo (Harvey 2003, p. 151). Già nel celebre testo The Condition of Postmodernity, Harvey scriveva: Se lo spazio è davvero un sistema di «contenitori» di potere sociale […], allora l’accumulazione di capitale decostruisce perennemente quel potere sociale rimodellandone le basi geografiche. Rovesciando i termini, ogni lotta per ricostruire relazioni di potere è una lotta per riorganizzare le loro basi spaziali. È sotto questa luce che possiamo meglio comprendere perché le società moderne civilizzate «ciò che deterritorializzano da una parte, riterritorializzano dall’altra». (Harvey 1990, p. 291) In altri termini: l’accumulazione capitalistica procede attraverso un movimento continuo di appropriazione e riconfigurazione di spazi precedentemente esterni ed estranei alla logica del capitale, manifestando la necessità di avere perpetuamente qualcosa «al di fuori di sé» per poter garantire la propria stabilizzazione; o ancora, manifestando la necessità di produrre costantemente il proprio «altro», che agisce in tal modo come un ambivalente esterno costitutivo (sul concetto di «esterno costitutivo» cfr. ad esempio Laclau 1995; Butler, Laclau e Žižek 2000). È da

questo punto di vista che Harvey può sostenere che l’odierna globalizzazione del capitale opera come una nuova fase dell’accumulazione «per spossessamento o espropriazione», richiamando con ciò il profilo di quella che Marx definì «accumulazione originaria» o «primitiva» (ursprüngliche Akkumulation ): una fase del processo di accumulazione che, posta da Marx agli albori del capitalismo e caratterizzata dall’impiego di massicce dosi di violenza nell’espropriazione e «recinzione» (enclosure) dei beni comuni, si riproporrebbe oggi su scala mondiale (cfr. Harvey 2003; ma sull’attualità del concetto marxiano di «accumulazione originaria» o «primitiva» si vedano, tra gli altri, Bensaïd 2007 e Mezzadra 2008). D’altro lato, è sempre sotto quest’ottica che è necessario e proficuo guardare alle trasformazioni intervenute nella logica e nella geografia della spazialità globale: una spazialità che, come sostiene efficacemente Ahiwa Ong, lungi dal configurarsi come liscia e priva di attriti, si mostra al contrario sistematicamente attraversata e interrotta da «latitudini», da spazi striati e laterali all’interno dei quali si combinano differenti regimi di disciplinamento e di regolazione del lavoro; all’interno dei quali, soprattutto, prevale una logica dell’eccezione sulla cui base prende corpo l’incessante produzione di un «resto» o – per parafrasare Zygmunt Bauman – di «vite di scarto» (Bauman 2004), che non rientrano (se non sotto l’insegna di una disciplina carceraria e premoderna del lavoro) nei circuiti della produzione e dell’accumulazione (Ong 2006). Ritornando a Harvey, è lungo questa linea di riflessione che è stata da lui formulata l’esigenza di elaborare una rinnovata forma di «materialismo storico-geografico» (Harvey 1996 e 2006): un’analisi, cioè, in grado di registrare l’effetto dirompente che l’introduzione di considerazioni spaziali e geografiche produce nel contesto della teoria sociale predominante, tradizionalmente interessata a processi esclusivamente temporali di trasformazione – o, sarebbe meglio dire, di «transizione» – fondati sull’assioma di uno sfondo storicogeografico astrattamente omogeneo.

Tuttavia, prima di accostarci alla cruciale questione della transizione da un’ottica postcoloniale, è bene prendere in esame un secondo aspetto desumibile dall’opera di Deleuze e Guattari, nella misura in cui questo può ricondurci alla problematica della testualizzazione dell’alterità, e alla configurazione del capitalismo – e dell’orientalismo – come vere e proprie «macchine di scrittura», o «macchine di traduzione». Il paradigma della «decodificazione» e «ricodificazione» dei flussi sociali è infatti chiaramente un paradigma semiotico-testuale, la cui dinamica è resa operativa da quel che potrebbe definirsi una funzione di traduzione. Non si tratta però, in questa sede, di arrestarsi all’arcinota analogia tra linguistica ed economia (cfr., tra tutti, Saussure 1922, p. 98: «qui, come in economia politica, si è di fronte alla nozione di valore; in entrambe le scienze ci si occupa di un sistema di equivalenze tra cose di ordini differenti: nell’una un lavoro e un salario, nell’altra un significato e un significante»). Né è questione di porre semplicemente in rilievo le odierne forme postfordiste di «semio-capitale», in virtù delle quali è possibile sostenere che oggi il linguaggio e la comunicazione «attraversano strutturalmente e contemporaneamente sia la sfera della produzione e distribuzione di beni e servizi, sia la sfera finanziaria» (Marazzi 1999, p. 10). Occorre piuttosto verificare quale idea – o ideologia – della traduzione si sia incarnata e abbia trovato il proprio corrispettivo storicomateriale nel capitalismo imperialista quale «macchina di traduzione». Ma per fare ciò, è bene tornare a quanto lo stesso Marx scriveva confutando ogni diretto «paragone» tra denaro e linguaggio: «Non meno falso – si legge in un passo dei Grundrisse – è paragonare il denaro col linguaggio. Le idee non vengono trasformate in linguaggio, quasi che il loro carattere individuale esistesse in modo assoluto e il loro carattere sociale esistesse accanto a esse nel linguaggio […]. Le idee non esistono separate dal linguaggio. Offrono già più analogia quelle idee che, per circolare e poter essere scambiate, debbono essere anzitutto tradotte dalla lingua

materna in una lingua straniera; ma allora l’analogia non sta nella lingua, ma piuttosto nella estraneità» (Marx 1953, p. 105). In altri termini: perché vi sia scambio e circolazione, è necessaria la costituzione di un «equivalente generale» (quell’«arcano della forma merce», analizzato nel Capitale, che opera come un implacabile equalizzatore) rispetto al quale le merci si atteggiano come «idee» da tradurre in una lingua straniera: la lingua, astratta e nondimeno reale, del «valore». Proprio tale idea di una «traducibilità universale», fondata sull’ideologia di un’equivalenza generalizzata , sarebbe d’altra parte alla base – secondo un esponente eminente della «traduttologia» francese come Antoine Berman – di una figura profondamente etnocentrica della traduzione, imperniata su un primato platonico del senso che avrebbe scatenato l’impulso tipicamente europeo alla captazione onnivora dell’altro. La storia della traduzione occidentale avrebbe così una faccia nascosta, un lato oscuro, che ha preso corpo – dalla romanità pagana come «cultura del saccheggio» passando per l’impulso evangelizzatore del cristianesimo sino alle catastrofi del colonialismo e dell’imperialismo – in un «traduzionismo conquistatore e senza scrupoli», dominato da una pulsione essenziale all’annessione dell’estraneo (Berman 1999). Significativamente, tale tropo di una «traducibilità universale» si ritrova anche nella centralità che ha oggi assunto – a partire dalla riflessione jakobsoniana sulla traduzione (cfr. Jakobson 2002, p. 58: «L’equivalenza nella differenza è il problema generale del linguaggio e l’oggetto fondamentale della linguistica») – la figura linguistica dell’«equivalenza»: secondo la quale si dà traduzione vera e propria solo là dove sia possibile stabilire criteri fissi di conversione tra termini tra loro posti come equivalenti. Proprio tale valore di «equivalenza» – assunto teorico controverso di tutte le teorie contemporanee della traduzione – costituisce dunque il punto di passaggio tra una certa ideologia, e una certa pratica, della traduzione (quella che, sulla scorta di Berman, è lecito chiamare «traduzione

etnocentrica») e le dinamiche del capitalismo e del colonialismo. Si è visto infatti come la funzione che rende operativa la meccanica della «deterritorializzazione» e «riterritorializzazione» del capitale risieda nella forma puramente astratta del valore, che è di per sé un nudo valore di equivalenza: equivalenza delle merci e dei significati, dei territori e delle culture – equivalenza, infine, dei corpi. Se allora, sulla scorta di Robert Young, è possibile scorgere nel capitalismo imperialista, e a fortiori nel colonialismo, delle «macchine di traduzione», ciò avviene perché essi materializzano un’ideologia che riduce la realtà socioculturale a un sistema di equivalenze jakobsoniane, configurandosi così non solo come «macchine di traduzione», ma anche – e più propriamente – come macchine distruttrici dei processi di significazione sociale e culturale (cfr. Young 1995, p. 173). In una serie di celebri saggi, Spivak ha reinterrogato nel corso degli anni l’opera di Marx, muovendo dall’assunto della testualità delle catene del valore e facendo leva proprio sull’idea marxiana della forma astratta del valore come inhaltlos und einfach: come medium vuoto su cui si esercitano gli specifici modi di produzione e di codificazione, siano essi economici, sociali o culturali (Spivak 1993b; 1996a e 2000b). Senza potersi addentrare in questa sede nelle complesse argomentazioni di Spivak, ciò che tuttavia conta mettere in luce non è solo la denuncia dell’astrazione e della codificazione (e del correlato linguaggio normativo e privativo dell’eguaglianza «astratta») come veicoli, per usare il lessico di Jacques Derrida, di una «fantomalizzazione» o di una «spettralizzazione» del legame sociale (cfr. Derrida 1993, pp. 196-99: «Tanto per la cosa quanto per il lavoratore nel suo rapporto col tempo, la socializzazione, il divenire-sociale, passa attraverso [una] spettralizzazione. […] quel che il Capitale analizza […] è la fantomalizzazione, non solo della forma-merce, ma anche del legame sociale, la sua spettralizzazione di ritorno»). Ma anche il nesso che una critica della traduzione «astraente» delle differenze operata dal capitale per mezzo della forma-

valore come nuda equivalenza intrattiene con la questione (storica e sociale) della transizione. Nel noto saggio Deconstructing Historiography, infatti, Spivak riconosce che una parte rilevante della critica postcoloniale – e, nello specifico, il lavoro condotto dai teorici dei Subaltern Studies – è stata tesa in prima istanza a delineare il profilo di una «teoria della transizione» al capitalismo; o meglio, una declinazione al plurale di tale transizione: in relazione, quindi, a storie differenziali di dominazione e di sfruttamento piuttosto che nel quadro della «grande narrazione» dei modi di produzione. Qui Spivak tiene ferma l’adesione a una prospettiva «testuale» (nel senso allargato che si è provato a illustrare), definendo la transizione «un cambiamento funzionale all’interno dei sistemi di segni» (Spivak 1988, p. 104). Più specificamente: Una teoria del cambiamento come luogo dello spostamento funzionale tra sistemi di segni […] è una teoria della lettura nel senso più generale e deciso possibile. Il luogo dello spostamento funzionale dei segni è la lettura, intesa come transazione attiva tra passato e futuro. Questa interpretazione transazionale come (possibilità di) azione, anche fortemente dinamica, coincide forse con ciò che Antonio Gramsci intendeva per «elaborazione», e-laborare, sviluppare. Se viene visto in questi termini, il lavoro del gruppo dei Subaltern Studies ci fa capire chiaramente che il concetto-metafora del «testo sociale» non equivale alla riduzione della vita reale a una pagina di libro. (Ibid., p. 105) È tuttavia probabilmente nel lavoro di Chakrabarty che un simile nesso tra «traduzione» (o «e-laborazione») e «transizione» viene alla luce nella maniera al contempo più cogente e più cristallina.

1.2. Capitale globale e «differenza storica»

Il ruolo irriducibilmente ambivalente giocato dalla categoria di traduzione nella costituzione logica e storicomateriale del capitale globale si trova efficacemente tematizzato da Chakrabarty nel quadro di una disamina dei paradossi legati alla narrativa (weberiana e marxiana) della «transizione» al capitalismo o, detto altrimenti, della «modernizzazione». La posta in gioco affrontata dal critico indiano, infatti, non risiede unicamente nel contestare gli assunti «storicisti» e «secolari» che inducono a porre la storia della modernità politica nelle società non-occidentali sotto il segno dell’«incompletezza» e della «mancanza»: del «“fallimento” di una storia che non si presenta all’appuntamento con il proprio destino» (Chakrabarty 2000, p. 51); investendo anche questioni cruciali come la logica dell’universalismo e il fondamento antropologico sulla cui base quest’ultimo viene di volta in volta legittimato e invocato. Ma si proceda con ordine. L’argomentazione condotta da Chakrabarty in Provincializing Europe si colloca sul terreno di un’analitica della struttura costitutivamente ambivalente del rapporto tra capitale e differenze: dove se per un verso il capitale tende a ridurre e obliterare le differenze nel codice esclusivo dell’astrazione, per altro verso esso non solo le contiene e le negozia, ma le richiede come condizione del suo stesso funzionamento. Tuttavia, non si tratta qui tanto di leggere nel capitalismo una mera logica dell’eccesso integrato , che vede l’inarrestabile proliferazione di differenze culturali, etniche, sessuali (ricodificate in «gusti» e «preferenze» nel grande bazaar multiculturale) fornire la materia effimera su cui esercita il «basso ostinato» di un sistema capace di riprodursi attraverso un’autorivoluzione costante (cfr. ad esempio Žižek 2002). L’accento cade piuttosto sul carattere storico della differenza: in altri termini, sul suo essere segno di una pluralità di traiettorie geoculturali e di forme dell’«appartenenza» che, residuando da ogni schema «stadiale», costituiscono «il luogo di una battaglia ancora in corso» (Chakrabarty 2000, p. 94). La posizione di

Chakrabarty, in effetti, è netta ed esplicita: «il problema della modernità capitalistica non è più interpretabile come semplice fenomeno di transizione storica (come accadeva nei celebri “dibattiti sulla transizione” nella storia d’Europa), poiché esso si presenta anche come problema di traduzione» (ibid., pp. 34-35). È in questo contesto che si situa un serrato confronto con la categoria marxiana di «lavoro astratto», o di «lavoro astrattamente umano»: e ciò in ragione del fatto che il «lavoro astratto» è sia il precipitato, o la cristallizzazione, della figura illuministica dell’individuo astratto – di quel «sistema dell’uguaglianza e della libertà» che costituisce il correlato del sistema di circolazione del capitale (Marx 1953, pp. 207-21) –, sia quel tertium mediatore che, traducendo le differenze in un codice o in una misura comune, ha valore di equivalenza normativa. Detto altrimenti, il «lavoro astratto» funziona come un implacabile medium di equalizzazione, consentendo al linguaggio capitalistico del «valore» di «estrarre da popoli e storie differenti un’unità di misura omogenea e comune» (Chakrabarty 2000, pp. 75-76). Nel tentativo di decostruire la narrazione marxiana della «transizione», la mossa preliminare dello storico indiano è intendere il «lavoro astratto» come una categoria pratica, performativa: «Organizzare la vita sotto il segno del capitale significa agire come se si potesse astrarre il lavoro da tutti i tessuti sociali in cui esso si trova sempre incastonato e che rendono concreta ogni forma particolare di lavoro – compreso anche il lavoro di astrazione» (ibid., p. 80). Il «lavoro astrattamente umano» si rivela così nella sua natura di astrazione disciplinare, poiché il come se della vita organizzata sotto il segno del capitale non fa che rimandare a quei processi «dispotici» di disciplinamento – quella «tecnologia sottile e calcolata dell’assoggettamento» che, secondo Foucault, ha accompagnato «il movimento di accumulazione del capitale» (Foucault 1975, pp. 239-40) – il cui ruolo è svelare come proprio l’astrazione (la riduzione dei soggetti a una «norma», o la loro «traduzione» nell’astrattamente umano)

sia un elemento costitutivo nel modo di funzionamento del capitale. E tuttavia, sottolinea Chakrabarty, la categoria di «lavoro astratto» opera al tempo stesso come descrizione e come critica del capitale: nella misura in cui «il lavoro che viene reso astratto nel processo di ricerca, da parte del capitale, di una misura comune per l’attività umana, è un lavoro vivo» (Chakrabarty 2000, p. 87). Secondo le parole di Marx, il capitale cerca «il lavoro non oggettivato ma ancora da oggettivare, il lavoro come soggettività», che è «inseparabile dall’immediata esistenza corporea dell’operaio» (Marx 1953, pp. 251 e 282); come scrive Paolo Virno in un’importante analisi della categoria marxiana di «forza lavoro», qui è lo stesso «corpo vivente, spogliato di qualsiasi dote che non sia la pura vitalità» a divenire «il sostrato della capacità produttiva, il segno tangibile della potenza, il simulacro oggettivo del valore non oggettivato» (Virno 1999, p. 125). In tal modo, il processo stesso attraverso cui il capitale produce il «lavoro astratto» come norma conterrebbe in sé il germe della «resistenza» come «Altro del dispotismo intrinseco alla logica del capitale», poiché «la vita […] è l’eccesso di cui il capitale, con tutte le sue procedure disciplinari, necessita sempre, ma che non può mai totalmente controllare o addomesticare. […] nell’analisi marxiana del capitale la vita è una “lotta” continua contro il processo di astrazione intrinseco alla categoria del “lavoro”» (Chakrabarty 2000, pp. 87 e 89). È tuttavia proprio contro tale radicamento della «resistenza» alla logica dell’astrazione capitalistica nella vita, o meglio, nella dimensione «non cronologica» di una astratta «capacità di lavorare» (cfr. in questo senso Virno 1999, p. 139), che lo storico indiano muove la propria critica. E ciò nella misura in cui, in questa prospettiva, la «differenza storica» rimarrebbe assorbita e sospesa. È in questo contesto che, in Provincializzare l’Europa, viene introdotta la cruciale distinzione tra la «Storia 1» – vale a dire il «tempo omogeneo e vuoto» posto retrospettivamente dalla logica del capitale –

e differenti «Storie 2», che rappresentano altrettante «storie dell’appartenenza» che qualificano modalità singolari di abitare la modernità capitalistica (cfr. anche Chakrabarty 2002). L’universo dei passati incontrati dal capitale lungo la sua traiettoria di sviluppo è infatti più ampio dell’insieme degli elementi che esso pone come proprie condizioni e presupposti, facendo segno a un’altra serie di «rapporti che non si prestano alla riproduzione della logica del capitale», e a modalità di essere-nel-mondo irriducibili a «quella di portatore di forza lavoro» (Chakrabarty 2000, pp. 93 e 96). Facendo leva sull’ambiguità della prosa di Marx, il «non ancora» (not yet) storicistico viene qui reinterpretato in maniera decostruttiva: come ciò che, segnalando un differimento intrinseco alla logica del capitale, indica al contempo che l’assorbimento delle «Storie 2» nella narrativa omogeneizzante della «Storia 1» non sarà mai completo o assoluto. Secondo queste coordinate, si chiarisce il nesso ambivalente tra «traduzione» e «transizione»: La traduzione permette l’emergere del linguaggio universale delle scienze sociali. Ma essa deve anche, al tempo stesso, far sì che ci si possa avvicinare alle categorie delle scienze sociali da entrambi i lati del processo di traduzione, in modo da ricavare uno spazio per due tipi di storie. Da una parte stanno le storie analitiche che, mediante le categorie generalizzanti, tendono in ultima istanza a rendere ogni luogo equivalente. La Storia 1 è esattamente questo, storia analitica. Ma l’idea di Storia 2 ci spinge a creare narrazioni più affettive dell’appartenenza umana, narrazioni in cui le forme di vita, benché porose l’una nei confronti dell’altra, non appaiano identificabili mediante l’uso di un termine terzo come il lavoro astratto. La traduzione/transizione al capitalismo nella modalità della Storia 1 comporta l’interazione di tre elementi, in cui il terzo di essi esprime la misura di equivalenza che rende possibile lo scambio generalizzato. Esplorare la traduzione/transizione nel registro della Storia 2, invece, significa pensare la

traduzione come scambio tra due categorie senza l’intervento di un terzo. (Chakrabarty 2000, pp. 102-03) A un modello di traduzione governato dalla logica dell’equivalenza si contrappone così un’altra modalità di traduzione: una traduzione intimamente «antisociologica» che – lungi dal fare dialetticamente leva su un termine medio che abbia valore di equivalenza (la «vita», o il «lavoro astrattamente umano») – si dà come transazione e scambio «senza l’intervento di un terzo», e che presuppone e produce «quella relazione parzialmente opaca che chiamiamo “differenza”» (ibid., p. 35). Le differenti «Storie 2», o i passati subalterni, non costituiscono infatti un Altro dialettico rispetto alla storia del capitale, essendone piuttosto al tempo stesso supplemento e sutura o, per usare un termine musicale caro a Said, il contrappunto : interrompendo costantemente, e modificando, le pulsioni totalizzanti della «Storia 1». Ma di qui discendono anche conseguenze rilevanti in ordine a un ripensamento e a una ridefinizione dello stesso lessico dell’universalismo. Nessun capitale globale – scrive Chakrabarty – potrà mai incarnare o rappresentare una logica «universale» del capitale, poiché ogni forma storicamente disponibile di capitale «è un compromesso provvisorio, costituito da una modificazione della Storia 1 per mano delle Storie 2 di qualcuno» (ibid., p. 101). L’universale si configura così come un place-holder, come (secondo la forse non fedelissima ma certo felice traduzione italiana) una «casella vuota»: una «casella vuota, che viene continuamente usurpata da un particolare storico che tenta di proporsi come universale» (ibid.): Il capitale porta in ogni storia i temi universali dell’Illuminismo europeo, ma a un’analisi più attenta essi si rivelano una casella vuota i cui contorni instabili si fanno debolmente visibili solo quando un mandato esplicito (proxy), un particolare, ne usurpa la posizione con un gesto di presunzione e dominio. E questa, io credo, è

l’inarrestabile e inevitabile politica della differenza storica che il capitale globale ci consegna. (Chakrabarty 2000, p. 102) La caratterizzazione dell’universale come «spazio vuoto» (empty place), come sinonimo dell’incompletezza costitutiva, della negatività necessaria al cuore del politico – negatività necessaria nella misura in cui impedisce il collasso del politico in una sostanza etnico-comunitaria totalizzante e totalitaria – è d’altra parte un topos caratteristico di quella parte di pensiero radicale che, negli ultimi decenni, ha tentato di pensare la democrazia a partire da una rivisitazione, consapevole della rivoluzione poststrutturalista, delle nozioni di egemonia e di ideologia: a partire, cioè, da un connubio di gramscismo e poststrutturalismo che sapesse tesaurizzare le eredità di entrambi (cfr. Laclau e Mouffe 1985; Laclau 1995; Butler, Laclau e Žižek 2000). E tuttavia, di contro alle varianti linguistico-strutturali o lacaniane di questo topos, si dà qui una declinazione del pensiero dell’«incompletezza dell’universale» che muove dai due registri (ben più convincenti) della temporalità e della traduzione. Per un verso, infatti, guardare all’universale secondo una modalità temporale comporta cogliere il «non ancora» come un momento essenziale della sua stessa articolazione; o ancora, implica guardare a ciò che rimane «irrealizzato» dell’universale (la voce di coloro che non sono inclusi da esso, che non hanno titoli per occupare un luogo di enunciazione, e che nondimeno domandano inclusione) come ciò che lo costituisce in maniera essenziale, ossessionandolo come la traccia spettrale del particolare a cui si oppone (cfr. Butler 2000 e 2004a, p. 224). Per altro verso, una concezione incentrata sull’insuperabilità della traduzione (tra culture, linguaggi, universi di valore) non può che richiamare una prospettiva ermeneutica che, in contrasto con gli astratti universalismi formali e procedurali, insiste sull’assunzione di una equivocità costitutiva dell’universale.

Come scrive Balibar, dire che «l’universale è essenzialmente equivoco non significa dire che gli universali si spartirebbero l’universalità, come un’origine perduta o un orizzonte di senso a venire, ma piuttosto che ciascuno è e non è l’universale. In altri termini, non lo è che aporeticamente e soprattutto non lo è che per vicinanza, per interferenza, per “identificazione” problematica con gli altri, con ciò che non è affatto esso stesso. Così l’ “universale” – se ve n’è uno e che sia “uno” – sarebbe il legame, o il passaggio da una figura all’altra. Ma questo passaggio stesso non ha nessuna figura, nessuna unità, nessuna stabilità. È solo scivolamenti, conflitti, equivoci o lacerazioni» (Balibar 1997, p. 250; ma cfr. anche Balibar 2006). È in questo senso che l’universale può essere articolato unicamente all’interno di una «politica della traduzione». E, come sottolinea ancora Balibar, proprio l’idea di traduzione non fa che richiamare categorie dialettiche come conflitto e reciprocità, intrecciandosi in maniera essenziale con la questione dei confini e, ancor più in profondità, con il problema dell’attuale scomposizione e ricomposizione dei confini che rende instabile qualunque topologia fondata su una separazione semplice tra «interno» ed «esterno», o «inclusione» ed «esclusione» (cfr. Balibar 2005, pp. 137 sgg.). D’altro lato, occorre qui prestare attenzione alla nozione stessa di confine, nel suo rapporto con la categoria di traduzione: nella misura in cui il concetto di confine – simbolicamente interrelato con la problematica della traduzione quale, secondo l’etimo, trans-ductio – rimanda, per riprendere Walter Benjamin, a quel «nucleo di intraducibilità» dei linguaggi che fa della traduzione medesima un compito infinito e mai concluso, sospeso all’opacità dei linguaggi e dei vocabolari: Che una traduzione, per quanto buona, non possa mai significare qualcosa per l’originale, è fin troppo evidente. E tuttavia essa è in intimo rapporto con l’originale in forza della sua traducibilità. Anzi, questo rapporto è tanto più intimo in quanto per l’originale in sé non significa più nulla.

Può essere definito naturale, o meglio ancora un rapporto di vita. (Benjamin 1981, p. 41) Un rapporto, leggiamo oltre, di «sopravvivenza»: dove «la traduzione è così lontana dall’essere l’equazione di due lingue morte, che – fra tutte le forme – proprio a essa tocca come compito specifico di avvertire e tener presente quella maturità postuma della parola straniera, e i dolori di gestazione della propria» (ibid., pp. 43-44).21 Quale significato acquisisce, da questo punto di vista, una «politica della traduzione»? E quali conseguenze ne discendono in ordine a una ridefinizione del lessico e della semantica dell’universale? Se, come scrive Benjamin, la traduzione «è solo un modo pur sempre provvisorio di fare i conti con l’estraneità delle lingue», lasciandosi «potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera» (Benjamin 1995, pp. 45 e 51), ciò accade perché – lungi dal trattare relazioni di esatta equivalenza – essa sovrappone l’estraneo all’estraneo, configurandosi come un modello storicodinamico di trasformazione nel quale ciò che è tradotto riemerge, come differente, dal suo altro. È lungo questa linea di riflessione che l’universale, concepito secondo il paradigma della traduzione, prende la figura di una ricostruzione permanente, di una «invenzione» che forza e si nutre di incommensurabilità ed estraneità, o – secondo quanto sostenuto da Chakrabarty – di una transazione (e di una transizione) «senza l’intervento di un terzo». Ma si apre, di qui, una prospettiva ermeneutica che investe direttamente la dimensione simbolica di una «politica della traduzione».

2. Politiche della traduzione In realtà il significato profondo di casa cambia con l’esperienza della decolonizzazione, della radicalizzazione. A volte, casa è in nessun luogo. A volte si conoscono solo alienazione e straniamento. Allora casa non è più un solo luogo. È tante posizioni. bell hooks, Elogio del margine Ho sempre detto che il mare dei Caraibi si differenzia dal Mediterraneo perché è un mare aperto, un mare che diffrange, mentre il Mediterraneo è un mare che concentra. Se le civiltà e le grandi religioni monoteiste sono nate intorno al bacino del Mediterraneo, ciò è dovuto alla capacità di questo mare di orientare, anche se attraverso drammi, guerre o conflitti, il pensiero dell’uomo verso l’Uno e l’unità. Édouard Glissant, Introduction à une poétique du divers

2.1. Identità culturale e ambivalenza Confini, barriere, zone di frontiera costituiscono il correlato simbolico e materiale di cui è intessuta l’esperienza linguistica e corporea dei soggetti colonizzati, della new mestiza la cui esistenza si dispiega sul confine tra Messico e Stati Uniti di cui ha scritto Gloria Anzaldúa (1987), o del migrante quale «soggetto tradotto» per eccellenza: translated being, secondo la formula di Salman Rushdie (1991). Con essi e attraverso di essi la traduzione prende corpo nella sua figura storicamente ambivalente, quale per un verso forma cristallina di espropriazione e di violenza linguistica e cognitiva (nella misura in cui la

posizione-di-soggetto del migrante o del soggetto colonizzato è di per sé una posizione epistemicamente fratturata) e, per l’altro verso, palinsesto mobile di inscrizioni e reinscrizioni in grado di produrre slittamenti nei processi di significazione culturale. Secondo queste coordinate si snoda quella traccia della riflessione postcoloniale sulla traduzione che ha tentato e tenta di tenere insieme una revisione del concetto (al tempo stesso nebuloso e cruciale) di «cultura» con una rinnovata tematizzazione della questione dell’identità, in rapporto alle dinamiche linguistiche e simboliche che ne sono al tempo stesso sito di formazione e di negoziazione. In una temperie segnata dall’emergere di nuove «lotte per il riconoscimento» (Taylor 1992; Honneth 1992; Fraser e Honneth 2003; Benhabib 2002) e agguerrite «politiche dell’identità» (Young 1990), le questioni relative all’identità culturale si sono infatti trovate improvvisamente proiettate sulla ribalta della scena internazionale. E tuttavia, là dove nel vocabolario del multiculturalismo la «cultura» viene perlopiù concepita come dimensione primigenia e insuperabile dell’autenticità, secondo una visione intrisa di presupposti romantico-herderiani intorno all’unità e unicità del Volk, della «comunità» e della lingua, nel contesto della critica postcoloniale la categoria di «cultura» viene declinata secondo un paradigma «aggettivale» (Appadurai 1996, pp. 28 sgg.) o, meglio ancora, enunciativo (Bhabha 1994, p. 89), quale processo dinamico di lotta e di costruzione di significati. Un processo che – lungi dall’affondare le proprie radici in un terreno statico e consolidato, in una Weltanschauung ontologizzata – concerne, per parafrasare James Clifford, sia le radici sia le strade: vale a dire quell’articolazione instabile di memoria e connessioni transnazionali che rende ciascuna cultura una «cultura in viaggio», formata e modellata dall’incontro con l’alterità (Clifford 1997).22 Sotto quest’ottica, che vede profilarsi un «nuovo ordine mondiale fatto di mobilità, di storie senza radici» (ibid., p. 9), occorre guardare al proliferare di figurazioni che fanno leva su categorie de-centranti quali

«diaspora», «flussi», «transculturazioni», «zone di contatto», o «strategie» para entrar y salir de la modernidad, per «entrare e uscire dalla modernità», come scrive Néstor García Canclini a proposito delle «culture ibride» di Tijuana che quotidianamente contestano ogni visione della modernizzazione come processo strettamente unidirezionale (Canclini 1990; cfr. anche Hannerz 1996). In questa sede, tuttavia, è bene soffermarsi sul concetto stesso di «transculturazione», riportato in auge e sviluppato dall’antropologa statunitense Mary Louise Pratt in direzione di un’analisi dei fenomeni culturali come fenomeni che pertengono in modo eminente a contact zones, a «zone di contatto» tra le culture (Pratt 1992). In effetti, il neologismo «transculturazione» è stato coniato negli anni quaranta del Novecento dall’antropologo cubano Fernando Ortiz in aperto contrasto con le concezioni «diffusioniste» che guardavano ai contatti culturali in termini di processi lineari di «acculturazione» della cultura «ricevente», vale a dire come fenomeni unidirezionali intimamente improntati a una logica della conquista e della dominazione. Come scrive Bronislaw Malinowski nella sua prefazione al suggestivo Contrapunteo cubano del tabaco y el azúcar di Ortiz: «Ogni cambiamento culturale, o come diremo d’ora in poi, ogni transculturazione, è un processo nel quale si dà sempre qualcosa in cambio di quel che si riceve; è un “dare e avere”, come si suol dire. È un processo nel corso del quale ambedue i termini dell’equazione risultano modificati. Un processo nel quale emerge una nuova realtà composita e completa; una realtà che non è agglomerazione meccanica di caratteri né mosaico, bensì un fenomeno nuovo, originale e indipendente. Per descrivere tale processo il vocabolo dalla duplice radice latina transculturazione offre un termine che implica non la tendenza ineluttabile d’una cultura verso un’altra, ma la transizione fra due culture, entrambe attive, entrambe apportatrici di propri contributi ed entrambe cooperanti all’avvento di una nuova civiltà» (Ortiz 1999, p. 15). In un importante volume mirato al più ampio obiettivo di

«decolonizzare la conoscenza» e dedicato a una serrata e innovativa disamina della letteratura di viaggio europea del XVIII secolo attorno al mondo non-europeo, Mary Louise Pratt sviluppa magistralmente tale intuizione, arrivando a definire la «transculturazione» come un «fenomeno della contact zone» (Pratt 1992, p. 6) e caratterizzando quest’ultima come quello «spazio» in cui popoli geograficamente e storicamente separati l’uno dall’altro stabiliscono, con un massiccio grado di improvvisazione, nuove e inedite relazioni; relazioni, tuttavia, pressoché sempre segnate da condizioni di coercizione, di dominio e di diseguaglianza radicale. In questo senso, il termine «zona di contatto» o contact zone – mutuato dall’uso corrente nella linguistica, dove le «lingue di contatto» sono quei linguaggi «improvvisati» (quali il pidgin o il creolo) attraverso i quali parlanti di differenti lingue native giungono a comunicare tra loro – rimanda al fenomeno della «compresenza spaziale e temporale di soggetti precedentemente separati da disgiunture geografiche e storiche» (Pratt 1992, p. 7); soggetti le cui interazioni si sviluppano «all’interno di relazioni di potere radicalmente asimmetriche» (ibid.). Sotto questo profilo, nell’analisi delle relazioni transculturali fanno ingresso le istanze della retorica e del potere, a significare una visione dinamica e conflittuale delle culture che non può non avere ricadute cruciali sulle modalità di concettualizzare la nozione di identità.23 Da questo punto di vista, è soprattutto al lavoro del teorico e capostipite dei Cultural Studies Stuart Hall che occorre guardare; e ciò soprattutto in ragione del fatto che nella sua trama teorica è possibile rintracciare non solo una concezione non essenzialistica bensì strategica e posizionale delle identità (culturali), ma anche una ben precisa declinazione della problematica dell’enunciazione. Qui il concetto di «identità», infatti, sfuma e acquisisce consistenza nella nozione di identificazione, andando a indicare – per mutuare il lessico di Hall – il punto di «sutura» o di «articolazione» (e non già dunque di sussunzione) tra

soggetti e pratiche discorsive o, più specificamente, tra soggetti e dispositivi di potere (cfr. Hall 2006a e 2006b). L’identità diviene così innanzi tutto una posizione di enunciazione, dove – secondo la lezione dello strutturalismo – il soggetto che enuncia e il soggetto dell’enunciato non si trovano mai nella stessa posizione; e dove quindi il soggetto appare sempre spostato, sempre dislocato rispetto a uno spazio e a un tempo predefiniti: Il passato continua a parlarci. Ma non ci si rivolge più come un «passato» semplice, fattuale, poiché la nostra relazione con esso, come la relazione che lega il bambino alla madre, è sempre-già «dopo la rottura». È sempre costruita attraverso la memoria, la fantasia, la narrazione e il mito. Le identità culturali sono i punti di identificazione, i punti instabili di identificazione e sutura che si danno nei discorsi della storia e della cultura. Non un’essenza, ma un posizionamento. Quindi, vi è sempre una politica dell’identità, una politica della posizione, che non trova alcuna garanzia in una aproblematica e trascendentale «legge dell’origine». (Hall 2006a, p. 248, trad. modificata) Sotto quest’ottica, le identità culturali – lungi dall’essere «eternamente fissate in un qualche passato essenzializzato» (ibid., p. 247) – si offrono come luoghi mobili di identificazione attraverso i quali rinegoziare costantemente i codici e i significati culturali, secondo il «gioco» continuo della storia, della cultura e del potere; o meglio, si offrono come i sempre mutevoli «nomi che diamo ai modi diversi in cui ci posizioniamo e veniamo posizionati dalle narrazioni del passato» (ibid.), secondo quella prassi (individuale e collettiva) che Eric Hobsbawm ha icasticamente denominato «invenzione della tradizione» (cfr. Hobsbawm e Ranger 1983). Ma, sulla scorta di quanto tracciato, è bene adesso rivolgersi ad alcune delle implicazioni che discendono da un simile paradigma «enunciativo» e «posizionale» in merito alle nozioni (identitarie ed essenzialiste) di «autenticità» e di

«purezza» culturale.

2.2. Linguaggio e minorità La politics of positionality – che Stuart Hall, come si è visto, dichiara separata da qualsivoglia «legge dell’origine» – si dispiega in maniera privilegiata in rapporto al medium linguistico, concepito non tanto come sfondo neutrale o normativo della comunicazione, quanto invece come veicolo di una vera e propria «poietica» dell’identità. È lungo una simile traiettoria di riflessione che conquista rilevanza la categoria, a cui si desidera qui prestare attenzione, di «ibridazione», nel suo rapporto con una concezione strettamente performativa del linguaggio e dell’enunciazione.24 Lungi dal possedere una valenza meramente apologetica o neutralizzante, la nozione di «ibridità» o di «ibridazione» rimanda infatti, sulla scia del lavoro di Michail Bachtin, a una «dialogizzazione» della lingua che è tutt’altro da una risoluzione armonica delle forze che in essa abitano, costituendo piuttosto la scaturigine, il campo e l’alimento delle contraddizioni e della «pluridiscorsività» sociali. L’«ibrido linguistico-sociale», scriveva Bachtin, non è unicamente «bivoco» e «biaccentuale»: «in esso ci sono non soltanto (e persino non tanto) due coscienze individuali, due voci, due accenti, ma due coscienze linguistico-sociali, due epoche che qui, è vero, non si sono mescolate inconsciamente (come nell’ibrido organico), ma si sono incontrate e lottano coscientemente sul territorio dell’enunciazione» (Bachtin 1975, p. 168; sul tema cfr. il classico Todorov 1981). Tale lotta sul terreno dell’enunciazione è ciò che configura il processo di «ibridazione» delle lingue e delle culture come una dinamica eminentemente politica e contestataria, all’interno della quale (come accade nel carnevale o nell’eteroglossia) una voce smaschera l’altra, tracciandone i confini e svelandone i silenzi e i punti di frattura. Secondo queste coordinate, Homi

Bhabha recupera la categoria di «ibridazione», legandola a doppio filo ai paradossi della traduzione e facendone al tempo stesso lo strumento per gettare luce sulla struttura costitutivamente ambivalente di ogni discorso d’autorità e, in particolare, del discorso dell’autorità coloniale (Bhabha 1994, pp. 145-72). Bhabha definisce l’«ibridità» come «una problematica della rappresentazione e dell’individuazione coloniali che rovescia gli effetti del ripudio colonialista, in modo tale che altre conoscenze “negate” facciano il loro ingresso nel discorso dominante e minino la base della sua autorità» (ibid., p. 161). L’«ibridità», in altri termini, costituisce il momento in cui il discorso d’autorità, aprendosi a processi di appropriazione e di traduzione da parte delle culture «indigene», si dissocia dal regime di univocità, perde la sua presa su un significato univoco, mostrando la propria originaria ambivalenza. La disarticolazione della voce dell’autorità si produce infatti, secondo Bhabha, non tanto attraverso rovesciamenti spettacolari, quanto tramite slittamenti tattici, «piccole differenze», modalità di appropriazione e di resistenza, di «imitazione» (mimicry)25 o di «cortesia astuta» (sly civility), che fanno leva sulle forze centrifughe presenti in ogni atto di enunciazione: forze in virtù delle quali l’appropriazione (o la traduzione) del discorso dominante nei codici del linguaggio subalterno dà luogo a effetti di ripetizione trasformativa e di dislocazione dell’autorità: l’imitazione [mimicry] contraddistingue […] momenti di disobbedienza civile nell’ambito della disciplina della civiltà: segni di resistenza spettacolare. Allora le parole del padrone diventano luogo di ibridità – il segno bellicoso, subalterno del nativo; allora possiamo non soltanto leggere fra le righe, ma persino tentare di cambiare la realtà, spesso coercitiva, che quelle parole lucidamente contengono. (Bhabha 1994, p. 170, trad. modificata) In questa prospettiva, la traduzione, producendo effetti di

ripetizione e di dislocazione, diviene il perno di una pratica di «resistenza» – o di sovversione dell’egemonia – per il cui tramite i «nativi» si appropriano del testo dell’autorità, sovvertendolo dall’interno e con ciò stesso mettendone a nudo la fragilità: come nel caso dei vegetariani nativi indù che, posti di fronte al Libro del Dio cristiano, ne rivendicarono una versione «indianizzata», una Bibbia hindi che non provenisse dalle mani di «inglesi-mangiatori-dicarne» (ibid., pp. 162 sgg.). La traduzione (o ibridazione) tra la cultura coloniale e le culture «native» procede dunque come uno slittamento del valore dell’autorità da simbolo a segno: slittamento in virtù del quale l’intraducibile (o l’incommensurabile) tra le culture emerge nel linguaggio come ciò che spezza il registro del simbolico e del semantico, scindendo al tempo stesso le identità del soggetto d’autorità e del soggetto subalterno. È in questo senso che Bhabha può sostenere che «l’effetto del potere coloniale è dato dalla produzione di ibridazione piuttosto che dal noioso ordine dell’autorità colonialista o dalla silenziosa repressione delle tradizioni native» (ibid., p. 159); ed è in questo senso che, sulla scia di Albert Memmi (2004), viene lasciata cadere ogni distinzione semplice o antitesi lineare tra colonizzatore e colonizzato, a partire da un’apprensione del linguaggio come sito privilegiato di lotta e di contropotere. Tale diagnosi sull’economia conflittuale del potere coloniale – incentrata sulla funzione iterativa e trasformativa della traduzione/imitazione dei codici dominanti – si fonda, a ben vedere, su una precisa declinazione della categoria di «minoranza»: declinazione che insiste sul nesso tra linguaggio e minorità, o tra potere e lingue dominanti. Sebbene non vi siano espliciti rimandi nei testi di Homi Bhabha, una simile riflessione sul linguaggio e sulla traduzione ha non poche assonanze con l’impianto, polarizzato nella coppia di «maggiore» e «minore», messo in campo da Deleuze e Guattari per scandagliare le «letterature minori» di Kafka o di Beckett come medium per il cui tramite si articola il conflitto sociale e culturale (cfr.

Deleuze e Guattari 1975). Nulla hanno infatti a che vedere le «lingue minori» con il recupero nostalgico di un qualche idioma originario, costituendo piuttosto una polarità tensionale all’interno di un processo linguistico di variazione continua che fa esplodere qualunque «unità» della lingua. Il principio «sistematico» – ciò che organizza la lingua in «sistema» – non è altro, per Deleuze e Guattari, che l’estrazione di un insieme di «costanti» dalle variabili linguistiche, o la determinazione di rapporti costanti tra queste variabili. Ma il modello scientifico grazie al quale la lingua diventa oggetto di studio fa tutt’uno con un modello politico attraverso il quale la lingua viene omogeneizzata, centralizzata, standardizzata, lingua di potere, maggiore o dominante. […] L’unità di una lingua è anzitutto politica. Non c’è lingua-madre, ma presa di potere da parte di una lingua dominante, che a volte avanza su un ampio fronte e altre volte si scaglia simultaneamente su centri diversi. (Deleuze e Guattari 1980, p. 158) E tuttavia, si legge ancora in Mille Plateaux, tra il «potere» delle costanti e la «potenza» delle variazioni si aprono delle faglie e delle zone di passaggio, degli «spazi transizionali» in virtù dei quali viene alla luce come il «maggiore» e il «minore» siano non già stati, bensì unicamente «usi» e «funzioni» della lingua (ibid., pp. 158 sgg.). Va da sé che simili «spazi transizionali» – all’interno dei quali vediamo la «lingua minore» lavorare ai fianchi, e tendere sino a deformarle, le «costanti» della lingua dominante – costituiscono il sito per eccellenza di rinegoziazione delle identità del colonizzatore e del colonizzato. Il poeta caraibico Derek Walcott, che si dichiara «avvelenato dal sangue di entrambi» e «diviso fin dentro le vene» – I who am poisoned with the blood of both, / Where shall I turn, divided to the vein (Walcott 1992, pp. 32-33) – gioca esemplarmente con l’allitterazione, o con un asse

metonimico che scava e svuota la potenza semantica dei nomi, per far tremare e fremere il linguaggio del colonizzatore e del colonizzato: Anguilla, Adina, Antigua, Cannelles, Andreuille, tutte le l, Voyelles, delle liquide Antille, I nomi tremano come aghi Di fregate all’ancora (ibid., p. 41) Il rapporto tra lingua e sopravvivenza, negoziato in uno spazio di tensione tra il «maggiore» e il «minore» che reca in sé il segno della colpevolezza «per tutti quelli che la razza e l’esilio hanno sconfitto, / per il mio zio d’America, / perché, vivendo là, io non potevo mai alzare gli occhi» (ibid., p. 63), si dispiega come un attraversamento dei linguaggi che utilizza le tecniche del détour, della deviazione o, secondo le parole di Édouard Glissant, della «creolizzazione nascosta» (cfr. Glissant 1996). Il fenomeno della mescolanza linguistica e dell’ibridazione, infatti, prende corpo in modo eminente nelle cosiddette «interlingue»: nelle lingue sradicate ed emigrate, nei sabir o lingue franche, nel creolo, nelle «lingue di fusione» e nei diversi gerghi che, da un punto di vista sociologico, vengono spesso identificati con le «classi criminali».26 Queste «interlingue» costituiscono zone per eccellenza non normate del linguaggio, che sono anche spazi di lotta misurabili in termini di potere e di egemonia. Ed è per questo che Bhabha rinviene in poeti e scrittori postcoloniali come Walcott, Rushdie o Naipaul l’emergere di un’«altra storia del segno» contro la storia della nominazione imperiale (Bhabha 1995, p. 52): «altra storia» che apre all’«ibridazione» come a un processo di negoziazione delle identità culturali che proceda oltre ogni logica binaria: se […] l’atto rappresentazione

della sia

traduzione culturale (sia come riproduzione)

come nega

l’essenzialismo di una cultura precedentemente data, vediamo allora che tutte le forme di cultura sono in un processo continuo di ibridazione. Ma per me l’importanza dell’ibridazione non sta nel riuscire a ritrovare i due momenti originari da cui emerge il terzo, l’ibridazione per me è piuttosto un «terzo spazio» che consente ad altre posizioni di emergere. (Bhabha 1990, p. 211) Il «terzo spazio», o lo spazio in-between, della traduzione è così uno spazio di natura interstiziale: un passaggio da cui si aprono varchi di resistenza simbolica e spazi di eversione linguistica che penetrano nella lingua dei dominatori, sottoponendone a tensione il canone e il regime discorsivo. La creolizzazione caraibica – che trova la propria voce in poeti come Derek Walcott ed Edward Kamau Brathwaite (cfr. Brathwaite 1984) – è, in questo contesto, l’esempio più cristallino di un movimento di traduzione «a doppio senso» che forma anche un sito attivo di contropotere.27 La lingua creola è infatti una lingua «tradotta», nata dal contatto tra elementi completamente eterogenei: una lingua sospesa in uno stato di turbolenza che scaturisce da sistemi costantemente messi a confronto. Come scrive Glissant tracciando le coordinate di un pensiero «arcipelagico», che si contrapponga al pensiero «continentale» dominante, non solo «ogni lingua è in origine una lingua creola» – vale a dire una lingua «tradotta» attraverso un’alterità – ma la creolizzazione stessa (e la traduzione) costituiscono una transizione costante, un’«arte della fuga» da una lingua all’altra senza che la prima si cancelli e la seconda rinunci a presentarsi: La traduzione è fuga, quindi rinuncia. Quello che sembra sia soprattutto necessario indovinare nell’atto di tradurre è la bellezza di questa rinuncia […] Direi che questa rinuncia è, nella totalità-mondo, la parte di sé che si abbandona, in qualunque poetica, all’altro. Direi che questa rinuncia, quando è sostenuta da ragioni e da invenzioni sufficienti,

quando sbocca nel linguaggio di condivisione di cui ho parlato, è il pensiero stesso dello sfiorarsi, il pensiero arcipelagico attraverso il quale ricomponiamo i paesaggi del mondo, pensiero che, contro tutti i pensieri di sistema, ci insegna l’incerto, ciò che è minacciato, ma anche l’intuizione poetica verso cui ormai facciamo rotta. (Glissant 1996, pp. 18 e 36)

2.3. Logica, retorica, silenzio Sebbene, come si è visto, la traduzione postcoloniale sia assurta nel corso degli anni a epitome generale della condizione fluttuante e decentrata di soggetti perennemente «in diaspora» che transitano lungo confini e frontiere, essa – apparentemente relegata ai margini e alla periferia dell’«impero» – si è snodata e si snoda innanzi tutto come una lunga e tuttora inconclusa battaglia attorno alla formazione e decostruzione del «canone» letterario ed epistemologico eurocentrico o, per mutuare la formula dello scrittore e saggista keniota Ngūgī wa Thiong’o, attorno allo sforzo di «spostare il centro» del mondo (Ngūgī wa Thiong’o 1993). Caratteristicamente «postcoloniale» è infatti un’attenzione al ruolo e alla definizione «egemonica» della letteratura, presa essa stessa all’interno di una «narrativizzazione imperialista» della storia. Da questo punto di vista, la traduzione e reinscrizione letteraria prendono la forma di una sofisticata pratica di riscrittura – o, secondo l’efficace e intraducibile formula inglese, di writing back – del «canone» occidentale, che mira a smascherarne i silenzi e le discontinuità discorsive: come avviene nel caso della riscrittura, in Wide Sargasso Sea di Jean Rhys, del classico Jane Eyre di Charlotte Brontë, o nel caso di Foe di John Maxwell Coetzee, dove lo scrittore sudafricano reinscrive l’allegoria postcoloniale in uno dei miti fondatori dell’immaginario occidentale, il Robinson Crusoe di Daniel Defoe.28 Seguendo la traccia della reinscrizione letteraria

viene nitidamente alla luce come obiettivo della «riscrittura» postcoloniale non sia tanto (o soltanto) l’inserimento di una voce contestataria, o di una differente versione della storia narrata, quanto – e ben più radicalmente – un ingresso nel discorso dominante che ne infranga parametri e confini, facendo leva sulla stessa retoricità del linguaggio e sugli effetti di occultamento e di silenziamento che essa produce. Come rivendicato da Gayatri Spivak, la stessa messa in gioco della retoricità letteraria agisce come una decostruzione «tropologica», mettendo a nudo i silenzi e le esclusioni strategiche della «continuità imperialista», al punto tale che «può essere che la retorica spezzi la logica producendo un agente, e che indichi la violenza fondativa del silenzio all’opera nella retorica» (Spivak 1993a, p. 181). E tuttavia, proprio la reinscrizione letteraria postcoloniale dimostra – contro ogni ideologia irenica e pacificante della revisione o dell’allargamento lineare del canone dominante – come la riscrittura non possa mai essere piena o completa, scontrandosi piuttosto con una «Legge» inscritta nella stessa trama politicizzata del linguaggio. In In the Heart of the Country (1977), Coetzee narra in modo esemplare la storia di una donna che, nella desolazione delle terre del Sudafrica, lotta per «non essere tra chi è stato dimenticato dalla Storia», mettendo magistralmente a fuoco il nesso che stringe l’esperienza coloniale con un funzionamento violento del linguaggio quale legge politica e simbolica: Le labbra sono stanche, spiego, vogliono riposare, sono stanche di tutto ciò che hanno dovuto articolare da quando erano piccole, da quando è stato detto loro che c’è una legge, che non potevano più separarsi solo per lasciare spazio alla lunga aaa che, a dire il vero, è sempre stata sufficiente per loro, sufficiente a esprimere qualunque cosa fosse necessario esprimere, oppure serrarsi sul lungo soddisfacente silenzio in cui, lo prometto, un giorno mi ritirerò. Sono stanca di obbedire a questa legge, cerco di dire, il cui segno è su di me negli spazi tra le parole, gli spazi

o le pause, e nelle articolazioni che producono la guerra dei suoni, la b contro la d, la m contro la n, e così via… La legge mi ha preso alla gola, dico e non dico, mi invade la laringe, la sua mano è sulla mia lingua, l’altra mano sulle labbra. (Coetzee 1977, pp. 121-22) Ma è soprattutto in Foe, come si è detto, che Coetzee pone il problema della reinscrizione del silenzio all’interno del canone letterario occidentale, focalizzando la narrazione sulle istanze del genere e della razza. Protagonista, infatti, non è più Crusoe – paradigma normativo dell’individualismo borghese imperiale – ma una donna, Susan Barton, che, dopo il naufragio nell’isola di Crusoe e la morte in mare di quest’ultimo, tornata a Londra insieme a Venerdì tenta di trasporre in forma scritta le memorie dell’isola: memorie il cui centro si rivela essere Venerdì stesso, dalla lingua mozzata e dunque chiuso nel solo cerchio di danze ed ecolalie mute: La storia della lingua di Venerdì è una storia che non si può raccontare, o che io non sono in grado di raccontare. Cioè, si possono narrare molte storie sulla lingua di Venerdì, ma la vera storia è sepolta dentro di lui, che è muto. La vera storia non si potrà raccontare finché, grazie all’arte, non si troverà il modo di dare voce a Venerdì. (Coetzee 1986, p. 107) La storia del «nativo», di Venerdì, è così l’enigma o il buco nella narrazione da cui scaturisce il desiderio generativo di Susan Barton, desiderio traslato nella scrittura secondo una peculiare inversione dei generi e delle posizioni genitoriali, che le fa affermare: «cerco ancora strenuamente di essere padre della mia storia. […] Sono stata destinata a non essere la madre della mia storia, bensì solo a generarla» (ibid., pp. 111 e 114). Spivak, leggendo il romanzo di Coetzee, mette in luce le aporie della testualità, la difficoltà con la quale femminismo e anticolonialismo possono

occupare «uno spazio narrativo continuo» all’interno di una narrazione che tenti di reinscrivere la storia del capitalismo e della colonia (Spivak 1999, p. 200). Tuttavia, è soprattutto all’esasperazione e alla smania con la quale la donna tenta di restituire voce e parola al «nativo», di costruirlo come «soggetto di una storia», che occorre qui prestare attenzione. Nel finale, infatti, un narratore anonimo narra di un secondo naufragio, a un tempo reale e immaginario, in cui Susan Barton stessa e Venerdì giacciono morti: Ma questo non è un luogo di parole. Ogni sillaba, mentre esce, viene catturata, si riempie d’acqua e si propaga. È un luogo in cui i corpi sono segni di se stessi. È la casa di Venerdì. Lui si gira e si rigira, finché non giace completamente disteso, la faccia davanti alla mia. Sotto la pelle tesa si intravedono le ossa, le labbra sono ritratte. Passo un’unghia tra i denti, cercando di trovare un varco. La bocca si apre. Da dentro esce un flusso lento, senza fiato, ininterrotto. Risale il suo corpo e fuoriesce su di me; lambendo le scogliere e le rive dell’isola, scorre verso nord e verso sud ai due capi della terra. Morbido e freddo, oscuro e senza fine, mi batte contro le palpebre, contro la pelle del viso. (Coetzee 1986, p. 144) Il testo di Coetzee, allegoria postcoloniale dell’intraducibile, mette così in scena il desiderio e l’impossibilità – il desiderio impossibile – di invadere il margine («È un luogo in cui i corpi sono segno di se stessi») e l’improprietà della pulsione dominante a dare voce al «nativo» e a tradurre da una posizione di superiorità monolinguistica. Venerdì, scrive giustamente Spivak, «sta lì […] a ricordarci l’alterità della storia» (Spivak 1999, p. 203).29 Proprio lungo queste coordinate teoriche e concettuali si snoda il celebre saggio di Spivak Can the Subaltern Speak? (ora in Spivak 1999), scritto in dialogo e in polemica con il

lavoro del gruppo dei Subaltern Studies. In particolare, qui Spivak articola una critica della logica «speculativa» del fondatore del gruppo Ranajit Guha, secondo il quale il progetto degli «studi subalterni» doveva obbedire all’ingiunzione benjaminiana di «recuperare il passato sottratto», «espropriare gli espropriatori», dar voce agli «esclusi dalla storia del mondo», rintracciando la coscienza del subalterno nel suo sviluppo dialettico, rintracciandola allo stato puro. Spivak ha buon gioco nell’obiettare che compito dello storico non può essere (secondo i protocolli della più classica delle metafisiche) «recuperare una presenza» o una «origine» perdute, dovendo piuttosto consistere nella disarticolazione della catena semiotica – della nietzscheana Zeichenkette – all’interno della quale il soggetto, subalterno o elitario, è costituito. Spivak va tuttavia oltre: questionando alla radice gli stessi assunti metodologici del progetto storiografico e teoricopolitico degli «studi subalterni». Facendo leva sul caso dell’abolizione, da parte del potere coloniale inglese, del rito indiano del sati (il rogo della vedova sulla pira del marito), ella giunge infatti alla conclusione che il subalterno – o meglio la subalterna – «non possa parlare». Che secondo quanto scritto, rettificato, poi riscritto da Spivak, la subalterna «non possa parlare», non sta ovviamente a indicare un’incapacità della donna subalterna di prender parola, o il fatto che essa non lasci alcuna traccia nel tessuto storico-sociale, ma la (teoricamente ben più rilevante) consapevolezza che – all’interno dei protocolli del linguaggio dominante, sia esso storico, etnografico o sic et simpliciter politico – non le è assegnata alcuna posizione di enunciazione ; o che, in altri termini, essa si costituisce come il «non-luogo dell’emittenza di un discorso alternativo» (Carravetta 2009, p. 322). Al di là delle polemiche che hanno accompagnato tale affermazione su un presunto «silenzio» dei subalterni – vale a dire, sulla radicale irrecuperabilità della loro esperienza – occorre tuttavia qui soffermarsi sul senso che, in questo

contesto, acquisisce il termine «parlare». Fedele a un’impostazione gramsciana, Spivak come si è visto aderisce a una concezione del «tessuto» o del «testo sociale» per la quale la nozione – solo apparentemente testuale – di elaborazione (vale a dire di dispiegamento delle relazioni egemoniche) riveste un ruolo a dir poco cruciale. Sotto questo profilo, il «parlare» dei subalterni sta a indicare non altro che una possibile transazione tra il soggetto che enuncia e il soggetto che legge/ascolta: o, detto altrimenti, una transazione tra i «sommersi» della storia e coloro che intendono recuperarne le voci. Affermare che i subalterni non possono «parlare» segnala così innanzi tutto una rottura intervenuta nelle relazioni tra coloro che sono «passati» – coloro che hanno abitato ai margini o alla periferia della Storia, o che ancora la abitano – e il presente: rottura il cui imputato principale è una ben precisa figura della teoria e della politica moderne. In questo modo si spiega l’affondo contro il paradigma rappresentativo e/o rappresentazionale della teoria politica singolarmente condotto contro due figure, quali Deleuze e Foucault, unanimemente considerate come portavoce di una teoria «non-rappresentazionale», e di una politica «non rappresentativa». Dissezionando il loro noto dialogo su Gli intellettuali e il potere (1972), Spivak rinviene infatti anche in esso delle faglie, o delle linee di esclusione, che concorrono a preservare «il soggetto occidentale, o l’Occidente come Soggetto» (Spivak 1999, p. 261). Là dove Deleuze affermava: «ce ne infischiavamo della rappresentanza, dicevamo ch’era finita, ma non tiravamo le conseguenze di questa conversione “teorica” – cioè che la teoria esigeva che le persone implicate parlassero infine praticamente per conto proprio», e Foucault ribatteva: «quando la gente si mette a parlare e ad agire direttamente, non oppone un’altra rappresentatività alla falsa rappresentatività del potere» (Deleuze e Foucault 1972, p. 122), Spivak denuncia in entrambi una pericolosa obliterazione della problematica dell’ideologia, che fa tutt’uno con un’«indiscussa valorizzazione dell’oppresso

come soggetto» e una forma intellettuale di «ventriloquismo del subalterno» (Spivak 1999, p. 267; ma sull’attualità di una riflessione che prenda in esame i meccanismi dell’ideologia si veda in generale Žižek 1994). Ma che cosa è propriamente in gioco in questa accusa indirizzata ad autori che pure, nel panorama della teoria postcoloniale, hanno fornito strumenti di indagine e forme categoriali indispensabili per la critica del Soggetto eurocentrico e dei suoi apparati di potere e di conquista? Non solo, evidentemente, la rilevazione di una ingenuità teoretica e politica nel dispositivo di liquidazione della «rappresentanza» – nel suo duplice statuto di Vertretung e di Darstellung, di rappresentanza politica e di rappresentazione concettuale (per un inquadramento cfr. Accarino 1999) – in virtù del quale sarebbe sufficiente dichiarare obsoleto o «superato» il meccanismo di delega /rappresentazione per poter restituire voce e parola agli oppressi o, per riprendere Fanon, ai «dannati della Terra». Ma anche, e ben più in profondità, la denuncia dell’attribuzione preventiva di una soggettività indivisa e monolitica agli oppressi – in tal modo sotterraneo alter ego del «soggetto di sapere» occidentale – che corrisponde, scrive Spivak, a una incapacità a «immaginare il tipo di Potere e di Desiderio che abiterebbe il soggetto innominato dell’Altro dell’Europa» (Spivak 1999, pp. 277-78). È in questo senso che, per riprendere una categoria di Jean-François Lyotard, lo statuto di «subalternità» potrebbe essere definito come un caso di dissidio, o di différend: dove, come scrive Lyotard, si dà «dissidio» nel «caso in cui l’attore è privato dei mezzi di argomentare e diviene perciò una vittima. […] Un caso di dissidio tra due parti ha luogo quando il “regolamento” del conflitto che le oppone si svolge nell’idioma di una di esse mentre il torto di cui l’altra soffre non si significa in tale idioma» (Lyotard 1983, p. 26). O ancora: Il dissidio è lo stato instabile e l’istante del linguaggio in cui qualcosa che deve poter essere messo in frasi non può

ancora esserlo. Tale stato comporta il silenzio, che è una frase negativa, ma fa appello anche a frasi possibili in via di principio. […] Il gioco di una letteratura, di una filosofia e forse di una politica consiste appunto nel testimoniare dei dissidi trovando loro degli idiomi. (Ibid., p. 30) Il «silenzio» dei subalterni non è allora altro che la «diaspora» del linguaggio politico che impedisce ad alcuni agenti di significare le loro condizioni o i torti subiti, se non nell’idioma e nella lingua dell’altro. Nel momento in cui individui o gruppi (siano essi «nativi», donne o migranti) vengono privati della possibilità di «dire» e significare la loro esperienza in un idioma che non sia quello dominante, allora si dà un dispositivo di «subalternizzazione»: vale a dire un dispositivo di deprivazione di soggettività (o di desoggettivazione ) che impedisce ogni «presa di parola» politica. È in questo senso che l’insistenza di Gayatri Spivak sul «silenzio» dei subalterni si fa allegoria dell’intraducibilità: dove però è questione non tanto di una intraducibilità «essenziale» (metafisica o originaria), quanto della «storia dell’intraducibilità» del discorso subalterno nei canoni del discorso imperialista (cfr., per una lettura analoga, Chow 1993, pp. 35-38). Ma per tornare alle coordinate con cui si è aperto questo paragrafo – incentrate sul rapporto politicamente e linguisticamente costituente tra logica, retorica e silenzio – e sondarne le implicazioni in ordine a un ripensamento del discorso attorno alla soggettività, è bene prestare attenzione a un’altra definizione che Spivak traccia del soggetto «subalterno». In Deconstructing Historiography, attaccando l’enfasi di Ranajit Guha sulla «coerenza» e sulla «logica» che «finirà inevitabilmente per oggettivare il subalterno e per rinchiuderlo nel gioco del sapere come potere», Spivak asserisce infatti che esso/a «è necessariamente il limite assoluto dello spazio in cui la storia è narrativamente trasformata in logica» (Spivak 1988, p. 120). A ben vedere, in gioco qui non è soltanto la pur cruciale questione dei

limiti della storiografia, incentrata sulla consapevolezza che aggiungere un «supplemento» subalterno alla storia elitaria non può significare addizionare, secondo un modello meramente aritmetico, frammenti di storie sommerse al continuum della storia ufficiale. Ma anche una ben peculiare e specifica declinazione del problema della soggettivazione. Non è un caso che, nel corso degli anni, Spivak – mossa dall’interrogativo: chi decolonizza? e come? – si sia rivolta sempre più frequentemente a scrittrici e scrittori postcoloniali per articolare secondo un modulo affermativo la questione della soggettività subalterna, poiché è proprio in una certa scrittura postcoloniale e femminile che le parti del potere e del soggetto paiono invertirsi, aprendo il varco al pensiero di una possibile «politica della soggettivazione». Si pensi, quale esempio particolarmente eloquente, al racconto Draupadi della nota scrittrice e attivista bengalese Mahasweta Devi, racconto della violenza esercitata brutalmente sulla carne delle donne e degli uomini tribali nell’India coloniale: racconto che si conclude con la donna, braccata e infine imprigionata, che si espone nuda e fiera al potere, con il corpo violato, il ventre e il petto sanguinanti, e che, con questo stesso gesto, fa ammutolire il potere, riportandolo alla sua condizione di nuda violenza: Draupadi ora è in piedi davanti a lui. Nuda. Le cosce e il pube chiazzati di sangue rappreso. I seni, due ferite aperte. […] – Dove sono i suoi vestiti? – Li ha strappati, signore. Il corpo nero di Draupadi si fa ancora più vicino, scosso dal tremito di una risata primitiva, assolutamente incomprensibile a Senanayak. […] – A cosa servono i vestiti… vestiti? Tu puoi spogliarmi. Credi di potermi coprire? Sei forse un uomo tu? … Non ci sono uomini, qui, di cui io debba vergognarmi, – dice. – Non ti permetterò di coprirmi. Cos’altro potete farmi? Forza, uno scontro a fuoco… uno scontro a fuoco!

Con i suoi seni scarnificati, Draupadi dà uno spintone a Senanayak, e per la prima volta in vita sua Senanayak ha paura di stare davanti a un obiettivo disarmato, una paura terribile. (Devi 1997, pp. 19-20) Nel leggere il racconto di Devi si ha la sensazione di un ribaltamento di piani, di una sorta di mise en abîme della narrazione: nella misura in cui, nelle ultime righe, il lettore ha la consapevolezza che l’unico soggetto autentico del racconto è la donna tribale, e che il «silenzio» – per rovesciare la formula di Spivak – è l’essenza più intima non già del subalterno, bensì del potere. La soggettivazione subalterna prende così la forma di una «auto-traduzione»: una sorta di «pedagogia degli oppressi» (o di empowering dal basso) che non può non avere ricadute sulla codificazione di nozioni quali quelle di «soggettività» e di «cittadinanza».

3. Soggetti politici Come agire oggi da rabdomante per le migliaia di accenti ancora sospesi nei silenzi del serraglio di ieri, per le parole del corpo velato, per un linguaggio che, a sua volta, ha da molto tempo preso il velo? Ascoltando, io tento di cogliere le tracce di qualche frattura giunta a maturazione. Ascoltando, non ho potuto fare altro che avvicinare questa o quella fra le voci che procedono a tentoni nella sfida delle nuove solitudini. […] Non la pretesa di «parlare per conto di», o peggio di «parlare di», ma l’impegno a parlare «vicino a» e, se possibile, «contro di». Assia Djebar, Femmes d’Alger dans leur appartement

3.1. Geografia del dominio, cartografie della subalternità La violazione epistemica nel teatro della colonizzazione e della decolonizzazione è stata efficacemente riassunta da Gayatri Spivak nella categoria di enabling violation, di «violazione abilitante» (Spivak 1999, p. 217; 2003b, p. 194): per la quale se l’accesso all’Illuminismo europeo (con i suoi correlati ideali di libertà e di eguaglianza) attraverso la colonizzazione ha costituito una forma paradossale di «abilitazione», tale «abilitazione» è al tempo stesso coincisa e si è sovrapposta con una forma feroce di violazione, materiale ed epistemica, dei soggetti colonizzati. Le istanze politiche più urgenti nello spazio decolonizzato (quali costituzionalità, cittadinanza, democrazia) sono infatti, ricorda Spivak, tacitamente riconosciute come codificate all’interno dell’eredità dell’imperialismo: concettimetafore per i quali non vi è alcun referente storicamente adeguato

nello spazio postcoloniale (cfr. Spivak 1993a, pp. 163-64). È nel contesto di una simile rappresentazione «distopica» della colonizzazione che acquista rilevanza l’uso «tattico» della categoria (di ascendenza gramsciana) di «subalternità»: dove, sulla scia di Michel de Certeau, la «tattica» si distingue dalla «strategia» (modello della razionalità politica, economica, scientifica) nella misura in cui non fa affidamento su alcun luogo «proprio» a partire dal quale effettuare il calcolo dei rapporti di forza rispetto a un’esteriorità distinta – nella misura in cui il suo luogo «è solo quello dell’altro» (de Certeau 1990, p. 15). Rielaborato, come si è visto, nel tentativo di «riscrivere» la lotta per l’indipendenza dell’India coloniale oltre e contro i modelli storiografici nazionalisti, marxisti ed elitari, il termine «subalterno» ha inteso innanzi tutto portare allo scoperto quello «spazio autonomo» di azione e di resistenza al quale era possibile ascrivere una «politica del popolo» indipendente dalla politica e dai codici di significazione delle élite (cfr. Guha 1988a). In particolare, nei primi lavori del collettivo di storici degli «studi subalterni», l’attenzione polemica era rivolta in primo luogo contro quel pregiudizio spontaneista che tendeva a inscrivere le rivolte e le insurrezioni contadine in una sorta di «storia naturale» fatta di «scoppi», «sollevazioni», «propagazioni», privandole dunque di forme autonome di politicità; pregiudizio cui veniva invece contrapposta la ricerca della struttura «essenziale» della coscienza contadina e dei modi dinamici e imprevisti assunti dalla sua agency politica. In tal modo, il concetto gramsciano di «subalterno» (fatto coincidere con la nozione di «popolo») consentiva di evitare le strettoie del riduzionismo economico e dell’impianto teleologico ancora imputabili a uno strumentario teorico strettamente marxista, mantenendo al contempo il fuoco dell’analisi sui fenomeni dello sfruttamento e della dominazione (cfr. Young 2001, pp. 354-55; e soprattutto Sarkar 2000, dove si trova articolata una critica serrata della deriva «postmoderna» del lavoro dei Subaltern Studies; ma in generale, cfr. Chaturvedi 2000).

Si è visto come gran parte della polemica interna al lavoro del gruppo si sia consumata attorno alla logica speculativa, quasi-hegeliana, che ha governato il tentativo, in particolare di Guha, di mappare lo «sviluppo essenziale» della «coscienza» subalterna, in contrasto con una visione dell’insurrezione «come esterna alla coscienza stessa contadina [dove] la Causa è posta come un fantomatico surrogato della Ragione, come logica stessa di quella coscienza» (Guha 1988b, p. 45). Tuttavia, nonostante le impasse teoriche derivanti dal tentativo di «recuperare» la soggettività dei subalterni, proprio nella definizione di quest’ultima risiedono alcuni dei contributi più preziosi offerti dagli studi postcoloniali in ordine a un ripensamento del paradigma (occidentale ed eurocentrico) del soggetto universale e costituente, cui correlato è una ben determinata concezione del potere e della politica. Le definizioni che di volta in volta sono state tracciate della «coscienza» subalterna si rivelano infatti invariabilmente differenziali, sottrattive, negative. Se inizialmente Guha identificava le «classi subalterne» con «la differenza demografica tra la totalità della popolazione indiana e tutti quelli che sono stati descritti come “élite”» (ibid., pp. 41-42), successivamente egli più esplicitamente scrive: «la sua identità [del subalterno] consisteva nella somma delle sue subalternità. In altri termini egli imparava a riconoscersi non per via delle proprietà e degli attributi della propria esistenza sociale, ma per via di una diminuzione, se non di una negazione, di quelli dei suoi superiori» (Guha 1997, p. 18). Come scrive Spivak, «la coscienza non è qui coscienza-in-generale, ma una sua specie politica storicizzata, una coscienza subalterna» (Spivak 1988, p. 113) mai del tutto recuperabile e sempre dislocata rispetto ai significati ricevuti: una coscienza «negativa» che forse può fornire «il modello per una teoria generale della coscienza» (ibid., p. 114). Concepita in questo modo, come «presenza senza essenza» (O’Hanlon 2000, p. 89) o come «posizione senza identità» (Spivak 2008, p. 240), la categoria di «subalternità» diviene anche uno strumento

teorico in grado di smascherare le odierne dinamiche politiche di diseguaglianza e di esclusione «globali», entrando in dialogo e in risonanza con alcuni tentativi – condotti in ambito strettamente filosofico – di ripensare le fondamenta e, soprattutto, la topologia della democrazia (cfr. Fornari 2005). È tuttavia soprattutto grazie all’operazione decostruttiva di Chakrabarty e di Spivak che la categoria di «subalternità» ha progressivamente acquisito la propria profondità di campo teoretica, travalicando i confini della revisione dei canoni storiografici del subcontinente indiano e andando a incrociare un’analisi delle logiche che governano il tardo capitalismo «globale». Si prenda le mosse dalla prospettiva di Chakrabarty, poiché in essa viene allo scoperto in maniera adamantina come il campo di tensione investito dal termine «subalterno» sia squisitamente filosofico, oltre – se non prima – che storico e antropologico. In Provincializing Europe lo storico indiano puntualizza infatti, in maniera chiara ed esplicita, che il subalterno «non è il contadino o il membro della tribù empirico, non nel senso che un programma storiografico populista potrebbe immaginare. La figura del subalterno è necessariamente mediata dai problemi della rappresentazione» (Chakrabarty 2000, p. 132). Di qui una prima indicazione: come avviene per Spivak, anche qui la nozione di «subalternità» (epurata di qualunque connotato socioantropologico) rimanda al problema della «rap-presentazione», nel suo duplice statuto di Vertretung e di Darstellung, di «delega» e di «messa-in-scena». Rimanda, cioè, a quel paradosso della «luogo-tenenza» – del prender parola in nome di altri – con il quale ogni storiografia e ogni politica da sempre sono obbligate a confrontarsi. Ma vi è di più: non potendo essere imprigionato in alcuna definizione sociologica, il termine subalterno sembra qui non designare che un «posto», una «posizione», il contenuto della quale non potrà che essere dettato da qualche «differenza antropologica» ritenuta di volta in volta, e dunque in modo contingente, discriminante (cfr. Balibar 1997, p. 13). D’altro

lato, dopo aver caratterizzato il progetto dei Subaltern Studies come un tentativo di tracciare una «genealogia delle “masse” in quanto attori politici» (Chakrabarty 2004, p. 233) e averne denunciato gli esiti potenzialmente «populistici», Chakrabarty sottopone a un’importante torsione la stessa nozione di «subalterno». Secondo una mossa radicalmente antiessenzialista, infatti, lo storico indiano definisce i «subalterni» come «un soggetto collettivo senza nome proprio, un soggetto che può essere nominato soltanto attraverso una serie di slittamenti del termine originale europeo “proletariato”» (ibid., p. 243), sottendendo con ciò l’impossibilità di nominare in maniera essenzialistica un presunto soggetto rivoluzionario. Compiendo un analogo gesto antiessenzialista Spivak, per parte sua, definisce il «subalterno» come quello «spazio» che è stato «tagliato fuori dalle linee di mobilità» (Spivak 1996b, p. 288). In altri termini: la condizione di «subalternità», lungi dal potersi definire in forma sostantiva, ha di per sé un valore unicamente aggettivale, indicando quei segmenti e quelle frazioni della società e del globo che, esclusi dalla mobilità sociale, sono al contempo esclusi da ogni struttura di «responsabilità» – soggetti che non sono, ma divengono subalterni, non potendo più rispondere a o di niente. Quali spunti teorici è possibile trarre da questa breve ricapitolazione di due delle numerose definizioni tracciate, nell’ambito dei Subaltern Studies, del termine «subalterno»? E che indicazioni si può derivarne in ordine a un ripensamento del lessico e della semantica odierni della democrazia? In primo luogo, grazie al monito di Chakrabarty sui pericoli connessi a programmi storiografici populisti che identifichino in termini socioantropologici stringenti il «subalterno», è possibile riconoscere in quest’ultimo un «significante vuoto», un significante fluttuante e aperto allo slittamento metonimico. Detto altrimenti: se non vi è definizione della categoria di «subalternità» che non passi attraverso le strettoie della «rappresentazione», ciò sta a segnalare innanzi tutto l’impossibilità di nominare in modo

essenzialistico l’oppresso o l’escluso dalla «piramide della civilizzazione» – se non, per l’appunto, attraverso una serie strutturalmente aperta di parole-chiave, quali donna, nativo, migrante e via dicendo. A tale argomento radicalmente antiessenzialistico, Spivak aggiunge tuttavia un tassello ulteriore, incentrato sulla consapevolezza che vi è sempre un significante forcluso, un «subalterno del subalterno» (la donna nativa, ad esempio), di cui non si tratta di rappresentare – nei due sensi già ricordati della «delega» e della «messa-in-scena» – la presunta «coscienza» o «esperienza», ma che chiama in causa una ben definita teoria della politica e della democrazia. Una teoria che, lungi dal risolversi nella caricatura delle differenze anarchiche e fluttuanti, vede la politica costruirsi su una serie di esclusioni radicali (o, per dirla con Judith Butler, di «dispositivi di abiezione»: cfr. Butler 1993), che tornano però a ossessionarla con la loro stessa assenza: secondo quella lezione psicoanalitica per la quale ciò che, forcluso nel Simbolico, non è direttamente rappresentabile, è destinato tuttavia a significarsi nel Reale come interruzione e sovversione dei processi di significazione. Non a caso la teorica cinese Rey Chow definisce il «nativo» come sintomo, come il lacaniano sinthome: come ciò che dà consistenza ontologica al soggetto (in questo caso al Soggetto-padrone coloniale e neocoloniale europeo) marcando il luogo della sua mancanza costitutiva (Chow 2004, pp. 27 sgg.). Ed è in questo senso che, nel pensiero postcoloniale, non si tratta tanto di smascherare un mero effetto di esclusione dell’altro, quanto piuttosto di denunciare un potere di inclusione che è di per sé più ferocemente esclusivo di qualsiasi gesto di ostentata emarginazione operato con pratiche storiche e materiali di confinamento. Tale figura di una inclusione escludente o di una esclusione inclusiva , o meglio, di una inclusione differenziale e selettiva dei soggetti nello spazio normato della sovranità e del potere, si trova oggi icasticamente e materialmente illustrata dai radicali processi di

trasformazione che stanno investendo i tradizionali concetti moderni dei diritti e della cittadinanza a partire dal nuovo e per certi versi inedito regime delle odierne migrazioni transnazionali. Non a caso sempre Spivak ha potuto di recente affermare che il «nuovo subalterno è prodotto dalla logica di un capitale globale che forma le classi in modo solo strumentale» (Spivak 2008, p. 330), additando con ciò la ben più vasta e sterminata questione dei sommovimenti tettonici che al giorno d’oggi stravolgono la geografia sociale del mondo globale, mettendo in scacco ogni tentativo di ricomporne le linee lungo schemi e traiettorie interpretative ereditate dalla tradizione. In effetti, proprio il «caso» delle migrazioni transnazionali costituisce il terreno privilegiato sul quale è possibile verificare la costituzione in senso stretto postcoloniale delle linee di faglia e delle nuove fratture che solcano le società contemporanee (cfr. Mezzadra 2008). E ciò nella misura in cui l’incessante flusso di persone – che si interseca secondo traiettorie tutt’altro che «lisce» e lineari con i massicci flussi di capitale – tra e lungo i confini del Nord e del Sud del mondo, induce una «disaggregazione» dello spazio giuridico che fa tutt’uno con una scomposizione della figura unitaria del cittadino e della cittadinanza moderni (cfr. ad esempio Balibar 2001, 2003 e 2005; Benhabib 2004 e 2006; Ong 2006; Mezzadra 2004 e 2008; Rigo 2007). In particolare, la proliferazione di una pluralità di categorie e di status giuridici soggettivi (cittadini, semicittadini, migranti «legali», sino all’estremo limite logico del «clandestino illegale») ripropone una frammentazione giuridica già tipica delle nazioni coloniali e imperiali, riattualizzando la distinzione coloniale tra citizen e subject, «cittadino» e «suddito», o – come scrive Balibar – indicando «la persistenza del posto vacante del soggetto [sujet] o dell’ombra che si porta con sé il cittadino nello spazio della sovranità» (Balibar 2001, p. 78). In questo senso diviene possibile denunciare una «ri-colonizzazione delle relazioni sociali» (ibid., p. 80) o, più specificamente, una «ricolonizzazione» delle migrazioni (cfr. Balibar 2003; Sassen

1996), cui corrispettivo è sì una radicale dis-articolazione degli elementi (diritti, entitlements, territorialità, nazione) che tradizionalmente componevano l’istituto moderno della cittadinanza (cfr. Ong 2006, pp. 14 sgg.), ma anche una speculare e concomitante scomposizione della stessa figura dello straniero, che vede affiancarsi ad alcuni stranieri meno che stranieri (appena differenti, «vicini», dunque a noi simili e assimilabili) degli stranieri più che stranieri (radicalmente «altri» da noi, dunque disomogenei e inassimilabili) (cfr. Balibar 2005, p. 136; ma sul carattere strutturalmente ambivalente, e di conseguenza irriducibilmente «indecidibile», della figura dello «straniero» nel quadro della tradizione politica occidentale cfr. anche Honig 2001). Se, come scrive ancora Balibar, la «categoria del “cittadino” con l’insieme delle sue condizioni di accesso (luogo di nascita, filiazione), le sue sotto-categorie, i suoi campi di esercizio, le sue modalità di formazione e di educazione civica, è per eccellenza un modo di classificare e di individualizzare i soggetti», e se d’altro canto «un tale processo non può avere luogo senza che altre figure del “soggetto” siano abolite e cedano il posto con la violenza o la persuasione» (Balibar 2005, p. 100), ci si troverebbe oggi in una condizione che fa risorgere in modo inquietante «modelli di esclusione in contraddizione flagrante con i principi di eguaglianza che gli Stati-nazione democratici proclamano e iscrivono nelle loro costituzioni: in particolare, la distinzione di “cittadini” e “sudditi” che caratterizzava le nazioni coloniali e imperiali, in cui la frontiera si presentava sempre (ivi compreso sulle carte geografiche) come una frontiera doppia, tra la metropoli e i territori coloniali da una parte, e tra questi e il resto del mondo dall’altra» (ibid., pp. 136-37). Appare allora sotto questo profilo evidente la misura in cui è possibile definire l’intero spettro delle società contemporanee (e in primis la società dell’Europa «allargata») come «un insieme di situazioni postcoloniali» (Balibar 2001, p. 57), o come strutturalmente segnato da una profonda «frattura coloniale» (Blanchard, Bancel e Lemaire

2005) resa bruciante dagli odierni movimenti di popolazioni, e in che misura una determinazione strettamente topologica (non essenzialista e non sostantiva) del «subalterno» quale quella che si è in questa sede tentato di offrire, possa fornire alcuni strumenti teorici per ripensare i lineamenti e la costituzione delle democrazie contemporanee. Ed è in tale senso che, giunti su questa soglia, appare utile volgersi a considerare alcuni elementi teorico-politici in senso lato «costruttivi» desumibili dal grande canovaccio incompiuto degli studi subalterni e postcoloniali, al fine di scandagliare il rapporto sì di tensione ma anche di mutua coimplicazione tra ordine simbolico, politica e logiche dell’universale.

3.2. La parola politica Le implicazioni degli «studi subalterni» per una teoria della «resistenza» e della «liberazione» sono racchiuse nella stessa categoria, ampia e di per sé metonimica, di «insurrezione»: dove, con questo termine, occorre intendere quei momenti radicalmente democratici nei quali la subalternità è portata a punti di crisi (cfr. Spivak 1988, pp. 104-05; 1996b, pp. 289 sgg.) – quei momenti, cioè, in cui il tentativo di muovere l’«escluso» all’interno del perimetro della cittadinanza coincide con una concomitante rinegoziazione e ridefinizione degli stessi codici dell’universalismo astratto. Da questo punto di vista, è forse Étienne Balibar a chiarire in maniera più cogente la posta qui in gioco, là dove scrive che «il discorso autentico dei dominati (dei “subalterni”), “indipendente” da ogni utilizzazione o inversione egemonica, non è isolabile come tale. Se esso appare, è come un’origine “dimenticata”, o come “sintomo” individuale e collettivo, non tanto manifestato in parole e discorsi, quanto in una resistenza pratica, nell’esistenza o nella presenza irriducibile dei dominati nel cuore del dominio stesso… Per questo bisogna riconoscere che le forme reali del rapporto tra dominanti e

dominati nel campo dell’ideologia non potrebbero sfuggire all’ambivalenza storica, ma anche che uno dei significati dell’universale è intrinsecamente legato alla nozione di insurrezione nel senso ampio del termine (coloro che si rivoltano collettivamente contro il dominio in nome della Libertà e dell’Uguaglianza sono precisamente coloro che la storia ha chiamato insorti, Insorgenti, Insurgentes). Chiamo questo significato una universalità ideale, non solo perché ha fornito la sua base a tutto l’“idealismo” filosofico che fa del corso della storia il processo stesso dell’emancipazione, la realizzazione dell’idea dell’uomo (o dell’essenza umana, della società senza classi, ecc.), ma perché con essa si introduce nel campo della politica la nozione di un incondizionato» (Balibar 1997, p. 246). E tuttavia, là dove Balibar in questo passaggio – nonostante l’identificazione dell’universale con un «incondizionato», una «casella vuota» o, si potrebbe dire con Chakrabarty, un place-holder, pronto ad accogliere i movimenti di soggettivazione imprevisti dei soggetti sociali – sembra porre in sospensione o sotto epoché la possibilità di un «discorso autentico dei dominati», è proprio attorno al principio di un’autonoma e radicale presa di parola degli oppressi e dei «subalterni» che si dipana la traccia teoricamente più feconda degli studi postcoloniali. Come si vedrà, in critici come Chakrabarty, Bhabha e Spivak, al pari che in filosofi come lo stesso Balibar e Jacques Rancière, è possibile rintracciare un pensiero politico della «soggettivazione» che, prendendo le distanze sia dal paradigma moderno del soggetto universale e costituente sia dalla sua dissoluzione postmoderna, insiste sul nesso insormontabile tra costituzione del soggetto e articolazione dell’universale: o, detto altrimenti, sull’unità originaria e indissolubile di ontologia e politica. Lungo la storia della filosofia si è d’altro canto più volte portata l’attenzione sull’unità, nel «soggetto», del subjectum (sostanza individuale o sostrato materiale di accidenti) e del subjectus (termine giuridico che rimanda alla soggezione e alla sottomissione a un potere sovrano), quale gioco di

parole – materialmente attivo ma denegato nell’intero spettro dell’indagine filosofica – che indirizza lo sguardo verso un enigma: «perché lo stesso nome che permette alla filosofia moderna di pensare e designare la libertà originaria dell’essere umano – il nome del “soggetto” – è precisamente il nome che storicamente ha significato la soppressione della libertà, o perlomeno una sua intrinseca limitazione, cioè la soggezione?» (Balibar 1994, p. 8; ma sull’unità, nel «soggetto», di soggettivazione e assoggettamento, si veda anche Butler 1997). Tale «enigma» corrisponde a una concezione della libertà non già come bene o status, bensì come risultato di un processo di «liberazione», di una emancipazione, di un divenire-liberi che muove dalla soggezione e mantiene con essa una relazione insormontabile. È lungo queste linee che in una parte del pensiero postcoloniale la tematizzazione della condizione di «subalternità» – quale radicale deprivazione di soggettività e di parola – si lega a un pensiero dell’universale inestricabilmente connesso con una tematizzazione dei processi di «soggettivazione» (o di «presa di parola») subalterni. Ma ci si soffermi, in prima battuta, sul termine stesso «presa di parola», prendendo in prestito quanto scriveva un filosofo come Michel de Certeau nella temperie del Sessantotto: La parola, divenuta un «luogo simbolico», designa lo spazio creato dalla distanza che separa i rappresentati e le loro rappresentazioni, i membri di una società e le modalità del loro associarsi. È insieme l’essenziale e il nulla, dato che annuncia uno scarto nello spessore degli scambi e un vuoto, un disaccordo, anche là dove gli apparati dovrebbero articolarsi su ciò che pretendono di esprimere. Fuoriesce dalle strutture, ma per indicare ciò che a queste manca, cioè l’adesione e la partecipazione degli assoggettati. (de Certeau 1994, p. 35) Scarto, disaccordo, vuoto sono d’altronde alcune delle

parole chiave attorno alle quali sono venuti recentemente articolandosi importanti e suggestivi tentativi di ripensare le logiche politiche operanti alla base delle democrazie contemporanee, a partire dall’esperienza dell’imprevista e imprevedibile presa di parola di soggetti altrimenti pensati come radicalmente privi di logos: soggetti autoritariamente privati dello status onto-politico di esseri «dotati di parola». In particolare, Jacques Rancière ha ridefinito la politica muovendo dall’assunto dell’esistenza irriducibile di una «partedei-senza-parte», che rivela come il conto delle «parti» nell’ordine sociale – la distribuzione dei ruoli e delle funzioni del corpo sociale – sia un computo sempre falsato, affetto da una contingenza radicale: «Vi è politica quando esiste una parte dei senza-parte, una parte o un partito dei poveri. […] la politica esiste nel momento in cui l’ordine naturale del dominio viene interrotto dall’istituzione di una parte dei senza-parte. […] Al di fuori di questa istituzione, non vi è politica, ma soltanto l’ordine del dominio o il disordine della rivolta»; o ancora: «Vi è politica perché coloro che non hanno diritto a essere contati come esseri parlanti si fanno contare comunque e istituiscono una comunità per il fatto stesso di mettere in comune il torto, che non è altro che lo scontro stesso, la contraddizione tra due mondi costretti in uno solo: il mondo in cui esistono e quello in cui non esistono, il mondo in cui vi è qualcosa “tra” loro e quelli che non li riconoscono in alcun modo come esseri parlanti e suscettibili di essere contati, e il mondo in cui non vi è nulla» (Rancière 1995, pp. 32-33 e 46, trad. modificata). Di più: la politica ha inizio unicamente con lo «spazio vuoto della libertà del popolo» (Rancière 1995, p. 40), espressione che non può che richiamare quella che il teorico indiano Partha Chatterjee ha denominato, sulla scia del lavoro condotto intorno allo «spazio autonomo» della politica dei «subalterni», «politica popolare [popular politics]» (Chatterjee 2004, p. 19): intendendo con ciò un’esperienza della politica, e della democrazia, irriducibile agli standard e ai canoni della moderna democrazia liberale, e portatrice

dunque di istanze e forme della «politicità» eterogenee e irriducibili rispetto a quelle codificate nell’esperienza europea e occidentale (ma sul tema più generale delle «democrazie degli altri», si veda anche Sen 2004). Se, come scrive Spivak, «il posto del soggetto dei diritti è vuoto perché […] deve essere scritto nel linguaggio normativo e privativo dell’eguaglianza astratta» (Spivak 2000b, p. 11), a tale linguaggio privativo viene qui contrapposta una dinamica di creazione dei diritti, fondata sulla scommessa di una trasformazione attiva dei processi di esclusione in processi di inclusione nella cittadinanza. Più volte, infatti, la posizione ad esempio di Spivak è stata ingenerosamente accusata di non contemplare alcuno spazio per una agency autonoma dei subalterni. Ma, a ben guardare, l’impostazione teorica qui adottata mira invece a invertire di segno quella discontinuità epistemica che segna la «segregazione di classe» che separa le élite dai subalterni (segregazione trasversale rispetto all’ormai improponibile distinzione tra il Primo e gli «altri» mondi), in direzione di una sorta di «pedagogia degli oppressi» che segua una logica di empowering dal basso (cfr. Spivak 2003b; secondo una logica analoga, che rintraccia in una «democratizzazione del sapere» fondata sulla «rivolta dei saperi subalterni» la possibilità di sfuggire alle imperialistiche «monoculture della mente», si dispiegano anche le analisi dell’ecofemminista Vandana Shiva in Shiva 1993, pp. 60-63). La politica, allora, diviene affare di soggetti, o ancora, di modi di soggettivazione. Per citare ancora Rancière: Con soggettivazione intenderemo la produzione, tramite una serie di atti, di una istanza e di una capacità di enunciazione che non erano identificabili in un campo di esperienza dato, la cui identificazione dunque va di pari passo con la raffigurazione del campo dell’esperienza. Formalmente l’ego sum, l’ego existo cartesiano è il prototipo di questi soggetti indistinguibili da una serie di operazioni che implicano la produzione di un nuovo campo di

esperienza. Ogni soggettivazione politica deriva da questa formula. È un nos sumus, nos existimus. Il che vuol dire che il soggetto che pone in essere ha la medesima consistenza di questo insieme di operazioni e di questo campo di esperienza. […] Una soggettivazione politica è il prodotto di queste linee di frattura multiple attraverso le quali individui e gruppi soggettivano lo scarto tra la loro condizione di animali dotati di voce e l’incontro violento con l’uguaglianza del logos. (Rancière 1995, pp. 54-55, trad. modificata) Se la politica è un’occorrenza o una singolarità attraverso la quale dei soggetti riattivano «la contingenza dell’uguaglianza, né aritmetica né geometrica, tra esseri parlanti qualunque» (ibid., p. 47, trad. modificata), le pratiche autenticamente democratiche si caratterizzano allora come quei movimenti in grado di articolare politicamente l’insieme di tali istanze soggettive, eccedenti sia la codificazione istituzionale della cittadinanza sia la trama delle relazioni mercantili. Ma che cosa ci dice, una simile posizione, sulle forme da conferire alla prassi politica, nonché sui modi in cui ripensare l’esperienza della democrazia? E in che senso, in questo contesto, fare leva su una categoria pratica quale quella adombrata dall’idea di una radicale e autonoma «presa di parola» degli esclusi? In effetti, ciò di cui qui è questione è anzitutto una concezione performativa della politica, che ne individua l’«essenza» nell’atto (collettivo) del rivendicare, in opposizione sia alla formale neutralizzazione giuridica sia all’aritmetica liberalmercantile degli scambi. Una concezione, soprattutto, che insiste sulla temporalità dell’enunciazione, della traduzione e della negoziazione, come medium per l’«articolazione» delle differenti rivendicazioni soggettive che emergono dal tessuto sociale (sul fondamentale concetto di «articolazione», cfr. Laclau e Mouffe 1985; Bhabha 1994; Hall 2006a e 2006b; Ong 2006). Sotto questo profilo, appare significativo richiamare una suggestiva immagine attorno alla quale è costruito un recente dialogo su appartenenza, eguaglianza e

cittadinanza intessuto da due teoriche come Judith Butler e Gayatri Spivak (cfr. Butler e Spivak 2007). E, nello specifico, l’immagine di alcune manifestazioni che, nella primavera del 2006, hanno visto masse di residenti «illegali» sfilare per le strade di Los Angeles e di altre città californiane al suono dell’inno nazionale statunitense cantato in spagnolo. L’emergere del «nuestro hymno» introduce, sottolinea Judith Butler, «l’interessante problema della pluralità della nazione, del “noi” e del “nostro”: a chi appartiene questo inno?» (ibid., p. 60, trad. modificata). Ma, soprattutto, è l’atto stesso del cantare – atto intrinsecamente plurale, articolazione di una pluralità – a reinterrogare il senso del «noi», e le nozioni di eguaglianza e di appartenenza nazionale. In particolare, un passaggio dell’inno cantato nella lingua «illegale», «somos equales», asserendo in modo performativo l’eguaglianza nell’esercizio della libertà, non solo installa «il compito della traduzione al cuore della nazione» (Butler e Spivak 2007, p. 61, trad. modificata), mettendo in luce come «eguaglianza» non significhi linearmente estendere o aumentare l’omogeneità di una nazione o di un corpo sociale. Ma mostra anche come sia l’ontologia dell’individualismo liberale sia l’ideale di un linguaggio comune siano messi sotto scacco da «una collettività che arriva a esercitare la sua libertà in un linguaggio o in un insieme di linguaggi per i quali la differenza e la traduzione sono irriducibili» (ibid., p. 62, trad. modificata). Da queste premesse teoriche discende dunque non solo una visione performativa della politica, incentrata sulla «presa di parola» dei soggetti di volta in volta, e dunque in modo contingente, esclusi dal perimetro della cittadinanza, ma anche una concezione dichiarativa dei diritti, che non può che rimandare – come proprio luogo genetico e punto sorgivo – all’idea arendtiana di un insopprimibile «diritto ai diritti» la cui esistenza e la cui sussistenza è inseparabile dalla sua stessa ininterrotta dichiarazione e rivendicazione (Arendt 1951; al riguardo cfr. soprattutto Benhabib 2004,

pp. 39 sgg.). Come scrive Balibar, «l’idea del “diritto ai diritti” non indica un riferimento minimo, non designa, cioè, un residuo giuridico e morale che la politica deve preservare, ma costituisce, al contrario, un progetto massimo. Essa indica, più esattamente, il modo in cui il minimum, il riconoscimento dell’appartenenza degli esseri umani a una sfera “comune” di condizioni di esistenza […] comprenda già al suo interno l’esigenza del maximum e la renda possibile» (Balibar 2001, p. 135). In questo tratto «insurrezionale» della democrazia – che la riporta sempre di nuovo al gesto originario del rivendicare (un’esistenza, un’appartenenza, il diritto a una differenza) – riposa anche il medium per la sua autorealizzazione, che non può che risiedere in una logica dell’iterazione (Benhabib 2004 e 2006) o, per dirla con Chakrabarty e Homi Bhabha, in una logica della traduzione , della negoziazione e della risignificazione, attraverso la quale «le rivendicazioni e i principi universalistici dei diritti vengono contestati e contestualizzati, invocati e revocati, proposti e situati» (Benhabib 2004, p. 144), dunque resi permeabili a nuovi e imprevisti contesti semantici. Ma tale processo costante di risignificazione collettiva – di riposizionamento e di riarticolazione insieme dei diritti sulla scena della sfera pubblica – rimanda giocoforza a una concezione della soggettività (o della agency) collettiva che acquisisce la propria realtà in maniera congiunturale, a seconda delle occorrenze singolari di articolazione politica delle differenti e molteplici istanze soggettive e sociali. Tuttavia, una tale ricodificazione della soggettività non può che rimandare a propria volta a una riconfigurazione dell’insuperabile e originario nesso che da sempre stringe politica e ontologia: nesso che si trova oggi eminentemente e brillantemente reinvestito e riposizionato nel quadro della critica femminista postcoloniale.

3.3. Differenza e posizioni: le alleanze situate

La «controversia dei sessi» (Fraisse 2001) costituisce l’istanza a un tempo più pregnante e più cristallina dell’unità originaria di ontologia e politica: qui, infatti, le fondamentali coordinate (e le correlate aporie) connesse alle categorie di identità e differenza, eguaglianza e libertà, si trovano raccolte in un plesso inestricabile che è insieme il luogo di un’aporia.30 Sotto questo profilo, l’analisi (teorica e filosofica) del rapporto tra i sessi è presa all’origine nel sito di un paradosso che investe il punto di intersezione tra ontologia (identità/differenza) e politica (eguaglianza/libertà), tenendosi al tempo stesso a debita distanza dalla preoccupazione strettamente antropologica di definire – sia pure per criticarlo – un presunto «ordine dei sessi» (cfr. in questo senso Héritier 1996). La critica femminista postcoloniale (etichetta, quest’ultima, sotto la quale con un certo grado di improprietà si designano i diversificati femminismi africano-americano, chicano, o indiano) ha giocato, negli ultimi decenni, il ruolo di potente fattore di decentramento nei confronti tanto di taluni assunti della costellazione degli studi postcoloniali, quanto del canone più o meno sotterraneamente eurocentrico con il quale lo stesso femminismo accademico ha descritto se stesso e i propri soggetti. Ciò di cui qui è questione, infatti, è non solo, secondo la migliore tradizione femminista, la rivendicazione di una radicale e irriducibile «differenza politica» che, disidentificata da qualsivoglia «questione sociale», deve essere intesa anzitutto come «eccentricità ed eccedenza rispetto all’individualismo universale» (Boccia 2002, p. 35); ma anche il venir meno dei codici binari che hanno tradizionalmente regolato il dibattito sul rapporto tra i sessi, e la conseguente vertiginosa moltiplicazione degli assi di differenziazione attorno ai quali vengono oggi articolandosi le relazioni tra differenza e rapporti di dominio. Moltiplicazione in virtù della quale le più tradizionali nozioni di genere, corpo, eguaglianza o agency sono venute intersecandosi con categorie quali casta, comunità, o religione. Di qui è discesa non solo un’analisi serrata dei

numerosi differenziali di potere tra donne, ma anche una riconfigurazione – questa volta strettamente epistemologica – di concetti chiave quali «posizionamento», «agency» e «soggettivazione». Da questa prospettiva, le differenze di genere, razziali e culturali, sono emerse come fattori che, lungi dall’affiancarsi o sommarsi secondo un paradigma piattamente aritmetico, si costituiscono come poli che, interagendo, producono sì nuove pratiche di resistenza, ma anche inedite forme di assoggettamento. Soprattutto a Gayatri Spivak si deve lo smascheramento dell’assenza, nel campo degli studi postcoloniali in generale e in quello degli «studi subalterni» in particolare, di una tematizzazione della differenza tra i sessi – o della «costituzione del subalterno come soggetto (sessuato)» (Spivak 1988, p. 134) – e la simultanea individuazione nello statuto della «donna del Terzo mondo» di una posizione di doppia subalternizzazione, o di doppia cancellazione, in virtù della quale le donne «native», oltre a essere state bersaglio privilegiato delle «illuminate» politiche coloniali, hanno ricoperto anche il ruolo di «sintagma negato della semiosi del subalterno o dell’insurrezione» (ibid., p. 136). Nell’analisi delle insurrezioni anticoloniali la «femminilità» o la «donna» è stata infatti primariamente codificata come campo discorsivo, emblema di un insieme (fosse esso la religione, la nazione o la cultura) o, ancor di più, come segno: là dove il «segno», secondo la lezione di Claude Lévi-Strauss (LéviStrauss 1947), è sempre il veicolo e il luogo di uno scambio di senso. Tale condizione di subalternità raddoppiata – o di forclusione – della donna «nativa» si reduplica, come si è detto, nei rapporti con gran parte del femminismo europeo e americano: per il quale la «donna del Terzo mondo» è spesso assurta a figura archetipica della «vittima universale» e a indice di un ritardo storico incolmabile rispetto ai destini occidentali dell’emancipazione. È in questo senso che Spivak esorta a «situare l’individualismo femminista nella sua determinazione storica, piuttosto che canonizzarlo semplicemente come femminismo in quanto tale» (Spivak

1999, p. 133), e al tempo stesso a guardare ai «modelli di resistenza esistenti tra queste “perenni disperse”» e all’«eterogenea costituzione della soggettività delle figure femminili subalterne» (Spivak 1988, p. 137). Ma è in particolare al lavoro di scavo condotto da Chandra Talpade Mohanty sui taciti assunti eurocentrici operanti nel canone femminista internazionale che si deve l’enucleazione più chiara delle poste in gioco squisitamente teoriche rilanciate dal femminismo postcoloniale. In un noto saggio dal titolo Under Western Eyes: Feminist Scholarship and Colonial Discourse (1984), Mohanty aveva infatti individuato alla base della produzione della average Third World woman – della «donna media del Terzo mondo» come soggetto singolare e monolitico correlato delle politiche di «sviluppo» e di «civilizzazione» – l’operare di talune strategie di colonizzazione discorsiva mirate alla soppressione dell’eterogeneità materiale e storica della vita delle donne in questione. Più specificamente, Mohanty aveva efficacemente illuminato come la messa in opera di presunti universali transculturali (in prima istanza una nozione monolitica di patriarcato e di dominazione maschile) fosse funzionale alla produzione di un’unità astorica e universale tra donne costruita sulla base di una nozione generalizzata della loro subordinazione, o di una sorta di forzosa «comunanza nell’oppressione» (cfr. Mohanty 2003, pp. 17 sgg.). Sotto questo punto di vista, il concetto di «genere» – di cui qui si assume la validità ermeneutica a partire dalla definizione offertane da Joan Scott quale «organizzazione sociale della differenza sessuale» (Scott 1999, p. 2) –, abitualmente posto sotto la rubrica «individuo-dirittiidentità-eguaglianza», appare segnato e solcato da una lettura egemonica che ne limita il portato di interrogazione e ne fissa radicalmente i termini: soprattutto nella misura in cui esso si trova a essere articolato a partire da una nozione inglobante di «patriarcato», che a propria volta presuppone (e involontariamente legittima) l’esistenza di un sistema chiuso e monolitico di relazioni di dominio. È in questo senso

che diviene necessario e proficuo guardare non solo alle variazioni storiche e culturali delle relazioni patriarcali, ma anche alle differenti implicazioni semantiche richiamate dal concetto di «genere» secondo i contesti e le epoche o, ancor meglio, a tutte quelle derive semantiche che ne allargano radicalmente la matrice, ponendo il cruciale problema della traduzione culturale. Come messo opportunamente in luce da Seemanthini Niranjana, una puntuale attenzione rivolta al corpo «incarnato» e alla agency femminile consente di indirizzare lo sguardo sulle plurali e diversificate matrici (socio-spaziali) di sessualizzazione inerenti a ciascuna cultura: vale a dire sugli specifici luoghi (materiali e simbolici) di soggettivazione di volta in volta formati dall’interfaccia tra il corpo materiale della donna, il corpo della rappresentazione culturale, e le differenti modalità con le quali le donne esperiscono tali condizioni costitutive della loro identità (cfr. Niranjana 2001 e 2004). In una misura largamente testimoniata da un numero crescente di controversie che attraversano le società contemporanee, i corpi delle donne (corpi velati, corpi esposti, corpi mutilati o rivendicati) sono costantemente vissuti e rappresentati in convergenza con altre narrazioni (come le narrazioni della comunità, della nazione, della moralità, o della religione), in modo tale che una presa in conto del vissuto e dell’«incarnazione» femminile non può che farsi carico della variabilità delle credenze e delle pratiche culturali, delle norme e dei codici di regolazione, che collocano sempre di nuovo la differenza e l’agire (agency) femminile in una zona intermedia tra sostanza e discorso, o tra «materiale» e «culturale». Il corpo – scrive secondo linee analoghe Spivak – come ogni altra cosa, non può essere pensato come tale. Io assumo la visione ecologica estrema secondo cui il corpo come tale non ha profilo possibile. Come corpo è una ripetizione della natura. Ed è nella rottura con la Natura che diviene il significante dell’immediatezza per l’emergere del sé. Come

testo, l’interno del corpo (imbricato con l’esterno) è misterioso e illeggibile se non attraverso il pensiero della sistematicità del corpo, del valore che codifica il corpo. È attraverso la significazione del mio corpo e dei corpi altrui che le culture divengono sessualizzate, economico-politiche, identiche a sé stesse, sostantive. (Spivak 1993a, p. 20) Ponendosi di traverso rispetto all’annosa (e spesso sterile) discussione attorno alla contrapposizione tra «genere» e «differenza sessuale», il femminismo postcoloniale mette in tal modo capo a una risemantizzazione della nozione stessa di «genere», a partire da una concezione dinamica e processuale di differenza. Non vi è infatti risposta univoca alla domanda, resa imprescindibile dai lavori di Judith Butler (Butler 1990, 1993 e 2004a): si è un genere, si appartiene a un genere, o si diviene un genere? Se il corpo, come scritto da Spivak, «non può essere pensato come tale» e se, d’altra parte, proprio il corpo ha costituito il grande testo dell’essenzialismo sulla cui forma il «fallocentrismo» ha letto l’essenza della Donna, la critica femminista postcoloniale batte una via traversa, rompendo tanto con l’essenzialismo biologico quanto con una facile forma di costruttivismo culturale.31 In questo contesto, alla storicità (dei contesti e delle relazioni) è demandata la funzione di sciogliere le tensioni inerenti alle rappresentazioni dicotomiche e binarie del rapporto storia/natura: per le quali la natura, quando viene invocata sul registro del politico, fa sempre sì che la storia venga tradotta e ritrascritta in Natura, mostrando come il ricorso a una presunta naturalità (dei corpi e dei generi) sia inerente alla stessa produzione (eurocentrica e fallocentrica) della storia (sul ricorso logocentrico e fallocentrico a figurazioni storiche del corpo femminile quali metafore di un «politico» radicalmente de-corporeizzato, o disincarnato, si rimanda a Cavarero 1995). Secondo un andamento non estraneo al cosiddetto third wave feminism, il corpo non è così qui né la sede di un’essenza immutabile sottratta ai codici socio-culturali, né un ricettacolo vergine o

un «volume in perpetuo sgretolamento», secondo quanto scriveva Foucault additando, in Nietzsche, la genealogia, la storia (1971), un «corpo tutto impresso di storia, e la storia che devasta il corpo» (Foucault 1971, p. 50). Esso è piuttosto reinscritto come luogo di incarnazione o, per usare le parole di Rosi Braidotti, come una superficie di significazione «situata all’intersezione della presunta fattualità dell’anatomia con la dimensione simbolica del linguaggio» (Braidotti 1995, p. 57). In altri termini: la grammatica del genere, non essendo né biologica né culturale, si configura come un costante e ininterrotto processo di simbolizzazione dell’umano, la comprensione del quale richiede anzitutto il riconoscimento della fondamentale storicità dei legami (reali e immaginari) tra i sessi. Sotto questo profilo, accogliere la proposta di Niranjana di operare una cartografia delle differenti «matrici di sessualizzazione» delle culture consente di articolare la questione dell’«incarnazione» dal punto di vista del legame tra il corpo e la agency femminile: e ciò nella misura in cui l’attenzione viene in prima istanza focalizzata sui luoghi storici di soggettivazione nei quali si inscrive la singolarità e la differenza delle donne. La critica femminista postcoloniale, insistendo sull’eterogeneità delle esperienze storiche e del posizionamento delle donne rispetto alle principali coordinate del potere (prima tra tutte, la partizione pubblico/privato), ha infatti al tempo stesso mostrato come il corpo femminile sia stato – e continui a essere – l’operatore fondamentale nell’istituzione delle frontiere fra comunità e nel seno di ciascuna comunità. La teorica cinese Rey Chow, in una feconda analisi dei controversi capitoli dedicati da Frantz Fanon in Peau noire, masques blanches alla «femminilità», ha d’altra parte efficacemente messo in luce come ogni tematizzazione della comunità sia sempre per implicazione una teoria sulla riproduzione (sociale e biologica) all’interno della quale la peculiare agency sessuale femminile – quale potere di riproduzione, di contagio, di trasmissione e di confusione dei

corpi – rompe l’ordine sociale nel modo più essenziale (ma sull’agency sessuale femminile come potere di confusione dei corpi si veda anche Braidotti 1996): Le donne, poiché hanno la capacità di incarnare il contatto fisico, di dare forma materiale al «toccare», alla trasgressione dei confini corporei, nella forma della riproduzione, sono potenzialmente sempre pericolose. […] Quali pericoli comporta una tendenza femminile verso l’incrocio tra razze considerata come una teoria della formazione della comunità all’indomani del colonialismo? (Chow 1995, pp. 66 e 77) Per parte sua, Spivak ha tentato nel corso degli anni una decostruzione della teoria del valore marxiana introducendovi il parametro della sessualità, o meglio, la figura stessa della donna come risorsa continua di produzione di plusvalore: nella misura in cui «il possesso di un luogo tangibile di produzione, l’utero, situa la donna come agente in ogni teoria della produzione» (Spivak 1985, p. 57; cfr. anche Spivak 2008, p. 253). Ma tali ridefinizioni della agency femminile quale, letteralmente, figura di un produttivo «contagio intercomunitario» affondano le proprie radici in una ben precisa declinazione epistemologica della categoria di «posizionamento» e in una visione sì contestuale, ma non contestualista, della nozione di «differenza». Il concetto stesso di «posizionamento» – elaborato in prima istanza sul piano epistemologico per sfuggire alla paralizzante alternativa di universalismo e relativismo (cfr. Harding 1998 e 2004) – rimanda infatti a una concezione situata del soggetto e del sapere cui contraltare è una visione «parziale» delle prospettive sulla cui base costruire coalizioni e alleanze politiche. Come scrive Donna Haraway: «Posizionare non significa fare una lista di attributi o assegnare etichette come razza, sesso o classe. La posizione di un soggetto o di un oggetto non è il risvolto concreto rispetto all’astratto della sua

decontestualizzazione. La posizione è il gioco dell’indagine critica, sempre parziale, definito e denso di pericoli, tra primo piano e sfondo, tra testo e contesto. Soprattutto, la posizione non è né evidente né trasparente. La posizione è parziale anche nel senso di valere per alcuni mondi e non per altri» (Haraway 1997, p. 72). Se la «posizione», piuttosto che un dato, rappresenta un obiettivo per il quale soggetti e gruppi devono lottare, ne discende una concezione «intersezionale» (sulla categoria di intersectionality, cfr. Crenshaw 1989 e 1995) e decentrata della differenza, per la quale una serie simultanea ma distinta di assi di soggettivazione (genere, classe, etnia) viene analizzata nella sua costante e imprevedibile interazione. A tale paradigma critico incentrato sull’ineliminabile localizzazione dei discorsi e delle strutture della soggettività, l’ottica postcoloniale conferisce una coloritura geopolitica che ne modifica e affina i contorni: qui, infatti, alla moltiplicazione degli assi di differenziazione che strutturano l’identità soggettiva si accompagna una concomitante rimodulazione e ridefinizione della agency (o dell’agire sociale) in rapporto alle concrete dinamiche storico-materiali di soggettivazione politica o, per dirla con Judith Butler, in rapporto all’ineguale «distribuzione geopolitica della vulnerabilità del corpo» (Butler 2004b, p. 50) e ai possibili potenziali di «resistenza» e di «liberazione» che ne discendono. Si pensi, ad esempio, alle forme assunte dall’odierna «globalizzazione» del lavoro femminile, in virtù delle quali il trasferimento su scala globale delle «tradizionali» funzioni associate al ruolo femminile – dalle mansioni di accudimento di bambini e anziani alla ben più feroce condizione delle sex workers – dal Sud al Nord del mondo si accompagna per un verso a traiettorie di riscatto e di liberazione, e per l’altro a una condizione di clandestinità e di invisibilità che cancella le donne in questione (cfr. Ehrenreich e Hochschild 2003). La «gerarchia del dolore» (Butler 2004b, p. 54) che segna gli stessi rapporti geopoliticamente differenziati tra donne rimanda dunque a una reinterrogazione della relazione tra

«disumanizzazione» e «discorso» (o, foucaultianamente, «formazione discorsiva») che fa della posizione-di-soggetto, o della posizione enunciativa, delle donne (al plurale) non tanto un dato da essenzializzare, quanto un obiettivo da difendere o da guadagnare. Sotto quest’ottica, è lo stesso lavoro di una teorica come Judith Butler a offrire importanti coordinate per una ridefinizione della categoria di «posizionamento» e, di conseguenza, della stessa nozione di «genere»: là dove quest’ultimo viene reinterpretato quale «pratica di improvvisazione in una scena di vincoli» (Butler 2004a, p. 25, trad. modificata). L’accento, infatti, va qui posto non tanto sul termine «improvvisazione» (secondo una critica frequentemente indirizzata all’opera di Butler), quanto piuttosto sulla questione dei vincoli, non già strutturali bensì storici, che regolano l’assunzione del genere e dello statuto di soggetto «visibile»: Quale vita conta come vita? Chi ha la prerogativa di vivere? Come decidiamo quando la vita ha inizio e fine, e come pensiamo la vita contro la vita? A quali condizioni la vita dovrebbe venire all’esistenza, e attraverso quali vie? […] E in che misura il genere, il genere coerente, assicura che una vita sia vivibile? Quale minaccia di morte è indirizzata a coloro che non vivono il genere secondo le sue norme accettate? (ibid., p. 238, trad. modificata) Sebbene gli interrogativi di Butler sottendano innanzi tutto una denuncia dell’implicito «contratto eterosessuale» che regola gran parte del femminismo accademico mainstream, l’attenzione prestata alla questione delle norme e della normatività quale sito privilegiato di potere in cui si attua una produzione differenziale dell’umano corrisponde allo sforzo dello stesso femminismo postcoloniale di revocare in questione gli standard di normalizzazione implicati dall’assunzione di un gruppo privilegiato (la «donna-biancaoccidentale-eterosessuale», ad esempio) come referente esclusivo nel campo delle pratiche sociali. La normatività, infatti, si dispiega – ci ricorda Butler – anzitutto come

produzione di una serie di griglie di leggibilità (griglie morfologiche, razziali, sessuali) che segnano al tempo stesso i confini dell’intelligibilità culturale: vale a dire i confini di ciò che vale come «umano» e come «meno-che-umano» o, ancor peggio, come «non-umano» (cfr. Butler 2004a e 2004b). E tuttavia, là dove Butler propone – a fronte della produzione differenziale di ciò che vale come «umano» o come «meno-che-umano» – un pensiero della «performatività» concepita come reiterazione e risignificazione soggettiva delle norme culturali, una parte della critica femminista postcoloniale (incarnata in teoriche come Vandana Shiva o la stessa Gayatri Spivak: cfr. Shiva 2005) proietta la propria analisi su una superficie globale o, ancor meglio, planetaria: dove il «pianeta» diviene figura eminente dell’alterità e della responsabilità, e con ciò stesso punto estremo dal quale la riflessione sulla «subalternità» deve partire: Essere umano è da intendersi verso l’altro. Noi forniamo a noi stessi raffigurazioni trascendentali di ciò che pensiamo sia l’origine di questo dono che ci anima: la madre, la nazione, Dio, la natura. Questi sono i nomi dell’alterità, alcuni più radicali di altri. Il pensiero del pianeta si apre ad abbracciare un’inesauribile tassonomia di tali nomi, inclusi, ma non identici, nell’intera gamma degli universali umani: l’animismo aborigeno così come la mitologia spettrale bianca della scienza post-razionale. Se immaginiamo noi stessi come creature planetarie piuttosto che entità globali, l’alterità resta non derivata da noi: non costituisce la nostra negazione dialettica, ci contiene così come ci scaglia lontano. (Spivak 2003a, pp. 92-93) L’imperativo a «re-immaginare il pianeta», infatti, comporta la visualizzazione di un «soggetto planetario» che, con la sua nuda vita esposta al mondo, esiste senza una cartografia già prestabilita: un soggetto il cui debito, non essendo risarcibile nei confronti della natura (o della

«madre», afferma Spivak facendo eco a Melanie Klein), è risarcibile come responsabilità nei confronti degli altri. Nei confronti, soprattutto, di quegli altri e di quelle collettività il cui statuto di subalternità la critica postcoloniale e, soprattutto, la critica femminista postcoloniale si propongono di rovesciare: Qui, il «pianeta» è come forse sempre una «catacresi» che mira a inscrivere la responsabilità collettiva come diritto. La sua alterità ed esperienza determinante è misteriosa e discontinua – un’esperienza dell’impossibile. Sono tali collettività che si devono aprire alla domanda «quanti siamo?», quando l’origine culturale è detrascendentalizzata nella finzione: il compito più duro nella diaspora. (Spivak 2003a, p. 119)

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Indice dei nomi Accarino, Bruno Adamo, Sergia Agamben, Giorgio Ahmad, Aijaz Albertazzi, Silvia Amselle, Jean-Loup Anderson, Benedict Anzaldúa, Gloria Appadurai, Arjun Arendt, Hannah Ashcroft, Bill Augé, Marc Bachtin, Michail Balibar, Étienne Bancel, Nicolas Baraka, Amir Barthes, Roland Bassnett, Susan Bauman, Zygmunt Becker-Ho, Alice Beckett, Samuel bell hooks (Gloria Jean Watkins) Benhabib, Seyla Benjamin, Walter Bensaïd, Daniel Berman, Antoine Beverley, John Bhabha, Homi Blanchard, Pascal Boccia, Maria Luisa Brah, Avtar Braidotti, Rosi Brathwaite, Edward Kamau Brontë, Charlotte Butler, Judith Canclini, Néstor García Carravetta, Peter Cavarero, Adriana Certeau, Michel de Chakrabarty, Dipesh Chambers, Iain Chatterjee, Partha Chaturvedi, Vinayak Chow, Rey

Clastres, Pierre Clavier, Paul Clifford, James Coetzee, John Maxwell Cometa, Michele Coombes, Annie E. Crenshaw, Kimberlé Curti, Lidia Dal Lago, Alessandro Davis, Mike Defoe, Daniel Deleuze, Gilles Derrida, Jacques Devi, Mahasweta Dirlik, Arif Djebar, Assia Doane, Mary Ann Ehrenreich, Barbara Engels, Friedrich Fabian, Johannes Fanon, Frantz Felman, Shoshana Fichte, Johann Gottlieb Foucault, Michel Fraisse, Geneviéve Fraser, Nancy Freud, Sigmund Friedlander, Saul Fuss, Diane Gallagher, Catherine Galli, Carlo Gilroy, Paul Ginzburg, Carlo Glissant, Édouard Gramsci, Antonio Greenblatt, Stephen Griffiths, Gareth Guattari, Félix Guha, Ranajit Hall, Stuart Hannerz, Ulf Haraway, Donna Harding, Sandra Hardt, Michael Harvey, David Heath, Stephen Hegel, Georg Wilhelm Friedrich Héritier, Françoise Hobsbawm, Eric Hochschild, Arlie Russell

Hoffmann, Eva Honig, Bonnie Honneth, Axel Husserl, Edmund Jakobson, Roman Jameson, Fredric Kafka, Franz Kant, Immanuel Klein, Melanie Koselleck, Reinhart LaCapra, Dominick Laclau, Ernesto Laplanche, Jean Laplantine, François Laub, Dori Lazarus, Neil Lemaire, Sandrine Levi, Primo Lévi-Strauss, Claude Linebaugh, Peter Loomba, Ania Loraux, Nicole Löwy, Michael Lyotard, Jean-François Malinowski, Bronislaw Mandela, Nelson Marazzi, Christian Marcus, George E. Marramao, Giacomo Marx, Karl Mbembe, Achille M’Bokolo, Elikia Melandri, Enzo Mellino, Miguel Memmi, Albert Menchú, Rigoberta Mezzadra, Sandro Mignolo, Walter D. Mill, John Stuart Miyoshi, Masao Mohanty, Chandra Talpade Morrison, Toni Mouffe, Chantal Mozart, Wolfgang Amadeus Mudimbe, Valentin Yves Naipaul, Vidiadhar Surajprasad Nancy, Jean-Luc Negri, Antonio Ngūgī wa Thiong’o Niranjana, Seemanthini

O’Hanlon, Rosalind Ong, Ahiwa Ortiz, Fernando Pandey, Gyanendra Parry, Benita Pontalis, Jean-Bertrand Prakash, Gyan Pratt, Mary Louise Rahola, Federico Rajchman, John Rancière, Jacques Ranger, Terence Rediker, Marcus B. Remotti, Francesco Renan, Ernest Rhys, Jean Ricœur, Paul Rigo, Enrica Rivière, Joan Rousseau, Jean-Jacques Rushdie, Salman Said, Edward Wadie Santner, Eric Sarkar, Sumit Sassen, Saskia Saussure, Ferdinand de Schmitt, Carl Scholem, Gershom Scott, Joan W. Sen, Amartya Shiva, Vandana Sloterdijk, Peter Spivak, Gayatri Chakravorty Taylor, Charles Thompson, Edward Palmer Tiffin, Helen Todorov, Tzvetan Traverso, Enzo Trivedi, Harish Trouillot, Michel-Rolph Tutu, Desmond Vecchi, Roberto Virno, Paolo Walcott, Dereck White, Hayden Wolf, Eric Robert Woolf, Virginia Young, Iris Marion Young, Robert J. C. Zimmerman, Marc

Žižek, Slavoj

1 Se ci si prende la cura di ricollegare il concetto moderno di soggetto non tanto a un subjectum grammaticale e ontologico quanto a un subjectus o subditus giuridicopolitico. 2 Segnalo qui le ammirevoli pagine consacrate da Emanuela Fornari, con specifico ricorso a concetti di Michel de Certeau, alle «aporie della memoria». 3 Ciò è senza alcun dubbio una delle ragioni che spiegano l’attualità rinnovata e il potere di suggestione dell’opera di Fanon: pensatore per eccellenza di questa finitudine a cui, sulla traccia dei suoi autori di riferimento, e in particolare di Edward Said, Emanuela Fornari non cessa di ritornare. 4 La costruzione di questa reciprocità concettuale tra «traduzione» e «transizione», per mezzo di un accostamento tra la critica postcoloniale dei codici uniformanti dell’Occidente capitalista e l’interpretazione delle «scritture minoritarie» prospettata da Deleuze e Guattari, costituisce uno dei tours de force filosofici del libro di Emanuela Fornari.

5 Non è per ovvie ragioni possibile rendere conto in questa sede dello sterminato dibattito prodottosi – anche solo in sede di riflessione filosofica e critico-culturale – attorno al lemma «globalizzazione». Per un inquadramento teorico, non estraneo alla prospettiva qui adottata e incentrato sulla stretta interrelazione tra dimensione «simbolica» e dimensione «materiale», si rimanda tuttavia principalmente ad Appadurai 2001; Jameson e Miyoshi 1998; Marramao 2003. Un’analisi focalizzata specificamente sulle trasformazioni dello «spazio politico» indotte dal passaggio dall’età moderna all’età globale si trova invece in Galli 2001. 6 Utili introduzioni al campo degli studi postcoloniali si trovano, tra gli altri, in Ashcroft, Griffiths e Tiffin 1995; Chambers e Curti 1996; Loomba 1998; Young 2001, 2003, 2004; e, in ambito italiano, in Albertazzi e Vecchi 2004; Cometa 2004; Mellino 2005. Una recente ed efficace ricostruzione critica del «paradigma postcoloniale» che, pur riconoscendovi un’efficace messa in discussione della filosofia occidentale quale «metanarrazione dell’origine», ne denuncia i possibili esiti relativisti e «indigenisti» si trova in Amselle 2008. 7 Il collettivo dei Subaltern Studies è composto da un gruppo di storici indiani (tra cui Ranajit Guha, Partha Chatterjee, Sumit Sarkar, Dipesh Chakrabarty) che, a partire dagli anni ottanta, ha lavorato a una revisione della storiografia dell’India coloniale e postcoloniale in direzione di una liberazione sia dal paradigma elitario che negava ogni ruolo autenticamente «politico» ai contadini delle campagne nella conquista dell’indipendenza dal dominio britannico, sia da un paradigma strettamente marxista incentrato sulla «grande narrazione» dei modi di produzione (cfr. infra, parte I, cap. 2). Tra il 1982 e il 2000 sono usciti undici volumi dei Subaltern Studies, di cui i primi dieci per la Oxford University Press e l’undicesimo per i tipi della Columbia

University Press. Selezioni antologiche dei principali testi prodotti dal gruppo si trovano in Guha e Spivak 1988 e in Guha 1997. Un volume che rende conto in maniera esaustiva dell’intero percorso (non privo di svolte e rotture) dei Subaltern Studies è Chaturvedi 2000. 8 Cfr. de Certeau 2005, p. 101: «Il racconto inscrive […] su tutta la superficie della sua organizzazione questo riferimento iniziale e inafferrabile, che è la condizione di possibilità della sua storicizzazione. Nel consentire all’attualità di «tenere» nel tempo e infine di simbolizzarsi, il racconto la colloca in una relazione necessaria con un «inizio» che è niente, o che ha solo il ruolo di essere un limite. L’organizzazione del racconto veicola comunque un tacito rapporto con qualcosa che non può aver luogo nella storia – un non-luogo fondatore –, e senza cui tuttavia non vi sarebbe storiografia». 9 Per ciò che concerne la crucialità della dimensione della scrittura come discrimine tra lo «spazio civilizzato» e lo «spazio della barbarie», il riferimento è ovviamente ai lavori di Derrida, cui lo stesso Guha si appoggia nella denuncia dello schema hegeliano: cfr. in particolare Derrida 1967 e 1972. Per altro verso, la nozione di «popolo senza Stato» non può che rimandare, sul versante etnologico, alle celebri analisi di Pierre Clastres (1974). 10 Al riguardo si veda anche Chatterjee 1993, ad esempio p. 5: «Se i nazionalismi nel resto del mondo devono scegliere la loro comunità immaginata da certe forme modulari già rese disponibili ad essi dall’Europa e dalle Americhe [sic], che cosa rimane loro da immaginare? La storia, sembrerebbe, ha decretato che noi nel mondo postcoloniale dobbiamo essere perpetui consumatori della modernità. L’Europa e le Americhe, i soli veri soggetti della storia, hanno pensato al nostro posto non solo lo scritto dell’Illuminismo e dello sfruttamento coloniale, ma anche quello della nostra

resistenza anticoloniale e della nostra miseria postcoloniale. Anche le nostre immaginazioni devono rimanere per sempre colonizzate». 11 Alessandro Dal Lago e Sandro Mezzadra segnalano giustamente la differenza tra i due termini, pur semanticamente contigui, di «confine» e di «frontiera»: laddove infatti il primo, fin dalla sua originaria accezione di solco tracciato nella terra, rimanda all’atto di istituzione di una linea di divisione, il secondo addita piuttosto a un movimento relazionale di transizione (cfr. Dal Lago e Mezzadra 2002, p. 143). Va ricordato inoltre come nella lingua francese gli spazi semantici investiti dai due termini si invertano rispetto alla lingua italiana: il termine italiano «confine» corrisponde infatti al francese frontière, là dove il termine «frontiera» trova invece il suo equivalente semantico nel francese confin. E tuttavia, uno degli intenti di questo capitolo è proprio quello di mettere in luce l’impossibilità di una simile netta distinzione semantica, a partire dall’indecidibilità di un gesto di partage quale al tempo stesso «divisione» e «con-divisione». 12 Segnala d’altronde Balibar che «se esiste ora la possibilità di un discorso di tipo nuovo sulla fine delle nazioni (ammesso che si possa definire così) è solo perché esso è ora più che mai un discorso sull’origine delle nazioni»: un discorso, cioè, sui limiti e i particolarismi inerenti alla concezione europea della storicità, dell’identità, della violenza e dell’azione politica, strettamente interrelata – se non dipendente – dal concetto stesso di nazione (cfr. Balibar 2001, p. 46). 13 Scrive Balibar: «Le frontiere vacillano: ciò non vuol dire che spariscono. Men che mai il mondo attuale è un mondo “senza frontiere”. Significa, al contrario, che esse si moltiplicano e si dividono nella loro localizzazione e nella loro funzione, che si estendono e si sdoppiano, divenendo

delle zone, delle regioni, dei paesi di frontiera, nei quali si soggiorna e si vive. È il rapporto tra “frontiera” e “territorio” che si inverte» (Balibar 1997, p. 215). D’altra parte poco sopra Balibar significativamente appuntava: «Questa vacillazione tocca la nostra coscienza stessa di un’identità europea, perché l’Europa è il punto da cui sono partite, da cui sono state tracciate dappertutto nel mondo, le linee di frontiera, perché essa è la terra natale della rappresentazione stessa della frontiera, quale “cosa” sensibile e soprasensibile, che deve essere o non essere, essere qui o là, un po’ al di là (jenseits) e un po’ al di qua (diesseits) della sua posizione ideale, ma sempre da qualche parte» (ibid., p. 212).

14 Il concetto, adoperato da Spivak, di «forclusione» (concetto mutuato dal lessico lacaniano che traduce, con questo lemma, la Verwerfung freudiana) sta a indicare quel rigetto di un significante fondamentale fuori dell’universo simbolico del soggetto, che è anche un rigetto immediato nell’esterno. In altri termini, la «forclusione» consiste nel «non simbolizzare ciò che avrebbe dovuto essere simbolizzato»: essa è, secondo il compendio fornito da Laplanche e Pontalis, una «radicale abolizione simbolica» (Laplanche e Pontalis 1967, vol. 1, p. 168). Seguendo la traccia di un riferimento agli indigeni della Terra del Fuoco nella Critica del giudizio di Kant, Spivak pone ad esempio in rilievo come la stessa costruzione del soggetto noumenico si regga su una forclusione/rigetto dell’«aborigeno» o come, detto altrimenti, la narrazione contenuta nell’Analitica del Sublime sulla necessaria transizione dalla Natura alla Cultura attraverso il sentimento del sublime faccia tutt’uno con un racconto che codifica un accesso limitato all’umano. La messa in opera, nel testo kantiano sul sublime, dell’«uomo rozzo» come fondamento negato del soggetto trascendentale non si limita infatti a segnalare l’irriducibilità del momento antropologico in Kant, ma sottolinea anche come proprio là dove si tratta di porre in luce i fondamenti normativi della ragione teoretica emerga una contaminazione insuperabile dell’empirico che fa tutt’uno con le strutture di un umanesimo «geopoliticamente differenziato» (cfr. Spivak 1999, pp. 35 sgg.). 15 Ma per altro verso, sull’emergere di un principio di oggettivazione storiografica basata sul senso dell’anacronismo come origine della coscienza storica della modernità, in virtù della quale l’«evidenza storica» (o l’«archivio») viene fatto coincidere con la facoltà di qualificare un fenomeno contemporaneo come residuo o resto di un altro tempo o di un altro luogo, cfr. Chakrabarty 2000, p. 313.

16 Nicole Loraux, storica dell’antichità, nel sostenere che è per lo storico necessario accordare uno spazio ai fenomeni di ripetizione lungo l’asse del tempo cronologico della storia, significativamente giustifica tale attenzione al ripetitivo con «la sistematica presa in considerazione delle passioni e del rapporto al potere» (Loraux 2005, p. 188).

17 Nella ormai sterminata bibliografia su questo testo, si segnala unicamente il saggio di Michael Löwy, Walter Benjamin: Avvertissement d’incendie. Une lecture des thèses «sur le concept d’histoire», in cui l’autore intraprende una rilettura delle tesi benjaminiane intersecandole con le differenti istanze storiche e politiche di lotta della seconda metà del xx secolo (dalla history from below britannica, alla storia delle donne, all’esperienza latino-americana), nella fondata convinzione che «attraverso il prisma di un momento storico determinato» Benjamin abbia posto «questioni che riguardano l’insieme della storia moderna e il ruolo del xx secolo nel percorso sociale dell’umanità» (Löwy 2001, p. 31). 18 Sull’eco cabalistica e messianica di tale restitutio (enigmaticamente condensata, nella tesi IX, nell’espressione «ricomporre l’infranto» [das Zerschlagene zusammenfügen]), che richiama il tiqqûn della qabbalah luriana, quale restituzione messianica dello stato originario dell’armonia divina spezzato dallo shevirat ha-kelîm (la «frantumazione dei vasi») in seguito alla «contrazione» o al «ritrarsi» originario di Dio (zimzûm), si vedano in particolare le pagine che vi ha dedicato Gershom Scholem in Scholem 1972. 19 Su come tale forza del «simbolo» – o del Bild contrapposto all’Ideal – tutta radicata nel passato configuri una forma di «messianismo senza attesa», cfr. Marramao 2008, pp. 108 sgg. 20 Vale la pena citare per intero il passaggio in cui Ricœur giustifica la legittimità dell’applicazione di categorie psicoanalitiche all’ambito storico-sociale: «La costituzione bipolare dell’identità personale e dell’identità comunitaria giustifica, in ultima istanza, l’estensione dell’analisi freudiana del lutto al traumatismo dell’identità collettiva. Possiamo parlare, non soltanto in un senso analogico ma nei

termini di un’analisi diretta, di traumatismi collettivi, di ferite della memoria collettive. […] La trasposizione di categorie patologiche sul piano storico sarebbe più completamente giustificata se si arrivasse a mostrare che essa non si applica soltanto alle situazioni eccezionali […], ma che quelle categorie attengono a una struttura fondamentale dell’esistenza collettiva. E qui dobbiamo ricordare il rapporto fondamentale della storia con la violenza» (Ricœur 2000, pp. 113-14). Sia notato come anche Jean-François Lyotard faccia riferimento al saggio freudiano del 1914 come paradigma per una ri-scrittura della modernità oltre il «postmoderno» in Lyotard 1988.

21 Sulla tensione strutturale e insolubile tra «traducibilità» e «intraducibilità» – in virtù della quale «il traducibile puro può annunciarsi, darsi, presentarsi, lasciarsi tradurre come intraducibile» – cfr. la lettura derridiana del saggio di Benjamin in Derrida 1987.

22 Vale la pena ricordare come il lavoro di Clifford (1988 e 1997) affondi teoricamente le proprie radici nel volume – vero e proprio spartiacque nelle vicende disciplinari statunitensi dell’antropologia, dell’etnografia, degli studi culturali e via dicendo – curato con George E. Marcus, Writing Culture (Clifford e Marcus 1986): dove, contestando «l’ideologia dell’immediatezza dell’esperienza e della rappresentazione» (ibid., p. 24) e recependo svariate istanze ascrivibili a quello che in senso ampio si può definire «poststrutturalismo», gli autori avanzavano una concezione intimamente conflittuale della «cultura» quale «insieme di codici contestati e di rappresentazioni» (ibid.) che, immersi dentro i processi storici e linguistici, possono essere compresi unicamente come una costante e ininterrotta «relazione tra voci, tra enunciazioni parziali» (ibid., p. 35). 23 Sul nesso indissolubile, si direbbe ontologico, che lega identità e potere valgano le parole che vi dedica, in un ormai classico volume significativamente intitolato Contro l’identità , Francesco Remotti: «In quanto prodotto di uno sforzo di differenziazione, [l’identità] comporta anche una forza, un potere e in qualche modo l’esercizio di una violenza: si strappano legami, si interrompono connessioni per dar luogo alle costruzioni dell’identità; e i soggetti dell’identità manifestano in questa maniera la loro forza, il loro potere» (Remotti 2001, pp. 9-10). 24 La categoria di «ibridazione» (spesso sovrapposta a quella di «meticciato») è da tempo al centro di un vasto dibattito critico all’interno del pensiero etnoantropologico sulla categoria di «etnia», le cui origini politico-ideologiche vengono ricondotte alle procedure di «classificazione» coloniali e ai correlati dispositivi di astrazione dei soggetti e dei gruppi dal continuum socio-culturale: cfr., in questo senso, in particolare Amselle e M’Bokolo 1985 e Amselle 1990 nonché, per un elogio del métissage, Laplantine 1999.

Per una critica, articolata a partire da differenti punti di vista disciplinari, dell’utilizzazione del concetto di «ibridazione» nel campo degli studi culturali, si rimanda a Brah e Coombes 2000. 25 La nozione di mimicry, contigua alla categoria di masquerade, è stata al centro di un intenso dibattito all’interno del pensiero non solo postcoloniale ma anche femminista: sulla categoria di masquerade, coniata dalla psicoanalista Joan Rivière nel 1929 per leggere l’identità femminile, cfr. in particolare Rivière 1929, Heath 1986 e Doane 1991 a e b. 26 Per un illuminante studio dei gerghi delle «classi criminali» e, in particolare, dell’ argot parigino quale fenomeno linguistico che mette a nudo l’inadeguatezza degli strumenti teorici dei linguisti e degli etimologisti cfr. BeckerHo 1994: «Nell’argot le parole sono armi le quali si caricano o si scaricano a volontà, secondo le circostanze. Esse “coprono” o danno il segnale. Informano o disinformano. Divertono o minacciano. L’argot è il potere delle parole che ricordano che è sempre pericoloso parlare: talvolta troppo, talvolta non abbastanza… L’argot è la verità dell’uomo. È, al fondo, il linguaggio stesso, lo spirito di un’umanità che si batte anche con la propria lingua» (p. 41). 27 Cfr. al riguardo anche il suggestivo capitolo che Adriana Cavarero dedica alla poesia di Brathwaite in Cavarero 2003 (in particolare il cap. 6 «L’uragano non urla in pentametri»), dove leggiamo di come le lingue originarie degli africani deportati nei Caraibi abbiano «agito come una lingua sommersa capace di modificare l’inglese e di minare l’imperativo culturale delle lingue europee. […] la poesia caraibica e, più in generale, tutta la poesia in cui vibra la voce africana piega infatti la lingua dei dominatori a un vocalico che è, insieme, esperienza diretta dell’ambiente e memoria del mondo perduto» (ibid., pp. 163 e 165)

28 Sul ruolo strategico, nell’ambito degli studi letterari postcoloniali, del writing back si rimanda ad Ashcroft, Griffiths e Tiffin 1989. Ma al riguardo cfr. anche il magistrale saggio di Toni Morrison sulla presenza africana nella letteratura americana: dove il «nero», all’apparenza solo un «vuoto ornamentale», costituisce – attraverso specifiche strategie letterarie di occultamento e spostamento – il motore stesso della costruzione dell’ideologia della whiteness (Morrison 1992). 29 Ma sull’impossibilità del «monolinguismo» si veda soprattutto Derrida 1996, dove Derrida non solo lega l’originaria struttura di alienazione della lingua (per la quale è possibile dire «non ho che una lingua, e non è la mia») alla situazione dell’alienazione coloniale – e alla propria condizione di ebreo algerino privato della cittadinanza francese in seguito alle leggi eccezionali varate dal governo di Vichy nel 1942. Ma esplora anche il rapporto tra la madre e la lingua, in direzione della struttura di necessità/impossibilità della «lingua materna» (ibid., p. 75). Per una lettura del romanzo di Defoe, del tutto allineata rispetto alle interpretazioni postcoloniali, dove Venerdì segnala che «le corps est l’autre qui fait parler, mai qu’on ne fait pas parler», cfr. de Certeau 1986, pp. 215-18.

30 La nozione, desunta dai lavori di Geneviève Fraisse (1996, 2001 e 2004), di «controversia», al pari del concetto di «aporia» o, ancora, del point de mésentente di Jacques Rancière, previene a nostro parere qualsivoglia gesto essenzializzante, indicando piuttosto l’in-finitudine del «conflitto» tra i sessi. 31 Un’importante ricognizione del dibattito, che ha occupato larga parte del femminismo internazionale degli ultimi decenni, sulla diade essenzialismo/anti-essenzialismo si trova in Fuss 1989, dove l’autrice argomenta l’impossibilità teoretica di una posizione radicalmente anti-essenzialista. Sulla categoria di «essenzialismo strategico» – concepita non tanto come posizione mediana tra i due poli dell’essenzialismo e dell’antiessenzialismo quanto come pratica situata delle identità – cfr., per una panoramica generale, Rajchman 1995.

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Frontespizio Presentazione Prefazione Introduzione Dedica Parte prima - Tempo, storia, scrittura 1. - Margini della storia 1.1. Storia-mondo: la fine del «fuori» 1.2. Temporalizzazione e anacronia 1.3. La frontiera ambigua: eccezione e liberazione 2. - Scrittura, narrazioni 2.1. Controstorie 2.2. Archivi del silenzio 2.3. Narrative del possibile 3. - Aporie della memoria 3.1. Il diritto del passato: rovine e altri resti 3.2. Sublime storico e narrazione Parte seconda - Mappe, soggetti, traduzione 1. - Traduzione e transizione 1.1. Macchine di scrittura 1.2. Capitale globale e «differenza storica» 2. - Politiche della traduzione 2.1. Identità culturale e ambivalenza 2.2. Linguaggio e minorità 2.3. Logica, retorica, silenzio 3. - Soggetti politici 3.1. Geografia del dominio, cartografie della subalternità 3.2. La parola politica 3.3. Differenza e posizioni: le alleanze situate Bibliografia Indice dei nomi

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