La grande traversata. Filosofia e teologia. Nuova ediz. 9788898694396, 9788885716087

Seguendo la metafora della traversata tra due sponde di uno stesso fiume, il testo di Emmanuel Falque ci offre un'a

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La grande traversata. Filosofia e teologia. Nuova ediz.
 9788898694396, 9788885716087

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Avvertenza del curatore
La grande traversata:filosofia e teologia.
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Emmanuel Falque La grande traversata Filosofia e Teologia Con una postfazione di Andrea Bellantone

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Point d’Orgue

Collana diretta da:

Danielle Cohen-Levinas e Carmelo Meazza

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Point d’orgue | 4

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Emmanuel Falque La grande traversata Filosofia e teologia

Postfazione di Andrea Bellantone traduzione italiana e cura di Giacomo Petrarca

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© 2017, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: info@ inschibbolethedizioni.com

Point d’orgue ISSN: 2284-2241 n. 4 - gennaio 2017 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694396 ISBN – E-book: 9788885716087 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Very Old Bible Close Up With Copyspace © B-C-designs - Fotolia.com

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Avvertenza del curatore

I testi che seguono sono frutto di un seminario tenuto dal prof. Emmanuel Falque e dal prof. Andrea Bellantone sul rapporto tra filosofia e teologia nella riflessione fenomenologica francese, che si svolse il 4 marzo 2014 all’interno della cattedra di Metafisica del prof. Massimo Donà presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Tengo a ringraziare il dott. Federico Croci e il dott. Antonio Moretti per il prezioso contributo nella traduzione di alcune parti del testo del prof. Falque. G. P.

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La grande traversata: filosofia e teologia. Andata «e» ritorno1

Premessa Con l’interrogativo posto da Leibniz si apre certamente l’era della monadologia, ma anche un nuovo modo d’intendere l’avventura, ossia di superare i limiti: «perché Cesare ha deciso di passare il Rubicone invece di fermarsi, e perché ha vinto invece di perdere la battaglia di Farsala?»2. Attraversando il fiume, o meglio il piccolo torrente (flumen) che separa l’Emilia Romagna dalla Gallia Cisalpina, Cesare avrebbe comunque cambiato la faccia della terra, sebbene in quel momento il rischio corso fu grande.

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Alea jacta est – «il dado è tratto» – avrebbe esclamato il futuro imperatore, così non da imitarlo né da ricalcare il suo passo, ma per dichiarare che nessuna avanzata può essere fatta senza esporsi, ché «pensare è decidere» (Heidegger). Converrà pertanto riconoscerlo, almeno per ciò che attiene al campo (di battaglia?) che in Francia separa la filosofia e la teologia. Sotto i colpi di ariete dell’ermeneutica e della fenomenologia, le frontiere tra le discipline sono già crollate, e prenderne atto è il minimo per non continuare a illudersi. Hans-Georg Gadamer e Paul Ricœur da un lato (ermeneutica), Emmanuel Lévinas, Michel Henry, Jean-Louis Chrétien, JeanLuc Marion o Jean-Yves Lacoste dall’altro (fenomenologia), segnano così tanto le tappe relative, ossia anche progressive, per le quali le frontiere non sono più innalzate come barriere, né le dispute come tornei d’oratoria. Che vi sia o meno una «svolta teologica della fenomenologia francese» (D. Janicaud), resta un fatto incontestabile: un

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reale apporto della fenomenologia per la teologia si è ampiamente sviluppato dalla comparsa di Totalità e infinito (1961), così che gli stessi teologi oggi possono solo trarre vantaggio dal farvi riferimento. Meglio, ciò che si diceva ad intra nell’interrogazione dell’ebraismo (Lévinas) o del cristianesimo (Marion, Lacoste, Henry, Chrétien, ecc.), viene ora formulato anche ad extra, fuori da ogni sfera confessionale, come se il «religioso» e il contenuto teologico come tale non potesse lasciare indifferenti neppure quelli che fanno professione di non aderirvi – Nietzsche e la resurrezione (D. Franck), il rifiuto e la teologia negativa (J. Derrida), l’arte contemporanea e la crocifissione (G. Deleuze), la decostruzione e il cristianesimo (J.-L- Nancy), l’universalismo e san Paolo (A. Badiou), ecc. Resta tuttavia una questione, per nulla trascurabile. Se l’apporto della fenomenologia alla teologia ha senza dubbio portato i suoi frutti, così che il dire di Dio (Lévinas), il rapporto alla scrittura (Ricœur), l’incar-

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nazione (Henry), l’eucarestia (Marion), la preghiera (Chrétien) o la liturgia (Lacoste) hanno trovato sulla scia del “descrittivo” il modo per rinnovare un’interpretazione precedentemente espositiva, la fenomenologia stessa non si è – o molto poco – interrogata a sua volta sulle trasformazioni che la teologia questa volta le ha imposto. Tutto ciò avviene, in effetti, come se la «fenomenologizzazione della teologia» non sia stata accompagnata allo stesso tempo da una «teologizzazione della fenomenologia». Beninteso, non si tratta di richiedere una criptoteologia in seno alla filosofia, e ancor meno di confondere le discipline nella pretesa di volerle riunire. Si tratta di pensare dall’una all’altra un «contraccolpo», ma, questa volta, secondo una via a doppio senso: dalla fenomenologia alla teologia, certo, ma anche dalla teologia alla fenomenologia. La presa in considerazione del Cristo «carnale» e «corporale», per esempio, in Tertulliano potrebbe ben imporsi di ritornare sull’ipertrofia della carne o del «vissuto del corpo» nella

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fenomenologia (Les noces de l’agneau3); la considerazione della resurrezione potrebbe far emergere la vera posta in gioco dell’orizzontalità della nostra esistenza (Métamorphose de la finitude4), o ancora, l’ipotesi di un pathos divino e intra-trinitario potrebbe trasformare il senso unilaterale della sofferenza (Passeur de Gethsémani5). Se perciò da qualche tempo la fenomenologia pratica un «viaggio di andata» – dalla fenomenologia alla teologia –, si prenderà, allora, una volta non era costume, un «biglietto di ritorno»: questa volta dalla teologia alla fenomenologia. Pensando «a senso unico», anche se per interesse verso ciò che scopre, la filosofia rischia di non lasciarsi trasformare da ciò che esattamente ha appena incontrato. Converrà dunque percorrere qui il doppio tragitto, con il rischio duplice sia di perdersi, sia di non aver mai viaggiato. I. Pathei mathos – o «la conoscenza di sé tramite la sofferenza»: questa è la grande lezione di Eschilo, e il senso della grande traversata o del «passaggio», nel duplice senso di «patire» come anche «passare».

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Nell’atto dell’interpretare (ermeneutica), come anche del decidere (credenza o fede) e del passare (filosofia e teologia) si giocherà dunque costantemente questa «andata e ritorno», o questa Iliade senza mai Odissea, in modo che non sarà soddisfatta di procedere senza tornare cambiata da ciò che ha visto.

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Capitolo primo La questione ermeneutica

1. Verso quale ermeneutica? «La Scrittura cresce con coloro che la leggono» (Scriptura cum legentibus crescit)6. La formula metaforica di Gregorio Magno non indica anzitutto – e non solo –, che io cresco con la Scrittura, o che io sono il suo principale destinatario. Al contrario, e con un’inversione alquanto sorprendente, è la Scrittura che si accresce in forza della mia lettura, il testo vive della mia vita; non sono io a nutrirmi della sua: «la Bibbia è un essere vivente che noi vediamo svilupparsi sotto i nostri occhi», per dirla con Paul Claudel7.

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Se si tratta così di una relazione ermeneutica, in teologia certo (secondo il senso della Scrittura) ma anche in filosofia (secondo l’interpretazione), questa – secondo noi – si svolgerà più nel corpo che nel testo, più nel mondo che nel sé. «L’ermeneutica è fondamentale?» 8. Da un lato, la fenomenologia (in particolare, Husserl e Heidegger), svolgerà il ruolo della «via breve», ossia quella dell’«ontologia della comprensione», o del vissuto del soggetto intenzionale, in ciò che esso è proiettato e trasformato nel testo stesso. Dall’altra, l’ermeneutica (certo Hans-Georg Gadamer, ma più ancora Paul Ricœur) si riferirà esplicitamente alla «via lunga», ossia alle analisi del linguaggio, alla storia e alla svolta delle diverse mediazioni, in modo tale che il soggetto umano non sia mai bloccato direttamente, ma sempre mediato dalle “opere della lettura”. Tale è oggi il dibattito da interrogare e la decisione di Paul Ricœur – seguita dell’esempio della teologia ermeneutica – da ripensare: «sostituire alla via corta dell’analitica del Dasein,

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la via lunga che prende l’avvio dalle analisi del linguaggio»9. Beninteso. Non si tratta, inutile dirlo, di non sottolineare anzitutto il merito immenso dell’ermeneutica ricœriana e, in particolare, la sua potenzialità illimitata per la teologia. Interrogheremo solamente, ma anche in modo decisivo, il suo radicamento nella sola testualità piuttosto che nella corporeità, nel «libro della Scrittura» (liber Scripturae) piuttosto che nel «libro del mondo» (liber mundi). Senza ridurre una certa ispirazione a una confessione, bisogna riconoscere che nessuna esistenza saprebbe dirsi senza esperienza, e che nulla della filosofia, in particolare quando essa ammette il proprio debito spirituale, non saprebbe disfarsi così facilmente della propria eredità tradizionale. Il protestantesimo di Paul Ricœur radica la propria arte di interpretare nella sola Scriptura ciò che corrisponde certamente alla propria tradizione come anche alla propria confessione. Allo stesso modo, l’ebraismo di Emmanuel

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Lévinas trova il proprio rifugio nel «corpo della lettera», la Torah segna l’atto di «contrazione dell’infinito nella Scrittura», o «la dimora precaria di Dio nelle lettere»10. Ciò che qui vi è di “confessionale” nell’ermeneutica (ermeneutica protestante nel senso del testo ed ermeneutica ebraica nel senso del corpo della lettera) non nuoce in nulla al proprio carattere concettuale, e ancor meno alla propria vocazione universale. Resta la questione – e l’obiettivo – che dovrà essere interrogato. Se l’ermeneutica ricoeuriana si radica nel protestantesimo (il senso del testo), e l’ermeneutica levinassiana nel giudaismo (il corpo della lettera) – ciò che non si saprebbe ricondurre loro secondo un ecumenismo necessario e di buona qualità –, cosa ne sarebbe allora di un’ermeneutica propriamente «cattolica»? Detto altrimenti, nel «senso del testo» e nel «corpo della lettera», non c’è pure da spiegare il programma di un’ermeneutica detta “cattolica” del «corpo e della voce», in modo che alla tavola della Scrittura sia sempre legata la ta-

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vola dell’eucarestia: «i fedeli si nutrono del Verbo divino alla duplice mensa della sacra Scrittura e dell’eucaristia»11.

2. Ermeneutica e senso della Scrittura Svolgendo i quattro sensi della Scrittura si segue infatti lo sviluppo dell’ermeneutica, per oggi e per domani: «la lettera insegna “ciò che ha avuto luogo” – sottolinea il domenicano Agostino di Dacia, in ciò erede di Tommaso d’Aquino –, l’allegoria “ciò che tu devi credere”, il senso morale (tropologico) “ciò che tu devi fare”, il senso anagogico “ciò verso cui devi tendere”»12. Lo sappiamo, essendo molti ad averlo provato da vicino o da lontano. L’avvenimento dell’esegesi storicocritica in Francia, alla fine del Concilio Vaticano II e fino agli anni ’70, ha permesso un reale rinnovamento della lettura dei testi, certo per la lettura della Bibbia, ma anche per la teologia, ossia per la filosofia. Ciò che qui la «lettera» del testo insegna, poiché si

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tratta di riferirsi al primo senso della Scrittura, non torna a mantenersi alla sua letterarietà (ciò che dice il testo), ma piuttosto alla sua storicità (ciò a cui rinvia il testo). Il metodo storico-critico, in guisa del primo senso della Scrittura, rinvia precisamente a “ciò che ha avuto luogo” (lettera gesta docet) nella propria presa in conto del testo, del referente, delle tradizioni nelle quali il testo fu scritto, della storia vera alla quale rinvia, ecc. Molti dei procedimenti esegetici permettono alla fine di fare della Genesi un «mito», dei racconti storici un agglomerato di differenti tradizioni (jahvisti, eloisti e sacerdotali) e delle epistole di Paolo, talvolta, un aggregato di numerosi autori e di un altro autore (l’epistola agli ebrei, ad esempio). Il metodo storico-critico non rinvia alla lettera del testo così come essa è scritta, ma alla sua letteralità nella storia e al contesto in cui essa fu data. Una sorta di svilimento del metodo storicocritico, come probabilmente accade oggi anche per l’ermeneutica dei testi, porta ad

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attendere e a sperare un rilievo, in particolare nella teologia cattolica, che l’ermeneutica protestante conduce paradossalmente a procurare. Con «la funzione ermeneutica della distanziazione» (1975), Paul Ricœur propone infine, o di nuovo, un genere d’interpretazione in cui «ogni riferimento alla realtà può essere abolito». Una tripla riduzione o epoché permette di operare un «affrancamento nei confronti di colui che scrive il testo (l’autore)», «un affrancamento di colui che riceve il testo (il lettore)», e un «affrancamento di ciò a cui rinvia il testo (il referente)»13. Lo si sarà compreso: il guadagno è qui considerevole. Un «mondo del testo» nasce per se stesso, in modo che un «senso del testo» valga per sé, nella propria unità, qualsiasi siano le circostanze nelle quali il messaggio fu composto e l’intenzione per la quale fu destinato14. La pastorale, in particolare in Francia, saprà trarne beneficio nonostante tutte le derive della proiezione di sé in un testo, contro le quali lo stesso Paul Ricœur ha incessante-

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mente lottato. Insomma, diventa possibile leggere, o rileggere, la Bibbia per se stessa, senza credersi o pretendersi “sapienti” per comprenderla, e riconoscere che questo messaggio mi era anzitutto rivolto nella sua unità, e non sempre derivato da una storia che, in fondo, lo fa sorgere. Il testo è un «mondo in sé», e nessuna conoscenza esteriore è richiesta, eccetto la mia volontà di leggerlo, ossia anche di comprenderlo, o comprendermi (Verstehen) in lui. Ed è qui pertanto il punto dolente – non ieri dove l’ermeneutica giungeva a rinnovare tutto (negli anni ’80), ma oggi in cui noi ne abbiamo in parte esaurito le potenzialità (negli anni 2000). La «proposizione di mondo» che apre il testo, sottolinea Ricœur, mira anzitutto sia all’«appropriazione (Aneignung) o all’applicazione (Anwendung) del testo alla situazione presente del lettore», che alla sua capacità a «comprendersi di fronte al testo» o ad «esporsi al testo e ricevere da lui un sé più ampio»15. Se il testo è un «mondo in sé», non ne sono di meno il

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principale destinatario: «il testo è la mediazione attraverso la quale noi comprendiamo noi stessi»16. Si tratta qui, con l’ermeneutica di Paul Ricœur, di riconoscere e di vedere nel testo “ciò che tu devi fare” (quid agas), ciò che designa parlando propriamente il «senso morale» o «tropologico». Ogni lettura mira alla «trasformazione del sé attraverso il testo», in modo che le numerose derive e pratiche pastorali ne siano attratte, come se una lettera di Paolo, ad esempio agli Efesini, mi fosse direttamente indirizzata. Paradossalmente, la mediazione del testo nella sua lingua e nella sua cultura così importante per Paul Ricœur è stata talvolta dimenticata, in favore della sola appropriazione e modificazione del sé attraverso il testo. Ci sarà bisogno allora, e per oggi, di una «fenomenalità del testo», a mo’ di rilievo della «storicità del testo» (senso letterale) e dell’«ermeneutica del testo» (senso tropologico). Attenta non più solo a “ciò che ha avuto luogo” (senso letterale), o a “ciò che tu devi fare” (senso morale), si aspirerà que-

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sta volta a “ciò che tu devi credere” (quid credas, senso «allegorico») e a “ciò verso cui tu devi tendere” (quo tendas, senso «analogico»). Invece di ritrovarsi nel testo, ci si perderà in esso. E inoltre invece di «capirsi di fronte a lui», si verrà presi e com-presi in lui – incorporandomi al corpo della Bibbia nella liturgia della parola come m’incorporo al corpo del risorto e della Chiesa nella liturgia eucaristica: «non è giusto dire che noi interroghiamo la Scrittura, – sottolinea a meraviglia Paul Claudel. Sarebbe più esatto riconoscere che è la Scrittura a interrogarci […]. La Bibbia è un dramma, ma un dramma di cui non dirò che lo stiamo vivendo, piuttosto è lui che ci vive, come è stato anche per i suoi autori precedenti»17. La fenomenologia del testo si centrerà di meno sui miei vissuti come suo destinatario, che sui vissuti interni al testo stesso, a mo’ di suo unico proprietario. Seguendo l’esempio di Madame Bovary in Flaubert o di Julien Sorel in Stendhal, un’intersoggettività si articola anche e, anzitutto, nel gioco reciproco

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tra i personaggi, di cui non sono il principale beneficiario – non altro che per perdermi, o almeno per non trovarmi. «Abbiate in voi i sentimenti che sono quelli di Gesù Cristo», proclama l’inno ai Filippesi (Fil, 2.5), e non il contrario. Non è lui che si comprende in me, come se la mia interpretazione potesse contenerlo, ma sono io che mi comprendo in lui – «lasciando[mi] leggere con autorità delle sante Scritture» per riprendere la formula di Jean-Louis Chrétien18. In breve, lo si sarà compreso, il testo contiene un «mondo» come ha ben sottolineato Paul Ricœur orientandolo tuttavia verso l’appropriazione, ma in ciò dice anche qualcosa del mondo che lo precede e s’incorpora in lui. L’ermeneutica intesa sia come «senso del testo» (Ricœur) che come «dimora della lettera» (Lévinas) onora, in effetti, anzitutto un testo o uno scritto, ma non il mondo o la creazione come tale. Ora questa è probabilmente l’originalità dell’intenzione “cattolica”, e non più “protestante” o “ebraica” dell’ermeneutica. Il primo ad es-

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sere dato, sottolinea Bonaventura commentando il Cantico delle creature seguito in ciò da Tommaso d’Aquino nelle cinque vie cosmologiche, fu il «libro del mondo» (liber mundi) ed era sufficiente dunque decifrarlo per vedervi presente Dio. È solo perché, a causa del peccato, «questo libro (iste liber), ossia il mondo (scilicet mundus), era come morto e cancellato, che fu necessario un altro libro (alius liber) – il libro della Scrittura (liber Scripturae) – grazie al quale l’uomo fu illuminato per comprendere le metafore delle cose»19. Il testo non viene prima, ma dopo, e tale è probabilmente la grande originalità di un’ermeneutica detta “cattolica”. Cessando di porre la sua attenzione sulla mediazione del testo e le sue strutture, alla maniera dell’esame del dito che mostra la luna senza mai indicarla davvero, la «fenomenologia del testo» fa entrare in un’autentica intercorporeità intenzionale del lettore e degli attori del testo stesso, in modo che v’incontri il Cristo (senso allegorico), o l’unione a Dio stesso (senso anagogico), e non

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più una storia che mi si dischiuderà (senso letterale) né una interpretazione che mi è già destinata (senso morale o tropologico). Così si daranno i mezzi per incontrarla nuovamente, o piuttosto per mostrarsi diversamente. L’ermeneutica cattolica del «corpo e della voce» (la nostra prospettiva) seguirà, per quanto possibile, all’ermeneutica protestante del «senso del testo» (Ricœur) e dell’ermeneutica ebraica del «corpo della lettera» (Lévinas).

3. Del corpo e della voce La voce ha questo di proprio, ch’essa necessita di un corpo, sia pure nascosto ma non assente o soppresso. Si può e, talvolta, anche si deve, leggere un testo dimenticando il proprio autore, come anche celebrare una parola in ricordo di un autore. L’ermeneutica detta “cattolica”, tuttavia, non è né quella della lettura (posizione protestante) né quella dell’ascolto (intenzione ebraica).

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Essa celebra e aspetta la visibilità più che l’invisibilità, il corpo più che la parola: «Chi vede me vede il Padre, risponde Gesù a Filippo. Come puoi dire: mostraci il Padre?» (Gv, 14.9). Come vedere allora Colui che non vediamo più, e intendere Colui che non intendiamo più, almeno non più alla maniera dei discepoli che furono suoi contemporanei? Qui trova posto la formula di Ugo di San Vittore, una sorta di leitmotiv di un’ermeneutica del corpo e della voce detta “cattolica’: hic intelligenda est vox Verbi quod ibi caro Dei – «la voce del Verbo è da comprendere oggi, come la carne lo fu allora»20. La questione va compresa adeguatamente. Non si tratta di «sentire delle voci o la sua voce», né di udire il Verbo con le nostre “orecchie di carne”, anche se Francesco d’Assisi ne avrebbe fatto menzione per insistere sulla conversione della nostra corporeità. Qui conta, oltre alla risonanza del suono, l’analogia: «ora, ogni giorno questo stesso Verbo viene a noi sotto forma di una

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voce umana, precisa Vittorino». Differente, certo, è la maniera con cui si fa conoscere agli uomini, dato che ciò avviene «tramite la sua carne o la sua voce umana»21. L’ermeneutica della voce impone di riconoscere che nella vocale v’è un’assenza divenuta presenza di una rara intensità, e dunque il modo dell’ascolto in lontananza (o téléphoné) ci consente oggi di apprendere la sua originalità. Al fondo di un filo più che mai virtualizzato, risuona la «voce» del mio Amato(a). È lui, è me. Non c’è bisogno di parlarsi per riconoscersi. L’altro è sempre già lì nel timbro della suo trasporto, e il suo soffio o la sua vibrazione sono sufficienti a identificarlo. Si tratta di una «singolarità della voce» che nessun altro fenomeno saprebbe uguagliare, in modo tale che Dio stesso fa uso esemplare della voce, Bibbia compresa, per esprimersi oggi: «chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» (akouei mou tês phones), risponde Gesù al tribunale davanti Pilato (Gv, 18.37); e si chiamerà «buon

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pastore» colui che apre la porta alle pecore che «ascoltano la sua voce» (tês phônes autou akouei), nel senso che esse «conoscono la sua voce (oti oidasin tên phonen autou) (Gv, 10.3-4). Presente nel suo corpo sulla tavola eucaristica, Dio lo è dunque anche attraverso la sua voce durante la tavola della sacra Scrittura. La parola non è più solamente «testo» (Ricœur) né «traccia» (Lévinas), ma ancora pro-ferimento, ossia voci-ferazione, di un «questo è il mio corpo» venuto nel pane per donarsi, e nella parola per vibrare. Non vedendo più il suo corpo di carne – come fu un tempo per i discepoli – ora intendiamo la sua voce, lo riconosciamo dalla sua disposizione più che dalla sua materia, dalla sua tonalità ben più che dalla sua visibilità. Meglio, egli resta tramite la sua voce nascosto nella sua carne – non assente, poiché non ci sarà mai una voce senza corpo –, ma allo stesso tempo presente. Là dove il corpo si mantiene nascosto «sotto il velo della natura» nella sua incarnazione e «sotto forma

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del pane e del vino» nell’eucaristia, secondo l’espressione di Pascal nella lettera a Charlotte Roanez (1656), la sua voce risuona per noi al fondo di questo corpo totalmente presente e, tuttavia, nascosto così da essere questa volta i destinatari non solo di un testo articolato, ma di un modo d’essere di Dio espresso dal suo corpo: «non è per me (o da me) che questa voce (phône) si è fatta udire, precisa il Cristo all’ora della sua glorificazione, ma per voi (alla di umas)» (Gv, 12.30). Lontano dal ritenersi nella rete della scrittura o della «grammè» (Derrida, La voix et le phénomène), la voce attende dunque d’essere proferita. V’è un oblio della voce, più ancora che dell’essere. Il pensiero afono della filosofia guadagnerebbe probabilmente, come con uno «choc di ritorno», ad apprendere ciò che resta della «grande voce», o della megalê phôné, in teologia: «All’ora nona, Gesù gridò a gran voce (megalê phôné): Eloi, Eloi, lema sabactani – che significa: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai

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abbandonato?» (Mc, 15.34). Qui la voce non sarà semplicemente «nuda», in ragione di un «appello» che la ricopre sempre o ne costituisce la significanza (Heidegger); essa sarà anzitutto «creduta»*, nel duplice significato della “crudezza” di ciò che si dà senza essere stato preparato, e dell’apprendimento da ciò a cui prestiamo fede senza mai pertanto abituarci. La «via creduta» (la nostra prospettiva) invece che la «via nuda» (J.-L. Chrétien), è ciò che opera la vociferazione della voce, attraverso la quale il Cristo stesso nel suo grande grido sul Golgotha si offre nelle sue passioni più che nelle sue articolazioni, nelle sue sofferenze prima che nei suoi fonemi: «i suoni emessi dalla voce sono i simboli degli stati d’animo (pathemata), sottolinea com’è noto Aristotele, e le parole scritte i simboli delle parole emesse dalla voce»22. Il «Verbo in croce» si darà così come un «Verbo in voce», tenendo la voce * Qui l’Autore gioca con la duplicità di significato del termine «crue», impossibile da rendere in italiano con un’unica parola [N.d.T.].

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nel corpo (eucarestia) e dando corpo alla voce (liturgia): «percepiamo la nostra voce in lui (in illo voces nostras) e la sua voce in noi (voces eius in nobis)», bisogna qui sottolineare con Sant’Agostino nelle sue Enarationes in Psalmos23.

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Capitolo secondo Decidere di credere

Avendo dunque interpretato (Parte 1), rimane ora da «decidere» (Parte 2). L’ermeneutica cattolica del corpo e della voce apre certamente a una nuova e diversa modalità dell’espressione, ma non vi è alcuna garanzia che non ci farà abbandonare la nostra comune umanità. La grande traversata, o il passaggio del Rubicone, rischia molto, anche troppo, di abbandonare una riva nell’oblio di ciò che è stato lasciato. «Bisogna scommettere. Non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete impegnato» – dichiara il celebre passo di Pascal nel mezzo

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dei suoi Pensieri24. Impegnati per impegnati, non si dimenticherà nulla di ciò che l’uomo fa, soprattutto per navigare. «L’uomo nella sua interezza», o l’orizzonte della finitezza, costitutivo della figura umana nella sua modernità, non possono essere dimenticati da Dio. La fede in questo senso non è solo la responsabilità di affidarsi. Noi crediamo sempre «nel mondo» o «in altri» prima di credere (o meno) «in Dio». Una credenza o fiducia originaria (Urdoxa) precede e fonda ogni incredulità e diffidenza. Non c’è nulla di meno che credere di non credere – non si tratta in primo luogo di religione, ma della filosofia o dell’uomo in quanto tale. Perciò, è a partire dalla sospensione delle astrazioni del dubbio o dell’epoché che in primo luogo si concentrerà il filosofo o l’uomo in generale, lasciando al teologo di «trasformare il concetto di decisione nel momento della scelta», in quanto, in questo caso, a decidere non è il cristiano «uno », o «due», ma «tre» (Trinità).

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1. La credenza irriducibile Ad ogni modo, dunque, si crede. La «fede percettiva», per dirla con Maurice Merleau-Ponty e secondo una omologia della «fede» che mostra come la credenza filosofica preceda la «fede religiosa», indica una «fede irriducibile nel mondo»: «nozione di fede da chiarire – dice una nota del Visibile e l’invisibile. Non è la fede nel senso di decisione, ma nel senso di ciò che è prima di ogni posizione, fede animale»25. La filosofia moderna ha certamente potuto tornare alla coscienza sfidando il mondo, e il potere del dubbio iperbolico, come la scoperta del cogito fece sicuramente di Descartes «il cavaliere francese che camminava di così buon passo» per dirla con Péguy26. Meglio, l’epoché o «la messa tra parentesi» segna il vero atto di nascita della fenomenologia in Husserl, tanto che non è sufficiente descrivere le situazioni per definirsi fenomenologia (spesso piace usare la parola fenomenologia nel contesto della teologia). Nella fenomenologia si deve, piuttosto, ritornare

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agli «atti di coscienza» che costituiscono il nostro «vissuto delle cose» come le cose stesse, piuttosto che alla loro empiricità od obiettività. In breve, il dubitare o il mettere tra parentesi costituiscono l’atto di nascita di una filosofia riflessiva di cui qui non si potrebbe negare la solidità. Rimane ancora e paradossalmente un «terreno di credenza universale nel mondo» che non potrò mai ridurre: «tutto ciò che, come oggetto che è, è un fine della conoscenza, è un ente residente sul terreno del mondo, e questo mondo si impone su di lui come essente secondo una evidenza indiscutibile», riconoscerà Husserl alla fine della sua vita. La coscienza del mondo, dice il filosofo, è una coscienza che ha come modo la certezza della credenza»27. Non si troverà, quindi, maggior pregiudizio di quello dell’assenza di pregiudizi. Sum credendus – «sono credibile (o da credere)» – precede secondo noi nella sua certezza il cogito ergo sum («Penso dunque sono», Descartes), o sum moribundus («essere per la morte»,

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Heidegger). Che io possa credere «in» Babbo Natale non richiede «che» Babbo Natale esista. «Credo con certezza» e ciò è la più alta certezza: «se anche volessi dubitare che la Terra esisteva già molto tempo prima che io nascessi –, si dovrebbe concludere con Ludwig Wittgenstein, – dovrei mettere in dubbio tutto ciò che per me è saldamente acquisito», vale a dire, «la credenza in me stesso»28. Dunque, un «c’è» [il y a] irriducibile resta sulla soglia e nel fondo di tutte le credenze, prima di qualsiasi sospetto e diffidenza. Riguardo alla domanda di Leibniz «perché c’è qualcosa piuttosto che il niente?», si deve riconoscere in primo luogo che «c’è» qualcosa. Non che la cosa “sia”; ma ciò riguardo cui non posso non «credere» che sia, e che precisamente è indubitabile e irriducibile, è la mia stessa convinzione. Poco importa qui cosa sia. Conta solo l’idea, o la convinzione, secondo la quale «non posso credere» che non sia. La «fede filosofica» (nel mondo e negli altri) precede e fonda la «fede religio-

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sa» (in una trascendenza), come anche la «fede professante» (in un Dio agente e presente in me). Una volta che non è abitudine, la fede in Dio non si allontana più dall’insieme e dal resto dell’umanità – il «piccolo resto (Israele)» che non è mai inferiore, anche quando ignora «il grande resto» (dell’umanità). «L’Es gibt» o il «c’è» non esprime più solo la donazione di ciò che si dona, ma questo sfondo filosofico della nostra comune convinzione che si dovrebbe ritrovare, se non vogliamo, come credenti professanti, essere separati dai «nostri fratelli umani» (Bernanos), presi a prestito come noi da quel caos indicibile che si dovrebbe ammettere: «il bruto o il selvaggio che non è stato ancora convertito in un oggetto di visione o di scelta, è lui che avremmo trovato», riconosce Maurice Merleau-Ponty in un pensiero quasi testamentario29. Non ci si aspetterà più, dopo Husserl, «l’esperienza pura e per così dire ancora muta che solo ora dev’essere indotta a esprimere il suo senso»30. Il «pre-riflessivo», secondo la sua

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stessa formulazione, dipende ancora “tutto” e “troppo” dal riflessivo, tutto ciò che è l’essere unicamente orientato verso di esso – come l’«inconscio» nella prima topica di Freud (inconscio, preconscio, conscio) per una qualche ragione è sostituito dall’«Es» nella seconda topica (Es, Io, Super-Io)»: «più che condurci a Dio» riconosce Emmanuel Lévinas alla fine della guerra «la nozione di il y a ci conduce all’assenza di Dio, all’assenza di ogni essente. I primitivi sono assolutamente al di qua della Rivelazione, al di qua della luce»31.

2. La filosofia dell’esperienza religiosa Si tratta dunque di una filosofia prima della teologia e di uno sfondo di «credenza comune» (almeno nel mondo e negli altri) che struttura l’una e l’altra. Nell’effettuare la Grande Traversata, o nel passare il Rubicone, si sonderà perciò prima la profondità del fiume e si riconoscerà con evidenza

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che un’«acqua comune», anche se «disordinata», in primo luogo ci costituisce primariamente gli uni e gli altri. Siamo «intessuti dalla stessa carne» (Merleau-Ponty) e ammetterlo evita interruzioni e salti da cui la fenomenologia e la teologia, lo mostreremo, non rimangono esenti. Se c’è davvero una «filosofia della religione», almeno nel senso di autorizzazione del concetto filosofico nel cuore della rappresentazione teologica (la dialettica al cuore della Trinità in Hegel, per esempio), è ancora un «filosofia dell’esperienza religiosa», in cui anche la decisione della fede è importante, non più solo nella comunità di una credenza originaria (Urdoxa), ma nella specificità di una appartenenza professante ed esperienziale: «non si può che riconoscere il beneficio della realizzazione dell’esperienza religiosa personale –, dice Jean Dumery. Senza essere eleggibile, è spesso di grande aiuto nel criticare l’oggetto religioso»32. «La filosofia dell’esperienza religiosa», piuttosto che la «filosofia religiosa» (di accen-

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to troppo psicologico), designerà così una disciplina da ritrovare oggi, di cui Pascal, Kierkegaard e Nietzsche furono, per noi, i pionieri. Questa filosofia si radica nella «vita», la quale Martin Heidegger in altro modo nominerà «fattuale» – non semplicemente il «fatto della vita in quanto tale», ma (il fatto della vita) nel sottoporsi alla prova e nell’impegnarsi pienamente in questa dimensione di esistere. Si chiamerà «vita fattuale», precisamente nel contesto di una «fenomenologia della vita religiosa», piuttosto che di una «filosofia della religione», il fatto che «il sé che fa l’esperienza e ciò che si sperimenta non sono scissi come fossero due cose separate», per seguire di nuovo qui il giovane Martin Heidegger33. Si potrebbe certamente chiedere se si debba fare, o condividere, l’«esperienza religiosa» per potere parlare in materia di «religione». In altre parole, (si potrebbe chiedere) se il passaggio del Rubicone richieda non solo che si sia accettato di lasciare, anche per un solo momento, la riva della filosofia

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per raggiungere quella della teologia, ma se il «vissuto» di cui si discute nella stessa teologia (il Cristo) debba avere un contenuto proprio e per ogni senso, o si rischia di converso di non capire nulla di ciò che il filosofo o il teologo potrebbero affermare: «solo un uomo religioso può comprendere la vita religiosa, aggiunge Heidegger, perché, altrimenti, non disporrebbe di un vero dono»34. Ciò si capisce bene. Non c’è alcun problema, né per noi né per il filosofo di Friburgo, nel proclamare l’esclusività dell’esperienza, per cui il vissuto della cosa stessa è l’unico modo per onorarla. C’è (però) una sorta di terrorismo dell’esperienza in materia di religione (la riunione effusiva con Dio) come anche di psicoanalisi (lo stendersi sul divano) che fa sì che si vieti, a torto, a chiunque non l’ha condivisa, il potere di parlarne. Si sosterrà piuttosto che, al contrario, la «nonesperienza dell’esperienza» potrebbe anche altrimenti orientarla, o almeno farla scorgere sotto un aspetto che non si sarebbe so-

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spettato. Meglio, l’esperienza dell’esperienza stessa non è richiesta necessariamente da colui che vuole capire, anche se, e questo è ciò che rende l’essenza della «filosofia dell’esperienza religiosa», si riconoscerà che l’autore o l’artista al quale si riferisce non poteva dirla indipendente da una «vita fattuale» da cui il suo discorso è stato fecondato. L’adesione al Cristo del Vangelo non è la conditio sine qua non della lettura di un Pascal o Kierkegaard, ad esempio, non più della contemplazione di un Rouault o di un Caravaggio. Rimane, tuttavia, che questi stessi pensatori e artisti non hanno mai pensato, scritto o dipinto «fuori» da una tale adesione all’oggetto della credenza, marcante, almeno per essi, la loro prima (ma non unica) visione. La «filosofia dell’esperienza religiosa» non è conforme agli idoli del «soltanto vissuto» o dell’«interamente esperienziale», come anche alle derive sentimentali di oggi. Essa rinvia solamente, ma pienamente, al «coefficiente di esperienza» alla fonte di ogni discorso, di cosa sia “per

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sé” e anche “per gli altri”, in una singolarità che si dovrebbe riconoscere, invece che rifiutare.

3. Decidere in comune Al momento di decidere, non si sarà dunque da soli – trattandosi di esperienza filosofica, religiosa o confessionale, almeno in ciò che la «fenomenologia dell’esperienza» è anche un’«esperienza della fenomenologia» e appartiene all’una come all’altra – all’esperienza come alla fenomenologia – di non poter darsi indipendentemente da una certa alterità. Eppure, la «professione credente», dicendo: «io credo», in guisa di credo, si apre a una dimensione dell’esistenza che solo il cristiano è in grado di condividere. Dove la «fede filosofica» o la «fede percettiva» è servita da base comune a una «credenza originaria» (Urdoxa) negli altri o nel mondo, la fede in Dio, con la sua resurrezione nel contesto del cristianesimo,

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testimonia un’alterità vivente in sé che cambia da parte a parte la pratica e il modo decidere: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal, 2.20). Come credente professante, non si sarà più «uno», o «due», ma «tre» a decidere, se davvero il cristiano è considerato incluso nella seconda persona della Trinità e in essa (nel Figlio) compie la scelta di amare universalmente. Ci sarà certamente la scelta, ma non certo la scelta di avere la scelta. Ed è paradossalmente la «filosofia dell’esperienza religiosa», più che la «filosofia della religione», ad averne dimostrato la necessità. Piuttosto che scegliere tra «questo o quello», secondo l’imperativo del libero arbitrio (Descartes) o assumere «ciò che è stato scelto» come regola di responsabilità (Kant), il credente che decide in primo luogo comprenderà che non sceglie qualcosa, ma originariamente si sceglie come colui che sceglie. Non v’è la scelta di avere la scelta, poiché rifiutare di scegliere è già scegliere. Siamo perciò impegnati in un orizzonte di scelte

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che non possiamo rifiutare e la vera scelta è nuovamente di restare in questa dimensione dell’esistenza, piuttosto che decidere a favore o contro un motivo nel cuore stesso di questo orizzonte: «Grazie al mio “autaut” dice Kierkegaard, appare l’etica. Non è quindi questione di una scelta di qualcosa, né della realtà di ciò che è stato scelto, ma della realtà della scelta». Una scelta della scelta che diventerà quindi, per Heidegger, il luogo della «riconquista della scelta», o la possibilità per l’autentico Dasein di «decidere per un poter-essere determinato dal suo se stesso più proprio». Che il soggetto umano decida, e decida soltanto se stesso a decidere, questa è ancora la proposizione quasi nietzscheana dell’autentico Dasein, proposizione che il soggetto credente o professante che decide non saprebbe accettare per se stesso. Il dibattito sulla demitizzazione, nel frattempo, lo ha ampiamente dimostrato. Se «il kerygma non è in primo luogo l’interpretazione di un testo, ma l’annuncio di una

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persona», per dirla con Ruldof Bultmann, ripreso e commentato su questo punto da Paul Ricœur, ciò è non solo nel senso che si dovrebbe demitizzare e ritornare all’ideale di una fede pura (circa la quale la critica di Ricœur porta a compimento su questo punto), ma anche in quello per cui «non è la Bibbia che è la parola di Dio, ma Gesù Cristo». Nella professione di fede, più che altrove, «la decisione della trasformazione» comporta la «trasformazione del concetto di decisione». Credere in Dio, infatti, non consiste nel credere che sia, ma nel credere che è Colui dal quale mi è dato di credere. Chi pretende di avere fede “o” di essere in grado di credere, indica ironicamente Karl Barth, «certamente non crederà». Dio crede in me di più di quanto (e affinché) io non creda in Lui. Questa è la struttura paradossale della decisione di fede, che io divengo con Lui ciò che non ero e, oltre a ciò, io non realizzo solamente ciò che, da sempre, sono stato chiamato a essere. Non ci si contenta più della formula di Pindaro debitamente

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ripresa da Nietzsche o Heidegger – «Divieni ciò che sei»; la teologia, dunque, invertirà l’annuncio in modo da entrare in una storia di almeno due impegnati: «Sei ciò che diventi» e «Io sarò con te» (Es, 3.12). Questa è la decisione comune che permette, almeno, di decidere che non si decide da soli, e che sul fondamento umano della fede filosofica o della credenza nel mondo o negli altri si innesta anche la specificità cristiana di una fede in Dio che converte, modifica e trasforma la visione della stessa struttura del mondo. Dio è per noi «la causa dell’operazione di tutto ciò che opera» (Tommaso d’Aquino), come, secondo la nostra propria formulazione, questa fede è «la causa della decisione di tutto ciò che si decide». Lungi dal decidere senza di noi, Dio decide «con noi» (Emmanuel). Eppure, decidendo con noi, noi non cessiamo di essere «con» Lui, in quanto la sua decisione precede e copre l’insieme delle nostre azioni determinate, in modo che non rimanga nessun anonimato

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della chiamata o del chiamante o del chiamato per il credente professante, tenendosi egli stesso chiaramente e identificandosi in toto sotto l’ombra di Colui che lo ha condotto a decidere: «Dio non chiede all’uomo solamente una decisione –, si deve concludere ancora con Barth,– ma mentre lo crea e l’uomo si decide a obbedire o disobbedire, costituisce egli stesso una decisione su di lui»35.

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Capitolo terzo Attraversando

Dopo aver «interpretato» (statuto dell’ermeneutica) e definito le condizioni dell’atto del «decidere» (filosofia esistenziale), viene ora il momento di «attraversare» (rapporto filosofia e teologia). Si oltrepasserà il fiume, e si conoscerà dell’altro campo ciò che non si era mai saputo, o forse obliato. Anziché pensare, come è solito, che si preserveranno meglio le discipline dal momento che non le si separerà oltre, sosterremo il contrario, e come un Leitmotiv, che «più si teologizza, meglio si filosofa». Ne va qui del rapporto tra filosofia e teologia come nella Summa

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Theologiae di Tommaso d’Aquino. Non c’è alcuna secunda pars su «gli atti umani» (filosofia), senza una prima pars su «la Trinità» e una tertia pars su «Cristo» (teologia). Il teologico inquadra e rende possibile il filosofico. È sapendo quando e dove si fa teologia che si sa quando e dove si fa filosofia. Ed è non volendo «varcare il Rubicone», o ricongiungere le due rive, che ci crediamo immersi sempre nello stesso fiume.

1. Per una sovrapposizione Noi non abbiamo dapprincipio alcun’altra esperienza di Dio che quella dell’uomo. Questo è il punto di partenza di ogni riflessione primariamente filosofica. È qui il paradosso. Forse potrebbe darsi che si sia più filosofi essendo più teologi. Non si troverà altro cominciamento, almeno in un primo tempo, che l’uomo tout court, l’esperienza della finitudine in quanto tale, o l’orizzonte

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ostruito della nostra propria esistenza. Le illusioni costanti di numerosi filosofi, come anche di teologi, di un meravigliarsi beato dinanzi ai pretesi sorrisi del neonato non possono né ora né mai fondare una teologia, né una filosofia, che non facesse allo stesso tempo e immediatamente appello a un’altra virtualità – quella della morte in quanto tale. Il tragico dell’umano non può reggersi alla fine (la croce) senza ereditare a sua volta anche dal cominciamento (la nascita). Nessuna messa al mondo senza nascita di un mondo, l’abbiamo mostrato altrove (Métamorphose de la finitude). Ma «sgravando», secondo un’espressione certamente più animale che propriamente umana, non ci si proietta verso il basso come i gravi36 – vale a dire presi e accantonati in una contingenza che nulla permette, né autorizza, a oltrepassare. I discepoli di Emmaus certamente riconoscono il Cristo quando «egli scomparve ai loro occhi» (Lc, 24.31), secondo lo straordinario della sua divinità (fenomenologia dell’illimitato), ma senza mancare allo stes-

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so tempo di menzionare il loro «cuore tutto ardente» (Lc, 24.32), mentre camminavano con lui senza riconoscerlo, e incontrando precisamente dapprincipio la sua pura e semplice umanità (fenomenologia del limite). Il «fenomeno limitato» non si oppone qui al «fenomeno saturo», né l’ordinarietà carnale all’eccesso del fenomeno. La seconda via completa e radicalizza la prima. Nihil potest recipere ultra mensuram suam – «nulla può ricevere oltre la sua misura», bisogna riconoscere con Tommaso. Creato nei suoi limiti secondo il suo statuto di creatura, l’uomo non farà in realtà nulla per oltrepassarla, al rischio, al contrario, di abbandonare il suo rango di uomo che Dio gli ha conferito. Creato e voluto come «essere limitato», l’uomo rispetterà e amerà il suo limite, dando a Dio di abitarci senza tuttavia mai oltrepassarlo37. Tre tempi definiscono così la genesi, e il processo, dell’incontro e della trasformazione della filosofia attraverso la teologia. (a) Troveremo dapprima in Duns Scoto il

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punto di partenza di una filosofia ancorata nella contingenza, all’origine anche dell’atto moderno del filosofare. Se l’univocità dell’essere non fosse in grado di dire l’ultima parola sul rapporto tra filosofia e teologia, ne rappresenta ciononostante il preludio, o quanto meno la riva iniziale: «è impossibile mostrare alla ragione naturale che qualcosa di soprannaturale è presente nel viandante, né è richiesto per la sua perfezione; neppure per colui che la possiede è possibile sapere ch’è presente in lui». (b) Rimane che un tale cominciamento non saprebbe impedire una possibile sovrapposizione delle discipline, nella via cristologica della teologia, questa volta in cammino verso la filosofia. La dottrina sacra fa uso delle scienze filosofiche «come inferiori e servitori», occorre riconoscere con Tommaso, non in guisa di «servi» o «schiavi», ma come «suoi servitori che la Saggezza ha chiamato sulle alture/altezze»38. Questo è il momento dell’accavallamento39 dell’attraversamento del fiume o dell’incontro tra Cristo stesso e

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i discepoli sulla via di Emmaus. (c) Giunge infine il momento della conversione, o della trasformazione della filosofia per mezzo della teologia. «Se ciò è già detto in vista della creazione, sottolinea Hans Urs von Balthasar parlando di San Bonaventura, ciò si applica dapprincipio in seno a Dio»40. La monadologia trinitaria servirà qui da crogiolo della metamorfosi dell’uomo in Dio, o della filosofia in teologia, accettando questa volta esplicitamente di passare il Rubicone o di giungere sull’altra riva. Il filosofo che è anche teologo si spingerà fino a pensare la resurrezione o la «metamorfosi della finitezza» dell’uomo in Dio, per lasciarsi convertire in lui senza mai negare nulla del suo peso d’umanità. Finitezza, sovrapposizione e trasformazione, Duns Scoto, Tommaso, Bonaventura. Questa sarà la struttura di un «accavallamento» e di una «conversione» della filosofia per mezzo della teologia, non soltanto per compiere la filosofia nella teologia, ma per riconoscere che l’una (la filosofia) non

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saprà restanre semplicemente «in limine» dell’altra (la teologia). Non soddisfacendosi né di «filosofie della soglia» (Blondel, Ricœur, ecc.) né di «filosofie del salto» (fenomenologia francese in generale), il filosofo che è allo stesso tempo teologo, accetterà di muoversi dall’una all’altra (dalla filosofia alla teologia), comprendendo la loro mutua fecondità e la possibilità di andare come di tornare tra l’una e l’altra. Attraversare il fiume è anche mettere in contatto le rive, ed è osando compiere questa «grande traversata» che si uniranno le due sponde più spesso ignorate, o quanto meno non reciprocamente divise.

2. A ciascuno la sua via Pensare un tale «accavallamento e conversione della filosofia per mezzo della teologia» non impedirà alla filosofia e alla teologia di avere ciascuna la propria via, o meglio di rispettare il loro ordine, anzi. «Più

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si teologizza, meglio si filosofa», l’abbiamo già detto. Ciò che distingue la filosofia e la teologia starà in questo senso, e paradossalmente, meno nella natura degli oggetti che nel modo per giungerci. Il loro scarto si darà qui come una differenza di «modo/ condotta» anziché di «argomento». Innanzitutto, dal punto di vista del punto di partenza, è chiaro che le due discipline non andranno nello stesso senso, quanto in senso inverso: «problema della fatticità – la fenomenologia più radicale comincia dal basso», ricorda Martin Heidegger41. Nessun altro inizio per la filosofia, dunque, che «l’uomo tout court» o la «finitezza in quanto tale». «Nulla che sia umano mi è estraneo», ricorda Terenzio. Tale sarà l’ammissione e il monito del filosofo, dapprincipio ancorato nella nostra pura e semplice umanità. Dal punto di vista del modo di procedere, in secondo luogo, il filosofo seguirà un cammino euristico mentre il teologo imboccherà la via didattica. Ciò che è detto al principio in materia di filosofia non sarà necessariamen-

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te lo stesso alla fine. Secondo le Meditazioni metafisiche di Descartes, il dubbio posto all’inizio (prima meditazione) sarà tolto al termine (seconda e sesta meditazione). O ancora, e per seguire il nostro proprio percorso, la finitezza scoperta ab initio nell’effigie dell’uomo (Passeur de Gethsémani) verrà «trasformata» o «trasfigurata» in fine nella figura dell’Uomo-Dio (Métamorphose de la finitude). Là dove la teologia, spessissimo debitrice del metodo tedesco dell’expositio (Barth, Bultmann, Moltmann, Kasper, Rahner, Balthasar, ecc.), preferisce l’esposizione didattica seguendo l’ordine dell’insegnamento, la filosofia, in particolare lungo la scorta del cammino cartesiano, imboccherà la via euristica della ricerca, libera di accettare come anche di ricercare trasformazioni alla fine che non erano state poste al principio. Infine, dal punto di vista dello statuto dell’oggetto da analizzare, il filosofo prenderà per «possibile» ciò che il teologo riconosce come «effettivo». L’incarnazione,

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l’eucaristia o la resurrezione, per rivelate che esse siano, non saranno «credute» dalla filosofia se non nel quadro della teologia stessa. Quanto all’oggetto stesso, è là che paradossalmente la filosofia e la teologia differiscono meno. Uno stesso oggetto può in effetti essere preso in considerazione in maniera diversa secondo differenti discipline. La liturgia, la preghiera, persino la stessa eucaristia o l’incarnazione, non appartengono esclusivamente alla teologia. La fenomenologia in particolare potrà descrivere ciò che la teologia espone e crede. Così come l’antropologico, l’estetico o il letterario non possono essere esclusi dal campo filosofico, il religioso non potrà esserne esentato oltre. Nessuna ragione, se non una laicità mal compresa, può sclerotizzare il teologico alla sola disciplina che ne porta il nome, al rischio, al contrario, di rendere nullo tutto il contributo che ne verrebbe – in particolare per la questione di Dio.

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In breve, e si sarà compreso, là dove un tempo venivano distinte le discipline dalle loro «materie», si sottolineerà ora la loro differenza attraverso i loro «modi/prassi». L’approccio è differente, più che l’oggetto stesso. Non che non ci sia un contenuto proprio della filosofia (l’uomo) come anche della teologia (Dio), ma in quanto il cristianesimo tiene insieme gli estremi, in Colui che ne è il «punto di congiunzione», così come il «nodo» (l’Uomo-Dio). Certamente ciascuna avrà la sua via, a condizione solamente di riconoscere questa «differenza di vie» come altrettante prospettive possibili, e diverse, su di uno stesso oggetto. Una sorta di variazione eidetica o immaginativa si opera qui sull’oggetto, di modo che il coglimento della cosa conti almeno altrettanto, se non di più, della cosa stessa. L’esistenza di Dio «in sé» non avrà importanza, o ne avrà poca, se essa non è anche per me o per noi. Le famose prove, o meglio le vie, di Tommaso d’Aquino non hanno lo scopo di mostrare che Dio è (argomento ontologico), ma piuttosto di far vedere come accedere a

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ciò che egli è (vie cosmologiche) – motivo per cui godono ancora di perfetta attualità: «Dico dunque che tale proposizione “Dio esiste” è evidente per sé, perché il predicato è qui identico al soggetto […]. Ma siccome noi non conosciamo l’essenza di Dio, questa proposizione non è evidente per noi. Ha bisogno di essere dimostrata attraverso ciò che è meglio conosciuto da noi, anche se ciò è per natura meno conosciuto, vale a dire attraverso le opere di Dio»42.

3. Sulla meta-fisica Il «legame» qui intrecciato tra filosofia e teologia è in grado di far piazza pulita della suddetta ipotesi dell’onto-teologia. Oltre al fatto che un tale modello non esiste (se non nel corpus di Tommaso di Erfurt, pseudo Duns Scoto, a cui Martin Heidegger ha dedicato la sua tesi di abilitazione nel 1915), esso non ha altro obiettivo che di squalificare la disciplina teologica stessa per preferire

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ad essa un discorso sedicente e puro da tutte le contaminazioni della tradizione. La fenomenologia francese, ivi compresa quella d’ispirazione cattolica, condivide paradossalmente con la teologia protestante questo ideale di una “fede pura” o di un “discorso puro”, libero da ogni sovrapposizione tra gli ordini. Tutto si svolge come se il teo-logico, in quanto discorso di Dio, non avesse niente a che fare con il teo-logico come discorso su Dio, come se tutta la teologia naturale dovesse essere de facto squalificata nel nome dell’assoluto della rivelazione direttamente donata. La rottura tra gli ordini – ordine della carne, ordine dello spirito, ordine della carità – ha certamente di che affascinare. Una tale interpretazione della divisione pascaliana non dà ciononostante diritto alla possibilità cristologica di unificare gli ordini in Colui che tuttavia non denigra alcunché di ciò che gli è contrario, perfino estraneo. O meglio, niente assicura, ivi compreso quanto sostiene Pascal, che ciò che è «rottura» non possa anche interpretarsi qui in termini di «simbolo», dando da credere e

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da pensare che un ordine possa annunciare un altro ordine anziché semplicemente opporvisi: «la distanza tra i corpi e gli spiriti simboleggia la distanza infinitamente più infinita tra gli spiriti e la carità», occorre precisare con il filosofo di Port-Royal43. Il «superamento della metafisica» è dunque un po’ sorpassato, se è lecito dire così. Husserl stesso ne aveva avvertito l’equivoco, prima che Heidegger l’avesse sotto tiro: «Vorrei dire qui, infine, e al fine di evitare malintesi, che la fenomenologia […] non elimina che la metafisica ingenua, operante con le cose assurde in sé, ma che essa non esclude la metafisica in generale»44. Resta che oggi non si tenta di fare l’inverso, andare cioè verso la metafisica contro la fenomenologia, cercando ciò che a suo tempo ha voluto fare la fenomenologia. Si richiede una compenetrazione e una trasformazione dei campi, almeno per non restare in questo semplice vis-à-vis, che non può che irrigidire, se non addirittura rendere sterile il confronto.

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Smettendo di congedare le materie l’una dall’altra, schiena contro schiena, accetteremo se non che esse si compenetrino, almeno che esse si voltino e tornino a guardarsi l’un l’altra, riconoscendo così che esse non sono o non sono più così estranee come si è ben voluto credere e pensare. La metafisica come «traversata della fisica o della natura (meta-physis)», tale è dunque l’accezione del termine che converrà ora rivendicare, anziché squalificarlo per sempre. Tale periplo della traversata della natura non appartiene soltanto all’uomo. Anche Dio se ne fa erede, perfino il Passeur/ Traghettatore da cui è imbarcato il nostro fardello per essere trasportato “con lui”. Patente/ Pâtissant del mondo (physis) per passarlo* al Padre (meta), il Figlio compie in lui questa stessa «breccia», non soltanto per portarvici, ma per accompagnarci al di

* Consegnarlo, le passer: gioco di parole intraducibile.

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là, permettendo la nostra trasformazione. Il superamento del guado, nella «meta-fisica», non è salto in un al di là, ma trasformazione del nostro al di qua, e riconoscimento del nostro proprio peso.

* «Infine la teologia», il dado è tratto – alea jacta est. Conviene riconoscerlo. Un «sospiro di sollievo» può essere tirato. La «grande attraversata» che va dalla filosofia alla teologia, e viceversa, assicura la loro mutua fecondità, così come la possibilità del loro reciproco contraccolpo. Ridefinendo le condizioni dell’«interpretare» fino a rivendicare una ermeneutica “cattolica” «del corpo e della voce» (Parte 1), ritrovando il senso dell’atto del «decidere» fino a fondare la «filosofia dell’esperienza religiosa» nell’esistenzialità di una «credenza comune» (Parte 2) e rivendicando l’atto di «passare» come «sovrapposizione e conversione» del rapporto tra filosofia e teologia fino alla de-

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finizione della «metafisica» come «traversata del mondo o della physis» (Parte 3): ecco l’insieme della struttura di «sguardi in cagnesco» tra le discipline che vorrebbe essere qui messa in questione. Non basta guardarsi, né apprezzarsi, né perfino apportare la propria esperienza per fecondarsi veramente. La mutualità dell’incontro è la condizione di ogni vera trasformazione. Così ne va di quell’«essere in comune» dell’uomo e di Dio, che permette di avanzare ancora di più «a viso scoperto» poiché si sarà più liberi di non, o non più, calcolare: «La filosofia è l’ancella della teologia, è chiaro (Maria è l’ancella del Signore [Lc, 1.38]), bisogna riconoscere con Charles Péguy. Ma che l’ancella non metta mai in questione la padrona e che la padrona non rimproveri mai l’ancella. Arriverebbe un estraneo che le metterebbe rapidamente d’accordo»45.

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Note a La grande traversata Filosofia e teologia

1. Proponiamo qui una sintesi, o piuttosto una «traversata» della nostra opera: Passer le Rubicon, Philosophie et théologie : Essai sur les frontières (Lessius, Bruxelles 2013) alla quale ci permettiamo di rinviare il lettore. Pertanto, il presente saggio non ha altro fine se non quello d’introduzione a quell’opera, senza alcuna pretesa di sostituirsi ad essa. 2. G.-W. Leibniz, Discours de Métaphysique (1686), G.-F., Paris 2001, § 13, p. 220. 3. E. Falque, Les noces de l’Agneau. Essai philosophique sur le corps et l’eucharistie, Cerf, Paris 2011. 4. E. Falque, Métamorphose de la finitude. Essai philosophique sur la naissance et la résurrection, Cerf, Paris 2004. 5. E. Falque, Le Passeur de Gethsémani, Angoisse,

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souffrance et mort : lecture existentielle et phénoménologique, Cerf, Paris 1999. 6. Gregorio Magno, Moralia in Iob XX, 1, GMO I/3, p. 86. 7. P. Claudel, J’aime la Bible, Fayard, Paris 1955, p. 47. 8. E. Lévinas, « L’ontologie est-elle fondamentale ? » (1951), in Entre nous, Biblio-Essais, Paris 1993, pp. 16-17; tr. it. di F.P. Ciglia, L’ontologia è fondamentale?, in Id, Tra di noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 2000, pp. 29-40. 9. P. Ricœur, « Existence et heméneutique » (1965), in Le conflit des interprétations, Seuil, Paris 1969, pp. 14-15; tr. it., Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, p. 24. 10. E. Lévinas, L’au-delà du verset, Lectures et discours talmudiques, Minuit, Paris 1982, rispettivamente p. 7 e p. 149; tr. it. di G. Lissa, L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, Guida, Napoli 1986, p. 59 e p. 203. 11. Concilio Vaticano II, Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri (Presbytorum ordinis, n° 18). 12. Augustin de Dacie (vers 1260). Formula citata e tradotta da P. Beauchamp, art. « Sens de l’Ecriture », in J.-Y. Lacoste, Dictionnaire critique de théologie, PUF, Paris 1988, p. 1087. 13. P. Ricœur, «  La fonction herméneutique de la distanciation  » (1975), in Du texte à l’action, Essais d’herméneutique II, 1986, Seuil, Paris (Points Essais, 1998), pp. 124-125: « Le rapport de la parole à l’Ecri-

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ture »; tr. it. di G. Grappa, La funzione ermeneutica della distanziazione, in Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1989, pp. 106-108. 14. Ibid., pp. 125-129: « le monde du texte »; tr. it., ibid., pp. 108-111. 15. Ibid., pp. 129-131: «  Se comprendre devant l’œuvre »; tr. it., «Comprendersi davanti l’opera», pp. 111-113. 16. Ibid., p. 129; tr. it., p. 111. 17. P. Claudel, J’aime la Bible, cit., p. 48 (corsivo nostro). 18. J.-L. Chrétien, Sous le regard de la Bible, Bayard, Paris 2008, ch. II, pp. 17-36: « Se laisser lire avec autorité par les Saintes Ecritures ». 19. Bonaventura da Bagnoregio, Hexaemeron (V, 390), tr. it., in Sermoni teologici (6/1), Città Nuova, Roma 1994. 20. Ugo di San Vittore, De verbo Dei, in Pl CLXXVII, pp. 289-294. 21. Ibid. 22. Aristotele, De interpretatione, 1, 16a3-5. 23. Agostino d’Ipponia, Discorsi sui Salmi, Salmo. 85.1. 24. B. Pascal, Pensées, L. 418 / B. 233 (« Infini, rien »). 25. M. Merleau-Ponty, Le Visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1987, rispettivamente p. 57, e nota 1 a p. 17; tr. it. di A. Bonomi, Il Visibile e l’Invisibile, Bompiani, Milano 1994, p. 38, nota 1 (corsivo nostro).

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26. Ch. Péguy, « Note conjointe sur M. Descartes », dans Œuvres en prose complètes, Pléiade, Gallimard, Paris 1992, p. 1280. 27. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, (Krisis, 1936), EST, Milano 1997, § 70 [«Le difficoltà dell’astrazione psicologica»], pp. 261-264. 28. L. Wittgenstein, Della certezza, Einaudi, Torino 1999, § 234, p. 38. 29. M. Merleau-Ponty, « La nature brute ou le monde du silence » (fin 1957), in E. de Saint-Aubert, Maurice Merleau-Ponty, La nature brute ou le monde du silence, Hemann, Paris 2008, p. 53. 30. E. Husserl, Meditazioni cartesiane (1929), Bompiani, Milano 2009, § 16, pp. 68-69. 31. E. Lévinas, De l’existence à l’existant (scritto tra il 1940 e il 1945), Vrin, Paris 1963 (Vrin poche, 1990), pp. 98-99; tr. it., Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Genova 1986, p. 53 (corsivo nostro). 32. J. Duméry, Critique et religion, Problèmes et méthodes en philosophie de la religion, SEDES, Paris 1957, p. 18 (corsivo nostro). 33. M. Heidegger, Introduzione alla fenomenologia della religione, (Friburgo, semestre invernale 19201921), in Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003, § 3 (L’esperienza effettiva della vita come punto di partenza), p. 41. 34. M. Heidegger, I fondamenti filosofici della mistica medioevale (1918-1919), Fenomenologia della vita religiosa, cit., p. 347.

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35. K. Barth, Die Kirchliche Dogmatik, vol. II, t. 2, § 38 («Il comandamento come decisione divina»), Zürich 1970. 36. Gioco di parole intraducibile: mettre bas è sgravare, demeurer en bas, stare in basso, derelitti. Forse un riferimento alla Geworfenheit, [N.d.T.]. 37. Thomas d’Aquin (Tommaso d’Aquino), Commentaire du Livre des Sentences, L. I, d. 8, q. 1, a. 2, sc. 2 (con il commento di J.-P. Torell, Saint Thomas maître spirituel, Cerf, Paris 1996, p. 335. Riguardo alle due interpretazioni complementari qui proposte (in particolare sull’episodio dei discepoli di Emmaus), si veda: J.-L. Marion, Prolégomènes à la charité, Ed. de la Différence, Paris 1986, pp. 153-163 (Luc : Bénédiction); si veda inoltre il nostro, Métamorphose de la finitude, cit., § 6, pp. 44-47 : « Spécifique chrétien et ordinarité charnelle ». 38. Thomas d’Aquin (Tommaso d’Aquino), Somme théologique, Cerf, Paris 1984, t. I, Ia., q. 1, a. 5, sed contra et ad. 2, pp. 157-158. 39. Letteralmente è l’operazione di coprire con tegole, ma anche traducibile con l’inglese overlap, ma diverso dal precedente recouvrement. Utilizzo accavallamento per distinguere i due termini [N.d.T.]. 40. H.-U. von Balthasar, La Gloire et la Croix, Aubier, Paris 1962, Styles 1 (monographie sur Bonaventure), p. 262. 41. M. Heidegger, GA 61, p. 195. 42. Thomas d’Aquin, Somme théologique, cit., Ia. q. 2, a. 1, resp., p. 170.

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43. B. Pascal, Pensées, cit., L. 308 / B. 373 (Les trois ordres), p. 540. 44. E. Husserl, Meditazioni cartesiane (1929), cit., § 64, p. 168. 45. Ch. Péguy, « Note conjointe sur M. Descartes », in Œuvres en prose complètes, Pléiade, Gallimard, Paris 1992, p. 1458.

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Postfazione Le “due sponde” di Emmanuel Falque di Andrea Bellantone

1 La questione più naturale per il lettore di un lavoro di Emmanuel Falque è di ordine topologico. Da dove pensa Emmanuel Falque? In effetti, più che nel caso di altri filosofi contemporanei, la lettura dei lavori del nostro autore impone un’interrogazione circa la loro situazione o – se si preferisce – la loro natura disciplinare. Filosofo di scuola fenomenologica, Falque è autore di due saggi di “storia della filosofia medievale” (San Bonaventura e l’entrata di Dio in teologia, 2000, e Dio, la carne e l’al-

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tro, 2008) e di tre opere di “filosofia fenomenologica” (Il traghettatore del Getsemani, 1999; Metamorfosi della finitezza, 2004; e Le Nozze dell’Agnello, 2011). In realtà, le definizioni disciplinari che ho attribuito a questi lavori non rendono giustizia al loro autentico carattere. Dio, la carne e l’altro, per esempio, viene definito dal suo autore un saggio di «pratica fenomenologica del pensiero medievale»1; e la trilogia (i cui volumi sono da poco stati riuniti in un tomo unico presso l’editore Cerf, con il titolo di Triduum philosophique) presenta un carattere metodologico del tutto peculiare, che non permette di classificarla sic et simpliciter alla voce “filosofia fenomenologica”. Se, infatti, le opere “storiche” si esercitano fenomenologicamente a partire dal pensiero medievale, la trilogia potrebbe essere definita una “pratica fenomenologica di un corpus teologico”, concentrata intorno a tre famiglie di temi: angoscia, sofferenza e morte; nascita e resurrezione; corpo ed eucaristia.

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Senza considerare l’elemento teologico, quindi, l’opera di Falque perderebbe la sua importanza (e il suo carattere perturbante). Ma questo non risolve, anzi acuisce, il problema che il lettore si pone di fronte all’opera del nostro autore: qual è il sito da cui pensa Emmanuel Falque? Si tratta di un sito teologico o di un sito filosofico? Sia detto sin d’ora, la risposta a queste domande è che Falque non parla né da un luogo né dall’altro, perché il ritmo del suo pensiero si costituisce come una continua traversata tra le due sponde. Il che non implica assolutamente la convinzione che filosofia e teologia come pratiche separate non esistano, ma invita invece a riconoscere che entrambe vivono la loro “relazione tra distinti” abitando insieme una “dimensione” comune. Ma com’è possibile questa convivenza? E qual è la dimensione che la rende possibile? Interrogativi che sembrano aumentare la nostra incertezza, alimentata anche da inveterati (ma non del tutto ingiustificati)

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criteri ideologici, che rivendicano una divisione irriducibile tra discorso teologico e discorso filosofico. Il nostro stupore di fronte al suo inusuale gesto di pensiero è tuttavia previsto da Falque, che è cosciente del «crimine» metodologico che propone – e della «paura» del lettore per una «confusione dei generi»2. Questa è la ragione per cui nella sua ultima opera – di cui la conferenza che presentiamo in questo volumetto è una sintesi – Falque ha deciso di portare “chiarezza” su questo tema e dare una risposta alla serie d’interrogativi “topologici” (o disciplinari) che abbiamo evocato. Passare il Rubicone (2013) è – almeno sotto questo punto di vista – il libro decisivo per il percorso del nostro autore, che non esita a chiamarlo il suo «discorso sul metodo»3. Se – come Falque ama ripetere evocando Heidegger – «pensare è decidere», allora, sotto il profilo sistematico e metodologico, Passare il Rubicone esplicita la decisione fondamentale del suo pensiero, specifican-

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do con chiarezza a partire da «dove» esso prenda le mosse4. Questo volume svolge quindi la funzione di un manifesto: esso rende chiaro il progetto originario, mettendo a nostra disposizione degli strumenti utili per una lettura retrospettiva dell’intero percorso che lo ha preceduto. Non è un caso che il libro si collochi sotto la protezione di Ovidio (detecta fronte prodeo) per contrapporsi alla prudenza – di Descartes (larvatus prodeo)5. Da qui proviene un certo carattere “sfrontato” e “ruvido” del testo, che non dipende dalle attitudini “psicologiche” del suo autore, ma dalla radicalità del gesto che propone.

2 A questo punto è chiaro che il decidersi di Falque riguarda il rapporto tra filosofia e teologia. Non è un caso – ma ci torneremo – che Passare il Rubicone si presenti come un «saggio sulle frontiere».

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Prima di avanzare, tuttavia, è opportuno “situare” la posizione di Falque nel contesto del dibattito filosofico francese, a cui non solo appartiene per evidenti ragioni storicoculturali, ma di cui rivendica esplicitamente l’eredità problematica6. Per comprendre questo contesto occorre innanzitutto tenere fermo un momento “iniziale”, vale a dire la celebre polemica degli anni Trenta intorno alla “filosofia cristiana”, il cui centro propulsore fu un dibattito della Società francese di filosofia, seguito alla pubblicazione del primo volume dell’Histoire de la philosophie di Bréhier e i cui protagonisti furono – tra gli altri – Etienne Gilson, Jacques Maritain e Maurice Blondel7. A partire da questo avvio “polemico”, la questione delle relazioni tra riflessione “razionale” e apporti “teologici” ha assunto una portata crescente: vale la pena di segnalare la scoperta delle origini “religiose” dell’idealismo tedesco (si pensi al libro di Wahl su Hegel o a quello di Jankélévitch su Schelling), l’entrata di Kierkegaard nella cultura francese (il cui gran mediatore sarebbe stato, ancora una volta,

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Jean Wahl) e l’influenza, certo non irrilevante, del pensiero “religioso” di Berdjaev o Chestov. Ma è con l’emergere di una corrente fenomenologica di espressione francofona che la questione dei rapporti tra pratica filosofica e “apporti” giudaico-cristiani diviene crescente (Levinas, Ricœur, Derrida, Marion – con tutte le loro differenze – sarebbero semplicemente inintelligibili fuori da questo quadro), fino a sfociare in un’altra polemica (1991), questa volta provocata da un mordace saggio di Dominique Janicaud8. Il lavoro di Falque, come quello di una parte importante dei fenomenologi di scuola francese, diviene intelligibile solo a partire da questo sfondo storico e problematico; ma, sia detto con chiarezza, esso assume una “postura” che merita di essere isolata, perché si propone in alternativa rispetto alle attitudini che lo hanno preceduto, vale a dire alle figure della “soglia” (Blondel e Ricœur), a quella del “salto” (Pascal) o a quella della “fusione” (Henry).

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Falque si rifiuta di restare alla soglia, come se il filosofo dovesse guardare al teologo da “lontano”, senza poter usufruire degli apporti della sua disciplina, e come se entrambi non lavorassero su un territorio comune9; egli rifiuta al tempo stesso la posizione del salto, perché non bisogna pensare le due pratiche come esercizi “paralleli”, tra i quali vi sarebbe una sorta di incomunicabilità di principio10; e tuttavia non accetta neppure la logica della fusione, che di fatto rischia di annullare la “distinzione” tra le discipline e i loro campi11. Filosofia e teologia devono quindi lavorare insieme, ma sempre restando due – nella piena coscienza che la loro differenza non potrà mai essere ridotta all’indistinzione – pur “insistendo” sullo stesso territorio problematico (o abitando lo stesso solco). Se quindi Falque pratica un nuovo rapporto tra filosofia e teologia con un’attenzione speciale per la loro congiunzione (et) piuttosto che per la disgiunzione (aut), è anche vero che questa congiunzione (et) non sarà mai un’identificazione (est).

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In breve, “filosofia e teologia” non diventeranno mai identiche (“filosofia è teologia”) – e men che mai indistinte (“filosofia = teologia”). La frontiera dovrà restare sempre presente, perché essa è il luogo del loro comune abitare.

3 La questione della frontiera e del limite non può non ricordare al lettore del pensiero francese del Novecento un testo di Jacques Derrida, Timpano, che apre la raccolta Margini – della filosofia. Difficile negare che quel testo fosse un’interrogazione sulla relazione tra filosofia e discorsi altri (ivi compresa, ovviamente, la teologia). In breve, Derrida interrogava la possibilità di «lacerare» o «lussare il timpano, il rapporto a sé» del pensiero filosofico, per «esporlo a un altro che non sarebbe più il suo altro»12. Si trattava quindi di sostituire alla figura (hegeliana, o presunta tale) dell’au-

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to-appropriazione e dell’auto-movimento quella della «paratoia aperta a (un) doppio senso che non forma più un solo sistema»13. Alla linea di separazione – su cui torneremo – veniva sostituita quindi una cassa di risonanza o una cavità (il «cavernoso»), un frammezzo, un tra, da e in cui la dissonanza «trabocca e fa esplodere» il senso14. Questo tema della frontiera/limite tra il filosofico e l’altro (teologico, innanzitutto) si era posto, come noto, sia per Hegel che per Schelling. Detto rapidamente: Nel caso di Hegel l’assunzione dialettica pareva capace di rilevare il limite e riprendere l’alterità (della religione) nel concetto. Falque definisce questo modello come «inclusione» (Derrida aveva parlato, forse più opportunamente, di «inviluppo»)15. Il tra di filosofia e teologia sarebbe quindi provvisorio – e in ogni caso tutto dentro la filosofia, riassumibile in essa, perché tutto il senso che il teologico potrebbe comunicare all’indagine filosofica sarebbe già da sempre esprimibile nell’orizzonte speculativo.

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L’altra risposta, che ha avuto più successo nel pensiero contemporaneo, è stata quella di Schelling. Si pensi alla lezione XXIV della Filosofia della Rivelazione, là dove si parla dell’accoglienza che la filosofia deve esercitare rispetto al suo altro (in primo luogo la natura, ma poi anche la Rivelazione)16. Questo accogliere impedisce al pensiero di esercitare la funzione dell’assimilazione (o inclusione), ma gli consegna quella dell’Erklärung di un’esperienza17. In effetti, qui siamo di fronte a un altro modello rispetto a quello hegeliano, perché si afferma che il logos della religione non è assimilabile a quello della filosofia – e che il teologico deve interessare il filosofo proprio per la sua irriducibilità allo speculativo. Ora, se questo è vero, il tra di “filosofia e teologia” non si esaurisce mai, perché congiunge e disgiunge allo stesso tempo: dialettica, certo, ma dei distinti – e non degli opposti; vale a dire senza sintesi o “assunzione finale” dell’uno nell’altro (esse restano quindi due – e sono capaci di comunicarsi reciproca-

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mente un senso proprio perché non parlano lo stesso linguaggio). Nella sua forma francese la fenomenologia nasce esattamente come pensiero capace di esporsi al suo estraneo e di vivere lo spazio dell’alterità reciproca. Farne la storia, in questa sede, sarebbe impossibile; basti qui ricordare che quando Levinas, nel 1931, faceva l’elogio del metodo fenomenologico come capacità di ricevere in filosofia le «essenze inesatte e vaghe», stava indicando l’esigenza di un metodo razionale capace (nel senso dell’accoglienza) dell’altro rispetto alla “semplice” ragione18. Da quel momento la fenomenologia francofona non ha mai smesso di interrogare ed elucidare la frontiera (o il cavo, la cava, la cavernosità) tra la ragione e il suo estraneo come unico luogo da cui l’esercizio filosofico possa ricevere senso. Essa si è fatta una pratica della “paratoia aperta”, che non esclude, ma lascia il margine aperto – innanzitutto alla “teologia”, che è il discorso irriducibile per eccellenza, perché non ha origine nell’uomo,

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ma trae la propria iniziativa dal Totalmente Altro.

4 Falque s’iscrive in questo movimento, ma con una posizione originale e personale. In Passer le Rubicon – che è un «saggio sulle frontiere» – questa “decisione” trova la sua formulazione esplicita: «Il saggio sulle frontiere dimora nella frontiera, anche rischiando di delimitare una zona neutrale in cui certo non è facile abitare, ma in cui si gioca precisamente l’incontro possibile dello straniero»19. In breve, il passaggio della frontiera non è tanto un passaggio oltre, ma un passare alla frontiera, uno stabilirsi in questo luogo, che diviene una terra neutrale, difficile da abitare, tra un lato e l’altro. La questione della frontiera, della linea e del limite ricorda, certamente, la questione de linea posta da Heidegger in una sua ce-

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lebre discussione con Ernst Jünger. Si tratta di quel Contributo alla questione dell’essere in cui Heidegger rimproverava a Jünger di avere pensato il suo über come al di là, trans, metà, là dove egli invitava a pensarlo come de, perí20. Ora, Falque è certo d’accordo con Heidegger: la sua frontiera non è da oltrepassare, perché occorre abitarla. La differenza tra i due atteggiamenti è di grande importanza, soprattutto se si approfondisce il discorso di Falque e si capisce a cosa faccia riferimento quando parla di questa “regione” nella quale gli stranieri (e gli estranei) possono incontrarsi. Questo “neutro” che non è un “vuoto”, non è neppure un non-luogo, ma è al contrario quel pieno (di vita) in cui filosofia e teologia si radicano e grazie al quale entrambe prendono parola e assumono un senso. Ecco perché il gesto non è tanto quello di andare al di là, ma conviene al contrario «restare, o meglio accamparsi, o anche navigare, su questo fiume i cui due bordi non potrebbero essere separati»21. Questa “regione” non è eviden-

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temente un luogo statico, ma è anzi l’origine dinamica di ogni possibile discorso ed ermeneutica (sia essa filosofica o teologica). La questione non è quella di oltrepassare la frontiera, ma di viverla come un movimento di «andata e ritorno» che non può avere fine22, perché quel che è essenziale è vivere quell’et che tiene unite le due “sponde” generando la loro differenza e permettendo il loro incontro (o il loro scontro). Il titolo del “discorso sul metodo” di Falque potrebbe quindi presentarsi a una grave incomprensione (almeno per un lettore troppo frettoloso). Passare il Rubicone non è un passaggio compiuto, ma un’azione che si ripete, e un via vai da un lato all’altro; e la “frontiera” non è una linea, ma è uno spazio di “passaggio”, una dimensione in cui non si può (e non si deve) cessare di “passare”. Ecco spiegato l’infinito del titolo (passare), che viene preferito al sostantivo (passaggio).

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5 La frontiera, regione originaria della filosofia e della teologia, può essere abitata solo in un infinito andata-e-ritorno, come il duemari o la terramare dei romanzi di Stefano D’Arrigo: è luogo di passaggio, di traghettamento e navigazione infinita. Essa non è altro che l’«assise comune»23, la sede, di ogni pratica umana. Ma è possibile identificare positivamente questa “località” in cui non si deve smettere di “trascorrere”? Falque lo fa con chiarezza: si tratta del luogo dell’«umanità comunemente condivisa», di quella «confidenza» nella quale filosofia e teologia sono radicate24. Detto altrimenti, è la «finitezza» che «offrirà un cominciamento alla filosofia come alla teologia»25. Ecco perché – con un’immagine splendida – Falque ricorre all’espressione “arca della carne”. L’espressione è modellata in chiave polemica rispetto a Jean-Louis Chrétien e alla sua “arca della parola”26. In Dio, la car-

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ne e l’altro leggiamo: «A monte dell’arca della parola si tiene, secondo noi, in un primato ancora più originario, l’arca della carne»27. E quest’arca corrisponde a quel che Husserl ha definito «esperienza pura, per così dire ancora muta, che si tratta di portare all’espressione pura del proprio senso»28. E altri riferimenti si potrebbero fare, innanzitutto a Merleau-Ponty, che resta, tra i fenomenologi francesi, il vero “autore” di Emmanuel Falque29. Filosofia e teologia parlano quindi a partire da questa regione/caverna, entrambe attraversano questo territorio e abitano le sue oscurità/cavernosità per farne risuonare il potenziale di senso. Questa regione – immaginate la cavità dell’arca – è come una cassa in cui tutti i discorsi di senso risuonano, rimbombano, si fanno eco, s’incontrano in un riverbero che inevitabilmente intreccia le loro distinzioni per ritornare all’origine di ogni linguaggio. Terra comune, quindi, il limes è anche limus, carne di cui è fatta la finitezza umana, in cui tutto

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ha la sua materia originaria30. Questo limo originario filosofia e teologia non cessano di saggiarlo e quindi di incontrarsi/scontrarsi nel suo solco – senza mai confondersi. E si badi: in questo quadro Falque non smette di criticare l’idea secondo cui la frontiera tra filosofia/teologia sarebbe un mero insieme (un corpus, come usa dire) di testi. Benché filosofia e teologia s’incontrino/ scontrino anche nel loro carattere testuale, questo non è il territorio del loro rapporto originario, per il semplice fatto che nessun testo è all’origine dell’esperienza. È vero semmai il contrario: «Con la mia carne, vale a dire anche con il mio corpo, vado non solo al mondo ma anche al testo»31. Se filosofia e teologia possono esercitare l’una un effetto sull’altra è perché il «modo carnale dell’umano» governa entrambe. Ecco perché è su una «comunità di vissuti» che nasce il «conflitto delle interpretazioni» – e mai il contrario32.

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6 La fenomenologia è la pratica cui è demandato il compito specifico di portare all’espressione del corpo dell’esperienza. Essa radica ogni “disciplina” – ivi comprese filosofia e teologia – in quella sfera della comune umanità che è l’“arca della carne”. Il suo metodo, che non è altro che il sondaggio della finitezza, permette alle filosofia e alla teologia di parlarsi e di parlare all’uomo. In questo modo si spiega la citazione di Péguy iposta come epigrafe di Passer le Rubicon: quando c’è conflitto tra filosofia e teologia, allora tocca a uno «straniero» metterle «rapidamente d’accordo»33. Lo “straniero” in questione è la fenomenologia, capace di restituire ogni volta il discorso filosofico e quello teologico alla finitezza dell’esperienza. La fenomenologia è la guardiana della “terra di mezzo” in cui filosofia e teologia possono incrociarsi nella loro traversata: l’una, la filosofia, a partire dal basso della finitezza, per farsi portare all’alto (secondo una direzione che Falque

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non esiterà a chiamare “metafisica”); e, l’altra, la teologia, per partire dall’alto, certo, ma diretta verso il basso dell’umanità concretamente vissuta. Alla luce di questo radicamento nella fenomenalità primordiale si capisce perché la filosofia possa transitare verso la teologia (percorso praticato in vario modo da Levinas, Ricœur, Henry, Marion o Chrétien); ma anche come – ed è questo il gesto proprio dell’opera di Falque – la teologia possa entrare nel corpus della filosofia e indicarle problemi che le spettano di diritto ma che essa non è ancora arrivata a cogliere. In questo senso – per fare un esempio – l’analisi (fenomenologica) dell’angoscia può essere rinnovata (in filosofia) grazie allo “choc di ritorno” dell’analisi (teologica) dell’âdemonia del Cristo (Mc, 14.33). Più in generale, «attraverso la sua incarnazione il Cristo ci insegna anche a essere uomini – vale a dire precisamente a non fuggire la nostra finitezza fino a insegnarci che anche per noi è possibile l’abbandono alla mor-

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te»34. In questo, come in altri casi, è possibile dire che «più si teologizza e meglio si fa filosofia»35. Ma il lettore troverà, nell’opera di Falque, un ampio spettro di esempi fenomenologici in cui le due discipline possono incontrarsi sul solco delle “cose stesse”, vale a dire della semplice e finita umanità – la voce, la comunità, il corpo “organico” (distinto dalla carne “vissuta”) sono solo alcuni temi dell’incontro possibile36. A questo punto mi pare chiaro perché Falque rifiuti il gesto di chi «scinde filosofia e teologia in due mondi puramente separati»37. Queste due “discipline” possiedono una dimensione di «ricerca mutualmente fecondata», in cui quel che normalmente è considerato separato si raccoglie in unità; e su questa base è possibile procedere «dal filosofo al teologo», ma anche, «reciprocamente», andare «dal teologo al filosofo»38. Ed è solo «condividendo l’audacia» di questo “passare” nel territorio dell’arca della carne che si «apprenderà dall’altra riva quel che non si è mai saputo, o che forse si è solo

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dimenticato»39. Entrambi, filosofo e teologo, devono quindi saper «patire questo passaggio», ma senza l’illusione di un ipotetico “oltrepassamento”, perché l’esperienza della finitezza, che regola con la sua potenza fenomenologica l’andata-e-ritorno del loro lavoro comune, non potrà mai esaurirsi40.

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Note alla postfazione

1. E. Falque, Dio, la carne e l’altro, tr. it. di S. Geraci, Le Lettere, Firenze 2015, p. 10. Una definizione che si potrebbe estendere anche al precedente libro su Bonaventura (cfr. E. Falque, Saint Bonaventure et l’entrée de Dieu en théologie, Vrin, Paris 2002). Per una prima introduzione all’opera del nostro autore cfr. A. Saudain, Penser Dieu autrement. Introduction à l’oeuvre d’Emmanuel Falque, Germina, Paris 2013 e il volume collettivo Emmanuel Falque. Tra fenomenologia della finitezza e teologia dell’incarnazione, a cura di C. Canullo e P. Gilbert, Le Lettere, Firenze 2014. 2. Ivi, rispettivamente pp. 16 e 18. 3. E. Falque, Passer le Rubicon. Philosophie et théologie: Essai sur les frontières, Lessius, Bruxelles 2013, p. 11.

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4. Ivi, p. 133. 5. Ivi, p. 200. 6. Falque stesso non esita a contestualizzare il proprio lavoro nell’ambito della cultura filosofica francese del Ventesimo secolo. Cfr. Ivi, p. 10. 7. Non possiamo riassumere i temi di questa polemica – d’altronde sufficientemente nota. Per una riflessione “teoricamente impegnata” su questo dibattito cfr. X. Tilliette, «Philosophia christiana», in Le Christ des philosophes, Cerf, Paris 1990, pp. 17-32. 8. Qualche spunto bibliografico: J. Wahl, Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, Reder, Paris 1929; V. Jankélévitch, L’Odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Schelling, Alcan, Paris 1933; D. Janicaud, Le tournant théologique de la phénoménologie française, Editions de l’éclat, Combas 1991. Sul dibattito intorno alla “svolta teologica” cfr. il volume collettivo Phénoménologie et théologie, edito da J.-F. Courtine (Criterion, Parigi 1992). 9. Scrive Falque: «Paul Ricœur, a immagine di Maurice Blondel, è un uomo dell’apertura e della fessura, ma mai del superamento della soglia e dell’occupazione di questo “al di là ritrovato”» (E. Falque, Passer le Rubicon, cit., p. 178). 10. Sarebbe la posizione “classica” del pensiero francese del Seicento. Cfr. Ivi, pp. 180-181. Marion ne riprenderebbe i termini, secondo un registro manifestato dalla stessa distinzione del corpus in due generi di opere: storico-filosofiche e fenomenologiche da un lato, teologiche dall’altro (cfr. Ivi, p. 179).

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11. La «filosofia del Cristianesimo» di Henry usa il testo del Vangelo come fonte di indicazione fenomenologica, ma lo attraversa senza avere risolto la questione della legittimità di questa pratica. Cfr. M. Henry, C’est moi la vérité. Pour une philosophie du Christianisme, Seuil, Paris 1990.   12. J. Derrida, Timpano, in Margini – della filosofia, Einaudi, Torino 1997, rispettivamente pp. 8, 21 e 9. 13. Ivi, p. 20. 14. Ibidem. 15. Cfr. E. Falque, Passer le Rubicon, cit., p. 166; e J. Derrida, Timpano, cit., p. 16. L’immagine dell’inviluppo è certo più felice rispetto a quella dell’inclusione. In effetti, tra lo speculativo hegeliano e il teologico cristiano non c’è inclusione del secondo nel primo senza una contemporanea (e forse addirittura precedente) inclusione del primo nel secondo. L’inviluppo ricorda questa relazione reciproca, la cui circolarità è stata ben descritta da C. Bruaire (cfr. Logique et religion chrétienne dans la philosophie de Hegel, Seuil, Paris 1964). 16. F. W. J. Schelling, Filosofia della rivelazione, Rusconi, Milano 1997, p. 907. 17. Luigi Pareyson ha ripreso questo tema, parlando di «riflessione filosofica sull’esperienza religiosa». Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, p. 146. 18. E. Levinas, La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl, Vrin, Paris 1931, p. 218. 19. E. Falque, Passer le Rubicon, cit., p. 198.

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20. M. Heidegger, Contributo alla questione dell’essere, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987 (tr. fr., p. 200). 21. E. Falque, Passer le Rubicon, cit., p. 198. 22. Ivi, p. 174. 23. Ivi, p. 90. 24. Ivi, p. 150. 25. Ivi, p. 152. 26. J.-L. Chrétien, L’arche de la parole, PUF, Paris 1998. 27. E. Falque, Dio, la carne e l’altro, cit., p. 208. 28. Ivi, p. 212. La citazione è tratta da E. Husserl, Méditations cartésiennes, Vrin, Paris 1980, p. 33. 29. Cfr. E. Falque, Passer le Rubicon, cit., p. 92. 30. J. Derrida, Timpano, cit., p. 13. 31. E. Falque, Passer le Rubicon, cit., p. 51. 32. E. Falque, Dio, la carne e l’altro, cit., rispettivamente pp. 18 e 32. 33. E. Falque, Passer le Rubicon, cit., p. 7. Il testo di Péguy è tratto dalla «Note conjointe sur M. Descartes», in Oeuvres en prose complètes, Gallimard, Paris 1992, p. 1458. 34. E. Falque, Le Passeur du Gethsémani, Cerf, Paris, 1999, p. 31. 35. E. Falque, Passer le Rubicon, cit., 22. 36. Intuizione, questa, che è già stata – ma senza

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sviluppi – di Xavier Tilliette, quando ha scritto, per esempio, che «Le Christ éclaire et littéralement révèle des notions cardinales de philosophie, dont il est le symbole et la clef: la subjectivité et l’intersubjectivité, le transcendantal, la temporalité, la corporeité, la conscience, la mort, etc., toutes données qu’il a faites siennes en s’incarnant». Cfr. X. Tilliette, Le Christ des philosophes, cit., p. 29. 37. E. Falque, Passer le Rubicon, cit., p. 201. 38. Ivi, p. 191. 39. Ivi, rispettivamente, pp. 149 e 193. 40. Ivi, p. 171.

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Indice

Premessa

p. 11

Capitolo primo La questione ermeneutica

p. 17

1. Verso quale ermeneutica? 2. Ermeneutica e senso della Scrittura 3. Del corpo e della voce

Capitolo secondo Decidere e credere 1. La credenza irriducibile 2. La filosofia dell’esperienza religiosa 3. Decidere in comune

p. 17 p. 21 p. 29

p. 37 p. 39 p. 43 p. 48

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Capitolo terzo Attraversando 1. Per una sovrapposizione 2. A ciascuno la sua via 3. Sulla meta-fisica

p. 55 p. 56 p. 61 p. 66

Note a La grande traversata. Filosofia e Teologia

p. 73

Postfazione di Andrea Bellantone Le “due sponde” di Emmanuel Falque

p. 79

Note alla postfazione

p. 101

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Point d’orgue | 4

Seguendo la metafora della traversata tra due sponde di uno stesso fiume, il testo di Emmanuel Falque ci offre un’avvincente lettura del rapporto tra filosofia e teologia nel terreno comune del loro incessante confliggere: quello dell’esegesi e dell’ermeneutica del testo biblico. Un’andata e ritorno che non si sottrae dal confronto con alcune delle più importanti esperienze filosofiche del Novecento, proponendo una propria e originale interpretazione di quella tradizione fenomenologica francese, in cui l’intera riflessione di Falque sorge e s’innerva. Breve sebbene densissimo per profondità di pensiero, questo saggio costituisce uno sguardo panoramico che l’autore getta a ritroso sulla propria riflessione, ripercorrendone i nodi filosofici e teologici più significativi. Il volume è arricchito da un saggio di Andrea Bellantone che introduce il lettore italiano all’interno del pensiero di Falque e dell’ampia galassia della fenomenologia francese contemporanea.

€ 7,00

ISBN E-book 9788885716087