Che musica maestro?: Liturgia, musica sacra e dintorni (Italian Edition)

Mi è capitato spesso di ascoltare persone che in buona fede giustificano certe iniziative ecclesiastiche, compreso l’uso

122 50 774KB

Italian Pages 188 [117] Year 2022

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Che musica maestro?: Liturgia, musica sacra e dintorni (Italian Edition)

Table of contents :
Cover Page
Copertina
MA CHE MUSICA MAESTRO?
Indice dei contenuti
Prefazione
Ma che musica maestro?

Citation preview

Aurelio Porfiri

MA CHE MUSICA MAESTRO?

Liturgia, musica sacra e dintorni

Copyright © 2022 Chorabooks, a division of Choralife Publisher Ltd.

All rights reserved.

14/F office A. Bangkok Bank Building

No.28 Des Voeux Road Central

Hong Kong

First eBook edition: May 2022

UUID: 1760e51e-cb06-4140-8784-4ceeda708f3e

Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write https://writeapp.io

Indice dei contenuti

Prefazione

Ma che musica maestro?

Prefazione

Don Gilberto Sessantini

“ Che musica, maestro? ”. Una domanda non retorica è posta a titolo di questo nuovo libro di Aurelio Porfiri. Nasce da una esperienza e da un amore che va indietro nel tempo, in un servizio svolto fin dalla sua adolescenza, come lui stesso asserisce in uno dei medaglioni che costituiscono l’itinerario particolare di questo volume che si addentra nei meandri della liturgia, della musica sacra e dei loro “dintorni”. Un tempo, questo itinerario poteva ben dirsi un passeggiare riposante in un giardino ben curato e rigoglioso, dove la varietà dei fiori e delle piante rispondeva alle logiche dettate da chi era chiamato a curare tale giardino, la Chiesa dico, che da vera “maestra del paesaggio” sapeva accostare “nova et vetera” in mirabile sintesi. Da un po’ di tempo a questa parte il giardino della liturgia, della musica sacra e dei loro dintorni si è trasformato in terreno incolto, dove piante d’ogni specie, anche quelle selvatiche e carnivore, hanno fatto piazza pulita di ogni bellezza e di ogni armonia, crescono indisturbate e, senza alcuna logica, occupano spazi loro impropri, rendendo inestricabile quasi e doloroso il passeggiare in questo vivaio, un tempo fertile e florido. Il volume di Porfiri si addentra in questo giardino bistrattato per recuperare qualche fiore e farci nascere la nostalgia del progetto originario. Nostalgia non del passato tout-court si intende, ma nostalgia di quel progetto originario che ammette uno sviluppo organico e armonico di tutto quello che riguarda il culto della Chiesa cattolica. Alcuni di questi medaglioni partono da lontano e affrontano tematiche teologiche, come quello in cui giustamente l’autore asserisce che l’utilizzo della musica nella liturgia non è finalizzata all’intrattenimento e che quindi la richiesta di “canti allegri” per rendere “allegra” la celebrazione è totalmente fuori luogo. Oppure quello dove viene cantato il silenzio, segno della Presenza di Dio e principio della musica e della liturgia, perché principio della preghiera e della

contemplazione, senza i quali la celebrazione è solo auto-celebrazione. Altri medaglioni ci conducono in un comparto del giardino dove vengono trattati temi più pratici, ma non secondari né tantomeno banali, come quelli della giusta retribuzione dei musicisti di chiesa, cui il clero ancora non ottempera con la scusa che il loro deve essere un servizio reso alla comunità e altre simili amenità che nascondono solo grettezza d’animo, attaccamento al denaro e la non volontà di investire in quella attività che è ormai la sola che abbia ancora una qualche presa ed un certo riscontro tra i fedeli, ovvero la liturgia nella sua bellezza. Oppure il tema tanto attuale delle richieste di spartiti tramite i social e tutto il sottobosco della illegalità legato a queste pratiche, che sminuiscono, non riconoscendoli, il lavoro intellettuale dei compositori e gli investimenti degli editori, causa non unica certo ma rilevante della crisi dell’editoria musicale liturgica. E ancora troviamo l’elogio delle campane e della necessità di riscoprirne il valore come parte integrante di un “paesaggio sonoro” che unisce, plasma e determina i paesi di lunga cristianità, ancorché agli orecchi di alcuni risuonino come disturbatrici della “tranquilla laica vita della nostra società”. Oppure i paradossi ai quali siamo costretti ad assistere da quando il giardiniere ha ritratto la sua mano ordinatrice, come quello di usare come sottofondo musicale in una chiesa il repertorio gregoriano per creare ambiente, perché la musica giovanile “disturberebbe la preghiera”, ma rifuggire “il canto proprio della liturgia romana” proprio nella liturgia, come se essa, invece, preghiera non fosse e quindi il gregoriano, da padrone di casa è finito per essere considerato un inquilino scomodo se non pericoloso, sintomo di un attaccamento morboso alla vecchia ritualità. “ Che musica, maestro?”. Tale domanda il maestro Porfiri se la sente giustamente rivolta a sé stesso da tanti reali o ipotetici interlocutori. Ed egli risponde da maestro qual è nell’arte musicale spesa da una vita al servizio del culto e quindi di Dio. Ma per rispondere, il maestro Porfiri la pone, a me pare, in questo modo: “ Che musica, Maestro?”, interrogando la fonte, il Signore Gesù, che è il solo e vero Maestro, come insegna la Scrittura: " Uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli" (Mt. 23,8). Solo ritornando alla fonte, solo chiedendo al Maestro unico, possiamo riscoprire quelle coordinate che ci permettono di riportare armonia nel giardino della liturgia e della musica sacra. Se non da Lui, da nessun altro possiamo imparare l’arte del coltivare la Bellezza e la Santità che competono alla più alta attività dell’uomo che, insieme al

pensare, lo contraddistingue: il pregare ed il celebrare. Il volume che avete tra le mani, oltre a farvi passeggiare nel giardino illustrandovene i contenuti, vi aiuterà senz’altro a leggervi l’armonia e la bellezza perduta che ancora traspare e vi inviterà a adoperarvi perché non tutto sia irrimediabilmente perduto e inselvatichito. Un augurio, una speranza, una preghiera da innalzare al Maestro di tutti. Don Gilberto Sessantini Priore della Basilica di S. Maria Maggiore e Maestro di Cappella del Duomo di Bergamo

Ma che musica maestro?

Tre ragioni per aver cura dei repertori tradizionali

Vi sarà capitato anche a voi di ascoltare troppe persone poco informate cercare di buttare via tutti i repertori tradizionali della musica sacra tradizionale, polifonia e canto gregoriano in primis, in favore delle proposte qualitativamente non sempre esaltanti che ci vengono fatte nelle nostre chiese da parte di preti zelanti e anche un po’ zeloti, cioè difensori di un integralismo musicale e liturgico che niente ha da invidiare a quello dei tanto vituperati tradizionalisti. Allora sarà bene elencare almeno tre ragioni per cui i repertori tradizionali vanno ben curati. 1) Essi non rappresentano il passato, ma la tradizione . Essi ci parlano di una sapienza che si è tramandata per generazioni e che noi dobbiamo rispettare con grande attenzione e rispetto. Lo stesso Vaticano II chiama questi repertori in questo modo: “La tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio d'inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell'arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne”. Cioè non solo è un “patrimonio d’inestimabile valore”, ma lo è proprio per la sua qualità “liturgica”. Da questo siamo arrivati al rifiuto attuale, come, rimane un mistero (o forse no). 2) Essi sono un modello. Perché non si riflette sul fatto che gli avanzamenti hanno sempre bisogno di un modello? E quale modello migliore di quello che i nostri grandi predecessori ci hanno lasciato? Abbiamo bisogno di modelli, oggi più che mai. Invece i liturgisti zeloti pensano che sia bene modellarsi su se stessi e i risultati sono sotto gli occhi di tutti! 3) Essi rappresentano una spinta a migliorarsi. Proprio perché essi sono tecnicamente più impegnativi, rappresentano una spinta a migliorarsi, a fare in modo che i nostri cori cerchino di impegnarsi affinché la qualità di quello che

fanno sia sempre più alta. Ma oggi mancano anche coloro che sono in grado di formare buoni cori, perché o sono stati scacciati dalle chiese, o vi rimangono con enorme sofferenza, o sono soltanto poveretti che fanno quel che fanno perché giudicati innocui dal pretonzolo di turno. Insomma, ho parlato di tre motivi, ma molti altri ce ne sarebbero. Non si costruisce su sè stessi.

Che ne è dell’organo della tua chiesa?

Se venisse fatta oggi una recensione riguardo lo stato di funzionamento degli organi a canne nelle nostre chiese, ci accorgeremmo di quanti di essi versano in condizioni precarie, se non disperate. Certo, ci sono anche chiese dove gli organi vengono curati e godono di regolare manutenzione ma in molti altri luoghi essi sono stati abbandonati al proprio destino, una lenta ed inesorabile estinzione. A differenza dei dinosauri, che si estinsero circa 66 milioni di anni fa sembra per un meteorite, qui l’estinzione è provocato da un impatto altrettanto potente, quello con l’ignoranza. Eppure è strano che si facciano morire gli organi in nome del Concilio Vaticano II che aveva chiaramente detto: “Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l'organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, a norma degli articoli 22-2, 37 e 40, purché siano adatti all'uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l'edificazione dei fedeli”. Ora, su queste ultime frasi si potrebbe aprire un mondo, ma non lo faccio qui, mi limito a constatare che il Vaticano II ha chiesto di tenere in grande onore l’organo a canne. Grande onore! E invece si è lasciato spesso gli organi all’abbandono. Strano poi, in quanto un organo è anche un investimento per la chiesa, un organo nuovo medio-grande costa come un appartamento. Ma non c’è interesse in un nuovo organo, oramai questo strumento viene concepito da alcuni ignoranti come una reliquia del

passato, non più attuale. Ed è vero che è difficile trovare chi lo sa suonare, anche perché se tu pretendi di trovare i fiori per la chiesa senza pagarli dovrai accontentarti di quelli rubati su qualche tomba. Qui i “fiori musicali” vengono rubati sulla tomba della buona musica sacra, che finché ci saranno persone che hanno veramente a cuore la liturgia, non riposerà in pace. Il suono dell’organo nella liturgia è un segnale simbolico. Che intendo dire? Esso richiama quasi automaticamente quel senso profondo dello stare in Chiesa perché è fortemente legato nell’immaginario collettivo alle cose sacre. Qualcuno potrebbe dire: ma un tempo non era così, è stato un processo avvenuto nei decenni, nei secoli, e questo processo può avvenire con e per altri strumenti. Ma la mia contro domanda sarebbe: perché? Cioè, perché, quando si ha qualcosa che funziona, lo si deve forzare fuori per metterci qualcos’altro? Non è contro intuitivo? Si dice che il suono di altri strumenti come chitarra o percussioni attira i giovani in chiesa. Prima di tutto: a cosa li stiamo attirando quando mortifichiamo quella liturgia che dovremmo proporre invece in tutta la sua bellezza. Poi: ma dove sono questi giovani? Perché a me non sembra che questo sforzo di distruzione della liturgia in nome di una certa idea di giovanilismo (e che di certo non rappresenta tutta la gioventù) abbia prodotto risultati apprezzabili, visto che comunque i giovani disertano in massa la liturgia. Alcune voci obiettano: il problema è che non si è fatto abbastanza! Cioè si dovrebbe distruggere nella liturgia quel poco che rimane di devoto per “attirare i giovani”. Ma non è come dare al malato sempre di più di quello che lomha ridotto in quel modo? Diceva bene, come al solito, Romano Amerio: “Concludendo questa analisi dell’atteggiamento nuovo del mondo e della Chiesa verso la gioventù, noteremo che anche qui si è consumata un’alterazione semantica e che i termini paterno e paternalistico son diventati termini di disprezzo, come se l’educazione del padre, come padre, non fosse esercizio eccellente di saggezza e di amore, e come se non fosse paterna tutta la pedagogia con cui Dio educò il genere umano nella via della salvezza. Ma chi non vede che in un sistema, in cui il valore si fa poggiare sull’autenticità e sul rifiuto di ogni imitazione, il primo rifiuto è il rifiuto della dipendenza paterna? Il vero, oltrepassando gli ipocorismi di chierici e di laici, si è che la gioventù è uno stato di virtualità e di imperfezione che non si può possedere come stato ideale né prendere come modello. Inoltre la gioventù vale come avvenire e speranza dell’avvenire, talmente che realizzandosi l’avvenire essa scema e si perde. La favola di Ebe si converte nella favola di Psiche. Anzi,

se si divinizza la gioventù, la si getta al pessimismo, perché le si fa desiderare di perpetuarsi, mentre non si può. La gioventù è un progetto di non-gioventù e l’età matura non deve modellarsi su di essa, ma sulla saggezza maturata. Del resto nessuna età della vita ha per modello al proprio divenire un’età della vita, né la propria né l’altrui. Il modello infatti di ciascuna è dato dall’essenza deontologica dell’uomo, la quale è da ricercare e vivere, identica, in ciascuna età della vita. Anche qui lo spirito di vertigine fa voltare il dipendente verso l’indipendenza e l’insufficiente verso l’autosufficienza”. Ecco perché la gioventù dovrebbe essere educata, non blandita. Io credo che i giovani sono molto meglio di come negli ultimi decenni li ha concepiti una certa Chiesa, che essi se ben formati capiscono ed apprezzano il suono dell’organo nella liturgia, strumento che oltretutto sommamente si adatta alla stessa. Per la sua varietà di registri è adatto a sostenere il canto, a commuovere, esaltare, comunicare tutte le atmosfere di cui la liturgia vive. Non dovremmo proprio farne a meno.

La famosa Messa in latino

Negli ultimi tempi, si è parlato molto della famosa “Messa in latino”, un nome errato per definire la Messa tradizionale che conosce un periodo di restrizioni dovuto al Motu proprio Traditionis custodes. In realtà anche la Messa di Paolo VI è tecnicamente in latino, quindi quella definizione non è corretta, come detto. Ma questo latino deve proprio farci paura? Oggi come oggi, per chi vuole capire il senso di quello che viene detto, esistono i messalini bilingue che da decenni svolgono benissimo il loro ruolo senza che nessuno si sia lamentato di non capire. Anzi, la tecnologia ci è di grande aiuto tanto che potremmo anche usufruire delle tante applicazioni nei nostri telefonini e tablets per seguire la Messa senza timore che ci sfugga il significato delle parole. Poi bisogna intendersi cosa si intende per “capire”. La gran parte delle persone che vanno alle Messe in lingua vernacolare probabilmente non afferra completamente i concetti delle Lettere di san Paolo o del canone romano, perché sono concetti che esprimono un’alta teologia, ma nessuno direbbe che queste

persone “non partecipano”. La comprensione della Messa non è a livello puramente semantico ed intellettuale, ma ad un livello sicuramente molto più profondo. Molte religioni hanno una lingua che riservano al culto, separata dall’uso quotidiano. In questo senso va compreso anche l’uso del latino nella liturgia. Questo è un dato antropologico prima che teologico, ma le scienze fanno comodo solo se confermano le idee che già comunque si volevano seguire. Come detto nella liturgia non si partecipa in primis per “capire”, ma per fare esperienza di Dio partecipando al Sacrificio di Nostro Signore. Per l’istruzione cattolica, esiste il catechismo, esistono le conferenze spirituali, esiste la buona stampa. La Messa non serve principalmente per questo, questa è una parte della sua funzione. Non mi sono mai spiegato come, con la Messa in latino di prima del Concilio, così tante persone, umili e semplici, si sono fatte sante. Se il latino fosse stato un impedimento, come spiegare la santità di persone culturalmente ignoranti ma evidentemente ricche di una sapienza che attingevano anche alle fonti della liturgia? Vale anche per la musica, si potrà non comprendere come funziona la forma sonata ma questo non impedisce di godere di una sinfonia. Io ho notato che tantissimi giovani normalissimi in giro per il mondo, sentono il fascino di questa lingua, la lingua che è all’origine di tanta parte della nostra civiltà, e attraverso di questa si avvicinano alla fede. Poi voglio fare un inciso: quando insegnavo in Asia, notavo che i miei allievi cinesi non avevano nessun problema con il latino che usavamo per tanti canti ed erano affascinati dal suono della lingua. Gli stessi studenti ascoltavano musica pop in coreano o giapponese, lingue che magari non comprendevano ma che loro sceglievano liberamente perché affascinati da qualcos’altro. Ecco, il latino per molti non è un fatto linguistico, ma un’esperienza con la Tradizione della Chiesa, un’esperienza che ha riportato molti ad inginocchiarsi davanti al loro Dio.

L’organista e l’improvvisazione

Il 26 gennaio del 2019 moriva Jean Guillou, grande organista francese. Nato nel 1930, si era imposto come una delle voci più originali nel mondo organistico. Era figlio della scuola organistica francese, certamente una delle più gloriose e più conosciute nel panorama internazionale. Anche se oggi questa tradizione

sembra piano piano svanire, la scuola francese è sempre tra le più rappresentative nel contesto di coloro che praticano l’arte organistica. Jean Guillou era un grande improvvisatore, cosa del resto comune per quello che riguarda gli organisti francesi specialmente ad un certo livello. Pensiamo per esempio a Pierre Cochearau (1924-1984) altro grande protagonista di questa tradizione. L’improvvsazione, è fondamentale per l’organista liturgico. Certo, si possono suonare dei brani del repertorio organistico, ma l’organista liturgico deve saper improvvisare. Questa, è una facoltà che purtroppo è stata molto tralasciata negli ultimi decenni. Conosco organisti che sanno suonare pezzi anche molto difficili ma che non sanno improvvisare due note per coprire mezzo minuto di buco dopo la comunione o in altri momenti della Messa. In realtà, questa capacità di saper commentare la Messa con elementi sonori derivanti dal rito stesso, è quella che distingue un organista liturgico dagli altri organisti. Esistono certamente organisti italiani che sono ottimi improvvisatori, a volte a livelli veramente altissimi. Ma purtroppo questa capacità è stato anche penalizzata dal fatto che l’organo è stato messo da parte nei decenni del post concilio. Un altro segno dei tempi difficili che stiamo vivendo. L’improvvisazione non si improvvisa (scusate…) nel senso che essa va preparata studiando attentamente le leggi della composizione e quelle della liturgia. L’organista deve unirsi alla celebrazione in senso estetico ed estatico, respirando il rito e ritmandolo con la musica che suona. Ecco la funzione dell’organo nella liturgia.

Perché mi piace entrare nelle chiese vuote

Lo ammetto: mi piace entrare nelle chiese vuote. Il silenzio, la solitudine, il raccoglimento che si respira in questi spazi, sento che mi parlano in modo tutto speciale. Mi sembra potermi richiamare a Giacomo Leopardi che diceva: “Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura”. Le chiese vuote sono piene di presenze che si manifestano nel silenzio e sembra di essere convocati ad un incontro di cui sei l’ospite d’onore. Sembra che quelle superbe architetture, quelle statue, quegli organi muti siano lì solo per te, per

accogliere i sospiri del tuo cuore e per asciugare le lacrime dei tuoi occhi. E io anche immagino le tante persone che sono lì passate, secoli prima, che hanno pregato nel banco in cui io le sto pensando. E mi sento stranamente unito a loro, come se misteriosamente potessimo darci la mano. Le chiese vuote sono comunque piene di Dio, della sua presenza che aleggia sui banchi e sopra le canne dell’organo oramai impolverate. Egli è lì nel tabernacolo che attende. E allora ci sembra che i suoni che vorremmo sentire in tutte le chiese, suoni di lode degni della maestà divina, si diano appuntamento nel nostro animo che per un istante, anche solo per un istante, intuisce il senso del terribile.

Evangelizzare non vuol dire svendere

Mi è capitato spesso di ascoltare persone che in buona fede giustificano certe iniziative ecclesiastiche, compreso l’uso della musica simil commerciale nella liturgia con la giustificazione che “bisogna evangelizzare nei tempi che viviamo”. Ora, questa frase sembra inattaccabile. Del resto, dove dovrebbe svolgersi l’evangeliszazione se non nel tempo che viviamo? Eppure l’intenzione di molti che usano questa frase è sbagliata, perché non distinguono nella contemporaneità quello che è buono all’evangelizzazione da quello che non lo è. Del resto san Paolo nella prima Lettera ai Tessalonicesj lo aveva detto bene: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male”. E a me queste parole di san Paolo mi sembrano abbastanza chiare e certamente non invitano a tirare dentro tutto, ma solo ciò che è buono. Ora, è utile usare stili commericiali (che richiamano tutto ciò contro cui la Chiesa dovrebbe combattere) per annunciare il Vangelo? Credo ognuno sa la risposta. Questa non è una soluzione del problema, ma è parte del problema. Ecco perché in passato chi faceva musica in Chiesa era preparato e veniva sostenuto dalla Chiesa stessa, non si trattava di persone di buona volontà

(scusate: amate dal Signore) che ovviamente spesso non hanno i mezzi culturali ed estetici per giudicare cosa è buono e cosa non lo è.

Pietro Aron e musica come arte del ben cantare

Tra i teorici più importanti nel periodo rinascimentale possiamo contare Pietro Aron (o Aaron, 1489-1545), autore di numerosi trattati che porranno la base per la comprensione di alcuni fenomeni musicali e musicologici in evoluzione nel suo periodo. Nativo di Firenze, sembr pa che fu attivo a Roma sotto papa Leone X, non a caso della famiglia Medici che di Firenze era signora e padrona. Ma su questo suo soggiorno romano non concordano tutti i musicologi. Fu attivo in altre città italiane come Venezia, Rimini ed Imola, ed altre ancora. Nel suo Compendiolo di molti dubbi, segreti et sentenze intorno al Canto Fermo, et Figurato, da molti eccellenti et consumati Musici dichiarate. Raccolte dallo Eccellente et Scienziato Autore frate Pietro Aron del Ordine de Crosachieri et della Inclita città di Firenze. In memoria a eterna, erit Aron Et nomen eius numquam destruetur (stampato a Milano nel 1547), troviamo alcune interrssanti informazioni sulle pratiche musicali e liturgiche dell’epoca. Ad esempio, parlando del Graduale nella Messa, cioè di quei versetti salmici che venivano cantati dopo l’epistola, così afferma: “I graduali & tratti debbono essere intonati con la voce piana & humile. Graduale è detto perché significa i gradi delle virtuti”. Forse riferiva al fatto che, essendo questi brani di grande difficoltà esecutiva, vanno affrontati con una certa raffinatezza interpretativa piuttosto che forzando l’esecuzione; il far risalire il nome “Graduale” ai gradi della virtù è probabilmente un omaggio a quell’allegorismo medioevale che ancora aveva buon corso al tempo di Aron. In realtà il nome è riferito ai gradini dell’ambone su cui veniva eseguito (ma secondo altri riferisce all’ambone stesso). Ci parla poi della commistione modale, cioè di quando in una composizione (specie, ma non solo, polifonica) troviamo anche elementi formali provenienti da altri toni: “Il tuono conmisto è quello, quando è autentico o plagale, & che in essi si ritrovino speti di altri tropi o tuoni, differenti dalla propria forma o compositione“. Frederik A. Dambrink ha studiato questo fenomeno in Commixtio Tonorum. A Study on the Interchanging of Modes (1976). Ne parla

amche Bernhard Meier nel suo studio fondamentale sulla modalità in ambito rinascimentale. Carlo Marenco in La composizione del mottetto rinascimentale fa anche riferimento a questo fenomeno: “Assai controverso e tutt’altro che facile nella sua lettura è, invece, il fenomeno della “modulazione” (la mutatio toni o la commixtio tonorum degli antichi) la quale, secondo le correnti teorie, si verifica quando i profili melodici e le note portanti di un modo diverso s’inseriscono nell’impianto di base di quello d’imposto”. Ma mi sembrano importanti alcune delle cose che dice a riguardo del canto. Intanto ecco una bella definizione: “La musica è una arte, laquale dimostra il modo di rettamente cantare, & con soave voce pronontiare”. Cioè, la musica è essenzialmente canto. In effetti la musica nasce come arte vocale, sin dalla musica antica e soltanto dopo il rinascimento la musica strumentale acquisirà un’identità propria. Ricordiamo che all’inizio la musica era meramente vocale e in antichità gli strumenti solo raddopiavano le parti vocali. Essa consiste, secondo il nostro teorico, nel saper pronunziare con voce soave, cioè pro (avanti)+ nuncius (annunzio), una dizione chiara e ben enunciata. Aron ci dice anche come deve intendersi una voce perfetta: “Voce perfetta è quella che è soave, chiara, netta, alta & bassa. Voce imperfetta è rauca, dissonante, né alta, né bassa“. Anche qui, si chiede una voce che sia soave e chiara in tutta la sua estensione (alta e bassa) e non disomogenea. Riecheggia senz’altro la definizione che Isidoro di Siviglia ci aveva dato nelle sue Etimologie: “Perfecta autem vox est alta suavis et clara: alta, ut in sublimi sufficiat; clara, ut aures adimpleat; suavis, ut animos audientium blandiat. Si ex his aliquid defuerit, vox perfecta non est“. Quel chiara, significa che sia in grado di riempire le orecchie, voce piena. Dice ancora Aron: “Canto è inflessione di voce, & il suono precede il canto“. Canto è una particolare attitudine della voce parlata, un modo particolare di pronunciare e il suono precede il canto. Cosa significa? Io penso significhi che esista una qualità assoluta in senso platonico del suono a cui dobbiamo tendere, il suono perfetto, ed esso precede l’atto stesso del cantare. Cioè il suono concepito viene prima ed è più importante del suono pronunciato, così come Boezio in fondo ci insegnava nella sua classificazione musicale che tanta importanza avrà nella riflessione medioevale e rinascimentale, come in epoca moderna.

Elogio delle campane di chiesa

Sarò impopolare con qualcuno, ma ritengo che bisognerebbe rivalutare l’importanza che aveva nella vita civica il suono delle campane delle chiese. Certamente in alcuni luoghi ancora questo suono è possibile ascoltarlo, ma sempre meno, viene sempre più considerato come un fastidio“, perché disturba la “tranquilla“ laica vita della nostra società. Pure, questo suono aveva una importanza veramente speciale nella vita delle nostre città, dei nostri villaggi, dei nostri paesi, perché scandiva le ore del giorno sempre sotto il segno di Dio. Era sempre la voce delle campane, che ci diceva quando si era fatta una certa ora della sera o era il momento di rivolgersi alla vergine Maria per l’Angelus. Era, insomma, un mettere tutte le nostre vite sotto il segno del divino. Oggi, questo dà fastidio, perché di Dio non vogliamo sentir parlare, preferiamo pensare che non esista più, preferiamo pensi pensare che il coro delle campane, sia solo un retaggio del passato, qualcosa che possiamo ammirare ancora sopra i campanili, ma che non fa più parte del nostro modo di vivere. Certo, per alcuni è comodo pensarla in questo modo, anche se non si rendono conto di quanto abbiamo perso senza questo segnale che ci faceva volgere la mente sempre alle cose di lassù, e non solo alle nostre faccende terrene. Forse per questo, per l’importanza che queste queste campane avevano nella nostra società, esse venivano benedette, venivano come battezzate. Giuseppe Pettenuzzo ( saveriani.it) così descrive l’importana delle campane: “Le campane suonano dentro di noi e, come una voce, ci parlano. Ogni campana ha un nome e un suono particolare, una tonalità che corrisponde a una nota musicale. Più campane possono anche accompagnare le melodie di una canzone. Da loro sentiamo se cantano a festa o se soffrono per la morte di una persona. Avvisano se è nato un bambino, se si celebra un battesimo o un matrimonio. Scandiscono le ore, alcune suonano addirittura ogni mezz’ora. È bello sentire la ripetizione dei rintocchi: dieci rintocchi, una pausa, un nuovo rintocco, sono le dieci e mezza. Sono una voce universale che viene dalle chiese, dalle torri cittadine, da edifici pubblici. Tutti comprendiamo il significato della loro voce. Indicano il tempo che fa: quando si avvicina un temporale pericoloso, in certi casi, ci dicono di tornare a casa, di non uscire, perché c’è pericolo. Addirittura si usano per prepararci a qualche avvenimento, come nei tempi di guerra. La

mattina ci svegliano, la sera ci augurano la buona notte. Molte volte aspettiamo questo saluto per una preghiera e per alzarci o, la sera, per spegnere le luci e dormire. Ricordo il campanone, Pietro; la mediana, Santa Maria; la piccola, Giovanni; il campanello.. beh, questo era la voce della mamma. Tutti suoni di sicurezza e di compagnia”. Insomma, erano un segno della presenza di Dio nella vita di tutti i giorni. Esse hanno anche un significato mistico, una sorta di protezione dalle forze malefiche. Eppure oggi a molti danno fastidio, esse sono oggetto di denunce in quanto “disturbano il sonno di alcuni“. Oppure disturbano la loro coscienza. Forse la voce di un poeta e sacerdote rosminiano come Clemente Rebora, nella sua “Campana di Lombardia”, ci aiuterà a mettere le cose in prospettiva: “Campana di Lombardia, voce tua, voce mia, voce voce che va via e non dài malinconia. Io non so che cosa sia, se tacendo o risonando vien fiducia verso l'alto di guarir l'intimo pianto, se nel petto è melodia che domanda e che risponde, se in pannocchie di armonia risplendendo si trasfonde cuore a cuore, voce a voce Voce, voce che vai via

e non dài malinconia”. Chissà, forse saremo salvati dalla poesia.

Qualche riflessione sul salmo responsoriale

Come tutti sappiamo, nella forma un tempo detta ordinaria della messa, la nuova messa di Paolo VI, è stato introdotto, dopo la riforma liturgica successiva al Vaticano II, il salmo responsoriale. Questo prendeva effettivamente il posto del graduale, un canto interlezionale molto elaborato e che richiede grande perizia tecnica per l’esecuzione, quindi riservato al solista e al coro. Per favorire la partecipazione dell’assemblea si è ritornato ad una forma liturgica più semplice, visto che l’assemblea ha la possibilità di unirsi nel ritornello. Dal punto di vista letterario, si può anche essere d’accordo; ma bisogna stare attenti quando si fanno dei riferimenti all’aspetto musicale. In quanto, se è vero che il modello del salmo responsoriale somiglia a quello che ci viene descritto in alcuni testi dei Padri, vedi per esempio Sant’Agostino, noi non siamo sicuri di quale musica venisse applicata a quelle forme descritte dagli stessi Padri. Quindi, dal punto di vista musicale, il salmo responsoriale, è una “nuova forma“. Cioè dal tempo patristico, non abbiamo una evoluzione di questa forma specifica se non quella che sfocia nel canto virtuosistico del graduale. La dinamica solista-assemblea è un ritorno degli ultimi decenni. Una cosa però mi sembra importante poterla notare: questo salmo, proprio perché ha decretato la rinuncia ad un repertorio comunque mirabile, come quello dei graduali gregoriani, dovrebbe essere cantato. In effetti, tutta la vicenda era proprio nel far partecipare in canto l’assemblea. Ma se si girano le nostre parrocchie, si noterà che per la maggior parte questi salmi vengono oramai recitati. A volte viene cantato soltanto il ritornello, in alcuni casi si canta tutto ma non sempre quello che viene cantato è adeguato. Ho potuto testimoniare, in più di un caso, l’applicazione della stessa melodia e della stessa formula salmodica per tutti i salmi responsoriali dell’anno, cosa che per me è estremamente sbagliata. Proprio perché ogni salmo rappresenta un particolare sentimento religioso, dovrebbe avere una veste sua propria. Vero è che i graduali erano costruiti su formule che dunque si ripetevano tra un salmo è l’altro, ma

esse erano costruite e tagliate sul testo con un arte ed una cura che non sono neanche paragonabili a quello a cui assistiamo oggi. Ci sono vari modi per eseguire il salmo responsoriale, dalla cantillazione al salmo in musica, in cui le strofe sono non semplicemente declamate su un tono di recita con eventuali cadenze e intonazioni, ma sono musicate con melodie per esteso. Questo modo è molto più popolare nei paesi anglosassoni, ma non molto da noi. Qui da noi, come in fondo per tutto il resto, c’è un approccio minimalistico, si cerca di fare il meno possibile, anche perché le forze disponibili per la musica liturgica nelle parrocchie sono sempre di meno e di qualità sempre meno pregiata. Questo, non perché manchino bravi musicisti o bravi cantori, ma perché non c’è interesse da parte delle gerarchie ecclesiastiche nel coltivare coloro che potrebbero proporre dei repertori di musica liturgica appropriata. Ecco allora che il salmo responsoriale, diviene la cartina di tornasole, per capire quella che è in fondo la crisi della musica per la liturgia. Basta vedere i ritornelli diffusi sui foglietti della Messa più diffusi e si capisce tutto. Naturalmente ci sono delle realtà in cui si dà ancora valore a questo momento liturgico, e lo si cura. Ma non mi sembra che siano ormai la maggioranza nelle nostre parrocchie. Quindi bisognerebbe riflettere ancora su questo momento della liturgia e cercare di capire come valorizzarlo e come farlo essere degno delle esperienze che provengono dalla nostra gloriosa tradizione.

Mistero della fede: il gregoriano nelle chiese…vuote

Ieri sono entrato in una chiesa, una bella chiesa del centro a Roma ed era praticamente vuota. In sottofondo si poteva ascoltare una registrazione di canto gregoriano. Vi sarà capitato anche a voi di entrare in una chiesa al di fuori degli orari delle celebrazioni e di notare che era stato messo un CD di canto gregoriano, polifonia o organo. Perché non mettono un CD dei cosiddetti “canti giovanili”? Ovvio, perché disturba la preghiera, quella preghiera che probabilmente chi entra in chiesa in quei momenti vuole elevare a Dio. Ma se capite che un certo tipo di musica eleva l’animo a Dio, perché poi nelle stesse chiese, gli stessi che premono start quando devono far funzionare il CD, nelle celebrazioni promuovono una musica che è antitetica alle esigenze di

preghiera delle persone? Ma questo non è vero soltanto per le chiese vuote, ma lo è anche per le pubblicità. Quando si intende evocare il sacro, ecco che organo o musica sacra tradizionale vengono evocati. Quello che i pubblicitari ci dicono, è che malgrado decenni di rivoluzione culturale nella Chiesa, anche gli atei associano certa musica al sacro. E qui non ne faccio una questione di latino o italiano, c’è anche musica scritta in italiano perfettamente devota. Ma a chi interessa della musica sacra? Ecco perché da noi i soliti noti continuano a manovrare per fare in modo che tutto cambi perché nulla (per loro) cambi. E noi, abbassando la testa a questo mistero della fede, andiamo in chiesa quando non c’è nessuno, ma soltanto il Signore che dal tabernacolo è comunque il nostro tutto.

La bellezza della liturgia a servizio dell’evangelizzazione

Il beato Giuseppe Allamano (1851-1926) diceva: “La liturgia ben fatta ha operato conversioni; se mal fatta le impedisce“. Credo che questa frase sia profondamente veritiera e potrebbe essere applicata anche alla musica sacra; se essa è ben fatta favorisce la preghiera, quando è mal fatta la impedisce. Non si riflette mai abbastanza suo fatto che la bellezza della liturgia ha una importanza fondamentale, perché non è fine a se stessa. Dietro la bellezza c’è sempre la verità, di cui la bellezza è una porta. Benedetto XVI, al punto 35 della Sacramentum Caritatis afferma: “Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor. Nella liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione. In Gesù, come soleva dire san Bonaventura, contempliamo la bellezza e il fulgore delle origini. Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell'amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l'amore. Già nella creazione Dio si lascia intravedere nella bellezza e nell'armonia del

cosmo (cfr Sap 13,5; Rm 1,19-20). Nell'Antico Testamento poi troviamo ampi segni del fulgore della potenza di Dio, che si manifesta con la sua gloria attraverso i prodigi operati in mezzo al popolo eletto (cfr Es 14; 16,10; 24,12-18; Nm 14,20-23). Nel Nuovo Testamento si compie definitivamente questa epifania di bellezza nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo: Egli è la piena manifestazione della gloria divina. Nella glorificazione del Figlio risplende e si comunica la gloria del Padre (cfr Gv 1,14; 8,54; 12,28; 17,1). Tuttavia, questa bellezza non è una semplice armonia di forme; « il più bello tra i figli dell'uomo » ( Sal 45 [44],3) è anche misteriosamente colui che « non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi » ( Is 53,2). Gesù Cristo ci mostra come la verità dell'amore sa trasfigurare anche l'oscuro mistero della morte nella luce irradiante della risurrezione. Qui il fulgore della gloria di Dio supera ogni bellezza intramondana. La vera bellezza è l'amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. Il memoriale del sacrificio redentore porta in se stesso i tratti di quella bellezza di Gesù di cui Pietro, Giacomo e Giovanni ci hanno dato testimonianza, quando il Maestro, in cammino verso Gerusalemme, volle trasfigurarsi davanti a loro (cfr Mc 9,2). La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell'azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l'azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria”. Ma purtroppo queste parole del papa Benedetto XVI cadono nel vuoto. La bellezza non è estetismo, come giustamente nota il Papa. E se la bellezza nella liturgia non converte, potete immaginare la bruttezza cosa possa fare. Ecco perché la cura della musica nella liturgia dovrebbe essere un compito fondamentale dei pastori, che invece oramai l’hanno abbandonata al controllo di gruppi che hanno un interesse ideologico nel pilotare tutto in una direzione sempre più lontana da quella che è la via maestra della Tradizione. Tradizione che, vale la pena ripeterlo, non è il passato ma l’origine, è andare non indietro ma in profondità. Ecco perché nei secoli la Chiesa non ha risparmiato risorse per abbellire gli edifici di culto, per ornare la liturgia di suoni, profumi, immagini, che potessero aiutare i fedeli tutti a mettersi in cammino per la via pulchritudinis. Platone diceva che “il bello è lo splendore del vero”. Solo ritornando alla bellezza, al senso della forma anche sonora, possiamo sperare di poter accedere allo splendore del vero. Don Piero Cantoni (alleanzacattolica.org)

ci dice: “Quando il bello viene disancorato dalla conoscenza della forma, come spesso accade nell’estetica moderna, si riduce alla dimensione sensibile e fenomenica perdendo di vista il proprio legame intrinseco e indissolubile con il vero e con il bene. Il disinteresse estetico diventa separazione dal vero e dal bene, e smarrimento dell’oggettività, inevitabile conseguenza dell’aver smarrito il senso dell’essere“. Quando la bellezza esce dalle chiese, fa fatica ad entrarci anche la verità.

Tre motivi per cui i musicisti di Chiesa vanno pagati

Come molti di voi sapranno, non molto tempo fa mi sono trovato invischiato in una piccola polemica con la Santa casa di Loreto, per via di un mio articolo su La nuova bussola quotidiana, in cui contestavo il fatto che ai cantori professionisti di quella storica cappella musicale era stato chiesto di cantare in regime di volontariato. Questa polemica, ha avuto delle ripercussioni anche su altri organi di stampa. Fatalità, proprio in quei giorni, stava uscendo un mio libro che si chiama “Non ti pago!“. In questo libro, affronto proprio questo problema del trattamento economico dei musicisti di Chiesa. Al libro, voglio rimandare per tutti gli approfondimenti. Vi invito a leggerlo in modo da poter capire che dietro il mio ragionamento non c’è nessuna venalità ma soltanto un desiderio di giustizia. Qui, voglio riassumere tre motivi per cui è giusto pagare i musicisti che prestano servizio nella liturgia. 1. Se si desidera la qualità, bisogna investire nella stessa. La qualità, richiede studio, applicazione, fatica; queste cose, vanno sostenute, vanno supportate, non vengono così gratuitamente. Un musicista studia continuamente nella sua vita, ma i regolari corsi di studio, per coloro che li affrontano, durano anche 10 anni. È giusto che, quando il musicista è in grado di mettere a disposizione della comunità cristiana i talenti ottenuti con così tanta fatica, la stessa comunità cristiana possa in qualche modo sostenerlo. 2. Il codice di diritto canonico, dice che coloro che prestano un servizio per la la Chiesa cattolica, se questo servizio è continuativo, devono essere remunerati. Queste, sono nozioni basilari di dottrina sociale della Chiesa. Inoltre, ricordiamo che non corrispondere la giusta mercede all’operaio grida vendetta al cospetto di

Dio. Questo non toglie che ci possa essere qualcuno che desidera svolgere dei servizi per la Chiesa come volontario. Le due cose non sono in contraddizione, ma il volontariato deve essere sempre qualificato. Facciamo un esempio: la persona che pulisce la Chiesa e lo fa senza voler essere compensata, deve senz’altro essere in grado di pulire bene. Un parroco non accetterebbe una volontaria che pulisce la Chiesa e che però lascia la chiesa più sporca di prima. Allora, perché dobbiamo accettare dei volontari che prestano un servizio liturgico senza saper cantare o senza saper suonare? Perché non si capisce che la mediocrità nella musica per la liturgia non colpisce soltanto coloro che la provocano ma anche coloro che la subiscono? 3. Se si agisce secondo giustizia, allora il volontariato deve essere esteso anche a tutte le altre categorie che prestano servizio presso le nostre chiese. Quindi, anche i fiorai, i sacrestani, gli elettricisti, gli sacerdoti… Perché tutti questi non accettano anche di svolgere il loro servizio qualificato ma senza avere nessun compenso? Certamente perché è una cosa ingiusta, come voi sicuramente penserete. Ma ci sono persone che sono molto brave a fare le caritatevoli ma con i problemi degli altri. Quindi, i poveri musicisti, “che tanto si divertono”, devono fare tutto gratuitamente, mentre agli altri, come è giusto, si dà un qualche salario, la previdenza sociale, e tutte quelle cose che sono di diritto per un lavoratore. Alcuni possono dire che il musicista non presta un servizio così continuativo, ma questo non dipende dal musicista stesso, dipende spesso da sacerdoti che non lo vogliono impiegare. In realtà, in un tempo passato, il musicista prestava servizio quasi giornaliero, come succede per alcune cattedrali inglesi ancora oggi. Alcuni dicono: “quello che si è ricevuto gratuitamente, il talento, deve essere dato gratuitamente“; ma allora, se accettiamo questo questa frase, deve essere estesa a tutti gli altri. Anche coloro che hanno ricevuto la vocazione sacerdotale, il talento di saper coltivare bene i fiori, o di aggiustare dei componenti elettrici, dovrebbero offrire il loro servizio gratuitamente quando è per la Chiesa. Ma no, io non penso Dio chiedo questo, perché questo è il frutto di un cristianesimo spiritualistico, un cristianesimo che non tiene conto della realtà delle cose, della materialità delle cose che non è in contraddizione con lo spirito, in quanto noi siamo fatti di anima e corpo, non soltanto della prima.

Sulla questione del volontariato musicale nella liturgia

Il mio post sulla questione del pagamento dei musicisti di Chiesa, è stato uno dei più visti di tutti i post di questa newsletter, raggiungendo molte visualizzazioni. Questo mi conferma che il tema trattato è senz’altro un tema che suscita l’interesse negli operatori del settore. Ho letto anche qualche commento sui social, anche se non li ho letti tutti. Purtroppo da parte di alcuni ci sono stati dei commenti scomposti, anche conditi di volgarità che dicono molto sulla persona, anche se purtroppo non contribuiscono nulla al dibattito. Altri, che comunque dissentivano dalla mia posizione, hanno argomentato il loro dissenso in modo civile ed educato, che è ovviamente da me altamente apprezzato. È venuta fuori la questione del volontariato, che un servizio di questo tipo deve essere volontario. Cerchiamo di mettere ordine. Come qualcuno ha osservato, “servizio“ non è sinonimo di gratuito. Anche i medici svolgono un servizio, l’insegnante, tante categorie svolgono un servizio che però viene giustamente retribuito. Quindi, se pensiamo anche ad altre categorie che hanno a che fare con la Chiesa e il servizio liturgico, come per esempio quella dei sacristi, noi ci aspettiamo che gli stessi vengano retribuiti. C’è poi il discorso che coloro che si scandalizzano perchè si parla di retribuire i musicisti di Chiesa, sono per la maggior parte persone che non hanno studi o una preparazione al ruolo che svolgono nella liturgia (non parlo di diplomi, ma anche di semplici studi). Prendiamo per esempio una persona che si oppone al fatto che si debba pagare per un servizio svolto nella liturgia e immaginiamo che questa persona studi per diventare, che ne so, giornalista. Dopo anni di studi, di sacrifici, di investimenti suoi e della sua famiglia, se le proponessero di svolgere un servizio continuativo anche per un giornale cattolico, del tutto gratuitamente, come la prenderebbe? Perché qui è importante capire che il concetto è lo stesso, cioè che chi si è sacrificato per dotarsi di una preparazione specifica, va poi sostenuto in qualche modo dalla comunità che serve. A me questa sembra una cosa talmente logica, che non bisognerebbe neanche dirla. Poi, c’è proprio la questione del volontariato in se stesso. Facciamo chiarezza. Se un medico, decide di dedicare il suo tempo libero per andare a curare dei malati in Africa senza ricevere nessuna ricompensa, è una cosa molto bella, in quel caso si tratta di volontariato qualificato. Cioè, si tratta di un professionista che decide di impiegare il tempo al di fuori del suo lavoro regolare per svolgere quel tipo di servizio. Ma non è lo stesso per quello che riguarda la Chiesa, dove il volontariato è quasi sempre sinonimo di dilettantismo. Quindi, questo va poi incidere sulla qualità del servizio offerto. Sei un insegnante di organo del conservatorio, decide di suonare gratuitamente per la sua parrocchia, io non ho

nessun problema. Si tratta di un professionista che decide di offrire gratuitamente un servizio ad una Chiesa che forse non ha i mezzi per poterlo pagare. Ma non stiamo parlando di questo, stiamo parlando di quelle persone che difendono il volontariato per difendere spesso una qualità scadente del servizio offerto, il che non va in favore né della comunità cristiana che si serve che ne della liturgia in cui si opera. Qui non si tratta di offrire chissà quali stipendi, ma almeno di riconoscere un rimborso spese per quelle persone che si dedicano in modo costante ad offrire un certo servizio. A me faceva un po’ sorridere quando alcune persone, nei commenti, si scusavano del compenso che ricevevano per suonare ai matrimoni o ai funerali dicendo che era soltanto una cifra “simbolica“. A questo siamo arrivati grazie alla pressione del politicamente corretto. Simbolico non è, pure se uno riceve un euro, quello comunque è un compenso. È inutile cercare giustificazioni, visto che il compenso è comunque dovuto. Alcuni lo giustificavano dicendo che in quel caso erano i familiari a pagare, ma in realtà molti molte fonti di introito delle nostre chiese vengono comunque dai fedeli, quindi ogni cosa e in fondo pagata attraverso le donazioni dei cattolici. Io voglio ripetere, che come è giusto sostenere i sacerdoti, i custodi delle chiese, i sacrestani, quelli che portano i fiori per adornare gli altari, coloro che si occupano di mantenere in ordine l’impianto elettrico, quelli che ti vendono i libri liturgici e via dicendo, è giusto sostenere anche chi ha sacrificato anni della propria vita per ben prepararsi a questo compito. Perché non ci scandalizza se il sacerdote che celebra la Messa, riceve una somma di denaro chiamata “applicazione“? Perché non ci si scandalizza quando si sa che le suore che vendono le ostie che poi saranno consacrate ricevano comunque un pagamento per il loro lavoro? Perché non ci si scandalizza quando si sa che coloro che vendono le suppellettili liturgiche vengano pagati, a volte anche cifre molto alte? E così quelli che vendono gli abiti liturgici? Ma infatti non ci si dovrebbe scandalizzare, perché il pagare il lavoro altrui è del tutto giusto e del tutto in linea con la dottrina sociale della Chiesa e con il Vangelo. Purtroppo, per molti è assai semplice fare i buoni con i problemi degli altri, questo è un problema che non riguarda solo la Chiesa ma tutta la nostra società. Comunque, importante è cercare di mantenere sempre la barra dritta.

Pio XII e la musica sacra come visione della maestà di Dio

Oggi, in occasione della visita in una bella chiesa romana, mi è capitato di sostare di fronte alla cappella dove fu battezzato l’ultimo Papa romano, Pio XII (1876-1958). Eugenio Pacelli era figlio della Roma più autentica, anche se verrà cresciuto negli ambienti nobiliari che erano consoni al rango della sua famiglia. Pio XII fu un grande Papa anche per i suoi apporti nel campo liturgico, e anche in quello della musica liturgica, visto che era egli stesso appassionato violinista. Ricordiamo l’enciclica Musicae Sacrae Disciplina del 1955. Sarà utile commentare alcuni passaggi: “A nessuno certamente recherà meraviglia il fatto che la chiesa con tanta vigilanza s'interessi della musica sacra. Non si tratta, infatti, di dettare leggi di carattere estetico o tecnico nei riguardi della nobile disciplina della musica; è intenzione della chiesa, invece, che questa venga difesa da tutto ciò che potrebbe menomarne la dignità, essendo chiamata a prestare servizio in un campo di così grande importanza qual è quello del culto divino”. Ecco, sembra importante che il Pontefice ci ricordi come la cura che abbiamo per la musica sacra non è dovuta ad un vezzo estetico, ma perché essa è connessa con il culto divino, culmine e fonte della vita del cristiano. “In ciò la musica sacra non ubbidisce a leggi e norme diverse da quelle che regolano ogni arte religiosa, anzi l'arte stessa in generale. Invero non ignoriamo che in questi ultimi anni alcuni artisti, con grave offesa della pietà cristiana, hanno osato introdurre nelle chiese opere prive di qualsiasi ispirazione religiosa e in pieno contrasto anche con le giuste regole dell'arte. Essi cercano di giustificare questo deplorevole modo di agire con argomenti speciosi, che pretendono far derivare dalla natura e dall'indole stessa dell'arte. Vanno, infatti, dicendo che l'ispirazione artistica è libera, che non è lecito sottoporla a leggi e norme estranee all'arte, siano queste morali o religiose, perché in tal modo si verrebbe a ledere gravemente la dignità dell'arte e a ostacolare con vincoli e legami il libero corso dell'azione dell'artista sotto il sacro influsso dell'estro”. Siamo ancora in tempi in cui si opponeva un certo modo di fare musica contemporanea con la musica anche contemporanea ma che sapeva adattarsi alle esigenze della liturgia. Oggi, non c’è neanche questa lotta, in quanto la diatriba è fra musica adatta alla liturgia e musica commerciale, quindi il piano della questione è tutt’altro. “Con tali argomenti viene sollevata una questione senza dubbio grave e difficile, che riguarda qualsiasi manifestazione d'arte e ogni artista; questione che non può

essere risolta con argomenti tratti dall'arte e dall'estetica, ma che invece dev'essere esaminata alla luce del supremo principio del fine ultimo, regola sacra e inviolabile di ogni uomo e di ogni azione umana. L'uomo, infatti, dice ordine al suo fine ultimo - che è Dio - in forza di una legge assoluta e necessaria fondata sulla infinita perfezione della natura divina, in maniera così piena e perfetta che neppure Dio potrebbe esimere qualcuno dall'osservarla. Con questa legge eterna ed immutabile viene stabilito che l'uomo e tutte le sue azioni devono manifestare, a lode e gloria del Creatore, l'infinita perfezione di Dio e imitarla per quanto è possibile. L'uomo, perciò, destinato per natura sua a raggiungere questo fine supremo, nel suo operare deve conformarsi al divino archetipo e orientare in questa direzione tutte le facoltà dell'animo e del corpo, ordinandole rettamente tra loro e debitamente piegandole verso il conseguimento del fine. Pertanto anche l'arte e le opere artistiche devono essere giudicate in base alla loro conformità con il fine ultimo dell'uomo; e l'arte certamente è da annoverarsi fra le più nobili manifestazioni dell'ingegno umano, perché riguarda il modo di esprimere con opere umane l'infinita bellezza di Dio, di cui essa è quasi il riverbero. Per la qual cosa, la nota espressione "l'arte per l'arte" - con cui, messo in disparte quel fine che è insito in ogni creatura, erroneamente si afferma che l'arte non ha altre leggi che quelle che promanano dalla sua natura - o non ha valore alcuno o reca grave offesa a Dio stesso, creatore e fine ultimo. La libertà poi dell'artista - che non è un istinto cieco nell'azione, regolato solo dall'arbitrio o da una certa sete di novità - per il fatto che è soggetta alla legge divina, in nessun modo viene coartata o soffocata, ma piuttosto nobilitata e perfezionata”. Che belle e nobili parole! La libertà dell’artista non è quella di fare ciò che vuole, ma quella di adeguarsi alla ricerca della vera Bellezza, che è Dio. Non è una libertà suprema quella di poter cercare attraverso la musica Colui che ci ha liberato? La libertà assoluta è in fondo schiavitù, in quanto si poggia sul nulla e ci vincola alle nostre ansie e paure. “Ciò, se vale per ogni opera d'arte, è chiaro che deve applicarsi anche nei riguardi dell'arte sacra e religiosa. Anzi l'arte religiosa è ancor più vincolata a Dio e diretta a promuovere la sua lode e la sua gloria, perché non ha altro scopo che quello di aiutare potentemente i fedeli a innalzare piamente la loro mente a Dio, agendo per mezzo delle sue manifestazioni sui sensi della vista e dell'udito. Perciò l'artista senza fede o lontano da Dio con il suo animo e con la sua condotta, in nessuna maniera deve occuparsi di arte religiosa; egli, infatti, non possiede quell'occhio interiore che gli permette di scorgere quanto è richiesto dalla maestà di Dio e dal suo culto. Né si può sperare che le sue opere prive di afflato religioso - anche se rivelano la perizia e una certa abilità esteriore

dell'autore - possano mai ispirare quella fede e quella pietà che si addicono alla maestà della casa di Dio; e quindi non saranno mai degne di essere ammesse nel tempio dalla chiesa, che è la custode e l'arbitra della vita religiosa”. La musica sacra, per elevare potentemente i fedeli a Dio, deve scrutare con l’occhio interiore dell’artista, come dice il Pontefice, la maestà di Dio. La musica sacra non è auto compiacimento della comunità, ma ha sempre lo sguardo allo Splendor Paternae Gloriae. “L’artista invece che ha fede profonda e tiene una condotta degna di un cristiano, agendo sotto l'impulso dell'amore di Dio e mettendo le sue doti a servizio della religione, per mezzo dei colori, delle linee e dell'armonia dei suoni farà ogni sforzo per esprimere la sua fede e la sua pietà con tanta perizia, eleganza e soavità, che questo sacro esercizio dell'arte costituirà per lui un atto di culto e di religione, e stimolerà grandemente il popolo a professare la fede e a coltivare la pietà. Tali artisti sono stati e saranno sempre tenuti in onore dalla chiesa; essa aprirà loro le porte dei templi, poiché si compiace del contributo non piccolo che essi con la loro arte e con la loro operosità danno per un più efficace svolgimento del suo ministero apostolico”. Qui il Papa non è stato profeta, anche perchè se fosse vivo oggi potrebbe vedere come la Chiesa ha in realtà chiuso le porte a molti artisti che lavorano nella direzione auggerita da Pio XII mentre sono spesso in onore gli artisti “lontani”, coloro che rappresentano i lati peggiori della contemporaneità. “Queste leggi dell'arte religiosa vincolano con un legame ancora più stretto e più santo la musica sacra, poiché essa è più vicina al culto divino che le altre arti belle, come l'architettura, la pittura e la scultura; queste cercano di preparare una degna sede ai riti divini, quella invece occupa un posto di primaria importanza nello svolgimento stesso delle cerimonie e dei riti sacri. Per questo la chiesa deve con ogni diligenza provvedere a rimuovere dalla musica sacra, appunto perché questa è l'ancella della sacra liturgia, tutto ciò che disdice al culto divino o impedisce ai fedeli di innalzare la mente a Dio”. Qui possiamo veramente osservare come questa enciclica, che pur contiene concetti sempre validi, è in parte frutto di un tempo e di una mentalità ecclesiale che è stata completamente messa da parte in favore di un accomodamento alla modernità che sta dando i frutti che sono sotto l’occhio di tutti. “E, infatti, in ciò consiste la dignità e l'eccelsa finalità della musica sacra, che cioè per mezzo delle sue bellissime armonie e della sua magnificenza apporta decoro e ornamento alle voci sia del sacerdote offerente sia del popolo cristiano

che loda il sommo Dio eleva i cuori dei fedeli a Dio per una sua intrinseca virtù rende più vive e fervorose le preghiere liturgiche della comunità cristiana, perché Dio uno e trino da tutti possa essere lodato e invocato con più intensità ed efficacia. Per opera della musica sacra, dunque, viene accresciuto l'onore che la chiesa porge a Dio in unione con Cristo suo capo; e viene altresì aumentato il frutto che i fedeli, stimolati dai sacri concenti, percepiscono dalla sacra liturgia e sogliono manifestare con una condotta di vita degnamente cristiana, come dimostra l'esperienza quotidiana e confermano molte testimonianze di scrittori antichi e recenti”. Ecco, se non si ha come meta la gloria di Dio, si toglie anche il fondamento dell’edificazione dei fedeli. Pio XII, è stato certamente un grandissimo Pontefice, e la sua opera liturgica dovrebbe essere certamente rivalutata. Fu infatti un Papa a cui si prestò attenzione anche durante il Concilio Vaticano secondo, anche se questo oggi sembra essere dimenticato. Richiamare l’importanza della dignità della liturgia, e l’importanza della dignità della musica sacra nel culto, è tema sempre attuale, e rileggere le parole di questo grande Pontefice non può che aiutarci nel cercare di uscire da una situazione che ormai si trascina da troppo tempo.

Quattro ragioni per riscoprire i Salmi nella liturgia

Forse molti non ci fanno caso, ma si deve sapere che il libro dei Salmi, questa collezione di poesia religiosa ebraica, è al cuore della liturgia cristiana e cattolica. Questo, non è naturalmente un fatto nuovo, ma è così fin dagli inizi della Chiesa, o quasi. E per questo, c’è certamente un motivo, perché i Salmi hanno un valore tutto speciale nel nostro immaginario religioso. Vorrei suggerire quattro motivi di riflessione per farci riscoprire i Salmi nelle nostre liturgie. 1. I Salmi sono Parola di Dio. Certamente, abbiamo altri libri della Bibbia in cui Dio si parla, ma i salmi hanno un valore tutto speciale. In essi Dio ci consegna un modo con cui possiamo rivolgerci a Lui. Spesso, nelle nostre liturgie moderne, sembra che bisogna soltanto pretendere allegria, spensieratezza, gioia (o presunta tale); ma nei Salmi noi abbiamo tutto l’arco delle emozioni umane, dalla gioia all’angoscia. In essi Dio ci insegna che la vita non è solo gioia, come non è solo angoscia; essi ci parlano con tutto l’arco possibile delle emozioni

umane, si rivolgono a quello che Paolo VI chiamava “l’uomo integrale”. 2. I Salmi elevano le nostre miserie. È vero che i Salmi parlano di tutte le nostre emozioni, comprese le nostre miserie. Ma il linguaggio poetico con cui affrontano queste situazioni, le sublima, le eleva, le rende in un certo senso meno dolorose e più sopportabili. La poesia dei Salmi, è stata oggetto di tantissimi studi, perché essa non è semplicemente poesia fine a se stessa, ma parola che diviene così intensa da penetrare nell’animo di chi ascolta con efficacia maggiore. Nei Salmi le miserie umane sono tutte presente, ma c’è come una mano che le tiene quasi in alto, senza farle sprofondare e noi con loro. 3. I Salmi ci insegnano a cantare. Non possiamo dimenticare che i Salmi erano cantati. Quando li leggiamo, possiamo vedere che nelle prime righe sono indicati di solito gli autori, gli strumenti con cui potevano venire eseguiti, e addirittura la melodia su cui venivano cantati. I Salmi devono essere cantati, perché il canto non è semplicemente un passatempo, un qualcosa di accessorio; ma è il modo con cui la nostra anima riesce veramente ad elevarsi dalla sua condizione terrena. Ecco perché la situazione del canto nella nostra liturgia ai giorni nostri non è semplicemente triste, ma si configura come una tragedia vera e propria. Questa povertà, questa miseria, ci priva di uno strumento fondamentale per poter dirigere la nostra preghiera nel modo più giusto ed efficace al Creatore. Bisogna riflettere proprio sui Salmi, per riscoprire l’importanza del canto nella liturgia, ma non ogni canto, ma quel canto che è dedicato alle cose di Dio e non è riciclato dalle cose terrene. 4. I Salmi ci connettono con la Tradizione liturgica. La Chiesa, fin quasi dagli inizi, ha sempre favorito l’uso dei Salmi nella liturgia. Sappiamo che i Salmi furono sempre sulla bocca dei cristiani, fin dai tempi apostolici. Tertulliano, ci parla di questo, come altri autori. Ma quando la Chiesa ha potuto organizzare la propria liturgia in modo più organico, scelse versetti dai Salmi, per arricchire i vari momenti liturgici, come l’introito, il graduale, l’offertorio, la comunione e via dicendo. I Salmi sono un linguaggio liturgico da generazioni fino a connetterci ai nostri padri nella fede. Essi sono un tesoro della nostra Tradizione liturgica. La scomparsa, nella pratica, del canto dei testi contenuti nel messale per le varie antifone di introito e comunione, e per il canto d’offertorio, è veramente un segno della difficile situazione in cui ci troviamo a vivere.

Cantare comunque a Messa? Una obiezione

Abbiamo già incontrato il beato Giuseppe Allamano (1851-1926) che diceva: “La liturgia ben fatta ha operato conversioni; se mal fatta le impedisce“. In effetti, qui il quesito è: a Messa va bene tutto, basta che si canti? Vediamo che in molte chiese, non ci si cura della qualità di quello che si canta, basta che si canti qualcosa, basta che i fedeli siano “intrattenuti” con qualche tipo di musica, anche se essa è non adeguata all’azione liturgica. Allora, bisogna domandarsi se questo modo di ragionare faccia bene allo scopo dell’azione liturgica oppure no. La mia risposta, lo dico dall’inizio, e che e meglio delle Messe senza musica, piuttosto che liturgie dove la musica disturba. Qui ci riferiamo a Messe nella forma ordinaria del rito romano, nella Messa tradizionale c’è certamente più attenzione a questo aspetto. Se si partecipa alla liturgia per trovare quel senso di adorazione, quel senso del sacro, quell’essere alla presenza del Signore, certamente una musica non adeguata, cantata male, biascicata, trascinata senza nessun gusto, smielata, sentimentalistica, non aiuta a raggiungere quello che è lo scopo fondamentale della liturgia, che come sappiamo è la gloria di Dio in primis e poi la santificazione dei fedeli. Si dovrebbe avere molta attenzione sulla qualità della musica della liturgia. Qui non ne faccio una questione di lingue vernacolari o latino, ne faccio proprio una questione di buon gusto. Alcune volte, i canti che vengono eseguiti, il modo in cui vengono eseguiti, fa veramente distogliere dall’acquisire quel senso di preghiera che si dovrebbe raggiungere, fa piuttosto pensare ad uscire di lì il prima possibile. A volte mi capita di girare per varie chiese nella mia Roma, e devo dire che in alcune Messe si esce peggio di quello che si è entrati, tanto mediocre è la qualità del canto liturgico. Ricordiamo che il canto liturgico non è un accessorio della liturgia, ma parte integrante. Quindi, se il canto è scadente, incide anche sulla qualità della nostra partecipazione alla liturgia. Ho trovato recentemente una chiesa in cui la Messa viene detta senza nessun canto, tranne quello dell’alleluia; il sacerdote tiene omelie brevi e molto ortodosse e devo dire che questa situazione è di gran lunga preferibile a quella di gran parte delle Messe parrocchiali. Il problema, è che oramai si è veramente perso lo standard. La gran parte dei

sacerdoti, non ha idea di quello che è canto liturgico e di quello che non lo è. Alcuni vagheggiano un ammodernamento dei canti, come se quello che è stato fatto da cinquant’anni a questa parte, con la introduzione fattiva della musica leggera nella liturgia, non avesse già prodotto abbastanza danni. Io credo che sia l’ora di svegliarsi! Le chiese sono vuote, malgrado tutti i cantarelli che si sono diffusi nelle nostre liturgie. Tutto questo non è servito, e non poteva, visto che andava nella direzione contraria a quello che la liturgia esige. Lo scopo della liturgia è stato messo da parte, per una malintesa volontà di “coinvolgere i fedeli“. In realtà, tutto quello che è venuto da questi decenni, non ha fatto che distruggere nei fedeli stessi il senso della liturgia il senso del sacro, il senso dell’adorazione, del silenzio, dell’inginocchiarsi, della devozione. Quindi, quei pochi fedeli che ancora vanno a messa, sono quasi del tutto depauperati della capacità di comprendere cosa è liturgico e cosa non lo è. Non si canta nella liturgia tanto per cantare. Il canto è un ministero specifico, che ha finalità specifiche, se queste non sono raggiunte per la bassa qualità del canto o della sua esecuzione, meglio il silenzio, meglio non distogliere i fedeli con delle musiche inadeguate o inadeguatamente eseguite. Ricevendo un dottorato in musica nel 2015, Benedetto XVI faceva, tra l’altro, questa riflessione: “Certo, la musica occidentale supera di molto l’ambito religioso ed ecclesiale. E tuttavia essa trova comunque la sua origine più profonda nella liturgia nell’incontro con Dio. In Bach, per il quale la gloria di Dio rappresenta ultimamente il fine di tutta la musica, questo è del tutto evidente. La risposta grande e pura della musica occidentale si è sviluppata nell’incontro con quel Dio che, nella liturgia, si rende presente a noi in Cristo Gesù. Quella musica, per me, è una dimostrazione della verità del cristianesimo. Laddove si sviluppa una risposta così, è avvenuto un incontro con la verità, con il vero creatore del mondo. Per questo la grande musica sacra è una realtà di rango teologico e di significato permanente per la fede dell’intera cristianità, anche se non è affatto necessario che essa venga eseguita sempre e ovunque. D’altro canto è chiaro però anche che essa non può scomparire dalla liturgia e che la sua presenza può essere un modo del tutto speciale di partecipazione alla celebrazione sacra, al mistero della fede“. Invece oggi, quasi ci si vergogna di questa eredità, la si considera qualcosa da tenere nascosta, per fare spazio alle “esperienze nuove“. Peccato che queste esperienze siano spesso contrarie ai fini stessi della liturgia, non siano per nulla adeguate ad una partecipazione viva e piena alla stessa. Purtroppo, c’è stato un fraintendimento enorme in questo senso. La liturgia è stata abbandonata alle mode, la musica e stata data in mano a

degli incompetenti, a persone che hanno forse artatamente fatto in modo che il livello della musica liturgica fosse basso in modo che le loro produzioni avrebbero comunque avuto un posto. Ho molte volte detto, che la lotta contro il professionalismo del musicista di chiesa, non è stata forse fatta in modo innocente. Infatti, un musicista formato, ha una mente molto più critica e quindi “pericolosa“ per coloro che non vogliono avere nessuno tra i piedi a rovinare i “giochi“. In questo modo, senza professionisti tra i piedi, tutto viene accettato. La Chiesa poi, ha rinunciato alla sua funzione educatrice. Ricordiamo, come diceva anche il Papa Benedetto XVI in precedenza, che non solo la Chiesa favoriva la produzione di grande musica per la liturgia, grande arte, grande pittura, grande architettura, ma in questo modo era la più grande promotrice della cultura occidentale in toto. Quindi, questa funzione che la Chiesa aveva in precedenza, oggi è stata completamente abbandonata. Si rincorrono mode, senza mai raggiungerle perché queste, per la loro evanescenza, corrono più veloci di noi. Quindi, ribadisco, in una situazione di emergenza e transizione come quella in cui ci troviamo negli ultimi decenni, è meglio cercare di salvare il salvabile per quello che riguarda la propria anima. Se sia una vera sensibilità liturgica, se si cerca il sacro, se si vuole il senso dell’educazione, allora meglio limitare i danni, cercare liturgie dove non ci sia canto. Certamente, se si è fortunati, e si trova una Messa dove il canto viene ben curato e ben eseguito, si è a cavallo. Ma questa oggi è una vera rarità.

Canto e memoria

Tempo fa ho avuto il piacere di incontrare e pranzare con Marcel Peres, animatore dell’Ensemble Organum, specializzato nell’esecuzione di musica antica, incluso il canto gregoriano e il canto romano antico, in un modo diverso e più “etnomusicologico” rispetto alla tradizione solesmense. È stata una conversazione affascinante, che ha toccato molti temi, una conversazione che sicuramente mi ha dato il modo di approfondire alcuni argomenti musicologici che comunque già erano presenti nella mia mente, in quanto io seguo il lavoro di questo musicista da più di vent’anni. Uno dei temi che si è toccato è quello del

rapporto con la memoria. Noi sappiamo che anticamente, non essendoci notazione musicale, quello che veniva eseguito, veniva eseguito seguendo la memoria. Quindi, questo concetto di esecuzione del canto gregoriano come se i cantori avessero di fronte uno spartito, nel senso moderno, è fuorviante. Racconto sempre un episodio che è accaduto molti anni fa, mentre seguivo la Messa in una chiesa di campagna. Durante la messa, i fedeli avevano eseguito alcuni canti di quelli del dopo concilio, canti comuni nei repertori di molte parrocchie. Ma alla fine le donne, contadine, cantarono un O bella mia speranza, con un tipo di melodia che avevano un inflessione e un andamento veramente popolari, con quel ritmo che non è esattamente metrico, ma che ha una sua logica interna. Io immagino che l’esecuzione di quel canto, sia stata diversa per ogni volta che veniva cantato, diremmo oggi spontanea. Non credo che gli esecutori si riferissero a nessuna fonte scritta per la loro esecuzione, ma usavano questa melodia che probabilmente le loro madri cantavano prima di loro e la variavano una infinità di volte. Come mi diceva Peres, oggi siamo abituati che a una nota scritta corrisponde un suono, ma anticamente non c’era questo. Anche i greci, nel loro canto, applicavano delle regole, nomoi, a melodie che erano strutture melodiche che potevano essere variate ad libitum. Non esisteva la figura del compositore che aveva il diritto di essere capito nelle sue intenzioni quando si eseguiva la sua musica, questa figura verrà molto più tardi, già nel secondo millennio dell’era cristiana. Un contributo di Giulia Pratelli su exagere.it dice: “Il rapporto tra musica e memoria è infatti molto stretto e si svolge non solo sul piano personale, ma anche su quello collettivo: la musica svolge una funzione importantissima anche per la memoria sociale, diventando una vera a propria fonte di informazioni storiche, un prezioso strumento per il ricordo e la ricostruzione di avvenimenti, usanze, sentimenti diffusi in particolari periodi del passato. (...) Da sempre, attraverso la musica sono stati riportati e tramandati numerosi eventi. Facendo un salto indietro nel tempo, potremmo ricordare la figura dei bardi, i cantori itineranti celtici, che, nel XV secolo, cantavano leggende ma anche grandi imprese, testimonianze di episodi realmente accaduti (molto spesso, sicuramente, ingigantendoli per renderli più accattivanti). Il loro compito fondamentale era infatti quello di raccontare cosa fosse accaduto in terre lontane al fine di informare e diffondere le notizie, anche a coloro che per motivi geografici non potevano venire autonomamente a conoscenza dell’accaduto. Anche in epoche molto più recenti le canzoni sono state utilizzate per raccontare avvenimenti, diffondere ideologie e pensieri politici, idee di rivolta, di ribellione,

grazie anche al maggior coinvolgimento emotivo che deriva dall’unione tra le parole e la musica, dal canto corale. È ad esempio quello che è accaduto nella seconda metà del XIX secolo negli Stati Uniti d’America del Sud, con la nascita del blues. Senza avere in questa sede modo e tempo per approfondire gli aspetti musicali di questo importantissimo genere, possiamo brevemente ricordare quanto accadde intorno alla fine del XVIII secolo, quando ebbe inizio la deportazione degli schiavi, dalle colonie africane al territorio americano, affinché svolgessero lavori pesanti, spesso in condizioni disumane, degradanti. Fu proprio l’incontro tra la musica, in particolar modo il canto, e il sentimento di oppressione, di angoscia e di dolore a dare origine ad un nuovo genere musicale che avrebbe avuto nel tempo una fortuna incredibile. I canti blues, inizialmente accompagnati dal solo battito delle mani, nacquero proprio dalla consapevolezza degli schiavi africani di essere diventati neri americani, come grida di dolore, lamenti che denunciavano la fatica e la mortificazione determinate dalle condizioni di vita e di lavoro nei campi. La musica era un elemento essenziale della vita degli schiavi africani: caratterizzava i momenti di preghiera, di svago ma anche di lavoro. Fu naturale che in essa convergesse la necessità di raccontare la propria condizione svantaggiata ed esprimere con forza la disperazione che da essa derivava, lasciando sempre uno spazio per la speranza di un domani migliore, soprattutto dopo la conversione al cristianesimo che determinò l’incontro e la contaminazione tra la particolare sensibilità musicale degli schiavi neri e gli elementi biblici, dando origine alla nascita degli spiritual. Anche in seguito all’emancipazione degli schiavi dopo la vittoria degli Stati del Nord nel 1865, la condizione dei neri americani rimase critica e il blues mantenne la sua natura di canto di dolore e di speranza, utilizzato dai neri americani per esprimere e raccontare la condizione di svantaggio in cui continuavano a trovarsi, essendo vittime di discriminazione e dovendo lottare per l’affermazione dei propri diritti”. Ecco, proprio questo esempio del blues, del jazz, ci fa considerare nel modo appropriato il ruolo della memoria. Gli “spartiti” di jazz o blues, sono canovacci; sappiamo quanto sia importante il ruolo dell’improvvisazione. Gaetano Manara in Modelli e trame dell’improvvisazione musicale dice: “L’improvvisazione artistica è una prassi estetica di notevole interesse. Essa, infatti, vive la dimensione della spontaneità più di qualsiasi altra forma artistica. Se l’arte è in grado di farci comprendere qualcosa sull’uomo, non ovviamente dal punto di vista del pensiero matematico-scientifico, ma dal punto di vista di un modo di pensare diverso che è quello estetico, ecco che l’improvvisazione dirà ciò che dell’uomo aderisce di più al suo animo. A differenza di una qualsiasi operazione artistica la cui genesi può avere anche una notevole durata e non avviene sotto la pressione di un pubblico,

l’improvvisazione vivendo nell’immediatezza, fa cadere tutti i filtri e i ripensamenti che si possono frapporre tra l’artista e le sua opera nel corso di un lungo periodo decisionale. L’improvvisazione ci parla della spontaneità dell’essere umano”. Ecco, è esattamente questa dimensione che abbiamo perduto, forse per sempre.

Sul suono dell’organo in Quaresima

Giunti in tempo di Quaresima, si pone per alcuni la questione del suono dell’organo. Questa, è una questione che in fondo dovrebbe essere ponderata, prima di prendere decisioni che vanno contro la prassi e la tradizione della Chiesa. Nella Musicam Sacram viene detto: “Nelle Messe cantate o lette si può usare l’organo, o altro strumento legittimamente permesso per accompagnare il canto della «schola cantorum» e dei fedeli; gli stessi strumenti musicali, soli, possono suonarsi all’inizio, prima che il sacerdote si rechi all’altare, all'offertorio, alla comunione e al termine della Messa. La stessa norma vale, fatte le debite applicazioni, anche per le altre azioni sacre. Il suono, da solo, di questi stessi strumenti musicali non è consentito in Avvento, in Quaresima, durante il Triduo sacro, nelle messe e negli uffici dei defunti. È indispensabile che gli organisti e gli altri musicisti, oltre a possedere un’adeguata perizia nell’usare il loro strumento, conoscano e penetrino intimamente lo spirito della sacra liturgia in modo che, anche dovendo improvvisare, assicurino il decoro della sacra celebrazione, secondo la vera natura delle sue varie parti, e favoriscano la partecipazione dei fedeli”. Quindi, in Quaresima non si può suonare l’organo come strumento solistico, ma esso,può solo sostenere il canto. Nell’Ordinamento Generale del Messale Romano si osserva: “L’organo e gli altri strumenti musicali legittimamente ammessi siano collocati in luogo adatto, in modo da poter essere di appoggio sia alla schola sia al popolo che canta e, se vengono suonati da soli, possano essere facilmente ascoltati da tutti. È conveniente che l’organo venga benedetto prima di esser destinato all’uso liturgico, secondo il rito descritto nel Rituale Romano . In tempo d’Avvento l’organo e altri strumenti musicali siano usati con quella moderazione che conviene alla natura di questo tempo, evitando di anticipare la gioia piena della Natività del Signore. In tempo di Quaresima è permesso il suono dell’organo e di altri strumenti musicali soltanto per sostenere il canto. Fanno eccezione tuttavia

la domenica Laetare (IV di Quaresima), le solennità e le feste”. Insomma, anche qui viene ribadita la regola che l’organo, come strumento solista, a parte alcune eccezioni, non può essere suonato in Quaresima. In un interessante articolo di Gian Vito Tannoia su psallite.net, L’Organo in Quaresima, vengono dati alcuni suggerimenti per l’uso di questo strumento in questo tempo: “Evitare la monocromìa liturgico-musicale significa, per l'organista, graduare sapientemente i registri e la fonica (nel rispetto delle forme liturgiche dei canti che si accompagnano), pur tenendo conto delle solennità/feste che possono coincidere con il periodo quaresimale (S. Giuseppe, Annunciazione, ecc.). Si tratta di “pensare” a ritroso e camminare verso le “sonorità pasquali”, in crescendo, sino al culmine della Veglia di Pasqua”. Questa idea del cammino verso la Pasqua, anche da un punto di vista musicale, è importante. La Pasqua è il culmine dell’anno liturgico, quindi una sana pedagogia di preparazione che tenga conto del ruolo della musica nella liturgia, è certamente una buona idea. Il fatto che la Chiesa suggerisca di non suonare come strumento solista l’organo in Quaresima, va inteso come una grande valorizzazione del ruolo di questo strumento, non certamente come una sorta di diminuzione. Infatti, possiamo vedere in questo un certo parallelo, anche se è molto alla larga, rispetto a quello che fu fatto dagli ebrei al momento della caduta del Tempio di Gerusalemme. Nel Tempio di Gerusalemme, la musica era sfarzosa, festosa, eseguita da tanti strumenti e cantori. Ma caduto il Tempio, la musica si mutò in quella semplice ed essenziale eseguita nelle sinagoghe. Questa musica, come suggeriva lo studioso Enrico Fubini, è il segno di un’assenza, segno di un dolore per la perdita del cuore, del centro del loro culto, il tempio. La Quaresima, che sfocia nella Pasqua, è non di meno via dolorosa; è tempo favorevole in cui noi ci poniamo di fronte al mistero del dolore, del sacrificio, della passione. Ecco che il tono gioioso che il suono dell’organo può aggiungere, in questo momento viene messo da parte proprio per favorire la comprensione di questo senso di assenza, di mancanza. Il fatto di concedere l’uso dell’organo solo per accompagnare il canto, è in realtà una disposizione pratica. L’organo, in questo momento, viene quasi “messo da parte” proprio per significare quella maggiore austerità che ci guida verso la contemplazione della passione, morte e risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo. In un articolo chiamato L’ambiente liturgico in tempo di Quaresima, in liturgiaculmenetfons.it, a cura della redazione, parlando dell’uso dei fiori viene

detto: “Anche l’assenza dei fiori costituisce un segno tipico della Quaresima. Sono permesse tuttavia piante verdi. Questa norma non è formalismo, ma uno strumento educativo, affinché i fedeli siano richiamati visivamente all’austerità del cuore, della mente e della vita in vista di una purificazione dello spirito, mediante la penitenza e la conversione. L’assenza dei fiori richiama il deserto biblico, che riporta l’uomo all’essenzialità delle cose, richiama l’attenzione a ciò che ha valore e dispone alla verifica dei fondamenti stessi dell’esistenza umana e cristiana. Occorre naturalmente condurre i fedeli dal segno al suo significato e continuamente educarli alla lettura spirituale del linguaggio simbolico previsto dalla liturgia, in vista della applicazione nella vita del messaggio che nei segni è offerto. E’ questo il compito della catechesi liturgica, che ripropone oggi l’antica mistagogia dei Padri: attraverso i riti e le preci avviene l’iniziazione al mistero. E’ tuttavia necessario che l’austerità quaresimale sia un segno vero, motivato ed incisivo. Affinché sia vero, occorre che sia realizzato con determinazione e buon gusto. Perché sia incisivo, bisogna curare una reale assenza di fiori, che non ammette eccezioni in occasione di funerali, matrimoni o altre evenienze. I fiori che vengono portati in queste circostanze devono essere tolti dopo la celebrazione e trasferiti fuori dell’ambito della chiesa. Anzi sarà opportuno che i parroci spieghino per tempo ai fedeli il senso del segno dell’austerità quaresimale, li invitino alla sobrietà e li orientino a devolvere il denaro in opere di carità. E’ tuttavia conveniente che una sobria presenza di fiori metta in evidenza la croce penitenziale nella seconda domenica di Quaresima, per dar espressione alla luce della risurrezione, che già risplende nella gloria della trasfigurazione”. Come spiega bene questo articolo, i simboli, che siano essi visivi o auditivi, hanno una grande importanza per una efficace pedagogia liturgica. I simboli non sono qualcosa di accessorio, ma sono il modo in cui l’uomo comprende, in cui è messo in grado di immergersi in una ragnatela di significati che altrimenti potrebbero sfuggirgli.

Canti allegri e canti tristi

Ho un’esperienza che va molto indietro nel tempo per quanto riguarda il servizio liturgico e musicale nelle chiese, specialmente a Roma. Da quando ero adolescente, quindi molti anni fa, mi capitava di suonare, dirigere, cantare, comporre musica per moltissime chiese nella mia Roma. Io, per età, sono stato

naturalmente attivo in questi anni del dopo concilio, quindi ne ho subito tutte le conseguenze. Una delle cose che mi ha sempre colpito, era la richiesta di fare dei canti “allegri“. Ora, questa richiesta, anche in tempi in cui magari ero meno preparato in questi argomenti, mi faceva sempre pensare. Perchè bisogna fare i canti allegri? Dopo, con un po’ con più di riflessione e di studio, ho capito che questa richiesta era soltanto il frutto di una cattiva comprensione del ruolo della musica nella liturgia. In effetti, bisognerebbe capire che non usiamo la musica nella liturgia come intrattenimento. Se fosse così, allora fare dei canti allegri sarebbe giusto. Ma sarebbe giusto solo per un certo tipo di intrattenimento, per esempio per il cabaret. Ma non possiamo ridurre la liturgia a cabaret. Ricordo alcuni decenni fa, dovevo suonare a un funerale in una bellissima chiesa del centro di Roma, e il celebrante, oggi prelato noto a livello internazionale, mi raccomandò di suonare delle cose allegre perché la gente era già triste di suo. Anche in quel tempo, in cui, ripeto, ero certamente meno formato, questa richiesta mi parve assurda, proprio perché capivo che in questo modo veniva tradito il compito specifico della musica nella liturgia. La musica nella liturgia, non deve essere né triste, né allegra, ma austera. Questo, perché deve adeguarsi alla sacralità dell’azione che si va compiendo in quel momento. Quindi, quando si parla della musica liturgica e si dice che bisogna fare dei canti allegri, si sta solo cercando di fare dell’intrattenimento. Questo è un tradimento profondo dello spirito della liturgia stessa, perché ricordiamo che musica e liturgia sono intimamente connesse. Il noto scrittore Camillo Langone, recensendo un mio volume sul canto liturgico nel 2013, ebbe a dire: “Santa Cecilia, prega per Aurelio Porfiri che essendo un musicista romano fedele a Santa Romana Chiesa vive e lavora a Macao. Nel “Canto dei secoli” (Marcianum Press) scrive ovviamente di musica sacra ma presenta criteri validi per giudicare la cattolicità di ogni altro linguaggio artistico, pittura e architettura comprese. La chiesa, dice Porfiri, dev’essere contenuto e non contenitore: ad esempio, l’organo è il suono della chiesacontenuto (essendo intrinseco al sacro), la chitarra della chiesa-contenitore (essendo intrinseca alla musica profana e gettata nella liturgia dall’esterno). Ma la pagina che preferisco è la numero 80, laddove l’oggettività si fa anche soggettività, anche gusto. Porfiri è contrario a una musica liturgica che dia sempre e comunque una “rappresentazione della vita come gioia”. Anche a me, in chiesa, la musica gioiosa rende nervoso. Santa Cecilia, prega per noi poco amati amanti della musica liturgica austera, severa, perfino triste, noi che in chiesa cerchiamo ragione del dolore perché le ragioni del piacere si trovano

dappertutto“. Ho sempre trovato questa ultima frase è molto bella, non tanto perché detta in riferimento al mio libro, ma perché penso che dica una profonda verità: ridurre la musica liturgica soltanto a espressione di una vaga idea di “”gioia”, è veramente tradirne lo scopo, e non comprendere l’uomo nella sua totalità, che è anche gioia, ma non solo. Oltretutto, come detto in precedenza, la musica nella liturgia non è espressione di alcune identità particolari, come quelle di coloro che partecipano; ma è sforzo di santificazione che guarda sempre allo splendore di Dio. Chi cerca l’intrattenimento nella liturgia, il divertimento, la musica per poter battere i piedi, ha completamente frainteso la funzione del rito liturgico nella nostra vita cristiana. Questo fraintendimento, purtroppo, non è un fenomeno isolato; anche al di fuori della musica, molti sacerdoti si comportano da intrattenitori, riempendo la Messa di discorsi che la stessa non richiederebbe. Molti sacerdoti dicono che le loro “monizioni“, servirebbero per rendere più chiaro lo svolgimento della liturgia ai fedeli. Ma, io mi chiedo, se dopo più di cinquant’anni devi ancora spiegare la liturgia ai fedeli, allora non è vero che la riforma liturgica ha reso la stessa più comprensibile. Se ci devi dire al momento del Padre nostro, che “stiamo per pregare il Padre nostro”, sembra che non sei convinto neanche tu di questa riforma liturgica, e non saresti il solo. Insomma, non bisogna cadere nell’errore di far divenire la liturgia un intrattenimento, e quindi favorire una musica cosiddetta allegra, perché forse si passerà una buona ora in compagnia di alcuni amici cantando delle canzoni che si trovano piacevoli, perché in questo modo si sarà completamente mancato lo scopo ed il motivo per cui si era in quel luogo.

La diffusione degli spartiti tramite i social

Come sa bene chi mi segue, io sono tra quelli che sostiene che una delle rovine per la musica sacra è derivata dall’aver scoraggiato il professionalismo nei musicisti di Chiesa, non supportando coloro che dedicano lunghi anni di studio e fatica alla musica sacra. Ho scritto molti articoli su questo tema e un libro. Ora, noto che in alcuni social, come in alcuni gruppi di Facebook, è invalsa la pratica di chiedere spartiti di edizioni ancora in commercio. Queste persone, magari sono le stesse che si scandalizzano quando si dice che un’organista, un

compositore, un direttore, un cantore, deve essere pagato. Eppure non si scandalizzano allo stesso modo pensando al fatto che stanno sottraendo la giusta mercede all’operaio, che sia il compositore, l’editore o tutti coloro che sono stati impegnati nella produzione di quel prodotto. Senza contare poi che commettono un reato. È molto interessante fare i moralisti con gli altri ma non applicare lo stesso metro a se stessi. Pensare che tutto deve essere gratuito è un’idea profondamente sbagliata e ingiusta. I libri liturgici usati, i messalini, i fiori per adornare gli altari, l’elettricità…tutto viene pagato. Ho sentito anche un’opinione per cui Dio ti ha dato il tuo talento gratuitamente e quindi non devi esigere compenso, facendo notare che questo pensiero vale non solo per il talento musicale, ma per tutti i talenti, compresi quelli di insegnanti, medici e sportivi. Coloro che sono così spirituali con i musicisti di Chiesa, applicherebbero la loro “spiritualità” anche a sè stessi? Se un autore vuole diffondere come promozione alcuni suoi lavori gratuitamente, è una sua scelta e va bene così. Ma se sceglie di diffonderli commercialmente va rispettato il copyright, il diritto commerciale e anche il senso morale che alcuni sono così bravi a rinfacciare agli altri ma meno ai propri comportamenti.

Andrò all’altare di Dio

Ci sono forse poche questioni controverse e dibattute come quella dell’altare e del suo orientamento liturgico. Libri, saggi, dibattiti, hanno posto in luce come sulla questione dell’altare e dell’orientamento dello stesso si sono spese milioni di parole. Se osserviamo quanto viene detto sull’altare nell’Ordinamento Generale del Messale Romano troviamo quanto segue (296-308, sottolineature mie): “L’altare, sul quale si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce, è anche la mensa del Signore, alla quale il popolo di Dio è chiamato a partecipare quando è convocato per la Messa; l’altare è il centro dell’azione di grazie che si compie con l’Eucaristia. La celebrazione dell’Eucaristia, nel luogo sacro, si deve compiere sopra un altare; fuori del luogo sacro, invece, si può compiere anche sopra un tavolo adatto, purché vi siano sempre una tovaglia e il corporale, la croce e i candelabri. Conviene che in ogni chiesa ci sia l’altare

fisso, che significa più chiaramente e permanentemente Gesù Cristo, pietra viva ( 1Pt 2,4; cf. Ef 2,20); negli altri luoghi, destinati alle celebrazioni sacre, l’altare può essere mobile. L’altare si dice fisso se è costruito in modo da aderire al pavimento e non poter quindi venir rimosso; si dice invece mobile se lo si può trasportare. L’altare sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo: la qual cosa è conveniente realizzare ovunque sia possibile. L’altare sia poi collocato in modo da costituire realmente il centro verso il quale spontaneamente converga l’attenzione dei fedeli. Normalmente sia fisso e dedicato. L’altare, sia fisso che mobile, sia dedicato secondo il rito descritto nel Pontificale Romano; tuttavia l’altare mobile può essere solamente benedetto. Secondo un uso e un simbolismo tradizionali nella Chiesa, la mensa dell’altare fisso sia di pietra, e più precisamente di pietra naturale. Tuttavia, a giudizio della Conferenza Episcopale, si può adoperare anche un’altra materia degna, solida e ben lavorata. Gli stipiti però e la base per sostenere la mensa possono essere di qualsiasi materiale, purché conveniente e solido. L’altare mobile può essere costruito con qualsiasi materiale di un certo pregio e solido, confacente all’uso liturgico, secondo lo stile e gli usi locali delle diverse regioni. Si mantenga l’uso di deporre sotto l’altare da dedicare le reliquie dei Santi, anche se non martiri. Però si curi di verificare l’autenticità di tali reliquie. Nelle nuove chiese si costruisca un solo altare che significhi alla comunità dei fedeli l’unico Cristo e l’unica Eucaristia della Chiesa. Nelle chiese già costruite, quando il vecchio altare è collocato in modo da rendere difficile la partecipazione del popolo e non può essere rimosso senza danneggiare il valore artistico, si costruisca un altro altare fisso, realizzato con arte e debitamente dedicato. Soltanto sopra questo altare si compiano le sacre celebrazioni. Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l’attenzione dei fedeli dal nuovo altare. Per rispetto verso la celebrazione del memoriale del Signore e verso il convito nel quale vengono presentati il Corpo e il Sangue di Cristo, si distenda sopra l’altare sul quale si celebra almeno una tovaglia di colore bianco, che sia adatta alla struttura dell’altare per la forma, la misura e l’ornamento. Nell’ornare l’altare si agisca con moderazione. Nel tempo d’Avvento l’altare sia ornato di fiori con quella misura che conviene alla natura di questo tempo, evitando di anticipare la gioia piena della Natività del Signore. Nel tempo di Quaresima è proibito ornare l’altare con fiori. Fanno eccezione tuttavia la domenica Laetare (IV di Quaresima), le solennità e le feste. L’ornamento dei fiori sia sempre misurato e, piuttosto che sopra la mensa dell’altare, si disponga attorno ad esso. Infatti sopra la mensa dell’altare possono disporsi solo le cose richieste per la celebrazione della Messa: l’Evangeliario dall’inizio della celebrazione fino alla proclamazione del Vangelo; il calice con

la patena, la pisside, se è necessaria, il corporale, il purificatoio, la palla e il Messale, siano disposti sulla mensa solo dal momento della presentazione dei doni fino alla purificazione dei vasi. Si collochi pure in modo discreto ciò che può essere necessario per amplificare la voce del sacerdote. I candelabri, richiesti per le singole azioni liturgiche, in segno di venerazione e di celebrazione festiva (Cf. n.117), siano collocati o sopra l’altare, oppure accanto ad esso, tenuta presente la struttura sia dell’altare che del presbiterio, in modo da formare un tutto armonico; e non impediscano ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare. Inoltre vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato. Conviene che questa croce rimanga vicino all’altare anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche, per ricordare alla mente dei fedeli la salvifica Passione del Signore”. Ci sarebbero veramente tantissime cose da dire su queste disposizioni, che implementano una certa visione della riforma liturgica non completamente prevista dalla costituzione conciliare. Una delle questioni è appunto proprio quella dell’orientamento dell’altare. Comunque, viene anche qui ribadito l’importanza del ruolo dell’altare. Nella Enciclopedia delle Religioni diretta da Mircea Eliade, in un articolo scritto da Carl-Martin Edsman (1911-2010) viene detto sull’altare che, sia nel latino che nel greco, il significato si riferisce ad un “luogo elevato” e la derivazione di questa parola sarebbe, in latino, dal verbo adolere, con il significato di “adorare, luogo per il fuoco, focolare per il sacrificio”. Nell’antico Egitto, prosegue l’autore, c’era una distinzione fra altari mobili e altari fissi, ma soltanto questi ultimi erano considerati oggetti sacri. San Paolo, in 1Cor 10, 19-23 dice: “Che cosa dunque intendo dire? Che la carne immolata agli idoli è qualche cosa? O che un idolo è qualche cosa? No, ma dico che i sacrifici dei pagani sono fatti a demòni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demòni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. O vogliamo provocare la gelosia del Signore? Siamo forse più forti di lui? "Tutto è lecito!". Ma non tutto è utile! "Tutto è lecito!". Ma non tutto edifica”. Come vediamo, c’è in Paolo questa forte distinzione fra i sacrifici pagani e il nuovo sacrificio nel nome di Cristo. Una distinzione, che non intende denigrare tanto quanto compiuto in epoca pagana, ma mostrare che Cristo portava a compimento tutte le promesse e rivelava la verità valida per tutti. E l’idea di altare, come abbiamo visto in precedenza, c’è questo senso di “luogo che sta in alto“ e “luogo del sacrificio“. Spesso accade, anche nei nostri canti

liturgici degli ultimi decenni, che si fa riferimento all’altare come il luogo attorno a cui ci si raduna. Ma in questo senso dobbiamo stare attenti, perché sembra quasi che il centro dell’attenzione sia sull’assemblea, non tanto sul luogo del sacrificio. “Al tuo santo altar, mi appresso o Signor, mia gioia e mio amor”; in questo caso, in questo canto è che va già molto indietro nel tempo, l’enfasi rimane sempre sull’altare che rimane un riferimento, dove il fedele si affretta. Ma in molti canti che fanno riferimento al radunarsi intorno alla mensa e mettono l’enfasi sui fedeli piuttosto che sul sacrificio, si tradisce non solo la funzione dell’altare ma anche quella della liturgia che, come dobbiamo sempre ricordare, non è quella di far radunare un certo numero di persone ma quella di dare gloria a Dio e successivamente e in conseguenza di edificare i fedeli. Non possiamo edificarci su noi stessi, Dovremmo sempre pensare a questo quando pensiamo non sono il nostro ruolo nella liturgia, ma anche al ruolo dei vari elementi liturgici, come per esempio l’altare di cui stiamo parlando. Quindi, questa enfasi sull’assemblea è del tutto fuori luogo. Ma se l’altare è luogo privilegiato, non dimentichiamo che l’altare più sublime è la croce. Ben lo spiega dom Prosper Guéranger commentando la festa di Cristo Re: “Meglio che nelle altre preghiere del santo sacrificio, nel Prefazio è proposta alla fede e alla pietà dei credenti l'esatta nozione teologica della regalità di Cristo. Come Figlio unico del Padre, al quale è coeterno e consostanziale, il Verbo incarnato comunica alla sua santa umanità, in virtù dell'unione ipostatica, la doppia unzione divina del Sacerdozio e della Regalità. In virtù del sacrificio redentore sull'altare della Croce, come per la nascita eterna, egli sottomette al suo indistruttibile imperio tutte le creature in un regno di Verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore, di pace" (P. de la Brière, Études, t. 186, p. 358)”. In una intervista a Lorenzo Bertocchi su La Nuova Bussola Quotidiana, don Nicola Bux fa questa osservazione: “Benedetto XVI aveva proposto e attuato, laddove il sacerdote non potesse celebrare rivolto fisicamente ad Oriente, di mettere la Croce sull’altare “verso il popolo” in modo che celebrante e fedeli avessero il punto verso cui orientarsi entrambi. La Croce e soprattutto il Tabernacolo, stanno ad indicare la Presenza del Signore crocifisso e risorto, che è quanto di più sacro ci sia e che rende la liturgia 'sacra', come recita la Costituzione liturgica. In poche parole, la “riforma della riforma”, secondo quella che mi sembra sia stata la mens di Benedetto XVI, postula la rinascita del sacro nei cuori. Laddove nei singoli rinasce il senso del sacro ecco che lì comincia e si attua la “riforma della riforma”. Invece, verrebbe da aggiungere, si

è data sì enfasi sull’altare, ma non come luogo del sacrificio, ma come mensa, facendo in modo che la nozione di “sacrificio”, conoscesse una sorta di oblio. Don Enrico Finotti dice cose molto profonde sul tema dell’altare: “E’ normale che venga individuata l’origine dell’altare cristiano nella mensa del cenacolo, sulla quale nostro Signore istituì il Sacrificio eucaristico e il Convivio sacro del suo Corpo e del suo Sangue. Veramente la mensa dell’ultima cena è il referente originario e originante dell’unico e definitivo Sacrificio del Nuovo Testamento. Da qui parte quell’oblazione pura che dall’oriente all’occidente è offerta fra le genti e in ogni luogo (Ml 1, 11). Occorre tuttavia approfondire e non fermarsi ad una facile visione superficiale, che potrebbe svuotare quel Sacrificio della sua profonda sostanza per fissarsi nella debole espressione di un ordinario convito umanitario ed usuale. In realtà, quando la famiglia ebraica si riuniva per la cena pasquale si relazionava in modo intimo e indissolubile con l’altare del tempio di Gerusalemme, sul quale in antecedenza veniva immolato l’agnello, che portato sulla mensa domestica consentiva la celebrazione della Pasqua. Senza quella vittima sacrificata sull’ara del tempio e trasferita poi sulla mensa delle case, la cena pasquale perdeva la sua identità. La relazione all’immolazione dell’agnello nel tempio era tanto necessaria che, per celebrare la Pasqua, si doveva alloggiare a Gerusalemme o nelle vicinanze. Non era, infatti, possibile stare fuori Gerusalemme, ossia lontani dal tempio, perché dal tempio veniva l’agnello immolato e ad esso rimandava. La cena pasquale ebraica era dunque una cena sacrificale, un banchetto mediante il quale si partecipava della vittima sacrificale. Ed ecco che mensa ed ara si trovano intimamente unite, geneticamente e indissolubilmente interiori l’una all’altra. Tolta l’ara è compromessa totalmente la natura di quella specifica mensa imbandita per la cena pasquale. Nel cenacolo però il Signore opera la novità e crea la realtà di quello che fino ad ora era figurato nelle antiche profezie e nel sacrificio dell’agnello. Egli immola incruentamente se stesso nel contesto ancora visibile del segno profetico dell’agnello, che come ombra sta ormai per scomparire e cedere il posto alla realtà, Cristo Gesù, col suo Corpo e il suo Sangue immolati nelle specie sacramentali del pane e del vino. E’ evidente che, nel mentre lo sguardo del Signore si ritrae ormai dalla figura dell’agnello che passa e dall’ara del tempio su cui fu immolato, si fissa con divina preveggenza e immedesimazione mistica sull’ara della Croce, che lo attende sul Calvario. Egli, infatti, anticipa sacramentalmente sulla mensa della cena e nella forma del convito il sacrificio cruento che avrebbe offerto di li a poco sull’altare della Croce. La Croce, quindi entra nel cenacolo si pianta sulla sua mensa e, mentre l’antica ara del tempio si ritira, avendo assolto la sua funzione profetica, si erge

ormai sovrana quale sostanza interiore di ciò che si compie nell’ultima cena e che si ripeterà per tutti i secoli fino alla fine del mondo per comando del Signore: Fate questo in memoria di me. Mensa, Ara e Croce, ecco i tre simboli interiori e indissolubili del mistero grande che si compie nell’istante consacratorio quando il Signore, pronunziando le parole divine - Questo è il mio Corpo… Questo è il mio Sangue…-, istituisce il Sacrificio perenne, senza più tramonto. Le tre figure di riferimento – mensa, ara e croce – prima ancora di trovare espressione fisica nell’altare cristiano sono presenti nella sostanza stessa dell’atto sacrificale di Cristo e costituiscono, ancor prima di trovare la loro traduzione materiale nella liturgia, la forma interiore dell’atto sacrificale del Signore. Nel Cenacolo è visibile solo la Mensa, l’Ara del tempio è richiamata dall’agnello immolato, la Croce ancora non si vede, ma tutto è presente e unitario nella mente divina e nel cuore amante del Salvatore”. Queste belle e profonde parole dell’insigne liturgista, ci fanno intravedere la profondità del mistero dell’altare in relazione con la croce e con la sua funzione di mensa. Qui non ho toccato la questione dell’orientamento liturgico, che meriterebbe una trattazione separata. Comunque, mi sembra che in questo articolo è chiaro come la teologia dell’altare dovrebbe essere separata da una certa visione comunitarista e centrata sull’assemblea piuttosto che sul mistero che viene celebrato.

Ave Regina Coelorum , il saluto a Maria nel tempo di Quaresima

Nel campo della musica liturgica, ci sono delle consuetudini che vengono tramandate perché si ritengono molto utili ed efficaci per aumentare una partecipazione consapevole alla liturgia stessa. Per esempio, il fatto di usare certi specifici canti in certi tempi liturgici vuole fare in modo che, attraverso il richiamo di una certa musica è un certo testo, si rafforzi nel fedele la percezione generale riguardo l’anno liturgico. Un esempio è quello delle antifone mariane. Nel tempo di Quaresima, solitamente alla fine della Messa, c’è l’uso di cantare Ave Regina Coelorum. Questa antifona nella forma straordinaria viene eseguita alla Compieta, dalla Purificazione fino alla Settimana Santa. Cosa sappiamo degli origini di questa antifona? Ci sono state varie teorie, come che essa fosse addirittura risalente al IV secolo, forse perché si trovano concetti che possono essere fatti risalire a quel tempo. Altri pensano che sia molto più recente,

dodicesimo o tredicesimo secolo (Henry, H. (1907). Ave Regina. In The Catholic Encyclopedia. New York: Robert Appleton Company. Retrieved March 5, 2020 from New Advent: http://www.newadvent.org/cathen/02149b.htm). In un articolo dell’agenzia Fides del 20/2/2007 (firmato J.M.) viene detto: “Le origini di questa preghiera sono misteriose ed il suo autore è sconosciuto. Si pensa che risalga probabilmente al XII secolo, alcuni dicono che avrebbero potuto comporla San Bernardo o Ermanno Contractus. Più anticamente, era ciò che veniva chiamata “antifona di processione”. Viene menzionata nel libro di Sant’Albano. Il versetto “Dignare me laudare” è particolarmente antico. Viene comparato all’Akathistos, un inno orientale. La preghiera è in genere divisa in due strofe e può terminare con un “Oremus””. Il testo tradotto in italiano dice: “Ave, Regina dei cieli, ave, Signora degli Angeli; salve, o radice, salve, o porta da cui sorse la luce per il mondo. Gioisci, vergine gloriosa, splendida sopra tutti; salve, o sommamente degna, e supplica Cristo per noi”. Nell’articolo citato dell’agenzia Fides così viene spiegato: “Ciò che si dice di Maria nell’Ave Regina è sempre in relazione con Cristo, che è il Re del mondo nella fede cattolica. Teologicamente, l’espressione «radice feconda» ricorda che Maria è la radice di Jesse, il padre del re Davide. Si dice anche che Maria sia la porta del cielo perché nella teologia cristiana, il Sacro Cuore di Gesù ed il Cuore Immacolato di Maria sono come le porte del paradiso. La frase «per te la luce si è alzata sul mondo» si riferisce alla nascita di Gesù, che è la luce del mondo per coloro che credono in Lui. La preghiera fa riferimento alle qualità mediatrici della Vergine Maria, che viene religiosamente chiamata “Mediatrix”, poiché può implorare per l’umanità presso Dio. Infine, il versetto «Rallegrati, Vergine gloriosa», ricorda il «Gaude et laetare, Virgo Maria» del Regina Coeli“.Maria, è regina e signora degli angeli, per il suo ruolo del tutto speciale nella redenzione. Nel formulario per le Messe per la Vergine Maria in tempo di Avvento, al Prefazio viene detto: “Tu hai stabilito in Maria di Nazaret il culmine della storia del popolo eletto e l'inizio della Chiesa, per manifestare a tutte le genti che la salvezza viene da Israele e da quella stirpe prescelta scaturisce la tua nuova famiglia. È figlia di Adamo per la nascita colei che nella sua innocenza riparò la colpa di Eva; è discendente di Abramo per la fede colei che credendo divenne madre; è pianta della radice di lesse la Vergine dal cui grembo è germogliato il fiore Cristo Gesù salvatore del mondo”. In un trattato del cremonese Giovanni Battista Guarini del 1609 chiamato Della gierarchia, overo del sacro regno di Maria Vergine Madre d’Iddio e Reina del cielo, viene detto “Esaia profeta disse, che la verga e il fiore, Christo e MARIA VERGINE, dovevano nascere dalla medesima radice per mostrare, che la

grandezza dell’uno e dell’altra doveva sorgere e nascere dall’istessa radice e dalla medesima causa dell’humiltà”. Vittorio Messori, nel suo Ipotesi su Maria, giustamente dice: “Con le incursioni cui si procede in questi capitoli, vorrei mostrare ciò che ho sperimentato: senza la radice di carne che è il corpo di quella Donna, tutto il mistero dell’Incarnazione finisce col perdere l’indispensabile materialità per farsi evanescente spiritualismo, moralismo sermoneggiante o, peggio, pericolosa ideologia”. Inoltre, nell’antifona di cui stiamo parlando, la Beata Vergine Maria viene definita come la porta “da cui sorse la luce del mondo”. Ricordiamo che nell’inno del IX secolo Ave Maris Stella, la Vergine Maria è definita felix coeli porta, felice porta del cielo. Cioè, se mettiamo insieme i due concetti, essa è porta con cui andiamo al cielo e porta con cui il cielo va sulla terra. Nella seconda parte del breve testo, viene chiesto a Maria di rallegrarsi, perché essa fu prescelta in modo del tutto speciale da Dio. E proprio per questa sua elezione speciale la invochiamo perché essa possa supplicare Cristo per noi. Tra la prima e la seconda parte del testo, si nota una cesura, la salutazione a Maria nella prima parte si affida alla teologia presentandola con i concetti che abbiamo esposto in precedenza, ma nella seconda parte si affida più alle esaltazioni quasi estetica ed estatica delle virtù della Beata Vergine. Padre Donald H. Calloway, nel suo libro Under The Mantle, così dice della Beata Vergine: “Mary is the perfect spouse of God. Once again, if you or I could create our own spouse, we would create a spouse without any flaws or imperfections — one good and virtuous and worthy of praise. As a man, I would create a masterpiece of feminine beauty. She would be the woman of my dreams. Angels would bow down in her presence, and everyone would be subject to her, sing songs about her, and praise her loveliness and unique beauty. All darkness and demons would flee at her presence, and the very fragrance of her person would make grown men cry. My lady would be the best!”. Ecco, questa è la perfezione con cui noi pensiamo Dio ha immaginato Colei che sarebbe stata la madre di suo Figlio, Maria, la Vergine Maria. Noi ci riferiamo a due melodie per quanto riguarda questa antifona, una elaborata e ricca di melismi e quella popolare. In quella elaborata, nel sesto modo, notiamo come gli “Ave“ vengano declamati quasi a sé stanti. È una melodia bella e nobile, piena di grande solennità e fascino. Nella melodia semplice, di probabile origine ottocentesca, nello stesso modo e sillabica, notiamo nella prima parte uno schema ABAC. Nella seconda parte la tessitura si sposta più nella quinta superiore al Fa finalis, piuttosto che nella regione del

Tritus plagale (pur rimanendo in questo modo) con una particolare enfasi sulla frase finale, quasi che in quel momento il popolo orante potesse raccogliere tutte le proprie forze per invocare l’intercessione della Madre verso Nostro Signore.

Il problema della liturgia non è il coronavirus

Ho osservato con un certo imbarazzo il tentativo di far passare una certa narrativa per cui l’evidente tracollo di presenze alla Messa domenicale è dovuta alla pandemia che stiamo vivendo da due anni. Ora, se è vero da una parte che la pandemia ha evidenziato in modo drammatico questo problema, sarebbe insincero pensare che la situazione sanitaria ha creato il problema. Papa Francesco nel suo discorso alla curia romana del 21 dicembre 2019, prima dell’esplosione del covid 19 diceva: “Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata”. Si rifaceva anche a quanto detto da Benedetto XVI nel motu proprio Porta Fidei del 2012: “Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone”. La liturgia era già in pieno investita da questi problemi di fede e ne mostrava alcuni effetti visibili, con il prevalere del soggettivismo, il culto dell’assemblea che sostituisce quello di Dio, la cura e la sciatteria di troppo celebrazioni. In una intervista a Giacomo Gambassi di Avvenire il vescovo Claudio Maniago, presidente del Centro di Azione Liturgica, in occasione dell’apertura della recente Settimana Liturgica, così risponde ad una domanda sugli effetti del covid sulle liturgie: “Non possiamo soffermarsi unicamente sull’aspetto contabile. Per precise indicazioni di carattere sanitario, le presenze si sono diradate. Addirittura la parte più fragile della nostra gente è stata esortata a non uscire di casa per evitare pericoli: mi riferisco in particolare agli anziani. Quando le celebrazioni pubbliche sono riprese, dopo la sospensione dello scorso anno durata alcuni mesi, diverse persone non sono tornate: vuoi perché erano soggetti a rischio; vuoi per i timori del contagio; vuoi perché qualcuno, vivendo una relazione più labile con il momento celebrativo, ha ritenuto di astenersene o di seguirlo con i mezzi di

comunicazione. Tutto questo deve interrogarci e tradursi in una domanda: davvero le comunità hanno consapevolezza di quanto sia fondamentale la domenica vissuta intorno alla mensa eucaristica? Poi occorre anche ragionare su un salto di qualità necessario in ordine all’annuncio della Parola e alla catechesi”. Mi sembra che la risposta non affronti il vero nodo della questione, che non è il covid il problema, ma che le moderne liturgie risentono evidentemente della crisi della fede. Alla domanda finale di Gambassi se ancora fosse rilevante il motto (sciagurato, aggiungo io) “meno messe, più messa” il vescovo risponde: “Ciò che conta è che le celebrazioni siano ben curate in modo che l’assemblea si senta partecipe. Perché stiamo parlando della fonte e del culmine della vita cristiana”. Ma il problema è se stiamo dando a Dio quella gloria che gli spetta di diritto, poi la conseguenza sarà l’edificazione dei fedeli. Purtroppo il cambiamento di prospettiva non smette di informare le moderne idee sulla liturgia e questo non fa ben sperare. Papa Francesco, in un messaggio inviato tramite il segretario di stato cardinale Pietro Parolin proprio per la Settimana Liturgica 2021, insiste sulla narrativa del coronavirus ma ammette quello che ho detto all’inizio, cioè che ha solo evidenziato problemi già esistenti: “La liturgia “sospesa” durante il lungo periodo di confinamento, e le difficoltà della successiva ripresa, hanno confermato quanto già si riscontrava nelle assemblee domenicali della penisola italiana, allarmante indizio della fase avanzata del cambiamento d’epoca. Osserviamo come nella vita reale delle persone sia mutata la percezione stessa del tempo e, di conseguenza, della stessa domenica, dello spazio, con ricadute sul modo di essere e di sentirsi comunità, popolo, famiglia e del rapporto con un territorio. L’assemblea domenicale viene così a ritrovarsi sbilanciata sia per presenze generazionali, sia per disomogeneità culturali, sia per la fatica a trovare un’armonica integrazione nella vita parrocchiale, ad essere veramente culmine di ogni sua attività e fonte del dinamismo missionario per portare il Vangelo della misericordia nelle periferie geografiche ed esistenziali”. La crisi della liturgia è di una profondità abissale, un cambiamento così radicale che a viste umane è difficile pensare ad un recupero di una certa dignità della stessa. In realtà le recenti vicende riferite alla Messa tradizionale, bene inquadrano il processo difensivo di un sistema che è nella Chiesa ma che solo un suo modo di essere e non la rappresenta necessariamente in essenza. Un sistema che cerca di rimuovere in tutti i modi le minacce alla sua esistenza e più la minaccia è importante, più la reazione sarà violenta. A ben vedere, noi non assistiamo all’ alba di una nuova primavera, ma all’incedere dell’oscurità che avvolgerà un lungo inverno.

Le prove di canto prima della Messa

A volte non è semplice far partecipare le persone che attendono la Messa alle parti che a loro competono. Perché è importante ripetere, che non è necessario che il popolo canti tutto, questo non si trova in nessun documento, non è utile, pratico, non è probabilmente anche appropriato. I documenti del Concilio dicono chiaramente che ognuno deve partecipare a suo modo, non tutti devono fare tutto, il partecipazionismo non è consono alla natura della liturgia cattolica. Qual è il modo per far partecipare le persone al canto? Uno dei più pratici è fare una prova di canto con le persone prima della Messa. Ora, questo metodo ha certamente delle controindicazioni. E, la prima che viene alla mente è certamente riferita al fatto che molto spesso le persone arrivano a Messa non un minuto prima dell’inizio, ma 10 minuti dopo. Quindi, per alcuni potrebbe essere non pratico. Ma, se questa diviene una consuetudine, potrebbe forse cambiare le abitudini di qualcuno. Anche perché, lo dico ancora una volta, il cantare a Messa non è un obbligo, se qualcuno proprio non si sente di cantare lo si lasci in pace. Non bisogna far divenire l’esigenza di cantare un qualcosa che deve costringere persone che non sono educate a cantare in nessun contesto, quindi trovano difficile cambiare il proprio atteggiamento per un’ora a settimana. Poi, c’è da dire che il canto dei fedeli deve riguardare soltanto alcune parti del programma musicale della liturgia, deve esserci spazio per il coro, il solista in alcune parti, l’organo. Insomma, se non si pretende l’impossibile, riuscire a far partecipare le persone nei momenti a loro appropriati è possibile, sempre limitatamente a coloro che vogliono cantare. Quello che io vedo, è che spesso queste prove vengono fatte in modo sbagliato. Per alcuni, la prova significa far cantare al coro alcuni canti ma senza nessuna interazione con l’assemblea. L’assemblea semplicemente ascolta e certamente non si unirà mai al canto se non viene specificamente invitata. Io credo che la cosa più importante in questo caso, è creare un “rapporto“ con coloro che siedono sui banchi. Ho visto io stesso, che quando ci si rivolge direttamente a loro facendo capire che siamo veramente interessati alla loro partecipazione, sempre con educazione e gusto, qualcuno in più si fa coraggio e unisce la propria

voce a quella del coro. Se non li si interpella direttamente, non ci sono santi, loro spontaneamente non si uniranno al canto. Specialmente nel nostro paese, le persone non sono educate a cantare in coro, sembra strano dirlo, ma certamente la nostra tradizione di cantare in coro e molto meno sviluppata rispetto al canto solistico. Nei paesi come l’America, Inghilterra, i paesi nordici, certamente c’è una tradizione corale molto più sviluppata. Quindi, è meno difficile coinvolgere le persone nel canto. Quindi, quando si fanno le prove prima della Messa, bisogna relazionarsi prima di tutto ai fedeli che sono presenti, bisogna fargli capire che quei 5 o 10 minuti sono dedicati proprio a loro per cercare di coinvolgerli nelle parti della Messa a loro appropriate. Poi, come ho detto in precedenza, si deve essere realisti. Se si pensa che l’intero programma musicale possa essere sostenuto dal canto dell’assemblea, sì è veramente fuori dal mondo. Ripetendo gli stessi canti ogni domenica, si appiattisce la ricchezza delle liturgie particolari, si riduce tutto ad una vaga e astratta liturgia, che non serve certamente quell’assemblea che si crede di servire. Detto questo, bisogna ribadire che l’assemblea deve partecipare ad alcuni ritornelli, acclamazioni, risposte; non deve fare tutto. Con la scusa di coinvolgere l’assemblea, ho visto chiese dove gli stessi canti vengono ripetuti non da una Messa all’altra, ma addirittura nei decenni. Gli stessi identici canti cantati tutte le domeniche per 20 o 30 anni (parlo di questo perché posso testimoniarlo personalmente avendolo visto in una importante basilica romana). Non parlo naturalmente di quei canti che per la loro natura hanno una veste musicale più o meno univoca, prendiamo per esempio il Padre nostro, solitamente offerto nella versione di tipo “gregoriana“. In questo caso è comprensibile. Ma ci sono chiese in cui una sola melodia per il salmo responsoriale viene praticamente adattata a tutti i salmi per tutto l’anno liturgico. Questo è un grave errore. Insomma, si stabilisca una connessione con l’assemblea, cercando di coinvolgerli personalmente al canto, magari facendo ripetere certe cose quando si percepisce che la partecipazione non è stata poi così generosa, e soprattutto non pretendere l’impossibile. Se l’assemblea può unirsi in alcuni ritornelli o in alcune acclamazioni, già la loro partecipazione al canto è assicurata. Io ho l’esperienza in questo senso quando vivevo in Asia. Nelle Messe in cui avevo la responsabilità della musica liturgica, pretendevo che fossero cantate le antifone tratte dal messale per l’introito e la comunione, quindi ogni domenica i testi cambiavano. Allora, c’erano alcune versioni di queste antifone (o le componevo io) in lingua inglese, ed erano abbastanza semplici. Prima della Messa, le facevo

cantare al coro per farle imparare all’assemblea. Non pretendevo che tutti cantassero, tanto questo non succede in ogni caso. Ma c’erano quelli che si univano volentieri al canto, e questo era anche un canto veramente liturgico perché si cantavano i testi della Messa. Come viene spesso detto non bisogna cantare durante la Messa, ma bisogna cantare la Messa. Certo, questo richiede un certo impegno da parte della Chiesa stessa e da parte dei musicisti che hanno l’incarico di fare queste cose. Ecco perché non si può affidare tutto al primo che sa suonare il giro di Do oppure al codino di turno che viene messo davanti ad un coro in chiesa perché ha ben tremato davanti al prete di turno. Questo non accade solo nelle parrocchiette, ma anche nelle basiliche. Ma questo è stato già detto troppe volte.

Polifonia e canto dell’assemblea

Quando si pongono delle questioni come fossero contrapposizioni, si rischia di non riuscire mai a trovare una soluzione. Questo è certamente quello che è accaduto, devo dire specialmente da parte di molti liturgisti, quando si è voluto mettere il repertorio polifonico tradizionale della Chiesa cattolica contro il canto dell’assemblea. Cioè, veniva (e viene) detto, che le grandi composizioni polifoniche del passato ma anche del presente, così come il canto gregoriano (che polifonico non è) impedirebbero la partecipazione dell’assemblea. Tutto questo viene invocato “in nome del Concilio”. Eppure lo stesso Concilio, nella costituzione Sacrosanctum Concilium, dice qualcosa di molto diverso: “La tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio d'inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell'arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne. Il canto sacro è stato lodato sia dalla sacra Scrittura, sia dai Padri, sia dai romani Pontefici; costoro recentemente, a cominciare da S. Pio X, hanno sottolineato con insistenza il compito ministeriale della musica sacra nel culto divino. Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all'azione liturgica, sia dando alla preghiera un'espressione più soave e favorendo l'unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri. La Chiesa poi approva e ammette nel culto divino tutte le forme della vera arte, purché dotate delle qualità necessarie. Perciò il sacro

Concilio, conservando le norme e le prescrizioni della disciplina e della tradizione ecclesiastica e considerando il fine della musica sacra, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli, stabilisce quanto segue. L'azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo. Quanto all'uso della lingua, si osservi l'art. 36; per la messa l'art. 54; per i sacramenti l'art. 63; per l'ufficio divino l'art. 101. Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra. Si promuovano con impegno le « scholae cantorum » in specie presso le chiese cattedrali. I vescovi e gli altri pastori d'anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l'assemblea dei fedeli possa partecipare attivamente, a norma degli articoli 28 e 30. Si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari, nei noviziati dei religiosi e delle religiose e negli studentati, come pure negli altri istituti e scuole cattoliche. Per raggiungere questa formazione si abbia cura di preparare i maestri destinati all'insegnamento della musica sacra. Si raccomanda, inoltre, dove è possibile, l'erezione di istituti superiori di musica sacra. Ai musicisti, ai cantori e in primo luogo ai fanciulli si dia anche una vera formazione liturgica. La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell'azione liturgica, a norma dell'art. 30”. Sarò io, ma me sembra che questi documenti dicano tutt’altro. A proposito del canto gregoriano viene anche detto: “Si conduca a termine l'edizione tipica dei libri di canto gregoriano; anzi, si prepari un'edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di S. Pio X. Conviene inoltre che si prepari un'edizione che contenga melodie più semplici, ad uso delle chiese più piccole”. Cioè si chiede di curare ancora di più i libri liturgici che riguardano il canto gregoriano. Ovviamente, quando si ha un approccio ideologico, è molto difficile ragionare su qualunque cosa. Per alcuni liturgisti, sembra che il vero scopo non sia la partecipazione del popolo, ma eliminare tutta quella grande tradizione musicale e artistica della Chiesa cattolica, per dei motivi che è veramente difficile comprendere (o forse no) da fastidio. In realtà, il loro è un concetto sbagliato di partecipazione. La partecipazione, come ci insegna la buona pedagogia della liturgia, è anche interna. Cioè, anche ascoltare è partecipare, come chiunque dotato di ragione può comprendere. L’ascolto di un brano liturgico appropriato, anche se eseguito dal coro, ci aiuta ad elevarci al mistero divino. In fondo, quando le persone vanno a un concerto, anche se non stanno suonando quelle

composizioni, partecipano con il loro ascolto. Quindi, l’accusa che viene spesso lanciata ai cori, che la liturgia “non è un concerto”, è veramente fuori luogo. Fuori luogo, perché anche in un concerto si partecipa, ognuno a modo suo. Ma, naturalmente, come detto in precedenza, quando c’è un approccio ideologico non si può ragionare. In realtà, in alcuni casi è anche possibile unire la partecipazione dell’assemblea con il canto del coro. Penso per esempio all’esperienza delle messe alternate, quando ci sono delle messe gregoriane in cui si alterna il canto del popolo e la polifonia. Ma anche in quel caso c’è un problema per alcuni liturgisti, perché sono in latino, l’esecrabile latino. Allora, immaginiamo un direttore di coro veramente di buona volontà, che cerca di accontentare l’incontentabile parroco. Allora eseguirà una messa in italiano dove ad alcune parti polifoniche si alterna l’assemblea; ma anche in quel caso non va bene! Perché “il coro non deve esibirsi, deve solo cantare con l’assemblea“ (cioè rinnegare se stesso). Insomma, non ne va mai bene una. E non di rado capita che questi sacerdoti sono poi quelli che infarciscono la liturgia di discorsi di tutti tipi e di tutte le fogge. Il coro non si deve esibire, ma per loro si può fare una ben consolidata eccezione! Insomma, qui non si tratta di essere a favore o contro il Concilio, si tratta di essere a favore o contro delle persone che agiscono solo guidate da una malsana ideologia.

Il cuore del respiro

Negli strani giorni di reclusione domestica, per via dell’epidemia di coronavirus, sentivo molto parlare dei sintomi dello stesso virus, fra i quali c’è quello della difficoltà a respirare. Questo, mi fa riflettere ancora di più sull’importanza del respiro non solo, ovviamente, per la nostra vita di tutti giorni, ma anche per il canto. Sappiamo bene come il canto ben fatto, il belcanto, si basa soprattutto su una buona respirazione, sul saper appoggiare il suono sulla colonna d’aria che sale. Questi concetti, che hanno forse una certa astrattezza quando li si incontra, sono non di meno fondamentali per una buona comprensione del fenomeno canoro. Il didatta Antonio Juvarra, così afferma in un bel testo su questo argomento disponibile online ( voceartistica.it): “Un esordio teatrale, ad effetto, vagamente marxiano, per introdurre il discorso sul ruolo della respirazione nel canto

potrebbe essere: “Finora gli scienziati hanno cercato di capire la realtà materiale, esterna, visibile della respirazione e del canto, si tratta adesso di penetrarne il retroscena invisibile.” In effetti anche la respirazione e il canto, come succede con gli aspetti più profondi e significativi della vita, manifestano la natura bidimensionale, a due facce, esteriore ed interiore, della realtà, facce che non sempre coincidono e che non sempre necessariamente devono coincidere, ma di cui è importante comunque capire i rapporti come pure le sfasature”. Certo, è importante concepire la respirazione non solo come un fatto meccanico, ma anche come un fatto metafisico. Questo è un ostacolo per molti didatti contemporanei, fissati su “quello che funziona“, sulla scia di un certo pragmatismo di marca statunitense. Ma in effetti sappiamo come la respirazione, anche al di fuori del suo uso per il canto, viene usata per favorire le capacità introspettive delle persone, per esempio nella meditazione. Continua lo Juvarra nel testo citato: “Non si capisce neppure con quale arbitrio i sedicenti moderni continuatori di una tradizione belcantistica italiana, la quale esplicitamente riconosceva nel rapporto ‘fiato/parlato’ le due ali senza le quali il canto non può volare (e basti citare le parole del Farinelli ottocentesco, Pacchierotti, che affermava che “chi sa ben respirare e ben sillabare, sa ben cantare”) accettino e pubblicizzino soltanto la seconda parte di questo binomio e disinvoltamente buttino nel cestino la prima, a causa dell’uso semplicistico che essi fanno del concetto di semplicità. Con lo stesso criterio saremmo autorizzati a fondare una didattica pianistica basata sull’uso di due dita, invece che di due mani, una ‘two finger level playing’, solo perché più semplice della tradizionale tecnica a dieci dita…....Sbandierando acriticamente lo slogan della semplicità e della facilità, concepiti come assoluti, si dimentica insomma che l’approccio allo studio del canto dev’essere sì naturale, ma nel senso di partire dalla natura superficiale per arrivare alla natura profonda. La tecnica, la vera tecnica è semplicemente il mezzo per arrivare a questa profondità. Tutta la tradizione vocale è lì a testimoniare, con le sue strane espressioni come ‘appoggio’, ‘cantare sul fiato’, ‘colonna del fiato’, che il fenomeno della respirazione nel canto, pur rimanendo profondamente naturale, non ha niente a che fare con l’esperienza della respirazione utilizzata parlando. Illudersi che quest’ultima possa essere usata come modello definitivo di coordinazione muscolare per il canto è come illudersi che spingendo a trecento all’ora una macchina, questa possa ipso facto prendere il volo come un aeroplano….Si può dire in sintesi che un’operazione di questo tipo, che sulla base di un equivoco concetto di naturalezza, proponga come modello la respirazione parlata o riproponga una respirazione toracica, entrambe semplificate delle componenti diaframmatico-addominali concepite come complicazione superflua, non può che portarci al punto di partenza, quello

da cui è partita l’esigenza, nella metà dell’Ottocento, di mettere in luce anche la dimensione della profondità e non solo dell’altezza”. Insomma, c’è un elemento profondo che si innesta su quello naturale, ed è questo che lo studio deve essere in grado di tirare fuori. Enrico Stichelli ( enricostinchelli.it) nel suo blog così afferma: “Pavarotti, ai suoi allievi, poneva il pugno sull’addome e poi li invitava a cantare: in pratica, per non soffocare, si veniva costretti a contrapporre la propria spinta muscolare a quella della mano di Lucianone: un bel training.Le cantanti antiche usavano i bustini, con i lacci ben stretti. Il baritono Valdengo mi raccontò del suo incontro con Beniamino Gigli che, vedendolo giovane ,magro e asciutto, disse:” Sicuramente non canti ancora bene, hai la pancia a pisciatoio (cioè concava, all’indentro). Quando sarai rotondo come me, allora canterai bene.” Gigli non intendeva “rotondo” per “grasso”, ben inteso: parlava ovviamente del muscolo, che inevitabilmente si forma appoggiando e sostenendo il suono per il canto lirico. Maestri indiscussi di canto 'sul fiato' sono stati Carlo Tagliabue, Tito Schipa, Piero Cappuccilli, Magda Olivero, Carlo Bergonzi. In genere, come si è detto: tutti i grandi cantanti”. Non dimentichiamo che il concetto di “respirazione“, è importante anche nell’ambito dell’interpretazione musicale. Ogni pezzo di musica, che sia cantato o no, deve “sapere respirare“. Una interpretazione che non tiene conto della respirazione insita nella musica stessa, è un’interpretazione fallace, una interpretazione che certamente è fallimentare in partenza. Pensiamo all’apoteosi del concetto di interpretazione unito a quello di respirazione, che possiamo trovare nel canto gregoriano, dove gli esecutori non solo devono necessariamente trovare i punti di respirazione adeguati nel corso del brano interpretato, ma lo stesso è quasi sottratto ad alcuni parametri musicali per avvicinarsi alla naturalezza e mi verrebbe da dire “all’irregolarità” della pulsazione naturale, che non è metronomica ma segue un ritmo dettato dall’incresparsi delle tensioni emotive. In un video su You Tube di qualche tempo fa erano state comparate alcune esecuzioni registrate un centinaio di anni fa con alcune versioni moderne. Un elemento che certamente risaltava era proprio quello di una maggiore libertà ritmica, una maggiore fluidità nell’interpretare il brano rispetto alla dittatura del metronomo che molti interpreti moderni subiscono. Insomma, anche una tragedia come la presente ci permette di riflettere sull’importanza della respirazione e di come essa sia al centro non solo dei nostri

processi vitali, ma anche della nostra corretta ermeneutica dell’elemento musicale in chiave estetica e filosofica.

Il vescovo di Saluzzo e la mortificazione come mistica della croce

Entrando nel tempo di Quaresima, siamo portati a riflettere sulle nostre tante mancanze e sulle prove che stiamo vivendo in questo tempo storico, come quella dell’incipiente epidemia dovuta al covid-19. Per questo motivo, per non affogare nella quotidianità, mi volgo al 1859, alla lettera pastorale per la Quaresima dell’allora vescovo di Saluzzo, Giovanni Antonio Gianotti (1764-1863). Nel sito della diocesi di Saluzzo troviamo queste note biografiche sul presule: “Ricevette l’ordinazione episcopale il 26 maggio 1833 dall’arcivescovo di Torino mons. Franzoni, assistito dai conconsacranti: il vescovo di Ivrea mons. Chiaravalle e di Susa mons. Cirie Per il suo zelo e la sua dottrina fu preposto alla Regia Università di Sassari, e ancor più diede prova di generosa dedizione agli ammalati e diseredati durante il colera del 1835. Per motivi di salute mons. Gianotti, nel 1836, dovette rinunciare alla diocesi di Sassari, dove spese il meglio di se stesso. Rientrato nella città natale, poté ristabilirsi. Nuovamente su proposta del Re, il Papa, il 19 giugno 1837 lo nominò vescovo di Saluzzo, dove fece il suo ingresso il 6 agosto 1837. Un vasto campo di apostolato si apriva a mons. Gianotti che tanta esperienza aveva acquisito negli anni precedenti. La diocesi di Saluzzo lo accolse con esultanza, desiderosa di seguire i suoi indirizzi pastorali. Il 28 maggio 1840 indisse la prima visita pastorale con un programma ben definito. Il 9 giugno dello stesso anno, indirizzò ai cittadini saluzzesi un particolare invito a sostenere la scuola cattolica, per la quale invitava: “i Fratelli delle scuole della dottrina cristiana” ad aprire, con il contributo dei cittadini, una scuola d’ispirazione cristiana, così motivandola: “per l’educazione della gioventù povera dall’età di trenta mesi ai quattordici o quindici anni”. Diffuse e promosse la conoscenza delle iniziative civili, come la applicazione del sistema metrico decimale, le scuole serali e domenicali. Nel 1848 sostenne apertamente la costituzione albertina e fu tenace assertore della validità del metodo elettorale, invitando i fedeli ad andare a votare, perché venissero eletti alle cariche pubbliche uomini capaci e onesti. Il 3 novembre del 1841, inaugurò solennemente l’anno scolastico, aperto sei mesi prima dai: “Fratelli delle Scuole Cristiane”. Nel frattempo i missionari di San Vincenzo avevano fatto richiesta al

vescovo di stabilirsi nel territorio della parrocchia di Scarnafigi. Mons. Gianotti, in data 20 maggio 1843, scriveva ai sacerdoti della missione di San Vincenzo de’ Paoli: “… Non solamente acconsentiamo colla più viva soddisfazione dell’animo nostro che la congregazione dei Sacerdoti della Missione venga a stabilirsi nella parrocchia di Scarnafigi, ma n’affrettiamo coi più fervidi voti il momento avventurato, pronti ad abbracciare i pii e zelanti sacerdoti della medesima quali più cari e abili cooperatori del nostro ministero, nella cultura del clero e nella santificazione dell’anima…”. L’anno seguente, il 19 marzo, benedisse solennemente la prima pietra della chiesa, che fu terminata nel 1847 insieme alla grande casa dove i sacerdoti vi si stabilirono nello stesso anno. Il vescovo credette opportuno di avvalersi di questo complesso anche per il clero della diocesi e per gli aspiranti al sacerdozio. Pertanto pregò i sacerdoti della Missione di aprire una scuola di teologia morale per i neo-sacerdoti”. Insomma, un vescovo molto attivo per il suo gregge. Nella sua lettera pastorale per la Quaresima del 1859 ci dice: “Non vi spaventate al nome di mortificazione; ché io non intendo già, che vi armiate la destra di flagelli, o di ciliziii lembi, ma di parlarvene con quella prudente discrezione, la quale, mentre nulla toglie alla severità della legge, è pur conforme alla soavità del giogo di Cristo. Convien pur dirlo, che alla sola sapienza celeste ed alla grazia di Gesù Cristo è dato di vedere bello, e sentir buono ciò che naturalmente fa orrore ai sensi, e tale si è della mortificazione evangelica. L‘uomo animale e terrestre non ne può comprendere la bellezza, né gustarne la soavità: eppure pell’uomo cristiano, e spirituale è la sorgente d’ogni bene, poiché all’impero della ragione illuminata dalla fede ella assoggetta tutte le disordinate inclinazioni della corretta natura, ed è per questo che dai Ss. Padri viene appellata freno delle passioni, odio di noi stessi, mistica croce, morte volontaria. É il freno delle passioni perché ne trattiene l’impeto, ed il furore: è un odio di noi stessi perché esercita una severa giustizia sopra di noi peccatori: è una mistica croce, perché su d’essa dobbiamo appendere la nostra carne colle sue concupiscenze, e coi Vizii, che fomentano la sua ribellione alle leggi dello spirito: è finalmente una morte volontaria, perché fa morire in noi gli sregolati desiderii, che si oppongono al voler santo d’Iddio”. Mortificazione… Come questa parola ci sembra oggi così lontana dal nostro panorama spirituale e culturale. Sembra che essa non corrisponda alle dignità dell’uomo moderno, un uomo che ha solo diritti ma non doveri. Ecco che questa lettera pastorale che ci giunge da secoli scorsi, ci fa capire che invece proprio nella capacità di mortificare la propria carne è il segreto della vittoria finale. Ci dice il vescovo che la mortificazione è come una mistica croce, dove noi mettiamo la nostra carne in modo da meritargli

la ricompensa tanto desiderata. All’inizio, esso ci dice che naturalmente noi non dobbiamo desiderare la mortificazione come se essa fosse un piacere, come qualcosa di cui rallegrarsi, ma come qualcosa di necessario per raffrenare le nostre passioni e i nostri vizi. Come siamo immersi nel nostre passioni nei nostri vizi? Certamente, parlando per me stesso, non posso che constatare la mia totale indegnità di Cristiano. Il vescovo prosegue: “La sola mortificazione può smorzare questo fuoco, e indebolire l’indomita concupiscenza, privandola del pascolo di quei piaceri, che appetisce, e macerando la carne, in cui ha sede, vita e forza”. Queste parole oggi sembrano fuori tempo, non più adeguate per l’uomo moderno. In realtà, pure se naturalmente esse corrispondono a una spiritualità di secoli passati, possono ancora dirci tanto oggi. In effetti, sappiamo benissimo che spesso il peccato è come un fuoco, come qualcosa che ci brucia perché noi, invece di spegnerlo, continuiamo ad alimentarlo. Ma per ottenere frutti dalla mortificazione, ci avverte il vescovo, non basta il pentimento interiore: “Che se con quelle parole Iddio vuole il cuore intendeste, che da voi esige soltanto l’interna mortificazione e non l’esterna, togliete, io vi dirò, la corteccia ad un albero, e state certi, che ne dissaccherà ben presto il midollo; in simil guisa togliete al cristiano la esterna mortificazione del corpo, e vedrete che perderà ben presto l’interiore del cuore, giacché l’esterna non solo conserva l’interno, ma la produce”. Che grande saggezza nelle parole del vescovo. Gli atti esterni di mortificazione, ci aiutano a ricomporre anche l’interno squilibrio del nostro animo, in preda a passioni, vizi, turpitudini. Io diffido moltissimo quei cattolici che pretendono di essere “buone persone“. Per me, il punto di partenza per la vera conversione, è ammettere la propria indegnità, il proprio essere peccatore. Tempo fa, quando fu chiesto a papa Francesco di definirsi, egli disse: “sono un peccatore“. Ecco, mi è piaciuto molto questa risposta, perché penso sia profondamente vera. Certo la grazia di Dio sempre ci attende come acqua zampillante, ma non può bere chi non sa di aver sete.

Ascoltate il canto gregoriano

Voglio dare un suggerimento a credenti e non credenti: ascoltate il canto gregoriano. Anche se non credete, vi farà bene, perché il canto gregoriano non è

semplicemente musica, ma è una via spirituale a Dio. Io spero che i non credenti la percorrano tutta ma già iniziare sarà importante. Un articolo di Pino Pignatta su fondazionegraziottin.org dice a proposito: “Lasciatela vagare nel vostro intimo come un’onda che s’infrange, muore e ritorna. Come una risacca musicale che vi accompagna senza sosta anche a occhi chiusi. Lasciate che sia un “mantra” capace di riempire il silenzio della mente. È una musica che non è triste né allegra, ma al tempo stesso può essere triste o allegra perché è “modale”, cioè prodotta da una concatenazione precisa di toni e semitoni (i più famosi sono il “maggiore” e il “minore”, ma ne esistono moltissimi altri) che conferiscono all’atmosfera generale un tono cupo, gioioso o malinconico. Non è una musica che ha in sé i germi di una guarigione, che nasce per essere lenitiva, come una solare sinfonia mozartiana, o una zampillante melodia di Schubert. Ma può essere benissimo tutto questo, un balsamo, un sollievo, perché è un colloquio intimo con Dio, una confessione a tu per tu, un trovarsi faccia a faccia. È una preghiera articolata in suoni. Un’orazione da cantare non in modo formale, ma con devozione: come diceva san Paolo, «con il cuore». Sotto l’apparente “fissità” della monodia (una musica a una o più voci nella quale abbiamo una sola melodia), in realtà si muove un universo spirituale interiore che ha qualcosa di magmatico. E che per la particolare articolazione delle voci, per il loro timbro, ci interroga e intanto ci lascia un oceano di pace interiore. Ecco la nostra nuova “provocazione”: il Canto gregoriano. Si fa per dire nuova, perché ci scaraventa, letteralmente, indietro di oltre 1.500 anni. Dopo la “trasgressione “ di Alban Berg, che con il suo violino per un “Angelo” ci ha spinto verso le asprezze dodecafoniche dell’atonalità, la scorsa puntata abbiamo fatto una pausa ristoratrice alle fonti cristalline della musica di Brahms, custode severo della forma, baluardo contro ogni dissoluzione dell’arte e argine a quegli esploratori di terre musicali che il gigante di Amburgo già vedeva muoversi intorno a sé, non senza qualche brivido “armonico” lungo la schiena. Ora immaginate di fare un salto ritroso nel tempo. Di essere immersi in un silenzio dove non ci sono ancora note codificate, un’epoca storica nella quale nessuna delle musiche – classiche o leggere, colte o popolari – alle quali siete abituati, fatte di strumenti che accompagnano le voci o di più musicisti che suonano insieme, era ancora stata “inventata”. Un’epoca senza sinfonie, senza orchestre, senza quartetti o quintetti, senza violini o clarinetti, senza canzoni. E ora provate a immaginare d’essere ospiti in un monastero di clausura intorno al IX secolo, cioè verso l’800 dopo Cristo. Bene: quella che vi proponiamo questa settimana nel documentario tratto da YouTube – un affascinante viaggio tra i monaci

dell’Abbazia francese di Solesmes – è la sola musica, diciamo “ufficiale”, che avreste sentito vivendo allora. E il monastero, l’unico luogo in cui era possibile ascoltarla. Se pensate che la musica (intesa come la conosciamo noi da quando siamo nati) sia sempre esistita, vi domanderete perché. Semplice: dopo la caduta dell’impero romano, durante il 400 dopo Cristo, a poco a poco la Chiesa estende la propria influenza in tutta Europa; e per molto tempo – almeno cinque secoli, sino a quando compaiono in Francia i trovatori e i trovieri che diffondono i canti profani – la musica è soprattutto religiosa: è utilizzata esclusivamente per scopi liturgici, spirituali”. In effetti, la musica è nata come musica sacra e poi si è profanizzata. Ma all’inizio era un modo per parlare a Dio. Enzo Crotti su musica-spirito.it ci parla del potere terapeutico del canto gregoriano: “Il canto accompagna da sempre la vita dell’uomo ed è utilizzato per molti importanti eventi della sua vita sociale, tra cui matrimoni e cerimonie religiose. Il Dott. Tomatis ha a lungo studiato l’importanza dell’ascolto e le funzioni dell’orecchio umano, evidenziando l’importanza terapeutica della musica. Tramite una delle sue esperienze, possiamo capire la grande utilità del canto per una comunità religiosa. Il canto gregoriano è un canto religioso tradizionalmente eseguito dalle comunità di monaci benedettini, ma dopo il Secondo Concilio Vaticano molti vescovi e abati sminuirono la sua importanza a favore di un canto più leggero e pop. In particolare Tomatis fu contattato da un monastero in cui l’abate aveva deciso che, le numerose ore dedicate alla pratica del canto gregoriano da parte dei monaci non erano necessarie. In breve tempo i monaci cominciarono a manifestare stanchezza e depressione a causa del rigoroso programma di lavoro e preghiera. Furono contattati medici che però non trovarono una soluzione, correlando i problemi alla dieta vegetariana dei monaci. Anche dopo aver variato la dieta i risultati non arrivarono, fino a quando non fu chiamato il Dott. Tomatis. Appena seppe che era stata interrotta la pratica del canto gregoriano, capì che questo poteva essere la causa del problema. Senza il suo effetto terapeutico e rigenerativo, i monaci non avevano l’energia e la forza necessarie per sostenere la vita rigorosa che la comunità religiosa richiedeva. Una volta ristabilito il canto quotidiano, i problemi cessarono e il monastero tornò alla regolarità”. Vero o non vero, si può fare esperienza del fatto che il canto gregoriano ha veramente un potere rilassante, a parte il suo fondamentale scopo di essere preghiera. Tempo fa ero in una comunità monastica e ho recitato un’ora liturgica con loro. Ad un certo punto hanno cantato l’inno in canto gregoriano, ed era così bello e spirituale che non potevo fare a meno di chiedermi: perché abbiamo perso tutto

questo? Chi lo ha chiesto? Ma la domanda importante che è sgorgata spontaneamente è stata: cosa abbiamo guadagnato? Purtroppo troppo poco. Ecco, andate su You Tube e date fondo alle centinaia di migliaia di video che vi troverete sul canto gregoriano. Non ve ne pentirete.

Alleluia, non allegro ma solenne

Nel tempo in cui non potevamo partecipare alla Messa, ci veniva da riflettere sulle cose che ci mancavano, sulle cose a cui non potevamo attendere personalmente. Una di queste, tra tante nella Messa, è l’acclamazione al vangelo. Io ho spesso riflettuto su questo momento, dicendo anche cose che possono essere giudicate come impopolari ma che per me sono profondamente vere. Una di queste riguarda il carattere che viene dato a questo momento liturgico in tante parrocchie, l’allegria, la festa, quasi il danzante. Ma in realtà queste sono mondanizzazioni di questo momento liturgico, il cui carattere corrisponderebbe al grave e solenne, che non vuol dire non gioioso. La gioia cristiana non è sfacciata, non è la gioia mondana. Gesù dice che ci lascia la pace, ci da la sua pace, che non è il pacifismo ma la riconciliazione di anime e cuori nella pace celeste. Se guardiamo al canto gregoriano, ci accorgiamo come gli alleluia siano gravi e solenni, ma nel contempo gioiosi. Non si ricerca una gioia puramente umana, ma tutto viene sempre trasfigurato in senso spirituale. Voglio riprendere un bel commento che lo scrittore Camillo Langone fece nel 2013 in occasione dell’uscita di un mio libro sulla liturgia su Il Foglio: “Santa Cecilia, prega per Aurelio Porfiri che essendo un musicista romano fedele a Santa Romana Chiesa vive e lavora a Macao. Nel “Canto dei secoli” (Marcianum Press) scrive ovviamente di musica sacra ma presenta criteri validi per giudicare la cattolicità di ogni altro linguaggio artistico, pittura e architettura comprese. La chiesa, dice Porfiri, dev’essere contenuto e non contenitore: ad esempio, l’organo è il suono della chiesa-contenuto (essendo intrinseco al sacro), la chitarra della chiesacontenitore (essendo intrinseca alla musica profana e gettata nella liturgia dall’esterno). Ma la pagina che preferisco è la numero 80, laddove l’oggettività

si fa anche soggettività, anche gusto. Porfiri è contrario a una musica liturgica che dia sempre e comunque una “rappresentazione della vita come gioia”. Anche a me, in chiesa, la musica gioiosa rende nervoso. Santa Cecilia, prega per noi poco amati amanti della musica liturgica austera, severa, perfino triste, noi che in chiesa cerchiamo ragione del dolore perché le ragioni del piacere si trovano dappertutto”. Da ottimo scrittore qual è Langone, ha saputo sintetizzare in poche righe quello che noi dovremmo aver capito. Visto che il canto gregoriano è il modello della musica liturgica, come ribadito anche da papa Francesco, ascoltiamo i tanti alleluia, per esempio Alleluia-Iustus, o Alleluia-Pascha nostrum e cerchiamo di capire che la gioia a cui si cerca di arrivare è quella dello spirito, non quella soltanto dettata dai fremiti del corpo. Il papa Francesco, in una delle sue messe a santa Marta nel 2018 spiegava la gioia cristiana, e così la sua omelia veniva riportata: “«La gioia non è vivere di risata in risata, no, non è quello» ha messo in guardia il Pontefice. E «la gioia — ha aggiunto — non è essere divertente, no, non è quello, è un’altra cosa». Perché «la gioia cristiana è la pace, la pace che c’è nelle radici, la pace del cuore, la pace che soltanto Dio ci può dare: questa è la gioia cristiana». Il Papa ha fatto presente che «non è facile custodire questa gioia». E «l’apostolo Pietro dice che è la fede che la custodisce: io credo che Dio mi ha rigenerato, credo che mi darà quel premio». Proprio «questa è la fede e con questa fede si custodisce la gioia, si custodisce la consolazione». Dunque «la gioia, la consolazione, ma soltanto è la fede a custodirla»“. La gioia cristiana non è divertimento, frenesia di movimento e di battiti di mani. Ho già dedicato un altro articolo a questi alleluia che spesso ci ritroviamo in chiesa, da quello detto “delle lampadine” ad altri. Abbiamo proprio deviato dalla retta spiritualità cristiana applicata alla liturgia. Parlando nella quarta domenica di quaresima del 2007, nel suo Angelus Benedetto XVI diceva: “Oggi la liturgia ci invita a rallegrarci perché si avvicina la Pasqua, il giorno della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Ma dove si trova la sorgente della gioia cristiana se non nell’Eucaristia, che Cristo ci ha lasciato come Cibo spirituale, mentre siamo pellegrini su questa terra? L’Eucaristia alimenta nei credenti di ogni epoca quella letizia profonda, che fa tutt’uno con l’amore e con la pace, e che ha origine dalla comunione con Dio e con i fratelli“. Quindi la vera letizia non è stare bene con noi stessi, festeggiare con gli amici con canti insulsi, ma radicarsi nella liturgia stessa, provando quella gioia che ci eleva alle bellezze della letizia celeste. Nel suo Discorso 337 per l’edificazione di una chiesa, Sant’Agostino che ha dedicato anche stupende al giubilo (jubilus) nel canto, dice: “Pertanto, come questo edificio visibile è stato costruito per radunarci materialmente, così quell'edificio, che siamo noi stessi, è

costruito per Dio che vi abiterà spiritualmente. Dice l'Apostolo: Santo è infatti il tempio di Dio che siete voi. A quel modo che costruiamo questo con ammassi di pietre, edificheremo quello mediante atteggiamenti di vita che vi corrispondano adeguatamente. Questo si dedica ora, nel corso di questa nostra visita, quello sarà dedicato alla fine del tempo con la venuta del Signore, quando questo nostro, corruttibile, si vestirà di incorruttibilità, e questo nostro, mortale, si vestirà di immortalità: conformerà infatti il corpo della nostra umiliazione al suo corpo glorioso. Considerate infatti il senso che vuole esprimere nel Salmo della dedicazione: Hai mutato il mio lamento in festa per me; hai lacerato la mia veste di sacco, mi hai rivestito di un abito di gioia: perch é la mia gioia sia per te un canto, ed io non sia ferito. Infatti, mentre veniamo edificati, la nostra miseria rivolge a lui i suoi gemiti; ma quando saremo dedicati, la nostra gloria sarà un canto per lui: in realtà la costruzione comporta fatica, la dedicazione apporta letizia. Finché si cavano le pietre dai monti e gli alberi dai boschi, si dà loro forma, si sgrossano, si combinano insieme, è fatica e preoccupazione; ma quando si celebra la dedicazione dell'edificio compiutamente realizzato, al posto delle fatiche e delle preoccupazioni, c'è gioia e sicurezza. Così pure quanto alla costruzione spirituale: chi l'inabita, Dio, non sarà presente per qualche tempo, ma per l'eternità. Mentre gli uomini sono allontanati da una vita di infedeltà e portati alla fede, mentre viene reciso e portato via tutto ciò che in essi è l'opposto del bene e perversione, mentre si fanno connessure appropriate, senza attrito e con devozione, quante tentazioni non si temono, quante tribolazioni non si tollerano? Però, al sopraggiungere del giorno della dedicazione del tempio dell'eternità, quando ci si dirà: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo, quale mai sarà l'esultanza, quale la perfetta sicurezza? Sarà il canto della gloria, la debolezza non si sentirà ferita. Quando ci si rivelerà colui che ci ha amato e ha dato se stesso per noi, quando colui che si mostrò agli uomini in quel che si fece nella Madre, si manifesterà loro Dio Creatore secondo quel che era nel Padre, quando egli, eternamente presente nella sua casa, all'entrarvi la troverà perfetta, adorna, costituita nell'unità, nella veste dell'immortalità, colmerà di sé tutte le cose e in tutte risplenderà, così che Dio sia tutto in tutti“. La gioia che ricerchiamo è la gioia che viene da Dio, non quella puramente umana che se può essere gradevole al di fuori del Tempio, all’interno suona vuota e stonata.

Cantantibus organis

Tempo fa, l’incendio che ha colpito la cattedrale di Nantes e il danneggiamento dell’organo a canne di quella chiesa ha fatto molto parlare sui giornali e sui social. La cattedrale è in effetti famosa per i suoi organi storici, gravemente danneggiati da questo atto scriteriato. Prendendo ispirazione da questo grave fatto, vorrei concentrare la mia attenzione su un altro fatto che è a questo collegato, anche se in modo indiretto. E questo riguarda lo stato di tantissimi organi a canne nelle nostre chiese, che sono praticamente abbandonati a loro stessi, rendendone l’utilizzo sempre più difficile se non a costo di restauri molto onerosi. Un organo a canne è una macchina complessa, ed è anche uno strumento che ha costi elevati. Un organo di medie dimensioni può costare cifre molto alte, a livello quasi di un appartamento o di una macchina nuova. Questo perché è uno strumento complesso che richiede grande perizia nella costruzione e materiali specifici. Eppure la Chiesa ha sempre supportato la costruzione di organi a canne proprio per quanto possono contribuire alla celebrazione liturgica. Non dimentichiamo che la costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium al punto 120 dice: “ Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l'organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, a norma degli articoli 22-2, 37 e 40, purch é siano adatti all'uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l'edificazione dei fedeli“. Gli altri strumenti si possono ammettere, non si devono ammettere, come oggi sembra scontato. Se si fa un giro in molte chiese importanti qui a Roma, per esempio, si scoprirà che tanti organi sono in stato di semi abbandono, anche perché non c’è l’interesse nel farli suonare, non c’è l’interesse nel coinvolgere dei professionisti organisti o maestri che possano valorizzarli. È come lasciare una Ferrari in garage per anni e anni, alla fine non funziona più. Questa, è una tragedia nella tragedia del declino della liturgia. Parliamoci chiaro, in alcuni casi veramente non ci sono i soldi per i restauri, che come detto non sono economici. Ma in molti casi c’è semplicemente disinteresse, semplicemente si cerca di far morire

quello con cui non ci si vuole confrontare. E questa è una conseguenza, come ho già detto, dello stato di declino di abbandono della liturgia cattolica. In molti casi si usano gli organi digitali o campionati, che riproducono i suoni dell’organo a canne e che sono certamente molto più economici. Ho affrontato questo problema già in passato riferendomi all’acquisto di un organo campionato per sostituire l’organo a canne, perfettamente funzionante, nella basilica di San Pietro. Quello che voglio dire è che un organo campionato, per quanto certamente preferibile a tanti altri tipi di strumenti, non potrà mai sostituire un organo a canne, che se possibile, va sempre preferito. Oggi si parla tanto del Concilio Vaticano secondo. Ecco, quello dell’abbandono degli organi a canne, è un altro caso di interpretazione tendenziosa di quello che i documenti hanno veramente detto. Certo, ci sono varie chiese in cui si ha cura per i propri strumenti, e si cerca di investire risorse per mantenerli pienamente funzionanti. Ma oggi questo è divenuto un fatto raro, un fatto che quando accade si palesa come eccezione nella oramai corrotta regola.

Il sacerdozio cattolico e la tradizione

Credo che uno dei segni più evidenti della crisi post conciliare si possa riconoscere nella profonda crisi di identità del sacerdozio cattolico. Si è pensato che per avvicinare i fedeli si dovesse rendere il sacerdote più simile a loro, quasi a volerlo laicizzare per renderlo più accessibile. Essere anti tradizionale è sembrata ad alcuni una evoluzione. Se l’intenzione sembra buona le conseguenze si sono dimostrate disastrose, in quanto al fedele non deve importare la personalità di questo o quel sacerdote, ma la sua funzione. Il sacerdote potrebbe essere simpatico o antipatico, questo è secondario rispetto al suo ruolo di “sacerdote”, che è colui che compie le cose sacre o “prete, presbitero”, il più anziano e saggio in questa accezione. Questo rincorrere il giovanilismo, che è una delle malatte dei tempi recenti non ha prodotto poi grandi frutti. I giovani rincorsi hanno continuato a correre e non sono mai stati raggiunti. In una udienza del 21 novembre 1973 Paolo VI ammoniva: “Ricordiamo bene questa grande lezione, che deve penetrare nella pedagogia del cristiano moderno:

guardare con serena obiettività tutto l’orizzonte delle cose e dei fatti che ci circondano; anzi con ammirazione, con entusiasmo e con occhio scientifico tutto il panorama della creazione; con rispetto, con simpatia, con amore ogni volto umano, straniero o nemico che sia; con sguardo saggio e critico ogni manifestazione dell’esperienza umana, che offenda, o non accolga il giudizio morale, al quale la nostra professione cristiana ci obbliga. Qui cominciano le difficoltà. Noi siamo stati forse troppo deboli e imprudenti in questo atteggiamento, al quale la scuola del cristianesimo moderno ci invita: il riconoscimento del mondo profano nei suoi diritti e nei suoi valori; la simpatia anzi e l’ammirazione che gli sono forse dovute. Noi siamo spesso, nella pratica, andati oltre il segno. Il contegno così detto permissivo del nostro giudizio morale e della nostra condotta pratica; la transigenza verso l’esperienza del male, col sofistico pretesto di volerlo conoscere per sapersene poi difendere (la medicina non ammette questo criterio; perché dovrebbe ammetterlo chi vuol preservare la propria salute spirituale e morale? ); il laicismo, che volendo segnare i confini di determinate competenze specifiche, si impone come autosufficiente e passa alla negazione di altri valori e di altre realtà; la rinuncia ambigua, e forse ipocrita, ai segni esteriori della propria identità religiosa; eccetera, hanno insinuato in molti la comoda persuasione che oggi, anche chi è cristiano, deve assimilarsi alla massa umana, qual è, senza prendersi cura di marcare a proprio conto qualche distinzione, e senza pretendere, noi cristiani, d’avere qualche cosa di proprio e di originale, che possa, al confronto degli altri, apportare qualche salutare vantaggio”. Anche il tanto discusso Paolo VI ben identifica la vera questione e rimarca quella necessaria distinzione che deve esistere per il Crstiano, tanto più per il consacrato a Dio in modo speciale. Ricordando l’istituzione del sacerdozio cattolico, facciamo memoria del dono fatto all’umanità e riflettiamo sulla sua etimologia con sempre più viva attenzione.

La fine e l’inizio

Nella liturgia del venerdì santo abbiamo un importante richiamo allo spogliamento di noi stessi, uno spogliamento che ci costringe a guardare all’essenziale di quello che siamo, a da dove veniamo e dove andiamo. Morte,

vita, identità…questo e altro fanno capolino nei nostri pensieri, malgrado i tentativi che mettiamo in atto per scacciare questi pesi impegnativi dal,nostro orizzonte mentale. Eppure con la morte stiamo facendo i conti da almeno due anni e mezzo, da quando prima la pandemia e poi il conflitto tra Russia e Ucraina ce la sbattono in faccia ogni giorno. Fine o inizio? È questa la domanda che ci sentiamo porre continuamente e non sempre riusciamo a dare una risposta che ci soddisfi, impregnati come siamo di bieco materialismo che rende la nostra vita in apparenza più facile, ma in realtà più tragica. Trovare risposte nella tradizione non è eludere la questione, ma andarla a trovare laddove è stata elaborata da secoli, anche da millenni. Che il nostro sguardo possa essere ancora limpido per cogliere la luce che fa capolino dietro qualche aurora a cui ci siamo troppo abituati.

Se non risorge, la speranza è vana

La risurrezione di Cristo è la festa che ci mette con le spalle al muro e provoca nel nostro animo una decisione che deve essere per Lui o contro di Lui. Mentre il Natale è in fondo più accettabile, si tratta ci celebrare la nascita di un bambino (tralasciando ovviamente tutto ciò che non ci fa comodo), la Pasqua no, la Pasqua ci mette di fronte al mistero della morte e alla pretesa inaudita della risurrezione. Nella prima lettera ai Corinzi (15, 12-19) san Paolo lo diceva già molto bene: “Ora, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo mentre di fatto non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che

sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini”. Ma per accettare questa risurrezione dobbiamo prima entrare nel mistero della sua Passione e Morte, un mistero che ci tocca spesso anche quando ci sono perso e vicino a noi che sono pronte al transito all’altra vita. Accanto a loro ci domandiamo: che cosa ci aspetta? In questi giorni della Settimana Santa questa domanda si fa ancora più urgente e ci spinge ad entrare attraverso il triduo sacro in quel mistero che tutti ci riguarda. Oggi però si tende a nascondere, a negare, a pensare che tutto questo non dovrebbe esistere, ma invece esiste. La morte di Cristo riassume le nostre morti come la sua risurrezione promette la nostra.

Vita liturgica e il ruolo di Maria

È stato facilmente osservabile negli ultimi decenni, un certo senso di imbarazzo per quello che riguarda il ruolo della Beata Vergine Maria nella liturgia. È certo che nella liturgia ci rivolgiamo a Dio con la mediazione di Cristo, sommo ed eterno sacerdote. Ma la Madre è la via al Figlio, ad Iesu, per Mariam. Nel suo Trattato della vera devozione a Maria, san Luigi Maria Grignion de Montfort tra l’altro affermava: “Tutta la nostra perfezione consiste nell’essere conformi, uniti e consacrati a Gesù Cristo». Perciò la più perfetta di tutte le devozioni è incontestabilmente quella che ci conforma, unisce e consacra più perfettamente a Gesù Cristo. Ora, essendo Maria la creatura più conforme a Gesù Cristo, ne segue che tra tutte le devozioni, quella che consacra e conforma più un’anima a Nostro Signore è la devozione a Maria, sua santa Madre, e che più un’anima sarà consacrata a lei, più sarà consacrata a Gesù Cristo. La perfetta consacrazione a Gesù Cristo, quindi, altro non è che una consacrazione perfetta e totale di se stessi alla Vergine santissima e questa è la devozione che io insegno”. In questo senso, la via a Maria ci conduce a Cristo. Nella prima preghiera eucaristica viene menzionata “la gloriosa e sempre vergine Maria”. Eppure sembra che il ruolo di Maria oggi debba essere in un qualche modo quasi minimizzato nella liturgia. Nel passato attorno alla figura della Madre di Dio vi era una costruzione imponente di feste e devozioni e - se ci pensate bene - questo è ancora oggi

testimoniato da molti canti devozionali ancora nella memoria del popolo, per la gran parte mariani. I mesi di maggio ed ottobre gli erano dedicati (lo sarebbero ancora) e vi erano numerose processioni in suo onore. Oggi tutto questo si è ridotto a pochissimo, ma non dobbiamo dimenticare che è la Madre che ci indica il Figlio. Vittorio Messori, nel suo Ipotesi su Maria del 2015 diceva: “La Madre, come è stato osservato, e come io stesso sperimentai, la si scopre dopo, quando si è entrati in intimità col Figlio e questi fa accedere «dentro alla casa»”. Poi metteva in guardia da certe corruzioni del devozionalismo: “Tra le sfide che mi sono proposte, c’è anche cercare di mostrare che è possibile amare, venerare, lodare la Madonna per quanto merita (e che ha profondità insondabili), senza cadere in certo stile «madonnaro». Intendo, con questo, i toni soavi, le voci impostate, i cori di bimbi, i mazzetti di fiori, i languori, i commossi fervori, gli appelli a quei sentimentalismi che sono il contrario del sentimento. Quest’ultimo è doveroso quando si parla della Madre. Ma è doveroso pure non cadere in una melassa dolciastra che – me lo dice l’esperienza, anche personale – allontana piuttosto che avvicinare chi sia estraneo al circolo di certo devozionalismo”. È interessante questa riflessione, pur se si deve riconoscere che tutte le cose anche giustamente deprecate dal noto scrittore forse erano una appendice necessaria al modo in cui il popolo viveva la sua devozione alla Madre. Essa scandiva i tempi liturgici al canto delle antifone che oggi sono in parte dimenticate: Alma Redemptoris Mater (Avvento e Natale fino al 2 febbraio), Ave Regina Coelorum (Quaresima fino a giovedì santo), Regina Coeli (tempo pasquale fino a Pentecoste) e Salve Regina (dopo Pentecoste). Le ultime due sono ancora diffuse ma le prime due sono state dimenticate nella maggior parte delle nostre chiese. Eppure il ruolo di Maria nella storia della salvezza e nella nostra storia concreta è stato riportato in auge proprio dall’atto compiuto il 25 marzo scorso, con la consacrazione al suo Cuore Immacolato di Russia e Ucraina. Un atto con cui La si è messa ancora in grande rilievo per il suo ruolo attraverso le sue manifestazioni nella storia dell’umanità. Questo suo ruolo faceva dire a san Giovanni Bosco: “È quasi impossibile andare a Gesù se non ci si va per mezzo di Maria”. Dovremmo riscoprire l’importanza di questa mediazione dopo decenni in cui il suo ruolo è stato minimizzato per non mettere in secondo piano quello del Figlio, comprendendo che in realtà il Figlio è perché la Madre disse fiat, e a cui dobbiamo chiedere, come si dice nel bell’inno Ave Maris Stella, di dimostrarsi anche nostra Madre. Essa ci aprirà la porta della sua casa e ci mostrerà Suo Figlio.

La Vergine Maria fra canzoncine e canzoni

Ho detto già molte volte in precedenza di come la Vergine Maria sia stata sempre oggetto di profonda attenzione non solo da parte di pittori e scultori, ma anche da parte di musicisti. E non parlo soltanto delle meravigliose composizioni in suo onore nel canto gregoriano e nella polifonia, ma anche di quelle composizioni che si trovano nel canto popolare. In effetti bisogna osservare che il canto popolare è tracimante di composizioni in onore della Madonna, alcune ancora popolari al giorno d’oggi. Certo, alcune di queste composizioni erano popolari nel vero e autentico senso della parola, provenivano dall’animo del popolo e rappresentavano anche un’Italia contadina che oggi, in quel modo, non esiste più. Eppure in esse ritroviamo quella certa purezza ed ingenuità che le rendeva comunque un omaggio dignitoso a Maria. Nei canti popolari profani di un tempo, i temi ricorrenti erano la natura, l’amore, la guerra, il lavoro, tutte quelle cose che formavano le preoccupazioni della gente semplice. Quando questi canti popolari prendevano una forma religiosa, per esempio per la Madre di Dio, divenendo quello che noi chiamiamo canzoncine mariane (ce ne sono ovviamente anche composte da musicisti professionisti) la vicinanza con il canto popolare profano non dava così fastidio, anche perché la matrice remota e prossima era comune. C’era spesso un’influenza della modalità ecclesiastica anche nei canti profani (ancora oggi molte canzoni risentono di quella influenza). Oggi, innanzitutto abbiamo una grande confusione fra canto liturgico e canto popolare. Ricordiamo che le canzoncine mariane venivano eseguite in occasioni extra liturgiche e non durante la liturgia. Il canto liturgico rappresent(av)a l’oggettività della liturgia, il canto popolare introduceva l’elemento più soggettivo e sentimentale, facendo attenzione al non cadere nel sentimentalistico (e ovviamente non sempre ci si riusciva). Ma oggi per molti i modelli per i canti popolari sono quelli della musica commerciale. Ora, abbiamo visto sopra i valori dei canti profani di un tempo (in linea generale): amore, guerra, lavoro e via dicendo. Su cosa invece è basata la scala valoriale di gran parte della moderna musica commerciale il cui scopo e di vendere il più possibile? Sesso, idea distorta dei rapporti familiari e affettivi,

violenza, angoscia. Insomma, tutti valori che nulla hanno a che fare con la nostra religione.

Segni di riverenza nella liturgia

Avrete osservato che se si vuole significare l’importanza di qualcuno o qualcuna, si compiono gesti verbali e non verbali. Tra questi c’è il modo di interloquire con questa persona, che nell’italiano conosce il formale “Lei” e l’ancora più formale “Voi”, gesti del corpo come il chinare il capo o altri movimenti si cui la prossemica potrebbe fornire molte più informazioni. Non ho mai ben capito perché nella liturgia questi segni di riverenza vengono oggi dalla maggior parte dei fedeli ignorati. Se ben ricordo uno dei cavalli di battaglia della riforma della Messa è stato quello della formazione liturgica del fedele. Eppure i risultati di questa formazione, se prendiamo come riferimento i 57 anni che ci separano dall’entrata in vigore della Sacrosanctum Concilium (7 marzo 1965) sembrano ancora ben lontani dall’essere recepiti. E si parla oramai di un buon campione della popolazione, se si pensa che chi aveva circa 10 anni al tempo di quella promulgazione (cioè era in età pienamente educabile) oggi si avvicina ai 70 anni. Eppure basta osservare le liturgie nelle nostre parrocchie per rendersene conto. Non bisogna prendersela troppo con i fedeli se si considera che l’esempio di dignità liturgica che giunge da troppi sacerdoti non è certo dei più edificanti. Modi di celebrare sciatti, fantasiosi, all’insegna di una creatività fuori posto non sono pedagogicamente il modo più adatto per invogliare i fedeli a mostrare la propria riverenza. Plinio Corrêa de Oliveira, riferendosi ad altro, ha detto: “Dio affida a talune persone la missione di essere simboli. Esse hanno un portamento, un modo d'essere che corrisponde a una certa grazia, accompagnato dalla capacità di esprimere sensibilmente questa grazia. Hanno un modo d'essere che rende particolarmente allettante le virtù legate alla grazia. Perciò sono chiamate non solo a praticarla in modo esimio, ma a simboleggiarla”. Ecco, possiamo applicare tutto questo anche al portamento liturgico e al modo di essere nella liturgia. Se il sacerdote per primo non simboleggia quella dignità della liturgia, come si potrà pensare che il fedele lo farà spontaneamente? Ma prendete ad

esempio il canto. Ci è stato inculcato ad nauseam che bisogna partecipare al canto, ma quale esempio ci viene da sacerdoti che per la maggior parte non cantano le parti a loro dovute? Possiamo pensare anche alla dovuta riverenza che si deve mostrare al nome di Gesù: “L’inchino del capo si fa quando vengono nominate insieme le tre divine Persone; al nome di Gesù, della beata Vergine Maria e del Santo in onore del quale si celebra la Messa” (OGMR). Quanti sacerdoti lo fanno ancora? Il secondo Concilio di Lione del 1274 diceva: “Quelli che vi si radunano lodino con un atto di speciale reverenza quel nome, che è al di sopra di ogni nome al di fuori del quale non ne è stato dato altro gli uomini, in cui i fedeli possano esser salvati: cioè il nome di Gesù Cristo, che salverà il suo popolo dai suoi peccati. Ciò, inoltre, che generalmente si scrive: che nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio, ognuno, adempiendolo singolarmente in sé, – specie quando si celebrano i sacri misteri della messa – ogni volta che si ricorda quel nome glorioso, pieghi i ginocchi del suo cuore; cosa che si può fare anche col solo inchino del capo”. Il padre Edward McNamara ( Zenit) dice al proposito: “Laddove si è persa l’usanza, qualsiasi membro dei fedeli può continuare a farlo come devozione privata e atto di riverenza e, in molti luoghi, un buon numero di cattolici mantiene la pratica. Anche per diaconi o concelebranti che esercitano una funzione ministeriale, di nuovo non ritengo che il testo dell’OGMR costituisca un divieto. Tuttavia, se si è l’unico, a parte il celebrante, a compiere il gesto, sarebbe forse meglio trattenersi dal farlo per non attirare l’attenzione su di sé”. Ma io ritengo che questi gesti non dovrebbero essere lasciati all’arbitrio di questo o quel celebrante ma dovrebbero essere sempre presenti come segni esterni di qualcosa che poi si vivrà internamente. Se si torna all’esempio iniziale, è in questo modo che le persone percepiscono l’importanza delle altre persone, vedendo l’importanza dei gesti da cui vengono connotate. L’obiettivo non è non distrarre i fedeli, ma attrarli a quello che conta nella celebrazione. In un testo del 1864, Corso di istruzioni catechistiche fatte nella metropolitana di Milano di Angelo Raineri viene tra l’altro affermato: “Siccome un tal nome fu al mondo un oggetto di ludibrio e di avvilimento, così l'eterno Padre ha voluto che divenisse al mondo un nome di ossequio e di ossequio il più profondo. Si era egli reso obbediente, dice san Paolo, fino alla morte di croce: Factus est obediens usque ad mortem, mortem autem crucis; perciò il divin Padre, in ricompensa delle sue umiliazioni e della sua eroica ubbidienza, volle esaltarlo infinitamente. Lo esaltò donandogli un seggio maggiore d'ogni seggio, e col farlo salire alla sua destra su quel trono stesso da cui egli governa l'universo: Sedet ad dexteram Patris; ma lo esaltò altresì dandogli un nome maggiore d'ogni nome, a cui tutte si debbano

inchinare le creature , riverenti i cieli, supplichevole la terra e tremante l’inferno: Propter quod Deus exaltavi illum, et donavit illi nomen, quod est super omne nomen. Ut in nomine Jesu omne geneflectatur caelestium, terrestrium et infernorum. Non è quindi a stupire se la Chiesa nelle sue officiature lo pronunzia sempre con particolare contrassegno di venerazione, usando maggior riverenza al nome di Gesù che non al nome di Dio stesso, poichè il nome di Dio significa Dio semplicemente, come Signore e Creatore; ma il nome di Gesù significa ancora Salvatore e Redentore. E noi come lo nominiamo? Sarebbe certo un riprovevole abuso, un abuso sacrilego il nominarlo senza necessità e senza la debita venerazione, come un nome ordinario e profano, e farlo entrar senza riserva e mal a proposito, come un certo intercalare, nei nostri discorsi. Peggio poi lo sprezzarlo, il maledirlo, il bestemmiarlo, come si fa da taluni nell'impeto de’ loro furori e delle loro escandescenze. Io non voglio credervi di questo numero. Comunque sia, ricordiamoci bene, che il divin Padre è geloso, gelosissimo della gloria di questo nome, e ne punirà un giorno severamente i profanatori”. Riprendendo quanto detto in questo testo, mi viene in mente un libro che ho curato del padre Enrico Zoffoli, Abbà, in cui ci si chiedeva perché non esistesse una festa dedicata specificamente a Dio Padre ed egli rispondeva che era così perché tutto l’anno liturgico è in effetti consacrato a Lui. Però il testo appena letto deve farci riflettere su quanto viene a mancare quando non diamo quello che è dovuto al nome di Gesù o a ogni altro nome a cui è dovuta massima ed assoluta reverenza nella liturgia. Da molti anni ho notato come nei fedeli è sempre meno forte la necessità di inginocchiarsi in alcuni momenti della Messa come la consacrazione. Questo è per me molto strano, in quanto la tanto pubblicizzata “partecipazione” dei fedeli avrebbe dovuto portare ad una maggiore comprensione di questo gesto e ad una sua più pronta attuazione. C’è chi dice che bisogna stare in piedi, chi addirittura pensa che si debba stare seduti (ve lo giuro…). In realtà ci sono motivazioni direi antropologiche per cui io penso bisogna inginocchiarsi. Quando ci si inginocchia ci si fa piccoli, come l’Eterno che si fa piccolo nell’Ostia santa. Ma il nostro è un farci piccoli davanti alla massima concentrazione spirituale nello spazio più ridotto. Santa Elisabetta della Trinità affermava: “Dopo la Comunione, possediamo tutto il cielo nella nostra anima, eccetto la visione”. E ancora: “L'eucarestia è il colmo dell'amore divino Qui Gesù non ci dà solo i suoi meriti e i suoi dolori, ma tutto se stesso”.

Quando ci si inginocchia ci si sottomette, nel senso di essere messi sotto, cioè riconosciamo che la creatura dipende dal Creatore. Se si sta seduti siamo comodi, in piedi al massimo è un atto di rispetto, ma inginocchiati noi riconosciamo la Sua Signoria e gli diamo con il nostro sacrificio il culto a Lui dovuto. Quando ci si inginocchia si riconosce in Dio il senso della nostra vita. Fëdor Dostoevskij diceva: “Vivere senza Dio è un rompicapo e un tormento. L'uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa. Se l'uomo rifiuta Dio, si inginocchia davanti ad un idolo”. Riconosciamo che Egli è il senso del tutto e doniamogli quegli istanti in cui Lui soprattutto si dona. Quando ci si inginocchia, preferibilmente senza cuscino ad attutire il fastidio, si accetta quel sacrificio per espiare tutte quelle colpe di cui sicuramente ci siamo macchiati. Ci poniamo indegnamente davanti a Lui che si sacrifica sommamente e facciamo un piccolo sacrificio simbolico per ricongiungerci al dramma della redenzione.

La preghiera a san Michele Arcangelo

Qualche domenica fa mi trovavo a Messa ed un sacerdote ha suggerito tutti i fedeli di recitare ad impetrazione della misericordia di Dio la bella preghiera a san Michele Arcangelo di Leone XIII, un tempo certo molto più familiare ai cattolici. Da quel giorno lo faccio quotidianamente e ho imparato ad apprezzare la bellezza e profondità di questa preghiera. È bene recitarla in latino e questo è il testo: Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute, in infernum detrude. Amen. Questa preghiera è molto popolare ancora per coloro che seguono la liturgia tradizionale, in quanto viene recitata alla fine della Messa. Fornisco una traduzione italiana disponibile in rete:

San Michele Arcangelo, difendici nella lotta; sii nostro aiuto contro la cattiveria e le insidie del demonio. Gli comandi Iddio, supplichevoli ti preghiamo: tu, che sei il Principe della milizia celeste, con la forza divina rinchiudi nell'inferno Satana e gli altri spiriti maligni che girano il mondo per portare le anime alla dannazione. Amen. Il papa Leone XIII compose questa preghiera in seguito ad una orribile visione che ebbe il 13 ottobre 1884: “Dopo aver celebrato l’Eucaristia, si stava consultando con i suoi cardinali su alcuni temi nella cappella privata del Vaticano quando all’improvviso si fermò ai piedi dell’altare e rimase immerso in una realtà che solo lui riusciva a vedere. Sul suo volto si leggeva l’orrore. Impallidì. Aveva visto qualcosa di molto duro. Improvvisamente si riprese, alzò la mano come a salutare e se ne andò nel suo studio privato. Lo seguirono e gli chiesero: “Cosa succede a Sua Santità? Si sente male?” Rispose: “Oh, che immagini terribili mi è stato permesso di vedere e ascoltare!”, e si chiuse nel suo ufficio. Cosa aveva visto Leone XIII? “Ho visto i demoni e ho sentito i loro bisbigli, le loro blasfemie, le loro denigrazioni. Ho sentito la voce raccapricciante di Satana sfidare Dio, dicendo che poteva distruggere la Chiesa e portare tutto il mondo all’inferno se gli dava abbastanza tempo e potere. Satana ha chiesto a Dio il permesso di avere 100 anni per influenzare il mondo come mai era riuscito a fare prima”. Anche Leone XIII capiva che se il demonio non fosse riuscito a realizzare il suo proposito nel tempo permesso avrebbe subito una sconfitta umiliante. Il Pontefice vide San Michele Arcangelo apparire e gettare Satana e le sue legioni nell’abisso dell’inferno. Mezz’ora dopo chiamò il segretario della Congregazione dei Riti e gli consegnò un foglio, ordinandogli di inviarlo a tutti i vescovi del mondo indicando che la preghiera che conteneva doveva essere recitata dopo ogni Messa” (in aletheia.org). E in effetti nella preghiera troviamo sintetizzata la lotta terribile che il bene deve affrontare contro il male, una lotta in cui si chiede a san Michele Arcangelo di intercedere per noi perché Dio possa finalmente regnare e scacciare il maligno per stabilire il suo imperio. Un interessante articolo del 1992 chiamato Russia and the Leonine Prayers del sacerdote tradizionalista, ora deceduto, Anthony Cekada indaga sull’origine e il significato delle preghiere leonine (che comprendevano tre Ave Marie e la Salve Regina, oltre alla preghiera a san Michele). Nell’articolo padre Cekada ricorda come queste preghiere fossero state prescritte per la conversione della Russia mettendo in questione se fosse appropriato recitarle ancora per lo stesso scopo e mette in dubbio la genesi della preghiera a san Michele Arcangelo che abbiamo

riferito sopra. Sia quello che sia, la preghiera a san Michele Arcangelo è certamente importante per la vita spirituale del cattolico, lo è tanto che in un Regina Coeli del 24 aprile 1994 Giovanni Paolo II la raccomandò: “Possa la preghiera fortificarci per quella battaglia spirituale di cui parla la Lettera agli Efesini: "Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza" ( Ef 6, 10). E’ a questa stessa battaglia che si riferisce il Libro dell'Apocalisse, richiamando davanti ai nostri occhi l'immagine di san Michele Arcangelo (cfr. Ap 12, 7). Aveva di sicuro ben presente questa scena il Papa Leone XIII, quando, alla fine del secolo scorso, introdusse in tutta la Chiesa una speciale preghiera a San Michele: "San Michele Arcangelo difendici nella battaglia contro i mali e le insidie del maligno; sii nostro riparo . . .". Anche se oggi questa preghiera non viene più recitata al termine della celebrazione eucaristica, invito tutti a non dimenticarla, ma a recitarla per ottenere di essere aiutati nella battaglia contro le forze delle tenebre e contro lo spirito di questo mondo”. E ancora nel 2018 papa Francesco pregava i fedeli di usare questa preghiera e Sub tuum praesidium per concludere il Rosario. La preghiera a san Michele Arcangelo è solitamente recitata, anche se esiste una versione del 1902 edita da Solesmes in pseudo gregoriano. La versione da me composta vuole favorire il canto unisono e popolare di questa preghiera, sperando che entri nell’uso comune per la maggior gloria di Dio.

La preghiera a san Raffaele Arcangelo

Se è nota la preghiera a san Michele, meno lo è quella a san Raffaele arcangelo. Ecco il testo: Dirigere dignare, Domine Deus, in adiutorium nostrum, sanctum Raphaelem Archangelum; et quem tuae maiestati semper assistere credimus, tibi nostras exiguas preces benedicendas assignet. Per Christum Dominum nostrum. Amen. Ed ecco una traduzione: Consenti, o Signore Dio, di mandare in nostro aiuto San Raffaele Arcangelo: e possa colui che, crediamo, stare sempre davanti al trono della tua maestà,

offrirti le nostre umili suppliche di essere benedetti da te. Per Cristo nostro Signore. Amen. In realtà questo è il postcommunio per la festa di san Raffaele nel Messale del ‘62. A me è sembrato molto bello per essere usato come preghiera e anche per essere cantato. Certamente potrebbe essere cantata in occasioni extraliturgiche, come devozione privata, lasciando il suo spazio e impiego liturgico essere quello stabilito dalle rubriche.

Sant’Agostino e la musica come sapienza del cuore

Non penso ci siano molti santi che nella Chiesa cattolica hanno nell’immaginario collettivo la statura di un Sant’Agostino. Spesso lo mettiamo accanto a San Tommaso d’Aquino, proprio perché queste due sono le colonne su cui si basa la sapienza dottrinale della nostra religione. Certamente Sant’Agostino fu un gigante non soltanto della Chiesa cristiana, ma di tutta la civiltà occidentale. È un santo giustamente celebrato per le sue opere di spiritualità, teologia, esegesi, ma soprattutto per due di esse, La città di Dio e le Confessioni. In quest’ultima opera troviamo questo passaggio: “ Quante lacrime versate ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici, che risuonavano dolcemente nella tua chiesa! Una commozione violenta: quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità, eccitandovi un caldo sentimento di pietà. Le lacrime che scorrevano mi facevano bene”. Ho già commentato altre volte questo passaggio in passato, perché mi sembra particolarmente significativo. Sant’Agostino si occupò molto di musica anche nei suoi trattati, e nel testo citato in precedenza, le Confessioni, parla molto dell’effetto che la musica faceva sugli ascoltatori, un effetto positivo ma che poteva essere anche vissuto come una tentazione, la tentazione di cedere al piacere estetico piuttosto che al contenuto di preghiera che la musica veicola. Gli accenti fluivano nelle orecchie: prima viene l’ascolto, il nostro è mettersi a disposizione e di un impulso sonoro che ci viene da fuori. Naturalmente

dobbiamo educare la nostra capacità di ascoltare, e nostre orecchie vanno educati a discernere quei suoni che veramente possono aiutare la crescita della nostra vita spirituale. La Chiesa cattolica nel passato ha molto investito nell’educare i fedeli all’ascolto di una musica sacra che fosse degna della celebrazione. Certamente non tutti periodi della sua storia i repertori sono stati all’altezza, ma in generale si è stati in grado di accumulare dei tesori di arte e cultura. Ricordiamo che Sant’Agostino fa precedere queste frasi che stiamo citando dall’affermazione che ha provato “una commozione violenta“. Perché noi abbiamo forse troppo intellettualizzato la nostra esperienza liturgica non pensando che la gran parte di quello che orienta la nostra vita è a livello emozionale, spesso neanche raggiunge il livello razionale. Si è troppo puntato sulla “comprensione intellettuale“, anche nel caso della lingua liturgica. Quando la comprensione più profonda spesso viene fatta ad un livello diverso. Non dimentichiamo l’importanza del ruolo delle emozioni. Sant’Agostino ci dice anche che quell’ascolto, che lo aveva così commosso, aveva fatto in modo di distillare la verità nel suo cuore, cioè una verità che gli scavava dentro piano piano, con grande pazienza. Il linguaggio della musica, ci parla con pazienza, è una pedagogia che si capisce poco a poco, lo si deve lasciare lavorare nel nostro interno. Allora potranno sgorgare quelle lacrime, di cui parla sempre Sant’Agostino, che ci fanno bene. Perché noi associamo sempre le lacrime con il dolore, ma in questo caso sono lacrime di comprensione profonda, non la comprensione intellettuale, che è soltanto una parte della nostra abilità di comprendere, ma quella comprensione che non sa dire. Come dicevamo prima, la comprensione che sa anche avvolgere le nostre emozioni, la nostra parte più profonda e ancestrale. Ridurre l’esperienza musicale ad un’esperienza funzionale, e non anche estetica, è veramente non comprendere il potere che la musica può avere sull’animo dei suoi ascoltatori. Forse meditare ancora questo testo di Sant’Agostino non può che farci bene. Specialmente in tempi in cui la musica sembra non ricevere quell’attenzione che certamente meriterebbe.

Il saluto musicale alla Vergine Maria

Tutti noi siamo familiari con la preghiera dell’Ave Maria, alcuni la recitano ogni giorno come preghiera serale o mattutina o nel rosario. È anche noto che questa preghiera è stata musicata milioni di volte e vorrei presentare alcune di queste versioni in modo che chi non le conoscesse possa andarsele a cercare. Comincio con l’Ave Maria in canto gregoriano. Ci sono varie versioni, l’offertorio che presenta le parole dell’angelo in modo melismatico ed enfatizzando la ricchezza semantica di ogni parola e poi abbiamo l’antifona in tono semplice, facile da cantare e veramente alla portata di ogni assemblea educata al canto liturgico. Nel rinascimento si sono composte tante versioni dell’Ave Maria ma direi che la più nota ai nostri giorni è l’Ave Maria del compositore spagnolo Tomas Luis de Victoria, attivo a Roma per gran parte della sua vita. Questa Ave Maria alterna delicati contrappunti a momenti in cui il testo viene declamato in omoritmia dal coro. È un mottetto certamente tra i favoriti dei nostri cori contemporanei e lo si può trovare nei repertori corali in giro per il mondo. Venendo più vicino ai nostri tempi abbiamo Lorenzo Perosi, insigne compositore di cui sono conosciute almeno due Ave Maria, una per coro a quattro voci dispari per il coro della Cappella Sistina, e una a due voci pari e organo. Quest’ultima, di facile esecuzione, è ancora estremamente popolare specie in cori giovanili o con pochi mezzi a disposizione. Un allievo di Lorenzo Perosi era il famoso maestro di coro Bonaventura Somma, anche lui autore di varie Ave Maria che conobbero un certo successo tra i cori. Ne ricordo una in mi bemolle maggiore per coro a voci miste e organo, con un bel linguaggio cromatico svolto in modo molto elegante, un pezzo di sicuro effetto. Successore di Lorenzo Perosi alla Cappella Sistina sarà Domenico Bartolucci, che anche compose tante Ave Maria. Di Bartolucci voglio ricordare quella che troviamo nel suo secondo libro dei mottetti per solo, coro all’unisono e organo, un brano di dolcezza ineffabile che si caratterizza per l’elegantissima scrittura organistica e per la bellezza delle melodie. Insomma, è proprio vero che tutte le generazioni hanno chiamato Beata la Vergine Maria usando le parole dell’arcangelo Gabriele. Queste presentate sopra sono solo alcuni esempi che spero possano spingere alla ricerca anche di altre versioni di questa preghiera immortale. La preghiera dell’ Ave Maria, per sua struttura, ben si presta ad essere messa in

musica. La versione latina si apre con un susseguirsi di frasi con cinque sillabe ( Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum) che si allarga con i versi successivi ( benedicta tu in mulieribus) che hanno un parallelo nella conclusione della prima parte ( et benedictis fructus ventris tui) che lascia giustamente isolato il santo nome ( Iesus). Nella seconda parte ecco ripetersi le frasi di 5 sillabe o meno ( Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora, mortis nostrae. Amen), il che rende tutto facilmente memorizzabile e musicalmente gradevole da comporre. Sarà anche per questo che esistono così tante versioni musicali di questa preghiera, io stesso ne ho scritte decine. Il papa Benedetto XVI parlando a Pompei nel 2008 e riferendosi al Rosario diceva tra l’altro: “Così, recitando le Ave Maria occorre fare attenzione a che le nostre voci non "coprano" quella di Dio, il quale parla sempre attraverso il silenzio, come "il sussurro di una brezza leggera" (1 Re 19,12). Quanto è importante allora curare questo silenzio pieno di Dio sia nella recita personale che in quella comunitaria! Anche quando viene pregato, come oggi, da grandi assemblee e come ogni giorno fate in questo Santuario, è necessario che si percepisca il Rosario come preghiera contemplativa, e questo non può avvenire se manca un clima di silenzio interiore”. Ecco, l’Ave Maria deve aiutarci a raggiungere quel silenzio interiore con quella A di apertura che si dice favorisca pace e serenità.

La comunione spirituale

Negli ultimi due anni ci è stato dato modo di riflettere sull’Eucarestia in modo particolare, viste le restrizioni che sono state messe in atto cercare di arginare il contagio. Queste, in definitiva, hanno portato ad accentuare la prassi di distribuire la comunione sulla mano, già del resto ampiamente promossa da decenni e anche incoraggiata da liturgisti e prelati vari. Potrei ricordare come il compianto padre Enrico Zoffoli già negli ultimi anni del secolo passato scrivesse libri contro questa pratica, dimostrando come Giovanni Paolo II non distribuisse la comunione sulla mano durante le celebrazioni papali. Però, non è negabile che egli accettò che questo uso si diffondesse nella Chiesa,

malgrado la sua personale ritrosia affermata dal padre Zoffoli. Ora, per motivo di riverenza verso l’Eucarestia non è bene incoraggiare la pratica della comunione nelle mani del fedele, perché questo può segnalare una mancanza di riverenza nei confronti dell’Ostia consacrata. Solo mani consacrate dovrebbero essere in grado di toccare le sacre specie eucaristiche. Corrado Gnerre (in itresentieri ripreso da bastabugie) affronta le varie obiezioni usate per giustificare la pratica della comunione sulle mano del fedele: “Davvero nei primi tempi della Chiesa l'Eucaristia si riceveva nella mano? Certamente ci sono varie testimonianze che dicono questo. Ma è pur vero che ci sono anche testimonianze che attestano anche l'uso di dare la Comunione direttamente in bocca; e che la forma di darla sulla mano fosse dovuta a retaggi legati ai tempi delle persecuzioni. Va detto, inoltre, che nell'antichità era diffusa la distribuzione della Comunione usando pane fermentato e non azzimo, il che, ovviamente, non rendeva facile la perdita di frammenti. Dicevamo, ci sono testimonianze certe che attestano come sin dall'inizio vi era anche la consuetudine di deporre le sacre Specie sulle labbra dei comunicandi e anche della proibizione ai laici di toccare l'Eucaristia con le mani. Solo in caso di necessità e in tempo di persecuzione, assicura per esempio san Basilio, si poteva derogare da questa norma e quindi era concesso anche ai laici di comunicarsi con le proprie mani. Papa Sisto I fu papa dal 115 al 125. Questi proibì ai laici di toccare i vasi sacri, per cui è ampiamente fondato supporre che vietasse agli stessi di toccare le Sacre Specie eucaristiche. Sant'Eutichiano, papa dal 275 al 283, affinché non toccassero l'Eucaristia con le mani, proibì ai laici di portare le sacre Specie agli ammalati. Il Concilio di Saragozza, nel 380, emanò la scomunica contro coloro che si fossero permessi di trattare la santissima Eucaristia come in tempo di persecuzione, tempo nel quale - come abbiamo già detto - anche i laici potevano trovarsi nella necessità di toccarla con le proprie mani. Sant'Innocenzo I, dal 404, impose il rito della Comunione solo sulla lingua. Papa Sant'Innocenzo I (401-417), nel 416, nella Lettera a Decenzio, Vescovo di Gubbio, che gli chiedeva direttive riguardo alla liturgia romana che intendeva adottare, rispose affermando per tutti l'obbligo di rispettare al riguardo la Tradizione della Chiesa di Roma, perché essa discende dallo stesso Pietro, primo Papa. Ebbene, lo stesso Sant'Innocenzo come abbiamo detto prima - dal 404 aveva imposto il rito della Comunione solo sulla lingua. San Gregorio Magno narra che sant'Agapito, papa dal 535 al 536, durante i pochi mesi del suo pontificato, recatosi a Costantinopoli, guarì un sordomuto all'atto in cui "gli metteva in bocca il Corpo del Signore", dunque l'Eucaristia si dava direttamente in bocca. Il Concilio di Rouen, verso il 650, proibì al ministro dell'Eucaristia di deporre le sacre Specie sulla mano del

comunicando laico: "(Il sacerdote) badi a comunicarli (i fedeli) di propria mano, non ponga l'Eucaristia in mano a nessun laico o donna, ma la deponga solo sulle labbra con queste parole..." Sulla medesima linea il Concilio Costantinopolitano III (680-681), sotto i pontefici Agatone e Leone II, vietò ai fedeli di comunicarsi con le proprie mani e minacciò la scomunica a chi avesse avuto la temerarietà di farlo. Il Sinodo di Cordoba dell'anno 839 condannò la setta dei "casiani" a causa del loro rifiuto di ricevere la sacra Comunione direttamente in bocca. In Occidente, il gesto di prostrarsi e inginocchiarsi prima di ricevere il Corpo del Signore si osservava negli ambienti monastici già a partire dal VI secolo (per esempio nei monasteri di san Colombano) Più tardi nei secoli X e XI questo gesto si diffuse ancora di più. Quando san Tommaso d'Aquino espose nella Summa (III, 9, 82) i motivi che vietavano ai laici di toccare le sacre Specie, non parlò di un rito di recente invenzione, bensì di consuetudine liturgica antica come la Chiesa. Ecco perché il Concilio di Trento (Decreto sull'Eucaristia, Sessione III) poté affermare che non solo nella Chiesa di Dio fu una consuetudine costante che i laici ricevessero la Comunione dai sacerdoti, mentre i sacerdoti si comunicassero da sé, ma anche che tale consuetudine è di origine apostolica”. Insomma, da questa rassegna storica si capisce che la disciplina ecclesiale molto tendesse verso il non far toccare l’Ostia, purtroppo che il contrario. Ed oggi questa eccezione, quella di ricevere la comunione sulla mano, è stata fatta divenire la regola, come ci ricorda Stefano Fontana: “Le Conferenze episcopali, come si è visto, possono chiedere un indulto, ossia la sospensione della norma di ricevere la comunione in bocca, norma che rimane confermata proprio dalla necessità di un indulto per ovviarvi. L'eccezione è la comunione sulla mano e non il contrario, come molti forse oggi pensano. E ciò, dal punto di vista canonico, rimane valido anche se tutte le Conferenze episcopali avessero chiesto l'indulto. In Italia ciò è avvenuto con la delibera della CEI del 19 luglio 1989. Da questa breve rassegna possiamo concludere che la norma rimane quella della Comunione sulla lingua e che la Comunione sulla mano è una eccezione e tale rimane anche se ormai è la pratica largamente più diffusa. Va anche ricordato che la concessione dell'indulto all'inizio era prevista solo per le Conferenze episcopali che avessero già introdotto la comunione nella mano dopo la regola stabilita da Paolo VI nel 1969, ma in seguito le richieste di indulto dilagarono e fu concesso a tutte le Conferenze episcopali che lo richiedevano. È chiaro che vi fu una forzatura della norma. Infine va anche ricordato che se un vescovo volesse impedire nella sua diocesi la Comunione nella mano in termini di diritto canonico potrebbe farlo. Con tutto ciò è da ritenersi assolutamente plausibile la proposta di tornare alla

Comunione sulla lingua”. Ma visto che oramai siamo arrivati a questo punto, cosa deve fare il fedele che non intende prendere la comunione sulla mano? Esiste anche la pratica della comunione spirituale, una comunione che per quanto non efficace come quella sacramentale è ugualmente possibile quando ci sua una impossibilità di tipo materiale o di tipo morale (come nel nostro caso) nel ricevere l’Eucarestia. Padre Angelo Bellon descrive così i modi in cui la comunione spirituale può essere fatta: “La Comunione spirituale può essere fatta ovunque, anche se per godere frutti più abbondanti è necessario un certo raccoglimento e stabilire una vera comunione di pensieri e di affetti col Signore. È vero che si può fare anche in un istante e quante volte si vuole, ma in ogni caso deve essere vera Comunione, vale a dire fusione del nostro io con suo, dei nostri pensieri e dei nostri affetti con i suoi. Deve essere un momento santificante e non un fatto magico. Ottimo metodo di fare la Comunione spirituale è quello di unirla all’ascolto della Parola del Signore, e cioè nella meditazione. Ma nella meditazione e soprattutto nella contemplazione si attua la Comunione spirituale senza esprimere delle formule particolari. La si vive senza pensare di porre l’atto. Molti fanno la Comunione spirituale quando ricevono la benedizione eucaristica”. Ci sono anche preghiere che possono essere utili, come questa di sant’Alfonso Maria de’ Liguori: Ges ù mio, credo che Tu sei nel Santissimo Sacramento. Ti amo sopra ogni cosa e Ti desidero nell'anima mia. Poich é ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, io Ti abbraccio e tutto mi unisco a Te; non permettere che io mi abbia mai a separare da Te. Dobbiamo pensare ai giapponesi che per secoli hanno tramandato la fede senza avere sacerdoti, o a coloro che la conservano nella prigionia che si prolunga per anni e anni. Mai come in questo caso, la misericordia di Dio supplisce alla gravità degli eventi.

I cori al tempo del coronavirus

Ho a che fare con i cori e con la musica corale da quasi quarant’anni, quindi un tempo abbastanza grande per poter dire che l’attività corale ha riguardato la maggior parte della mia esistenza. Quindi ora mi viene da riflettere sulla situazione che si verrà a creare per via della pandemia che stiamo vivendo, una situazione che ci sorprende tutti, ci amareggia, ci spaventa, ma anche ci fa interrogare sul modo in cui sarà possibile ricominciare una volta che l’incubo sarà finito. Infatti il nuovo inizio non sarà semplice, ora che siamo terrorizzati dal fatto di essere troppo vicini a qualcuno, di potere essere investiti dai famosi droplets ed essere magari infettati da qualcuno che non mostra nessun sintomo. Perché in realtà ora vediamo tutti quanti come potenziali pericoli, e noi siamo anche potenziali pericoli per gli altri. Certamente il cantare in coro, dal punto di vista di una potenziale diffusione, non è un’attività delle più sicure, in quanto richiede vicinanza fra le persone, si emettono suoni che portano anche emissioni dei famosi droplets, delle goccioline. Quando si è in un coro di 40,50 persone, come poter essere sicuri che tutti quanti sono esenti da questo virus? Poi pensiamo che, grazie a Dio da un certo punto di vista, in molti dei nostri cori ci sono parecchie persone anziane. Come proteggerli da qualcuno che involontariamente e senza nessun sintomo potrebbe essere portatore di questo coronavirus che per un anziano, come ormai sappiamo benissimo, è molto più pericoloso? Sembrano domande assurde, e lo sono se pensiamo soltanto a quello che eravamo due anni fa. Eppure questo evento cataclismatico, ha sconvolto tutta la nostra vita e minaccia di sconvolgere anche il nostro futuro. Non possiamo non pensare a come proteggerci finché questo virus non sarà definitivamente sconfitto, cosa che tutti ci auguriamo. Perché certamente, non vogliamo rinunciare alle nostre attività corali, che sono tanto importanti per molti di noi, non solo dal punto di vista della lode a Dio, ma anche per la socializzazione. Come ho già detto molte altre volte, i cori sono delle piccole società, dove si incontrano amici, si incontrano futuri partner per la vita, si incontrano persone importanti che diventano dei punti fermi della nostra esistenza. Certamente non vogliamo rinunciare a tutto questo, ma dobbiamo capire come poter affrontare il blocco psicologico che ci è stato creato in questi anni in cui siamo stati terrorizzati con l’idea che la vicinanza può essere potenzialmente pericolosa non solo con estranei, ma anche all’interno della nostra stessa casa.

Ho visto alcuni tentare, grazie alle esperienze e alle possibilità offerte dalla tecnologia, la strada del coro virtuale. È certamente qualcosa su cui si potrà riflettere, un tipo di attività che apre delle possibilità molto interessanti in una prospettiva futura, futuro in cui le tecnologie saranno sempre più presenti nella nostra vita quotidiana. Ma queste nuove possibilità non devono poter impedirci la prossimità con gli altri, incontrare le persone, cantare uno vicino all’altro. Anche se non lo vogliamo ammettere, in tutti gli ambiti della nostra vita noi abbiamo bisogno degli altri, abbiamo bisogno di confrontarci con gli altri, di ridere con gli altri, di cantare con gli altri, di parlare con gli altri. Noi siamo animali sociali, e l’attività corale non sfugge a questa legge. Quindi, bisogna pensare a come poter continuare a fare quello che in tante parti del mondo si è sempre fatto, cantando tutti insieme e facendo esperienza della bellezza della musica corale, senza che questo trauma che ci è capitato possa bloccarci e le paure possano costituire un grave ostacolo. Bisogna ritornare ad incontrarsi, bisogna cercare una via per poter essere quello che siamo sempre stati. L’importanza di certe cose si capisce soltanto quando queste cose vengono a mancare, come spesso si dice. Ecco, ora è proprio il tempo di capire quanto era bello poter incontrare i nostri amici del coro, cantare con loro, poter incontrarsi la domenica a Messa oppure per un concerto o un’esibizione da qualche parte. Tutto questo ora ci è completamente negato, e non possiamo nascondere che ci manca, lo vogliamo indietro. Non possiamo darla vinta al coronavirus, non possiamo permettere che un virus possa dettare il modo in cui l’intera umanità deve vivere. Certo, consideriamo questa una interruzione temporanea, un momento in cui siamo stati presi di sorpresa e non abbiamo reagito adeguatamente. Eppure, bisognerà cercare di capire come ripartire, anche nell’ambito della musica corale, che riguarda milioni di persone, non lo dimentichiamo. Quindi, prendendo tutte le precauzioni del caso, bisognerà cercare di mettersi alle spalle questo tempo orribile. La paura è una cattiva maestra. Ma se ci verrà imposto l’uso delle mascherine, per motivi di sicurezza, questo sarà un altro ostacolo per poter riprendere le nostre attività corali perché certamente cantare con le mascherine non è la stessa cosa. Dobbiamo veramente pensare a come poter mantenere il nostro coro senza mettere in pericolo noi e gli altri. Non è semplice in questo momento, anzi è estremamente complesso visto che siamo preda di notizie allarmanti che ci arrivano ogni minuto da tutti i mezzi di comunicazione. Non ci facciamo incatenare la paura, noi siamo più grandi della paura, e il nobile scopo di preservare l’attività Corale per lodare Dio ma anche per farci crescere,

deve portarci a trovare soluzioni creative ed efficaci, soluzioni che possono essere implementate con sicurezza e in modo che nessuno si senta minacciato da potenziali pericoli provenienti da persone incolpevoli. Non sarà semplice all’inizio, anzi sarà molto complesso, perché veniamo da un tempo di prova veramente duro, un tempo in cui la nostra psiche è stata sottoposta ad una pressione quasi intollerabile. Ma ce la faremo, sono sicuro che ce la faremo, per il rispetto che dobbiamo noi e a coloro che ci circondano, ce la dobbiamo fare.

Preghiera di consacrazione alla Madonna

Sappiamo come in maggio e in ottobre, tradizionalmente, si dedicava una particolare attenzione alla Beata Vergine Maria, erano i cosiddetti mesi mariani. Si usava anche consacrarsi alla Madonna. Padre Gabriele Amorth così spiegava il significato di questo gesto: “"Consacrarsi alla Madonna" vuol dire accoglierla come vera madre, sull’esempio di Giovanni, perché lei per prima prende sul serio la sua maternità su di noi. La consacrazione a Maria vanta una storia molto antica, anche se si è andata sempre più sviluppando negli ultimi tempi. Il primo ad usare l’espressione "consacrazione a Maria" è stato San Giovanni Damasceno, già nella prima metà del sec. VIII. E in tutto il Medioevo era una gara di Città e Comuni che "si offrivano" alla Vergine, spesso presentandole le chiavi della Città in suggestive cerimonie. Ma è nel sec. XVII che iniziarono le grandi consacrazioni nazionali: la Francia nel 1638, il Portogallo nel 1644, l’Austria nel 1647, la Polonia nel 1656… [L’Italia arriva tardi, nel 1959, anche perché non aveva ancora raggiunto l’unità al tempo delle consacrazioni nazionali]. Ma è specialmente dopo le Apparizioni di Fatima che le consacrazioni si moltiplicano sempre più: ricordiamo la consacrazione del mondo, pronunciata da Pio XII nel 1942, seguita nel 1952 da quella dei Popoli russi, sempre ad opera dello stesso Pontefice. Ne seguirono tante altre, specie al tempo delle Peregrinatio Mariae, che terminavano quasi sempre con la consacrazione alla Madonna. Giovanni Paolo II, il 25 Marzo 1984, rinnova la consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria, in unione con tutti i Vescovi dell’orbe che il giorno precedente, nelle loro Diocesi, avevano pronunciato le stesse parole di consacrazione: la formula scelta iniziava con l’espressione della più antica preghiera mariana: "Sotto la tua protezione ci rifuggiamo…", che è una forma collettiva di affidamento alla Vergine da parte

del popolo dei credenti”. Recentemente, il 25 marzo 2022, papa Francesco consacrava Russia e Ucraina al Cuore Immacolato di Maria. Il Papa terminava con queste parole: “Noi, dunque, Madre di Dio e nostra, solennemente affidiamo e consacriamo al tuo Cuore immacolato noi stessi, la Chiesa e l’umanità intera, in modo speciale la Russia e l’Ucraina. Accogli questo nostro atto che compiamo con fiducia e amore, fa’ che cessi la guerra, provvedi al mondo la pace. Il sì scaturito dal tuo Cuore aprì le porte della storia al Principe della pace; confidiamo che ancora, per mezzo del tuo Cuore, la pace verrà. A te dunque consacriamo l’avvenire dell’intera famiglia umana, le necessità e le attese dei popoli, le angosce e le speranze del mondo. Attraverso di te si riversi sulla Terra la divina Misericordia e il dolce battito della pace torni a scandire le nostre giornate. Donna del sì, su cui è disceso lo Spirito Santo, riporta tra noi l’armonia di Dio. Disseta l’aridità del nostro cuore, tu che “sei di speranza fontana vivace”. Hai tessuto l’umanità a Gesù, fa’ di noi degli artigiani di comunione. Hai camminato sulle nostre strade, guidaci sui sentieri della pace”. Se ne è parlato molto. Mi sembra interessante proporre la seguente preghiera per la consacrazione: O Domina mea! O Mater mea! Tibi me totum offero, atque, ut me tibi probem devotum, consecro tibi [hodie*] oculos meos, aures meas, os meum, cor meum, plane me totum. Quoniam itaque tuus sum, o bona Mater, serva me, defende me ut rem ac possessionem tuam. Amen. Ed ecco una mia traduzione della preghiera: Mia Regina! Mia madre! Ti do tutto me stesso e, per mostrarti la mia devozione, ti consacro i miei occhi, le mie orecchie, la mia bocca, il mio cuore, tutto me stesso. Perciò, o Madre amorosa, siccome sono tuo, custodiscimi, difendimi, come tua proprietà e possesso. Amen. Nella preghiera viene ribadito il dono di sé stessi alla Vergine Madre, che non è un dono semplicemente generico, ma elenca anche dettagliatamente che ogni parte di sé stessi è sotto la protezione di Maria, che quindi deve anche impegnarsi a difendere quello che gli viene donato. Il testo è del gesuita Niccolò Zucchi (1586-1670), insigne scienziato e predicatore. Daniele Macuglia (in Dizionario Biografico degli Italiani) ci informa sulle benemerenze del nostro negli studi ottici: “Nel 1651 Zucchi

divenne superiore della Penitenzieria apostolica, carica che tenne sino al 1654. Fu in questo periodo che pubblicò il primo volume della Optica philosophia... (Lione 1652), dedicato a Leopoldo Guglielmo d’Asburgo, arciduca d’Austria. È solo in questo volume che Zucchi parla dei suoi studi ottici del 1616, cosicché alcuni storici, pur senza solide prove documentarie, gli attribuirono la paternità del telescopio riflettore. Zucchi stesso afferma: «Perciò nell’anno 1616 [...] mi proposi di vedere se lo stesso effetto ottenuto con una rifrazione attraverso una lente in qualche modo convessa potesse essere ottenuto attraverso una riflessione da specchio concavo» (Optica philosophia, Lione 1652, p. 126). Lo specchio di bronzo proveniva «dal museo di un uomo illustre» e venne creato «da un artifice esperto»; l’oculare, invece, era una lente divergente e Zucchi rivolse tale arrangiamento, privo in realtà di tubo ottico, «alle cose terrestri e celesti» (ibid., pp. 126 s.). La versione di Zucchi solleva tuttavia qualche dubbio: non è chiaro per quale motivo abbia atteso tanto tempo per dar notizia del suo telescopio e non convince la disponibilità di uno specchio concavo per osservazioni telescopiche, in quanto all’epoca tali specchi erano difficilmente reperibili, come mostra anche la corrispondenza di Galileo Galilei (Favaro, 1935; Rotta, 1968). Nel 1652, con l’uscita del primo volume dell’Optica philosophia, gli studi sui telescopi riflettori erano già avviati e stavano prendendo piede, sia nella penisola italiana con Bonaventura Cavalieri, che oltralpe, con Marin Mersenne. Non è dunque possibile sostenere con certezza che Zucchi abbia direttamente influenzato James Gregory e Isaac Newton”. Insomma, seppure non influenzò direttamente Newton, fu scienziato di valore. La preghiera di cui ci stiamo occupando fu stampata in Sulla vera devozione nella servitù della Vergine Nostra Signora (1666). Ha conosciuto una certa popolarità nei secoli. Mi sembra importante fornire una versione musicale della stessa che potrebbe essere cantata all’unisono in una cerimonia di consacrazione alla Beata Vergine, in modo che ci si animi a vicenda nel momento di compiere questo importante atto.

Altra preghiera di consacrazione alla Madonna

Abbiamo visto come il consacrarsi a Maria abbia un particolare significato per i cattolici. Significa riconoscere il ruolo importante che Maria deve avere nelle

nostre vite, Maria che ci indica il Figlio e a Lui ci conduce. Una breve preghiera che dice: Da nobis famulis tuis, Domine Iesu Christe, beatae Mariae Virginis Matris tuae semper et ubique patrocinio protegi. Amen. Una preghiera molto breve che si potrebbe tradurre così: Concedi a noi, tuoi servi, o Signore Gesù Cristo, di essere protetti in ogni momento e in ogni luogo dal patrocinio della Beata Maria, tua Vergine Madre. Amen. Molti pensano che chiedere di essere protetti sia disdicevole, quasi umiliante. Questo perché non si comprende che siamo esseri fragili e soprattutto che dobbiamo riconoscere di essere figli di un Padre buono che ci ha donato il Figlio a cui ci conduce la Madre: ad Iesum per Mariam. Questa realtà fu conosciuta da tutti i santi ed è per noi di grande consolazione e sollievo. La mia versione di questa preghiera per unisono e organo (ne composi una in passato per coro a voci dispari ora pubblicata in Germania) vuole favorire il canto di tutti, un cuore solo e un’anima sola.

Ancora preghiere alla Madonna

Nella tradizione strabordante di preghiere dedicate alla Madonna, ce ne è una che particolarmente è significativa. Questa è Sancta Maria Succurre Miseris, che si trova nel nono Sermone sull’Annunciazione di Fulberto di Chartres (9511029). È una preghiera che ha conosciuto una certa notorietà. Ecco il testo: Sancta Maria, succurre miseris, iuva pusillanimes, refove flebiles, ora pro populo, interveni pro clero, intercede pro devoto femineo sexu: sentiant omnes tuum iuvamen, quicumque celebrant tuam sanctam commemorationem. Amen.

La traduzione dice: Santa Maria, sii tu un aiuto per gli indifesi, forza per i timorosi, conforto per i tristi, prega per il popolo, supplica per il clero, intercedi per tutte le sante donne consacrate a Dio; possano tutti coloro che osservano la tua sacra commemorazione sentire la potenza della tua assistenza. Amen. Questo rivolgersi all’intercessione di Maria per bisogni concreti (popolo, clero, donne…) lo trovo significativo e anche nella logica dell’incarnazione. Il nostro non è un mondo disincarnato ma un mondo che conosce sofferenze concrete ed ha esigenze particolari. Questa, come è evidente, è una invocazione alla Madonna del Soccorso: “La Madonna del soccorso, la cui memoria obbligatoria ricorre il 27 aprile, è un titolo mariano proprio dell’Ordine di sant’Agostino. Fu Alessandro IV il 9 aprile 1256 a volere la riunione in un unico ordine dei vari gruppi eremitici, che seguivano la Regola di sant’Agostino (354-430), con la missione di lasciare i luoghi isolati per entrare nella città e curare la predicazione, la celebrazione della liturgia e dei Sacramenti, la fondazione di scuole e di luoghi di assistenza ai bisognosi. Il nuovo Ordine ebbe grande diffusione e una fioritura straordinaria di santità e di spiritualità, ponendosi sotto il patrocinio della Madonna e di sant’Agostino. La devozione alla Madonna del soccorso risale a tre eventi prodigiosi verificatisi a Palermo all’inizio del XIV secolo: - Nell’anno 1306 l’agostiniano Nicola Bruno da Messina, priore del convento di sant’Agostino di Palermo, ammalatosi gravemente, si rivolse fiducioso alla Vergine Maria, la cui immagine era affrescata nella cappella di san Martino della propria chiesa. La Madonna gli apparve e, donandogli la guarigione, gli raccomandò di diffondere la devozione alla " Madonna del soccorso"; - Sempre nel 1306, una donna di Palermo aveva la triste abitudine, quando perdeva la pazienza con il suo bambino, di imprecare. Un giorno, più arrabbiata del solito, giunse addirittura ad invocare il demonio perché si prendesse quel figlio così fastidioso; detto, fatto: il demonio apparve, avventandosi sul bambino. Allora la mamma, spaventatissima e pentita, si mise a gridare: « Soccorso, Vergine Maria! Soccorso, Madonna mia!». La Madonna, per salvare il bambino dalle grinfie del demonio, apparve con un bastone in mano; a tal vista il demonio si diede alla fuga e scomparve. La mamma si recò con suo figlio alla chiesa di sant’Agostino per ringraziare la Madonna nell’immagine venerata nella cappella

di san Martino, riconoscendovi la sua celeste soccorritrice; - Qualche anno più tardi, nel 1315, una donna di Palermo completamente paralizzata ebbe in sogno l’apparizione della Madonna, che la invitò a recarsi in chiesa davanti alla sua immagine, per esservi sciolta dal male che la teneva legata. La guarigione prodigiosa avvenne davanti all’immagine della Madonna, sempre nella cappella di san Martino. Gli Agostiniani, a partire dalla Sicilia, diffusero la devozione alla Madonna del soccorso in tutte le loro chiese in Italia e nel mondo. A livello iconografico, l’elemento caratteristico è proprio la Madonna con il bastone in mano che scaccia il diavolo, salvando il bambino e sua madre, come nel dipinto cinquecentesco del Santuario della Madonna del soccorso a Cartoceto (PS) nelle Marche. Il 24 marzo 1804 Pio VII estendeva a tutto l’Ordine agostiniano l’Ufficio e la Messa propria della Madonna del soccorso, che i Redentoristi, fondati da sant’Alfonso Maria de’ Liguori, hanno adottato con il titolo di Madonna del perpetuo soccorso. In tutti i libri liturgici dell’Ordine agostiniano, da tempo immemorabile, la festa della Madonna del soccorso è collocata il 13 maggio. In questa data nel 1917 ci fu a Fatima l’apparizione della Madonna ai tre pastorelli e proprio il 13 maggio, nel 1981, Giovanni Paolo II subì l’attentato in Piazza San Pietro, uscendone vivo per l’intervento materno e soprannaturale di Maria, celeste soccorritrice dei cristiani e di tutta la Chiesa” ( latheotokos.it). Così, come vediamo, esiste anche un legame fra questa festa e quella di Fatima, un legame certamente molto intrigante. Giovanni XXIII, in un discorso ai seminaristi del Seminario Romano Maggiore del 2 marzo 1962, ci fa sapere come questa invocazione fosse legata anche al titolo della Madonna della Fiducia: “Sancta Maria, succurre miseris, iuva pusillanimes, refove flebiles, ora pro populo, intervieni pro clero, intercede pro devoto femineo sexu: sentiant omnes tuum iuvamen in hac sancta festivitate. Come risuona propizia e felice questa invocazione indirizzata alla Vergine Santissima con titolo di «Madonna della Fiducia! ». È una preghiera che, anzitutto, parla al cuore del Santo Padre nelle sollecitudini quotidiane per il bene di tutti; ed ora, in modo speciale, nella Sua partecipazione talvolta anche faticosa, ma giocondamente accettata, al lavoro preparatorio del Concilio. Nelle prime richieste par di vedere un riflesso delle condizioni in cui trovasi l'umanità, la conferma della pochezza di ciascun individuo, l'incontro di molti che sono deboli, sofferenti, refrattari all'azione. Ed ecco per tutti rifulgere la capacità di

fare il bene con l'aiuto celeste, l'incoraggiamento in ogni ora, in ciascun giorno, anche se non mancano motivi di prove e contrarietà, nonostante il fervore. Ci sono giornate di tristezza, e il sacerdote sa che bisogna passare attraverso l'esercizio di tutte le virtù, teologali e cardinali. Qui è la fonte, sempre, di purissima gioia : essa, al disopra delle avversità, rende la vita come un canto perenne. Vi sono circostanze in cui ci sembra di essere più vicini alla Grotta di Betlem; altre in cui è più evidente la sosta sul Calvario, accanto alla Croce di Gesù. Ma quale ristoro, sapendo che Egli sempre ci guarda e ci sostiene, invitandoci a starcene presso la Madre Sua, a fianco del Discepolo prediletto! In tal modo rinfrancati, diviene più agevole il chiedere alla Madonna di intercedere per il popolo cristiano, affinché, tra l'altro, in questa epoca di grandi ricerche non solo storiche, ma anche e soprattutto scientifiche, esso vinca la tentazione della superbia, o di sentire sminuita la incomparabile forza racchiusa nel fiat voluntas tua che è fondamento di ogni sana filosofia e di ogni vero successo”. Le parole del Papa ci fanno pregustare la popolarità conosciuta da questa bella preghiera.

L’importanza delle edicole mariane

In molte delle nostre città italiane, specialmente nei centri storici, ci sono delle edicole mariane, quelle immagini della Vergine Maria che vengono fissate su palazzi ed edifici per richiamare la devozione dei passanti. Ora, queste edicole a volte contengono anche l’immagine di altri santi, come sant’Antonio o santa Rita, ma la Beata Vergine Maria è la presenza preponderante. Molti anni fa ero in contatto con Mons. Dante Balboni, ed egli aveva dedicato vari studi, e forse anche qualche pubblicazione, proprio al tema delle edicole mariane. Quindi me ne parlava con grande trasporto, specialmente perché a Roma esse sono praticamente ovunque, alcune molto semplici, altre molto elaborate ed artistiche. Io penso sia bello che la presenza della Vergine Maria, presenza materna, ci venga richiamata nei percorsi delle nostre strade, dandoci il tempo per elevare un pensiero, una giaculatoria (dal latino iaculatoria, che dà l’idea di lanciare qualcosa verso il cielo), per mettere le nostre pene quotidiane nelle mani della Madre celeste. In Via dell’Arco della Ciambella a Roma, vicino a Largo Argentina, ne esiste una davanti a cui mi soffermo spesso, con una preghiera incisa sotto l’immagine. Questa Madonna era tra quelle che avevano pianto per

via dell’invasione napoleonica a Roma, quindi Madonna miracolosa. La preghiera sotto l’immagine recita: “T’innalza o Vergine casti pensieri chi pensa e medita ne’ tuoi misteri; e tu nell’anima gli accendi amore allor che ingenuo ei t’offre il core”. In realtà l’immagine che si osserva ora è una copia ottocentesca dell’immagine originale, che fu portata via dalla famiglia che era custode di questa edicola e per cui organizzava una solenne festa. Salutare la Madonna nelle edicole mariane è un uso che bisognerebbe tornare ad osservare, anche con un semplice Ave o con un Nos cum prole pia. Nel sito della sovrintendenza di Roma c’è una descrizione, forse curiosa, che voglio riportare: “Segno dell'emotività religiosa popolare, le edicole sacre costituiscono piccoli spazi sacri, testimonianza di una religiosità a cui ci si raccomanda, a cui si chiede la soluzione di problemi esistenziali privati, come testimoniano gli ex voto offerti in dono dai fedeli. Destinate a rassicurare la dimensione soggettiva, assolvono anche al bisogno collettivo di controllare e stabilizzare lo spazio della comunità, allo scopo di salvaguardarla dai rischi del mondo esterno: ne sono un esempio le edicole collocate in prossimità delle porte delle mura urbane o quelle realizzate soprattutto durante e dopo la seconda guerra mondiale. Non a caso l’immagine che campeggia con maggior frequenza è quella della Madonna, espressione e simbolo di una protezione di tipo universalistico. Sospese tra opera d’arte ed elemento di arredo urbano, le edicole sacre risultano elementi di grande complessità per essere costituite da materiali diversi: tele, affreschi, tavole, stucchi, terracotte, marmi ed anche metalli e legno impiegati soprattutto per coperture e baldacchini. Caratterizzate dalla presenza al loro interno di una immagine sacra, le forme variano dal semplice medaglione con cornice in stucco a composizioni elaborate e scenografiche, soprattutto di epoca barocca, che comprendono anche elementi architettonici e scultorei (putti, cherubini, ecc.). Nel gran mare di segni che la storia ha disseminato in Roma, le edicole sacre possono apparire un fenomeno secondario e minore almeno a livello di presenza architettonica ed artistica e di arredo urbano, anche se alcune di esse risultano opera di artisti famosi come il Sangallo e Perin del Vaga, e di altri meno conosciuti, ma ugualmente impegnati nelle realizzazioni artistiche della città come Bicchierari, Berrettoni e Moderati. La maggior parte delle edicole sacre risale ai secoli XVII e XVIII, quando garantivano coi loro lumi accesi l'unica illuminazione notturna della città. Nella seconda metà dell'Ottocento lo sviluppo edilizio ha comportato, insieme alla trasformazione degli immobili, anche quella delle edicole, intese più come elementi decorativi di facciate che come oggetti artistici autonomi. Si trattava sempre comunque di realizzazioni coerenti con le architetture; solo ai nostri giorni si assiste spesso, nei casi di rinnovata

devozione, alla mancanza di ogni collegamento tra l'architettura e la struttura dell'edicola sacra, in particolare nelle aree periferiche della città”. Interessante il riferimento all’emotività religiosa delle persone. Penso in realtà che, come anche detto nella descrizione, queste edicole siano un elemento di stabilità personale e quindi sociale, perché richiamano la nostra esistenza quotidiana al suo rapporto con la dimensione soprannaturale.

Nos cum prole pia

Ricordo molti anni fa partecipavo a degli incontri promosso dal professor Roberto De Mattei e che comprendevano sempre una breve invocazione alla Madonna che al tempo non conoscevo: Nos cum prole pia benedicat Virgo Maria. Tradotto: Noi con la pia prole benedica la Vergine Maria. A quel tempo non conoscevo questa invocazione che poi mi è rimasta sempre impressa. Maria ci protegge nel nostro cammino. Anche quando sembra che gli ostacoli divengono sempre più di difficili da superare, essa ci aspetta all’incrocio dellle nostre strade esistenziali per porgerci la sua mano e guidarci nei momenti difficili e nell’ora della prova. Questa è forse la ragione delle tante immagini mariane che adornano le nostre strade. Il ricordo della presenza di Maria si fa costante anche attraverso queste immagini. E io devo dire, che recito proprio la giaculatoria oggetto di questo scritto, ogni volta che mi incontro con una di queste immagini. Essa è atto di omaggio a Maria a cui si chiede la sua materna protezione sulle nostre vite e sulle vite di coloro che più amiamo.

Candelora, candelora, dall’inverno semo fora

L’immaginario liturgico cattolico, ha plasmato la coscienza dell’occidente, non solo quella del nostro paese. Prendiamo per esempio la festa del 2 febbraio, la candelora, come viene chiamata dal popolo semplice. Questa festa ora ha il nome liturgico di Festa della Presentazione al Tempio di Gesù, mentre nella forma straordinaria del rito romano essa va sotto il nome di Purificazione della Beata Vergine Maria. Questa festa, che cade 40 giorni dopo il Natale, celebra l’offerta del primogenito e la purificazione della madre. Dom Prosper Guéranger così parla dell’origine di questa festa: “L'origine storica è abbastanza difficile a stabilirsi in modo preciso. Secondo Baronio, Thomassin, Baillet ecc., tale benedizione sarebbe stata istituita, verso la fine del V secolo, dal Papa san Gelasio (492-496), per dare un senso cristiano ai resti dell'antica festa dei Lupercali, di cui il popolo di Roma aveva ancora conservato alcune usanze superstiziose. È almeno certo che san Gelasio abolì le ultime vestigia della festa dei Lupercali che veniva celebrata nel mese di febbraio. Innocenzo III, in uno dei suoi Sermoni sulla Purificazione, ci dice che l'attribuzione della cerimonia delle Candele al due febbraio è dovuta alla saggezza dei Pontefici romani, i quali avrebbero indirizzato al culto della santa Vergine i resti d'una usanza religiosa degli antichi Romani, che accendevano delle fiaccole in ricordo delle torce alla cui luce Cerere aveva, secondo la favola, percorso le cime dell'Etna, cercando la figlia Proserpina rapita da Plutone; ma non si trova alcuna festa in onore di Cerere nel mese di febbraio nel calendario degli antichi Romani. Ci sembra dunque più esatto adottare l'idea di D. Hugues Mènard, Rocca, Henschenius e Benedetto XIV, i quali ritengono che l'antica festa conosciuta in febbraio sotto il nome di Amburbalia e nella quale i pagani percorrevano la città portando delle fiaccole, ha dato occasione ai Sommi Pontefici di sostituirvi un rito cristiano che essi hanno congiunto alla celebrazione della festa in cui Cristo, Luce del mondo, viene presentato al Tempio dalla Vergine madre”. Quindi, un’antica festa romana venne cristianizzata dalla Chiesa di Roma. Questo fu il metodo usato anche in altri casi, per cercare di non perdere quell’elemento sacrale che era stato comunque acquisito attraverso l’adesione a credenze pagane, che viene così rettificato nel volgersi alla vera religione. Ho già detto in precedenza come io veda un errore nel concepire il passaggio fra mondo pagano e mondo cristiano come una rottura, lo vedo piuttosto come un compimento, un passare dall’imperfetto al perfetto. La Roma cristiana fu il compimento della Roma pagana, non semplicemente la sua sostituzione. Molti elementi di profonda

religiosità esistevano presso i romani e i cristiani mutuarono alcuni elementi dalla Roma pagana, si pensi agli abiti liturgici. Dom Guéranger ci dona questa preghiera riferita a quanto si celebra in questa festa: “Lo Spirito divino ci ha guidati al Tempio come Simeone; vi contempliamo in questo istante la Vergine Madre che presenta all'altare il Figlio di Dio e suo. Noi ammiriamo questa fedeltà alla Legge nel Figlio e nella Madre, e sentiamo nell'intimo del cuore il desiderio di essere presentati a nostra volta al Signore che accetterà il nostro omaggio come ha ricevuto quello del suo Figliuolo. Affrettiamoci dunque a mettere i nostri sentimenti in sintonia con quelli dei Cuori di Gesù e di Maria. La salvezza del mondo ha fatto un passo in questo giorno; progredisca dunque anche l'opera della nostra santificazione. D'ora in poi il mistero del Dio Bambino non ci sarà più offerto dalla Chiesa come oggetto speciale della nostra religione; i soavi quaranta giorni di Natale volgono al termine; dobbiamo ora seguire l'Emmanuele nelle sue lotte contro i nostri nemici. Seguiamo i suoi passi; corriamo al suo seguito come Simeone, e camminiamo senza stancarci sulle orme di Colui che è la nostra Luce; amiamo questa Luce, e otteniamo con la nostra premurosa fedeltà che essa risplenda sempre su di noi. O Emmanuele, in questo giorno in cui fai l'ingresso nel Tempio della tua Maestà, portato in braccio da Maria Madre tua, ricevi l'omaggio delle nostre adorazioni e della nostra riconoscenza. Onde sacrificarti per noi tu vieni nel Tempio; come preludio del nostro riscatto ti degni di pagare il debito del primogenito e per abolire presto i sacrifici imperfetti vieni ad offrire un sacrificio legale. Compari oggi nella città che dovrà essere un giorno il termine della tua corsa e il luogo della tua immolazione. Non ti è bastato nascere per noi; il tuo amore ci riserba per l'avvenire una testimonianza più splendente. Tu, consolazione d'Israele e su cui gli Angeli amano tanto posare i loro sguardi, entri nel Tempio; e i cuori che ti attendevano si aprono e si elevano verso di te. Oh! chi ci darà una parte dell'amore che provò il vegliardo allorché ti prese fra le braccia e ti strinse al cuore? Egli chiedeva solo di vederti, o divino Bambino, e poi di morire. Dopo averti visto per un solo istante, s'addormentava nella pace. Quale sarà dunque la beatitudine di possederti eternamente, se così brevi istanti sono bastati ad appagare l'attesa di tutta una vita!”. Sembra di ascoltare quanto si canta nell’inno Iesu dulcis memoria: sed super mel et omnia, eius dulcis prasentia!

San Biagio e il dono della voce

Il 3 febbraio la Chiesa ricorda la festa di San Biagio. Questa festa è importante anche per un motivo molto particolare, perché San Biagio è considerato il protettore per i problemi alla gola. Questo ci fa pensare all’importanza della nostra voce, al dono grande che abbiamo avendo la possibilità di poter comunicare con questo mezzo straordinario, un mezzo che non solo ci permette di poter parlare con chiunque, ma anche di poter cantare, cioè esprimere con ancora più efficacia quello che abbiamo dentro. La voce, è anche mezzo per lodare Dio, che è un qualcosa che non dovremmo mai dimenticare. Allora oggi, in mattinata, mi sono recato in una bella basilica romana e ho chiesto a un sacerdote che mi conosce da quando sono adolescente, di darmi una speciale benedizione alla gola, visto che essa è sede di tanti organi importanti, come per esempio la tiroide, delle cui patologie soffrono tantissime persone, se non sbaglio una su dieci nel nostro paese. Spero molti seguiranno il mio esempio. Pietro Barbini su Zenit, ripreso su santiebeati.it, informa come segue: “Poco si conosce della vita di San Biagio, di cui oggi si festeggia la memoria liturgica. Notizie biografiche sul Santo si possono riscontrare nell’agiografia di Camillo Tutini, che raccolse numerose testimonianze tramandate oralmente. Si sa che fu medico e vescovo di Sebaste in Armenia e che il suo martirio è avvenuto durante le persecuzioni dei cristiani, intorno al 316, nel corso dei contrasti tra gli imperatori Costantino (Occidente) e Licino (Oriente). Catturato dai Romani fu picchiato e scorticato vivo con dei pettini di ferro, quelli che venivano usati per cardare la lana, ed infine decapitato per aver rifiutato di abiurare la propria fede in Cristo. Si tratta di un Santo conosciuto e venerato tanto in Occidente, quanto in Oriente. Il suo culto è molto diffuso sia nella Chiesa Cattolica che in quella Ortodossa. Nella sua città natale, dove svolse il suo ministero vescovile, si narra che operò numerosi miracoli, tra gli altri si ricorda quello per cui è conosciuto, ossia, la guarigione, avvenuta durante il periodo della sua prigionia, di un ragazzo da una lisca di pesce conficcata nella trachea. Tutt’oggi, infatti, il Santo lo si invoca per i “mali alla gola”. Inoltre San Biagio fa parte dei quattordici cosiddetti santi ausiliatori, ossia, quei santi invocati per la guarigione di mali particolari. Venerato in moltissime città e località italiane, delle quali, di molte, è anche il santo patrono, viene festeggiato il 3 febbraio in quasi tutta la penisola

italica. È tradizione introdurre, nel mezzo della celebrazione liturgica, una speciale benedizione alle “gole” dei fedeli, impartita dal parroco incrociando due candele (anticamente si usava olio benedetto). Interessanti sono anche alcune tradizioni popolari tramandatesi nel tempo in occasione dei festeggiamenti del Santo. Chi usa, come a Milano, festeggiare in famiglia mangiando i resti dei panettoni avanzati appositamente a Natale, e chi prepara dei dolci tipici con forme particolari, che ricordano il santo, benedetti dal parroco e distribuiti poi ai fedeli. A Lanzara, una frazione della provincia di Salerno, per esempio, è tradizione mangiare la famosa “polpetta di San Biagio”. Nella città di Salemi, invece, si narra che nel 1542 il Santo salvò la popolazione da una grave carestia, causata da un’invasione di cavallette che distrusse i raccolti nelle campagne, intercedendo ed esaudendo le preghiere del popolo che invocava il suo aiuto (san Biagio, infatti, oltre che essere protettore dei “mali della gola” è anche protettore delle messi); da quel giorno a Salemi, ogni anno il 3 di febbraio, si festeggia il Santo preparando i cosiddetti “cavadduzzi”, letteralmente “cavallette”, per ricordare il miracolo, e i “caddureddi” (la cui forma rappresenta la “gola”), che sono dei piccoli pani preparati con acqua e farina, benedetti dal parroco e distribuiti poi ai fedeli. Dal 2008 inoltre, sempre a Salemi, viene organizzata, con la collaborazione di tutte le scuole e associazioni della città, una spettacolare rappresentazione del “miracolo delle cavallette” che si conclude con l’arrivo alla chiesa del Santo per deporre i doni e farsi benedire le “gole””. A Roma, ci sono due chiese che ci offrono la memoria di questo santo, una è in via Giulia e si chiama San Biagio degli armeni o San Biagio della pagnotta, per il dono dei piccoli pani che vengono fatti nel giorno della festa del santo. Poi abbiamo la chiesa di San Biagio e Carlo ai Catinari, molto vicina al largo Argentina. In questa chiesa si conserva una reliquia di San Biagio, un osso, con cui viene data la benedizione nel giorno della festa del santo. Dovremmo sempre molto riflettere sul dono della voce, pensare a cosa sarebbe se non potessimo parlare, se non potessimo comunicare. Quindi, almeno nel giorno della festa di San Biagio, dovremmo pensare a tutti coloro che per motivi vari non possono parlare, pregare per loro e per la pace nella loro esistenza. La voce è un fatto meccanico, fisiologico, attraverso il quale viene prodotto il suono; ma ricordiamo che l’elemento spirituale che ispira quello meccanico è sicuramente il più importante. Non importa che possiamo parlare, importa il perché dobbiamo parlare. Anche San Benedetto ci dice che la mente deve concordarsi con quello che la voce sta cantando; cerchiamo di non dimenticarlo mai.

Dalla “buona morte” a “buoni per la morte”

Un tempo, si pregava per avere una “buona morte“. Cosa significava questo? Significava chiedere a Dio di poter finire i propri giorni su questa terra in grazia sua, cercando di essere il più possibile sollevati dal peso dei peccati. Certamente conosciamo bene la nostra natura fragile e incline al peccato; quindi il pregare per avere una buona morte è certamente una cosa molto utile e opportuna. Purtroppo, oggi l’attenzione si è spostata. Se ti capita di assistere a dei funerali, vedrete che molti sacerdoti non presentano ai parenti e amici del defunto o della defunta quelle che sono le caratteristiche della speranza cristiana, la speranza di poter confidare nella misericordia di Dio malgrado l’indegnità della persona morta, ma si cerca di fare in modo che quella persona venga vista per forza in una buona luce, viene fatto “buono per la morte”. Anche persone che hanno avuto una vita molto complicata, ladri, truffatori, grassatori, vengono presentate come “simpatiche, sorridenti, sempre disponibili“, facendo spesso trasalire gli astanti. Ora, io non pretendo che il sacerdote dica “il vostro congiunto era un delinquente!”, però non è neanche mentire. Attenzione, non dovrebbe essere sul fatto che il defunto fosse simpatico o meno, ma sul fatto che come battezzato può e deve confidare nella misericordia di Dio, lasciando stare quelle che sono state le sue mancanze durante il suo pellegrinaggio terreno. Forse, proprio per questa attenzione spostata sulle “virtù“ del defunto, ha un senso il fatto che quando la messa finisce si applaude al passaggio della bara. Ma si applaude che cosa? Che merito ha quella persona? Di essere morta? Non mi sembra un grande merito per cui si debba essere lodati ed applauditi. Purtroppo, da questa ora estrema nessuno può sfuggire. Certo, per chi è Cristiano, questo momento significa il passaggio dalla vita terrena alla vita eterna. Questo passaggio ha varie modalità, e sarà Dio ovviamente ad accettare presso di sé immediatamente coloro che avranno perseverato nei suoi insegnamenti durante la vita terrena mentre riserverà un periodo di espiazione nel Purgatorio a coloro che hanno zoppicato più che camminare, mentre condannerà all’inferno coloro che lo hanno rifiutato senza appello. Ma ricordiamo sempre, che è cosa buona invocare “la buona morte“, anche se sappiamo che nella nostra vita ci sono molte cose che ci fanno vergognare, ci fanno pensare alle nostre mancanze nei confronti del Padre

celeste. Un tempo con la morte si aveva una consuetudine maggiore, oggi si tende a nasconderla anche nella terminologia. Non su muore, si scompare, si viene a mancare, si viene tolti all’affetto dei cari...papa Francesco dice in riferimento al chiamare la morte sorella: “È un’espressione che a me non dice molto. Certo, fa parte della mia cultura, Francesco è geniale, ma non chiamerei “sorella” la morte. Mi piace pensare alla morte come all’atto di giustizia finale. La morte è così da un lato il salario del peccato, ma dall’altro apre la porta alla redenzione. Convivere con la morte non fa parte della mia cultura, ma ognuno di noi ha la propria”. E da noi, questa consuetudine con il fatto che la vita ha un termine, formava l’immaginario di tutti. Pensiamo anche alle belle liturgie con i canti per i defunti, il Requiem, il Dies irae, il Libera me. Quanto la musica deve anche a queste liturgie, quanti capolavori sono stati scritti per questa occasione. Un tempo si facevano pii esercizi per la buona morte, per prepararsi a quel momento. Ho trovato questa preghiera di san Pompilio Maria Pirrotti (17101766), reperita sul sito di Alleanza Cattolica, che può essere ancora utile: “M’incammino, Signore, verso la mia eternità, circondato da grandi spirituali nemici. Temo e tremo specialmente per il momento della morte, dal quale essa dipenderà, per la guerra atroce che avesse a muovermi il demonio, sapendo restargli poco tempo per la mia eterna rovina. Desidero quindi, o Signore, prepararmici fin da ora, offrendovi oggi stesso per il mio estremo momento quelle proteste di fede e di amore verso di voi, che sono tanto atte a reprimere e rendere vane tutte le arti insidiose e maligne del nemico e che io intendo opporgli in quel punto di così gravi conseguenze, qualora egli ardisse anche solo di attentare con i suoi inganni alla tranquillità e pace dello spirito mio. Io N.N., in presenza della santissima Trinità, della beatissima Vergine Maria, del mio santo Angelo Custode e di tutta la corte celeste, protesto di voler vivere e morire sotto l’insegna della santa Croce. Credo fermamente tutto quello che crede e professa la Santa Madre Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Intendo di voler morire in questa santa Fede, nella quale morirono tutti i santi Martiri, Confessori, Vergini di Cristo e tutti quelli che hanno salvato l’anima loro. Se il demonio mi tentasse di disperazione per la moltitudine e gravità dei miei peccati, io fin da ora protesto di sperare fermamente nella misericordia infinita di Dio, che non si farà vincere dalle mie colpe, e nel Sangue prezioso di Gesù, che le ha lavate. Se il demonio mi assalisse con tentazioni di presunzione per quel poco di bene, che con l’aiuto di Dio avessi potuto fare, confesso fin da ora di meritare invece mille inferni per i miei peccati e mi affido alla infinita bontà di Dio, per la

cui grazia unicamente io sono quello che sono. Infine se il demonio mi suggerisse essere eccessivi i dolori, con i quali il Signore mi affliggesse negli ultimi momenti della mia vita, io protesto fin da ora che tutto sarebbe un nulla per i castighi meritati in tutta la mia vita, e ringrazio Iddio che mi darebbe con questi dolori occasione di scontare in questa vita ciò, che nell’altra dovrei scontare nel purgatorio. Nelle amarezze dell’anima mia ripenso tutti gli anni miei: vedo le mie iniquità, le confesso e le detesto. Confuso e dolente mi rivolgo al mio Dio, al mio Creatore e Redentore. Deh, perdonami, o Signore, per la moltitudine delle tue misericordie; perdona al servo tuo, che hai ricomprato col tuo Sangue prezioso. Dio mio, a te ricorro, te invoco, in te confido, all’infinita tua pietà commetto ogni ragione della mia vita. Troppo ho peccato: non entrare in giudizio col servo tuo, che si rende vinto e si confessa reo. Non posso da me recarti soddisfazione delle molte offese: non ho di che pagarti e infinito è il mio debito. Ma il Figlio tuo ha sparso il suo Sangue per me e maggiore della mia iniquità è la tua misericordia. O Gesù, sii il mio Salvatore! Nell’ora del tremendo passo poni in fuga il nemico dell’anima mia: fammi superare ogni difficoltà, Tu, che fai solo grandi meraviglie. Signore, per la moltitudine delle tue misericordie entrerò nella tua casa. Affidato alla tua pietà, nelle tue mani rimetto il mio spirito! Che la Vergine Maria e l’Angelo mio Custode accompagnino l’anima mia nella celeste patria. Così sia”. Insomma, gioiamo della vita, ma prepariamoci a partire.

La decadenza delle Cappelle Musicali

Mi sono occupato per un articolo su La Nuova Bussola Quotidiana della vicenda della Cappella Musicale di Loreto, i cui cantori sono stati invitati a cantare gratuitamente e si sono tutti dimessi. La Delegazione Pontificia di Loreto non ha gradito il mio articolo, ne vedremo le conseguenze. In realtà io ho detto una verità che mi sembra appartenere alla dottrina sociale della Chiesa: chi presta un’opera qualificata deve essere pagato. Bisogna far ben capire cosa significa questo in questo contesto. Significa che il contributo professionale deve avere un riconoscimento che permette alla persona di poter continuare a svolgere il suo ruolo e avere i necessari mezzi di sussistenza. Non dimentichiamo che i sacerdoti che fanno parte dei capitolo basilicali, che hanno in carico la preghiera liturgica della loro chiesa, hanno uno stipendio. Perché nessuno eccepisce su

questo mentre per i musicisti questo sembra essere fuori dal mondo? Ma ricordiamo che un tempo le Cappelle Musicali avevano dei possedimenti, terreni, case, fabbricati, con cui venivano pagati i membri della Cappella stessa. Negli ultimi decenni questi possedimenti sono stati incamerati dai capitoli stessi, decurtando le poche Cappelle rimanenti dei necessari mezzi di sussistenza. I laici, secondo il Codice di Diritto Canonico, “hanno diritto ad una onesta rimunerazione adeguata alla loro condizione, per poter provvedere decorosamente, anche nel rispetto delle disposizioni del diritto civile, alle proprie necessità e a quelle della famiglia; hanno inoltre il diritto che in loro favore si provveda debitamente alla previdenza, alla sicurezza sociale e all'assistenza sanitaria”. Ma questo oggi, nella Chiesa, è meno di aria fritta.

Il declino della musica sacra? Quattro ragioni per cui bisogna essere indulgenti con il clero...almeno ogni tanto

Quando parliamo del declino evidente della musica sacra, spesso ci riferiamo alle colpe del clero, alle colpe dei sacerdoti, dei vescovi, dei cardinali. In realtà, seppure è vero che loro, come responsabili della salvaguardia della dignità della liturgia, hanno senz’altro colpe, non si può negare che sono anche loro figli del clima che ha causato la presente situazione. Quindi cerchiamo di vedere almeno tre motivi per cui le loro colpe, che senz’altro esistono, spesso possono essere considerate come involontarie. 1. È venuta a mancare, in modo drammatico, la formazione musicale nei seminari. Un tempo, in tutti i seminari c’erano dei cori di sacerdoti e di seminaristi che eseguivano composizioni della grande tradizione della Chiesa cattolica, o composizioni moderne che erano a quelle confacenti. Quindi, venendo a mancare questa esposizione nei seminari a questo tipo di repertori, prima di tutti al canto gregoriano, si è causato un impoverimento culturale spaventoso. Non è che è un tempo tutto era perfetto, ma c’era uno standard che si cercava di rispettare. Oggi, nei seminari, per la maggior parte, si viene educati al canto popolare religioso, ma non al canto liturgico. Purtroppo la mancata comprensione della differenza fra questi due generi, ha portato alla confusione enorme in cui ancora ci troviamo. Certo, ci possono essere delle realtà in cui le

cose ancora vanno bene, ma sono senz’altro una netta minoranza. 2. Viene inculcata fai sacerdoti, fin dal tempo in cui sono seminaristi, questa assurda opposizione fra il coro e l’assemblea. Credo che quasi tutti i direttori di coro, gli organisti, i cantori, si trovano a dover combattere con sacerdoti che sostengono che il coro non deve esserci perché sennò l’assemblea non partecipa. Questa qui è certamente una grande falsità, che può essere facilmente smentita, ed è contraria ai documenti del magistero. Ma non c’è niente da fare, questa idea completamente falsa, è stata instillata così bene che ora sembra quasi naturale. Ci sono fior di pubblicazioni che mostrano l’inconsistenza di questo, che cioè assemblea e coro possono e anzi devono coesistere. Ma non si può fare quasi nulla verso coloro che hanno posizioni fortemente ideologiche. 3. Esiste poi, il problema dell’ubbidienza. Certamente i sacerdoti devono obbedire ai propri superiori, la maggior parte dei quali formati a questa mentalità postconciliare, che nulla ha a che vedere con il vero Concilio Vaticano secondo. Conosco tanti sacerdoti che vorrebbero fare le cose diversamente, che conoscono bene la realtà delle cose, ma che si trovano con le cosiddette mani legate. Da una parte io capisco questa loro situazione, dall’altra fa anche un po’ con rabbia. Ecco perché, il ruolo dei laici è sempre più importante, proprio per mantenere vigile l’attenzione su questo problema. 4. Tempo fa, mi trovavo a conversare con un Arcivescovo. Mi lamentavo della mancanza di cultura musicale e liturgica dei sacerdoti. Lui mi disse che in fondo i sacerdoti sono anche loro figli di questa società, una società in cui l’unico Salmo con cui avevano avuto a che fare fino a poco tempo fa era il cantante, l’unica Madonna aveva nulla a che fare con la Beata Vergine Maria. I sacerdoti, non hanno più quella cultura umanistica, cosa oramai comune a tanti nella nostra società. Essi non sono più quel ceto intellettuale veramente di livello elevato, che si proponeva come non solo una guida spirituale ma anche come un élite intellettuale. Certamente ci sono eccezioni, ci sono ancora sacerdoti di grande cultura, ma questa non è più la regola come un tempo. Pure essi vengono dallo sfacelo causato dall’educazione della televisione, e anche in parte da quella “educazione” propinata dai mezzi di comunicazione di massa, come i social media. Certamente, si può imparare tanto anche dalla televisione e dai social media, molte persone trovano informazioni veramente importanti ed interessanti tramite Facebook, Twitter, LinkedIn, i blog… Ma c’è anche tanta spazzatura, quindi se non si sa distinguere si è vittima di una informazione indistinta e non verificata. Quindi, anche i sacerdoti sono sulla nostra stessa barca. Cerchiamo di

tenerlo presente quando ci troviamo ad averci a che fare.

La solitudine del sacerdote

Io penso sia importante riflettere sulla necessità per la solitudine del prete, una solitudine che come per il monaco è conveniente alla sua vocazione. Certamente il sacerdote deve coltivare anche rapporti umani, avere amici, ma sempre mantenendo quella separazione fra lui e le preoccupazioni di questo mondo, una preoccupazione che non è disinteresse ma semplicemente protezione del suo ruolo e della sua “indipendenza” in mezzo agli altri. Avere cura di una famiglia, come sanno tutti quelli che sono impegnati nella vita familiare, è una cosa molto complessa, e i legami che si formano all’interno della famiglia possono distrarre dal legame fondamentale che il sacerdote mantiene con la sua comunità, un legame in cui lui appartiene comunque solo a Dio e non a questa o quella donna. E se un sacerdote si sposa e ha una famiglia numerosa? E molti figli e quello che la Chiesa cattolica incoraggia a fare. Non sarebbe questo un po’ di impedimento alla sua missione? Non voglio entrare nei motivi teologici, che sono senz’altro profondi, ma ci sono dei motivi pratici che suggeriscono di pensare con attenzione all’importanza della solitudine del sacerdote, che non significa isolamento affettivo, ma significa vocazione straordinaria che cerca di non essere impedita dalle pur lodevoli cure del mondo.

La devozione al Sacro Cuore di Gesù

La devozione al Sacro Cuore di Gesù è sempre stata molto sentita nella vita della Chiesa. Pio XII nella Haurietis Aquas del 1956, tra l’altro affermava: “Non essendovi allora alcun dubbio che Gesù Cristo abbia posseduto un vero corpo umano, dotato di tutti i sentimenti che gli sono propri, tra i quali ha chiaramente il primato l’amore, è altresì verissimo che Egli fu provvisto di un cuore fisico, in tutto simile al nostro, non essendo possibile che la vita umana, priva di questo eccellentissimo membro del corpo, abbia la sua connaturale attività affettiva.

Pertanto il Cuore di Gesù Cristo, unito ipostaticamente alla Persona divina del Verbo, dovette indubbiamente palpitare d’amore e di ogni altro affetto sensibile; questi sentimenti, però, erano talmente conformi e consonanti con la volontà umana, ricolma di carità divina, e con lo stesso infinito amore, che il Figlio ha comune con il Padre e con lo Spirito Santo, che mai tra questi tre amori s’interpose alcunché di contrario e discorde. Tuttavia, il fatto che il Verbo di Dio abbia assunto una vera e perfetta natura umana, e si sia plasmato e quasi modellato un cuore di carne, che, non meno del nostro, fosse capace di soffrire e di essere trafitto, questo fatto, diciamo, se non è visto e considerato nella luce, la quale emana non solo dall’unione ipostatica e sostanziale, ma anche dalla verità della umana Redenzione, ch’è, per così dire, il complemento di quella, potrebbe ad alcuni apparire « scandalo » e « stoltezza », come infatti tale sembrò « Cristo Crocifisso » ai Giudei e ai Gentili. Orbene, i Simboli della fede, perfettamente concordi con le Divine Scritture, ci assicurano che il Figlio Unigenito di Dio ha assunto la natura passibile e mortale in vista principalmente del Sacrificio cruento della croce, che Egli desiderava offrire allo scopo di compiere l’opera dell’umana salute. È questo del resto, l’insegnamento espresso dall’Apostolo delle genti: « Poich é sia chi santifica sia i santificati provengono tutti da uno; è per questo che non ha scrupolo di chiamarli fratelli dicendo: « Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli ». E ancora: « Eccomi, io e i figlioli che Dio mi ha dato ». Poiché dunque i figliuoli partecipano del sangue e della carne, anch’egli ugualmente ne ebbe parte… « Ond ’è ch ’ egli doveva in tutto essere fatto simile ai suoi fratelli, per diventare misericordioso e fedele sacerdote nelle cose divine, affinch é fossero espiate le colpe del popolo. Perch é appunto per essere stato provato lui e avere sofferto, per questo può venire in aiuto a quelli che sono nella prova ». I Santi Padri, veridici testimoni della divina rivelazione, ben compresero, dietro il chiaro insegnamento dell’Apostolo Paolo, che il mistero dell’amore divino è in pari tempo il fondamento e il culmine sia dell’Incarnazione, sia della Redenzione. Infatti, nei loro scritti sono frequenti e luminosi i passi, nei quali si legge che lo scopo per cui Gesù Cristo assunse una natura umana integra e un corpo caduco e fragile come il nostro, fu appunto quello di provvedere alla nostra salvezza e di manifestare a noi nel modo più evidente il suo amore infinito, compreso quello sensibile”. Quindi, la devozione al Sacro Cuore di Gesù ci richiama fortemente al fatto dell’amore di Dio per noi, un fatto che è centrale nella nostra fede. Ecco perché era molto diffusa un tempo una invocazione che così recitava: Cor Iesu flagrans amore nostri, inflamma cor nostrum amore Tui.

Ecco una traduzione: Cuor di Gesù, ardente di amore per noi, infiamma il nostro cuore di amore per te. Questa preghiera era molto popolare e veniva costantemente recitata o cantata. Sarebbe bello poter ritornare a comprendere il profondo significato che questa devozione ha e dovrebbe avere per noi. Sarebbe bello che nelle classi di Catechismo fosse insegnato ai bambini a cantare questa invocazione, in latino, per spiegarli che sono parte di un lungo processo di bambini come loro, magari anche santi in alcuni casi, che hanno visto nella devozione al Sacro Cuore di Gesù un modo per affacciarsi su quel mistero che è l’amore di Dio per noi.

Mens impletur gratia

Una santa da tutti molto amata è santa Teresa di Lisieux, anche conosciuta come santa Teresa del Bambin Gesù o anche santa Teresina. Forse non molti sanno che questa santa ebbe anche delle sofferenze mentali significative: “La notte di Natale 1886 otterrà la grazia della sua trasformazione, della sua completa conversione. Riceve la forza di Cristo e la guarigione di una specie di nevrosi (timidezza eccessiva, ipersensibilità, fragilità emotiva, scrupoli, paure...) che la paralizza” ( ocds.it). Suor Antonella Piccirilli in Santa Teresa di Lisieux. Piccola ma grande, così dice: “Per questo è interessante accostare la vita di Teresa di Lisieux e individuare i fattori di disturbo nel suo cammino di maturità psicospirituale: i ripetuti distacchi vissuti nella primissima infanzia, la grave nevrosi che la colpisce all’età di dieci anni; l’assalto degli scrupoli, il difficile rapporto con il proprio corpo, l’umiliazione subita a causa della malattia mentale del padre. Si tratta di ferite che non solo non le hanno impedito di accedere ad un cammino di altissimo livello spirituale, ma lo hanno addirittura accelerato, grazie all’intervento di Dio, innestato sulla predisposizione teresiana alla fiducia in lui”. Questo ci insegna che dobbiamo imparare ad affrontare i sempre più dilaganti disturbi emozionali (ansie, depressione, attacchi di panico, etc.) cercando un aiuto in Dio e nel contempo affidandosi a coloro che possono fornire un aiuto medico-clinico.

A me sembra che oggi il sollievo spirituale sia praticamente dimenticato a favore della cura da parte di psichiatri e psicologi che hanno certamente un ruolo da compiere ma non verrà da loro la salvezza. Meg Hunter-Kilmer ( aletheia.org) ci racconta come spesso anche i santi hanno dovuto combattere con questi disturbi, come il beato Enrico Rebuschini, “sacerdote camilliano italiano, ha convissuto con la depressione per tutta la vita. Ha sperimentato vari episodi depressivi che hanno richiesto ricoveri ospedalieri quando era sulla ventina, sulla trentina e ancora sulla sessantina. Nel corso della sua vita ha continuato a soffrire di depressione, ma questo non ha intaccato la sua personalità allegra, anche se privatamente gli dev’essere costato molto”. Ecco un’altra storia: “Sant’Alberto Chmielowski (1845-1916) era un rivoluzionario polacco, poi famoso pittore, prima di lasciarsi alle spalle la fama per fondare una comunità di Francescani per servire i poveri. Prima di fondare il suo ordine è entrato tra i Gesuiti. Durante il noviziato, ha subìto un crollo nervoso ed è stato ricoverato. Ha trascorso nove mesi in un ospedale psichiatrico, e gli sono state diagnosticate “ipocondria, malinconia, follia religiosa, ansia e ipersensibilità psichica”. Anche dopo essere stato dimesso è rimasto malinconico e muto, ma un giorno, 16 mesi dopo l’inizio della crisi, all’improvviso si è alzato, ha lasciato la città per andare a confessarsi e a ricevere la Comunione ed è tornato in un’eccellente disposizione di spirito. A differenza di molte persone che soffrono di malattie mentali, sembra non aver più sofferto di depressione”. Questa storia, ci comunica un senso di ottimismo e ci fa comprendere che oggi, con l’avanzamento della medicina, il sollievo da questi disturbi terribili è possibile, anche se la via può essere molto difficile. Ma soprattutto dobbiamo ritrovarci in una dimensione spirituale che ci ricentri in Dio piuttosto che nelle nostre particolarità. La religione dovrebbe riconquistare il suo ruolo per cui, come cantiamo nell’ O Sacrum Convivium, mens impletur gratia, e quella mens che si riempie di grazia è anima e mente insieme. La preghiera aiuta, ma non deve divenire un nuovo modo per dare sfogo alle proprie ossessioni ma una maniera per camminare in Dio malgrado le proprie fragilità. In questi anni i disturbi mentali si sono quintuplicati ma non mancano occasioni per farsi aiutare soprattutto da chi per antonomasia medicus est, come diceva sant’Ambrogio. Così come cerchiamo il medico per il corpo non dobbiamo dimenticare di cercare quello per lo spirito. Se cadiamo con Lui, con Lui risorgeremo.

Riscoprire la confessione

Credo che il lavoro compiuto dai confessori sia veramente un lavoro duro. Dover leggere nell'anima delle persone per poterle aiutare e giudicare, non è certamente facile. Uno dei temi che mi affascina molto è quello della libertà: quanto le persone sono veramente libere quando peccano. Mi domando questo non per giustificare il peccatore ma semplicemente perché non si può fare a meno di considerare quelle che sono le nuove conoscenze in psicologia, come certi comportamenti siano in realtà un riflesso di disagi mentali molto profondi che sono difficili da controllare. Il padre Paolo Gabriele Antoine nel suo "Compendio di tutta la teologia morale" (1819) osservava: "La libertà in genere è lo stesso che immunità: per la qual cosa la libertà è di tante spezie, di quante è l'immunità. L'immunità è di sei spezie, e sono, immunità dalla servitù, immunità da impedimento, immunità dalla miseria, immunità dal peccato, dalla coazione, e dalla necessità". Quanto difficile pensare che si pecchi liberi da tutte le "immunità" a cui si riferiva il padre Antoine. Ecco perché anche nella morale del passato, c'erano già tutte le soluzioni a molti dei dilemmi morali della contemporaneità, con l'avvertenza di considerare anche i recenti sviluppi nel campo della psicologia. Bisogna però stare attenti che non si riduca tutto alla psicologia, come purtroppo accade in tanta pastorale odierna. Molti disagi, seppur hanno un connotato psicologico, sono certamente di origine spirituale e come tali vanno affrontati. Interessante il pensiero di Elémire Zolla nel suo "Gli arcani del potere": "Le norme morali hanno senso nella misura in cui si giustifichino dinanzi a un tribunale superiore, cioè nella misura in cui conferiscano la quiete; infatti se sono rettamente intese si risolvono in consigli, in constatazioni di equilibri psichici: se ometterai questa azione non sarai turbato –è la giusta forma della norma morale: l’apodosi varia a seconda dei tempi e dei luoghi e delle vocazioni, il contenuto è sempre relativo, mentre il criterio della contemplazione resta l’asse immutevole che non può vacillare". È certamente importante per un confessore fare in modo che il penitente non perda la sua "opzione fondamentale", malgrado i peccati di cui si è macchiato e malgrado le sue indegnità. Anche qui, bisogna stare molto attenti, a non far divenire questa opzione fondamentale come una scusa per poter fare quello che si vuole. I modernisti sono stati molto bravi nell’usare delle cose in fondo giuste per i loro scopi; in questo gli si deve riconoscere una grande abilità.

Benedetto XVI, il 25 marzo 2011, così diceva: "Nel nostro tempo caratterizzato dal rumore, dalla distrazione e dalla solitudine, il colloquio del penitente con il confessore può rappresentare una delle poche, se non l’unica occasione per essere ascoltati davvero e in profondità. Cari sacerdoti, non trascurate di dare opportuno spazio all’esercizio del ministero della Penitenza nel confessionale: essere accolti ed ascoltati costituisce anche un segno umano dell’accoglienza e della bontà di Dio verso i suoi figli. L’integra confessione dei peccati, poi, educa il penitente all’umiltà, al riconoscimento della propria fragilità e, nel contempo, alla consapevolezza della necessità del perdono di Dio e alla fiducia che la Grazia divina può trasformare la vita. Allo stesso modo, l’ascolto delle ammonizioni e dei consigli del confessore è importante per il giudizio sugli atti, per il cammino spirituale e per la guarigione interiore del penitente. Non dimentichiamo quante conversioni e quante esistenze realmente sante sono iniziate in un confessionale! L’accoglienza della penitenza e l’ascolto delle parole “Io ti assolvo dai tuoi peccati” rappresentano, infine, una vera scuola di amore e di speranza, che guida alla piena confidenza nel Dio Amore rivelato in Gesù Cristo, alla responsabilità e all’impegno della continua conversione". Ecco, raggiungere la consapevolezza che si ha bisogno del perdono di Dio è un importante punto di arrivo per ciascuno di noi. Purtroppo tante persone si sentono indipendenti, si assolvono da sole o almeno così credono. Questo è quello che la società di oggi gli fa credere e purtroppo anche la stessa Chiesa non fa molto per cercare di cambiare questa percezione. Bisogna anche dire che l’allontanamento dalla confessione si accompagna con un maggiore stato di sfiducia nei confronti dei sacerdoti, visti oggi come inaffidabili anche in seguito ai tanti scandali in cui molti di loro sono stati coinvolti. Insomma, la confessione è uno dei sacramenti in più grande difficoltà, segno e specchio di una Chiesa che si dibatte in una crisi che non vede una soluzione nel futuro più prossimo.

Cristo, il leone

Non siamo troppo abituati a riflettere sul simbolismo profondo degli animali non solo nella nostra cultura, ma anche nella nostra religione. Prendiamo per

esempio il leone, un animale che è molto presente nel nostro immaginario, non a caso definito come il “re della foresta”. Questa funzione regale lo connota nella mente di molti, ma ovviamente c’è molto di più da dire. Dal Dizionario dei Simboli di Jean Chevalier e Alain Gheerbrant impariamo quanto segue: “Il leone è simbolo di potenza, di sovranità, ma anche del Sole, dell’oro, della forza penetrante della luce e del verbo“. Come vediamo, già nei primi esempio, il leone ci richiama potenza e sovranità e questo è vero anche per molte religioni. Krishna viene definito “il leone tra gli animali” e Buddha “il leone degli Shakya”. Anche per i musulmani il leone richiama un simbolo di potenza. Cristo stesso come sappiamo è “il leone di Giuda”. Il termine leone appare quasi cento volte nella Bibbia, il che attesta della sua presenza ben conosciuta presso i popoli semiti. In Genesi (49, 9) già viene detto: “Un giovane leone è Giuda: dalla preda, figlio mio, sei tornato; si è sdraiato, si è accovacciato come un leone e come una leonessa; chi oserà farlo alzare?”. Saltando le tante attestazioni andiamo all’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse (5, 5) in cui troviamo scritto: “Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli”. Cristo è il leone e la tradizione popolare ce lo attesta in vari modi. Si diceva che la leonessa partorisse cuccioli morti che poi dopo tre giorni venivano richiamato in vita, una metafore della risurrezione, così come che il leone quando cammina cancella con la coda le sue impronte, metafora dell’umanità di Cristo che cela la sua divinità. In mondimedievali.net, Felice Moretti ci fa anche essere edotti che il leone era visto come simbolo del bene, ma anche del male: “Nel suo ruolo satanico, il leone è spesso il simbolo di una delle tre concupiscenze alle quali l’ascetismo cristiano attribuisce la perdita delle anime: «concupiscenza della carne», da cui la lussuria, la gola, l’ignavia; «concupiscenza degli occhi», da cui ancora la lussuria, l’avarizia e l’invidia; «concupiscenza dell’orgoglio della vita», da cui l’orgoglio e la collera. In queste tre derivazioni dei peccati capitali, il leone rappresenta l’orgoglio della vita. A seconda dei contesti, oltre ad essere il demone dell’eresia, è anche il vincitore dei culti idolatri quando l’arte medievale lo associa ad altro animale o ad una figura umana femminile che soggiace sotto le sue zampe”. Quindi c’era un doppio volto del leone, anche se è vero che l’interpretazione benevola era prevalente. Lo stesso Felice Moretti, ci ricorda che il leone non era simbolo solo di potenza e regalità ma anche di giustizia: “Simbolo della forza e del coraggio, il leone lo fu anche della giustizia. Gli antichi dicevano che esso non si avventava mai sulla

preda se non spinto da un eccezionale bisogno di nutrirsi e che, anche in questo caso, non spiccava il balzo sull’avversario caduto a terra prima che avesse avuto inizio il combattimento. Si raccontava inoltre che il leone sapeva mostrarsi riconoscente per un bene ricevuto al punto tale che gli uomini lo additavano ad esempio di giusta gratitudine. Il Medioevo non aveva rotto questi legami riferiti al leone e al senso della giustizia. È noto infatti che in età medievale le cause di giurisdizione civile ed ecclesiastica venivano discusse e risolte sui sagrati delle chiese, dinanzi ai portali incorniciati da leoni di pietra; i giudizi venivano formulati ed emessi secondo la nota formula inter leones et coram populo, cioè tra i leoni e il popolo assemblato. Il motivo non è solo cristiano e occidentale”. Ed infatti è vero che a guardia non solo di edifici sacri, ma anche profani, viene spesso posta l’immagine di uno o più leoni. Non è da dimenticare anche il simbolismo del ruggito del leone, che può essere ascoltato a vari chilometri di distanza. È come la Parola di Dio che corre lontano. In questa luce dobbiamo ripensare a tutti quei pigolii che ci vengono fatti sopportare in chiesa e come invece la Parola di Dio, anche cantata, avesse questo aspetto regale e potente. Il simbolo di Cristo come leone è stato reso plasticamente da C.S.Lewis nella sua serie Le cronache di Narnia, segno di un’associazione simbolica sempre presente per grandi e bambini.

L’accelerazione finale

In questi tempi difficili, mi viene in mente una frase della classicità latina, che dice motus in fine velocior, cioè che un azione aumenta di intensità verso la fine. Non posso fare a meno di applicare questa frase alla situazione della liturgia nella Chiesa cattolica, in quanto mi sembra che la pandemia di coronavirus ha contribuito a dare un’accelerazione importante ad alcuni processi che erano comunque già in atto da tempo. Se si osservano questi processi con un certo grado di oggettività, per quanto possibile, si vede come quello che accade ora non è che il frutto finale di un qualcosa che maturava da decenni. Un dato che mi sembra importante e che è stato già segnalato in varie occasioni anche dall’autorità ecclesiastica è il calo delle presenze in chiesa, un calo che in alcune zone è ovviamente più sensibile che in altre. Questo calo non è venuto

come una sorpresa, esso proseguiva inesorabile durante gli anni ma in maniera certamente più impercettibile. Questo ha dato a molti, impauriti da un contagio, l’occasione per abbandonare la partecipazione alla liturgia. Sarà possibile recuperare queste persone? Questa è una domanda a cui è difficile dare una risposta immediata in quanto, come ho già detto, quello che sta accadendo non accade di sorpresa, ma è l’evoluzione accelerata di un processo che andava avanti da tempo. Questo dovrebbe fare interrogare molti sul modo in cui la riforma liturgica è stata portata avanti ed implementata, ma sembra che su questo ci siano ancora resistenze nel valutare con serenità d’animo. Eppure la pandemia ha indirettamente scoperchiato alcuni altarini, permettendo di parlare diffusamente di cose di cui era difficile parlare in precedenza. Prendiamo l’esempio del segno della pace, ovviamente sotto i riflettori in quanto particolarmente controindicato in tempi come questi. Le perplessità su questo segno liturgico erano già sorte in precedenza, causando anche un documento da parte della Curia romana che cercava di limitarne gli abusi. Non dubito che esso nella sua forma originale e più autentica possa avere un profondo significato, ma mi sembra anche ovvio che questo significato è di comprensione difficile dall’assemblea liturgica media. Io vedo con favore l’attuale pratica di inchinarsi agli altri, alla maniera cinese, che evita manifestazioni legate a questo momento liturgico che poco hanno a che fare con la dignità e la riverenza dovute alla liturgia. Per quanto riguarda il ruolo della musica liturgica, credo che la pandemia ha soltanto mostrato come essa sia divenuta sempre più irrilevante nei decenni scorsi. Fra cantare e non cantare a Messa non abbiamo avvertito una grande differenza. Mi è capitato a Pasqua di partecipare alla Messa in una importante parrocchia romana e un coretto cercava di proporre alcuni canti che non davano per nulla, però, il sapore di questa festa così importante. Prima la musica era così importante che le liturgie prendevano il nome dall’antifona di introito, domenica Laetare, domenica Gaudete e via dicendo. Oggi queste antifone sono quasi mai cantate (e il “quasi” è una affermazione ottimistica) e spesso neanche recitate. Eppure esse sono altre letture, testi biblici, che danno il tono di quella specifica liturgia. Insomma, tutto quello che ci sta accadendo mostra come quello che è avvenuto alla musica sacra non ha fatto altro che renderla non parte integrante della liturgia, ma inutile orpello. Eppure la Messa dovrebbe essere un tesoro prezioso per ogni cattolico, dovremmo moltiplicare le Messe piuttosto che diminuirne il numero. Eppure,

anche lì, se si osserva la disposizione della segreteria di stato che riguardava la Basilica di San Pietro, si osserva una accelerazione in una direzione che certamente preoccupa. Insomma, bisogna vigilare per osservare dove ci porterà questo processo di accelerazione verso una meta che forse solletica la fantasia di alcuni, ma che preoccupa profondamente altri. È veramente singolare osservare la decadenza di un qualcosa laddove questa cosa era stata fiorente. Pensate infatti all’impressione che fa in noi la decadenza di una donna bella o di un uomo bello, vederli poi in modo diverso colpisce la nostra immaginazione. Così io credo si possa dire per la nostra religione cattolica. Quando si gira per le nostre bellissime città che pullulano di chiese oramai semi deserte, se non già chiuse, ci prende una grande tristezza. Come possiamo essere arrivati ad un tale punto? E potrei dire che lo stesso dovremmo provare per la musica sacra. Come è possibile che si è a questo punto, che la Chiesa oramai preferisca mettere alla guida dei pochissimi cori rimasti dei funzionari piuttosto che dei musicisti, persone che assicurino di non disturbare il manovratore? Mi piacerebbe poter fare nomi e cognomi, che ho ovviamente ben vivi nella mia mente, ma a cosa servirebbe? A cosa servirebbe denunciare questa o quella persona quando non si cambia il sistema marcio che c’è dietro? Non servirebbe a nulla.