Disegno storico della letteratura italiana [First ed.]

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DISEGNO STORICO DELLA7 LETTERA TURA.# ITALIANA gi NATALINO SAPEGNO

NATALINO

SAPEGNO

DISEGNO STORICO DELLA LETTERATURA IVALIANA © AD

USO

DELLE

SCUOLE VOLUME

Diciannovesima

MEDIE

SUPERIORI

UNICO

ristampa

FIRENZE LACNYWOVA ITALIA

i ‘Pacsi, compresi i Regni di Norvegia, Svetias e Olanda. ‘



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in Italia

© Copyright 1948 by «La Nuova Italia» Editrice, Firenze

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1.‘Le origini della lingua italiana. — I primi testi di - qualche importanza nella nostra storia letteraria — importanza, sintende culturale e non poetica — si incontrano sol_ tanto nel secolo XIII. Ma gia parecchio tempo prima era sorto -_e entrato nell’uso delle classi meno colte l’idioma volgare, _ che della nuova letteratura doveva diventare poi lo stru-

mento, elevandosi cosi grado a grado fino ad esser propriamente lingua, e cioé lucida e opportuna maniera d’espressione degli affetti e dei pensieri di tutto un popolo. Gia nei documenti

notarili in latino del VII e dell’ VIII secolc

-appaiono denominazioni di luoghi e forme sintattiche prettamente volgari. Del}principio del secolo seguente € un indovinello allusivo all’arte dello scrivere, che é forse il pit antico discorso verseggiato giunto fino a noi in un idioma romanzo: « Se pareba boves — alba pratalia araba — albo versorio teneba — negro semen seminaba » +). In un placito capuano del 960 é riprodotta la formula pronunciata dai testimoni in una lite di confini tra il Monastero di Montecassino e tal Rodelgrino d’Aquino: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti; e formule con-

simili s’incontrano in altre carte campane di poco posteriori. Fra i documenti pit tardi, ricorderemo le frasi in volgare che si leggono sotto le pitture scoperte fra i ruderi della basilica inferiore di San Clemente a Roma, un privilegio sardo e una formula di confes' sione umbra, tutti del secolo XI; nel XII una carta calabrese, una fabrianese e una rozza iscrizione ‘di quattro endecasillabi che si leg1) « Spingeva innanzi i buoi (le dita), arava i bianchi prati (la carta),

teneva

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aratro.

(la penna),

~ (Vinchiostro) ». 4, —

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"1, — LE ORIGINI eva nel duomo di Ferrara; e al principio del XIII secolo i frammenti

d'un libro di banchieri fiorentini, al quale tengon dietro ben presto — nella Toscana parecchie altre registrazioni consimili o d’interessi privati o di pubbliche istituzioni.

Non si deve credere d’altronde che il linguaggio volgare sia sorto soltanto in quel torno di tempo acui ci riportano

le prime tracce che noi ne possiamo rinvenire nei documenti:

perché a lungo dovette durare assai viva la ripugnanza ad usare nelle scritture quell’idioma che si considerava basso e plebeo, e percid appunto si denominava volgare. Vero é anzi

che sarebbe impossibile determinare un momento in cut il latino abbia cessato di essere la lingua comunemente usata dal popolo e abbia ceduto il posto alla lingua nuova: sia perché tale trapasso dovette svolgersi diversamente e in diversi tempi nei differenti luoghi, sia perché soprattutto é assurdo scienti-. ficamente parlare del nascimento di un linguaggio, il quale

non nasce mai e non muore, bensi continuamente si trasforma nell’uso, col trasformarsi delle istituzioni e dei costumi e il

sempre rinnovato crescere e mutarsi degli affetti e degli ideali. Cosi il nostro italiano altro non é se non |’antico latino,

quale si é venuto attraverso i secoli elaborando e trasfigurando a poco a poco nell’uso parlato; quel latino, dal quale infatti

esso deriva tanta parte del suo lessico e della sua morfologia. Senonché questa € una verita grossolana, o per meglio dire una mezza verita, che richiede d’esser meglio esaminata e distinta. Anzitutto, se vogliamo risalire all’eta storica in cui Roma, improntando della sua civilta tutti i paesi dell’Europa occidentale, vi aveva ad un

tempo esteso dovunque l’uso ufficiale della sua lingua, dovremo guardarci dal confondere il Jatino letterario, quale noi lo leggiamo nelle opere dei grandi scrittori (vario anch’esso d’altronde secondo i tempi, l’educazione ¢ l’indole dei singoli), con il Jatino parlato, il quale riceveva a sua volta diversa intonazione o coloritura a seconda delle classi, degli ambienti e dei mestieri diversi ¢ infine dei luoghi. Latino letterario e latino parlato non stanno, s’intende, fra loro come due lin-

gue diverse, bensi a quel modo che oggi, da un lato, la lingua degli scrittori caratterizzata da una certa sceltezza di lessico e precisione di costrutti; e, dall’altro lato, i dialetti e le loquele di classe e di me-

stiere, pil. semplici e spontanee, pit rozze e disordinate, e tanto piu

vicine alla lor volta alla lingua scritta quanto pit cresce l’autorita ¢

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L’EVOLUZIONE

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la cultura di coloro che le usano. Sebbene tanto gli idiomi letterari quanto quelli parlati si vengano col tempo a poco a poco trasformando, pur le storie di codeste trasformazioni si svolgono, per dir cosi, su due linee distinte ¢ parallele (a prescindere dalle frequenti

interferenze reciproche). L’evoluzione del latino letterario é documentata ampiamente nelle opere degli scrittori. Troppo pid scarsi sono invece, alle origini almeno, i documenti

del latino parlato: purtut-

tavia le notizie fornite dalle iscrizioni e dai grafiti, dagli antichi glossari e perfino da certe opere letterarie, integrate dalle caute e sottili deduzioni dei filologi, ci permettono di ricostituirne in parte le linee fondamentali. Assistiamo cosi, gid in tempi assai antichi, ad alcuni fenomeni tipici, come la caduta della ” nel gruppo ms in parole come mensem,

sponsum

(che diventano mesem, sposum), la sincope della

vocale nella penultima sillaba dei vocaboli sdruccioli (oclus, frigdus, invece di oculus, frigidus), la sostituzione alle forme semplici del futuro di modi perifrastici con l’ausiliare habere (es.: laudare habeo = laudar-d, loderd), l’'uso comune di parole diverse da quelle prevalse nelle scritture (caballus, bucca, manducare, invece di equus,

os, edere), Vediamo a poco a poco afhevolirsi la nozione dei casi grammaticali, e quindi il ricorso sempre piu frequente per esprimere le

diverse relazioni logiche all’uso dell’aggettivo indicativo (che prende valore di articolo) e delle preposizioni. Si estingue a poco a poco quasi del tutto il genere neutro; scompaiono le forme autonome della coniugazione .passiva, cui subentrano le forme composte per mezzo degli ausiliari. Bisognera ricordare inoltre che il latino volgare, diffondendosi insieme con la civilta romana, in tutte le regioni dell’Impero (all’infuori di quelle in cui s’era gia diffusa, e persistette per secoli, la lingua ellenica), nel tempo stesso che riduceva al silenzio gli idiomi originari dei popoli vinti, doveva pure in certo modo venire a patti con talune peculiarita della loro pronuncia e assorbire qualche vocabolo o qualche movenza dell’antico linguaggio e insomma alterarsi pit o meno profondamente. Tali alterazioni furono dapprima lente e quasi insensibili, finché la salda unita dell’Impero rese rapidi e fre-

quenti le relazioni e i commerci fra la capitale e le province e assicurd la presenza di una cultura unitaria e quindi di una lingua relativamente stabile. Senonché, rottasi nel V secolo la compagine dell'Impero, e affievolitisi a grado a grado i rapporti fra le diverse regioni che ne facevan parte, indebolita e quasi distrutta in alcuni luoghi la gloriosa cultura romana, i diversi volgari latini poterono percorrere speditamente e senza ostacoli la linea della loro evoluzione. Cotesti Jatini volgari, quali si mostravano gia nel VI secolo, cosi

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diversi fra loro da render difficile, se non impossibile, a reciproca intelligenza, e pur legati da un’evidente origine comune, sono le —

antiche forme dei linguaggi tuttora parlati nell’/Europa romana: quei — linguaggi che si sogliono dire romanzi 0, pit scientificamente, neo- latini, appunto perché essi sono i prosecutori dell’antica loquela latina, anzi quella loquela stessa, trasformatasi col tempo diversamente

nei diversi luoghi. yy Varii fra loro non pur da nazione a nazione, ma nell’interno di una regione stessa e anzi di una medesima citta, i linguaggi neolatini possono nondimeno raccogliersi in alcuni gruppi fondamentali: cosi _ gli idiomi portoghesi, spagnoli e catalani nella penisola iberica; i

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francesi, provenzali e francoprovenzali nelle Gallie e in parte della

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Svizzera e del Piemonte; gli staliani; i sardi; i romanci o ladini nel Friuli, nel Trentino e nel Canton dei Grigioni; e infine i romeni nell’antica Dacia.

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Tutti i volgari han carattere dapprima di linguaggi parlati e non sctitti, anzi considerati indegni di scrittura, ma pit tardi passano anch’essi all’uso scritto, contrapponendosi al latino, lingua dei chierici

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e dei dotti, e diventano alla lor volta il nuovo idioma letterario.

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Qui a noi interessa in special modo la storia della forma-

zione di una lingua /etteraria italiana, che nasce fra il XIII e il XIV secolo, preparata e favorita da particolari condizioni sociali e politiche.

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In quegli ultimi secoli del medioevo le differenze fra i 7 vari dialetti sorti in Italia, benché non cosi nette e accentuate ~

come oggi, erano pur gid notevoli: e laddove per gli uni, come quelli della Toscana, la distanza dal latino parlato era minima, in altri appariva invece maggiore, e in taluni massima, come nei parlari dell’Italia settentrionale. Al tempo stes-

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so, nel nuovo e intenso rigoglio di rapporti commerciali, i

pellegrinaggi e le predicazioni mantenevano vive e costanti le 4 relazioni fra le varie parti della penisola, creando nell’uso

quotidiano della conversazione fra uomini di terre diverse la necessita di attenuare lc maniere pit spiccate e le forme pia

tipiche di ciascun dialetto, e la tendenza ad assorbire quasi senza accorgersene

~ocaboli e modi del dialetto altrui, cosi da

giungere a una sorta di lingua comunemente intesa. Tale tendenza ebbe a manifestarsi soprattutto negli scrittori colti, che alla corte di, Federico II in Sicilia crearono, co-

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ec tee’ i tentativi di una poesi a lirica nazionale. ad

gua poetica d ella scuola siciliana fu per qualche tempo Ta

lingua letteraria della nazione, anche dopo la fine della po-

a - tenza sveva (1266): lingua per un certo aspetto assai conven-

B _zionale e artificiosa, per desiderio di sceltezza fatta povera e -monotona, rispondente alle chiuse per quanto leggiadre costu-

anze di una ristretta classe di persone colte; lingua pertanto |

lestinata a intristire Lentamente perché non rinnovata di con-

_ tinuo dalla freschezza e ricchezza inventiva dell’uso popolare. _____ Passato tuttavia ben presto nella Toscana il primato del4 i Vattivita letteraria, la lingua poetica, pur-conservando in parte

le

caratteristiche che le aveva impresso la tradizione in Sici-

lia, venne in vario modo arricchendosi di forme e maniere to-

_ scane; pur sempre restando una lingua idealizzata e conven__zionale, uniforme e povera di rilievo, delicata e aristocratica

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(Ja lingua dei poeti del dolce stil novo). Chi diede alla lingua poetica italiana una maggior ticchezza e varieta di suoni e di costrutti, una maggiore ade- |

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renza all’uso vivo e rinnovatore del popolo, fu Dante, il quale

al tempo stesso le impresse definitivamente il sigillo della __ tradizione fiorentina Dopo Dante la lingua poetica ha continuato nattralmente a trasformarsi secondo J’indole, |’edu-

cazione intellettuale, e i diversi e sempre originali problemi _ artistici dei singoli scrittori. Come la lingua poetica, cosi si é venuto lentamente modificando l’idioma parlato dalle classi medie e colte della penisola, lo strumento immediato det commerci e delle relazioni intellettuali politiche ed economiche

fra le varie parti d’ Italia: pur esso é ancor oggi, nella sostanza, quello che Dante con l’esempio addité e promosse, e

cioé il dialetto di Firenze elevato a dignita letteraria, mediante una

maggiore

disciplina dei costrutti e dei suoni e

della scelta dei vocaboli, e complicato e arricchito dagli ap-

- porti abbastanza frequenti e variamente determinati degli altri idiomi regionali.

2. L’eredita della cultura latina e romanza. —

Come

s’é detto, i primi documenti letterari in lingua volgare italiana s’incontrano soltanto agli inizi del sec. XIII. Ma, per

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intenderne appieno il significato e il valore nella stor

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Ocultura, giova non dimenticare che lo svolgimento del b= stra letteratura strettamente si ricollega a tutto il processo wil della civilta latina e romanza del medioevo. Quelle antiche “

composizioni, che a un esame frettoloc- possono parere pri- —

mitive ed elementari, sono invece il frutto d’un complesso —

travaglio di cultura durato per secoli. Due fatti meritano di essere attentamente considerati. Da

un lato, una lingua e una letteratura nazionale si manifestano in Italia con un ritardo di circa due secoli rispetto alla Fran- . cia e alla Spagna. E d’altra parte, allorché si manifestano, esse attingono con una straordinaria rapidita a frutti di una maturita e pienezza altrove sconosciuta e danno vita a monumenti letterari di importanza e risonanza europea, quali le

opere di Dante, Petrarca e Boccaccio. Questo duplice evi-

dentissimo fenomeno si spiega in gran parte con una piu lunga e tenace sopravvivenza nella nostra penisola della cultura latina, dovuta sia alla maggior resistenza che il latino oppose da noi all’azione distruttiva dell’elemento germanico, sia all’influenza pit diretta e pit forte della cultura ecclesia-

stica, che continuava a servirsi del latino come lingua ufficiale e che qui, pit che altrove, operd allora e sempre come stru-

mento di conservazione classico.

del patrimonio

civile del mondo



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Non é qui il luogo di esaminare minutamente la storia della letteratura latina medievale in Italia. Basti ricordare che alcune delle opere pil insigni e delle pit divulgate e famose della latinita medievale nascono proprio qui, come, fin dagli inizi del VI secolo, il De consolatione philosophiae di BoEzi0; qui si elabora fra I’XI e il XIN

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secolo la sistemazione in termini filosofici del dogma cattolico e della concezione cattolica del mondo, da PreETRo DAMIANI, ANSELMO D’AoSTA, PIETRO

LOMBARDO

fino a TOMMASO

D’AQUINO

e a BONAVEN-

TURA DA BAGNOREGIO; qui fioriscono le maggiori scuole di grammatica e di rettorica; qui dura ininterrotta la tradizione degli studi giutidici, attraverso il secolare commento delle leggi di Giustiniano, e pit fortemente e tenacemente che altrove rimane vivo nella coscienza popolare il ricordo di Roma e la continuita del suo esempio glotioso e l'orgoglio di richiamarsi ad esso come eredi legittimi ¢ immediati. Percié molti dei testi pit notevoli della cultura italiana, in un tempo

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in cui gid“in altri paesi @ nata e progredisce la civilté neolatina, seguitano ad essere dettati in latino: é tutta in latino per esempio la ricchissima letteratura di cronache, di leggende, di testi mistici e devoti,

che si ricollega al pit importante e al pid popolare movimento religioso del XII secolo, quello francescano; é in latino, in pieno secolo XIII, la pit famosa raccolta di vite di santi, che ebbe rinomanza europea, la Legenda aurea di JACOPO DA VARAZZE; sono in latino,

oltre le opere dei filosofi e dei teologi, dei grammatici e dei giuristi, anche le cronache, che descrivono con intensita di passione pole-

mica gli avvenimenti politici e militari della penisola, e le popolaresche cranache dei monasteri; € in latino, nella prima meta del Due-

cento, € sia pure in un latino parlato e tutto intriso di forme volBari, perfino la pil vivace, la pil divertente, la pit colorita e pette-

gola cronaca italiana del medioevo, quella del frate francescano SaLIMBENE di Parma. D’altra parte, su questo tronco di rigogliosa cultura latina, s’innesta assai presto e opera in profondita I’influsso delle vicine civilta fomanze, soprattutto di quella francese e della provenzale, Fin dal secolo XII, e pit probabilmente dalla fine del secolo precedente, si

eran divulgate nel nord della Francia le chansons de geste, poemi epici animati da un profondo sentimento religioso e nazionale, che esaltavano le imprese favolose di Carlo Magno e dei suoi paladini contre 1 Saraceni a difesa della «dolce Francia » e della fede cristiana. Le canzoni di gesta non sono, come un tempo si credette, il frutto di una faticosa lunga anonima compilazione, si invece l’opera unitaria e coerente, se pur pi o meno originale e soffusa di poesia, di singoli scrittori, non alieni spesso da certa coscienza ed esperienza d’arte. Tra esse primeggia quella che un ignoto poeta (si chiamava forse TUROLDO) scrisse nei primissimi anni del secolo XII, in serie o lasse monorime di decasillabi francesi, la Chanson de Roland, nella

quale una breve e fortunosa impresa in Spagna di Carlo Magno, giovane ancora e non ancora imperatore, é trasfigurata epicamente nella

lotta di tutte le genti cristiane raccolte intorno al vecchio sovrano contro il re saraceno Marsilio. L’autore della chanson ha rivissuto la materia, che gli veniva offerta dalle leggende pit antiche, con animo

commosso e fervido e ha creato cosi un’opera di schietta e potente poesia. Accanto all’epopea carolingia, e contemporaneo ad essa, fioriva il ciclo delle /eggende brettoni, relative alla gesta di re Arti e dei suoi cavalieri. Non l’amore della patria né il profondo affetto religioso dominano in esse; si uno spirito d’avventure che le avvolge di un fascino di mistero; e quanto all’ammirazione delle gesta eroiche, essa

perdura si, ma attenuata, svuotata dei nobili ideali

che

vano, stravolta in un amore del prodigioso e del fantastico

prettoni non combattono per il loro re e Ja loro fede, si

derio di gloria, per umore bizzarro e avventuroso, per acquistar m aa rito presso la donna amata. L’amore, escluso nella sua natura appassionata e individuale dalie canzoni di gesta, diventa il centro ispita-— tore, la sostanza profonda e fertilissima di motivi di questa letteratura romanzesca in versi e in prosa, nella quale trovano sfogo poetico i sentimenti raffinati e delicati, gli spiriti aristocratici e sensibili,— gli ideali morali e le aspitazioni fantastiche della societa pit elevata e gentile del tempo, e che percid incontra rapida e larghissima difhe fusione in tutta l’Europa occidentale. Assai presto l’epopea carolingia e le leggende brettoni penetrarono anche nella nostra penisola; e mentre i racconti brettoni (la Tavola rotonda, il Tristano) diventavano la lettura preferita degli ambienti aristocratici e feudali, le canzoni di gesta si divulgavano invece — soprattutto tra le classi popolari, dando origine al sorgere di quella letteratura cavalleresca, che si suol denominare dagli studiosi franco- — veneta 0 franco-italiana, perché gli scrittori che la rappresentano, uomini di scarsa e rozza cultura, trascrivendo e rielaborando i testi

originali con una conoscenza molto imperfetta della lingua francese,



a poco a poco la deformano, inquinandola di elementi dialettali no-

strani, finché giungono ad usare una sorta di ibrido idioma, che é — un vero travestimento francese dell’antico linguaggio veneto. | L’uso del francese si perpetua da noi, nei testi cavallereschi, fino al Trecento, specie nell’Italia settentrionale; ma abbastanza presto an-

che cede il passo ai rifacimenti in prosa e in versi in volgare toscano (Buovo d’Antona, Rinaldo, Aspromonte,

Spagna); mentre anche la

materia si trasforma, assume atteggiamenti e caratteri diversi, un’impronta pil paesana e prosaica, pil romanzesca e meno epica. In seguito, perdutasi la netta distinzione fra la materia di Bretta- — gna e quella di Francia, s’inizia quella fusione dei due cicli, che pia

tardi doveva aver sigillo poetico dall’arte di un Boiardo e di un Ario- — sto; sebbene l’intonazione di epica serieta, che ancora avvolge nei primi secoli queste storie, sia pur sempre assai lontana dalla diversa serieta, meno eroica e pil umana, meno schietta ma pit sottile e complessa, che quella stessa materia, trasfigurata, ricevera pet opera

dei nostri grandi poeti del Rinascimento.

Pil importante, sebbene si svolga in un campo pit limitato e ae chiuso, é l’influsso esercitato in Italia dalla lirica —

d’arte francese e pit (se non esclusivamente) da quella pro-

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ass che si ricollega direttamente con le origini i poesia dotta, dalla scuola siciliana al « dolce stil

Sorta in mezzo 2 una societa aristocratica e raffinata, in _ un ambiente di costumi cortesi e liberali e di elevata cultura, ta letteratura provenzale si espresse in forme liriche, nelle qu li @ ben presto evidente un proposito d’arte squisito e

- sottile, e dove non di rado V’intelletto ha pit parte che non la fantasia, e la riflessione tiene a freno (quando addirittura non sostituisce) il sentimento. Presa nell’insieme (e prescin_ dendo dalle personalita pit vigorose e sisentite) la materia di questa lirica, che é essenzialmente lirica d’amore, & mo-

notona e povera, vuota di sentimento, soffocata dalla rifles-

- sione e dall’intellettualismo. Rimanendo

uguale e monotono

il contenuto, i poeti si sbizzarriscono nelle trovate formali,

_ nella ricerca degli artifici stilistici. Art de trobar si diceva _ appunto questa fatica di comporre canzoni con ritmi difficili, in un linguaggio scelto e fiorito di stranezze, elaborato con studio sottile e sapiente; ¢robaire (nei casi obliqui trobador,

trovatore) chi si dava all’esercizio di quell’arte. L’importanza storica della lirica provenzale consiste nella creazione

di un clima letterario raffinato e animato da alti

propositi d’arte. Con i trovatori rientra nella poesia |’ele-mento della riflessione e dell’intelligenza; la ricerca di uno stile ornato ed elegante; la coscienza orgogliosa della perfezione artistica. E non importa se nei trovatori il disprezzo | del gusto volgare e la coscienza della difficolta poetica diventano spesso desiderio dell’astruso, dello strano, del virtuoso: donde la fortuna dello stile oscuro, del trobar clus.

Cid ‘nulla toglie all’importanza dell’insegnamento artistico che dai provenzali venne ai nostri pit antichi rimatori, ai quali essi offrirono il modello di un alto discorso poetico, e tutta una serie di situazioni, di temi, di schemi materiali e formali. Il che non é, ben s’intende, la poesia; ma pud diventare, e diventd per i rimatori delle nostre origini, il fondamento d’una letteratura colta e raffinata, della quale il

fiore supremo fu la nostra lirica d'amore dal «dolce stil novo» al Petrarca. Si capisce pertanto che anche i nostri

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poeti pit veri, € lo stesso Dante e il Petrarca, guardassero l’esempio dei provenzali con gratitudine e con ammirazione, e la loro ammirazione volgessero a quei rimatori soprattutto nei quali, come ad esempio in ARNALDO

DANIELLO, € pit

forte il senso aristocratico della forma e pit frequente la ricerca del linguaggio ricco e delle complicazioni metriche.

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La fioritura della lirica provenzale ebbe breve durata:la terribile

crociata contro gli Albigesi (1209) e il prevalere della egemonia

francese distrussero, intorno alla meta del secolo XIII, insieme con la societa feudale del sud della Francia, anche la cultura e la letteratura in cui quella societa trovava la sua espressione. Ma intanto le

liriche provenzali — di BERNARDO DE VENTADORN, di BERTRANDO DE Born, di JAUFRE RUDEL, e di altri trovatori che, come PEIRB VIDAL

e RAMBALDO DE VAQUEIRAS, trascorsero in Italia gran parte della loro vita —

eran penetrate in Italia. Altri scrittori di Provenza tro- -

varon rifugio nella nostra penisola durante l’imperversare della crociata contro gli Albigesi. E a fianco di quelli, quasi a gara con essi, sorsero rimatori nati in Italia, ma esperti a rappresentare i loro

sentimenti e i loro pensieri in quella lingua provenzale che sola pareva ormai definitivamente consacrata dall’arte: il pit famoso, anche

per esser stato ricordato da Dante in un episodio celeberrimo del suo Purgatorio, ¢ SORDELLO DI GOITO, vissuto prima a Verona e a Treviso, poi in Provenza, e tornato nel 1266, con Carlo d’Angio, in Ita-

lia, dove sembra sia morto intorno al 1270. Di lui si ricorda soprattutto il Compianto

in morte di un feudatario provenzale, ser Bla-

catz, che € un’ardita satira politica contro

i maggiori

principi e

sovrani del tempo, non escluso l’imperatore.

3. Primi documenti i letteratura religiosa e morale. -~ I pid antichi monumenti letterari del popolo italiano giunti fino a noi sono in versi. Nella fragile struttura metrica e sintattica, nella semplicita un po’ rozza delle immagini,

nell’elementarita degli affetti, si rassomigliano tutti; l’intonazione

€ popolaresca,

quasi nulla.

e la coscienza

.

artistica assai povera e

L'espressione dei sentimenti religiosi, che é gran parte

della letteratura popolare del secolo XIII, trova la sua base

nei grandi movimenti ascetici, che commossero profondamente l’anima delle folle: il moto francescano e le confra-

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scarsa varieta e sorretta da breve respiro, si fa nel Convivio pid am-

_ pia, complessa, meglio articolata, « virile » anch’essa insomma. II periodo, lontano dalla poverta sintattica delle scritture volgari del Due-

cento e alieno anche dagli artifici della prosa rimata, si modella su quello latino e scolastico, segue agilmente e riproduce il movimento logico della dissertazione, con passaggi ben distribuiti e ordinati, con una chiarezza uguale e pacata, che talora s’anima di rapide e ardite movenze o s’eleva a un tono di eloquenza commossa e immaginosa.

6. Il «De vulgari eloquentia ». — Il volgare italico,

del quale nel Convivio aveva lodato la « gran bontade » e¢ messa in rilievo la capacita a manifestare« altissimi e novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente e acconcia-

mente, quasi come per esso latino », diventa oggetto dello studio scientifico di Dante nel trattato De vulgari eloquentia,

scritto in lingua latina forse appunto perché la novita della materia,

e quindi i meriti dell’eloquio volgare stesso, non

sfuggissero all’attenzione dei dotti. L’opera rimase interrotta al cap. XIV del II libro. Nel primo libro Dante discorre dell’origine e della storia del linguaggio: dalla confusione di Babele sorsero gli idiomi volgari, e in particolare quelli romanzi, di contro ai quali s’accampa il latino, la

gramatica, lingua dei dotti convenzionale e immutabile. Attraverso la classificazione e l’esame dei dialetti italici, l’Alighieri, tenterd di fis-

sare il concetto di un linguaggio illustre e curiale, comune a tutti i popoli della penisola, capace di assurgere a strumento letterario nelle scritture di materia pit nobile ed elevata. Nel secondo libro Dante mostra come il volgare illustre s’addica soltanto alla trattazione dei pit alti argomenti — amore, armi e virth — e, tra le forme metriche, alla sola canzone, della quale s’indugia a descrivere minutamente la struttura.

Dalla scienza medievale Dante riprende la teoria biblica

sull’origine delle lingue, e le forme scolastiche dell’argomentazione: ma oltrepassa i limiti di quella scienza e precorre

idee moderne, quando, rinnovando il concetto aristotelico del

variare perpetuo del linguaggio nel tempo e nello spazio, lo

trasporta sul terreno dell’esperienza e lo conforta di esempi vivi e concreti; e anche pit dove, per il primo, tenta, sia pur con metodo inadeguato, una classificazione sistematica dei 4, —

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Ma V'importanza vera dellik o é alt ove. Il De © dialetti italici. vulgari eloquentia é \'affermazione teorica della nuova poesia — italiana, poesia dotta ed aristocratica alla quale non possono ~

salire « se non quelli in cui sia ad un tempo ingegno e scienza».

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Il volgare illustre é la lingua diquesti poett coltie

raffinati, quale s’é venuta formando a poco a poco attraverso le esperienze della scuola siciliana, degli altri poeti eccellenti — d’ogni regione e soprattutto del Guinicelli e degli scrittori — toscani del «dolce stil novo»: lingua letterariamente ela- — borata, dirozzata, ripulita, che « fra tanti rudi vocaboli dei — Latini, fra tante incerte costruzioni e difettose pronunziee contadinesche cadenze, é scelta cosi egregia, limpida, compiuta ed urbana, quale la mostran nelle loro canzoni Cino da Pistoia e il suo amico », cioé Dante stesso. Erra chi s’imma-

gina il volgare illustre come una specie di costruzione fantastica e convenzionale, un’arbitraria mescolanza di voci tratte a dialetti diversi; allo stesso modo che non intende bene chi

pensi, prendendo alia lettera ie parole di Dante, la gramatica come una creazione artificiale, fissata una volta per sempre. A

La gramatica é il latino letterario; quale fu determinato dal

sovrapporsi dell’azione individuale e consapevole degli scrit'

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tori, di tutta la classe colta, a quella collettiva ed inconscia

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del volgo (ché se poi |’Alighieri lo concepisce in certo modo

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inalterabile e convenzionale, si pensi che esso era di fatto, al tempo suo, lingua morta nell’uso, eppure strumento di rap-

q

porti intellettuali fra i dotti, e strumento pressoché immutabile, chiuso nei confini di un vocabolario esiguo, nel quale ogni parola, si pud dire, assumeva, per le necessita della scuo-

la, un significato prestabilito e fisso). Cost il volgare illustre sara la nuova grammatica, che fissera in una relativa stabilita il perenne

variare dei dialetti:

e, lingua letteraria,

esso é

gia nato nelle opere dei letterati pit illustri e meglio dotati di cultura; e gid opera efficacemente sui volgari stessi municipali, estirpando « dall’itala selva gli arbusti spinosi-» e met-

tendovi « ogni giorno nuove piante e vivai ». Il significato profondo del De valgari eloguentia & ap-

punto in questa vigorosa consapevolezza dell’ opera preminente degli scrittori nella formazione del linguaggio di un

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Pe event iain! yey Seed opolo;degli scrittori Sys e dell’au/a, cioé della corte, intesa an-ye

¥ ch’essa per altro come centro culturale della nazione. E qui il probiema Jetterario sinnesta con quello politico, cosi pre_ Sente sempre all’anumo del poeta: |’italia non ha curia, per-

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ché non ha sovrano. Senonché Dante esce « agevolmente »

_ dall’impaccio dell’obiezione con la sua ferma tede, che supera le tristezze del presente: « sebbene in Italia non vi sia 4 _uma corte,-intesa come unico centro, qual’é quella del re di _ Germania, le membra di essa tuttavia non ci mancano, e come _ le membra di quella trovan la loro unita nella persona di

;

un solo principe, cosi le membra

di questa son riunite dal

lume di ragione, che Iddio ci ha dato in grazia. _ sarebbe faiso dire che noi italiani siam privi di bene é vero che siam privi di principe; perché la _ biamo, per quanto appaia, materialmente, dispersa

Per il che corte, sebcorte l’ab». Si capisce che le membra disperse di questa curia ideale son quegli

uomini eccellenti nell’arte e nella poesia, che vi si raccoglietebbero qualora essa, per la presenza di un sovrano, s incarnasse stabilmente: e in ultima analisi dunque a cotesti uomini

_ Sappartiene 1a creazione del linguaggio curiale ed illustre. L’errore di Dante nel De vulgar: eloquentia, é d’aver sentito la coscietiza dell’a.te in modo cosi forte da sopravvalutarla, trascurando o deprimendo |’uso comune, parlato e non letterario, della lingua; quell’uso sul quale, esagerando in senso opposto, insistera poi esclusivamente il Manzoni. Il suo merito invece é d’aver affermata questa consapevolezza per la

prima volta e con tanto vigore: si che egli segna una delle linee maestre lungo le quali dovra incanalarsi in seguito, po-

larizzandosi, il problema cosi dibattuto della nostra lingua.

7. La « Monarchia » é non pur Ja sola compiuta fra le operette dottrinali di Dante, ma anche la meglio costrutta logicamente, quella che risente di una piu intensa e vasta pre-

parazione filosofica, la pit originale e moderna nella soluzione. Nel primo libro si dimostra che la monarchia universale é neces,

garia al benessere del mondo, come quella che sola assicura uno stato

di giustizia e di pace, e permette in tal modo il conseguimento del

supremo fine terreno del genere umano, e cioé |’attuazione dell’

telletto: possibile nel campo speculativo e ptatico. Nel secondo libro ; si sostiene che il popolo romano si é attribuito a buon diritto l’'uffcio dell’impero. Nel, terzo ed ultimo si afferma che la monarchia tem- —

porale deriva e dipende da Dio immediatamente e non dal suo vicario nel mondo. E qui appunto é Ja nota pil nuova e pia audace del libro: in questo proclamare l’autonomia del fine naturale del-



I'uomo (che é la beatitudine di questa vita, cioé la perfezione della moralita, sorretta dagli insegnamenti della filosofia) rispetto a quello soprannaturale (che é la felicita eterna e celeste alla quale l’uomo é@ guidato dalla rivelazione divina); e quindi l’autonomia della ragione rispetto alla fede, e dell’Impero rispetto alla Chiesa. Autonomia per altro che non esclude un atteggiamento di reverenza, e quindi in certo senso di subordinazione, dell’autorita temporale di fronte a quella spirituale.

La Monarchia @ un’overa profondamente meditata, costruita con rigore logico nel complesso e nelle singole parti, ed é al tempo stesso un’opera di fede dettata da un’esperienza personale e concreta. Qualunque sia il tempo in cui Dante la scrisse (o negli anni 1310-12, come vogliono i pit, quando

la vicenda di Arrigo VII disceso in Italia avrebbe dato a’ suoi ragionamenti un singolare sapore d’attualita; o prima o dopo d’allora, come pur vogliono altri studiosi): certo é che il trattato si ricollega con vincoli profondi da un lato ai problemi politici agitati dottrinalmente e praticamente in quell’eta, dall’altro al sentimento vivo e lungamente meditato dello scrittore. Dai libri dei pubblicisti francesi (intesi a difendere i diritti dello stato nazionale monarchico contro le ingerenze delle potesta universali) Dante poté trarre qualche ragione di con- forto alla sua lotta contro le pretese eccessive della curia papale, pur restando fermo nel suo concetto dell’universalita dell’impero, arbitro supremo di giustizia fra le divergenti ambizioni e cupidigie dei sovrani particolari; dalle opere dei polemisti pontifici fu condotto a riesaminare, in contrasto con

quelle, tra altre questioni, quelle allora vivissime della donazione di Costantino e delle origini del sacro romano impero di Carlo Magno e de’ s.oi successori. Dalla sua personale esperienza trasse il senso profondo della giustizia e l’ardente desiderio della pace e della libertad, che solo l’unita dell’im-

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_ pero puod assicurare « in questa chiusa atuola dei mortali »: e¢

qui infineé la nota pid intensa, la pit viva risonanza della Monarchia,

qui lo spirito accorato, umano e cristiano, del

_ poeta. ___ Ché se a noi oggi cotesta sembri utopia, e tutta la materia

del trattato, nel suo spirito medievale e nella sua forma scolastica, appaia ormat superata e lontana nel tempo; dopo aver A

7

riconosciuto il valore storico della solenne architettura dantesca, Si ripensi all’importanza che queste idee hanno per la comprensione dell’opera tutta di lui, e in particolare della Commedia: dove Virgilio stara appuntoa simboleggiare i « documenti filosofici » e Beatrice quelli « spirituali », la ra-

gione umana e la rivelazione; e la beatitudine di questa vita sara raffigurata nell’Eden, e quella celeste nell’Empireo; e laspirazione alla giustizia, alla liberta, alla pace tra gli uomini, in questa « aiuola che ci fa tanto feroci », sara trasfigurata in una luce poetica, che dal meditato sentimento dello

scrittore trae la sua forza d’universale commozione. &

La

«Quaestio»,

latino della Monarchia

le egloghe

e le epistole.



Il

e del De vulgari eloquentia é, in sostanza,

la lingua delle*scuole: lingua foggiata per il ragionamento deduttivo, costruita sul telaio del sillogismo, arida, oggettiva, poverissima di fisionomia individuale. Senonché Dante la ravvivd d’un calore e

colore poetico, che sollevano in un impeto d’eloquenza le magre e severe formule del linguaggio aristotelico e tomistico; si sforzd di riprodurvi gli echi delle movenze classiche, apprese da quegli scrittori antichi ch’egli amd, poeti assai pit che prosatori; e soprattutto trovd nel latino biblico, immaginoso, frondoso, a suo modo barocco, la veste pit: adeguata alle sue violente invettive, ai moniti solenni, alle convinte profezie. La dove, nei trattati, il discorso si fa pil personale e pitt mosso, investito per cosi dire di un vento di poesia, fitornan frequenti le frasi dei Salmi, del Cantico dei Cantici, dei

Profeti e degli Evangelistt. Il linguaggio scolastico appare, nella sua forma pit schietta ¢

scientifica, nella Quaestio de aqua et terra, tesi filosofica letta a Verona, alla presenza del clero, nel gennaio del 1320, e rivolta a dimo-

strare che l’acqua nella sua sfera non puo essere in nessun punto piu alta della terra emersa. bie sect Lo studio dei poeti classici, e in particolare di Virgilio, si rivela

invece nelle Egloghe a Giovanni del Virgilio. Questo maestro del-— l'universita bolognese aveva indirizzato a Dante sulla fine del 1319 un carme latino, in cui gli manifestava il suo disappunto di vederlo— disperdere tanti tesori d’arte al volgo ignorante e lo esortava a can-— tare di qualche avvenimento recente nella lingua dei dotti, cosi dameritare l’alloro poetico. Dante rispose con un’egloga latina, dove la

veste del linguaggio pastorale, imitata dalle Bacoliche virgiliane, ticopre a guisa d’allegoria un significato riposto: egli non nega di desiderare il lauro dei poeti, ma spera di procurarselo appunto con il grande poema volgare, quando l’abbia recato a compimento;

in-

tanto invia in dono al cortese ammiratore dieci canti del suo Paradiso. Giovanni del Virgilio, in un’altra egloga, espresse la sua ammira- — zione per il poeta, che squisitamente rinnovava la fantasia e le eleganze dei classici, e lo invits a Bologna, dove avrebbe trovato lodi — e consensi. Dante replicd respingendo affettuosamente I’insistenza del cortese sollecitatore, e mostrando, ancora sotto il velo dell’allegoria pastorale, di temere in Bologna oscuri pericoli, forse la violenza dei Guelfi Neri insorta in quella citta nell’estate del 1321.

La calda e carnosa eloquenza biblica, che animava le pa-

gine pi personali e battagliere dei trattati, riappare nelle tredici Epzstole giunte fino a noi, o almeno nelle migliori tra _

esse, non pit frenata da un proposito didascalico o scientifico, — anzi promossa e ravvivata da un fine pratico, oratorio 0 po-lemico, da un desiderio di persuasione e di commozione im- | mediate. Senonché, nel genere epistolare, Dante doveva fare i suoi conti anche con gli insegnamenti dell’ars dictandi, con

gli esempt illustri e riconosciuti dei pit valenti dettatori, con le leggi rigide e sapienti del cursus. Il nuovo dettatore, che era . anche un poeta, non respinse i freni imposti dalla consuetu-

dine, s’adattd a quelle norme che, se a noi oggi paion mortificazione, allora erano per tutti fondamento precipuo d’armo-.

nia e di decoro, studio i segreti e le scaltrezze molteplici dell’arte. Cosi anche in questo campo egli rimaneva fedele al suo

principio costante dell’arte difficile, aristocratica. Pur fra tanti ceppi gli riusci non di rado di dar forma a’ suoi affetti, di colorirli con robusta efficacia, di esprimer le sue convinzioni

piu personali e profonde.con voce che é tutta sua, libera da ogni modello esteriore, con quell’intonazione che é dei versi pit eloquenti e commossi della Commedia. Tra le epistole so-

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sai notevoli le tre scritte inoccasi

_vocato il ritorno dei papi a Roma, ma la loro pacifica colla_ borazione con l’impero (nell’eguaglianza riaffermata delle due potesta), ma la riforma morale della Chiesa desolata dall’ava-

tizia e dalla simonia; come nel Purgatorio & proclamato qui solennemente il principio che i mali della Cristianita deri-

vano dalla cattiva volonta degli uomini e non dall’influsso ostile dei cieli; come nel Paradiso s’invoca il ritorno alla me-

ditazione del Vangelo e dei « dottor magni », lasciato l’arido e mondano studio dei decretalisti; e anche qui tutta la pero-

razione s’accentra nella figura di Roma « vedova e sola » priva dei suoi « due soli.... che l’una e l’altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo»:

tutta, anzi del mondo, si rispecchia. Quanto l’epistola ai cardinali ¢ composta in uno spirito oratorio, dettata in uno stile

biblico e metaforico, ricca quasi ad ogni passo di frasi riecheggiate dalla Scrittura; altrettanto nuda sobria lineare, spoglia di citazioni, se pur costruita con arte, é la lettera all’amico fiorentino, nell’occasione dell’amnistia del 1315, la quale

é non pure una magnifica protesta della propria innocenza e uno sdegnoso rifiuto delle umiliazioni, alle quali si subordila possibilita del suo ritorno in Firenze, bensi soprat-

tutto una vigorosa affermazione della dignita del filosofo, il quale ha conforti siccome doveri che il volgo ignora, e leggi cui obbedire pit alte di quelle che la sua citta gli puo im-

porre, e fini ideali ed eterni non materiali e immediati; e una _ patria pit vasta, che tocca i confini del mondo e s’estende

« dovungue sotto il cielo ».

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Roma illustrata dalla pompa

dei trionfi imperiali, consacrata dal sangue dei martiri e degli apostoli, nella cui desolazione la desolazione dell’Italia

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9. La « Commedia ». - Tra le opere minori di Dante_

le Epistole son quelle che meglio s’avvicinano, non si dice

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alla poesia, ma certo all’atmosfera sentimentale della Com-

media. Nelle altre si pud cogliere via via il formarsi della — sua disciplina artistica, l’allargarsi della sua cultura filosofica

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tata letizia in un cerchio di solitudine e di silenzio. I personaggi dei novellatori rivivono, non pur nel nome, le figure appassionate dei romanzi giovanili, ma in un tono di fer-

vore lontano, smorzato e quasi evanescente. Cosi Panfilo, il

fortunato amante; Filostrato, l’amante tradito e disperato; Dioneo, il gaudente spregiudicato e sempre allegro, rappre-

sentano si tre facce dell’uomo stesso Boccaccio, tre momenti ideali della sua esistenza, ma li fappresentano appunto in una luce immobile e diafana e, per cos? dire, fuori del tempo: anche Dioneo, che é pur, fra tutte queste figure, la pil vivace e la pit ricca di rilievo. Non dissimile é il compito e il ca-

rattere delle donne: Pampinea, nel pieno rigoglio della sua giovinezza, saggia e serena, amante riamata; Filomena, anch’essa savia e discreta e pur piena di «desio focoso »; Elissa, acerba adolescente, schiava di un violento e doloroso amore; Neifile, giovanissima anch’essa, ma lieta e pronta al

canto e ingenuamente lasciva; Emilia, innamorata di sé come Narciso; Lauretta, amante gelosa; Fiammetta, lieta di un ricambiato amore e pur sempre trepidante che non le sia tolto: sono come altrettante proiezioni esemplari e tipiche di quel

mondo di affetti e di passioni, dei quali s’era intessuta fin ui la tela delfe opere boccaccesche. Questa vita ideale dei

novellatori s’incarna nei loro atteggiamenti, nei loro gesti, nelle loro parole, e soprattutto nelle ballate che ciascuno di essi canta al termine d’una giornata. Le quali, se di rado

hanno un valore poetico autonomo (anche se taluna sia piena di musicale indefinita vaghezza, come quella di Emilia; o soffusa di elegante malinconia, come quella di Elissa; 0 accesa di sensualita ardente, come quella di Filomena; o intonata a una piacevolezza fresca e lasciva, come il canto di Neifile), pure, tutte costruite in una maniera tecnica che sta

a mezzo fra l’idealita del dolce stil novo e la raffinatezza della

lirica musicale, valgono a suggerire dei cantori un'immagine quasi di simbolo o d’allegoria. La cornice é dunque il simbolo esteriore dell’intima

unita del Decameron.

La quale unita,

pur suggerita e additata dall’architettura esterna, ¢ poi veramente nell’animo solo del poeta, in quella sua singolare attitudine di osservatore 8. —

SarprGNo,

Disegno

stor.

tra il curioso e¢ il disinteressato, della

lett.

it.

di

uomo uscito ormai dal turbine delle passioni giovanili, ¢ tutto” intento a ricontemplarle e riviverle nella fantasia, prima che sopraggiunga |'eta della riflessione e del distacco, quando lo sguardo si rivolge ormai alle cose del mondo freddo ed estraneo, incapace di amare piu e di comprendere. i L’interesse profondo del Decameron € tuttavia, non nella cornice, si nelle novelle singole, ciascuna delle quali é una opera d’arte autonoma e nel suo breve circolo compiuta.

Lorizzonte dell’ispirazione poetica, che gia nel Ninfale fiesolano accennava ad ampliarsi, qui appare subito assai vasto

e pieno di cose e tutto illuminato di una luce pacata uguale e serena. C’é ancora l’amore, passione esaltante e tormentosa,

oggetto unico e prepotente della riflessione giovanile dell’artista; ma compaiono anche altri affetti, altri elementi d’uma-

nita, e tutti fra loro fusi e mescolati nel movimento armonioso e complesso della vita; di una vita che non ha pit nulla di ristretto e di unilaterale, ma é cos? ricca e multiforme che sembra far tutt’uno nel suo esplicarsi con la realta stessa. Due direzioni fondamentali é possibile per altro indicare nel vasto mare della fantasia boccaccesca: la materia amorosa e il culto dell’ intelligenza: e cioé da un lato, la rappresentazione della forza indomabile della passione, ora accettata serenamente e con senso pieno della responsabilita, ora va-

riamente cammuffata e ignobilmente travestita di sofismi di accorgimenti di falsita; e dall’altro lato, la commossa contem-

plazione dell’intelligenza umana in tutti i suoi gradi, dalla pronta astuzia del delinquente alla suprema dignita del cavaliere, con la correlativa descrizione dell’umana sciocchezza, cosi frequente e diffusa, materia vile che l’uomo astuto ado-

pera per i suoi fini pi o meno egoistici, e l’uomo colto guarda dall’alto con un sorriso di signorile indulgenza. I due motivi

ptevalgono ad ora ad ora nelle singole novelle, ma spesso anche s'intrecciano e talora si fondono in un’unita superiore,

che é equilibrio e armonia di intelligenza e di vita sentimentale: intelligenza che non si perde mai nell’astratto ed é@ tutta materiata di umanissimi istinti; esperienza sentimentale che non si riduce mai nella zona torbida ed elementare degli

istinti, ma € sempre sorretta frenata dominata dalla ragione

os

e mira diritta al suo scopo col sussidio dell’astuzia ¢ dell’intelligenza. Ispirazione amorosa non vuol dire, si badi, materia sensuale, compiacenza dilettosa del motivo osceno. Anche le novelle erotiche, sulle quali a torto si é fermata esclusivamente per secoli l’attenzione dei lettori (lasciando nell’ombra le parti diverse, e non meno belle, del libro) non ci mostrano quasi mai nel Boccaccio il gusto per sé preso della brutalita sensuale, si piuttosto l’interesse umano del poeta che si in-

dugia a ritrarre con arte perfetta e limpida il gioco degli istinti e dei sentimenti. Talora anche nelle novelle pit au-

daci non é difficile scoprire che l’interesse dello scrittore non é rivolto alla materia licenziosa in sé, bensi a un raffinato,

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e sia pur malizioso gioco dell’intelligenza. La concezione boccaccesca dell’amore é del resto, se pur nettamente umana e realistica, pit: vasta di quanto comunemente non si pensi: l’amore che il certaldese desctive é spesso una passione nobile e capace di trarre fuori l’uomo che ne é toccato dalla sua

naturale grettezza, né puo esser ridotta percid al mero palpito dei sensi, anche se trovi in esso sempre il suo cominciamento e il suo limite. Ed é talora passione potente, che afferra

la creatura nel vortice di una sua logica particolare, e lo trascina all’eroismo o all’esasperazione, alla beatitudine o alla

follia. Ecco le grandi figure di donne innamorate, che il Boccaccio disegna con fermezza di linee e solennita d’atteggiamenti e profonda simpatia umana. Figure tragiche, nelle quali lo scrittore vede incarnarsi quella coerenza e pienezza di vita

e di intelligenza ch’egli chiama la « grandezza dell’animo », come la moglie di Guglielmo Rossiglione (IV, 9), la quale, costretta dal marito a mangiare il cuore del suo amante, s1

uccide gettandosi « senza altra deliberazione » dalla finestra del castello; o come Ghismonda di Salerno (IV, 1), che, uccisole dal padre il giovane valletto del quale s’era innamorata, s'avvelena e muore con stoica risolutezza. Figure immerse in un’aura di elegia, fragili vittime in cui la potenza

formidabile dell’amore s’é trovata a cozzare contro le opache

decisioni del caso ovvero contro le astratte e pur severe leggi della convenzione sociale, come

Andreuola

(IV, 6), Simona

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(IV, 7), € soprattutto Isabetta da Messina (IV, 5), della quale

il Boccaccio dipinge con mano gentile il chiuso e morbido struggimento e l’accorata crescente follia. Tali racconti ci danno il senso della vastita e dell’altezza

cui pud giungere nel Boccaccio l’ispirazione erotica. Ma, anche per le novelle d’argomento pit schiettamente licenzioso,

bisogna guardarsi bene dal confondere il certaldese con i suoi troppo numerosi imitatori. Nei qualiilmotivo osceno vale di-

solito per sé stesso, come materia di riso e di maliziosa com-

piacenza, mentre nel Boccaccio é, come ogni altro elemento della trama, non pit che un pretesto alla rappresentazione lucida e penetrante degli ambienti e dei caratteri. Cosi il racconto della monaca e della badessa (IX, 2) s’accentra, non nei particolari lascivi, si nella descrizione finissima dell’ambiente conventuale con le sue invidie, i suoi pettegolezzi, le sue ipocrisie; e l’altra novella di Masetto di Lamporecchio (III, Sy, é ben lungi dal ridursi a uno scherzo malizioso e ambiguo, ¢ culmina nella creazione di un carattere ritratto con mirabile potenza e coerenza di linee. Molte delle novelle d’amore licenzioso si trasformano del | resto facilmente in novelle di beffa e d’astuzia; e ci apron cosi la via a discorrere dell’altra vena fondamentale della poesia boccaccesca: l’esaltazione dell’intelligenza umana nei suoi vari

gradi e nei suoi molteplici aspetti, che si diversificano secondo le diversita delle condizioni, degli ambienti, dei ceti. Come, per le novelle amorose, é facile non intenderle nella loro effettiva sostanza poetica, se ci si fermi all’esteriorita della trama e all’apparenza dello spunto osceno; cosi, per molte di quelle dettate dall’amore dell’intelligenza, occorre eliminare la persuasione diffusa che, a scriverle, il Boccaccio sia stato mosso da un ristretto impulso satirico o burlesco o polemico. Le novelle di Martellino (II, 1) e di ser Ciappelletto (I, 1), per esempio, posson sembrare rivolte a porre in ridicolo i facili culti superstiziosi dei nuovi santi; e puo anche darsi che

questa sia stata, fuori della poesia, l’intenzione astratta dello

scrittore; ma cid che poi ha attratto davvero l’attenzione dell'uomo e del poeta é stato, nel primo racconto, l'intelligente destrezza dell’uomo di corte abile a contraffarsi e a recitar la

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Le definizioni del Settembrini, del De Sanctis, del Carducci, ; che insiston sull’onda voluttuosa e sonora, sulla maesta soee

lenne, sulla sensuale eloquenza di esso, ne colgono in realta —

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uno solo degli aspetti e rimangono insomma nei generico: ché a lato di quello stile pil ampio e fiorito, son frequenti nel Decameron le pagine intonate nel linguaggio a una sobrieta, — a una sveltezza, a una flessuosita poco comuni. Chi vi vede

soltanto l’influsso latineggiante, trascura di considerare la va-_ ria esperienza tecnica che confluisce nel capolavoro del Boc-

caccio attraverso i tentativi delle opere minori. Con la struttura del discorso varia anche, a seconda delle circostanze, il linguaggio: ora fresco, colorito, intarsiato di sonorita plebee;

ora limpido e nervoso, denso di spunti maligni e mordaci; ora delicato e sobrio, venato di acume e di finezza psicologica;

ora infine intonato a solenne e tragica eloquenza. I motivi formali derivati dalla tradizione colta e quelli ripresi dalla letteratura popolare ovvero dal parlar comune, mentre di volta

in volta si adeguano alla varieta delle situazioni psicologiche e delle vicende drammatiche,

;

trovano poi la loro superiore

unita nel tono sempre serio decoroso distaccato della narrazione. Anche l’eloquenza che qua e 1a disturba il lettore moderno, con quei lunghi discorsi sapientemente costruiti che foriscon talora sulla bocca di certi personaggi del Decameron, non é quasi mai dettata da un mero proposito retorico o da pedantesca imitazione classicheggiante, e risponde piuttosto al fondamentale spirito realistico dello scrittore, che si propone sempre di adeguare il linguaggio alla condizione sociale de- | gli uomini da lui introdotti in scena, e come lo fa sonare rapido schietto e colorito nei discorsi dei popolani e della gente del contado, cosi da intonazione solenne e adorna alle arrin-

ghe degli spiriti colti e cortesi. Quanto alla struttura pil o meno composita ritmica e modulata del periodo narrativo boccaccesco, come non vuol esser riferita ad un tipo unico, cosi

bisogna guardarsi dal giudicarla retorica ragguagliandola alle forme del linguaggio comune: invero essa fa tutt’uno con la poesia del Boccaccio; é la sola forma possibile di quel mondo poetico fiorito in un clima di cultura raffinata; né si potrebbe spogliarla delle sue studiate cadenze, dei suoi parallelismi

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LA PSICOLOGIA DEL BOCCACCIO

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di concetti ¢ di parole, e ridurla 4 un movimento piano e prosaico, senza toglierle al tempo stesso tutta la sua musica, e cioé ridurla, di viva e calda che essa era, morta ed opaca. Il Decameron non é dunque una specie di divertimento ci-

nico e lascivo come molti se lo immaginano, bensi una grande opera di poesia, seriamente intonata, ricca di elementi vari, anche tragici, elegiaci patetici, e dovunque composta in un tono meditato, grave, quasi severo. Alla multiforme e complessa psicologia umana il Boccaccio s’accosta non, s’intende,

con l’animo del riformatore che si sforzi di guidare correggere indirizzare il costume alla luce di un suo ideale trascendente, bensi con l’animo diverso, ma non perciO meno serio,

del moralista che si contenta di osservare e d’indagare le ragioni degli attt e di rintracciare 1 rapporti fra l’uomo singolo e l’atmosfera etica e sociale che lo circonda, e tutta la vita accetta nelle sue infinite gradazioni, pronto ad ammirare il sublime della viritt come a descrivere con bonaria indul-

genza la grettezza e l’egoismo dei molti. E il suo atteggiamento rimane, nel rappresentare gli aspetti pid nobili e i piu bassi dell’esistenza, sempre il medesimo, di uomo colto ed esperto, che nel fango non s’avvilisce, pur compiacendosi d’os-

servarlo dall’alto, e innanzi al sublime e al tragico non si esalta né si smarrisce, bensi ritrova la sua liberta in un moto d’ironia sorridente ed arguta. Né in questa sua indulgenza e in questo suo spirito cosi attaccato al reale e al concreto é da lamentare, come s’é pur fatto da molti e specie in passato, il

principio di una decadenza grave del costume italiano; quanto piuttosto da mettere in rilievo la positiva moralita che nella poesia boccaccesca é riassorbita e sottintesa: e cioé l’accetta-

zione tranquilla della realta; la convinta affermazione degli istinti negati o repressi dall’ascetismo medievale; l’esaltazione commossa del nobile intelletto e dell’ideale cavalleresco, sia pure inteso il primo in tutta la varieta delle sue forme non sempre edificanti, e rappresentato il secondo per lo pit nei suoi aspetti meno intimi, pth appariscenti e fastosi.

%

4. Il Boccaccio erudito e umanista. — L'ultima opera di _ fantasia ¢ d’arte del certaldese @ il Corbaccio, scritto, pare, fra il

'54 ¢ il 55%). E una satira contro una vedova, che s’era fatta beffe dell’amore di lui, per la sua etd ormai matura e la sua origine plebea; e insieme un’invettiva contro i difetti e le finzioni di tutte le donne. E un libro amaro, dettato da un chiuso risentimento, e

percid lontano dall’atmosfera serena della poesia. Il realismo del Boccaccio é posto qui al servizio d’un’ispirazione turbata ed astiosa,

polemica ed esasperata, che si traduce in lunghe pagine di declamazione retorica e di enfasi moralizzante e declamatoria. Rimane vivo,

in alcune pagine descrittive, lo~strumento sapiente dell’arte, quasi si direbbe aguzzato raffinato e fatto pii mordente dal malvolere. Ma Vimportanza del libro € piuttosto nel disdegno dell’umanista,

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che, offeso, si rinchiude in sé stesso € ritrova, fra i suoi libri e nel culto della poesia, un ideale piu alto di vita, una moralita pit ri-

stretta ma pit austera. Le pagine, nelle quali lo scrittore proclama la sua consapevolezza della vanita di tutte le passioni e il suo proposito di dedicarsi d’or innanzi agli studi e alle letture solitarie, segnano il netto distacco fra due periodi ben distinti della vita e dell’attivita letteraria del Boccaccio.

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Gi scritti dell’ultimo ventennio stanno a testimoniare, non pit le doti artistiche del certaldese, ma la sua cultura e la sua erudizione. © L’umanesimo del Boccaccio é meno coerente, ma anche meno intran-

sigente di quello del Petrarca; meno ricco di elementi precorritori, ¢ percid meno importante storicamente, ma anche pit libero e vario © nelle sue simpatie, pit disposto, per esempio, ad accogliere il recente

retaggio delle letterature romanze, subordinate ma non avvilite al paragone dei venerati modelli classici. La larga curiosita intellettuale del certaldese si rivela anche nel suo costante interesse per la letteratura ellenica: nel 1360 egli riusci ad attirare a Firenze il calabrese Leonzio Pilato, uomo

di scarsa cultura ma abbastanza esperto della

lingua greca: s’adoperd a farlo accogliere tra i maestri dello Studio fiorentino, e poté avere da lui una versione dei poemi omerici, se non perfetta, anzi neppure discreta, sufficiente tuttavia per 1 tempi e

destinata a servire per pit decenni ancora all’utilita degli studiosi. Con l’aiuto di Leonzio il Boccaccio poté giungere anche a una certa conoscenza e familiarita dell’Iliade e dell’Odissea nel loro testo, come

*) Incerto il significato del titolo: forse da corbo, corvo, uccello di malaugurio.

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:

| provan le citazioni greche contenute nei libri delle Genealogie; e di | questo suo sapere manifesta un legittimo e commovente orgoglio. - Delle opere latine del Boccaccio, poca importanza hanno le Epi-

stole, le egloghe (Bucolicum carmen), e alcuni altri scritti minori in prosa e in versi. Pit degni di nota sono i nove libri De casibus virorum illustrium, taccolta di aneddoti storici inquadrati in un vasto schema epico-drammatico, e intesi a illustrare, con evidente scopo mo-

rale, la storia di grandi personaggi, da Adamo ai contemporanéi, i quali, dopo esser stati singolarmente favoriti dalla fortuna, furon precipitati per la loro follia e il loro orgoglio in un abisso di miseria. A un intento di storia divulgativa, in forma piacevole e talora arguta, _e senza sfoggio (se pur non senza sostanza) d’erudizione, risponde il trattato De claris mulieribus, che comprende centoquattro biografie di donne famose da Eva alla regina Giovanna di Napoli. A fornir aiuto ai lettori dell’antica poesia é rivolto il trattatello De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, e de nominibus maris, dove il Boccaccio menziona e illustra per ordine alfa-

betico, ma in separate sezioni, tutti i nomi geografici, che s’incontrano nelle opere letterarie storiche e filosofiche dell’eta classica. Repertori di materia poetica, scritti a servizio dei letterati e degli amatori della poesia antica, questi trattati latini del Boccaccio sono un’altra faccia di quello «studium almae poesis », di cui parla l'epitafio inciso sulla tomba del poeta, e che ha il suo culmine nelle

appassionate e vivacissime difese della poesia contenute nella Vita di Dante e nel penultimo libro delle Genealogie.

I quindici libri De genealogiis deorum gentilium sono la pit vasta e la pit importante tra le opere erudite del Boccaccio, scritta fra

il 50 e il ’60, ma riveduta e arricchita negli anni pit tardi. In essa lo scrittore raccoglie, classificandolo con ordine e con metodo, il vastissimo materiale delle favole classiche, e ne offre, secondo il costume

del medioevo, l’interpretazione storica o allegorica o morale. Questo immenso corps mitologico appare oggi del tutto antiquato e superato dai progressi della moderna filologia; ma per parecchi secoli esso

offri un sussidio prezioso agli studiosi della poesia e dell’arte antica. E qui é l’importanza delle Genealogie nella storia della cultura italiana alla fine del medioevo e al principio del rinascimento; ma l'interesse maggiore per noi moderni é piuttosto negli ultimi due libri, che svolgono, il primo, una difesa della poesia contro le vario-

pinte schiere dei suoi detrattori, e il secondo, un’apologia dello scrittore stesso, dettata con spirito di umile e ben giustificato orgoglio ¢

in tono vivacemente polemico. Non novita di concetti, né originalita di speculazione filosofica, si invece fervore- di fede e calda elo-

quenza, generata da robusta convinzione, voglion esser ricercati nelle pagine che svolgono la dottrina estetica del Boccaccio. La quale si riattacca nella sostanza alla concezione allegorica del medioevo ¢ alla teoria altrettanto medievale dell’arte. Poesia é un certo fervore d’immaginate e di esprimer le cose immaginate in modo alto e squisito. Nell’espressione esteriore é arte, sapienza retorica; nella sostanza € verita filosofica che si nasconde sotto un velo di favole leggiadre: e in cid s’assomiglia alla sacra scrittura, la quale é anch’essa « poetica finzione », nel suo stile immaginoso e nelle sue parabole, e anch’essa

ha un senso letterale per i semplici e un significato riposto e sublime per i dotti. Il Boccaccio riprende in parte queste idee dal Petrarca, e forse da Giovanni del Virgilio e dél Mussato, ma Je svolge in maniera nuova e le raccoglie in un corpus sistematico: e da esse prende -lo spunto a pagine polemiche, ora argute ora sdegnose, contro i multiformi avversari della poesia, dai giuristi che la disprezzano perché | non arreca lucro ai religiosi ipocriti che trattano i poeti di spacciatori di favole e nemici della fede. Notevole é, in queste pagine, il tono di entusiasmo appassionato, e il senso vivo, se non la consapevolezza, della poesia, intesa come fonte di progresso e di elevazione degli animi, voce antichissima ¢ sempre nuova della umana civilta.

5. I! Boccaccio dantista, — ratura

classica,

il culto

Accanto all’amore della lette-

pit vicino e familiare

di Dante

occupd

larga parte dell’operosa vecchiaia del Boccaccio. Stanno ad attestarlo le copie autografe della Vita nova e della Commedia, gli Argomenti in terza rima e le Rubriche in prosa, e soprattutto il Trattatello in

laude di Dante e il Comento. Quest’ultimo s’arresta al principio del XVII canto dell’Inferno, ed € opera prolissa e diseguale, dove accanto

a pagine vivaci ed eloquenti se ne trovano altre di carattere scolastico e pedantesco: ma forse l’opera, cosi com’é giunta a noi, é da ritenetsi un rimaneggiamento messo insieme, non sappiamo da chi,

con l’aiuto, oltre che degli appunti genuini del certaldese, di pagin tradotte dal Boccaccio latino ovvero attinte ai commentatori ielld fine del Trecento. ; Assai pit interessante é il Trattatello, giunto a noi in tre reda-

zioni: una pil ampia, e due altre pit: brevi e compendiose e proba- : bilmente pit tarde (come mostra lo stile pit meditato e sobrio e la: maggior diligenza della stesura). L’operetta non é propriamente una narrazione minuta della vita di Dante: delle vicende biografiche rifetisce quel tanto che giova a metter in rilievo le qualita del carattere: risentito

e magnanimo

del poeta, i suoi vasti studi, la sua aristocra--

tica dottrina. Essa é piuttosto una biografia spirituale dell’ Alighieri; ;

in quanto questi vi ¢ assunto come immagine esemplare del poeta, é un elogio della poesia, una nuova affermazione dei concetti estetici del Boccaccio, un’ulteriore apologia della rinnovata cultura, quale il ‘certaldese l’intendeva, capace di accogliere in una superiore concor-

dia gli ammaestramenti delle letterature classiche e le recenti esperienze dell’arte dotta in volgare. In Dante il Boccaccio ha saputo sentire, non tanto con la sottigliezza del critico quanto per naturale afh_ nita di atteggiamento, una profonda esigenza umanistica, e questa ha posto particolarmente in luce, in conformita con l’ideale di cultura edi poesia da lui stesso professato. Questo spiega perché il Boccaccio insista sui lunghi e tenaci studi dedicati da Dante agli scrittori latini, e sul suo proposito di « imitarli.... altamente cantando »; e perché inserisca nel testo una digressione sulla poesia e sui rapporti di essa con la teologia, da riaccostarsi, per il contenuto dottrinale e per l’eloquenza convinta, alle pagine del XIV delle Genealogie. Ma questo spiega anche perché egli senta il dovere di biasimare in Dante «lanimosita » dello spirito politico e partigiano; e perché si proponga il quesito « perché la Commedia sia stata scritta in volgare », e lo risolva non gia, s’intende, con un’'esplicita affermazione della dignita della nuova lingua, bensi con argomenti che han tutto il tono e la sostanza di una scusa. Come nell’entusiasmo per i motivi preumanistici di Dante, cosi in queste sue incertezze e limitazioni, il Boccaccio inaugura, ma con una simpatia pil schietta franca e cordiale.

l'atteggiamento degli scrittori del Quattro e del Cinquecento di fronte alla poesia dantesca.

CapPIToLo V.

SCRITTORI MINORI DEL TRECENTO 1. I rimatori aulici. — La lirica d’arte del Trecento é¢, 2 non © tener conto del Petrarca, assai povera di valori schiettamente poe- © tici. Essa appartiene, non tanto alla storia della poesia propriamente detta, quanto piuttosto a quella della letteratura, come riproduttrice e conservatrice di forme e di schemi, che, attraverso essa, si traman-

dano all’imitazione dei secoli seguenti. Sopravvive ancora, se pur estenuata e come svuotata della sua sostanza piu intima, la gentile maniera degli stilnovisti, la quale sul finire del secolo trova un ultimo interprete nel garbato ingegno del fiorentino Cino RINUCCINI (m. nel 1417). E vivo ancora l’influsso di Dante, del Dante delle rime pietrose e delle rime dell’esilio, e intanto sorge, ad esso intimamente ~

legato e pur cosi diverso, il grande modello della lirica psicologica del Petrarca. Di un vero e proprio petrarchismo é possibile parlare —

soltanto negli ultimi anni del secolo; ma spunti movenze atteggiamenti che si richiamano pit o meno esplicitamente all’esempio del grande aretino s'incontrano frequenti in tutti i rimatori del Trecento,

e fra gli altri nel Boccaccio. Dal Petrarca e insieme da Dante dipende anche FAzIo DEGLI UBERTI, l’autore del Dittamondo, nelle cui rime politiche, e pit in quelle amorose, trovi un calore e un’immediatezza,

di accenti, un linguaggio tenero e appassionato, che lo segnalano fra i verseggiatori del secolo come uno dei pochissimi per cui il rimare non sia un semplice trastullo, ma un’intima necessita. Negli ultimi decenni del Trecento, l’arte dei rimatori si vien sem-

pre pil riducendo all’ombra dell’influsso petrarchesco e si fa pertanto meno originale e vivace, meno varia e ricca di motivi discordi; senza dire che all’artificio dell’imitazione del Petrarca, per lo pit pe-

dissequa e affatto esteriore, s’aggiunge e si mescola quello, derivante dal gusto erudito e umanistico, delle metafore lambiccate, dei richiami

mitologici, e dello stile latineggiante. Si preparan cosi certe mode artistiche del secolo seguente: l’eleganza fredda d’un Giusto de’ Conti ¢ le stranezze d'un Tebaldeo e di un Serafino Aquilano.

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E l’epoca dei rimatori di corte: letterati di professione, che la

loro povera vena e la varia e disordinata cultura mettono a servizio dei nuovi signori, specie dell’Italia settentrionale, dove li trascina il bisogno e l'indole errabonda. Secondo il mutevole capriccio dei tiranni, ota sollevati ad onorevoli uffici, ora respinti nell’umiliazione e

nella miseria e degradati a buffoni e giullari, conducono un’esistenza _ tandagia e servile, in un’atmosfera sempre incerta e sospesa, tra insidie intrighi e pettegolezzi, sfiorando, quasi inconsapevoli e con mente da schiavi, i grandi e piccoli eventi della-storia. Le loro rime politiche, pur riecheggiando i modi della lirica civile petrarchesca, mon escono da un misero proposito di adulazione; quelle amorose sen

quasi sempre fredde e impersonali. Pit sincere le poesie di confessione,in cui si rispecchiano i disordini e i turbamenti, i pentimenti

ela disperazione di una vita irrequieta e scapigliata, travolta dai vizi e dalle passioni. In queste poesie, che per molti riguardi si rifanno alla maniera dell’Angiolieri e degli altri rimatori borghesi, si alternano le note di dolorosa intimita con quelle pit artificiose ed enfatiche: son tipiche, ad esempio, le canzoni disperate, lunghe setie di maledizioni e di bestemmie che il poeta lancia contro se stesso, la

sua famiglia, la sua patria, la sua intelligenza, il suo destino. Ricorderemo,

fra questi rimatori di corte, almeno ANTONIO

DA

FERRARA (1315-70), il padovano FRANCESCO DI VANNOZZO e il senese SIMONE

SERDINI, morto suicida intorno al 1420. Oltre tutto,

essi hanno una cefta importanza anche come rappresentanti di un aspetto della vita intellettuale della Lombardia in quegli anni. L’alta Italia é, nel Trecento, un crogiuolo di varia complessa farraginosa cultura, meno armonica ma pit vasta forse di quella che tuttora do-

mina in Toscana, mista di motivi medievali e di spunti che precorrono il Rinascimento. A Padova, a Verona, a Milano, nel periodo di maggior splendore della signoria viscontea, s’incontrano, insieme con le folle dei giullari e dei morditori (di taluni dei quali i novellieri han serbata viva l’immagine, e i codici han conservato qualche componimento), i maestri e i grammatici e i notai delle cancellerie, che recan con sé i primi presentimenti dell’umanesimo; i filosofi averroisti, come Pietro d’Abano; gli arditi teorici della politica nuova, come

Marsilio da Padova. Intorno al Petrarca, che a lungo risiede nelle citta padane, s’intreccian vaste e spesso notevoli corrispondenze epi-

stolari. Vivi sono i rapporti con la cultura d’oltralpe: dalla Francia vengon le dottrine e gli esempi della lirica musicale, mentre continuano a diffondersi i codici di poesie francesi, e permane vivo il gusto delle leggende carolinge e brettoni; né meno intense, specie ai tempi di Carlo IV, son le relazioni con la cultura germanica. Io

questo multiforme e un po’ disordinato fiorire di vita intellettuale, anche i rimatori cortigiani hanno il loro posto e la loro funzione; ¢ — giovano, insieme con gli altri aspetti accennati, a illuminarci la preparazione dell’ambiente di cultura dove fiorira, nel secolo seguente,

la poesia del Boiardo.

2. La letteratura fiorentina e il Sacchetti. — Firenze, — pur perdendo la posizione predominante che aveva assunta alla fine del Duecento, rimane, anche nella seconda meta del

secolo XIV, un centro di cultura viva, meno aristocratica e taffinata, ma pil largamente diffusa negli strati borghesi e po- —

polari. Vi fiorisce una letteratura in prosa e in versi, che | nelle forme si richiama in parte ai modi dei rimatori realisti — del secolo precedente, e negli spiriti risponde ai gusti e alle convinzioni della societa cittadina, ne ritrae i modesti affetti,

la quieta moralita, le passioni politiche un po’ grette ma pur vigorose ed intense. E in molta parte una letteratura di confessioni, di aneddoti, di riflessioni e di ammonimenti, di pet-

tegolezzi anche, che trovera continuatori nel Quattrocento; e ha intanto il suo rappresentante pid notevole e pit fecondo nel campanaio e banditore del Comune, ANTONIO PuCCI (m. nel 1388). La sua opera assai vasta comprende sonetti auto-

biografici e aneddotici, satirici e politici; serventesi e cantari che ritraggono con immediatezza e fervore d’ informazione giornalistica la cronaca varia della citta in quegli anni (guerre, epidemie, inondazioni); il Centiloquio, trascrizione in terza rima delle cronache del Villani; poemetti in ottave (Gismirante, Bruto di Bretagna, Madonna Lionessa, ecc.), composti

per esser recitati in piazza, mescolando e rimaneggiando la materia delle fiabe e leggende popolari. Molta parte di que; sta produzione risponde a scopi pratici e didattici, oppure non

va oltre il documento grezzo, biografico e di costume. Ma era. pur nel Pucci una vena ingenua e fresca di poesia e una certa. attitudine a risentire e riprodurre i semplici affetti del popolo)

in mezzo al quale e per il quale scriveva; un gusto spontaneo)

e popolaresco dei bei gesti arditi, degli atteggiamenti fieri e: spavaldi, delle liete avventure

amorose

e cavalleresche, che:

ravviva a tratti il fluire abbondante delle facili e rozze ottave: dei suoi cantari.

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__Un altro aspetto di questa letteratura fiorentina, pid elegante ma anche meno spontaneo eschietto, é costituito dalla poesia per musica,

e si ricollega al rinnovamento dell’arte musicale, che ebbe luogo allora in Francia e in Italia e trovd proprio in Firenze uno dei suoi centri pii importanti. Poesia e musica vi si congiungono in una maniera di grazia idillica raffinata e in uno spirito di ricerche tecni_ che, che preparano via-via e in parte preludono i ptossimi sviluppi

della litica musicale del Quattrocento. Il tono del canto é sempre gaio e leggero, aggraziato e mondano. Le forme pit frequenti sono: la ballata, costituita di una o pit strofe, precedute e seguite da un titornello 9 ripresa; il madrigale, breve componimento in endecasil_ labi, descrittivo 0 paesistico oppure maliziosamente sensuale; e la

caccia, libero seguito di versi di varia e non regolata misura, ispirati al soggetto che il nome designa, ovvero a una qualsiasi rappresentazione fortemente realistica. Poesie per musica scrissero non di rado i musicisti stessi, fra i quali primeggid il cieco FRANCESCO LANDINI; _ he composero

anche poeti illustri, come il Petrarca e il Boccaccio.

Son notevoli le ballate e i madrigali di NiccoLO SoLDANIERI e di ALESSIO DONATI. . A questo genere di poesia si riaccostano le ballate, che son forse la cosa piu saporita e leggiadra del Pecorone di SER GIOVANNI FioRENTINO: raccolta di novelle, legate in una cornice di tipo boccaccesco, ma assai lontane dalla densita e dalla profondita artistica del Boccaccio, sebbetie non prive di una loro scorrevole grazia narrativa.

Le poesie per musica e le novelle costituiscono la parte migliore anche dell’opera di FRANCO SACCHETTI, nato, di no-

bile famiglia fiorentina,

a Ragusa intorno al 1330, morto

forse nel 1400. Prima come mercante, poi come podesta, ebbe

occasione di viaggiare assai e di formarsi una ricca e varia esperienza; e neppure gli manco una certa cultura, per quanto

frammentaria e disordinata, da autodidatta. Buon cittadino, spesso onorato di incarichi pubblici, spirito serio, riflessivo e sinceramente religioso, la poesia non é€ per lui qualcosa

di

predominante e di essenziale: € piuttosto una lieve e gar-

bata eftusione d’affetti in tono minore, un sorriso che fiorisce ai margini di una esistenza onesta ¢€ solerte. La si in-

contra, variamente atteggiata, negli « amorosi versi » delle canzonette e nel libro delle novelle. Alcune delle poesie per

musica — per esempio certi madrigali di felicissima evidenza 9. —

SApEGNO,

Disegno

stor.

della

lett.

it.

descrittiva, la ballata « O vaghe montanine », la caccia « Passando con pensier » — son tra le cose pit leggiadre e festevoli della lirica minore del Trecento. Quanto alle novelle, neppur qui é il caso di cercare, come nel Boccaccio, densita

drammatica e sottile penetrazione psicologica. Il Sacchetti le compose alla spicciolata negli ultimi anni della sua vita,

senza propositi d’arte dotta, da «uomo discolo e grosso », né le raccolse in un quadro architettonico. Delle trecento che

egli scrisse ne rimangono

duecentoventitré,

di cui alcune

frammentarie. Sono aneddoti, beffe, risposte argute, casi: di rado attinti dai libri, quasi tutti dalla tradizione 0, pil spesso, dall’osservazione diretta della realta. Le sioni che le precedono o le concludono sono un’altra

strani orale riflestesti-

monianza della serieta morale e della religiosita dello scrittore. Ma il loro fascino artistico é nella colorita e vivace

descrizione degli ambienti e delle figure. Della vita umana il Sacchetti vede, non |’intima sostanza, bensi l’esteriorita appa-

riscente: la varieta inesauribile dei cefh, dei gesti, degli atteggiamenti,

delle smorfie

e dei costumi,

la quale, a chi la

guarda con spirito piuttosto curioso che appassionato, offre distrazione e sollievo dalle pene quotidiane e fuggevole godimento. I personaggi ch’egli mette in scena — quando non incarnano il buon senso pratico e l’arguta saggezza del novellatore —

sono, non creature contemplate dall’interno, ma

caricature e macchiette ritratte con disegno incisivo e brioso. Le situazioni (magnifiche, e famose, le descrizioni di tumulti e di tafferugli) son viste sempre con quella prontezza e evidenza d’osservazione, che tien conto dell’essenziale, pur non

trascurando i dettagli pid saporiti. Le storie sono aneddoti dalla trama semplice e senza pretese: quasi scherzi, non mai

tuttavia grossolani (neppure quando il comico vi acquista un tilievo un po’ violento ed ardito) e talora anche — e sono i pit belli — animati da un sorriso arguto e sottile. 3. Versi

e

prose

popolari.

pubblicistica, epico-romanzesca



La produzione gnomica,

del Pucci, testé esaminata,

si ricon-

nette per gli argomenti e nelle forme ad altrettanti motivi largamente trattati nella letteratura popolare in prosa e in versi del Trecento.

Letteratura di solito, e non poesia; ché ad esser tale le manca quasi

sempre una pit raccolta e meditata intensita di commozione, anche

quando non sia ristretta e soffocata dai propositi didattici e polemici. Prosegue per tutto il secolo la rielaborazione e il rimaneggiamento della materia carolingia e brettone. Del Trecento sono anzi le piu numerose compilazioni in prosa e in versi italiani e i pid importanti esemplari della letteratura franco-veneta.

In Italia la materia epica,

assecondando il gusto del popolo che accorre in folla ad ascoltar nelle Piazze la recitazione dei cantastorie, tende a‘diventare argomento di romanzo piuttosto che di poema: calata in un tono di maggior naturalezza e di pil modesta umanita; investita dallo scherzo e talora

persino dall’ironia; trasformata non di rado in strumento di spasso e di mero

divertimento,

anziché esser penetrata e sentita nella sua

solenne sostanza. Il gusto dei generosi ardimenti, delle avventure fantastiche e fiabesche, dei lieti amori ravviva a tratti anche i molti cantari di materia leggendaria, di cui alcuni (come, oltre quelli del Pucci gia ricordati, il Bel Gherardino, la Pulzella gaia, la Donna del Vergiz, il Liombruno, ecc.) contengono efficaci spunti poetici, se pur piuttosto ab-

bozzati e suggeriti che realizzati. Ai poemetti di argomento romanzesco si rassomigliano negli spiriti e nel tono le compilazioni, in prosa e in versi, di materia classica:

i Fatt? di Cesare e di Alessandro, \e Storie troiane e tebane.

Gli eroi vi compaiono in atteggiamenti e con linguaggio non dissimili da quelli dei cavalieri erranti e dei paladini (anche se pet avventura il compilatore attinga direttamente alle fonti latine, anziché ai rifacimenti francesi); non diversamente avventurosa e romanzesca é l’indole dei racconti, né meno ingenua e popolaresca l’intonazione dello scrittore. La pia bella di queste compilazioni é il Fiore d'Italia, composto dal frate carmelitano GuiDo DA PISA nella prima meta del secolo XIV, di cui ci restano due libri soltanto, dei quali il primo tratta delle eta favolose d'Italia, delle vicende del

popolo ebraico e dei miti greci fino alla distruzione di Troia; c il secondo compendia, e qua e 1a letteralmente traduce, la materia del-

l’Eneide virgiliana, con un tono poetico nuovo e diverso, pia modesto e pit: povero, ma anch’esso non privo di una sua grazia ingenua e puerile.

4. Letteratura devota. — Alla letteratura popolare si ricongiunge, nella ingenuita del contenuto e nella semplicita

delle forme, la letteratura religiosa, che fiori abbondantissima per tutto il Trecento, con le prediche, i trattati, le lettere devote, le opere agiografiche, le laude e le sacre rappresenta-

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> ' zioni. per altro, e non propriamente poesia, come Letteratura

quella che nasce, non da un fermento individuale, ma si ri-

volge a un’aspirazione sociale e collettiva; non esprime ed illumina liricamente un’esperienza intima, bensi é tutta do-

minata da un fine pratico, sia pur variamente atteggiato: ora a sostegno di una causa di dottrina o di vita morale, ora a edificazione e ad ammaestramento delle anime in una

direzione determinata, ora a sfogo immediato delle angoscie e delle gioie che la fede suscita e promuove in un gruppo pit o men vasto di credenti. Pid interessante della letteratura in versi, che non ha al-

cuna figura di poeta paragonabile, per singolarita d’atteggiamento e per I’aristocratica solitudine degli affetti, a quella di un Jacopone da Todi *), € la prosa religiosa del Trecento: quella prosa che, per |’ influsso dei puristi del secolo XIX, si é un po tutti abituati a considerare in blocco, secondo uno schema uniforme, come un modello di semplicita e di pu-

rezza linguistica, di freschezza e di candore; ma che in realta Si presenta, nei diversi scrittori, con aspetti e caratteristiche spesso alquanto diverse. I] pit artisticamente dotato di questi scrittori religiosi del Trecento é forse JAcCopo PASSAVANTI, frate domenicano, let-

tore di teologia e predicatore famoso, morto nel 1357 a Firenze, dove era nato, pare, intorno al 1302. Del suo Specchio di vera penitenza, in cui il Passavanti raccolse la materia delle prediche da lui tenute nella quaresima del 1354, son rimaste famose soprattutto le parti narrative, o « esempi »», che l’au-

tore inserisce nella trama del suo discorso a guisa di commento e di dimostrazione.

La narrazione procede di solito

rapida e densa, drammatica e travolgente, ricca di umanita e tutta soffusa di poesia. Ma sul poeta e sull’artista prevale, nel Passavanti, il predicatore, che non vuole mai abbando-

narsi del tutto al fascino degli elementi fantastici, e l’arte sua sapientemente adopera come uno strumento di persua*) Tra gli autori di laude, merita ricordo tuttavia il BIANCO DA SIENA. E son notevoli le narrazioni in ottava rima, commoventi e colorite, della Fanciullezza ¢ della Passione di Gest.



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_ sione ¢ uno stimolo al timor di Dio e all a penitenza. Il che non deve esser ripreso in lui come difetto d’arte, bens} accettato come un limite imposto dalla necessita dell’assunto, che é morale e non poetico.

Se il Passavanti é, non senza luci di poesia, il pit attento artista fra questi scrittori religiosi, l’anonimo autore dei Fio-

retti invece é, senza arte, il pil naturalmente e ingenuamente poeta, I Fioretti di San Francesco sono una raccolta di leg_ gende tradotte da un testo latino della fine del secolo XII; come forte storica hanno scarsissima importanza; ma, se non ci dicon nulla di sicuro sulla vita del santo, e sul signi- °

ficato della sua opera, ci danno invece, meglio di ogni altra fonte, il senso di quel che San Francesco rappresento nella fantasia dei contemporanei e delle generazioni immediatamente posteriori. Come quelli dello Specchio di vera penitenza, anche questi dei Fyoretti non son racconti veramente ma « esemi»: & assente in essi l’umanita intesa come dramma e conEe, ascensione e progresso. Anzi, mentre quelli del Passavanti si aggirano di solito sull’umana materia del peccato, con

il tormento e la disperazione e il rimorso che l’accompagnano, pur assurgenda da quella al proposito sempre presente d’ammaestrare e indurre alla riflessione e al pentimento; le narrazioni francescane invece ci trasportano senz’altro in un am-

biente di perfezione e di santita, dove ogni urto con la realta dura ed amara é gia soppresso, dove la lotta con gli istinti per comprimerli e indirizzarli al bene é gia superata, e gli atti e 1 pensieri si svolgono ormai in una luce sempre uguale e troppo ferma. I personaggi dei Fioretti appartengono ad un mondo diverso dal nostro, pit alto e perennemente sereno. Donde

il sapore di fiaba luminosa e gentile che hanno le pagine piu

belle del libretto: la predica di San Francesco agli uccelli; la storia del lupo di Gubbio; le pagine sulla « perfetta letizia »

e sul « tesoro della santa poverta »; il discorso di Sant’ Antonio

ai pesci; V'incontro di frate Egidio con San Luigi re di

Francia.

Privo del vigore drammatico e delle robuste qualita espressive del Passavanti, cosi come della delicata leggiadria dell’autore dei Fioretti,

@ DomMBENICO CAVALCA, domenicano,

delle Vite dei Santi Padri e di altri testi latini, e autore di molte e varie compilazioni morali. Quel tanto di poesia che accade di ritrovare qua e 1a, nelle vite dei santi e nelle parti

narrative dei trattati morali, consiste tutto in un vago sapore — di fiaba, che da quei racconti nasce, non tanto perché il Cavalca si compiaccia, come altri, del meraviglioso e del fanta-—

stico; quanto perché nello specchio ingenuo della sua mente, — i fatti anche pid semplici si riflettono talora in una luce re- _ mota, pittoresca e irreale. Il suo stile ha la freschezza delle cose spontanee e popolari, ma anche la stessa assenza di colori e di rilievo, quasi sempre: é@ uno stile limpido, uguale,

pacato, che ben risponde all’indole assennata e alla sobria commozione dello scrittore. Affini alle vite del Cavalca sono le numerosissime leggende spirituali anonime, quasi tutte tradotte pi o meno libera-

mente da originali latini: storie di santi o narrazioni di portenti, assai simili fra di loro e in genere povere di calore drammatico e di penetrazione psicologica: l’ingenua meraviglia, il gusto fanciullesco dei « miracoli » vi genera a tratti pagine che, nel linguaggio naturalmente limpido e¢ fresco, hanno la leggiadria di una fiaba ovvero la linea musicale delle tavole antiche gemmate di colori luminosi sullo sfondo raggiante d’oro; pil rari sono gli spunti umani e patetici, come

nella leggenda di Sant’Alessio, per lo pit soltanto abbozzati ¢ rapidamente ritratti con un’arte affatto inconsapevole. Pit vicina alla vita, pit umana — e sia pur d’una uma-' nita ancor torbida e grezza, documentaria e non poetica —

é la letteratura che si ricollega all’azione dei vari movimenti } mistici ed ascetici, ortodossi ed eterodossi, fioriti nella libera

e vivace atmosfera religiosa del secolo XIV. Sono scritti apologetici e polemici, pieni di appassionato fervore, come l’anonima Storia di fra Michele Minorita; ovvero di esortazione e di consiglio, di incitamento e di esaltazione ascetica, come le lettere del beato GIOVANNI COLOMBINI, fondatore dell’ordine dei Gesuati, e quelle di Santa Caterina.

L’epistolario e il Dialogo della Divina Provvidenza di CATERINA DA SIENA (1347-80) sono, prima e pit che un’opera

_ letteraria, il documento di una esperienza mistica e di una vita eroica. In essi si tispecchia il fascino di una potente ¢€

virile e battagliera personalita. Caterina si sente collocata in questa vita « come in un campo di battaglia », dove conviene

« combattere virilmente e non schifare 1 colpi né volgere il capo addietro; ma ragguardare il nostro capitano Cristo crocifisso »; metter da parte « le prudenze umane » e agire « sen_ za verun timore ». L’energia del suo linguaggio ha la radice in una visione mirabilmente

lucida e incrollabilmente certa

dei problemi religiosi e morali, che la santa atfronta senza esitazioni € senza rispetti umani e risolve con la sua logica semplice e diritta, incurante di sottigliezze e di cavilli e di ra-

gioni umane e politiche. Coi papi Gregorio XI e Urbano VI, di cui invoca il ritorno a Roma da Avignone, la santa senese tratta da pari a pari con risoluta schiettezza, richiamandoli ai

loro doveri di fronte alla Chiesa e all’umanita e ricordando loro l’obbligo di posporre gli interessi mondani ai fini ideali. Altrettanto libero e aperto é, nelle lettere e nel Dialogo, il

giudizio di Caterina sui vizi del clero e sulla necessita d'estirparli; giudizio che s’esprime con parole veementi di sdegno. La lingua varia, saporosa, tutta intrisa di colori vivacemente dialettali, ha l’immediatezza, ma anche |’abbondanza e l’in-

compiutezza del linguaggio. parlato; le immagini colpiscono non di rado

per la loro arditezza e novita:

ma non si tratta °

di quella novita, che é anche assoluta chiarezza e perfezione,

dell’ immagine poetica, si piuttosto di quella stranezza che € nelle metafore con le quali si voglia dar corpo e figura a pensieri e sentimenti troppo punto nelle lettere e nel care efficacia e vigore di vore di carita apostolica, talora con appassionata

elevati e inesprimibili. Senonché apDialogo di Caterina non si deve cerrappresentazione lirica, si invece ferespresso talora con eloquenza virile, tenerezza, pil di rado con accenti

semplici e pacati, nel loro genere sublimi: com’é ad esempio la lettera famosissima che descrive la morte sul patibolo di Niccolo di Tuldo, che la santa confortd nelle ore ultime ¢

ricondusse dalla disperazione alla serenita rassegnata e quasi alla letizia del sacrificio ¢ del martirio.

5. Le cronache. — Letterariamente anche le cronache appartengono alla letteratura popolare. Nel contenuto rispecchiano i caratteri essenziali della civilta del secolo XIV: quella mescolanza, che non é ancora discordia consapevole, di ele-

menti nuovi e di forme antiche; quell’insorgere di vivaci in-

teressi umani e mondani, pur racchiusi ancora in uno schema

trascendente e scolastico; e quel rigoglio di vita economica e partigiana, di passioni e di istinti profani, accanto ai quali per altro permangono, pressoché intatte, la salda fede religiosa, la mentalita teologica, la credenza nei miracoli, e ma-

gari le pid goffe superstizioni.

Il centro piu importante della letteratura storica trecentesca é Firenze, e fiorentini ne sono i due rappresentanti pit

insigni, il Compagni e il Villani. DINO CoMPAGNI, nato intorno al 1255, morto nel 1324, partecipo attivamente alle vicende politiche del comune, sfor-

zandosi di contrastare con tutte le sue energie la minacciosa e crescente potenza dei grandi e, pit tardi, l’attivita nefasta dei Neri e di Bonifacio VIII. Ritiratosi a vita privata, fra il 1310 e il '12 attese a comporre la Cronaca delie cose occorrenti ne’ tempi suoi. In essa il Compagni ci si presenta assai

diverso dagli altri cronisti anteriori e contemporanei. Non ‘tisale col suo racconto alle origini del mondo, bensi lo chiude nei confini di un periodo determinato che gli sta a cuore; bada piuttosto ai fatti che alle minuzie della cronologia; e da a tutta la sua storia un colorito non arido e freddo, e nep-

pure oggettivo, bensi drammatico e polemico. Agli avvenimenti ha preso parte egli stesso, e non piccola: e percid essi

assumono nelle sue pagine, senza artificio e quasi inconsapevolmente,

un tono di evidenza e di naturalezza non co-

mune. Spesso gli basta una parola ad esprimere, insieme con il fatto, il giudizio della sua coscienza morale: coscienza di cristiano e di cittadino, saldamente attaccato alle sue convin-

zioni religiose, e legato da fervido amore alla patria. Questo insorgere di un sentimento morale, profondo e magari un po’ rigido, offeso dalla pratica accorta e spregiudicata d'un mondo politico in via di assestamento, é l'impulso che pro-

_muove e ravviva tutto il libro: esso spiega lo stile rapido

_Spezzato nervoso, la vigoria densa e pittoresca del linguaggio,

la precisione lapidaria e l’acume psicologico delle rappresentazioni e dei ritratti; e da alla cronaca di Dino la sua intonazione severa dolorosa e solenne, facendone Vopera pit viva c — pia bella di tutta la storiografia medievale.

Cosa assai meno personale, pit legata agli schemi consueti, € nel complesso mediocre é la cronaca di GIOVANNI _ VILLANI (m. nel 1348), mercante e cittadino operoso, pit

volte insignito di importanti cariche pubbliche nel comune. L’opera é divisa in dodici libri: si apre col racconto della

torre di Babele; continua con una serie di leggende in cui i miti classici si mescolano bizzarramente con le tradizioni bi-

bliche; viene poi a narrare le origini favolose di Firenze; € acquista valore di documento storico prezioso solo negli ultimi sei libri, che raccolgono gli eventi della storia. contemporanea, dalla venuta in Italia di Carlo d’Angid fino all’epoca dell’autore, con speciale riguardo alle cose fiorentine. I] quadro dell’opera é antiquato, e medievale é pure per molta parte il metodo della compilazione; ma in quella vieta cornice penetra talvolta uno spirito nuovo, un presentimento di modernita, che fa tutt’uno coi vivaci interessi politici ed economici dell’ambiente fiorentino del secolo XIV. Letterariamente la

cronaca del Villani non regge al paragone di quella di Dino. Lo stile é schietto e semplicemente atteggiato, ma povero altresi e squallido, monotono e senza rilievo. Fuori di Firenze, fra le molte cronache locali quasi sem-

pte prive di significato letterario, meritan d’esser ricordate

almeno le anonime Storie pistoiesi, dal 1300 al 1348, dettate in uno stile sobrio e rapido, tutto cose, con movenze narra-

tive che ricordano Ja rozza potenza dell’epica popolare; e la

bella Vita di Cola di Rienzo, in dialetto romano, ricca di spunti drammatici che prendono rilievo dallo stile incisivo e gagliardo.

far at

co fe D

CapiToLto

VI.

L’UMANESIMO 1. Critica e filologia. — Il periodo che corre dalla morte del Boccaccio fin oltre la meta del secolo XV € uno dei pit squallidi della nostra storia letteraria. La grande

“S

poesia sembra essersi spenta per sempre in quegli anni, dopo la mirabile fioritura trecentesca: e non risorgera se non nell'ultimo quarantennio del Quattrocento, con il Magnifico e il Poliziano e il Pulci e il Boiardo e il Sannazaro. E tuttavia la prima meta del secolo XV non é certo un periodo di ristagno intellettuale: é piuttosto un momento di pausa e di_ riflessione; un’eta di appassionati studi critici e filologici; una

specie di affannoso ed inconsapevole ritorno alle origini — prime della nostra civilta, attraverso il quale tutta la concezione della vita e degli ideali umani si rinnova, e al tempo

stesso si opera una trasformazione della cultura e del gusto letterario, che si rivelera appieno alla fine del secolo negli spiritt e nelle forme della nuova poesia. In questo senso V'umanesimo, e cioé il ritorno alle grandi fonti della civilta classica, rappresenta il momento centrale e risolutivo di quel

grande e profondo rivolgimento della civilta italiana ed europea, cui si suol dare il nome di Rinascimento:

di quel con-

sapevole ripiegarsi dell’umanita su sé stessa a riconoscere le proprie energie istintive e le naturali tendenze, troppo a lungo costrette e umiliate. La stessa vivacissima e appassionata filo-

logia, in cui dapprima |’ umanesimo

si esprime e si mani-

festa, ha il suo presupposto e il suo intimo significato in una nuova filosofia: in quella concezione della vita pid libera e mondana, pit mobile e curiosa, che s’era venuta a poco a poco formando nei secoli precedenti. E per i migliori uma-

roe an

Theaio

ig

vs

CRITICI x FILOLOG 5mr:

nisti

i classici

diventano,

magari

inconsapevolmente,

non

tanto gli emblemi di un mondo passato, sia pure perfettis-

simo, quanto piuttosto i modelli di un’umanita schietta e viva,

dove la ragione opera ancora spoglia da artifici intellettualistict e gli affetti si manifestano non mottificati né repressi da leggi morali astratte ed inattuabili; di quell’umanita insomma

che, pur proiettandola simbolicamente nell’antichita,

_ essi tendevano ad attuare nel presente e tramandavano ai secoli venturi. L’umanesimo aveva gia trovato le sue forme essenziali e per cosi dire tipiche nel Petrarca. Gia in lui l’adesione ai classici non era mai stata meta imitazione formale, né povero

interesse filologico ed erudito, si piuttosto ansiosa ricerca di una pil intima e ricca conoscenza della propria personalita ritrovata e meglio posseduta attraverso le espressioni. perfette, e entro certi limiti definitive, del pensiero e della poesia an-

tica. Tale rimane l’umanesimo nei migliori discepoli del Petrarca; e cosi dev’esser inteso nel suo impulso e nella sua

tendenza

pit profonda;

anche se in un primo tempo, nel

Quattrocento, questo suo intimo significato risulti meno appariscente e gli aspetti pil esterni e filologici abbiano un rilievo predominante e quasi esclusivo. Discepolo diretto del grande aretino fu, alla soglia del secolo, CoLuccio SALUTATI (1331-1406), di Stignano in Val di Nievole, cancelliere della Signoria fiorentina, scopritore fortunato delle lettere familiari di Cicerone, autore egli stesso di numerosi trattati e di un abbondante epistolario, col quale contribui largamente alla diffusione e al nuovo orientamento degli studi letterari. Col Salutati ha inizio il movimento umanistico fiorentino, proseguito da LEONARDO BRUNI d’Arezzo (1374-1444), anche lui cancelliere del comune, dettatore di epistole e di trattati filosofici, traduttore dal greco, e autore di una Historia florentina, dove le figure, gli eventi, i discorsi sono travestiti classicamente sulle orme di Livio e di Cicerone; e da PoGcio BRACCIOLINI di Terranova nel Valdarno (1380-1459), scrittore pontificio e poi, dal ’53, cancelliere della Signoria fiorentina, spirito fine

ed arguto quale si rivela nelle sue lettere e nei vivaci dialoghi filosofici, e scopritore

fortunatissimo

di opere

antiche

durante

i suoi

viaggi in Francia e in Germania, donde riporté alla luce fra Valtro le Istituzioni di Quintiliano, le Selve di Stazio, le Puniche di Silio

Italico,ilDe rerum natura di Lucrezio¢otto orazioni di

Cicerone.

Pressapoco contemporanei delle scoperte di Poggio sono anche il ritrovamento del Brutus ciceroniano, e quello di dodici nuove commedie di Plauto. E intanto, mentre il movimento umanistico si diffonde per tutte le parti d’Italia, e incomincia a propagarsi anche — oltr’alpe (per esempio in Germania ¢ in Ungheria per merito di

PrER PAOLO VERGERIO da Capodistria, diventato segretario e oratore politico dell’imperatore Sigismondo), prendono sempre maggiore svi- — luppo e a poco a poco diventano parte integrante della nuova cultura gli studi greci: gid nel 1397 per le sollecitazioni del Salutati — veniva chiamato a insegnare il greco nello Studio di Firenze MaNUELE CrisoLora; nel 1424 GiovANNI AuRIsPA di Noto (13761459) tornava da Costantinopoli con 238 volumi, fra cui le opere . di Aristofane, di Eschilo, di Sofocle, di Demostene e di Senofonte;

¢ in occasione del concilio tenuto a Ferrara e a Firenze per ricongiungere la chiesa greca alla latina (1438-39) vennero in Italia e vi dimorarono poi stabilmente il cardinale BEssaRIoNE di Trebisonda (1403-1472), la cui biblioteca di manoscritti ellenici, da lui lasciata alla morte alla repubblica di Venezia, diventé il nocciolo della Mar-

ciana, e GiorGiIo GEMISTO di Mistra (1355-1450) grande ammiratore di Platone e sostenitore della superiorita della filosofia platonica su quella aristotelica. Infine, dopo che Costantinopoli fu caduta in

mano dei Turchi (1453), molti altri maestri greci emigrarono nella nostra penisola, fra i quali GIOVANNI ARGIROPULO, lettore di greco e di filosofia negli studi di Firenze e di Roma, e traduttore di Aristotele, DEMETRIO CALCONDILA che insegnd a Firenze e a Milano e curd la prima stampa di Omero, e CosTANTINO Lascaris, professore a Napoli e a Messina, Il primo umanesimo quattrocentesco si presenta ancora come un fervore indistinto d’ammirazione della latinita, guidato da un entusiasmo generico e non da severi propositi critici. B soltanto verso la meta del secolo XV che questo iniziale empirismo cede a poco a poco il posto a un’attivita metodica di indagini grammaticali filologiche storiche e archeologiche, intese a ricostruire la reale fisionomia delle civilta classiche e a liberarla da tutte le sovrapposizioni e le deformazioni del medioevo. Trionfa allora nell’uso linguistico il ciceronianismo, non senza danno della spontaneita e della concretezza

dell’ espressione. Il maggior promotore della nuova scienza filologica fu il romano LORENZO VALLA (1407-1457), la mente critica pil robusta, e il polemista pit arguto e pid ardito del Quattrocento. In ogni suo scritto — filosofico storico filologico — il Valla propone e¢ difende concetti

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.

Us

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nuovi e verita battagliere, non di rado suscitando intorno a sé scandali, sospetti, astiose polemiche. Nel dialogo De libero arbitrio dimostra la inanita degli sforzi dei teologi per risolvere il contrasto fra la prescienza divina e la libera volonta dell’uomo; nel De falso credita et ementita Constantini donatione, mettendo in evidenza la falsita del

celebre documento su cui i papi fondavano le loro pretese teocratiche, insorge contro ogni forma di ingerenza della Chiesa nelle faccende temporali; nel De professione religiosorum disapprova i voti monastici e mostra di preferire la virti attiva, che opera e combatte nel mondo, a quella ascetica e contemplativa, che si rifugia in una beata solitudine; infine nei sei libri Elegantiarum latinae linguae studia,

attraverso l’analisi concreta degli scrittori e con dovizia di esempi desunti in specie da Cicerone e da Quintiliano, le forme del perfetto linguaggio classico. Con le Eleganze del Valla e con le opere dei suoi numerosi discepoli trionfa nella pratica umanistica il gusto ciceroniano: proprio mentre il latino é sul punto di perdere la sua funzione di lingua letteraria e poetica per eccellenza ¢ di cedere il passo al risorgente volgare. Contemporanea a quella del Valla é l’attivita dell’umanista forlivese FLAVIO BIONDO (1392-1463), instauratore negli studi storici del metodo moderno scientifico ed erudito, e uno dei creatori della scienza archeologica, con la Roma instaurata, dove col sussidio dei

classici ¢ delle iscrizioni tenta ricostruire l’antica topografia dell’urbe, e con la Roma triumphans, dove illustra con grande dottrina le istituzioni pubbliche e private, religiose e civili, della latinita.

Cosi dal primo entusiastico fervore sorgono a poco a poco e acquistano saldezza i fondamenti della moderna scienza dell’antichita. Muotre I’illusione di far rivivere immutato il mondo classico nella sua lingua e nei suoi costumi; sopravvive a stento per alcun tempo, come una morta spoglia privata del suo impulso vitale, il gusto ciceroniano; ma rimane, risultato duraturo, l’insegnamento critico e filologico, vivo

e fecondo di vastissimi sviluppi. E anche il latino intanto ha compiuto la sua funzione di lingua della nuova cultura: per mezzo di esso si sono svolti (e continueranno a svolgersi per parecchio tempo ancora) gli scambi intellettuali fra i dotti e i letterati di tutta Europa. Il culto e¢ lo studio dei classici, insieme con gli spiriti critici e i fermenti di rinnovamento e di ribellione che l’accompagnano, si propaga dall’Italia in tutte le nazioni civili d’Europa, naturalmente assumendo caratteri diversi da paese a paese, ma dappertutto conservando la sua funzione iniziale di lievito della nuova civilta, e insieme le tracce

dell’insegnamento italiano originario.

2. Il nuovo pensiero. — Anche nel campo del pensiero filosofico, |’ umanesimo si presenta dapprima come un

moto un po’ vago di stanchezza e di ribellione, un fermento piuttosto negativo che creatore. Sono frequenti nei primi umanisti le espressioni di fastidio e di scherno per 1 dialettici e

i teologi, sopravvissuti di un passato ormai odioso, e altrettanto frequenti le manifestazioni della tendenza diffusa a una concezione pi umana e mondana della vita. Ma la sistemazione filosofica verra soltanto pil tardi, nella seconda

meta del secolo, nel periodo del ripiegamento riflessivo e critico iniziato dal Valla. Ad aiutare quest’opera di sistemazione teorica giovo assai la conquista del pensiero greco nel suo contenuto autentico e nei suoi testi originali, raggiunta appunto in quel torno di tempo attraverso il nascere e il progredire degli studi ellenistici. Si impard a distinguere Ja vera dottrina

di Aristotele,

liberandola

dalle alterazioni ch’essa

aveva subito per opera degli arabi e degli scolastici; e si conobbe alfine nella sua interezza Platone. A questi, piuttosto

che ad Aristotele, ando la preferenza degli umanisti, sia per un naturale atteggiamento polemico contro il riconosciuto maestro della scolastica, sia anche perché nei dialoghi platonici, assai pit che non negli scritti aristotelici, essi sentivano appagato il loro desiderio di grazia e di eleganza poetica. Ma sia in Aristotele che in Platone i filosofi del Quattrocento non cercarono un modello da seguire dogmaticamente, bensi piuttosto un canone

di orientamento

problematico;

e,

interpretandone le opere attraverso le concezioni del tardo neoplatonismo, si sforzarono di assimilare e piegare le metafisiche di quelli agli insegnamenti della religione cristiana, di una religione per altro sentita in modo nuovo, non pit come mortificazione ascetica, ma come libertad ed esaltazione

dello spirito. Al nome di Platone si richiama il movimento filosofico pit notevole nell'Italia del secolo XV, quello di Firenze, che fa capo a Mar-

SILIO Ficino di Figline (1433-99) e a coloro che si radunavano a discutere e conversare nella villa di questi a Careggi, platonicamente | definita Academia. Temperamento sinceramente e profondamente re-

ligioso (si fece prete nel ’73) e al tempo stesso fervido ammiratore di Platone (del quale tradusse in latino tutte le opere e dettd una biografia), il Ficino sente e illustra con parole bellissime la divinita dell’anima umana e l’anelito profondo che é in essa a identificarsi con Dio. Questo concetto della dignita e della potenza umana é cosa tutta nuova e antimedievale, ed é uno dei motivi fondamentali del

pensiero del Rinascimento. Lo aveva gia svolto il fiorentino GranNOZZO MANETTI (1396-1459), esaltando contro i trattatisti medievali la mirabile proporzione fisica e la stupenda energia creatrice dell’uomo; lo riprese GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA (1463-94), per il quale l’uomo é il compendio e l’epilogo di tutto I’universo, creato non

mortale

né immortale,

non

celeste né terreno, a mezzo

forme inferiori e quelle divine, affinché possa foggiarsi in quel che meglio gli piacera «come libero artefice e costruttore stesso ». Tutto il pensiero del Quattrocento — da Cristororo DINO (1424-98), elegante divulgatore delle idee del Ficino, a BaTTISTA

ALBERTI,

di cui avremo

ancora

occasione

tra le

modo di sé LANLEON

di parlare —

tende a questa esaltazione delle energie umane, che si espandono nel mondo superando le forze cieche della natura e gli impedimenti della fortuna. Questi concetti, essenzialmente antimedievali, antiscolastici, antiascetici, preludono alla direzione fondamentale del futuro pensiero

europeo e intanto esprimono un sentimento nuovo e arditamente pro-

gressivo della vita. Sarebbe erroneo tuttavia giudicarli pagani e considerarli come una mera rifioritura della concezione antica, dalla quale ptofondamente si differenziano; o chiedersi se, nella civilta umani-

stica e del Rinascimento, prevalgano gli elementi pagani o quelli cristiani. L’umanesimo é un momento nuovo della storia della cultura, non identificabile con nessuno dei momenti che I’hanno preceduto, sebbene sorga sul fondamento di quelli e ne riproduca, rinnovandoli, taluni aspetti e tendenze. Si contrappone al medioevo, non al cristianesimo, del quale riprende anzi le affermazioni pit intime e vitali, liberandole dalle sovrastrutture non essenziali del

rigorismo ascetico e dell’intellettualismo scolastico. Nei suoi sviluppi piu tardi la civilté del Rinascimento finira con l’atteggiarsi in contrasto con l’ortodossia cattolica; ma per il momento

il dissidio € an-

po) cora lontano dal manifestarsi aperto e grave. umanistico, moto del pagani Quanto agli elementi propriamente essi sono per lo pit cose verbali e tutte di superficie; per esempio

nell’ Accademia romana, fondata da GIuLIo

PoMPONIO LETO (1428-

1498) di Teggiano nel Vallo di Diano, si rinnovano gli antichi riti urbe celebrando ogni anno il Natale di Roma, si datano le scritture ab

i,

?



,

"

ye

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condita, si mutano o si rifoggiano classicamente i nomi dei singoli membri: ma si tratta soltanto di una specie di fervore tutto intellet-

tuale e retorico, che non ha € non vuole avere nessun rapporto con Ja

realta storica e tanto meno contrapporsi ad essa con propositi polemici. Solo pochi spiriti pid rigidamente attaccati al passato guardarono

con sospetto o con orrore a quel nuovo

entusiasmo

paganeg-

giante, che minacciava di distruggere il sentimento delle cose celesti: cosi negli ultimi decenni del Quattrocento il SAVONAROLA e¢ i suoi discepoli, che di fronte all’estetismo diffuso della nuova cultura di-

fesero con coraggio la profonda esigenza di una ferma convinzione religiosa e morale. Né scrupoli né orrore sentiva invece il pii grande educatore del tempo, Virrorino Da FELTRE

(1373-1446), il quale,

sebbene religiosissimo e mistico, fu colui che meglio d’ogni altro attud nella pratica l’ideale dell’educazione umanistica, accogliendo nella sua «casa zoiosa» (affidatagli da Gianfrancesco Gonzaga signore di Mantova) gran numero di giovinetti ricchi e poveri, nei quali, con la lettura dei classici greci e latini, lo studio della filosofia

platonica e aristotelica e delle scienze, la pratica della musica e degli esercizi ginnici e sportivi, la severita stessa decorosa e punto arcigna del costume, si proponeva

di sviluppare quell’armonioso

equilibrio

di energie spirituali e fisiche, nel quale gli umanisti del Quattrocento facevan consistere la pienezza dell’hamanitas.

3. I letterati e il costume.— Il Petrarca fu il mae stro degli umanisti, entro certi limiti, anche nella pratica della

vita d’ogni giorno. Dante, per il quale la poesia era stata strumento di una missione religiosa e civile, l'uomo che alle sue convinzioni politiche e morali aveva saputo sacrificare « ogni cosa diletta pii caramente » e per la devozione al suo ideale aveva accettato con fermo coraggio la poverta e |’esilio, era un modello troppo alto e lontano e ormai incompreso. Il Petrarca invece, poeta laureato in Campidoglio, accolto € onorato dai potenti, signore adulato fra una coorte di dotti

per i quali ogni sua parola proferita o scritta é un dono prezioso, difensore tenacissimo della tranquillita dei suoi studi,

della sua dignita di studioso e anche dei suoi agi privati, offre il primo esempio tipico del /Jetterato nuovo, che della sua cultura e della sua perizia artistica fa uno strumento di potenza personale e un’arma di difesa contro le calunnie degli avversari, € cosi s'aggira dovunque rispettato e temuto, con-

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scio della forza enorme della parola anche nel campo pratico

quando la si sappia maneggiare con sapienza e con prudenza. Questo tipo del letterato iniziato dal Petrarca, si definisce meglio, ma anche si impoverisce di contenuto spirituale, ne-

gli umanisti del Quattrocento: essi lascian cadere anche quel tanto di concreta passione civile, che nel Petrarca sopravvi-

veva e gli aveva dettato le canzoni politiche, e non sentono pit quella -profonda inquietudine religiosa, che insinua un accento di ansia e di tristezza nelle pagine latine e volgari del poeta d’Arezzo: rimangono invece l’altissima coscienza della dignita che deriva all’uomo dalla vasta e buona cultura e dall’arte sapiente della parola;

il disprezzo profondo del

volgo illetterato e in genere d’ogni cosa che s’attenga alla vita materiale e quotidiana; e infine, tra le cure dell’inse-

gnamento e gli uffici pubblici o cortigiani, il vagheggiamento — assai di rado traducibile in realta — di un’esistenza raccolta e serena, tutta dedita a leggere e a scrivere e a meditare fra l'idillica pace dei campi e delle selve. Nella pratica, po-

chissimi fra gli umanisti riescono a crearsi una situazione almene relativamente sicura e indipendente; l’attivita letteraria

anche dei migliori non potrebbe svolgersi senza il mecena-

tismo dei principi e dei ricchi: 1 papi a Roma, i Visconti e poi gli Sforza a Milano, gli Aragonesi a Napoli, gli Estensi a Ferrara, i Gonzaga a Mantova sono i naturali e necessari protettori degli umanisti, ai quali assicurano una pid o meno

dignitosa esistenza e i mezzi per mettere insieme ampie e costosissime raccolte di manoscritti. Ma sono protettori talora

capricciosi e malfidi, che bisogna farsi amici con grande dispendio di adulazioni oppure tenere a bada con sapiente politica, mista di umiliazioni, di preghiere avvilenti e di petulanti ricatti. Qualche umanista arriva a sostenere la tesi che

ai principi spettan di diritto le lodi (buont o cattivi essi siano), come ai letterati compete la funzione di lodare chi li premia e svergognare pubblicamente gli avari. Qualche altro mette in pratica questa cosi poco dignitosa teoria.

Il pia famoso di questi avventurieri della penna ¢ FRANCESCO FILELFO (1398-1481) da Tolentino, che si formé a Costantinopoli, giovane ancora, una profonda conoscenza del greco, ¢ tornato in Italia 10. —

SapEcNo,

Disegno

stor.

della

lett.

it.

aL



ne

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fu maestro successivamente negli studi di Firenze, Siena, Bologna €

Milano; dappertutto ostentando la sua ambizione e le sue millanterie alquanto ciarlatanesche, e la bizzarria, la folle prodigalita e¢ la

sfacciataggine della sua indole. Le epistole, gli epigrammi, 1 componimenti poetici gli servirono per mendicare doni, per minacciare ticatti: scrittore abbondantissimo e trasandato, non ha quasi importanza nella storia della poesia, non molta in quella della filologia umanistica, ma @ un personaggio rappresentativo del costume del tempo: quasi un simbolo della nuova potenza concessa alle lettere dispensiere di gloria (e talvolta anche a quelli che le professano) nella societa del secolo XV, e un’immagine esagerata della scissione che da questo momento si opera nel mondo letterario italiano fra cultura e vita morale, fra l’ingegno talora splendido e la coscienza spesso debole e schiava: scissione che fu definitivamente abolita ¢ composta soltanto dagli uomini del Settecento e del Risorgimento, per opera dei quali la parola stessa « letterato » venne a poco a poco acquistando quel senso deteriore di retore vacuo pieghevole e accomodante, che anche oggi non di rado assume nel linguaggio comune.

4. La poetica degli umanisti. — Nelle teorie estetiche gli umanisti non fanno un passo innanzi rispetto all’intellettualismo e all’allegorismo della tradizione medievale; nella pratica del gusto poetico, invece, abbandonano, o quasi,

lallegoria e concentrano il loro interesse sull’elemento formale, sull’arte, laddove gli uomini del medioevo l’avevan riposto essenzialmente nel contenuto scientifico e morale. AlV'ideale del poeta vate e teologo si sostituisce quello del poeta filologo e retore, al quale non si chiede la rivelazione di alte verita utili ad ammaestrare e a perfezionare gli animi, si piuttosto la perfetta cognizione della lingua e dello stile dei classici e il possesso di quella venusta formale per cui ogni materia, anche Ja piu trita o la pid frivola, si rinnova e si adorna di leggiadria. Delle due direzioni fondamentali dell’estetica tramandata dagli antichi, mentre nel medioevo aveva trionfato l’estetica pedagogica, nella forma tipica dell’allegorismo, con l’umanesimo prevale invece, nella pratica del gusto almeno se non nelle affermazioni teoriche che anzi spesso vi contraddicono, |’estetica edonistica.

L’elemento centrale della poetica umanistica & Viémitazione: gli antichi hanno creato, in ogni campo della lettera-

_ tura, modelli perfetti; ai moderni non rimane se non di ripercorrere la via da essi tracciata e avvicinarsi per quanto é pos-

sibile a quella perfezione. Cicerone nella prosa in genere; Virgilio nel poema epico; Orazio, Catullo, gli elegiaci nella

lirica sono gli esemplari ai quali pid di frequente si attinge. La debolezza di questo atteggiamento e di questa teorica dell’imitazione si vede soprattutto in quel trionfo del gusto ciceroniano, che tendeva a codificare in forme immobili e impersonali la lingua, la sintassi e lo stile. Ed é vero che le scritture latine anteriori alla vittoria del ciceronianismo

appaiono di solito pit vivaci, pit fresche,

pil spontanee e personali che non quelle del periodo successivo. Eppure il ciceronzanismo tappresentd la miglior soluzione di un problema pratico, quello dell’insegnamento del latino, tanto é vero che sopravvive ancor oggi, se pur limitato, nella consuetudine scolastica;

e fu un momento importante nella storia della ricostruzione filologica del mondo classico e della sua lingua. Non mancarono del resto coloro che, pur accettando la dottrina dell’imitazione, sostenevano che

essa non dovesse limitarsi al solo Cicerone, bensi prendere il meglio da tutti gli scrittori con |’intento di adeguare un tipo ideale di perfezione stilistica. Cosi il Poliziano, nel corso di una vivace polemica

sorta negli ultimi anni del secolo fra lui e il romano PAOLO CorTESE (1465-1510), si scaglia contro gli imitatori servili di Cicerone, chiamandoli scimmié e pappagalli; e contro costoro riafferma i diritti della personalita poetica e stilistica: chi vuol scrivere bene legga si Cicerone

ma

anche

molti

altri buoni

scrittori, e poi faccia da sé,

impari a nuotare sine cortice. Alla lettera del Poliziano il Cortese replicava affermando la necessita dell’imitazione, attraverso la quale gli ingegni forniti di doti letterarie si alimentano e si formano, per attingere poi un’espressione veramente originale e personale dei loro pensieri e dei loro affetti. A guardare bene le tesi dei due avversari non sono tanto lontane l’una dall’altra che non sia possibile conciliarle. IL Poliziano

insiste sull’individualita

dello stile, come

poeta

ch’egli é e pensando soprattutto ai poeti; il Cortese fa batter l’accento sulla necessita di una lenta e metodica preparazione letteraria, e ha l’occhio in ispecie agli usi quotidiani e oratori del latino; ma e l’uno e l’altro riconoscono e accettano l’esigenza opposta dell’avversario, almeno entro certi limiti; ed entrambi poi ci aiutano ad intender meglio storicamente il significato e l’importanza della teoria quattrocentesca

dell’imitazione:

teoria

significantissima,

come

vedremo,

anche nel campo della letteratura in volgare, e, specie nella forma datale dal Poliziano, assai utile a comprendere l'opera poetica di lui.

5. Arte e poesia nella letteratura umanistica. —_

Gli ideali e gli affetti del mondo umanistico, il senso nuovo

della vita e persino il nuovo concetto dell’arte e dello stile trovano la loro espressione pit alta e pit vera, non nella let-

teratura in latino degli umanisti propriamente detti, si piuttosto in quella volgare della seconda meta del secolo: nella prosa dell’Alberti e nei versi del Poliziano. La maggior parte della letteratura in lingua latina invece é costituita da scritture di indole pratica ed oratoria: trattati, orazioni, invettive

e opuscoli polemici, poemi epici e vaste compilazioni storiche. Naturalmente |’interesse intellettuale é assai maggiore nelle opere storiche e filosofiche, mentre la retorica abbonda nelle orazioni e, peggio, nei poemi; ma dal punto di vista estetico tutti questi scritti pressapoco si equivalgono e nel

complesso danno l’impressione di una lunga e faticosa esercitazione letteraria:

non inutile certo, ma

per ora lontana

dalla sua risoluzione in nuove forme di prosa e di poesia. Il genere prosastico pid importante e piu interessante per noi moderni

della letteratura umanistica é€ forse quello epistolare, dove

indole degli scrittori ha modo talora di esprimersi in forme meno compassate e togate e di confessare con garbo le proprie simpatie e predilezioni. Sarebbe vano per altro cercare in esse elementi di rappresentazione realistica, scene naturali naturalmente trascritte, effusioni immediate dell’animo. Fra la realta e la scrittura s’infrappone sempre il velo di una consuetudine letteraria; e la mente dell’uma-

nista é tutta rivolta non a cogliere i tratti della realta attuale, che egli disprezza o della quale nei casi migliori sotride, bensi a vagheggiare nelle forme presenti l’immagine di quel mondo ideale, ch’egli ha imparato a conoscere nei libri e di cui ha fatto il suo rifugio fantastico. Gli spunti pit felici, quelli ove meglio si traduce l'ideale edonistico e idillico dell’umanesimo, la nostalgia di un mondo

di ozi beati e di tranquilli studi in un’atmosfera di pace agreste e solitaria, son forse nelle descrizioni di paese. Se ne trovano di assai vive negli epistolari del Bracciolini e del Bruni, nelle lettere e pit nei Commentarii rerum memorabilium, vera e propria autobiografia dettata da ENEA SILvio PICCOLOMINI (1405-64) di Corsignano nel Senese, quando fu diventato papa col nome di Pio II; e sempre la . natura vi é sentita non realisticamente ma con animo idillico, trasf-

_ gurata attraverso le reminiscenze dei poeti latini e dei fantasmi mitologici, come sara poi con pit intenso fervore poetico nel Poliziano

La vena voluttuosa e idillica é anche il motivo pid frequente e pit fortunato nell’abbondante produzione in versi latini: tenere invocazioni e calde esaltazioni d’amore, descri-

zioni di paesaggi lieti e sereni e di giocondi spettacoli, scherzi e facezie di vario ma per lo pit tenue argomento; e dovunque, insieme alla volutta insita nella cosa stessa bella o piacevole o ridente che il poeta contempla e vagheggia, anche l’altra

volutta pit segreta del letterato che si compiace di modellare quella materia in forme di squisita perfezione e gode nell’intimo la musica delle frasi ingegnose e ben tornite, la singolarita dell’espressione che esalta e cinnova anche il luogo ‘comune, la dotta e raffinata eleganza dello stile. Come nelle prose, anche nelle verseggiature umanistiche la sapienza del gioco letterario vince quasi dovunque la sincerita degli affetti, del resto tenui e superficiali. E in pochi scrittori quel-

Videale edonistico e quel vagheggiamento nostalgico della bellezza antica, che eran sentimenti comuni e diffusi un po’

in tutti gli animi, riuscirono ad ispirare accenti di poesia sincera e schiettamente personale: nel Pontano, nel Marullo,

nel Poliziano e nel Sannazaro. Tra questi poeti il Pontano é quello che ha la vena pit facile e spontanea, ma anche pil tenue e pit leggera. Nato a Cerreto in Umbria nel 1426, GIovANNI PoNTANO trascorse gran parte della sua vita a Napoli, dove fu capo di un’Accademia fondata dal Panormita e poi da Iui detta Pontaniana, e dove mori nel 1503, dopo avere per quasi vent’anni diretto la politica del regno come ministro di

Ferdinando I, di Alfonso II e di Ferdinando II d’Aragona. Scrittore fecondissimo, lascid trattati filosofici e astrologici e dialoghi su argomenti vari di morale e di letteratura. Ma le opere sue pit importanti e pid belle sono quelle in versi: Urania, poema astrologico intessuto di leggiadri miti e figurazioni naturali; la Lepidina, grazioso idillio che celebra le nozze del fiume Sebeto con la ninfa Partenope e s’adorna di belle rappresentazioni di paesaggi e di scene della vita popolare napoletana; i canti lascivi e amorosi (Amorum libri, Hendecasyllabi, Eridanus); le elegie De amore coniugali, che

cantan le gioie ¢ la dolce intimita della vita familiare; gli Jambici

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¢ i Tumuli, che piangon la morte della moglie Adriana, del figlio — Lucio ¢ di altre persone care. La materia di queste poesic ¢ semplice -

ed elementare, poco variata negli spunti ¢ povera di risonanza interiore e di accenti profondi; lo stile piuttosto musicale e carezzevole

che robusto ed intenso; la lingua trattata con una disinvoltura ¢ una modernita di toni che non ha forse l’uguale negli scrittori del tempo, ma anche con una certa leziosita e smanceria nei diminutivi frequenti,

nell’indeterminatezza delle immagini, nel languore delle cadenze e dei ritornelli. Spirito sentimentale e fervoroso, di quelli che amano

effondere i loro affetti all’esterno con loquace esuberanza piuttosto che concentrarli e approfondirli nel segreto della riflessione, il Pontano diede il meglio di sé nelle poesie pit tenui e brevi e di pia semplice struttura:

in certe dolci cantilene

arnorose,

nelle celebri

nenie per il figlio Lucio, negli affettuosi epitafh per Adriana, per Lucio, per la figlioletta mortagli tredicenne. Meno

dotati di qualita appariscenti,

ma

piu ricchi di intimo

fervore sono i carmi latini del greco MICHELE MARULLO TARCANIOTA di Costantinopoli, che venne in Italia fanciullo e visse negli ambienti umanistici di Napoli e di Firenze, dove sposo la bella e coltissima Alessandra Scala, e mori nel 1500 annegando nel fiume Cecina. I suoi versi d’amore, delicati e accorati, si distaccano dalla maniera stereo-

tipata degli umanisti imitatori di Ovidio di Catullo e di Tibullo, e hanno accenti vivacemente personali e autobiografici. In altri canti rievoca con intenso affetto la patria perduta, per la cui liberta sarebbe

stato meglio trovarsi a combattere e a morire; 0 vagheggia i dolci ricordi della famiglia e della prima infanzia; o piange la sua dura condizione di esule povero e avvilito ma dignitoso e fiero. Nel Poliziano e nel Samnazaro infine i versi latini interessano, oltre che per le loro qualita intrinseche, per gli spunti, i precorrimenti, le varianti ch’essi ci offrono di quei motivi poetici che ritroveremo ben presto nell’ Arcadia, nelle Stanze e nelle altre opere in

volgare, dove la personalita dei due scrittori si espresse in forma pit matura e compiuta. Umanista rafhnato, dottissimo e perfetto assimi-

latore dei segreti stilistici degli antichi, il PoL1z1ANo rivelé la sua mirabile sapienza filologica e archeologica nelle prolusioni accademiche e nei Miscellanea,

e trasfuse il suo

animo

di poeta e la va-

ghezza delle sue fantasie negli epigrammi greci e latini, nelle odi, nelle elegie e persino nelle quattro Sylvae o prolusioni in versi: l Ambra,

descrizione e celebrazione della poesia omerica; la Manto,

dedicata a Virgilio; il Rwsticus, preludio all’esposizione delle opere georgiche di Virgilio e di Esiodo; e i Nutricia, rendimento di grazie alla poesia che I’ha educato e nutrito. Mirabile @ nelle liriche la

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‘sapienza dell’arte, che per altro non sempre soffoca, anzi esalta ¢

tinnova I’intimita degli affetti. Nell’elegia per la morte di Albiera degli Albizzi la figura della donna bellissima é ritratta in quegli atteggiamenti trasognati e divini, che saranno poi della Simonetta delle Stanze. E nel Rusticus ritroviamo, come nell’opera maggiore, il vagheggiamento idillico della bella natura, contemplata nella sua tealta pittoresca, ma soprattutto rivissuta nella trasfigurazione favolosa e mitica che ne avevan fatto gli antichi scrittori pit cari al poeta. Il vagheggiamento della natura — non pit come proiezione di un mondo ideale di eterna e divina bellezza, bensi come porto e fi-

fugio di-quiete e di pace — e insieme l’amore per le belle forme letterarie in cui quella concezione idillica era stata per sempre fissata dai poeti antichi erano invece, come vedremo meglio nell’ Arcadia, il motivo ispiratore della poesia del SANNAZARO, E lo ritroviamo anche nei suoi versi latini, oggetto di cure pazienti e infinite e testimonianza di un’arte squisita e raffinata, che pur di rado e

solo a frammenti s’illumina di luce poetica. Opere in complesso aride e convenzionali,

sebbene condotte a tratti con arte mirabile e sor-

rette da un gusto umanistico che si compiace della sua squisita perizia, sono le Eclogae piscatoriae e i tre libri De partu Virginis. Pit belle sono le Elegie e gli Epigrammi, dove il Sannazzaro, in forme pit libere e di minor impegno, espresse tutta la sua umanita integra e schietta, la sua indole pura € affettuosa, la devozione ai suoi principi serbata intatta nelle pit ardue e tristi vicende, la sua mestizia

tenera ¢ rassegnata ‘e il supremo desiderio di pace. Leggendo i versi latini del Poliziano e del Sannazzaro noi quasi assistiamo allo sbocciare della nuova poesia dal lungo travaglio dell’educazione umanistica, e ci rendiamo conto dell’importanza che assume, rispetto al formarsi del rinnovato gusto poetico nel Quattro

e nel Cinquecento, quel fermento di studi filologici e quell’assiduo esercizio di stile in che propriamente consiste la sostanza dell’umanesimo.

CapiroLo

POETI F PROSATORI

VII.

DEL QUATTROCENTO

1. Gli umanisti e il velgare. — Il fervore di ammirazione rivolto dagli umanisti alla cultura latina era naturale si risolvesse in un disconoscimento

e disprezzo, pil o

meno espliciti e ostentati, della lingua volgare e della poesia che di quella lingua aveva fatto il suo strumento. Verso la meta del secolo XV tuttavia, mentre il primo fervore entu-

siastico degli umanisti si vien risolvendo nella creazione della

nuova scienza filologica, la letteratura in volgare riprende a poco a poco il sopravvento. Testimonianza ne sono i com-

menti alla Divina Commedia di CRIiSTOFORO LANDINO (1481),

¢ alle Rime petrarchesche del FILELFo

(1440-46); e l’ampia

collezione di rime antiche che é nota col nome di Raccolta

aragonese, perché nel 1477 Lorenzo il Magnifico l’invid in dono a Federico d’Aragona, insieme con un’epistola, dettata

forse dal Poliziano, dove é un entusiastico elogio della lingua toscana, «non povera» e « rozza » «ma abundante e pulitissima ». Forse di LEoN BATTISTA ALBERTI (m. nel 1472) é il primo esperimento di una grammatica dell’idioma volgare; e certamente sua l’idea di promuovere in Firenze una pubblica gara di poesia — il certame coronario (1441) —, che dimostrasse ai pit restii le attitudini letterarie della lingua comunemente parlata e insieme giovasse, con l’esercizio, ad affinarla e disciplinarla artisticamente. Testimonianze di maggior rilievo, sono infine le opere stesse poetiche e prosastiche dettate in lingua volgare, non pit da scrittori popolari © popolareggianti, si da uomini educati nelle ricerche filologiche e peritissimi nella tecnica dello scrivere latino, come

l’Alberti, il Poliziano, il Sannazaro

che in esse portano il



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gusto e gli echi frequenti di una raffinata educazione linguii stica e letteraria, basata su una solida e vasta conoscenza dei

classici. Non si creda perd che tutto il fervore latineggiante della prima meta del secolo sia passato invano. II gusto uma-

nistico penetra e s’impone nella stessa nuova letteratura volgare, offrendo ai poeti nuovi spunti e temi di ispirazione, rinnovando il lessico, i modi dello stile, la struttura del discorso,

- imponendo’il nuovo concetto dell’imitazione degli antichi e Yobbligo di un severo tirocinio artistico. D’ora innanzi non

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ci sara, si pud dire, scrittore notevole che non fondi la sua

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educazione linguistica e letteraria su una solida e vasta co-

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noscenza dei classici e una pratica assidua dello scrivere la-

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tino. Perché, come riconosce esplicitamente Cristoforo Landino, nell’orazione introduttiva alla sua lettura pubblica del Petrarca, «é necessario esser latino, chi vuol essere buon

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toscano ».

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2. Epigoni della letteratura trecentesca. — La letteratura in volgare rinnovata sul fondamento dell’educazione umanistica € rappresentata da pochi scrittori insigni e appartiene tutta alla seconda meta del secolo. La maggior parte della letteratura quattrocentesca italiana é invece una fiacca e scolorita ripetizione di motivi spunti e schemi formali gia svolti ed esauriti dagli scrittori del Trecento.

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Si continud a coltivare, ad esempio, la letteratura delle Jaude, dei

trattati ascetici e delle vite di santi, ad uso del popolo; e prese particolare rilievo, arricchendosi di elementi realistici, avventurosi, fiabeschi, quella delle sacre rappresentaziont, che fiori soprattutto in

Toscana. Autore di drammi sacri, di poesie e di prose religiose é il fiorentino Feo BELcart

(1410-84), il pit noto, e il pit candido,

fra questi epigoni della letteratura devota trecentesca. Un altro é il vescovo SAN BERNARDINO DA SIENA (1380-1444), con le sue prediche, in cui lo schema é, come nel Passavanti, scolastico e non privo di pedanteria; e lo stile ha la ptolissita disordinata e approssimativa comune a tutta l’oratoria popolare; ma il discorso vi € vivace e vario, familiare e parlato, a tratti drammatico o incisivo, arguto nel combattere i vizi e nel ritrarre gli errori della semplice umanita, particolarmente felice nelle novellette e negli apologhi, narrati

con fare ingenuo e popolaresco, coi quali Bernardino interrompe non di rado e¢ alleggerisce la severita e la monotonia del ragionamento.

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Figura assai diversa ¢ di maggior rilievo, é quella del domeni-

cano ferrarese GIROLAMO SAVONAROLA (1452-98), la cui vita tempestosa e la tragica morte occupano un posto cosi importante € significativo nella storia del secolo XV. Non pud esser considerato propriamente uno scrittore: gli mancano invero la misura e il proposito stesso dell’arte. Ma nelle rozze rime devote, ¢ pit nelle prediche raccolte dagli ascoltatori, si sentono, piuttosto suggeriti che espressi, attraverso la prolissita farraginosa del linguaggio oratorio, l'intensita di un sentimento religioso gagliardo e appassionato, I’attitudine fieramente polemica contro la corruzione e la mentalita dei tempi nuovi, e la convinta e tenace consapevolezza di una missione

profetica e rinnovatrice. Altri scrittori del Quattrocento proseguono le tradizioni della’ prosa trecentesca familiare e cromachistica. I narratori, continuano come possono la maniera del Boccaccio. Notevole, tra questi, Ma-

SUCCIO SALERNITANO

(Tommaso Guardati), della cui vita non sap-

piamo quasi nulla. Il suo Novellino (messo a stampa, forse postumo,

nel 1476 e dedicato ad Ippolita Sforza) deriva dal Boccaccio la struttura esteriore e certe particolarita dello stile; non gli spunti e la materia dell’ispirazione e neppure il tono limpido e sereno della rappresentazione. Le qualita artistiche di Masuccio sono limitate e si rivelano solo a frammenti; il genio che l’ispira é satirico e polemico, piu che schiettamente poetico. Le novelle pit originali e piu interessanti sono quelle della prima parte, che tratteggiano figure di ecclesiastici corrotti ipocriti e cinici: sarebbe vano cercarvi il tono di superiore e disinteressata simpatia dell’artista, che vagheggia con animo uguale tutte le sue creature; c’é invece la maniera acre feroce e sarcastica del pubblicista, dello scrittore di pamphlets: donde anche le caratteristiche delle rappresentazioni, vigorose, ma alquanto sommarie e generiche; e dei personaggi, piuttosto tipi, tracciati con

linee rapide e robuste, che non figure scolpite nella loro individualita inconfondibile. Anche la letteratura in versi del Quattrocento non esce, per la maggior parte, dai quadri delle tradizioni artistiche fissate nel secolo precedente. Trionfa, nella lirica d’amore, il petrarchismo, che nel Cinquecento diverra strumento di raffinata educazione artistica, ma

per ora svuotati insipida, trecciarli atido ed

é soltanto un complesso di formule e di schemi retorici, del loro significato di poesia e ripresi, in maniera fredda ed dai numerosi ripetitori che si divertono a combinarli e invariamente ed esauriscono tutto il loro impegno in cotesto alquanto monotono gioco. Cosi il romano Giusto Dg’ ConrTI

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DA VALMONTONE (m. nel 1449); il ferrarese ANTONIO TEBALDEO (1463-1537); SERAFINO DE’ CIMMINELLI di Aquila (Serafino Aquilano, 1466-1500); BENEDETTO GARETH DETTO IL CARITEO (m. nel D514) ) oe Un pit vivo senso d’umanita, se non di poesia, spira dal can-

zoniere

del pesarese PANDOLFO

COLLENUCCIO,

imprigionato

due

volte e poi fatto uccidere dallo Sforza, signore della citta, a sessan-

t'anni, nel 1504. Ricco di cultura umanistica

e ligio al modello

petrarchesco, questo rimatore trova nella sua sventura accenti piu sin-

ceri di umana tristezza e stanchezza: come nella canzone indirizzata alla « benigna e valorosa » Morte, che egli invoca, supremo porto di

pace e di liberta, concesso agli uomini dalla Natura « acerba matrigna ». Anche la tradizione della letteratura familiare, burlesca, realistica

infine ebbe i suoi continuatori nel Quattrocento. Notevoli, nella ptima meta del secolo, il BURCHIELLO (Domenico di Giovanni, fiorentino,

1404-49);

nella seconda,

il PistoIA

(Antonio

Cammelli,

1430-1502). Del Burchiello é rimasta nel ricordo dei posteri la vena fantasiosa

e bizzarra, che mescola

facezie e malinconie

nei sonetti

dettati in una lingua furbesca e allusiva, che fece purtroppo scuola e trovO numerosi e facili imitatori fino al Seicento. Nel Pistoia c’é una vena comica pit schietta, fertile di trovate caricaturali, di episodi e scenette del costume, a tratti vivacissime e piene di imme-

diatezza; e qualche volta anche una sana e robusta arguzia popolaresca nei sonetti satirici di materia calata di Carlo VIII.

politica scritti al tempo

della

3. La letteratura popolare e gli umanisti. L. Giustinian. — Continuava a fiorire frattanto, nei modi e nei generi gia fissati dalle eta precedenti, la varia letteratura di

tono popolare e popolareggiante: strambott e rispetti, can-

zonette e ballate, che svolgono talora con freschezza e con un fondo di ingenua sensualita, i motivi consueti della psicologia e della casistica amorosa; serventesi, lamenti, cronache in rima, in cui si perpetua la tradizione ormai stanca della pubblicistica politica; cantari e romanz di materia Cavalleresca o fiabesca, leggendaria o novellistica. Molti spunti

fantastici e poetici derivano da cotesta letteratura agli scritti

dei poeti colti, 1 quali guardano ad essa come ad una materia anonima ed inferiore, divertente e bizzarra, ricca di motivi

preziosi, ma ancora scomposti e appena abbozzati, che sem-

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brano attendere la mano di un artefice sapiente e il suggello _ di una abilita tecnica provata e consapevole. Uno anzi dei

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punti di riferimento pit evidenti, per cui si riaccostano e si

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givelano nate su un fondo comune le opere di poeti pur

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diversissimi tra loro come il Pulci, il Magnifico, il Poliziano,

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Boiardo, é proprio questa fusione e compenetramento in

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essi di elementi desunti da un’educazione artistica raffinata,

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con altri ripresi dal patrimonio della poesia anonima e po-

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polare e rinnovati in uno spirito misto di affettuosa e sim- — patica adesione e di superiorita divertita e curiosa. E un at-

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teggiamento che si ritrova, con varieta di sfumature e di gradazioni, nei poemetti e nelle canzoni carnevalesche del Magnifico, nei rispetti e nelle ballate del Poliziano, nel Morgante del Pulci, nell’Orlando Innamorato del Boiardo: opere tutte in certo senso popolaresche, se si guarda alla materia

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fantastica e a taluni aspetti formali e verbali, eppure tutte pit o meno lontane dal tono propriamente popolare, meno

ingenue e pil complesse, meno spontanee e pit ricche di contenuto umano e ciascuna suggellata dal segno di una forte Ee ee EE eine *

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e netta personalita poetica. Il poeta che pit di tutti mostra di aderire, con semplicita, al tono popolaresco (e proprio percid forse, tra questi

maggiori, il pit limitato e povero di risonanze) é il patrizio veneziano LEONARDO GIUSTINIAN (1388-1446), che tenne in patria importanti cariche politiche, e fu dotto umanista e amico e corrispondente del Filelfo, del Traversari, di Guarino veronese, di Ciriaco d’Ancona. Temperamento idillico, pur tra le molteplici cure della vita pubblica, il Giustinian ci descrive egli stesso, in una sua lettera, la vita che amava condurre, nelle pause del lavoro intenso, nella ridente iso-

letta di Murano:

lunghe letture, pacate conversazioni di

morale e di poesia, e, a tratti, un immergersi e dimenticarsi nelle « delizie della musica », cui lo traeva, afferma, non un proposito determinato ma la sua stessa natura. Forse in questo amore della musica, di cui, secondo la testimonianza dei contemporanei, fu intenditore profondo e apprezzato, si deve

cercar la radice del suo singolare gusto poetico, che lo indusse a riprendere, con accenti suoi, i modi delle canzonette

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polari, ¢ piti tardi delle laude, che egli stesso poi rivestiva

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di note e cantava. Pit delle laude (nelle quali rielabora di solito, se pur con una tenerezza e morbidezza musicale tutta

sua, i motivi stereotipati di uma tradizione ormai esausta) interessano il lettore moderno le canzonette e gli strambotti, che svolgono, in tutte le sue sfumature sentimentali, |’alterna vicenda della passione amorosa:

ora arditi e voluttuosi, ora

teneramenté. invocanti, gai o malinconici, ebbri di gioia o frementi d’angoscia; ma sempre soffusi di un’armonia canora, in cui si attenuano le note piu acute e stridenti, si rammor-

bidisce l’ardore sensuale e si placa il tumulto del desiderio insoddisfatto. I] tono e la materia di quelle canzonette e strambotti, cosi

popolari e semplici, spiegano la loro vasta e rapida diffusione; tale che non é sempre facile discernere, nei codici ¢ nelle prime stampe, le rime autentiche del patrizio umanista

dalle giustiniane 0 veneziane composte da altri su quel modello e attenendosi ai nuovi modi musicali che il Giustinian

aveva inventato. Pur il tono peculiare di questa

poesia non é

propriamente popolare, e risulta piuttosto dal

fortunato in-

contro d’una materia di sentimenti elementari con un gusto letterario scaltrito e¢ ad un tempo curioso e pronto; da un felice equilibrarsi di consapevolezza e d’ingenuita, per cui l’opera del poeta s’adegua, non abbassandosi indulgente ma accostandosi con affettuosa simpatia, ai modi e agli spiriti del

popolo e al tempo stesso riesce a conservare una sua impronta aristocratica e personale. Equilibrio di stile, che si ri-

specchia nel tono del. linguaggio, e nella misurata fusione degli elementi realistici e di quelli ideali, per cui il realismo

perde ogni volgarita e brutale immediatezza temperandosi e compenetrandosi di affetti gentili, e Videalismo si svincola dal pericolo delle frigide astrattezze € si rammorbidisce colorandosi di umana e appassionata realta. Perfetta nel suo ambito e nelle sue leggiadre movenze, questa del Giustinian € pet altro una poesia in tono minore: che risponde al diletto gentile e delicato, ma tenue e fuggevole, di uno spirito in cui Je molteplici cure esteriori non avevano potuto distruggere il gusto del canto e delle leggiadre fantaste.

4, Il Pulci. — Alla fonte della musa popolare attinge,

con fervida e cordiale adesione, |’ arte, pur cosi nettamente . personale e ricca di poesia, del Pulci. Luict Putct nacque a Firenze, nel 1432, da nobile e antica famiglia, nella quale era vivo e diffuso il culto delle lettere. Ebbe vita

difficile e angustiata dalle strettezze economiche; educazione intellettuale limitata, senza raffinatezze umanistiche, temperamento

bizzarro

e pronto a cogliere in ogni soggetto materia di riso e di caricatura, ma non spensierato né superficiale, anzi disposto a sentire con inten-

sita gli affetti pid vari e curioso di problemi e di meditazioni qualche — volta superiori ai limiti della sua modesta cultura; espansivo ed esuberante, ma non povero di vita interiore; arguto e mordace, ma con

un fondo di cordialita schietta e affettuosa. La vita gli pareva « uno zibaldone mescolato di dolce e di amaro e mille sapori vari »; i fieri

colpi della sfortuna potevano a tratti tingere di malinconia e di cu-— pezza la sua considerazione

delle cose e degli uomini, ma non mai

distruggere il suo naturale attaccamento, il primo impulso entusia- — stico che lo portava ad interessarsi di essi, ad amarli. Il pit grande affetto della sua vita, affetto fervidamente ricambiato, fu quello che lo |

lego a Lorenzo il Magnifico, della cui casa fu frequentatore intimo e desideratissimo —

il « quinto elemento » —, e da cui ebbe aiuti,

protezione, incarichi e commissioni politiche. Negli ultimi anni le strettezze economiche, forse, lo indussero a mettersi al servizio del condottiere Roberto Sanseverino e ad abbandonare la sua Firenze per le citta dell’Italia settentrionale; ma anche allora mantenne con Lorenzo, come appare dalle lettere, frequenti e affettuosi rapporti. Mori a Padova nel 1484.



L’opera per la quale il suo nome rimane nella storia della poesia é il Morgante. I] Pulci s’accinse a comporlo, per sug+

gerimento di Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo, intorno al ’60. Non aveva allora, né molto probabilmente ebbe in se-

guito, un piano definito, una concezione organica e unitaria dell’opera; la quale venne via via maturando, ampliandosi e arricchendosi con gli anni, e diventando a poco a poco lo specchio dei mutevoli umori e delle bizzarre fantasie, dei sogni e dei pensieri dello scrittore. S’era proposto dapprima soltanto

di dar forma pil acconcia e signorile a un rozzo cantare quattrocentesco, l’'Orlando, del quale seguiva passo a passo la

trama, senza mutare l’ordine delle avventure narrate, e solo qua e 1a allargando un poco, ovvero abbreviando il racconto. Ma gia attraverso questa rielaborazione letteraria tutta la materia del poema assumeva una coloritura nuova, un’impronta individuale spiccata, una ricchezza di trovate comiche, lonta-’

nissime cosi dal tono ingenuamente fiabesco dei pit antichi cantari come dalla pedestre monotonia di quelli quattrocenteschi. Poi,-a mano a mano che il Pulci veniva componendo

la sua opera e affezionandosi alla materia (dapprima trovata e accettata, per dir cosi, a caso e senza un intento ben chiaro), il quadro ancora incerto della sua concezione si veniva variamente determinando e arricchendo di nuovi spunti e motivi fantastici del tutto estranei alla tradizione letteraria ‘del can-

tare cavalleresco e scaturiti, senza bisogno di suggerimenti esterni, dall’immaginazione bizzarra ed estrosa del nuovo poeta. Intorno al ’70 era finita la prima parte del poema, in 23 canti, della quale gia prima dell’80 comparvero edizioni a

stampa a Firenze e a Venezia; gli ultimi cinque canti furono probabilmente composti nel decennio successivo, e |’opera tutt’intera stampata per la prima volta a Firenze nel 1483. La trama del Morgante é, in apparenza, semplice e lineare. Or-

lando paladino é bandito dalla corte di Carlo Magno per’le mene del traditore Gano di Maganza, e se ne va, oltre i confini di Fran-

cia, in Pagania. Capitato a un convento, uccide due dei tre giganti che di continuo sottoponevano i monaci alle loro vessazioni; il terzo

gli si sottomette e si fa cristiano: é¢ Morgante, che, armato di un enorme battaglio di campana, diventera d’or innanzi il suo scudiero umile e fedele. In Pagania, Orlando é raggiunto dal cugino Rinaldo, anche lui sdegnato contro Carlo, che, vecchio e rimbambito, si lascia

raggirare e condurre a sua voglia dall’infido Gano. Rinaldo e OrJando compiono, etrando con varie peripezie per le terre d’Africa e d’Asia, molte e singolari traditore maganzese continua

imprese. Intanto, in loro assenza, il le sue frodi, sia in Francia eccitando

Vira dell’imperatore contro gli amici e i parenti dei due paladini ribelli, sia in Oriente promovendo contro di essi ostacoli e agguati d’ogni genere. Solo quando i Saraceni minacciano dal confine dei Pirenei

la Francia,

accorrono

Rinaldo

in aiuto di Carlo

e Orlando,

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dove Orlando e i suoi muoiono dopo eroica resistenza. L'imperatore,

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sopravvenuto ¢ riconosciuto il tradimento, giudica e punisce il ribaldo maganzese facendolo squartare. Sul filo di questa vicenda lineare, offerta al Pulci dai can-

tari popolareschi, s'innestano via via gli infiniti episodi, le pause e le digressioni, le rapide comparse di personaggi mi-

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noti, per cui il Morgante appare al lettore cosi ricco e cosi

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vario e cosi disordinato al tempo stesso, privo di un motivo unitario che lo domini e lo organizzi in tutte le sue parti, — eppur tanto vivo e divertente nella moltitudine degli spunti

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poetici che in esso si alternano e si sovrappongono secondo il

prs

bizzarro umore

a

guaggio e le maniere dei canterini di piazza e di rinnovare,

dello scrittore. Il gusto di riprodurre il lin-

.

con animo tra il curioso e l’ironico, la materia delle loro can-

Eki,

zoni, é senza dubbio il motivo animatore di una larga parte

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del poema, ma non il solo; ché altrimenti il Morgante sa-

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rebbe venuto fuori atteggiato nei limiti di una commossa variazione e riproduzione tra il serio e il faceto della lettera-

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tura popolare, e sarebbe, come di fatto € in certi episodi e in certe pagine e come sara la Nencia del Medici, soltanto un piccolo capolavoro di poesia locale e dialettale, cittadinesca e fiorentina. Gli schemi e i modi delle narrazioni, le invo-

cazioni religiose al principio e al termine di ciascun canto, il tono tra di ammirazione e di familiarita scherzosa con cui l'autore tratta i suoi eroi, i commenti. arguti vivacissimi e spregiudicati, i dialoghi e i battibecchi di un realismo schietto e talora plebeo, le novellette e i proverbi che infiorano i di-

scorsi dei paladini, il linguaggio infine ricchissimo e pittoresco che largamente attinge all’idioma parlato, sono gli aspetti esteriori in cui si concreta questo elemento popolareggiante e dialettale del poema. Ma nel Morgante c’é dell’altro, che con quell’elemento si fonde o meglio si mescola senza riuscire ad accordarsi. C’é la simpatia del Pulci, ora curiosa ed ironica ora affettuosa e disposta al consenso, per il mondo

degli esseri scaltri e abili, dei furfanti intelligenti e pronti, degli avventurieri senza scrupoli e degli uomini in genere che vivono alla giornata di espedienti e di rapine: di questo

mondo partecipano non poco con le loro maniere spicce, il loro umore vagabondo e incapace di affetti tenaci, la loro enorme voracita, i paladini medesimi:

Rinaldo, lo stesso Or-

lando e il buon scudiero Morgante; ma l’eroe di questo mondo ¢ Margutte, mezzo gigante e furfante compiuto, artista di tutti i vizi e di tutti i delitti, cinico e sfrontato, allegro de-

linquente, che di tutta la sua vita fa un giocondo capolavoro

di bricconeria, e muore alfine scoppiando dalle risa nel vedere una bertuccia che, mentr’egli dormiva, s’era calzata i

suoi usatti. Poi c’é nel Morgante il vario e intermittente sfogo delle idée e dei sentimenti, degli umoti e delle immaginazioni del poeta, e in particolare delle sue opinioni filosofiche

e dei suoi dubbi religiosi: ché il Pulci s’interessava a modo

suo intensamente dei problemi della fede, e s’era accostato alle scienze occulte, ai misteri della cabala giudaica, ai testi delle dottrine averroistiche, e aveva mostrato talora di non credere

troppo ai miracoli

narrati

nelle Sacre Scritture, né

all’immortalita dell’anima individuale, né al dogma della Trinita. Anche questo motivo, che serpeggia in varie parti del

poema, sincarna pit pienamente in un personaggio, nel dia-

volo Astarotte, evocato dal mago Malagigi perché trasporti a volo Rinaldo. dall’ Egitto a Roncisvalle in aiuto d’Orlando:

questo diavolo savio e cortese discorre, con profonda esperienza, di argomenti scientifici; tratta, con devozione e serieta

di teologo approfondito, della sapienza giustizia e prescienza divine; rivela a Rinaldo che oltre le colonne d’Ercole sono, agli antipodi del nostro mondo, altre terre, citta, castelli,

iroperi; fa infine aperta professione di tolleranza religiosa, dichiarando che a Dio ogni teligione piace purché sinceramente accolta e fedelmente osservata. Margutte e Astarotte sono i due personaggi piu nuovi €

i pit famosi del poema e stanno ad attestare l'ampiezza e Vintrinseca varieta dell’ispirazione artistica del Pulci. Accanto

ad essi si dispone tutta la folla degli altri personaggi grandi

e piccoli: Rinaldo, Orlando, Carlo, Morgante, Uliviert, l’ar-

civescovo Turpino, il traditore Gano; le innumerevoli figure di secondo piano:

paladini, principi € guerrieri pagani, gt Antea;

gantt € mostri; 'ardita guerriera 41.



Saprecno,

Disegno

stor.

della

lett.

it.

la bella Florinetta.

che Morgante e Margutte tolgono da crudele prigionia; e i profili leggiadri e un po’ stilizzati delle principesse innamorate:

Forisena, Meridiana, Luciana, Chiarella. Questo gran

numero di personaggi, con la moltitudine delle situazioni e dei casi cui esso da origine, comporta un’altrettanto grande varieta e ricchezza di intonazioni poetiche. La nota predominante é quella comica, che non solo ispira le gesta enormi e la strana morte di Morgante, la rappresentazione alquanto caricaturale di re Carlo, quella pit fine e arguta dell’arcivescovo Turpino, ma anche penetra nelle gaie storie d’amore, e perfino nei quadri, che vorrebbero essere epici e drammatict, delle battaglie, e infine da il tono alle mille avventure e

peripezie che gli eroi incontrano sulle strade e nelle soste dei loro viaggi. Ma accanto a quella comica, non mancano le ispitazioni tenere e gentili e le note profondamente umane e commosse. Caratteristico del Morgante é anzi questo continuo fondersi e mescolarsi di tonalita diverse e contrastanti; per

cui non soltanto si passa rapidamente da una rappresentazione di avventure furfantesche a un idillio amoroso

e poi

al racconto di gesta eroiche e di straordinarie imprese; ma, nei limiti di un medesimo episodio, il motteggio arguto cede il posto all’umana commozione, lo spunto comico e giocondo irrompe irresistibile fra gli accenti pit tristi ed austeri. Si

veda, nell’episodio di Florinetta, come il tono di fiaba leggiadra e primaverile, che anima il racconto che la fanciulla fa

delle sue vicende, trapassi in quello tra comico e grottesco della battaglia di Morgante e Margutte contro i due giganti, € poi in quello gaiamente avventuroso-del viaggio che la fanciulla intraprende con i-due strani salvatori, presto acconcian-

dosi e accordando la sua natura con le maniere rozzamente bonarie dello scudiero di Orlando e con quelle ardite sfrontate e intraprendenti del suo bizzarro compagno. Si veda anche lo strano alternarsi di commozione e di comicita, e il con-

tinuo trapassare dal grandioso al grottesco e al burlesco, nella rappresentazione della battaglia di Roncisvalle e della morte di Orlando. Nell’arte — come negli affetti — il Pulci s’avvicina spesso alle maniere della letteratura popolare, e ne accoglie non

o

e

di rado gli schemi alquanto approssimativi e frettolosi; il suo linguaggio e il suo stile, per altro, non s’adeguano affatto ai

modi dei cantastorie popolari, né d’altro canto si fondono

con le maniere della tradizione aulica: piuttosto per certi aspetti si ricollegano allo stile dei rimatori realistici e burle-

schi. Cid che soprattutto distingue quel linguaggio e costitui_ sce appieno la sua singolarissima fistonomia, ¢ la mobilissima

e straordinaria inventivita del poeta; in cui piu che altrove si

scoprono le qualita singolari del Pulci: quella sua fantasia

esttosa e quella vivace attitudine a rappresentare e colorire con mano rapida ma sicura, che fanno del. suo Morgante uno

dei libri pit geniali e pit vivi della nostra storia letteraria.

5. Il Boiardo. — Assai diverso da quello del Pulci é, nei confronti della stessa materia fantastica derivata dai cantari e dai somanzi cavallereschi, l’atteggiamento di un altro poeta del tardo Quattrocento: MaTrEo Maria Borarpo. Si puo dire in un certo senso che, mentre il Pulci rispecchia gli spiriti dell’ambiente fiorentino, cittadino e popolare, spregiu-

dicato e moderno, il Boiardo invece riflette i gusti piu antiquati e provinciali, ma anche il signorile ritegno e la gentilezza, delle corti dell’Italia settentrionale. Il Boiardo nacque nel 1441 a Scandiano, presso Reggio, da famiglia nobile e devota agli Estensi. Dedicd gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza agli studi, sopprattutto letterari, sotto la guida dell’avo materno Feltrino e seguendo le orme dello zio Tito Vespasiano Strozzi. Dal 1460 si trové solo a reggere l’avito feudo di Scan-

diano, donde si recava di tempo in tempo a Ferrara per partecipare a qualche festa di corte ovvero seguire il principe in qualche missione diplomatica; del resto trascorreva i giorni fra gli studi e la caccia. Nel ’76 si trasferi stabilmente a Ferrara, come familiare del

duca Ercole. Tra 1’ 80 e I’ 82 ebbe l’ufficio di capitano ducale a Mo-

dena; nell’ 87 fu inviato con lo stesso grado a Reggio, dove mori nel dicembre del ’94. Ebbe cultura umanistica, ma non molto ampia né profonda. In latino dettd, in lode di Ercole d’ Este, 1 Carmina de laudibus Esten-

sium e dieci egloghe allegoriche: opere di scarso pregio. Dal latino tradusse Cornelio Nepote e Apuleio; e servendosi di versioni latine (ché pochissimo sapeva di greco) volgarizzd la Ciropedia di Seno-

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fonte ¢ le storie di Erodoto. Altre opere minori sono la Storia imperiale (condotta, a quanto J’autore afferma, sulla traccia di un testo

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oggi perduto del ferrarese Riccobaldo) e il Timone, riduzione per il teatro di un dialogo di Luciano. Di tante cose ch’egli scrisse, rimangon vivi e interessanti per il lettore di oggi soltanto il canzoniere, o pit esattamente gli Amorum libri tres (come volle in-

a

titolarlo, a imitazione d’Ovidio, il Boiardo), che, pur accogliendo motivi petrarcheschi e reminiscenze classiche, rimane spontaneo ¢ fresco, ed é la pit ricca e interessante raccolta di poesie liriche del Quattrocento, la pit calda e la pit sincera; e l'Orlando innamorato, di cui il Boiardo inizid la composizione circa il 1476, lasciandolo

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poi bruscamente interrotto alla ventesimaquinta ottava del canto nono della terza parte, quando I’irruzione in Italia degli eserciti di Carlo VIII venne a distrarre dolorosamente il poeta dalle sue fantasie.

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Alla trama dell’Orlando innamorato fornisce gli elementi essenziali il ciclo carolingio, con 1 rapporti e 1 contrasti tra i Franchi di Carlo Magno e i Mori d’Africa e di Spagna; ma il contenuto e il tono della maggior parte delle avventure — amori, incantesimi, viaggi di cavalieri erranti — derivan piuttosto dalla materia di Bretagna. Quel processo, per cui gli elementi e le caratteristiche delle leggende brettoni si insinua~ no a poco a poco nei rifacimenti italiani dei poemi carolingi

; .

e ne modificano profondamente l’intonazione, sostituendo allo

spirito epico e guerriero la curiosita per i casi romanzeschi e per le storie d’amore, raggiunge il suo culmine nel poema del Boiardo, dove Orlando stesso, il paladino sordo fin qui a tutte le lusinghe delle passioni e intento soltanto alla difesa della . patria e della fede, si trasforma anche lui in un cavaliere in-

namorato, che anzi dell’amore fa la ragione unica e suprema di tutto il suo operare. Il poema si apre con la descrizione di una grande giostra bandita da Carlo Magno in Parigi; mentre l’imperatore tiene a banchetto oltre ventimila cavalieri cristiani e pagani, si presenta a lui

.

la bellissima Angelica, figlia di Galafrone re del Cataio; essa sfida

tutti i guerrieri presenti col patto che chi sari vinto in duello dal fratello di lei Argalia (munito di armi fatate) diverra suo prigioniero, chi riuscira a vincerlo otterra lei in premio. Tutti i cavalieri

s'innamorano subito di Angelica e per amore

di lei accettano la

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sfida. Argalia @ ucciso dal saraceno Ferraguto; Angelica fugge, inseguita da Orlando e da Ranaldo, cui la passione fa scordare tutti gli obblighi che essi hanno verso |’imperatore e verso la cristianita. Ma, giunti nella selva Ardenna, Ranaldo beve a una fonte che lo fa disamorare, proprio al momento stesso in cui Angelica per effetto dell’acqua di un’altra fonte, s’innamora ardentemente di lui. Angelica poi si rifugia nel castello di Albracca, dove é difesa da Orlando e dal re circasso Sacripante, contro gli assalti di Agricane re di Tartaria- Intorno a questa guerra, in cui tutti i contendenti son mossi dall’amore, vengono a raccogliersi i mille episodi secondari che s'intreeciano e s’accavallano, dettati da una fantasia abbondante

ed estrosa. La lotta ha il suo culmine nella commossa rappresentazione del duello fra Orlando e Agricane, terminato con la morte del re tartaro. Nella seconda parte del poema il nucleo della trama 2 costituito dalla guerra del re africano Agramante, il quale invade la Francia insieme col figlio di Agricane, Mandricardo, con Marsilio re di Spagna, e col terribile re di Sarza, Rodomonte. In Francia accorre allora anche Orlando, non tanto per venire in aiuto del suo

signore, quanto perché cola lo trascina Angelica, la quale insegue Ranaldo, di cui é sempre pit: innamorata. Senonché avendo di nuovo entrambi bevuto con mutata vece alle fonti incantate, Angelica prende ad odiare Ranaldo, e questi ad amarla con tanto furore che per

lei viene a duello col cugino Orlando. Li separa Carlo Magno, il quale affida Angélica al vecchio Namo, perché sia data in premio a quello dei due paladini che nella prossima battaglia fara maggior strage di nemici. Qui il poema s’interrompe, al punto dove lo triprendera, per continuarlo e condurlo a termine, l’Ariosto.

Nello svolgere la sua trama il Boiardo procede, non a caso, bensi secondo un disegno prestabilito, con ordine, in-

trecciando con sapiente equilibrio i mille fili della sua fantasia. Pure, il poema manca

di una solida struttura, di una

architettura organica, e appare come una fantasmagoria di vicende ¢ di avventure, che si susseguono sorrette solo dal capriccio di una immaginazione impetuosa e incalzante, che si diverte ad inventare nuovi e complicati casi, a creare nuovi

personaggi, a collocare quelli gid conosciuti in situazioni imprevedute e bizzarre. Alla sua materia, il Boiardo s’accosta

con un interesse, che non é quello misto di simpatia e di ironia del Pulci, intento a riprodurre, col contenuto,

anche le

caratteristiche formali tipiche dei suoi modelli popolari: al

'

Boiardo quella materia interessa per sé medesima, indipen- |

dentemente dalla forma che le han dato i canterini, per la ricchezza e la varieta di spunti narrativi e drammatici che essa

contiene. Il motivo ispiratore del suo canto é proprio il gu-— sto, in lui vivo e caldo, per le forti passioni, di cui egli sente

l'impulso animatore nelle narrazioni popolari: l’amore, il senso dell’onore, la superbia del guerriero, la violenza e l’astuzia delle creature energiche e primitive. E un motivo di poesia, privo di risonanze profonde, un po’ esteriore e di non lunga lena; ma pur si svolge, nel Boiardo, con molte e varie

intonazioni e gradazioni, e suscita episodi e figure dotati di vita perenne: il bellissimo quadro iniziale, grandioso e mosso,

dove lo splendore di Angelica risalta sulla folla stupefatta dei guerrieri e sul fasto della corte; la potente figura di Rodomonte; il patetico colloquio notturno fra Orlando ed Agricane; le comiche vicende di Astolfo e le imprese ladresche di

Brunello. Questo gusto dell’energico e del primitivo si manifesta anche nei modi dello stile e nelle caratteristiche dell’arte: nel linguaggio pittoresco e fiorito, nella struttura rapida e e un po’ trasandata dei periodi e delle ottave, e nel modo di

Marrare, senza indugi né chiaroscuri, a segni gagliardi e potenti ma un po’ sommari. Appunto quel che é di rude e di |

incondito nel Boiardo, anche nei momenti dove le sue fantasie si fan pit delicate e gentili, ha attirato verso il suo poema

l’interesse e la simpatia dei lettori moderni, educati al gusto romantico, e ‘pronti a cercare nelle opere di poesia il calore

e il sentimento pid che non l’eleganza della forma; laddove il concetto dell’arte dominante in Italia dal XVI al XVIII secolo aveva indotto a disprezzare e quasi a obliare la fatica del Boiardo, soprattutto dopo il rifacimento dell’ Orlando composto nella prima meta del Cinquecento dal Berni in

buona lingua fiorentina, con spiriti faceti ed arguti, ma borghesemente dimessi.

6. Il Magnifico. — Pit complessa e pit difficile a definirsi € la figura di LorENzo pg’ Mepict detto il Magnifico (1449-1492), signore di Firenze e principale animatore della politica italiana nella seconda meta del secolo; protettore e

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oe Cars , ~Wien LORENZO ILMAGNIFICO8

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ke

-amico di letterati e artisti; mente versatile e prontissima, aperta a tutte le idee e a tutte le tendenze, capace di acco-

gliere con animo uguale interessi diversi e talora opposti. Nel campo letterario, le sue opere numerose testimoniano di questa versatilita, ma, appunto per la varieta discorde dei loro

motivi ispiratori e dei loro caratteri artistici, lasciano il critico perplesso e dubbioso della sincerita e della profondita di una vena poetica. autentica. In mancanza di sicure informazioni cronologiche, sara bene raccogliere queste opere, per enumerarle, in gruppi fondati su determinate caratteristiche di contenuto e di forma. Concetti attinti al platonismo di Marsilio Ficino, appaiono nelle Selve d’ Amore, poema in ottave rivolto a ritrarre i momenti essenziali della vicenda amorosa,

in forme e con immagini che a tratti rammentano i modi del Poliziano. Le reminiscenze classicheggianti e gli spiriti umanistici, non estranei a quest’opera, dominano nell’ Ambra, poemetto in ottave che

ticorda anche il Ninfale fiesolano del Boccaccio; nelle egloghe in terzine d’argomento mitologico, e in quella che esprime i lamenti ¢ le preghiere amorose del pastore Corinto. L’imitazione dei modi della letteratura borghese e cittadinesca, con le sue rappresentazioni realistiche, i suoi gusti satirici e parodistici, le sue tendenze popolareggianti, compare evidentissima nella Caccia col falcone, nella Nencia di Barberino, nelle ardite e scherzose canzoni a ballo, e nei canti

carnascialeschi e nei trionfi scritti per le mascherate simboliche che percorrevano le strade della citta nei giorni del carnevale. Con queste poesie che esaltano il piacere e incitano a cogliere in tempo la volutta dell’attimo che fugge, fanno singolare contrasto i capitoli religiosi, patafrasi in terzine di testi biblici e neoplatonici; le /aude,

che esprimono, nei modi consueti alla letteratura popolare devota, un sentimento di fede schietto; e la sacra rappresentazione di San Giovanni e Paolo.

La varieta degli spunti e degli atteggiamenti sentimentali,

quella non minore delle derivazioni letterarie e degli intendimenti artistici, che caratterizzano la lunga serie degli scritti del Magnifico, giustificano la perplessita e i discordi giudizi dei critici; i quali hanno finito per considerare Lorenzo come

un dilettante che si diverte ad esplicare la sua multiforme bravura nelle pit disparate materie, senza aderire col cuore a nes-

suna; ovvero hanno isolato e posto in risalto uno fra i molti

aspetti della sua produzione, ad es., la sensualita o il realismo, e quello solo hanno accolto come espressione sincera del suo spirito; o ancora, di recente, hanno attribuito al dilettan-

tismo del Medici un valore positivo, trattandolo come un se-

gno dell’indole fantastica di questo scrittore, istintivamente ricca e fervida, antiletteraria e antiumanistica in un secolo di umanisti ¢ in un ambiente di letterati. Soluzione quest’ultima

evidentemente paradossale; ché, il Magnifico era proprio — come appare dalla moltitudine stessa delle sue scritture, cosi diversamente orientate negli spiriti e nelle forme, ma pur tutte

legate a una o ad un’altra maniera di espressione artistica — anzitutto un letterato. Alle radici delle pagine poetiche del Medici, é invero un interesse critico, l’atteggiamento di un lettore intelligente dinanzi ai libri, di un uomo troppo intelligente dinanzi alla vita: nel quale l’adesione non diventa mai partecipazione, l’interesse non si tramuta in simpatia, la comprensione sottile e penetrante non trabocca mai, 0 quasi mai,

nel palpito semplicissimo e cordiale dell’affetto.

Lorenzo, con la sua fine intelligenza e la sua ‘non comune acutezza di psicologo, é non di rado un ammirevole inventore di situazioni poetiche; ma egli si contenta di travestirle in una forma ripresa dalla molteplice tradizione letteraria, forma sempre un po’ approssimativa, e come sovrapposta. Anche il

realismo in lui (cosi spesso lodato dai critici) é per lo pit

incapacita di trasfigurare liricamente il contenuto della realta e di raccogliere in una visione unica la somma infinita dei particolari — insieme con un’attitudine straordinariamente intensa a cogliere e a rappresentare appunto il particolare preso

per sé: in altre parole, predominio dell’intelligenza analitica sulle facolta immediatamente

intuitive e sintetiche.

L’atteggiamento critico del Medici spiega |’intrusione frequente nelle sue opere, anche nelle migliori, di un elemento prosaico; donde la frammentarieta e i limiti di un’arte pure

per tanti rispetti viva e ricca d’interesse. Anche il Magnifico d’altronde ha la sua particolare poesia, che si esplica attraverso l’adesione consapevole e compiaciuta a un mondo affettivo esteriore e risentito come proprio: una poesia piuttosto scenica che lirica, piuttosto corale che individuale. II gusto

o

ro intellettuale e la pieghevolezza dell’abito critico guidano lo

scrittore a plasmare la materia mutevole e quasi inconsistente de’ suoi affetti sulla traccia dei modelli che la realt4 circo-

stante gli offre.

Nella Nencia di Barberino, che & forse (se é veramente sua) l’opera pit fappresentativa del suo temperamento, il

poeta riveste i panni d’un contadino innamorato, con piena adesione sentimentale e anche linguistica, e pur serbando al _ tempo stesso perfetta coscienza del suo travestimento: e proprio questa coscienza da al poemetto la sua particolare intona-

zione, quella sfumatura di sorriso malizioso che scorre per le ottave e le illumina, pur senza mai abbassarle al tono della

parodia. Meglio ancora nei canti carnascialeschi, e soprattutto in quel capolavoro che é il Trionfo di Bacco e Arianna, il Medici assume addirittura i sentimenti e i gusti di una folla, e quasi parla per bocca di tutto un popolo, si che, come é stato detto non a torto, non si riesce a vedere dietro a quei versi un uomo solo, un poeta, e non si sa immaginarli se non

cantati da un coro festante. La quale considerazione potrebbe ripetersi per tutti quei passi, nell’opera del Medici, dove si

leva il canto ebbro e trepidante della sensualita e della giovinezza bellissima e fuggevole: nei quali il poeta si fa portavoce del sentimento di tutta un’eta, cantore di un’ebbrezza vasta e diffusa quanto indeterminata e povera di rilievo individuale.

7. Il Poliziano. — Lo scrittore che meglio di tutti trasferisce in un piano poetico i gusti, le tendenze e gli esperimenti letterari dell’umanesimo,

€ ANGELO AMBROGINI, detto

il PorizraNo dal nome latino di Montepulciano, dove nacque nel 1454. Il Poliziano formd la sua cultura nello studio di Firenze, dove

ebbe maestri di dottrine platoniche e aristoteliche il Ficino e l’Argiropulo, di lingua e letteratura greca Andronico Callisto e il Calcondila, e segui anche le esposizioni di poeti latini e volgari del Landino (cfr. § 1); pit che dai maestri afferma tuttavia di aver appreso direttamente dai libri. A sedici anni era gia cosi padrone delle lingue classiche da tentare la versione in latino dell’I/iade: ne tradusse i libri dal secondo al quinto, in esametri virgiliani eleganti e un po’

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45

frondosi. La fama procuratagli da questo lavoro lo trasse dalla mi-

seria, contro cui aveva dovuto combattere in quei primi anni del suo

soggiorno fiorentino, e indusse forse il Magnifico ad accoglierlo in casa nel 1473, affidandogli Vistruzione del figlio Piero e poi di Giovanni, il futuro Leone X. Gli anni fra il ’71 e 1’80 furono quelli che — videro sbocciare tutta la ricca e varia fioritura della poesia del Poliziano: gli epigrammi greci e latini, e le odi latine; le canzoni a ballo, i rispetti; le Stanze iniziate nel ’75 per una giostra in cui trionfé Giuliano de’ Medici e rimaste interrotte nel '78 per l’improvvisa morte

di Giuliano, vittima della congiura de’ Pazzi; l’Orfeo,

composto nel giugno del 1480, in occasione di certi fidanzamenti principeschi di casa Gonzaga, a Mantova, dove il Poliziano aveva trovato

rifugio e protezione dopo esser partito nel dicembre del ’79 da Firenze, esule volontario in seguito a certi contrasti col Medici e pit con la moglie di lui madonna Clarice. Rappacificatosi con il Magnifico, l’Ambrogini rientrava prima dell’agosto dell’ 80 in Firenze, dove ebbe, per la protezione del signore, titoli e benefici ecclesiastici e la cattedra d’eloquenza greca e latina nello Studio, cattedra che egli tenne fino alla morte avvenuta nel settembre del 94. Furon gli anni questi degli studi eruditi e filologici, delle prolusioni in prosa e in versi, dei Miscellanea (messi a stampa nell’ 89), e delle dotte dispute

intorno al metodo critico e allo stile latino, per cui I’Ambrogini sostenne il concetto d’una J/iberta stilistica, frenata dal gusto e educata attraverso una vasta e varia lettura dei classici.

Presi nel loro aspetto esterno, le Stanze e l’Orfeo s’inquadrano nelle forme consuete della letteratura in volgare; mentre nella loro pit intima sostanza son l’espressione del sogno

singolare e appartato di un originalissimo poeta. Le Stanze , per Ja giostra appartengono, per l’argomento, al genere dei poemetti celebrativi di spettacoli e trionfi agonistici e di altri siffatti componimenti del secolo XV; senonché la parte descrittiva del torneo e di esaltazione del vincitore non é stata scritta dal Poliziano, e il primo libro del poema, in cui lo scrittore é riuscito ad esprimersi compiutamente, ci trasporta, ol-

tre ogni intento di adulazione e di piccola cronaca, lontano dalle citta e dalle corti, in un piano di mirabili e irreali fantasie. Anche i personaggi attinti al mondo contemporaneo —

Giuliano de’ Medici e la donna per amore della quale egli dovra correre e vincere la giostra, Simonetta Vespucci —

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aiono nelle Stanze trasfigurati: Giuliano é diventato Lulio,

gura di giovane iddio bellissimo e selvaggio; Simonetta, _¥

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senza mutar nome, prende forma di ninfa in cui s’incarna Videale della bellezza perfetta e serena. La scena dell’incon-

tro fra i due protagonisti — l'improvvisa apparizione della lieta ninfa; i suoi-atti gentilissimi e regali, la trepida preghiera di Iulio, le parole di Simonetta che creano intorno alla figura di lei un’atmosfera di divino incanto — si svolge con modi e forme che distruggono, assorbendoli e trasfigurandoli, Retutti

1 particolari dell’umile realta quotidiana. La scena é una

campagna primaverile, che esclude anch’essa ogni elemento realistico, e dove i colori e le grazie hanno qualcosa di eternamente immobile e di perfetto che richiama alla mente i paesaggi bellissimi e irraggiungibili delle favole pagane. Fra tali personaggi e in tale ambiente non stonano, anzi appaiono naturali, le reminiscenze della mitologia: Cupido e Venere accanto a Iulio e a Simonetta; il regno di Cipri, con la sua eterna primavera, vicino al « fiorito e verde prato » dell’ideale

incontro. L’aspirazione ad evadere dalla misera e squallida realta d’ogni giorno, per rifugiarsi nel clima di eterna e ideale bellezza creato dai poeti classici, che nella maggior parte degli umanisti era una vaga nostalgia idillica incapace di superare i limiti della biografia, acquista nel Poliziano quella misura di ideale gentilezza e quella forza di necessita per cui dal piano delle arbitrarie e superficiali immaginazioni trapassa a quello della universale poesia. Il pretesto della giostra scompare: e fu fortuna forse che la morte improvvisa di Giuliano dispensasse il poeta dallo sforzo di compiere la trama dell’opera, non pit sorretto dall’ispirazione poetica iniziale,

che gid appare venuta meno nel frammento superstite del secondo libro. Tutte le ottave cantano, non la gloria di Giuliano, si il mondo ideale in cui si rifugia la fantasia del poeta umanista, mondo

dove la bellezza é senza macchia, la vo-

Jutta fluisce uguale e senza

spasimi, € il dolore stesso s’at-

tenua in elegia fissandosi in forme immutabili e scultorie.

Questo mondo umanistico si traduce naturalmente in un

linguaggio che, a prima vista, rassomiglia a quello dei poet

latini del Quattrocento, tutto contesto di parole, di modi, di

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immagini attinti tali e quali ai classici, dove peraltro

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miniscenze letterarie si fondono mirabilmente in una musica

nuova, a quel modo che le favole antiche sono ricreate nella

luce di una fantasia capace di risentirne il fascino in maniera

originale e stranamente intensa. In virti di questa educazione classica, l’ottava dei cantari popolari, cosi informe, rotta e monotona ancora nel Boccaccio, acquista unita, armonia, varieta e ampiezza di sviluppi, flessuosita di movenze, cosi da

adeguarsi in ogni momento alla dignita e alla delicatezza della nuova materia. Da questa educazione classica la poesia

delle Stanze riceve anche |’impronta che la contraddistingue rispetto alla tradizione letteraria precedente: per cui l’idealita del Poliziano suona cosi diversa, pagana e mitica, a confronto

di quella cristiana e celeste della lirica cortese del Due e del Trecento; la squisitezza della sua arte cosi lontana, nelle origini e nelle aspirazioni, da quella, ad esempio, di un Petrarca;

la stilizzazione delle sue figure e dei suoi quadri naturali cosi diversamente atteggiata e determinata da quella che s’incositra nei poeti dello stil novo; la sua maniera poetica infine,

descrittiva e plastica, tutta intesa sull’esempio degli antichi a tradurre il sentimento in un mondo oggettivo di limpide e belle immagini, senza intrusioni di soggettivo fervore, senza impaccio di preoccupazioni teoriche né sostegno di filosofiche meditazioni, cosi aliena dal tono interiore e lirico, raccolto

e profondo, denso di sapienza psicologica ma povero di immagini e di colori, della letteratura dei primi secoli. In tal modo le Stanze, creazione di una mente originale e superiore, sono al tempo stesso la massima espressione poetica dello spirito di tutto un secolo, il supremo

fiore artistico di un

grande movimento di cultura, e ne traducono in atto l’aspitazione letteraria di classicismo formale, mentre danno nuova

€ pit commossa voce, pil acutamente nostalgica e intimamente melanconica, a quel motivo della bellezza e della giovinezza che fugge cosi caro a tutti gli scrittori del Quattrocento, dal Pontano al Sannazaro, dal Medici al Boiardo.

Gli stessi spiriti e le stesse forme ritornano anche nelle scritture pid belle fra le minori del Poliziano: in alcune ballate e nella Favola d’Orfeo. La quale, nella storia del teatro,

importa come una delle prime, e forse la prima, rappresentazione scenica di materia profana della nostra letteratura; anche se la tecnica, nella disposizione delle scene, nel metro, nel modo di trattare la storia, resti in sostanza quella stessa dei drammi sacri popelari con in pit qualche elemento at-

tinto all’ egloga dialogata. Ma pit importa l’Orfeo nella storia intima del poeta, come nuova espressione del suo ideale

mondo fantastico: di quel mondo mitico, dove i sentimenti sono trasfigurati in atteggiamenti plastici di eterna e immutabile bellezza, e il contrasto delle passioni si svolge in un ritmo pacato, e come previsto, senza conflitto né dramma. Questo spiega perché |’Orfeo, pur ispirandosi a una delle favole antiche piu densa di passione tragica, non sia una tragedia, si piuttosto un idillio musicale, che ha momenti di gentilezza poetica non dissimili da quelli delle ballate pit famose e delle Stanze, sebbene nel complesso l’opera risenta uri poco della fretta e dell’improvvisazione, composta come fu «in tempo di dui giorni, intra continui tumulti ».

8. La prosa oratoria e scientifica: L. B. Alberti e

Leonardo. — Lo spirito umanistico opera non meno forte-

mente che sut- poeti, sui pid caratteristici prosatori del Quattrocento: come nuova concezione della vita, nei trattati dell’Alberti e nei frammenti di Leonardo; come aspirazione sen-

timentale idillico-edonistica, nel Sannazaro; indirizzo d’arte e di vita.

e in tutti come

Tempra di scrittore assai forte e originale ebbe LEON BATTISTA

ALBERTI.

Nato di famiglia fiorentina esule per ragioni politiche probabilmente a Genova, nel 1404, |’Alberti visse a Padova e a Bologna, dove

si form la sua cultura umanistica, giuridica e scientifica; indi a Roma, a Firenze, e a Ferrara, come abbreviatore nella curia pontificia; e

poi ancora a Roma, dove mori nel 1472. Fu uno degli ingegni pit versatili del suo tempo. Architetto grandissimo, nella facciata di Santa Maria Novella e nel Palazzo Rucellai a Firenze, nel tempio malatestiano di Rimini, nella basilica di Sant’Andrea a Mantova, mo-

stro di voler attuare un’idea di grandezza solida, maestosa e monu-

mentale, che precorre per certi rispetti i sogni di magnificenza di Bra-

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mante e di Michelangelo. Archeologo insigne, diede nella Descrip 1a: 1? urbis Romae il primo ragionato tentativo di ricostruzione della pianta di Roma antica. Teorico dell’arte fra i maggiori, trattd in latino in dieci libri De re aedificatoria; in volgare Della statua e Della pittura dando espressione rigorosa e compiuta alle nuove tendenze tecniche e alle aspirazioni classiche e antigotiche dell’arte quattrocentesca.

La versatilita dell’ingegno, la ricchezza e la complessita dell’indole, la vasta e varia cultura e la profonda adesione di tutto lo spirito alla mentalita nuova del Rinascimento, sono ‘attestati anche dai numerosi scritti pit propriamente letterart, in latino e in volgare, dell’Alberti. Molti di questi scritti muovono pi o meno esplicitamente, dalla esperienza dell’autore, dolorosa e dura, specie nella giovinezza contristata da malattie, da difficolta economiche e dall’ostilita di parenti esosi e malvagi; in tutti si sente un uomo che ha vissuto e. sofferto, e s’é fatto a sue spese un concetto delle capacita e dei doveri umani, non mai un mero letterato che discorra e teorizzi a vuoto, come accade in tanti trattati dell’eta umanistica. In alcune opere latine tuttavia (come nelle Intercoenales e nel Momus) l’Alberti si contentd, per dir cosi, di un equilibrio precario e provvisorio, letterario e non filosofico, risolvendo l’amarezza e il pessimismo dei suoi pensieri in forme di rappresentazione tra umoristica e satirica modellate

sugli schemi del greco Luciano. Ma anchein esse, si fa strada, su quel fondo di rappresentazioni ironiche e sconfortate, un

pit alto e profondo concetto, che afferma il valore immanente della virth e della giustizia, e la suprema dignita della ragione, con cui l’uomo vince e domina, in certo senso, la fortuna e si crea, entro certi limiti, il ptoprio destino. Con-

cetto, che ispira le opere in volgare di Leon Battista: il Teogenio, i quattro libri Della famiglia (1437-41), il trattato Della tranquillita dell’animo (1442), e i tre libri De iciarchia

(1470). Queste opere discorrono, rispettivamente, dell’educa-

zione dei figli e dell’economia domestica; del modo di far fronte con rassegnato stoicismo alle pene della vita; e del

governo della famiglia e dello stato. Da tutte emana un senso di saggezza dignitosa e di sereno equilibrio, che si riflette nei modi pacati e nobili della meditazione, nel ritmo

decoroso composto e sobriamente eloquente dello stile. Piut-

tosto artista che filosofo, |’Alberti non tanto ragiona, quanto dipinge Videale etico suo e dei suoi tempi; cogliendolo. precipuamente nelle sue apparenze estetiche: decoro di atteggiamenti, armoniosa grazia dei pensieri, perfetta euritmia di sentimenti. Confluiscono nella sua prosa tutti gli aspetti e i momenti essenziali della nuova concezione della vita: la rivendicazione della liberta umana, della virti, contro la cieca vicenda della fortuna; l’esaltazione dell’uomo; l’ideale della

moderazione e della temperanza; |’elogio dell’aurea mediocritas. E vi si avverte anche l’artista e l’uomo di gusto, che accoglie nell’animo la letizia dei « giorni aerosi e puri», la gentilezza dei « piani verzosi » e dei « rivoli chiari » che si perdono « fra le chiome dell’erba », la « gracilita vezzosa » e la « sodezza robusta e piena » dell’architettura di Santa Matia dei Fiore. Questo ideale di serena bellezza e di armonia si rispecchia anche nello stile della sua prosa, consapevol-

mente rivolta a trasportare nel linguaggio volgare il decoro e la maesta, e insieme la felice disinvoltura, dei classici. E una prosa nuova, senza legami, o quasi, con quella di

Dante e dei minori trecentisti e scarsamente vincolata anche

al modello del Boccaccio; costruita direttamente sugli esempi latini, come l’architettura dell’Alberti su quella dei monumenti romani antichi. Nel complesso, pur con i suoi limiti

oratori e didascalici, rivela qualita artistiche non comuni e

porta l’impronta di un’intelligenza originale e vigorosa *). Sta a sé, nettamente distinto da quello di tutti i contemporanei, lo stile prosastico di LEONARDO DA VINCI

(1452-

1519). La sua figura appartiene alla storia dell’arte e a quella della scienza, piuttosto che non a quella della letteratura; le notizie tramandate dai contemporanei ci danno un’idea della sua multiforme e mirabile attivita come pittore, architetto, ingegnere idraulico, musico e cantore, anatomico e na2) Minor scrittore é il fiorentino MATTEO PALMIERI (1406-75) in quei dialoghi della Vita civile, che pure sono anch’essi_un documento

non trascurabile del nuovo spirito umanistico, applicato a una proble-

matica concreta.

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turalista. Dalle sue scritture, emana il tascino di uno spirito — gtandissimo e solitario; taluni dei suoi pensieri hanno una —

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misteriosa suggestione di profondita, che va oltre il senso immediato delle parole, e che é accresciuta anche dal modo

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frammentario e disorganico in cui sono giunti fino a not:

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disseminati confusamente nei manoscritti. Autodidatta e «omo sanza lettere », come egli stesso si proclamava, cioé

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privo di quella cultura tutta letteraria e alquanto esteriore

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di cui si facevano vanto molti fra gli umanisti, Leonardo non

una imponente mole di appunti, di notazioni, di abbozzi,

porta nelle sue scritture un intento d’arte, si la Lacy del tecnico e dello scienziato, la risentita vivacita del polemista, la freschezza spontanea e pittoresca di chi parla, senza pompa,

di cosa che gli sta a cuore e ch’egli conosce bene, lo spirito Be!

religioso dell’indagatore. E percio, senz’arte, egli raggiunge spesso lo stile: uno stile conciso e robusto, nient’affatto ricercato e pure intensamente personale, ricco a volte di suggerimenti poetici dove l’accento si fa pia commosso e il linguaggio pil immaginoso.

9. La prosa poetica: il Sannazaro. — L’ideale della prosa umanistica, applicata ad un contenuto di arte pura e di dilettazione, raggiunge risultati di poesia effettiva soltanto nell’ Arcadia del Sannazaro’). Nato

a Napoli,

Jacopo SANNAZARO

probabilmente

nel

1456,

di nobile

famiglia,

trascorse l’infanzia e l’adolescenza in campagna

con la madre in un ambiente alpestre e pastorale, che pit tardi do-

veva offrire spunto e materia alle sue trasfigurazioni poetiche. Tornato a Napoli nel ’75, si formd una vasta cultura classica e una mirabile perizia umanistica, di cui dette prova nelle sue scritture latine,

oggetto di cure pazienti e infinite e testimonianza di un’arte squisita e raffinata, che pur di rado e solo a frammenti s’illumina di luce poetica. Fu amico del Pontano e membro dell’ Accademia, col nome di

) Lo troviamo perd, pit o meno esplicito, in parecchie scritture quattrocentesche, fra cui @ da ricordare almeno il bizzarro romanzo

allegorico, dettato in uno stile turgido, irto di latinismi e di ellenismi, del frate trevisano FRANCESCO COLONNA: |’Hypnerotomachia Poliphili (1467).

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Azio Sincero. Fedele servitore della dinastia aragonese, prese parte alle imprese belliche di Alfonso duca di Calabria; e, quando nel 1501 il suo te Federico perdette il trono, egli vendette parte dei suoi beni per venirgli in aiuto, lo segui nell’esilio in Francia e non 1’abbandond pit. Talché a ragione poteva pid tardi vantarsi d’« aver serbato intatto il nome dell’amicizia e salda fino all’ultimo la fede dovuta a’ suoi re ». Tornato a Napoli soltanto nel 1504, dopo la morte di Federico, visse in disparte, per lo pit in villa, confortato dalla tenera amicizia di-una nobile e dotta signora, Cassandra Marchese, e tutto

dedito agli studi e alla composizione dei tre libri del De partu Vir-

ginis. Mori nel 1530.

Delle sue opere in volgare, il Canzoniere, per il suo petrarchi-

smo ievigato e un po’ scolorito, anticipa i modi della lirica cinquecentesca; I’Arcadia, composta, tranne le ultime pagine, fra il 1480 @ 185, e pubblicata a stampa la prima volta nella sua integrita nel 1504, é un romanzo pastorale, contesto di prose alternate con eglo-

ghe in versi. Sincero narra di esser capitato in Arcadia (cioé nella regione greca sacra per antica tradizione alla poesia bucolica), fuggendo da Napoli per sollevare l’animo afflitto da pene amorose. Jnvaghitosi a otto anni di una fanciulla bellissima, aveva visto in seguito crescer sempre piu la sua passione, senza osare tuttavia di confessarla, e sof-

frendo a tal punto da accarezzare a momenti lidea del suicidio. In Arcadia Sincero non trova, come aveva sperato, l’oblic del suo arnore

e la pace dell’animo: l’immagine della donna amata gli sta sempre nella mente e la tristezza della lontananza rende pit acuto il suo tormento. Egli prende parte alla vita dei pastori arcadi, ascolta i loro canti, assiste ai loro giochi, alle gare di canto, ai riti in onore della

dea Pale. Un giorno il pastore Carino, udita da lui la storia delle sue vicende sentimentali, |’esorta a bene sperare, e per consolarlo gli

narra d’esser stato anche lui per amore sul punto d’uccidersi e d’aver ottenuto l’affetto della sua pastorella proprio quando stava per abban_ donarsi alla disperazione. Nelle ultime parti, aggiunte in un secondo tempo a distanza di anni, Sincero prosegue narrando come, turbato da un lugubre sogno, si ponesse in cammino, e guidato da una ninfa per vie sotterranee, giungesse a Napoli, dove apprese la morte della sua fanciulla. Il libro si chiude con un melanconico addio alla sampogna, dove |’autore si vanta di essere stato, nel suo secolo, primo « a risvegliare le adormentate selve e a mostrare a’ pastori di cantare le gia dimenticate canzoni ».

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Secondo la tradizione della letteratura bucolica, il rac- A

conto dell’ Arcadia é un’allegoria a sfondo autobiografico. Ma il libro é ben lungi dall’essere il pretesto ad uno sfogo personale e appassionato;

é un’opera spiccatamente letteraria,

che ripone il suo pregio nel riallacciarsi alla poesia pastorale greco-romana; e vuol essere, come fu per secoli, considerata

quasi il compendio e il culmine del genere bucolico, in quanto alle egloghe tradizionalmente sparse da una trama unitaria, alle frammentarie visioni e canzoni dei pastori lo sfondo di un’architettura narrativa, sia pure tenuissima, uno

scenario,

un ambiente. Come tale l’Arcadia ebbe nel XVI e nel XVII secolo immensa fortuna e innumerevoli imitatori, non in Italia soltanto, ma nella Spagna, nel Portogallo, nella Francia

e nell’ Inghilterra. A risentire oggi, sia pure senza gli antichi entusiasmi, il fascino di un’opera come |’Arcadia giova il concetto di poesia letteraria: una specie di poesia indiretta, che alla realta umana si accosta solo in quanto essa é gia stata

investita e trasfigurata dalla magia dei poeti e ha ricevuto certe forme e certi colori ai quali, e non alla realta in sé, va

l’affetto e la nostalgia del poeta letterario. Il sentimento idillico della vita pastorale, come rifugio di pace, é cosi fuso

nel Sannazaro con l’altro affetto verso le belle forme poetiche che quella materia aveva gid assunto per opera di Teocrito, di Virgilio e di altri classici, che si pud dire che i due amori facciano tutt’uno nell’animo di lui. Tutta 1’Arcadia ha il sapore di un’elegantissima e commossa traduzione e il linguaggio e lo stile in cui ¢ composta son quelli di una traduzione appunto; non solo perché effettivamente vi si pos-

sono cogliere ad ogni passo reminiscenze e quasi versioni letterali di poeti antichi, greci e latini, grandi e minori, ma anche

perché tutti gli elementi singoli e il complesso della fantasia, che nell’Arcadia si svolge, sembrano preesistere al lavoro

del Sannazaro e si direbbe che egli non faccia altro che rac-

coglierli e trasporli, ordinandoli in leggiadro mosaico, in lingua volgare,

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VIII.

IL RINASCIMENTO

1. L’eredita dell’umanesimo e la nuova cultura. — Il Cinquecento raccoglie i frutti della lunga e laboriosa vigilia umanistica e li conduce a splendida maturazione. In esso tutte le aspirazioni e le tendenze della rinnovata cultura — l'approfondito e raffinato gusto artistico, la pit libera e mondana filosofia, l’umanita pid espansiva e cordiale degli affetti, il senso fortissimo della dignita e della potenza creatrice dell’uomo, il tenero vagheggiamento di un’idillica quiete dove l’occhio si plachi nella contemplazione di blande visioni campestri — trovano la loro pienezza, e anche, in un certo senso, il loro esaurimento. Nella mirabile fioritura di poesia

e d’arte e di pensiero del secolo XVI in Italia —

che ha

offerto, con Atiosto e Tasso, Raffaello e Michelangelo, Cor-

reggio e Tiziano, Machiavelli e Galilei (e intorno ad essi tanti minori letterati ed artisti, storici e uomini di scienza: minori, ma non di rado cosi interessanti), tutta una serie di

maestri e di modelli alla risorgente civilta europea — é nascosto infatti un principio di decadimento. Decadimento non tanto dell’arte e della poesia in sé, ma della civilta e della

cultura in cui l’arte e la poesia trovano le loro condizioni

storiche d’esistenza. Vero é che i segni di questo decadimento rimangono per ora nascosti, e, se pur si deve tenerne conto, sarebbe ingiusto insistere troppo su di essi e dipingere il Rinascimento, sulle orme degli storici romantici, come una eta di corruzione e di impoverimento delle basi etiche e ci-_ vili su cui si regge la cultura, e la vita stessa, delle nazioni.

E opportuno piuttosto mettere in rilievo la saggezza e l’equilibrio con cui gli uomini del secolo XVI si mostrarono capaci di assorbire gli ammaestramenti

dell’umanesimo, non gia per

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farne materia di una sapienza arida e inexte, si per farne sostanza e impulso di una cultura nuova, materiata di tradizioni illustri e pur tutta viva e moderna.

Si spegne intanto rapidamente (continuando un processo gia iniziato negli ultimi anni del secolo precedente) l'illusione di ricreare sul modello degli antichi una nuova letteratura in

lingua latina; ma restano i frutti essenziali della educazione umanistica. La varia letteratura in lingua latina continua si, specie nella prima meta del secolo, sui moduli consueti ); e alla lirica latina si dedicano, come ad un nobile esercizio

di stile, con maggiore o minor fortuna, quasi tutti gli scrittori la cui fama é piuttosto raccomandata ad opere in volgare, come il Bembo, |’ Ariosto, il Castiglione, il Berni.

L’ esercizio dell’ imitazione umanistica pero e gli studi filologici non sono gia pit nel Cinquecento la sostanza e il fine, bensi gli strumenti

e le basi della nuova

cultura, la

quale non vuole pit essere appannaggio di una ristretta categoria di chierici e di dotti, ma ambisce a farsi sempre pid laica, a diventar possesso comune, dottrina diffusa, principio di civilta e indirizzo di costume per tutti, sia pure senza ri-

nunziare alle recenti conquiste di eleganza e di raffinatezza. Spenta, o almeno assai affievotita, lillusione di restaurare nelle sue forme ormai immobili e perfette la latinita, la letteratura in volgare riacquista (e sarebbe forse pit esatto

dire che finalmente acquista) piena coscienza del proprio valore e tende sempre pit ad assorbire in sé quelle qualita di. disciplina e di armonia, di ordine e di architettura, che sono il pregio delle letterature classiche. *) Prosegue e si raffina la grande tradizione degli studi filologici (con i florentini PlerRO VETTORI e¢ VINCENZO BorGHINI); l'erudizione storica e archeologica (basti citare i nomi del veronese ONOFRIO PANVINIO, del modenese CARLO SIGONIO, e i celebri Annales ecclesiastici

del cardinale CESARE BARONIO). La storiografia in latino si arricchisce dell’ Historia veneta di PretRo BEMBo,

delle Historiae sui temporis

e degli Elogia di PAoLo Giovio (1483-1532); l’epica, la didascalica

e la lirica vantano le opere raffinatissime di MARCO GEROLAMO VIDA, di GIROLAMO FrACASTORO, di ANDREA NAVAGERO, di MARCANTONIO FLAMINIO, di GIOVANNI COTTA, ecc.

Il classicismo cinquecentesco

(almeno nella sua prima

e pit bella stagione) non é se non il riflesso esteriore,

sul piano della cultura diffusa, di una fondamentale

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sicita di atteggiamenti, in cui si continua ¢€ si perfeziona l'aspirazione del secolo J anaes a un sereno equilibrio di concetti e di. forme, i realta e di idealita, di spirito e di materia, a una piena concordia insomma dell’ uomo con sé stesso e con la natura. L’ altissimo concetto della

dignita e della potenza dell’ uomo, gia celebrato dai filosol umanisti, si @ fatto ora il presupposto di una civilta — nuova, ‘del tutto umana e mondana, aliena da ogni preoccu-

pazione trascendente, ma percid tanto pit capace di intendere € apprezzare ogni compiuta realizzazione di umana perfettibilita nel campo fisico come in quello intellettuale: |’intel-

ligenza del politico come |’eleganza dell’uomo di mondo, la sapienza infallibile dell’artista come la suprema serenita del

poeta; e tutto accompagnato da un senso sempre vigile del limite, della misura, senza di che la politica diviene utopia,

leleganza scompare, l’arte e la poesia smarriscono il controllo del loro mondo di fantasmi.

In questa fondamentale classicita di atteggiamenti trovano il loro punto .di accordo alcune delle espressioni piu alte e apparentemente diverse del secolo: l’Orlando Furioso e il Prin-

cipe, il Cortegiano del Castiglione e le Storie del Guicciardini, la scienza di Galileo e l’arte di Raffaello e di Michelan-

gelo. In questo ideale di classicita trova la sua giustificazione profonda (e ne costituisce a sua volta il sto) anche il classicismo diffuso in tutte nifestazioni e nei suoi limiti: discussioni lingua, neoplatonismo, culto dei generi

necessario presuppole sue concrete masulla poetica e sulla letterari, tmitazione

degli antichi e dei grandi trecentisti, ricerca tenace di una perfezione ‘stilistica per cui si attribuisce anche alle forme di letteratura pid intimamente povere e frivole un lume di grazia e di decoro esteriore. Questa cultura classicistica, questa ambizione letteraria, sono per dir cosi l’atmosfera comune in

cui nascono e si elaborano le pit: compiute espressioni dell’arte e del pensiero del secolo: e da esse pertanto convien muovere per rendersi ragione del mondo culturale e del gusto

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poetico in cui si in seriscono storicamente gli uomini e ¥ le opere.

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2. Il Bembo e la cultura poetica del Cinquecento. — Tra gli elementi di questa cultura poetica, che é il presupposto necessario della grande poesia del Cinquecento, due hanno, fin dall’inizio del secolo, un pit evidente rilievo: la

questione della li. gua e della grammatica volgare e le discussioni sull’amor platonico. Nell’una e nelle altre ha funzione, se non proprio di iniziatore in senso cronologico, certo di guida e di caposcuola, il Bembo, Ja cui figura ha percid diritto ad un posto assai importante nella storia della nostra

letteratura, anche se si debba subito riconoscere che egli non fu né un grande scrittore né tanto meno un poeta. PieTRO BeEMBO, nato a Venezia da nobile famiglia nel 1470, co-

nobbe fanciullo a Firenze il Medici e il Poliziano, giovane apprese il greco a Messina alla scuola del Lascaris, fu poi alle corti di Ferrara e di Urbino, e quindi fra il 1512 e il ’20 segretario del papa Leone X a Roma; tornato nel Veneto si dedicé tutto agli studi e alla raccolta di manoscritti e di oggetti antichi; nel 1530 divenne storiografo ufhiciale della repubblica e custode della Libreria Marciana; nel 1539, eletto cardinale da Paolo III, tornd a vivere a Roma, dove mori

nel ’47. Ciceroniano convinto, elegantissimo scrittore di versi e prose latine, dotto di greco e curioso d’archeologia, ma al tempo stesso fondatore del petrarchismo e regolatore della lingua letteraria, teorico dell’amore, studioso attento della nostra tradizione volgare, buon conoscitore della letteratura provenzale, scrittore di versi e di prose

italiane elaboratissime e in toscanissima lingua, il Bembo sembra assommare nella sua persona tutte le varie tendenze della cultura contemporanea, armonizzandole

in una sintesi felice.

Con i libri giovanili degli Asolani egli dette inizio a quella trattatistica d’amore, che ebbe poi cosi largo successo ‘nella letteratura del Cinquecento e che rappresenta il pit notevole tentativo del pensiero del secolo (all’infuori delle sistemazioni filosofiche vere e proprie) per accordare il mondo delle passioni reali con le esigenze delVideale etico. L’amore, che € principio nefasto quando si riduce a turpe appetito carnale, diventa invece causa di bene quando é contemplazione, nelle cose terrene, della bellezza ideale ed eterna, e

quindi primo gradino dell’ascesa alla somma Bellezza, che é Dio. Il tema é svolto in una serie di dialoghi fra alcuni giovani e donzelle

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veneziane nella villa dell’ex-regina di Cipro, Caterina Cornaro, ad

Asolo. L’opera, scritta in uno stile frondoso e¢ arcaizzante, serba tuttavia una grande importanza storica, e costituisce il punto di partenza di tutta un’abbondantissima letteratura (cui daranno il loro contri-

buto uomini come il Minturno, il Varchi, lo Speroni, il Firenzuola, il Tasso, e tanti altri). I trattati sull’amore e sulla donna, ben lungi dal ridursi a una pura esercitazione letteraria, come spesso si afferma,

rappresentano un problema vivo nella cultura del tempo, e muovono da una duplice esigenza: sottrarre la realta prepotente della passione amorosa alla rigida negazione dell’ascetismo medievale e al tempo stesso accordarla con il complesso della vita spirituale e con le leggi della coscienza morale cristiana. Nella prosa degli Asolani si inseriscono alcune canzoni di tipo dichiaratamente petrarchesco. E petrarchesche sono pure, nel contenuto e pit nelle forme, le altre Rime del Bembo. Ad esse é impossibile, per giudizio ormai concorde dei lettori, attribuire un qualsiasi

valore poetico, ma sarebbe ingiusto non riconoscerne l’altissimo significato storico, sia come impulso alla lirica di imitazione petrarchesca,

che ebbe poi tanti e non tutti effimeri cultori, sia e pit: come indice di una tendenza intellettuale che trascende la lirica strettamente intesa e coinvolge tutta la mentalita e la letteratura del secolo. Il petrarchismo,

che, muovendo

dalle opere volgari in versi e in prosa

del Bembo, impregna di sé tanta parte della letteratura cinquecentesca, non fu infatti l’imposizione di un pedante negato alla poesia, né tanto meno una.sciocca moda che avrebbe avuto, non si sa perché, tanta e cosi lunga fortuna: si la traduzione, in termini concreti, della diffusa aspirazione classicistica del secolo. Il manifesto, per dir cosi, e il codice del petrarchismo é contenuto in un’altra, e pit famosa, opera del Bembo: le Prose della volgare lingua, edite nel 1525, che

sono anche la prima grammatica dell’idioma volgare compilata secondo i criteri del nuovo gusto letterario. La lingua che interessa il Bembo non é gia quella del conversare di ogni giorno, si la lingua letteraria, che ha esigenze sue e suoi problemi, che richiedono solu-

zioni particolari: « Non é Ja moltitudine quella che alle composizioni di alcun secolo dona grido e autorita, ma sono pochissimi uomini.... ». Ora la lingua italiana, per chi tenga conto delle sue origini e del suo progresso storico, non pud essere se non il fiorentino; ma non gia il fiorentino come oggi si parla (ché anzi il Bembo é di opinione che « l’essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere scrivere, non

sia di molto vantaggio »), si il linguaggio come si é venuto elaborando e determinando in forme sempre pit perfette attraverso la tradizione scritta, fino al Petrarca e al Boccaccio, nei quali il « grande

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«¢ indi. hé « da crescere della lingua » ha raggiunto il ius culmine, poiché giugnere termini questi a pure ma oltre, piu innanzi, non che passar -ancora niuno s’é veduto ».

C’é, nelle Prose del Bembo, quel culto della bellezza, intesa prima

di tutto come armonia e grazia, che, riferito qui allo stile letterario, altrove alle proporzioni artistiche, agli ideali civili ed etici, alle ma-

niere o al costume, appare dovunque come il canone estetico e il segno distintivo di tutta una civilta estremamente raffinata. Viste sotto questo aspetto, le Prose si rivelano per quello che effettivamente sono,

come la sistemazione teorica pid esplicita e pil consapevole del gusto poetico del Cinquecento; e trascendono il ristretto quadro della

polemica sulla lingua, alla quale peraltro si riconnettono per i dibattiti originali dalla novitae dalla rigidezza stessa delle loro conclusioni. Si che, volendo ora venire a discorrere di quella polemica che ebbe cosi ampio e interessante svolgimento, occorrera tener fermo che,

come per il Bembo, l’oggetto delle discussioni non é mai la lingua come strumento del parlar comune, bensi la lingua intesa in funzione del suo uso /etterario, nelle opere scritte e in quelle da scri-

versi. Il che importa che non si discute mai intorno a un ideale astratto di perfezione linguistica, si intorno ad un concreto problema di stile.

3.

La

questione

della

lingua.

— Mentre il Bembo si

sforzava di risolvere il problema di un tipo uniforme di lingua letteratia, fondandosi sulle ragioni storiche che avevano determinato I’eccellenza dell’idioma fiorentino per opera degli scrittori trecenteschi,

altri tendevano ad un fine analogo movendo invece dalla realta delVibridismo linguistico e rinnovando a modo loro la teoria dantesca di una loquela illustre e cortigiana, partecipe di tutti i dialetti e da tutti diversa. Cosi BALDESSAR CASTIGLIONE, nel Cortegiano, movendo

dalle particolari esigenze del suo problema concreto di scrittore non toscano, non riusciva a persuadersi che fosse bene, « in loco d’arricchir questa lingua e darli spirito, grandezza e lume, farla povera, esile, umile e oscura, e cercare di metterla in tante angustie, che

ognuno sia sforzato ad imitare solamente il Petrarca e il Boccaccio ». Con spirito pit sistematico e con argomenti pit astratti, anche VINCENZO CALMETA, GIANGIORGIO TRISSINO, GIROLAMO Muzio propugnarono analoghi concetti, facendosi sostenitori delle idee, assai difficili a definirsi concretamente, di una « pronunzia cortigiana » e di una « lingua italiana », sottratte al rigido predominio della tradizione toscana.

Il sentimento naturale di questa tradizione, invece, e l’orgoglio

municipale concorrono, negli scrittori fiorentini, a determinare una vivace reazione contro l’atteggiamento dottrinario ed astratto dei fautori della lingua cortigiana. Fin dal 1514, in un suo Dialogo intorno alla lingua che rimase per allora inedito, NIccoLO MACHIAVELLI, fingendo di prendere a partito Dante stesso dimostra che « non ¢ lingua che si possa chiamare o comune d'Italia o curiale, perché tutte quelle che si potessero chiamare cosi hanno il fondamento loro dagli scrittori fiorentini e dalla lingua fiorentina, alla quale in ogni difetto, come a vero fonte e fondamento loro, é necessario che ricor-

rano ». Idee, riprese poi da Lopovico MARTELLI e, con qualche tiserva, dal senese CLAUDIO TOLoMEI, D’altra parte, per questi toscani,

Ja lingua, lungi dall’esaurirsi in una tradizione scritta, 6 un patrimonio vivo e mobile, che si trasforma e arricchisce ogni giorno nell’uso non soltanto letterario, ma anche orale e popolare. E percié essi son

portati a respingere il rigido esclusivismo del Bembo, a difendere contro di lui tutti gli scrittori del passato (anche quelli che il Bembo aveva condannato per coerenza dottrinaria, da Dante al Poliziano),

nonché I’autorita, che per essi é la suprema, dell’uso vivente. Contro la concezione bembesca di un linguaggio tutto costruito sui libri, e su pochi libri, lontano dall’uso vivo delle conversazioni, sono anche il GIAMBULLARI, il GELLI, e il LENZoNI, i quali tutti al

trecentismo e al petrarchismo, o meglio all’ideale poetico e prosastico “del Bembo, cosi rigidamente vincolato nella sua intonazione classicistica, contrappengono, in teoria come in pratica, un concetto della letteratura, anch’esso in fondo ispirato al classicismo del tempo, ma

piu libero e pit vario, pit aderente alla vita attuale e meno legato ai ceppi della tradizione. » Nella seconda meta del secolo, la polemica tra i sostenitori di una

lingua «italiana », che si sarebbe dovuta ottenere cogliendo I’elemento generico comune a tutti i dialetti delle diverse province, e quelli della fiorentinita della nostra tradizione linguistica e letteraria, é sempre viva e ancor lungi dall’esaurirsi; ma le varie opinioni tendono ormai a conciliarsi in una concezione comune, per cui si riconosce la sostanziale giustezza delle dottrine del Bembo, appena temerate dall’implicito riconoscimento dei benefici arrecati di recente alla lingua dall’abbondantissima fioritura letteraria del Cinquecento, la quale per altro derivava dalle Prose del veneziano il suo primo impulso e il suo generico indirizzo stilistico. Pit tardi, col Varcut e con il SALVIATI, la questione della lingua viene a poco a poco a restringersi nei limiti di una disputa filologica, oltreché di un problema pratico e pedagogico (uniformita dell uso linguistico, della fonetica e dell’ortografia); e ad essa si sforzera ben

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presto di rispondere I’attivita della nuova Accademia fiorentina dellz Crusca (1583), anche attraverso la preparazione del materiale che servita al principio del secolo XVII alla compilazione del primo Vocabolario della Crusca (1612) e delle prime trattaziont grammaticali ordinate con criteri rigorosamente scientifici. 4. Aristotele e la poetica del Rinascimento. — I trattati sulla poesia composti nei primi decenni del Cinquecento non escon dall’ambito del gusto umanistico e si contentano di ripetere e analizzare con garbo i precetti d’Orazio, insistendo sull’utilita di un lungo e raffinato esercizio rettorico. Un impulso al rinnovarsi e all’approfondirsi del pensiero estetico si ebbe nel 1536, con la pubblicazione del testo originale della Poetica aristotelica, ben presto fatto oggetto di numerose versioni o parafrasi e di ampi commenti in latino e in volgare. Di questo mutato indirizzo negli studi sulla poesia risentono piu © meno tutti i trattatisti di poetica posteriori al 1536: cioé, per ricordare solo i pil importanti, FRANCESCO ROBORTELLO, GIAMBATTISTA GIRALDI CINZIO, G. FRACASTORO, il TRISSINO, SPERONE SPERONI, il MINTURNO, GIULIO CESARE SCALIGERO, B. VARCHI, LUDOVICO CASTELVETRO, FRANCESCO PATRIZI, TORQUATO TASSO, ecc. Attraverso l’interpretazione del nuovo testo aristotelico, i trattati-

sti del Cinquecento riprendono in esame e approfondiscono alcuni ° problemi ormai secolari del pensiero estetico. Anzitutto il concetto della poesia come imitazione, nel suo duplice aspetto filosofico e rettorico: di imitazione della natura e di imitazione dei buoni scrittori. Si tende ora a distinguere con maggior precisione questi due aspetti — che erano stati spesso confusi e sovrapposti nella tradizione umanistica — e anzi a contrapporli, dando il sopravvento al secondo. La natura, dira lo Scaligero, per es., & disordine e anarchia, mentre

l’arte € metodo e regola: il poeta pid vicino alla natura, Omero, é anche il meno consapevole, il pii povero di coerenza e di unita. La

virtt principale dello scrittore dev’essere invece l’autocritica, che é anche capacita di distinguere fra i molti l’esemplare pit vicino alla perfezione e proporselo come modello con l’intento di emularlo.

Su queste basi si costruisce, parallela alla rinnovata scienza estetica, tutta una particolareggiata sistemazione delle norme rettoriche, la quale ha anch’essa il suo fondamento negli esempi classici e s’arricchisce di nuovi spunti derivati da Aristotele, concretandosi

abbondante

trattatistica sui singoli generi letterari

in una

(lirica, poema

eroico, poema romanzesco, commedia, tragedia, dramma pastotale, ecc.) e sulle singole forme di fappresentazione artistica. Ogni

4

genere @ sottoposto a un complesso di norme pik o meno tigide

e severe, che valgono a distinguerlo nettamente dagli altri e ad attribuirgli una sua intima coerenza ed unitd logica. Tra queste norme ebbero allora singolare fortuna, e rimasero quasi come il segno distintivo della poetica del Rinascimento, le « tre unita della tragedia », arbitrariamente desunte dal testo aristotelico, dove esse non hanno quel carattere di leggi, che fu loro attribuito dai trattatisti italiani del Cinquecento: xmnita d’azione, intesa come svolgimento di-un’unica trama di fatti; wnitd di luogo, per cui era escluso ogni cambiamento di scena; unitd di tempo, per cui l’azione doveva

necessarjamente svolgersi nello spazio di una sola giornata. Dopo la rivoluzione romantica non é difficile indicare quel che di meccanico e di arbitrario é in siffatte leggi, che pretendono di vincolare e costringere il libero sviluppo della fantasia. Ma sarebbbe ingiusto non riconoscere, in questa sistemazione intellettualistica delle regole letterarie, un principio di verita vivo anche oggi; e una espressione, sia pure grossolana e approssimativa, della necessita di concepire ogni opera d’arte come una creazione organica e coerente. Anche la tendenza classicistica a scorgere nella poesia l’intervento della ragivone, regolatrice e misura suprema, rispondeva, in fin dei conti, a un’esigenza non arbitraria né momentanea, destinata anzi a risorgere di tempo in tempo, come valido contrappeso a quelle pseudo-dottrine,

che credono di poter intendere la liberta fantastica come disordine e anarchia. : Anche per questa via, del resto, il concetto dell’arte era giustamente ricondotto, sulle orme di Aristotele, nell’ambito delle attivita conoscitive; e si riaffacciava il problema di determinare all’arte una

sua funzione e una sua essenza distinta di fronte agli altri modi della conoscenza. Si discusse pertanto sottilmente sul tema, accennato in un

luogo della Poetica, della differenza tra la storia, che ha per oggetto il vero individuale, e la poesia che si propone invece di rappresentare il verosimile universale; e la retta definizione di questo concetto di verisimile o di veto poetico fu anzi il problema pit dibattuto, col

quale si ponevano le basi e si preparavano gli sviluppi dell’estetica moderna. Si discusse anche a lungo sul fine della poesia che alcuni riponevano nel diletto (Robortello, Castelvetro); altri (come il Fra-

castoro) nel modus dicendi, e cioé nell’elaborazione artistica; altri infine, e¢ i pil) numerosi,

in una funzione pedagogica e didattica, se-

condo la formula tradizionale del miscere utile dulci. Sicché le opere di poesia vennero considerate tali veramente solo in quanto raggiungesseto lo scopo di rimuovere gli animi dal vizio e di accenderli alla virti: giungendosi perfino, sull’estremo del secolo, a restituire impor-

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tanza all’espediente antipoetico dell'allegoria, perché, come affermava il Tasso in una sua lettera « siccome nel mondo e nella natura delle cose non si lascia alcun luogo al vacuo, cosi nel poema non si lascia parte alcuna alla vanita, riempiendo ciascuna di esse, e le piccolis-

sime ancora e meno apparenti, di sensi occulti e misteriosi ». Il concetto classicistico dell’arte, con i suoi attributi di decoro, di compostezza, di armonia costruttiva e di ragionevolezza, rimase so-

stanzialmente immutato per tutto il secolo. Negli ultimi decenni, nel clima moralistico della Controriforma, esso si fece pit grave e severo, pitt rigido e pedantesco, sebbene neppure allora acquistasse tanta

efficacia negativa da impedir veramente il libero svolgersi dell’attivita creatrice nei poeti veri, come

il Tasso, e, in minor misura, il

Guarini. Questo concetto operd inoltre con indubbio vantaggio in tutta la cultura europea, indirizzando e promuovendo il sorgere della

grande civilta letteraria del secolo XVII in Francia, in Spagna, in Inghilterra. Si che, anche in questo campo, l’Italia adempiva in quegli anni alla sua funzione di guida e di educatrice, organizzando in un sistema teorico le tendenze di un gusto che doveva fiorire e dominare per altri due secoli.

5. I germi della decadenza e la continuita dello spi-

rito umanistico, — Abbiamo procurato fin qui di mettere in luce i caratteri generali della civilta del Cinquecento, insi-

stendo sugli elementi positivi e su quelli che, da un capo alaltro del secolo, creano un’atmosfera di cultura unitaria, che

é al tempo stesso il fondamento di una magnifica fioritura di pensiero e di poesia, e l’esemplare su cui si modelleranno, nel

momento del loro splendore, le altre grandi civilta europee. Pur qua e la ci é accaduto di accennare ai germi di decadenza, che erano nascosti sotto le superbe apparenze di quella cultura classicistica. Nel passaggio dalla prima alla seconda meta del secolo si assisté infatti al progressivo restringersi dell’orizzonte intellettuale e impoverirsi delle basi morali di quella civilta, con un processo che l’opera di repressione della Con-

troriforma accelera senza dubbio e reca a compimento, ma che era ad ogni modo gia implicito nella natura e nei limiti della cultura umanistica. Il venir meno dell’entusiasmo morale, che aveva alimentato ie grandi creazioni artistiche, gli ardimenti del pensiero politico, le sistemazioni consapevoli di un ideale di vita e di Sapienza serena e cordiale, coincide con

il lento esaurirsi di quel fervore umanistico, che aveva ormai

adempiuto al suo grande ufficio storico e si andava percid svuotando della sua sostanza ideale. L’Italia, dopo avere per

‘due secoli dato civilta europea, sforzo sostenuto, stico e letterario

limpulso e l’avviamento alla rinascita della stava per piegarsi sotto il peso dell’immane ed era in procinto di cedere il primato artiad altre nazioni pit giovani e fiorenti di an-

cor intatto vigore. Questi segni di decadenza, sono pit o meno

diffusi in tutte le espressioni letterarie: nel contenuto e nello stile stesso, che si fa piu grave e volutamente solenne, pid

manierato e artificioso, e preannunzia i falsi splendori, le grazie ricercate e la tronfia vanita dell’eta barocca. Occorre aggiungere tuttavia che essi sono, almeno per ora, assai piu evidenti nella veste esteriore del discorso e in certi schemi strutSurali, di quanto non intacchino la sostanza nel profondo. Il lievito dello spirito umanistico continua ad operare con vigore nella seconda meta del secolo XVI, e non muore completamente, e pur si affievolisce e in parte si snatura, nean-

che nel secolo seguente. Né l’occhiuta vigilanza dell’Inquisizione e il timore delle persecuzioni sono in grado di impedire veramente il manifestarsi del libero pensiero e di comprimere l’espressione poetica di una vita sentimentale ancor ricca e impetuosa. Per tutto il Cinquecento, e per una buona parte del Seicento, la concezione umanistica e classicistica della vita continua a dare frutti notevoli, se pur sempre piu rari e sem-

pre meno fecondi. Sicché par difficile aderire alla tesi di quegli storici, che pongono alla meta del XVI secolo l’inizio della civilta barocca, e confondono in un solo giudizio, sostanzialmente

negativo, con !’eta del Marino

e di Daniello

Bartoli,

uella della Gerusalemme liberata e dei Massimi sistemz. Alla

civilta del Rinascimento

appartengono,

secondo noi, con

ugual diritto, accanto al poema dell’Ariosto, alla politica di Machiavelli, alla umana dottrina del Castiglione, anche !’impeto lirico del Tasso, la storia del Sarpi, la scienza di Galileo;

il che riceve conferma anche dalle molteplici risonanze, ora

pii ora meno intense, ma pur sempre assai forti, con cui la

voce di questi grandi si rivela capace ancora di espandersi in tutte le zone, prossime e lontane, della cultura europea.

Caprroio IX.

LUDOVICO ARIOSTO 1. La vita.— L’opera poetica, nella quale lo spirito del | Rinascimento trova la sua espressione piti alta e pit perfetta, é l’Orlando furioso, il capolavoro del gusto classicistico e una delle pit sublimi vette della nostra storia letteraria.

Lupovico AriosTO nacque a Reggio Emilia |’8 settembre 1474 dal conte Niccold, capitano della rocca di quella citta, e da Daria

Malaguzzi Valeri. A dieci anni si trasferi a Ferrara con la famiglia; e ferrarese amd poi dirsi sempre, e, gia vecchio, dichiarava che l’avreb-

be ucciso chi avesse voluto allontanarlo dalla sua citta e impedirgli di passeggiare ogni giorno sulla piazza fra la facciata del duomo e le due statue dei marchesi Niccolé e Borso. Fra il 1489 e il ’94 attese, per volonta del padre, alla giurisprudenza; poi, lasciato libero di

seguire la sua inclinazione, si dedicd tutto fino al "99 agli studi letterari, sotto la guida di Gregorio Elladio da Spoleto, ottimo maestro che avrebbe potuto e dovuto insegnargli tutti «i bei segreti » della letteratura latina e della greca; senonché, per l’improvvisa partenza

del pedagogo, Ludovico non fece in tempo ad approfondire, come avrebbe desiderato, la conoscenza della seconda lingua, a diventare insomma un compiuto umanista, secondo la tradizione instaurata a

Ferrara da Guarino veronese nella prima meta del Quattrocento e viva ancora nel vecchio Tito Vespasiano Strozzi e nel figlio di lui, e¢ amico del nostro, Ercole.

Mortogli il padre nel 1500, Ludovico dovette pensare, come primogenito, all’educazione e al collocamento delle cinque sorelle e dei quattro fratelli, tre dei quali eran tuttora minorenni, ¢ il maggiore Gabriele, costretto in casa dalla paralisi, rimase con lui per tutta la

vita e gli fu compagno nel gusto degli studi e della poesia, e anche cercé di alleviargli in parte, come poteva, le cure dell’amministrazione di un patrimonio abbastanza considerevole, ma insufficiente ¢ gia dissestato e compromesso da liti ¢ processi. Da questo momento

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> si chiude per il nostro il primo periodo dei tranquilli studi dellozio letterario, muore il sogno gia accarezzato (e. confortato dalVesortazione del Bembo) di dedicarsi al culto della tradizione umanistica e della lirica latina, e incomincia un’esistenza affaccendata e¢ piena di impegni pubblici e privati, mentre l’amore innato per la poesia, mutando intento e direzione, si fa pid intimo e segreto e si tifugia nel silenzio dell’anima e nelle ore di pausa e di solitaria riflessione, faticosamente strappate al duro travaglio d’ogni giorno. Nel 1502 Ludovico accetta, per provvedere alle necessita familiari, l'ufficio di capitano della rocca di Canossa; e l’anno appresso entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este, figlio di Ercole I e fratello. del duca Alfonso. Le sue attribuzioni erano svariate, e spesso fati-

cose e per nulla conformi alla sua indole e ai suoi gusti: aiutare ‘il signore a spogliarsi, eseguir commissioni, sopraintendere ai pranzi, e anche accompagnarlo in pericolose missioni e compier per lui ambascerie e viaggi di informazione diplomatica. Nel 1509 segui il cardinale nella guerra contro i veneziani, e si trovd presente allo scontro di Polesella; nel "12 fu col duca Alfonso a Roma, per placare

Vira di Giulio II contro il signore di Ferrara, alleato dei francesi nella guerra della Lega Santa, ed entrambi riuscirono a stento a sottrarsi allo sdegno del pontefice con una fuga romanzesca attraverso gli Appennini. Il poeta si doleva di questa sua vita, non tanto per

‘quel che di servile e umiliante poteva esserci (ma era nel costume del tempo) nelle sue funzioni di cortigiano, a franco di un uomo energico ma violento, grossolano nei gusti e insensibile alla cultura e alla poesia quale era in fondo il cardinale; si assai pid per quell’in-

terminabile susseguirsi di incarichi mal retribuiti e di noiose faccende, che di continuo venivano a distrarlo dalle sue poetiche fantasie. Avrebbe accolto con animo pit volenteroso un ufficio pit tranquillo e appartato, piu propizio alle pacate meditazioni e tale da lasciargli un po’ pit di tempo per leggere scrivere fantasticare. Nel 1513, eletto papa Leone X, si recd a Roma, sperando di ottenere un collocamento in quella corte; ma il Medici, che prima di salire all’altissimo

ufficio, era stato prodigo con lui di espressioni affettuose, lo accolse ora piuttosto freddamente e in modo da non consentirgli quasi nessuna speranza. Tornd dunque presso il catdinale; ma, quando questi nel

1517, creato vescovo di Buda, lo sollecitd a seguirlo in Ungheria, egli si riftutd risolutamente e fu licenziato. L’anno appresso entrava, come cameriere o familiare, fra gli stipendiati del duca Alfonso: "

a (1552-1638), non diversamente dal Marino, era convinto chela poesia fosse « obbligata di far inarcar le ciglia »; senonché, per il raggiungimento di scopi siffatti, egli contava sull’effetto del sublime e dell’eroico di parata, anziché su quello dell’ingegnoso e del sorprendente, sulla solennita oratoria pit che non sulla lussuria dell’im-

maginazione; anche se poi veniva ad incontrarsi con i marinisti (specié nelle canzonette) nella tendenza a dissolvere i valori logici e

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affettivi della parola in un indistinto fluido canoro, nel che si faceva

evidente Ja loro comune origine dal Tasso. Scrittore fecondissimo di poemi eroici, di drammi pastorali e melodrammi, di ditirambi, di poemetti didascalici, descrittivi, sacri, di Sermoni

oraziani in versi

sciolti, di egloghe in terza rima, il Chiabrera é-ricordato ancora oggi quasi soltanto per le canzoni eroiche, in cui si propose di imitare Pindaro in un modo del tutto esterno, per via d’improvvisi trapassi

a Bp:

immaginosi e ricorsi al mito, e di una metrica varia, agile, mossa per

il predominio delle strofe e dei versi brevi; e pit ancora per le canzonette alla’ maniera di Anacreonte (o meglio delle cosidette « anacreontiche », scoperte nel 1554 dall’umanista Enrico Stefano, e

falsamente attribuite al grande lirico greco), che egli compose, attingendo alle imitazioni francesi, in ritmi estremamente vari e rapidi su temi d’amore, di corteggiamento o d’encomio. In esse, come anche nei cinque Dialoghi dell’arte poetica (sul « verso eroico » € cioé sull’endecasillabo sciolto; sulla « tessitura delle

canzoni»; sugli «ardimenti del verseggiare »), il Chiabrera si dimostra soprattutto un metrico; e il suo influsso maggiore si esercitera proprio in questo ambito, dall’Arcadia e dal Metastasio, attraverso il Parini e il Foscolo delle odi, fino al Carducci.

Uno dei primi imitatori e ammiratori del Chiabrera fu il ferrarese FULVIO TESTI (1593-1646), che aveva iniziato la sua cartiera letteraria pubblicando nel 1617 un volumetto di Rime marinesche. Nelle Odi, alle quali deve Ja sua fama, torna anche lui 4 Pindaro, ma attraverso Orazio, riempiendo le brevi strofe d’un contenuto piuttosto morale che eroico. Il Testi é il capostipite e il maestro

dei gnomici del Seicento e anche del secolo successivo. Nelle decorose forme d’uno stile sapientemente equilibrato fra il tono eloquente e il conversevole, egli getta via via i luoghi comuni della moralita convenzionale, e li ragiona per via di esempi e di sentenze non men conyenzionali. Non senza vigore tuttavia egli senti, ed espresse talora, la decadenza morale e politica dell’Italia in quei tempi, sia che in una famosa ode giovanile e in un poemetto non meno famoso (il cosidetto Panto dell’Italia) cantasse con accenti di fervida elo-

'



quenza l’odio contro gli spagnolie le grandi speranze riposte neae l'opera di Carlo Emanuele

di Savoia; sia che in altre poesie pid

tarde piangesse la patria corrotta dall’ozio e dalla lascivia e l’esortasse a rifarsi un animo pid libero, virile e guerriero, o si scagliasse — contro la poesia contemporanea tutta intenta a vagheggiare e dipingere favole amorose, invitando gli scrittori a rivolgere i loro pensieri ¢ le loro penne alla trattazione di materie pit nobili e degne. Cosi la pensavano anche altri letterati, amici e imitatori del Testi e del Chiabrera e scrittori di rime morali in stile corretto ma freddo,

quali il fiorentino VINCENZO DA FILICAIA (1642-1707), nel quale l'eloquenza obbligata e di circostanza e l’entusiasmo a freddo si traducono per lo pit in uma rettorica enfatica e¢ in una vacua sonorita ; e il pavese ALESSANDRO GUIDI (1650-1712), mezzo retore come il Filicaia, mezzo stilista e metrico come il Chiabrera, e il cui nome

si ticorda infatti anche oggi, nelle scuole, solo perché per il primo introdusse la forma della canzone libera, cara poi al Leopardi. Sia il Filicaia che il Guidi finirono Arcadi; e Arcade fu anche,

negli ultimi anni della sua vita, il fiorentino BENEDETTO MENZINI (1646-1704), il quale del resto, letterato di buon gusto sebbene al-

quanto secco e di orizzonte limitato, tutto chiuso nel culto della tradizione toscana, fu salutato ai suoi tempi « salvatore » della poesia

italiana e fu in effetto uno dei primi e pit consapevoli oppositori del marinismo e restauratori di un senso pid corretto e pit sobrio dello stile. Era prete, e in lui domina non di rado l’ispirazione morale

o moralistica: come nelle tredici Satire in terza rima (contro gli ipocriti, gli avari, gli invidiosi, i poetastri, le donne corrotte e altrettali oggetti), dove per altro al moralismo arcigno e predicatorio si mescola, troppo frequente, la nota del risentimento personale e si effonde in parole astiose e violente, di sfogo e di poJemica, non rasserenate dall’arte. Le Satire del Menzini ci riconducono all’abbondante fioritura di

un altro genere letterario, quello appunto della satira, oraziana e giovenalesca,

per lo pit in terza

rima, sull’esempio

dell’Ariosto

e di

altri autori del Cinquecento. Si dedicarono a questo genere, nel secolo XVII alcuni rimatori della corrente marinistica; ma per lo pit i satirici appartengono alla corrente ostile al barocchismo, e danno sfogo nei versi al fastidio ovvero allo sdegno per la corruzione dei costumi e della letteratura contemporanea, fastidio e sdegno quasi sempre astratti e generici, dettati da un’ispirazione morale tutt’altro che intima, vigorosa e profonda. Il pit serio fra tutti costoro é forse il fiorentino Jacopo SorDANI (1579-1641), acuto osservatore dei vizi e delle debolezze degli

|

ICA ED EROICOMICA

249

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uomini letano taglie, roso e

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e moralista arguto e senza enfasi; il pit simpatico é il napoSALVATOR Rosa (1615-73), lodato pittore di paesi e di batmusicista e poeta a tempo perso, spirito indipendente geneimpulsivo. Nelle sue sette satire mette a nudo la lascivia della

musica e della pittura moderna; deride le metafore eccessive e le stramberie dei poeti nuovi; esalta l’ideale di una poesia di pid arditi e liberi sensi, rivolta a smascherare la corruzione e la miseria del costume contemporaneo, anziché ad accarezzarne e adularne le vi-

ziose tendenze; e guarda con simpatia alla vita degli umili e dei semplici, al pianto delle vedove e degli orfani, ai sussulti di sdegno e di ribellione delle plebi oppresse (come, per esempio, alla rivolta napoletana-ed al suo eroe Masaniello). Lo stile del Rosa risente di una ingenuita di affetti, che si appaga troppo spesso di uno sfogo immediato, irruente e approssimativo: ma non vi mancano tratti vivaci e freschi, bizzarri e felici; e dappertutto ti sta innanzi, se non un poeta, certo un uomo vivo, con i suoi crucci e i suoi risentimenti

e con la sua impetuosa e baldanzosa personalita. Numerosi cultori ebbe anche nei Seicento, specie in Toscana, la

rimeria burlesca e giocosa, sulle orme del Berni, con la sua attificiosa disinvoltura e la letteratissima scapigliatura dello stile; mentre altri, come FRANCESCO BALDOVINI, riprendevano l’idillio rusticano,

sul tipo della Nencia, recandolo sul piano della parodia buffonesca e della gsossolana caricatura; o si sforzavano di rimettere in vita, fuori

stagione, il linguaggio e la poesia fidenziana e quella maccheronica. Nel complesso questa rimeria giocosa, con tutta la sua apparente varieta di manifestazioni e il suo ostentato brio ¢ la sua falsa gaiezza, é forse la parte pitt caduca

della letteratura secentesca,

quella che

meglio riflette l’ozio ¢ la desolazione di un mondo di accademici svogliati e di letterati senz’anima. L’altro gran genere dell’eta barocca fu il poema eroico, concepito secondo le teorie e dietro il modello del Tasso, come

accorta

e giudiziosa mescolanza di storia e di favola, di diletto e d’ammaestramento, di poesia e di dottrina. Parecchi degli scrittori, la cui fama si raccomanda oggi a tutt’altro genere di opere, non tralasciarono di cimentarsi nell’arringo della poesia eroica; cosi il Marino incomincio a scrivere una Gerusalemme distrutta; il Testi, un Costantino e un'India conquistata; il Tassoni, un Oceano (intorno alla scoperta

dell’America); e gia s’@ detto dei poemi del Chiabrera. Molti ne scrisse il pistoiese FRANCESCO BRACCIOLINI (1566-1645) uno dei letterati pid fecondi e pit insipidi del tempo, tiproducendo stancamente la struttura, interessante,

gli episodi, le situazioni, il linguaggio del Tasso. Pit per un certo calore che anima la marrazione e per lo

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stile eloquente e scorrevole, in cui s’avvertono frequenti gli influssi della moda marinistica, é@ il Conguisto di Granata di GIROLAMO GRAZIANI

(1604-75) da Pergola.

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_ Da un proposito di scherzo e di piacevole parodia, in

margine alla solennita accademica del genere eroico, nacque in parte la voga di quei poemi eroicomici, che per un’altra parte prendono colore e significato dalla satira del costume contemporaneo,

dalla cronaca

burlesca

del piccolo mondo

che si agitava nelle citta italiane del tempo, e addirittura talvolta dal pettegolezzo e dalla maldicenza personale. Di avere introdotto questa nuova forma mend il vanto ALEsSANDRO

TassONI,

la cui Secchia rapita,

pubblicata per la

prima volta nel 1622 ma gid compiuta e diffusa manoscritta parecchi anni prima, é anche rimasta fino ad oggi ‘sen pit famoso e pit letto di questo genere di poesia. In dodici canti, in ottave, narra la guerra combattuta fra modenesi e

bolognesi a causa di una secchia di legno, che i primi avevano rapita ai secondi durante una scorreria (nel 1325), attribuendo all’evento reale sviluppi e colori fantastici, e liberamente me-

scolando con esso episodi di tempi diversi, come la battaglia della Fossalta e la prigionia di re Enzo, l’intervento di Ezzelino, la presa di Castelfranco, ecc. Nella Secchia conflui-_

scono lo spirito polemico del Tassoni contro il costume e la letteratura del suo tempo; il suo gusto della bizzarria e del paradosso; il fastidio del modenese verso i suoi concittadini,

e infine i suoi odi e risentimenti personali. Il tono é assai vario: si va dalle pagine di ispirazione idillico-sensuale, tutte serie, degli amori di Endimione e della Luna e del viaggio di Venere a Napoli, a quelle parodistico-satiriche del concilio degli dei, dove al burlesco travestimento della mitologia

omerica si mescolano le allusioni agli ambienti e alle persone della curia pontificia. Il meglio della Secchia é costituito da certi ritratti-caricature, disegnati alla brava in uno stile rapido e€ incisivo; e da certe scene e quadretti ed interni di vita

borghese e plebea, colti nelle loro apparenze comiche con quell’immediatezza e quell’evidenza, che é il frutto d’un’arte

scaltrita attraverso lo studio e l’imitazione delle rime burchiellesche e bernesche. Talune figure, come quella del conte di

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Culagna, che é il tipo dello spaccone vigliacco e del galante gabbato, e l’altra del Titta, il popolano gradasso e millantatore, e quella ancora del vescovo che benedice i combattenti

(« trinciava certe benedizioni Che pigliavano un miglio di _ paese »), restano vive, nella generale prolissita e monotonia _ del poema, proprio in virti di quest’arte di bozzettista e caricaturista, Capace assai pit di ritrarre con sobria efficacia il par-

ticolare e il caratteristico di un gesto e di una situazione, che non diorganizzare e approfondire gli spunti e le macchiette sparse in un quadro di vita complessa e variamente articolata. Neppure quest’arte e questa efficacia di rappresentazione spicciola Si possono riconoscere allo Scherno degli dei (1618) di FRANCESCO BRACCIOLINI, che in esso da ancora una prova della sua disinvoltura versaiola, pari soltanto alla freddezza e all’indifferenza con cui affron-

tava tutti 1 temi e tutti i generi, senza uscire mai fuori del generico e dell’accademico;

né ai molti altri poemi eroicomici del Seicento,

come il Malmantile racquistato del pittore LoRENZzO LIPPI (1606-65) e il Poemone (1643) di PreRo DE’ BarDI. Si accosta maggiormente allo schema tassoniano della Secchia, e pud starle accanto non inde-

gnamente anche per il brio dello stile e la vivacita di qualche episodio e personaggio, |’Asino del padovano CarLo Dorrori (16181686), il quale raccontando le ridicole lotte fra i comuni di Vicenza e di Padova, mentre gateggia col Tassoni nel ritrarre realisticamente quadri e macchiette di vita quotidiana, porta poi nella satira del costume contemporaneo

un animo pit appassionato e meno

astioso, ¢€

da prova nelle parti serie (come la storia dell’amore tragico di Desmanina, e quelle di Elisa-e di Orinda) di quella gentilezza e delicatezza di intuito psicologico e di quell’acuta sensibilita, che mancavano al letterato modenese e che si richiamano piuttosto al patetico del Tasso. Il Dottori, artista e cultore di studi scientifici, autore di

un romanzo (Alfenore), di time amorose d’ispirazione marinistica e di odi eroiche e gnomiche sul modello del Testi, era un poeta e un animo tutt’altro che volgare, come avremo occasione di veder meglio discorrendo fra poco di quella tragedia, che é forse la sua opera pii notevole. Dallo schema del Tassoni si discostano invece alquanto il Torracchione desolato di BARTOLOMEO CoRSINI (1603-73) da Barberino, il quale, meglio che un poema eroicomico, ¢ piuttosto un lungo racconto esposto in stile giocoso e festevole; la Guardinfanteide

(1643) del frate FuLvio FRUGONI, opera scherzosa e non del tutto priva di grazia; e la Bucchereide del medico ¢ naturalista fiorentino

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LORENZO BELLINI, poemetto pieno di vivacita e¢ di movimento, a mezzo fra il ditirambo e il genere eroicomico, dove intorno alla celebrazione delle terre odorose, care anche all’altro naturalista Magalotti, s’intreccia capricciosamente una folla di digressioni, osservazioni, — precetti, tra il serio e il faceto.

5. I generi letterari: il teatro, la novella e il romanzo. — La tragedia del Seicento continua, per molti aspetti, quella del secolo precedente, ma proprio in quanto

ne accoglie gli schemi senza discuterli e non é piu tutta impigliata come allora nei dibattiti teorici, nelle ei e nei tentativi, procede nel suo ambito con maggiore ranchezza e — spontaneita. Le tre unita, la divisione in cinque atti, il coro sono ormai regole universalmente accolte; e fra il tipo trissi-

niano, che si richiama alla semplicita greca, e quello giraldiano, che preferisce la commozione pid violenta e oratoria,

i colori e gli orrori di Seneca, ha avuto la meglio il secondo, ma con molti compromessi e temperamenti, di cui da un’idea, gia sul finire del Cinquecento, il Torrismondo del Tasso, che

é tragedia greca per la struttura e la trama sofoclea, ma senechiana nello spirito e nei modi di presentare e svolgere l’argomento di incesto e di morte. Quanto alla materia, la tragedia del Seicento ha i suoi precedenti immediati nelle opere del Torelli, con quei conflitti caratteristici fra la ragion di stato e la coscienza, fra l’ambizione del potere e il sentimento. Il moralismo sottile, proprio di un’eta che ha inventato, oppure recato all’estrema raffinatezza, la casistica, gli scrupoli, le reticenze, la « dissimulazione onesta », pene-

tra nella tragedia secentesca, e ne costituisce per dir cosi l’atmosfera e lo sfondo, su cui si proietta l’inquieto e trepido gioco degli affetti umani, sempre oppressi e sacrificati dalla presenza di tanti limiti e vincoli e leggi esteriori, ma consci di questa necessita che li opprime e li soffoca e pronti e rassegnati al sacrificio. La tragedia italiana del cento, con i suoi eroi che deliberano e operano mossi

pur gia Seipit

dalla ragione che dall’istinto, con i suoi tiranni dalla mente ambiziosa e cupa, e le sue vittime consapevoli che affron-

tano docili e insieme risolute la morte, rassomiglia, nei temi e nello spirito, se non nella grandezza della poesia, a quella



pene

feceklrne kts

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,

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rancese contemporanea di Corneille, e rappresenta ad ogni modo una delle espressioni pit serie e pil umanamente profonde della letteratura nostra in quegli anni.

Al genere, in quanto tale, si dedicarono molti fra gli ‘Sscrittori del secolo da noi gia ricordati altrove come il Chiabrera, il Testi, il Bracciolini, ecc. Ma pochi sono quelli che

taggiungonola poesia, o anche solo un certo grado di umanita e di dignita artistica. Superiore a tutti riesce CaRLo DortTorI, nell’Aristodemo (1657) che é insieme una delle opere pitt belle, e delle pit significative, della letteratura secentesca,

e gia a qualche contemporaneo

pareva che occupasse < il

_ primo luogo fra le tragedie toscane e.... forse ancora fra le latine del buon secolo ». L’ispirazione tragica s’accentra qui nella figura di Merope, la fanciulla sacra alla morte per la

volonta ambiziosa del padre e per obbedienza alle leggi della patria: docile e pacatamente eroica, d’un eroismo senza ret-

torica, malinconico e severo, essa ha gia accolto da gran tempo nel suo animo questo pensiero di morte e va senza esitare

incontro al suo destino; rassegnata al nobile sacrificio che l’attende, procede, fra i vivi, quasi staccata dalla vita stessa.

Accanto a lei é tragica, d’una tragicita diversa, pid orrenda e feroce e pil appariscente, la figura del padre, Aristodemo,

l'uomo che tutto sacrifica alla sua ostinata e prepotente ambizione di regnare. Per la delicatezza e per il vigore, con cui il poeta ‘ritrae questi due personaggi, e specialmente quello di Merope, l’Aristodemo del Dottori é anche oggi un’opera viva, nonostante l’incertezza e la fiacchezza di alcune parti e della struttura, e l’enfasi che qua e 1a si insinua nel linguaggio, soprattutto degli episodi patetict. Assai notevoli sono anche le tragedie sacre dell’astigiano

FepeRIcoO DELLA VALLE (m. 1628): la Judith e l'Esther, d’argomento biblico, e la Reina di Scozia, che ritrae le ultime ore di prigionia e la morte di Maria Stuarda. In tutte e tre é evidente il proposito religioso, la volonta di esaltare la fede che trionfa su tutti gli ostacoli e attraverso il sacrificio cruento dei suoi martiri. Ma questo proposito, che nasce da un fondo di religiosita schietta, virile ed austera, e il moralismo, che accompagna 93. —

SAPEGNO,

Disegno

stor.

della

lett.

e commenta it.

l’azione, mentre

Stoel |

rivelano la presenza diuno spirito nobile, grave € pensoso non turbano la visione immediata e sensibile della realta psi- — — cologica. L'ispitazione, pi drammatica e mossa nella Judith, .

pit lineare e lirica nella Reina di Scozia, pit riflessiva e mo-

ralistica nell’Esther, scaturisce dappertutto da un’esperienza — umana, insieme vasta e profonda, e assurge a tratti alla poesia, oltrepassando nella luce di qualche frammento 1 limiti

di un linguaggio che, pur nella generale sobrieta e semplicita delle forme, serba quasi sempre qualcosa di generico e di approssimativo +). Degli altri generi di letteratura drammatica, quello coltivato nel Seicento con maggior fortuna, dopo la tragedia, é la favola pastorale: i due grandi modelli del Tasso e del Guarini, con il loro contenuto idillico-sensuale, erano cosi conformi

alia sensibilita del secolo che

dovevano naturalmente fruttificare in una serie numerosissima di imitazioni. Oltre l’Alczppo del Chiabrera, l’Ero e Leandro e l Amoroso sdegno del Bracciolini, ricorderemo qui soltanto la Filli di Sciro

(1607) dell’urbinate GUIDUBALDO

BONARELLI

(1563-1608), fratello

di Prospero. Assai intricata ne é la trama, che si fonda sul doppio

amore di Celia per Tirsi e per Aminta e su una complessa vicenda di nomi fittizi e di agnizioni; e all’ingegnosita e alla sottigliezza della favola corrispondono la squisitezza e la ricercatezza dello stile. Ma,

nei limiti dell’atmosfera tutta stilizzata e letteraria del dramma pastorale, il Bonarelli rivela non di rado una gentilezza di tocchi, una

sapienza e delicatezza d’intuito psicologico, che sono il segno di un’intelligenza arguta e raffinata e consapevole della sua raffinatezza e della sua arguzia. La commedia classicheggiante, che nel XVI secolo era stata trattata con molto impegno e con risultati talora felici, decade nel Seicento e poi scompare del tutto, sostituita in parte dalla crescente fortuna spettacolare della commedia dell’arte, e in parte dalle tradu-

zioni e dai numerosi rimaneggiamenti del teatro spagnolo di Lope *) Degne di ricordo sono anche le tragedie del veneziano Gio-

VANNI DELFINO

(m. 1699): la Lucrezia, il Creso e specialmente la

Cleopatra, in cui dominano Vispirazioné morale e politica, il tono riflessivo e sentenzioso. Politico e moraleggiante é anche il contenuto

del Solimano di PROSPERO BONARELLI (1588-1659) di Ancona, tragedia ricca di movimento e di vita psicologica ritratta con colori fortemente realistici.

7

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L TEATRO awt

ee,

de Vega, di Calderon de la Barca, e di Tirso de Molina. Son da ricordare solo, agli inizi del secolo seguente, le commedie di NiccoLd AMENTA (1659-1717), che obbediscono a un proposito intellettualistico di riforma e di restaurazione della correttezza artistica nel campo della letteratura teatrale, analoga operd, con l’Arcadia, nel campo considerate la Fiera e la Tancia giovane (1568-1646): la prima,

e parallela a quella che allora si della lirica. A parte debbono esser di MICHELANGELO BUONARROTI il che comprende cinque commedie

di cinque atti ciascuna, vuol essere una rappresentazione vivace e realistica del vario movimento, dei discorsi, delle liti, degli incidenti di un mercato; la seconda é una favola rusticale; nell’una e nell’altra

lo studioso e il buongustaio della lingua, il « cruscante » che si propone di raccogliere vocaboli e modi di dire espressivi e coloriti della parlata di Firenze oppure di quella del contado toscano, predomina di gran lunga sull’artista e sul disinteressato osservatore degli affetti

e dei costumi *). ] : Anche nel melodramma, che é pure, se guardiamo al complesso poetico-musicale, l’ultima grande manifestazione artistica della raffinata civilta italiana e l’estremo dono da essa offerto al gusto e alla sensibilita

dell’Europa,

Scarlatti, l’elemento sua

forza espressiva

mentre,

dal Monteverdi

al Provenzale

allo

della musica raggiunge le pit alte cime della e dell’intensita

drammatica,

operando

diretta-

mente e indirettamente sulla nascita e lo svolgimento dell’opera in _ Germania, in Francia e in Inghilterra; decade invece e diventa sempte pit: secondario-e trascurabile l’elemento pit propriamente letterario, il « libretto ». Si accentua il carattere spettacolare della rappresentazione, specie dopo I’apertura dei teatri pubblici (in luogo di quelli privati e principeschi), la quale si attua per la prima volta a Venezia

nel 1637. Da aristocratico che era, il melodramma

democratico, piegandosi a poco a poco alle esigenze di un pit vasto e meno raffinato; la scenografia e la coreografia il sopravvento; e alle azioni semplici e lineari (sul tipo _ch’eran piaciute al Rinuccini) succedono le azioni complicate

si fa

pubblico prendono di quelle e roman-

zesche, miste di elementi buffoneschi e comici, sotto l’influsso del romanzo e della commedia dell’arte. Fra il Rinuccini e lo Zeno, che

agli inizi del secolo seguente attuera la sua riforma letteraria del 1) Al servizio della propaganda e della persuasione devota si sviluppa anche un’abbondante e tardiva fioritura di drammi sacri, che subisce talora l’influsso del melodramma, come nei due drammi (la

Maddalena

(1578-1652).

e \VAdamo)

del fiorentino

GIAMBATTISTA

ANDREINI

Agito

melodramma,

whe

ary

non si trova nome di librettista che meriti di essere

ricordato in questa sede: potremo citare tutt’al pit il cardinale GruLIo ROSPIGLIOSI (1600-69), poi papa Clemente IX, autore di drammi sacti e profani e di commedie

per musica;

¢ GIOVANNI

ANDREA

Monlic_ia, per il suo « dramma civile rusticano », il Podesta di Colognole, con cui fu inaugurato nel 1657 il teatro di via della Pergola in Firenze. Accanto alla varia letteratura teatrale delle commedie, drammi e melodrammi

(esclusa la tragedia, e in parte la favola pastorale, che

si mantengono su un piano di maggiore nobilta e dignita), si pud collocare qui un cenno dell’abbondante letteratura narrativa del Seicento, la quale ha in comune con quella un fine di immediato diletto e di piacevole svago, e quindi I’assenza quasi totale di un interesse

propriamente poetico: il che non esclude, in molti casi, l'impegno ¢ l’'intenzione di un’arte pi o meno raffinata. La novella di tipo classico, o boccaccesco, non diede allora frutti degni di nota, sebbene non le mancassero cultori, soprattutto fra i letterati tradizionalisti e gli accademici dell’ambiente fiorentino; come il Dati, il Redi, il Magalotti, e fuori della Toscana, il patrizio veneto GIOVANNI SAGREDO,

autore dell’Arcadia in Brenta (1667), che @ una specie di piccolo Decamerone trasportato in un ambiente signorile di provincia. La maggior parte delle novelle di questo periodo rientrano invece in un tipo pit: basso e facile di letteratura amena, che ama gli intrecci complicati, i colori forti, il frequente intervento del meraviglioso, ¢

s'accontenta di uno stile gonfio e goffo al tempo stesso, manierato e prolisso: come le Novelle amorose dei signori Accademici Incogniti di Venezia (1651) ¢ le altre di GIANFRANCESCO LoREDANO, di GiroLAMO BRUSONI, di MAIOLINO BISACCIONI, in cui gid si fa evidente la tendenza al romanzesco. Il romanzo, che é uno dei « generi » pit caratteristici della letteratura secentesca, si svolge in parte sul fondamento della tradizione iniziata dagli ultimi novellieri del Cinquecento (Bandello, Giraldi, ecc.) e in parte per I’influsso degli esempi francesi, di cui riprende la materia cavalleresca, svolgendola con intrecci di vicende altrettanto complicate quanto attificiose e stucchevoli, e con uno stile non privo di ambizioni letterarie, infarcito di « concetti » con-

venzionali e di metafore lambiccate. I migliori esempi del genere sono forse l’Eromena, la Donzella desterrata e il Coralbo del dalmata

GIOVAN FRANCESCO BIONDI (1572-1644); il pit famoso é@ il Cal-

loandro fedele (1640-41) di GiovANNI AMBROGIO MaRINI. Accanto ai quali son da ricordare i romanzi scritti da letterati di maggior preparazione e fama, come il Brignole Sale, il Morando, il Battista,



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l’Artale,ilDottori, oppure da avventurieri della penna, come il Leti e Ferrante Pallavicino, Siffatti libri incontravano allora grandemente il gusto del pubblico, e non soltanto in Italia (erano infatti tradotti e€ imitati assai spesso in tutte le lingue europee), non certo per il loro valore poetico, che é minimo o addirittura nullo, si piuttosto per il diletto che derivava dalla materia avventurosa, e anche per l’inte-

_ tesse € la curiosita suscitati da quelle rappresentazioni di vita cortigiana, con il suo lusso e il suo fasto, nonché di vicende guerresche e politiche, che offrivano il pretesto non di rado a digressioni e dissertazioni sull’arte militare e la ragion di stato.

6. La prosa d’arte. — La stessa smania di novita, la stessa ostentazione di ingegnosita e di bravura accompagnata e sostenuta da una raffinata e eccessiva coscienza critica, che abbiamo notato nelle diverse manifestazioni della poesia secentesca, si ritrovano, con una analoga varieta e molteplicita

di atteggiamenti, anche nella prosa d’arte. Accanto alle esercitazioni

accademiche

dei tradizionalisti

toscani e al tran-

quillo svolgersi della prosa scientifica di scuola galileiana, si accampa lo stile fastoso, metaforico, estroso dei prosatori marinisti, dai predicatori ai romanzieri e novellieri, dai mo-

ralisti ai saggisti, dai critici fino agli stilisti e ai tecnici. Accanto alle opere di politica, di precettistica e di storia, che

continuano i modi-della trattatistica e della storiografia cinquecentesca, ovvero rinunziano, per soverchio amore delle cose, alla chiarezza e all’efficacia del dire, e insomma allo

stile, sorge e prende piede la maniera del parlar concettoso, per frasi brevi staccate incisive, quasi sentenze ed epigrammi in serie, dei cosidetti « senechisti ». I contemporanei

distin-

guevano, e anche noi possiamo, guardando alla struttura e agli schemi esteriori, distinguere abbastanza nettamente fra lo « stile asiatico » d’un Bartoli, quello rettorico e ritmico d’un

Tesauro e d’un Frugoni, quello succoso e quintessenziale d’un Malvezzi

e dei suoi imitatori. In realta perd i diversi tipi

assai spesso rientrano l’uno nell’altro, si sommano o meglio si confondono, e finiscono con l’apparire tutt’uno, anche perché nei fatti essi muovono da una medesima condizione di svogliatezza e delicatezza dell’intelletto e dei sensi € perse-

guono un analogo proposito di stuzzicare e sollecitare l'inap-

petenza dei lettori raffinati con sapori forti e nuovi € al

tempo stesso accortamente mescolati e dosati con artificio sapiente a suscitare sensazioni strane e illusorie. In una pa-

gina assai nota del suo Uomo di lettere, il Bartoli descrive e tratteggia con vivace ironia i modi pit caratteristici di que-

sto ch’egli chiama lo «stile concettoso »: coloro che vi si dedicano, egli dice, « fantasticando giorno e notte si struggono e sviscerano il cervello, come ragni, per tesser d’ingegnose sottigliezze le tele dei loro discorsi. Faticano in lavorare — concetti, che il pit delle volte riescono sconciature o sconcerti; fatture di vetro lavorate alla punta d’una lucerna, che solo toccate, per non dir vedute, si spezzano, e pur quanto pit fragili tanto pit belle». Alla falsa arte di cotesti vir-

tuosi il Bartoli contrappone quella pit vera e grande, che nasce da un « finissimo giudicio » e che, ben lungi dall’ostentare la propria bravura, s’'adopera invece a nasconderla. Eppure senti che, mentre lo giudica dall’alto e ne sorride, il Bartoli non riesce veramente a distaccarsi dallo stile barocco,

anzi lo ama e ne vagheggia la fragile grazia e l’ingegnosa dovizia, e adorna e riveste l’espressione stessa del suo giudizio severo di quei vezzi caratteristici, facendo pompa

linguaggio fiorito di metafore, vezze e d’arguzie, di concettini nulla egli € proprio lo scrittore, da forse la maggior misura di

d'un

di antitesi, di bisticci, di vie di motti spiritosi. Non per in cui la prosa d’arte barocca sé e ritrova la pienezza della

sua espressione,; nonché il pit tipico, se pure il pit abile,

rappresentante di quello stile descrittivo appunto, in cui egli vedeva esplicarsi il trionfo e il massimo sforzo, e insieme la

sconfitta suprema, di questi prosatori « ingegnosi ». Nato a Ferrara nel 1608, entrato quindicenne fra i gesuiti, morto a Roma nel 1685, DANIELLO BarRTOLI scrisse, per obbedire all’ordine dei suoi superiori, la Storia della Compagnia di Gest, la quale com-

prende anzitutto la Vita e istituto di Sant’Ignazio (1650), oltre le biografie di alcuni altri santi gesuiti, e poi il racconto delle missioni presso gli infedeli: l’Asta (1650) la Mzsstone al Gran Mogol del p. Ridolfo d’ Acquaviva (1653), il Giap pone (1660), la Cina (1661), !'Inghilterra (1667) e l'Italia (1673). B questa la sua opera di maggiot impegno, ricca e frondosa, tutta intessuta di minute descrizioni e di

Seo nS ian “ig 4 gtandiosi affreschi, che ricordano i modi della pittura contemporanea, in uno stile che al Giordani sembrava «terribile e stupendo» e ancora al Carducci « magnifico » e tale da potersi paragonare, per il suo fascino suggestivo e poetico, a quello nientemeno di Livio. I critici e gli storici del Risorgimento, come il De Sanctis e il Settembrini, e quelli dell’eta successiva, accentuarono invece il contrasto fra quella

magnificenza esteriore delle forme e l'intima aridita e freddezza dello scrittore, e s'indussero pertanto a definire il Bartoli, con sommaria condanna, come il « Marino della prosa » e come il tipico rappresentante appunto del « gesuitesimo nello stile». In verita, a guardar meglio, ci si accorgera che alla prosa del Bartoli non manca un certo

calore d’affetti, un discreto entusiasmo, che é insieme la gioia tista che immagina e traduce in’ parole la stupenda e ordinata degli aspetti naturali e delle costumanze umane, tutto un ricostruito per virti di fantasia e di sapienza verbale di sulle

dell’arvarieta mondo scarne

relazioni dei confratelli missionari, e la gioia del credente che in quell’ordine e in quella varieta vede riflettersi l’ottimistica visione dell’opera sublime e armoniosa della Provvidenza. Il virtuosismo artistico, per quanto compiaciuto esso sia non resta mai del tutto vuoto

e si piega ad esprimere e ritrarre un ideale di vita placidamente raccolta e riflessiva, educata in un clima di cultura umanistica, intonata a una moralita senza rigorismi e a una saggezza serena e mediocre.

Il che, meglio forse che nella grande fatica storiografica, s’avverte nelle scritture minori del ferrarese: da quelle d’argomento scientifico (Del suono, dei tremori armonici e dell’udito, 1679; Del ghiac-

cio e della coagulaztone, 1681, ecc.), a (La geografia trasportata al morale, 1664; rale, 1667; ecc.) fino a quelle di materia (1! torto e il diritto del Non si pud, 1655;

quelle d’argomento morale I stmboli trasportati al molinguistica e grammaticale L’ortografia ttaliana, 1670).

Ma i libri migliori del Bartoli, quelli in cui pr accortamente la dottrina si fonde con l’eloquenza, il moralismo con l’arte, l’ottimismo contemplativo con la virtuosita descrittiva,

l’educatore e il predicatore con il letterato, sono !Uomo al

punto (1657), che é una specie di lungo sermone ai peccatori sull’opportunita di fermarsia considerare il momento della . morte che coincide con l’inizio della vita eterna; ’!Uomo di

lettere (1654), che é un trattato dell’arte del dire, concepito in funzione di un’estetica pedagogica; e infine la Ricreazione del savio (1659), che é tutta un elogio della bellezza e del-



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l’'armonia del creato e quindi un inno di lode e di ringraz amento a Dio creatore. Alcune descrizioni tratte da quest’ultimo libro, per esempio quella delle chiocciole osservate ¢ dipinte nella varieta degli aspetti e dei colori, sono rimaste famose e corrono, o almeno correvano, per tutte le antologie:

e veramente in esse c’é qualcosa di pil di una mera bravura o diligenza formale; c’é un’esattezza amorosa di disegno e una lieta ricchezza graduata di colori e una potenza d’osservazione, che mon possono non rispondere a un motivo pro-

fondo d’entusiasmo; c’é insomma un senso poetico della natura, vivo, per quanto asservito a un intento pedagogico e coltivato e tenuto a freno da una letteratura scaltra e suadente. L'ingegnosita stilistica ad ogni modo rimane uno strumento per il Bartoli, nel quale ritrova un equilibrio e una misura attraverso l’educazione classica; essa é fine a se stessa e si rivela, senza freni e senza cautele, anzi con una sorta di ostinato compiacimento e di metodico fervore, nel rappresentante pit caratteristico della prosa

d’arte barocca: il genovese FRANCESCO FULVIO FRUGONI, frate dellordine dei Minimi di San Francesco da Paola, predicatore famoso e autore di opere devote, di romanzi e di storie romanzate, di drammi musicali e di molte altre scritture, fra le quali tutte eccelle

per mole e per importanza il Cane di Diogene (1687-88), che comptende, in sette « latrati », e cioé in sette tomi, dodici racconti rivolti

a satireggiare e inveire contro tutti i vizi e le colpe del secolo « scongegnato». Munito di vastissima dottrina morale e letteraria, non privo di larghe e diverse esperienze acquistate nei lunghi viaggi in we Francia, in Inghilterra, in Olanda e in Ispagna, ammiratore fervente

del Tesauro fra gli italiani, del Quevedo e del Godngora fra gli spa-/ gnoli; il Frugoni metteva tutto il pregio e tutto lo sforzo della sua intelligenza nell’abilita di congegnare spiritosamente non tanto i pen- | sieti, quanto le parole. Fioriture di immagini; sequele a non termi-

nare di aggettivi e di apposizioni, magari disposte in modo da costituire gruppi di parole o frasi rimate; l’espressione sempre ricercata, metaforica, allusiva; l’erudizione sempre squisita ¢ sprezzante del

triviale; tutti gli artifici accolti da qualunque parte come un dono, e tutti talora accumulati, sovrapposti, mescolati nello stesso periodo, senza che si perda mai il senso esterno del ritmo e conservando una sapiente varieta di clausole: questi sono i caratteri della prosa del Frugoni, questi i pregi di cui egli si compiaceva ¢ menava vanto. Per

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. virtuosita stilistica del Frugoni era assai meno meccanica e di gran

lunga pil varia, pit doviziosa, pit splendida, e la sua abilita, per quanto frivola e dissipata, sorprendente e nel suo genete non priva

di interesse. _ Assai pit sostanziosa e ricca d’anima, pur nella sua preziosita formale, é la prosa del primo e maggiore fra i nostri « senechisti », il bolognese VIRGILIO MALVEZzZI (1595-1654), che piacque al Gracian, ¢ influi per i modi stilistici su di lui e sul Quevedo e in genere sullo svolgersi in Ispagna del «cultismo» e del «concettismo ». _ Nei suoi libri il Malvezzi portava, insieme con una larga esperienza degli uomini e dei costumi e una ricca, ma tutta umana e bene organizzata, cultura, un amore dello stile raffinato e arguto, non gia per sovrabbondanza e fulgore di immagini, si per la concisione e l’epi| grammatica struttura delle sentenze, e per la finezza delle antitesi e dei concetti spezzati e martellati sul modello di Seneca. Dai giovanili Discorsi sopra Tacito alle biografie, non tanto romanzate quanto piuttosto ragionate e moralizzate, di personaggi storici, alle opere di storia contemporanea, tutti gli scritti del Malvezzi si rassomigliana nella struttura e appaiono come il lavoro, non di uno storico e di un

politico propriamente parlando, bensi di un moralista e di un filosofo, nel quale, insieme con I’eredita delle dottrine politiche e della

storiografia del ‘Rinascimento, confluisce la casistica dei teorici della tagion di stato e tutto il fermento ideologico del secolo, e che per il raffinato vigore dello stile pud stare, non del tutto indegnamente,

accanto ai maggiori moralisti contemporanei spagnoli e francesi, dal Gracian al La Rochefoucauld. Non mette conto di insistere sugli altri minori prosatori del secolo XVII, nei quali le formule ¢ i modi stilistici ora descritti ticompaiono pit o meno esagerati, mescolati, confusi, senza il risalto

di una personalita vigorosa, Gia s’@ accennato altrove del resto a numerosi esempi dell’abbondante letteratura precettistica e riflessiva, ¢ sé dato il giusto rilievo a qualche figura di prosatore pit risentita ed interessante, come quella dell’Accetto. Qui sara il caso soltanto

di aggiungere che uno dei campi, in cui la rettorica marinistica ¢ concettistica trionfd pit largamente, fu quello della letteratura devota.. Agli eccessi di un’eloquenza che tendeva all’effetto, se non alla persuasione, valendosi degli espedienti tecnici pit: arditi e pit stravaganti, tentd di reagire il gesuita romano PAOLO SEGNERI (1624-94), che nelle sue prediche

(Panegirict,

1664; Quaresimale,

1679; Pre:

diche dette nel Palazzo Apostolico, 1694) e nelle altre prose spi

(Cristiano istruito, 1686; Incredulo senza scusa, 1690) cerca di atte-

nersi ai modi della migliore tradizione cinquecentesca, costruisce il — discorso su una salda struttura logica, e rivela assai spesso una no- — tevole finezza e discrezione nel rappresentare e giudicare i dati della tealta psicologica. Il Segneri era uomo sinceramente pio, € insieme non inesperto del mondo e degli uomini: se nelle prediche pud darci — fastidio oggi quel che vi persiste del gusto enfatico del tempo, restano — sempre tutt’altro che spregevoli la chiara e pacata dialettica e lo stile lucido e onesto, se pur scarsamente individuale e senza grandezza, delle operette minori.

7. La letteratura dialettale e G. B. Basile.. — A completamento della nostra sommaria rassegna della letteratura secentesca, rimane da aggiungere un cenno intorno alla ricca fioritura della poesia dialettale. La quale, sebbene non nasca soltanto nel secolo XVII, acquista tuttavia in quel periodo un’importanza e una

diffusione, quali non aveva avuto mai fino allora. Né si tratta gia, come a prima vista si potrebbe credere, di scritture popolari, bensi di variazioni, in tono di parodia e di celia, che scaturiscono dalle

penne dei letterati colti e accademici in margine allo svolgersi della letteratura aulica in lingua, e quasi come una specie di scherzosa — liberazione e di ironico superamento di quella letteratura: espressioni insomma di una cultura e di una civilta raffinatissime e fatte pit svogliate, scettiche e leggere dalla coscienza appunto della loro rafinatezza. Hanno un posto importante in questa letteratura le poesie milanesi del MAGGI, quelle bolognesi di GIULIO CESARE

CROCE,

quelle veneziane di Marco BoscuinI, quelle napoletane di FILIPPO SGRUTTENDIO e di GIULIO CESARE CORTESE.

Il tono scherzoso assurge alla poesia negli scritti di GiaM-

BATTISTA BASILE (1575-1632): le Muse napolitane, egloghe o meglio quadretti e satire in versi, in cui si rappresentano

figure ed episodi del costume partenopeo, e specialmente Lo cunto de li cunti ovvero lo Trattenemiento de’ peccerille,

raccolta in prosa di fiabe popolari, che si fingono narrate in cinque giorni da dieci vecchiette. La materia delle narrazioni é tratta dal comune patrimonio folcloristico, ma ad essa

l’autore si accosta con l’atteggiamento, misto di simpatia ¢apricciosa e di superiore ironia, del letterato che, nel ripren-

dere e rinnovare quel mondo di puerili fantasie, ne scopre



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Dy hag" y,

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€ mette in risalto la tenue grazia poetica e al tempo stesso

ne sottolinea l’ingenuita. Perché il Basile era appunto un

letterato, cresciuto e educato nel clima della poetica secentesca; e il gusto barocco, con le sue arguzie e i suoi concetti, con le sue acrobazie verbali e la stravaganza delle metafore

e delle iperboli, penetra largamente sia nelle egloghe, sia e in misura anche piu grande nelle fiabe del Pentamerone, come coloritura letteraria di una materia vile e popolaresca. L’educazione letteraria é il mezzo per cui si attua il distacco del-

lautore dal suo soggetto, e si ristabilisce quel tono di equilibrio umano e poetico, cosi difficile e raro, ugualmente di-

stante dai modi della letteratura popolareggiante e per bimbi, falsamente ingenua e smancerosa, come dalla fredda e arida riproduzione filologica dei folcloristi. Il Basile infatti, proprio in quanto serba di fronte ai casi che viene narrando la sua naturale superiorita di uomo colto, riesce anche a scoprirne e sottolinearne la nota umana, riempie e riscalda que-

gli schemi narrativi con il continuo intervento della sua immaginazione sensibile e affettuosa e del suo spirito riflessivo e sentenzioso, eleva la fiaba insomma a pretesto del suo mo-

:

ralismo e della sua arte. E l’arte del Basile ¢ grande, sapientemente orchestrata, con quell’abbondanza di tinte e di suoni,

con quell’enfasi barocca e spagnolesca, in cut si mescolano e si confondono I’iperbole e il grottesco, il patetico e il comico, e perfino con quel sapore di stranezza e di nativa ricchezza vetbale che le viene dall’uso del dialetto. Ma il moralismo,

di un animo onesto e sincero, amante della giustizia e della semplice bonta, pietoso per i miseri, pieno di sdegno ingenuo per i cattivi e i prepotenti, il moralismo di un animo candido,

qual era quello del Basile, costituisce poi la sostanza e la ragion d’essere di. quell’arte, alla quale fornisce una solida

struttura, ed esso solo spiega i momenti pit teneri e affettuosi, pit. caldi e commoventi, del libro, e quel continuo tra-

passare in esso dal mondo fiabesco al realistico, dal regno delle strane e stupende fantasie a quello della vita quoti-

diana e plebea, rievocata con cuore partecipe e nostalgico e rivissuta in ogni suo particolare con immediata simpatia.

7

Capiroro

XVI.

L’ ESTETICA E LA FILOLOGIA NELL’ ETA DI G. B. VICO

1. La poetica e la critica letteraria. — Tra la fine del secolo XVII e i primi decenni del XVIII la cultura italiana si rinnova, accogliendo nel suo seno e facendo propri i

risultati della pi moderna esperienza europea, dalla metodo-

logia scientifica di Bacone all’atomismo di Gassendi, dal razionalismo

di Cartesio all’intellettualismo

di Leibnitz, dal —

giusnaturalismo di Grozio all’empirismo di Locke, dal razionalismo estetico di Boileau al classicismo francese del gran secolo. Chi peré, dopo aver ammesso l’importanza storica e€— il benefico influsso esercitato sulla decadente civilta italiana



dall’apporto di queste correnti del pensiero e della letteratura — d'oltralpe, ritenesse percid di dover porre un profondo di-

stacco fra la cultura italiana del primo Settecento e quella dei

secoli precedenti, incorrerebbe in un grave errore. L’Italia infatti, mentre accetta ed assorbe i frutti del rinnovato pen-

siero europeo, non per questo crede opportuno di respingere? e allontanare da sé il suo passato glorioso; tiene fermi anzie approfondisce, con spirito critico, i legami con la tradizione| cinquecentesca e anche con le parti pil vive e feconde di quella secentesca: sia perché da un lato riconosce nei Baconi e

nei Cartesi i continuatori della grande corrente antiaristotelica

nostrana, da Telesio a Bruno e a Campanella +), e nella stessa

*) mente quali buoni

Nel campo delle scienze fisiche e naturali si continua direttala scuola di Galileo, per opera di numerosi discepoli, tra i ricorderemo, per esser stati, oltre che scienziati illustri, anche letterati e limpidi ed efficaci scrittori, i medici e naturalisti



letteratura francese del Seicento, con il suo gusto classicistico, un prodotto della poesia e della poetica italiana del Rinascimento; sia anche perché dall’altro lato essa non rinuncia ai dati di una sensibilita pid umana, pit duttile, pit mobile, che nell’ultimo secolo si era ancora acuita e fatta piu

cosciente, e in nome di essi reagisce utilmente agli schemi troppo logici e geomettici, e quindi alquanto semplicistici, del razionalismo cosi nel campo della filosofia come in quello della filologia e dell’estetica. L’Italia diventa allora, se si vuole, cartesiana in filosofia, razionalista in arte, giusnatu-

ralista-in politica: ma senza smarrire il gusto della storia e dell’erudizione, come si pud vedere nel Muratori; senza tinunciare al senso della poesia come facolta distinta e diversa

dalla ragione, come mostrano fra gli altri il Muratori stesso, il Gravina e il Conti; senza rinnegare i risultati della scienza politica e della ragion di stato, come provano i nostri storici e studiosi di diritto pubblico, con la loro tenace diffidenza per tutte le utopie e con il loro culto non mai spento per Machiavelli. Per non dire, fin d’ora, del Vico, in cui la viva e con-

sapevole presenza degli elementi pid ricchi e fecondi della vecchia cultura italiana, ripensati e approfonditi alla luce e in

contrasto con gli apporti della nuova cultura d’oltralpe, costituisce il germe di un pit alto pensiero, che supera di molto

i limiti del razionalismo e del cartesianismo e ricongiunge direttamente la nostra civilta rinascimentale e barocca con uella del Romanticismo europeo. Ma il Vico appunto, con la sua filosofia dell’arte e con il suo concetto profondo della

storia, non si spiega al di fuori di quel caratteristico atteggiamento della cultura italiana nei primordi del Settecento, avida

di verita nuove e pronta ad accoglierle da qualunque parte, e pure al tempo stesso tenacemente conservatrice, studiosa del proprio passato, attaccata a una tradizione illustre di poesia e di sapienza storica. ANTONIO VALLISNIERI, G. B. MORGAGNI, LAZZARO SPALLANZANI; i fisici Luicl! GALVANI e ALESSANDRO VOLTA; i matematici Lo-

RENZO MASCHERONI e GIUSEPPE LUIGI LAGRANGIA; gli astronomi RucGERO GIUSEPPE BoscoviCH ¢ GIUSEPPE PIAZZI.

Senza dubbio gid negli ultimi decenni del secolo XVI [ a per bocca dei suoi ( fight migliori, d’essere entrata dopo la morte del Tasso in una

l'Italia acquista coscienza, e l’esprim e

fase d’involuzione e di decadenza, per cui, come scriveva fra.

i tanti il Muratori, ella s’era lasciata rapire, « non gia le lettere, ma il bel pregio della preminenza in alcune parti delle lettere », e€aveva permesso « che altre nazioni piu fortunate,

certo non pit ingegnose, le andassero avanti nel sentiero della gloria, che ella aveva dianzi insegnato ad altrui ». Ma questa coscienza appunto prende la forma di un richiamo ai grandi esempi della tradizione nazionale, cui gli Italiani debbono rifarsi, per rendersi nuovamente degni di quel primato che hanno temporaneamente perduto. E questa tradizione, nel

campo della letteratura, é tutta intessuta di intelligenza e insieme di fantasia, di decoro e di misura classicheggiante e insieme di inventiva e di ardimento; né, in nome della verita e del decoro classico, gli Italiani si sentono di rinunciare alla

fantasia, all’arditezza, all’ingegnosita dei moderni. In Francia

i filosofi, col. loro culto della verita e delle idee chiare e di-

stinte e con il loro odio dell’immaginazione libera e capricciosa, riuscivano, se pure involontariamente, a una rigida ne-

gazione della poesia stessa, 0 tutt’al pit s’inducevano a tollerarla qualora essa accettasse di sottomettersi alle regole della fredda ragione; e i letterati, per bocca del Boileau, avevano

ridotto a formula il gusto geometrico del tempo e della nazione, e in nome del vero e del buon senso avevano preso a giudicare severamente i modi della poesia italiana, non solo dei marinisti e concettisti del Seicento, ma del Tasso stesso

considerato come il loro capostipite e maestro, Contro questa rigidezza e questa angustia di sentimento e di giudizio insorsero i nostri scrittori, non per mero orgoglio nazionalistico, bensi con la consapevolezza di difendere un autentico patrimonio di poesia e una profonda esigenza dello spirito. L’operetta di un gesuita cartesiano,

il padre Bouhours,

intitolata

Maniére de bien penser dans les ouvrages de l’esprit (1687), nella quale si istituisce una critica vivace e baldanzosa della nostra letteratura secentesca, divenne l’oggetto sui primi del Settecento di una vasta polemica, dibattuta non soltanto fra italiani e francesi, ma da-

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- gli italiani stessi fra di loro. La inizid il bolognese GIusEPPE OrsI, con le sue Considerazioni sopra la « Maniera di ben pensare » (1703), e vi parteciparono insieme con molti altri; ANTON MarIA SALVINI, APOSTOLO ZENO, EUSTACHIO MANFREDI, LuDOvICO ANTONIO MuRATORI, il pesarese FRANCESCO Mon rant, il ferrarese GIROLAMO

BARUFFALDI, tutti letterati che si muovono nell’ambito del nuovo gusto instaurato dall’ Arcadia. L’Orsi si sforza di trovare una via di

mezzo fra l’esuberanza stravagante del secentismo e l’aridita del razionalismo cartesiano, ugualmente lontane e dannose alla vera poesia; il Manfredi insiste sulla diversita del genio poetico francese da quello italiano, e riconosce in quest’ultimo l’eredita pit diretta dei classici gteci e latini mentre nota in quello la scarsissima cura di « dare allo stile un particolare carattere, che sopra la prosa lo sollevi

e da essa lo distingua ». Il Montani riprende la teoria platonica dellispirazione poetica, come frutto di un estro e furore divino, prodotto di un « érnpito sovrumano »; e propone un criterio di giudizio che, invece di appoggiarsi a norme astratte ed immobili, si attenga a una cetta « equita », storica e relativistica, « dipendente dal riflesso alle mutazioni dei tempi, ai cambiamenti delle religioni, dei paesi, dei costumi, dei gusti». Screditate le regole, o almeno alquanto scosse dal solido piedestallo su cui le aveva collocate la poetica del Rinascimento,

restava, criterio

unico

e universalmente

riconosciuto

per il giudizio e la pratica dell’arte, quello che allora si disse « buon gusto », con una formula altrettanto provvisoria e povera di conteauto ‘filosofico quanto essa é storicamente significativa, e nella quale sono evidenti il punto di contatto con la poetica dell’eta barocca, ita-

liana e spagnola, e insieme il nuovo indirizzo arcadico con le sue preferenze strettamente classicistiche e le sue antipatie per gli eccessi e le stravaganze della poesia secentesca. Questa formula del resto, che I'Italia adotta allora in comune con tutta la cultura europea, acquista da noi un contenuto e un accento in parte diversi e singolari, a causa di una minore insistenza sugli elementi intellettivi dell’arte e della maggiore importanza che invece si attribuisce dai nostri teorici agli elementi irrazionali e fantastici +). Cosi i due maggiori e pit fortunati teorici della prima 1) Son da ricordare, fra gli altri, il gesuita CAMILLO ErrorkI, che,

pur imponendo alla poesia il freno e la regola della ragione, riconosce per altro le esigenze della fantasia nei suoi caratteri di individualita e di concretezza sensibile; il cartesiano calabrese GREGORIO

CALOPRESO (m. 1715); il bergamasco PIETRO CALEPIO, che nel suo Paragone della poesia tragica d'Italia con quella di Francia (1732)

, oy. ee entrambi conee di a sono Muratori, il e Gravina il meta del Settecento, nel contrapporre al « vero » dei francesi il « verosimile » della poe- —

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tica aristotelica, concetto antiquato ormai e ad ogni modo provvisorio,

ma che pur si rivela tuttora fecondo come criterio di giudizio, sia_ contro la falsita e l’arbitrio del gusto secentesco, sia contro la freddezza e l’aridita di quello cartesiano. GIAN VINCENZO

GRAVINA,

nato a Reggiano presso Cosenza nel

1664, morto a Roma nel 1718, é una delle figure pit insigni della cultura italiana nell’eta dell’Arcadia. Discepolo del Calopreso e convinto cartesiano, avversario coraggioso della casistica e della morale

en





gesuitica, giurista famosissimo e storico delle istituzioni e del diritto

romano, letterato e autore di tragedie, nelle quali tentd assai infeli.

:

cemente di attuare i suoi presupposti teorici, il Gravina concepi fra

i primi nel suo Discorso sull’Endimione del Guidi (1692) Videa di una poetica come scienza, dedotta da rigorosi principi razionali; pur

astenendosi per altro dal confondere la ragione con le regole e mostrandosi anzi contrario alla teoria dei generi letterari, con la quale si pretendeva di imporre un « indiscreto freno alla grandezza delle nostre immaginazioni ». Nella Ragion poetica (1708) tentd di attuare il disegno abbozzato nel discorso precedente, e defini la poesia come" una « scienza delle umane e divine’ cose, convertita in immagine fantastica ed armoniosa »: come una forma cioé imperfetta e rudimentale di conoscenza, predisposta a vantaggio delle « menti volgari ». In tal modo la poesia acquista un suo posto e una sua funzione nella storia della civilta umana: «la favola é l’esser delle cose, trasformato

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in geni umani, ed @ la verita travestita in sembianza popolare.... ». tol ay Mentre sembra che il Gravina ritorni (e in parte vi ritorna infatti) aaeCy al pregiudizio di un’estetica rigorosamente moralistica e pedagogica, in realta egli propugna un ideale di classicismo pit robusto e integrale, per cui il poeta appare non tanto divulgatore, quanto creatore di civilta, e Ja sua opera tanto pit importante ed ammirevole, quanto ~ pia parla alle menti degli uomini attraverso i sensi e con la commozione profonda degli affetti. La diversita del concetto di poesia, woe e che il Gravina ha in mente, da quello che sta alla radice delle poetiche cartesiane, risulta anche pit chiara dai rapidi profili critici di

*

combatte il rigido classicismo francese, propugnando un’interpretazione pit ragionevole e insieme pid libera della poetica aristotelica, con cui precorre le idee del Lessing; e infine !’altro gesuita milanese Tommaso CrvA, che in un suo saggio critico sulle rime sacre del Lemene mostra di possedere un vivo senso del linguaggio poetico, con i suoi valori essenzialmente affettivi e metaforici.

cui s’intesse nella maggior parte la sua Ragion poetica: dove i poeti naturali, i « primi inventori », acquistan rilievo e pregio al di sopra dei tappresentanti delle civilta troppo raffinate, talché Ometo é preferito a Virgilio, e Dante al Tasso. Pit limitato é l’orizzonte del gusto, ma meno impigliato forse nei ceppi moralistici (anche perché pit stretto alla tradizione cinquecentesca), nelle opere estetiche di Lupovico ANTONIO MURATORI, il quale non appunta le sue preferenze, come il Gravina, ai grandi

poeti-vati, creatori di una civilta nazionale, come Omero e Dante (dei cui pregi egli é assai tiepido estimatore, in cid d’accordo con la maggior parte dei suoi contemporanei), si piuttosto ai poeti-letterati, in cui si attua Videale del «buon gusto», alieno cosi dalle stravaganze e dagli ardimenti soverchi come dall’eccessiva freddezza e dall’aridita geometrica. Sia nelle Riflessioni. sul buon gusto (1703), sia nel irattato Della perfetta poesia italiana (1706), il Muratori mostra di ereditare dalla tradizione italiana il concetto dell’arte come ornato € come sapienza rettorica (nonché quello della poesia come diletto e principio di meraviglia); dal classicismo francese ed arcadico tiprende l’altro principio della « ragione » che imbriglia e regola i movimenti della fantasia (la quale, considerata in se stessa, si riduce a mera sensualita) e cosi attua l’idea del « buon gusto »; € si sforza poi di conciliarli e di applicarli entrambi nell’esercizio concreto del giudizio critico, specie in quelle Osservazioni al Petrarca (1711), che sono, con tuttii loro limiti e i loro errori, una delle espressioni pit notevoli, pit: equilibrate e pit acute del gusto contemporaneo italiano. Uno spirito piu irrequieto, e talora pit profondo, si avverte negli

scritti estetici sparsi e frammentari dell’abate padovano ANTONIO ConTI (1677-1749). Buon conoscitore delle poetiche del Rinascimento eal tempo stesso informatissimo della filosofia europea contemporanea, il Conti avvertiva il bisogno di approfondire maggiormente il concetto classico dell’arte come imitazione del vero, e cre-

deva di poter cogliere l’essenza dell'universale poetico nel.« caratteristico» e nel « tipico », per cui l’artista sceglie nel suo oggetto quei tratti, quel punto di vista, quella prospettiva, che meglio si rivelano opportuni a dar l’impressione del vero. In questa scelta, in questa maniera tutta personale e soggettiva di vedere e di ritrarre i dati del mondo esterno, consiste il verosimile della poesia: ben lontano dun-

que dall’essere soltanto una fedele e scientifica riproduzione della realta. Come il Gravina e il Muratori, anche il Conti aderiva in parte

alle tendenze del gusto settecentesco verso una poesia regolata dalla

ragione, ma diffidava dei francesi, che « introducevano nella letteratura lo spirito e il metodo di Cartesio », e per conto suo attribuiva 24, —

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invece una grande importanza alla funzione della fantasia; guendo inoltre, meglio che non facesse il Muratori, la fantasia attiva ; dei poeti da quella passiva e meramente illusoria, che suscita 1 sognt ~

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e i deliri. La prima, infatti, aveva per lui la sua radice in un fervore di entusiasmo che cancella i limiti fra I'uomo e la natura, fra il mondo delle idee € quello della realta, e sotto il cui impulso il poeta, « simile ad un amante, appassiona la natura, parla alle stelle, agli alberi,

alle montagne, non altrimenti che se fossero a parte dei suoi sentimenti

e gli rispondessero ». Concetto

gia schiettamente

romantico,

temperato per altro nel Conti dall’esigenza tutta settecentesca di una facolta intellettuale, ministra del buon gusto e del buon senso, la quale

intervenga a regolare e correggere le stravaganze e gli eccessi della fantasia.

In tutti questi teorici e critici del primo Settecento si av-

verte dunque un contrasto fra le esigenze razionalistiche della nuova cultura europea e quelle ancor vive, sebbene in parte superate, della tradizione letteraria nostrana. Mentre si rea-

gisce alle degenerazioni del gusto secentistico, si fa piu forte la consapevolezza della novita e del valore della poesia italiana paragonata da una parte a quella dei greci e dei latini e dall’altra alle nuove letterature nazionali d’Europa; mentre

si riconosce la necessita di dar forma e rigore di scienza alla poetica, si riprendono e si chiariscono per altro gli spunti di ribellione, abbozzati nel secolo precedente, contro l’inutilita

di ogni precettistica e la strettezza delle regole e dei generi; mentre infine si accoglie, pet contrapporlo alle stravaganze e ai deliri del marinismo e*del concettismo, l’utilita di un cri-

terio regolatore morale e intellettuale, si ripugna al tempo stesso a sottomettere la fantasia ai dettami troppo rigidi della ragione e a far della poesia una semplice riproduzione del vero obbediente a finalita etiche e pedagogiche. Da questo contrasto vengono fuori, pur nella frammentarieta dei risultati teorici, le linee di una cultura e le tendenze di una civilta letteraria, abbastanza chiaramente definite, sebbene si colo-

riscano variamente nei singoli individui: la cultura appunto

e la civilta dell’Arcadia, con i suoi propositi di rinnovamento e il suo contrastato, ma tenace, attaccamento lontana e recente.

alla tradizione

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2. L’erudizione e la storiografia: L. A. Muratori e

P. Giannone.

— Nel secolo XVIII si rinnova e si raffina

anche, alla luce delle nuove idee, l’opera dei filologi e degli eruditi, la quale nel periodo barocco‘era stata assai pil. com-

pilatoria che critica e piuttosto abbondante che intelligente. Insieme col fastidio di tante dissertazioni

oziose e frivole,

frammentarie e aneddotiche, nasce un bisogno nuovo di chiarezza, di ordine, di scrupolo scientifico. Anche |’erudizione si

fa piu raccolta e vuol corrispondere alle richieste e alle aspirazioni della cuitura contemporanea, restituendo agli italiani il sentimento e la lucida conoscenza della loro tradizione e delle loro glorie. Nel campo della storia letteraria, il Seicento aveva dato soltanto

repertori bibliografici e raccolte di biografie aneddotiche, come la Pinacotheca illustrium doctrinae vel ingenti laude virorum (1643-48) di GiAN VitrorIo Rossi (Gian Nicio Eritreo), che é il libro pit vivace e piacevole del genere; cosi anche nel campo della storia attistica, non s’erano avute se non compilazioni di carattere biografico cronachistico e documentario*). Agli inizi del nuovo secolo si tentano invece i primi abbozzi di storie generali della poesia italiana, fartaginosi ancoga e poveri d’intelligenza critica, ma in cui gia si rivela un principio di ordinamento e di sintesi e una vaga idea di progresso, ad opera del maceratese GIOVAN MaRIO CRESCIMBENI € del barese GIACINTO GIMMaA; preludio e avviamento alla monumentale e diligentissima Storia della letteratura ttaliana (1772-1782), da-

gli Etruschi alla fine del secolo XVII, del gesuita ed erudito bergamasco GIROLAMO TIRABOSCHI (1731-94): opera che il Foscolo defini un « archivio ordinato e ragionato di materiali cronologie, documenti e disquisizioni per servire alla storia letteraria d'Italia », archi-

vio, ¢ bene aggiungere, utilissimo a consultarsi anche oggi. E intanto FILIpPo BALDINUCCI traccia, rifacendosi al modello del Vasari, un quadro storico dell’arte italiana, col proposito di rivendicare il pri-

mato e l’eccellenza degli artisti toscani, nelle sue Notizie de’ professori del disegno (1681-1728); e gid prima di lui GIlovAN PIETRO 1) Ad esempio le wife di pittori, scultori ed architetti di GIOVANNI BAGLIONI (1642) e di GIAMBATTISTA PASSERI (pubblicate postume

nel 1772).

BELLORI aveva narrato le Vite de’ pittori scultori ed architetti

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derni (1672) portandovi un gusto classicistico ed ostile al barocco the tutto orientato verso quell’idea della bellezza ideale altrettanto aliena dal rigido manierismo quanto dall’imitazione materiale ¢ minuta, che _ improntera di sé il classicismo settecentesco € trovera la sua formulazione pit coerente e pit rigida nel Winckelmann e nel Mengs. Accanto alle storie letterarie d’Italia del Crescimbeni, del Gimma e del Tiraboschi, son da ricordare le grandiose compilazioni di letteratura universale del gesuita valtellinese FRANCESCO SAVERIO QuaRIO (Della storia e della ragione d’ogni poesia, 1739-52) e dell’altro, gesuita spagnolo GIOVANNI ANDRES (Dell’origine, de’ progressi e dello stato attuale d’ogni letteratura, 1782); il grande dizionario bio-

grafico sugli Scrittori d'Italia (1753-63), rimasto interrotto alla lettera B, del bresciano GIOVANNI

MARIA MAZZUCHELLI,

autore an-

che di un’interessante Vita di P. Aretino (1741); e le note e le correzioni dottissime aggiunte da APosTOLO ZENO alla Biblioteca dell’eloquenza italiana (1753) del friulano GrusTo FONTANINI, studioso del Tasso e del Sarpi*). Nel campo della storia artistica, la seconda meta del secolo offre le opere dell’architetto FRANCESCO MILIZIA (1725-98), la pit rigida e coerente espressione dell’estetica e del gusto classicistico applicato all’architettura, e la grande Storia pittorica d'Italia (1795-96) del maceratese Luict LANzI (1732-1810), grande erudito e uno degli iniziatori dell’etruscologia, e al tempo stesso critico intelligente e di gusto vivace, orientato non senza liberta e spregiudicatezza nella scia deile teorie neoclassiche. Non pit che un cenno é possibile dare in questa sede, come della storiografia artistica, cosi pure degli studi archeologici, illustrati nel Settecento

dal romano ENNIO QUIRINO VISCONTI (1751-1818), principe degli archeologi nell’eta napoleonica, e da molti altri minori; nonché delle © indagini di storia medievale ed ecclesiastica, che ebbero allora numerosi cultori, fra cui son da citare almeno, oltre il Tiraboschi, il padre BENEDETTO BACCHINI di Borgo San Donnino e il milanese

ANGELO FUMAGALLI, uno dei fondatori della scienza paleografica e diplomatica. *) Tra le opere degli eruditi e filologi ricorderemo ancora la Storia critica det teatri antichi e moderni (1777-1813) del napoletano PrETRO NAPOLI SIGNORELLI, ricca di notizie di prima mano; la diligente storia del melodramma del gesuita spagnolo STEFANO ARTEAGA (1783), € i numerosi studi e repertori di carattere regionale, dei quali i pid importanti e tuttora consultati risalgono appunto a quel-

l’epoca.

‘Fra questi eruditi occupa un luogo insigne, per I’altezza dell’ingegno e per la varieta e la vastita delle cognizioni, il veronese SciPIONE MAFFEI (1675-1755), letterato e poeta, teorico e critico della letteratura, storico e filosofo: oltre alcune pregevoli illustrazioni delle

antichita provenzali e veronesi e molti opuscoli di materia storica, letteraria, archeologica e scientifica, il Maffei lascid il suo capolavoro nella Verona illustrata (1732), che comprende una storia del Veneto nel medioevo, una rassegna degli scrittori da Catullo ai contemporanei e una dotta descrizione dei monumenti cittadini, dove per altro

lerudizione locale e regionale, ben lungi dal rinchiudersi come spesso accade in un orizzonte limitato e modesto, si eleva su un piano di cultura’ europea.

Questa imponente fatica di indagini erudite, di cui s’é dato qui un quadro succinto e sommario, si svolge infatti in stretta connessione con i bisogni della vita, della storia e della cultera contemporanee,

e rivela nel complesso un’ampiezza

di sguardo, una varieta d’interessi, una concretezza di passioni e di ragioni polemiche, che sono i segni di un mondo che si viene via via rinnovando coll’approfondire la conoscenza di

sé e delle proprie origini nonché della circostante civilta dell’Europa. Questi eruditi e filologi, o almeno i migliori tra essi, operano in.un clima tutt’altro che appartato ed umbratile, partecipano alle discussioni, s’interessano ai problemi letterari

e civili del loro tempo: il Crescimbeni é strettamente legato alla nascita dell’Arcadia; il Tiraboschi polemizza coi francesi

denigratori della nostra poesia; il Quadrio e il Mazzuchelli fanno posto nelle loro opere agli scrittori contemporanei con parole di simpatia e di lode; il Bellori, come s’é visto, precorre per alcuni rispetti le idee estetiche del Winckelmann,

la cui opera del resto si svolse per gran parte in Italia e trovo discepoli e correttori da noi nel Fumagalli, nel Visconti, nel Milizia e nel Lanzi. Anche !’atmosfera, in cui si espande la

prodigiosa erudizione settecentesca, é un’atmosfera libera ed aperta al soffio di tutte le correnti ideali pih moderne, catto-

lica ma non bigotta, decorosa ma non freddamente accademica, europea per ricchezza di informazioni e vastita di orizzonti, e al tempo stesso fortemente italiana negli intenti, nelle direttive, nella coscienza di una civilta nazionale che si vuol

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promuovere attraverso l’accresciuta cognizione delle tradizioni storiche e culturali, letterarie ed estetiche *). Uno dei maggiori promotori e il pit illustre rappresentante di questa attivita erudita, che muove

da concreti interessi storici e da

un originale fervore di idee, @ LuDovico ANTONIO MuRATORI, nato a Vignola nel 1672, morto a Modena nel 1750, prete, prefetto della Biblioteca Ambrosiana, ¢ poi bibliotecario e archivista degli Estensi,

infaticabile scrittore e organizzatore di pubblicazioni di altissimo valore culturale. Le opere di poetica e di critica altrove esaminate; l’edizione degli scritti del Maggi; le biografie del Castelvetro, del Sigonio, del Tassoni, del Maggi, del Lemene, dell’Orsi, ecc., attestano la sua viva partecipazione alla letteratura e al gusto dei suoi tempi; mentre i saggi e i trattati filosofici o religiosi ce lo mostrano aperto, sia pure con qualche ritegrio, alle correnti pii vive della speculazione contemporanea; e |’Epistolario, ricchissimo, offre la testimonianza pit chiara della sua attivita infaticabile e dei rapporti ch’egli

ebbe con i dotti di ogni disciplina e di ogni paese, dal Crescimbeni al Lami, dal Gimma al Conti, dal Maffei allo Zeno, dall’Orsi al Salvini, dal Vallisnieri al Morgagni, dal Leibnitz al Newton. Nel campo dell’indagine erudita il Muratori ebbe come maestro il Bacchini, il quale s’ispirava al metodo della storiografia e della filologia erudita francese del Seicento, erede a sua volta dei nostri Sigonio Baronio e Possevino. Da questi modelli il Muratori derivé la serieta e lo scrupolo della ricerca documentaria, la ripugnanza alle vaste sintesi che si appoggiano su una notizia dei fatti incerta e frettolosa, l’abitudine al controllo paziente e¢ minuto delle testimonianze;

dalla

sua cultura agile e vasta trasse poi gli impulsi che determinarono *) A questo duplice fine rispondono anche le numerose pubblicazioni periodiche, sorte da noi, sul modello del parigino Journal des Scavans (1665 ss.), negli ultimi decenni del Seicento e nella prima meta del Settecento, anch’esse di origine e di intonazione erudita: dal Giornale dei letterati (1668-79) di Roma alla Galleria di Minerva (1696-1717) di Venezia; dall’altro Giornale dei letterati (1686-97), fondato a Parma dal Bacchini, al Giornale veneto dei letterati (1671-89); dal Grornale dei letterati d'Italia (1710-40), edito a Venezia da Apostolo Zeno, con la collaborazione del fratello Pier

Caterino, del Maffei, del Vallisnieri e di altri, alle Novelle letterarie

(1740-68) del Lami; dalla Storia letteraria d'Italia (1750-59) del padre ANTONIO Zaccaria alla Raccolta di opuscoli scientifici e filologsci (1728-87) del padre ANGELO CALOGERA, e via dicendo.



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di volta in volta lorientamento delle sue ricerche:

e cosi, sebbene

gtandissimo erudito, non si ridusse mai ad essere un erudito puro; trasportd nel suo lavoro filologico i suoi interessi morali e religiosi, non

rimase estraneo alle polemiche e alle passioni del suo tempo,

attribui alle sue opere un intento e un significato nazionale, riconducendo gli Italiani a prender coscienza delle origini e dello sviluppo della loro civilta, specie in quell’eta di mezzo, tanto disprezzata e maltrattata dai neoclassici e dai razionalisti del Settecento e di cui eg, tra i primi, prese amorosamente a studiare le reliquie e a ricostruire la vita in tutti i suoi aspetti umili e grandi. Le Antichita Estensi (1717-40) sono la prima grande opera erudita del’ Muratori, tutta ispirata al concetto dell’autonomia della potesta laica di fronte alla Chiesa. Ad essa tenne dietro ben presto il concepimento dei Rerum

Italicarum Scriptores, pubblicati dal 1733

al "51, con la collaborazione dei migliori studiosi d’ogni parte d’Italia: vastissima raccolta delle fonti cronachistiche, letterarie, giuridiche,

epigrafiche dall’anno 500 al 1500, tratte in piccola parte da edizioni gia esistenti e nella parte di gran lunga maggiore dagli archivi cittadini, capitolari, conventuali e privati; «il pit gran corpo di storia nazionale che fosse fin allora pubblicato in Europa », come

ebbe a

definitlo il Carducci, e anche oggi uno dei fondamentali sussidi per gli storici del medioevo italiano. La pubblicazione di un’opera di tanta mole fu resa possibile dal costituirsi a Milano di un’apposita Societa Palatina, diretta dal marchese Trivulzio e composta da alcuni cavalieri,

che

si tassarono

del proprio

per provvedere

alle spese.

Tesoreggiando il materiale raccolto nei Rerum Italicarum Scriptores, il Muratori scrisse poi le settantacinque dissertazioni che compongono le Antiguitates italicae medii aevi (1738-43), tivolte a illustrare partitamente tutti gli aspetti della vita. nell’Italia medievale: e questo é il capolavoro della sua sapienza filologica, un monumento di dottrina, attinta alle fonti pit varie e pil riposte e dominata da un robusto intelletto critico. Oltre il Thesaurus veterum tascriptionum (1739-43) e le Dissertazioni sopra le antichita ttaliane (edite postume

nel 1751), ricorderemo infine gli Annali d'Italia (1744-49), che sono ultimo grande frutto della laboriosa vecchiaia del dotto modenese: vi é narrata la cronistoria della penisola dall’inizio dell’eta volgare fino all’anno successivo al trattato d’Aquisgrana, con l’occhio attento piuttosto all’esposizione vasta e minuta,

ma

ordinata

e lucida, dei

fatti, che non alla ricerca delle ragioni ideali e profonde che li guidano e ne costituiscono la logica interiore. Vero é che dietro all'apparenza umile e modesta dell’esposizione annalistica, senti la presenza di un'intelligenza quadrata e positiva, amante della chiarezza,

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preoccupata di riuscire esatta ¢ ptecisa, appassionata della-verita.

E questa quadratura mentale Ja senti anche nello stile degli Annaili, come delle operette minori e dei trattati, che @ lo stile dello studioso — ¢ dell’uomo di scienza, semplice ¢ disadorno ma non pedestre, severo

e austero senza esser mai accademico, anzi non alieno dall’accogliere movenze e¢ coloriture dal linguaggio popolare e fin dal dialetto, ¢ sempre sdegnoso di ogni ostentazione oratoria.

In disparte, contemporanea press’a poco alla splendida

floritura della storiografia erudita del primo Settecento ma lontanissima da essa nello spirito e nel metodo, si svolge l’attivita dello storico e giurista PIETRO GIANNONE, la quale da un lato si richiama alla dottrina politica del Machiavelli e alla polemica giurisdizionalistica del Sarpi, riaccesasi con violenza nell’ambiente napoletano agli inizi del secolo, e dall’altro lato precorre da vicino gli ardimenti polemici della storiografia illuministica, mentre nella grandiosita della concezione ideale, sebbene in un tono diversissimo, pud far pen-

sare perfino all’opera solitaria del Vico. Nato a Ischitella in Capitanata

nel 1676, il Giannone

pubblicd nel 1723,

frutto di vent’anni di lavoro, la sua Istoria civile del regno

di Napoli, la quale ebbe ben presto una fortuna europea, e

fu tradotta in molte lingue e largamente sfruttata dagli storici e libellisti dell’Illuminismo, da Voltaire a Montesquieu

e a Gibbon. Scrittura

nettamente

polemica

e tendenziosa,

come

gia

quella del Sarpi, ma sorretta da una preparazione filologica assai meno vasta e scrupolosa, l’opera del Giannone, meglio che di una storia, ha piuttosto il carattere, e i limiti scientifici,

di una requisitoria appassionata e veemente contro le usur-

pazioni e le pretese ingiustificate della potesta ecclesiastica e a sostegno dell’assoluta autonomia dello stato Jaico nell’ambito della propria giurisdizione. L’impianto e il fine polemico del libro spiegano, se pur non giustificano la disinvoltura con

cui il giurista napoletano si servi delle sue fonti, copiandole non di rado alla lettera, e anche le deficienze dello stile pit

spesso eloquente e avvocatesco che non vigoroso e persuasivo. Ma a non insister troppo sui plagi e sul difetto dell’elaboralone artistica, giova tener conto appunto dello scopo imme-

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= diato ‘ pratico: che il Giannone si proponeva, nonché del» Varchitettura ideale, originalissima se non altro perché profondamente sentita e vissuta, ch’egli impose all’opera sua. Come il Sarpi, anch’egli, nel ritrarre le condizioni attuali delle

lotte fra lo stato e la chiesa, aveva in mente l’immagine della chiesa primitiva, tutta dedita alla sua missione puramente ie a non ancora ordinata in una complessa gerarchia, emocratica € non monarchica, povera e semplice nei costumi. Ma, pi del Sarpi, il Giannone, era portato ad insistere sulla natura immanente e tutta terrena dello stato e della stessa esperienza umana e a metter nell’ombra le ragioni ultrater-

rene e metafisiche della concezione religiosa cristiana. Se la posizione del Sarpi coincideva dunque, fino ad un certo punto,

con quella dei protestanti, l’atteggiamento del Giannone tendeva invece ad un’eresia pi profonda e radicale, pit risolu-

tamente negativa di ogni trascendenza, come risultera anche meglio dalla posteriore elaborazione del suo pensiero nel Tri.vegno. La pubblicazione dell’Istoria aveva intanto procurato al Giannone la scomunica papale e le persecuzioni dei fanatici. Rifugiatosi a Vienna, presso l’imperatore Carlo VI, si recd poi nel 34 a Venezia, indi a Ginevra, e infine nel Piemonte, dove. fu arrestato e tenuto in carcere fino alla morte,

avvenuta a Torino nel 1748. In prigione scrisse i Déscorsi

politici sopra gli Annali di Tito Livio e altri saggi minoti, oltre il Trzregno, che ci é noto soltanto attraverso gli apografi delle biblioteche di Napoli e di Milano, essendone I’originale custodito gelosamente negli archivi del Sant’Uffizio. L’opera, che si fonda su una vasta se non sempre sicura preparazione erudita teologica e giuridica, é divisa in tre parti: il « regno terreno »; il « regno celeste; e il « regno papale ». L’ideologia del Giannone,

formatasi sotto l’influsso in parte dell’epicu-

reismo del Gassendi e in parte dei residui dell’averroismo e del naturalismo antiaristotelico, tenacemente avversi al dogma

dell’immortalita individuale, é¢ qui rivolta a vagheggiare con simpatia il « regno terreno» della Bibbia, tutto inteso alla potenza mondana,

senza alcuna idea di vita ultraterrena; e a

combattere il sopravvento del « regno celeste », annunziato

da Cristo, e ancor pitt di quello « papale », che sfruttando

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la paura superstiziosa dell’oltretomba avvilisce ed abbassa la vita terrena, a beneficio delle speranze oltremondane.

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Vimportanza dell’opera trascende i limiti dell’ideologia e

della polemica, e consiste piuttosto nel vigoroso realismo storico, con cui il Giannone immagina e ritrae lo sviluppo

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fatale del sentimento religioso nelle sue fasi successive € riesce, senza volerlo, a giustificare e ad intendere la neces-

sita profonda e la funzione stici che egli combatte, ma ed ammirare la grandezza. dersi nostalgico verso una

perfino di quegli istituti ecclesiadei quali € costretto a riconoscere D’altra parte in quel suo protenforma di vita primitiva, verso un

ideale di natura, che per il Giannone coincide con la civilta

biblica, il Triregno prende posto fra i miti caratteristici del pensiero settecentesco e precorre gli atteggiamenti del Rousseau e degli enciclopedisti francesi.

3. La filosofia e la poetica del Vico. —

Nel pano-

rama della cultura filosofica e filologica del primo Settecento,

il Vico sta a sé, legato ad essa dalla natura concreta e storicamente determinata dei problemi ch’egli ebbe in comune coi dotti del suo tempo, e insieme da essa lontano per I’ori-

ginalita di un temperamento che quei problemi riprende a meditare per proprio conto in una solitudine aspra ed impervia e li risolve con una genialita, che sara apprezzata soltanto dai secoli futuri, mentre ai contemporanei

dovette sembrare

non pit che una fumosa bizzarria illuminata a tratti da vividi lampeggiamenti. In un certo senso egli fu quasi l’opposto del suo tempo: filosofo tra i maggiori del secolo, si dichiard risolutamente anticartesiano, additd i limiti e combatté le esa-

gerazioni del razionalismo, non nascose il suo disinteresse pet le scienze della natura; filologo acuto e dottissimo, non ebbe o non curd l’ordine, l’esattezza minuta e scrupolosa, la chiarezza espositiva, che erano il vanto e la conquista della nuova

erudizione e della pit matura filologia settecentesca; dotato di una prodigiosa facolta d’intuizione nel descrivere e valutare gli eventi della storia e della preistoria, attribui allo stotico non tanto la funzione e il merito di un preciso accertamento dei fatti, quanto piuttosto quello d’intendere le leggi

*

_ che regolano il progresso ideale della civilta, e la storia concepi come lo svolgersi coerente, ¢ regolato da una logica interiore e provvidenziale, dello spirito umano, e non come una

congerie arbitraria di avvenimenti determinata dal caso e dalTastuzia degli individui. Eppure, per un altro verso, la sua opera non potrebbe concepirsi al di fuori di quella apeciale atmosfera di cultura, che ebbe luogo in Italia tra la fine del XVII ei primordi del XVIII secolo, e nella sua stessa architettura esteriore serba qualcosa di caratteristicamente secentesco e barocco, mentre per il contenuto si richiama alle sco-

perte € ai problemi della pit recente speculazione europea. La sua filosofia si inquadra nella corrente antiaristotelica nostrana, dal platonismo del Ficino al sensismo del Telesio e

del Campanella, e al tempo stesso accoglie in sé, pur attraverso la tenace polemica, le esigenze dell’empirismo di Bacone e del razionalismo di Cartesio, nonché delle dottrine di Spinoza e di Locke. La sua storiografia e la sua concezione della politica risentono dell’esperienza di Machiavelli, dei tacitisti, della ragion di stato, e insieme di Hobbes e di Gro-

zio. La sua estetica stessa, che costituisce il nucleo e la parte pit nuova e feconda del suo sistema, si rifa per una parte alle poetiche del Rinascimento, e pit ancora alle intuizioni del Pallavicino del Tesauro e degli altri secentisti, e riprende

in maniera ben altrimenti risoluta e consapevole quel concetto della fantasia che sopravviveva, come un’esigenza profonda,

anche nel pedagogismo e razionalismo del Muratori del Gravina e del Conti. La novita del Vico insomma non deve im-

maginarsi come un’intuizione miracolosa, che si sviluppi in un’atmosfera astratta ed estranea alla cultura e alla storia dei suoi tempi; essa é piuttosto il frutto della personalissima rea-

zione di una mente geniale in cui i risultati della gloriosa tradizione del pensiero italiano si fondono con gli apporti della nuova speculazione europea in una sintesi vigorosa, che trascende i limiti del suo secolo e preannunzia il gusto e le ten-

denze dell’eta romantica. Nato a Napoli, figlio di un povero libraio, nel 1668, GIAMBATTISTA Vico, dopo essere stato per molti anni con funzione di precettore dei marchesi Rocca a Vatolla nel Cilento, ottenne nel '98 per

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sarees non ebbe concorso la cattedra di rettorica nell’universita di diritto, cui aspitava abe dra catte a l’altr tardi, invece, né allora né pid misero: Yindigenza, e che gli avrebbe assicurato uno stipendio meno l'incomprensione dei conle sventure familiari, la salute malferma, fino al

si protrasse temporanei amareggiarono la sua esistenza, che serena della sua enza cosci la rgli 1744, ma non poterono mai toglie istata oltre conqu verita della za certez la né e, ettual superiorita intell a, dettata ografi Autobi sua ogni dubbio e pessimismo passeggero. La lideale to appun € ’31, nel scritta unta VAggi —intorno al 1725, con o ¢€ liment raccog nel rapptesentazione del filosofo-eroe, che supera Yindif¢ ta l’ostili ¢ sorte della e nella strenua meditazione le ingiuti avversita stesse, ferenza dei cattivi e degli ignoranti, e anzi benedice le esso, come quali le per « denza, quasi occasioni fornitegli dalla Provvi re e medita per o tavolin al ritira si rocca, gnabil a sua volta inespu de’ suoi descrivere altre opere », prendendo « generosa vendetta

e una trattori », € in quel meditare e scrivere ritrova la sua calma di serie una fornire a gia non intesa, Tutta dine. beatitu superiore e logico o process il uire ricostr notizie e informazioni esterne, si a li giovani studi dagli che — o pensier di rienza coerente di un’espe giunge, dopo una «continova ed aspra meditazione » di venticinque anni, al vertice supremo della Scienza Nuova —, questa autobiografia & il libro in cui il Vico esprime l’orgoglio della sua scoperta, la coscienza della sua missione, l’eroica fatica sopportata e vinta per giungere alla conoscenza e alla dimostrazione della sua acerba verita. Il capolavoro del Vico, in cui egli raccolse tutto il suo sapere e il frutto del suo accanito travaglio intellettuale, sono i Principi dt Scienza Nuova d’intorno alla comune

natura delle naztont, dei quali

diede egli stesso, dopo la prima stampa del 25, una seconda edi-

zione interamente rifatta nel ’30, e ne prepard una terza, anch’essa profondamente modificata e arricchita rispetto alla precedente, uscita alla luce nel ’44 poco dopo la sua morte. Le altre opere, tra cui

ricorderemo le sette Orazioni inaugurali (1699-1708) per l’apertura dell’anno accademico (importantissima quella De nostri temports studiorum ratione), il De antiquissima ltalorum sapientia ex linguae latinae oviginibus eruenda (1710), la Sinosst del diritto universale 1719), il De uno universi iuris princtpto et fine uno (1720), il De constantia invisprudentis (1721), la prolusione De mente heroica (1732-33), oltre la biografia in latino di Antonio Caraffa e le rime varie di ispirazione autobiografica e di gusto arcadico, sono da considerarsi in un certo senso pit che altro anticipazioni, variazioni e riprese parziali e in abbozzo delle idee che trovarono la loro siste-

mazione definitiva nella Scienza Nuova.

Nella Scienza Nuova il Vico muove dal problema, vivis-

simo nella cultura europea del Seicento, dell’origine del diritto, che per lui fa tutt’uno con l’origine della societa umana e deve essere indagato attraverso l’esplorazione di quell’eta

primitiva e favolosa, che oggi si dice preistoria. E possibile ricostruire questa preistoria, interpretando con acume i rot-

tami delle antichissime tradizioni che persistono nella storia

delle societa gia pervenute al loro pieno sviluppo: la Bibbia, i miti greci e latini, le leggende delle origini di Roma, i poemi omerici, le istituzioni e 1 costumi del medioevo (concepito quasi come un periodo di ricorrente preistoria), lo studio dei - fapporti etimologici fra i vocaboli, si offrono via via allo stotico-filosofo come i documenti della sua indagine, che in essi trova la conferma luminosa e le concrete e concordi testimonianze delle verita che viene di volta in volta scoprendo alla luce di alcune fondamentali premesse di natura tra filosofica

e psicologica. Infatti, mentre il mondo naturale o fisico, in quanto é opera di Dio, pud da Dio solo essere perfettamente conosciuto (donde i limiti della filosofia fisica), il mondo delle nazioni invece, e cioé il mondo della storia, « certamente é

stato fatto dagli uomini, onde se ne possono.... ritrovare 1 principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente

umana». Le leggi della storia si possono cioé dedurre da uelle che regolano il processo naturale e necessario dell’attivita spirituale, fuori del tempo, quale esso risulta dall’approfondimento della nostra esperienza intima. Ora é certo,

in quanto risulta appunto da codesta esperienza, che « gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura»: a un momento di attivita meramente istintiva e iffiflessa, succede una forma di vita fantastica (a cui corrispondono le « sentenze poetiche, formate con sensi di passioni e

d’affetti »), e infine un momento tazionale (che si manifesta

nelle « sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocinio »). Come l’uomo trapassa dall’infanzia, stadio di vita puramente animale, alla fanciullezza immaginosa e infine alla maturita ragionevole, cosi l’umanita si evolve attra-

verso l’eta del senso ovvero degli dei, quella della fantasia



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ovvero degli eroi, e finalmente quella della ragione ovvero a degli uomini. Alle tre eta corrispondono tre specie di diritti: il primo divino, per cui gli uomini credono « sé e le loro cose essere tutte in ragion degli dei »; il secondo eroico, « ovvero’ della forza, ma perd prevenuta gia dalla religione, che sola puo tener in dovere la forza »; il terzo umano, « dettato dalla

ragion umana

tutta spiegata»; tre specie di governi: teo-

cratico, aristocratico e umano (nelle due forme della repubblica popolare e della monarchia); tre specie di lingue: «per atti muti religiosi, o sieno divine cerimonie », « per imprese eroiche », « per parlari.... articolati »; tre specie di autorita: «la prima divina, per la quale dalla provvedenza non si domanda ragione; la seconda eroica, riposta tutta nelle solenni formole delle leggi; la terza umana, riposta nel credito di

persone sperimentate, di siagolar prudenza nell’agibili e di sublime sapienza nell’intelligibili cose ». E quando la serie di questi momenti ideali si é esaurita, l’umanita ricomincia da capo il suo cammino, ripercorrendolo con forze rinnovate |

e accresciute: dall’estrema perfezione civile risorge naturalmente la barbarie, donde, per il tramite di una nuova espe- rienza poetica, rinascera pit matura la civilta riflessa e filosofica. In questa teoria dei momenti o forme ideali ed eterne dell’evoluzione spirituale e dei loro « ricorsi» storici ven-

gono a fondersi, e confondersi in parte, due atteggiamenti — paralleli, ma non identici e neppure ugualmente vivi e fecondi, della filosofia vichiana: dei quali uno, la scoperta delle

categorie dello spirito (senso, fantasia, raziocinio) e del loro ritorno 0 processo circolare, costituisce il suo apporto pit si-

gnificativo e geniale alla storia del pensiero moderno; mentre’ laltro, e cioé l’applicazione di quel processo ideale all’interpretazione concreta dei fatti storici materialmente considerati nella loro successione temporale, tappresenta invece il limite

pit evidente e pit grave del suo sistema, per cui esso sembra ridursi a un assurdo tentativo di determinare le leggi e classificare in base ad astratti assiomi razionali le vicende della storia. C’é insomma nella Scienza Nuova da una parte una .

filosofia dello spirito, dotata di una sua assoluta validita ¢:

fondata sul presupposto di una certezza soggettiva; e dalValtra pe una metodologia per l’analisi e |’intelligenza critica degli avvenimenti particolari della storia, metodologia che si costituisce e si mantiene in un’atmosfera mista ed am-

bigua fra l’assoluto e il contingente, fra il rigore filosofico e lempiria filologica. Cid non toglie che una buona parte dell’azione esercitata

dal Vico sui progressi della posteriore storiografia scaturisca per l’appunto da quell’imponente materiale di teorie e di schemi, frutto delle sue profonde intuizioni metodologiche, che costituiscono, da un punto di vista quantitativo, la parte

di gran lunga maggiore della sua opera. Particolarmente degne di nota per questo rispetto sono: la sua descrizione immaginosa e robustamente pe nata e tutt’altro che scevra

e al tempo stesso ragio-

di valore scientifico, delle condi-

zioni dell’uomo nell’eta ferina o preistorica; il rilievo ch’egli attribuisce ai fattori economici nello svolgersi degli organismi politici, per cut precorre certi criteri del materialismo storico ottocentesco; la sua profonda interpretazione della primitiva

storia romana, che preannunzia taluni atteggiamenti e conclusioni del Niebuhr e del Mommsen; e I’analisi dei poemi omerici, come documento storico dei costumi, della religione,

della cultura della Grecia antichissima, ond’egli apre la via alle analoghe, per quanto pit accurate e meglio documentate,

ticerche di tanti storicie filologi dell’eta moderna. Ma pit importa forse insistere sul profondo concetto ch’egli ebbe del progresso storico, in contrasto con lo spirito cartesiano e con il suo astratto razionalismo disprezzatore del passato. I] succedersi degli avvenimenti non si attua in modi casuali ed arbitrari, e neppure pud dirsi regolato dall’esterno secondo i fini di una volonta trascendente; é possibile anzi riconoscere

nel ritmo del suo svolgimento il dispiegarsi di un principio intimo, che é naturale e divino al tempo stesso, libero e in-

sieme necessario:

la Provvidenza, superiore alla volonta e

alla consapevolezza dei singoli, eppure operante attraverso 1—

loro atti istinti e passioni. In questo profondo concetto del rogresso storico trovano la loro giustificazione, e insieme ‘J es limite, il duello

e la guerra, la ragion di stato e l’utile

- economico, i contrasti fra le classi sociali, e in genere I’ vicenda degli uomini e delle loro costruzioni politiche. E il” concetto vichiano della Provvidenza, che pur scaturisce da un’esigenza profonda della dottrina cattolica e non pretende affatto di superarla, viene in certi casi a coincidere con i postulati ancora attuali dello storicismo romantico, e, attraverso — la polemica del razionalismo cartesiano, supera con un balzo

di genio i limiti e gli errori della successiva generazione illu- — ministica e della sua storiografia, tutta intesa a stabilire un esagerato contrasto fra le tenebre dell’antica barbarie e la luce dei nuovi tempi rischiarati dalla ragione. L’aver concentrato la propria attenzione delle Beene spirituali poesia) spiega inoltre

con un fervore cosi nuovo ed intenso sul problema delle civilta primitive e— ad esse corrispondenti (lingua, mito e l’enorme importanza del Vico nella

storia dell’estetica, e cioé la sua scoperta dell’attivita fantastica, che egli per la prima volta, raccogliendo le inconscie

e confuse esigenze della poetica italiana dal XVI al XVIII secolo, definisce chiaramente nel suo carattere e nel suo ambito. La fantasia é@ per lui la prima forma della conoscenza, —

forma intuitiva ed alogica, anteriore e indipendente dal raziocinio («tanto pid robusta» anzi « quanto é pit debole il raziocinio »), ignara di sentenze astratte e tutta intesa a foggiare immagini corpulente. I poeti sono il «senso» e i filosofi « l’intelletto del genere umano »; i primi corrispondono alle epoche di barbarie, i secondi a quelle di riflessione;

gli uni rispecchiano in sé la fanciullezza, gli altri la maturita delle nazioni. : Con queste e altrettali definizioni il Vico inaugura il concetto romantico della poesia; e si capisce che, trascinato dalld

slancio della sua reazione polemica contro tutte le poetiche intellettualistiche, egli finisca col porre un esagerato distacco | fra.la fantasia e la ragione, fra l’immagine e il concetto, fra.

la poesia e la logica. Anche con questa esagerazione egli/ precorre del resto il gusto e il sentimento dei romantici; ed! essa si riscatta d’altronde attraverso l’utilita implicita nella sua posizione polemica e la fecondita delle conseguenze che ne derivano per il progresso della speculazione estetica. Non’

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pit propriamente filoso-

fiche, scoperte allora per la prima volta dal Vico: e cioé la natura essenzialmente fantastica della poesia; l’origine spon-

tanea del linguaggio, come creazione d’'immagini, che nasce a guisa di canto e di sfogo appassionato degli uomini primitivi (onde poesia e lingua coincidono, e storia della lingua e storia della poesia sono in realta una cosa sola); la negazione del fine pedagogico dell’arte, della distinzione classica tra forma e materia, della definizione della poesia intesa come imitazione di una bellezza oggettiva e rappresentazione attraente € dilettosa del vero. Da questo altissimo concetto della poesia deriva la maggior scoperta del Vico nel campo della critica letteraria: e cioé la « discoverta del vero Omero». Qui egli da la prova pit insigne del suo acume filologico e insieme della sua intelligenza e del suo gusto poetico. Come filologo, egli giunge ali’affermazione che l’Omero tradizionale, autore dei due grandi poemi che vanno sotto il suo nome, non é@ mai esistito, e della sua affermazione arreca le prove seguenti: le incoerenze e le contraddizioni che s’incontrano nelV'Iliade e nell’Odissea; Vinesistenza (allora e poi comunemente creduta) della scrittura ai tempi d’Omero; il significato simbolico che gia gli antichi attribuivano al nome d’Omero; le incertezze della

tradizione relativa alla patria, all’eta e alla biografia del poeta). Posto il principio che I/iade e Odissea non possono essere opera di

un medesimo scrittore, in quanto in esse si rispecchiano i costumi e le tendenze di due civilta profondamente diverse; rifiutata anche

l'ingenua tesi del Pseudo-Longino, che attribuisce il primo poema alla giovinezza e il secondo alla vecchiaia del poeta; il Vico risolutamente asserisce’ che i due libri non si debbono considerare |’espressicne di una personalita individuale, bensi di tutto il popolo greco nel processo della sua civiltd, che essi furono « per pit mani lavorati e condotti », e che Omero pertanto altro non fu se non « un’idea Ovvero un carattere eroico d’uomini greci, in quanto essi narravano

1) Alcune di queste prove erano state gia proposte —- ma con spirito assai diverso, e ad ogni modo il Vico ignorava questo suo ptedecessore — da un abate francese dispregiatore della poesia ometica, il D’Aubignac, nella sua Dissertation sur l’Iliade, 1664, e molte

furono poi riprese dal filologo tedesco Wolf nei Prolegomena ad

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1795.

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386 XVI. — ESTETICA 8 FILOLOGIA NELL’BTA DI G._ ae ee

cantando la loro storia », un simbolo insomma dell’attivita fantastica

collettiva della nazione ellenica. Concetto certamente erroneo ¢ proyvisorio, cosi come il Vico lo enuncia, ma importantissimo storica-

mente, sia in quanto pone il fondamento della cosiddetta questione omerica, sia in quanto precorre il mito romantico della poesia popolare. Come critico poi, il Vico é nell’eta moderna il primo lettore che si accosti ad Omero con animo congeniale e pienamente disposto a gustarne tutta la bellezza. Combattendo il Gravina e tutta la tra-

dizione classicistica, egli nega la sapienza riposta dei poemi omerici

e la loro consapevolezza artistica: é stolto cercarvi un ammaestramento dottrinale e morale riflesso, é assurdo ritrovarvi i canoni di | una poetica, ché anzi essi precedono ed ignorano tutte le poetiche,

e chi li ha composti non ha seguito altra regola all’infuori del suo genio. Esaminando poi i due libri alla luce delle sue scoperte estetiche, il Vico ne definisce lo spirito e la qualita con parole che conser-

vano anche oggi intatto il loro valore: I'I/zade é l’espressione della | « Grecia giovanetta,.. ardente di sublimi passioni, le quali... non soffrono dissimulazione ed amano generosita », e ha percid il suo | tipo in Achille, «eroe della forza»; l’Odissea & il prodotto della civilta ellenica, allorché questa « aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione, la quale é madre dell’accortezza », e si vagheggiava rispecchiata in Ulisse, « eroe della sapienza ». Con analoga disposizione il Vico si accosta al poema dell’ Alighieri (nella Scienza Nuova

e nel Giudizio

su Dante, scritto nel

1728 0 ’29): Dante é per lui il «toscano Omero », il poeta della « ritornata barbarie d'Italia»; e la poesia della Commedia é non gia in quel contenuto di teologia e di dottrina, che ne costituisce il maggior vanto agli occhi di tutta la precedente tradizione critica, bensi nel vigore e nell'intensita primitiva degli affetti e delle passioni. Giudizio certamente inadeguato, ma notevolissimo, in quanto reagiva, con esagerazione polemica, al modo tradizionale di conside- ; rare la poesia dantesca come un tesoro di moralita e di dottrina, e cioé appunto come un’espressione non poetica ma filosofica, e addi-_ tava la necessita di dar rilievo, nella Commedia, agli elementi fantastici al di fuori e al di sopra di quelli razionali.

Lettore sensibile assai pit alla grandezza e all’impressione complessiva di forza Le poeti eccelsi che non disposto a riconoscere le caratteristiche minute del bello e ad apprezzare la squisitezza di certi piccoli poeti, il Vico fu, anche

come scrittore, pili desideroso del grande del robusto del maestoso, che non capace di attendere alla levigatezza alla

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_grazia alla finezza dei particolari, all’ordine e all’armonia delle parti e della struttura. Ebbe del poeta insomma le qua-

lita maggiori e pil eroiche, non invece |’impegno pur nelle cose minime e quella cura che é frutto di una dedizione in-

tera e prolungata al proprio sogno di bellezza. Ma poeta fu ad ogni modo per l’innata tendenza a tradurre in forme e figure vigorose le idee filosofiche e a rivivere con fantasia commossa e creatrice i dati e i documenti della sua filologia. Le idee, tutte impregnate di contenuto storico, tendono in lui al rilievo e alla concisione robustamente plastica dello stile

lapidario (di cui son mirabile esempio alcuni di quei principt generali, o « degnita », che s’incontrano nel primo libro della Scienza Nuova); i fatti della storia e della preistoria, sollevati in una luce ideale e innalzati a funzioni di miti e di simboli, prendono calore dall’entusiasmo profetico del filo-

sofo e si compongono in figure e rappresentazioni da epopea. - Stile epico e stile lapidario si accordano in un tono eroico, sempre serio e solenne, severo e sublime, teso e vibrante fin ‘quasi a spezzarsi, come quello che scaturisce da un’anima

tutta presa dalla grandezza dei suoi pensieri e dei suoi sogni e incapace percid di allentarsi e distendersi sia pure per poco e di accondiscendere anche per un attimo solo a modi espressivi pit dolci, pit riposati e sorridenti. Il mondo eroico della

preistoria, ch’egli ricostruisce faticosamente dagli sparsi rottami della tradizione, prende forma nella fantasia del Vico;

ed egli vede, come vive e presenti, le figure dei suoi « polifemi»,

e penetra nella psicologia

informe

e grandiosa di

quegli esseri « zotici, crudi, aspri, fieri, orgogliosi, difficili ed ostinati ne’ loro propositi e, nello stesso tempo, mobilissimi al presentarsi loro de’ nuovi contrari obbietti »; e sforzandosi

di riprodurre in sé la condizione di quelle menti « tutte immerse ne’ sensi » e « seppellite ne’ corpi », rivive la loro me-

raviglia e il loro sbigottimento allorché per la prima volta, uscendo fuori dai loro covili tra le selve montane, riscossi all’improvviso dall’inusitato terrore dei fulmini, « spaventati

ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo » e lo immaginarono vivo e animato da una forza sovrumana; e acuisce lo sguardo

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a contemplare, in quelle remote origini dove le forze del natura appaiono gigantesche e terribili e le passioni sangui-_ gne e magnanime, l’epico e drammatico travaglio che tra _ sforma il « bestione » nell’« eroe », e questo nell’« uomo »,

e l’avvento progressivo delle religioni, dei miti, della poesia, dei costumi, delle comunanze familiari e civili, delle leggi e infine del pensiero colto e riflesso.

L’educazione letteraria del Vico era stata essenzialmente latina e umanistica e, nella poesia volgare, prima barocca e poi atcadica; ma

il frutto delle sue appassionate Jetture dei grandi antichi (e pil degli storici che dei poeti, ¢ sopra tutti di Tacito, e fin delle leggi delle XII Tavole) e quello del lungo e sempre pitt maturo e raffinato esercizio da lui compiuto nelle scritture in lingua latina, si avvertono” nel suo capolavoro in misura di gran lunga maggiore a paragone degli influssi moderni. Non si pud dire dunque che al Vico facesse” difetto un’adeguata preparazione letteraria, e che percid il suo scrivere ne dovesse risultare incolto ed informe, rozzo e provvisorio. Quando— pertanto si continua ad affermare da taluno, sempre pit di rado, che

il Vico « scrive male », si ha l’occhio soltanto alla mancanza di quelle doti didascaliche

e oratorie di ordine e di chiarezza, che si nota

specialmente nella Scienza Nuova e assai meno in altre scritture minori (come la bellissima Orazione in morte di Angiola Cimmino,

1727). Questa mancanza potrebbe sembrare particolarmente grave in un’opera, che esplicitamente obbedisce a intenti didascalici e si compone in una struttura oratoria, quale é appunto, almeno nelle inten-

zioni, la Scienza Nuova. Senonché, a guardar meglio, ci si accorgera che il difetto del trattato vichiano é strettamente cortelativo alla grandezza stessa e alla complessita e novita della materia, e che esso ha le sue radici e la sua giustificazione nella genesi mista e singolare_ dell’opera, filosofica e poetica al tempo stesso, mescolata di filologia e di speculazione, di storia e di epopea, di dottrina e di entusiasmo

morale ¢ religioso, dove il dotto da la mano al profeta e il pensatore’ si trasfigura nel visionario, e l’idea si concreta in fantasma e |’immagine si idealizza in simbolo, e il fatto storico illustra e richiama le dignita supreme del metodo mentre queste alla lor volta si complicano di riferimenti alla storia e al documento, in un affollarsi continuo e talora vertiginoso di concetti immagini allegorie, dove solo a tratti e frammentariamente

riescono a stabilirsi zone e momenti

di compiuto equilibrio. Pochi momenti, ma che, nella loro densita e contenuta potenza, bastano a far sentire l’impetuosa energia e la

concitata tensione di un’anima schiettamente poetica.

CAPITOLO | Xvi.

,

LA POESIA ; E LA LETTERATURA DELL’ ARCADIA

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1. L’« Arcadia » e la lirica. — Non l’estetica del Vico, bensi le poetiche del Gravina e del Muratori (e pit la seconda della prima), con il loro cauto concetto del « buon

gusto », il loro razionalismo e pedagogismo temperati e alleggeriti da profonde venature edonistiche, le loro tendenze nettamente antibarocche, e il loro esplicito richiamo alla tradizione del Tre e del Cinquecento, stanno a rappresentare

assai bene gli spiriti del piccolo neoclassicismo nostrano agli inizi del XVIII secolo, di quel neoclassicismo letterario e ac‘cademico

V Arcadia.

che, trovd la sua manifestazione

pit schietta nel-

2

Nell’ottobre del 1690 alcuni letterati e studiosi, che gia prima solevan trovarsi insieme a discutere e recitare versi e

prose nel salotto dell’ex-regina Cristina di Svezia a Roma, decidevano di creare, con quel nome appunto di Arcadia, una nuova accademia, una delle tante, ma ispirata, almeno nel

programma, a principi e criteri nuovi: « esterminare il cattivo gusto.... perseguitandolo continuamente ovunque si annidasse »; restaurare il senso della grande poesia italiana « mandata quasi a soqquadro dalla barbarie dell’ultimo secolo». Fra 1 primi fondatori erano il Crescimbeni e il Gravina; ma quest’ultimo (che del classicismo aveva un’idea

meno angusta, pit ardita e generosa) se ne stacco ben presto, provocando, insieme con taluni suoi discepoli, un’effimera scissione nel sodalizio: nel quale intanto entravano il Guidi, il Filicaja, il Lemene, il Redi, il Menzini, il Magalotti, i

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XVI. — LA POHSIA BE LA LE

Maggi, il Di Capua, tutti gli eredi e gli epigoni insomma del-

l’antimarinismo secentesco: il che ci aiuta a sentir meglio i limiti e la misura di questo rinnovato mondo neoclassico. Non importa che poi |’Arcadia, diventata a oco a poco la pid

importante accademia letteraria italiana, finisse coll’accogliere nelle sue file tutti o quasi gli scrittori del Settecento, senza

distinzioni o preferenze, e quindi anche quelli di spirito piu

aperto e pit: nuovo, dal Muratori e dal Vico fino al Parini e all’Alfieri. Il suo ufficio e la sua importanza nella storia della nostra letteratura si debbon misurare soltanto in funzione dell’impulso e dell’indirizzo ch’essa diede in un primo

tempo all’orientarsi del gusto poetico, e tenendo conto che dopo la meta del secolo questo ufficio gia comincia a decli-

Sel Sl te OC ce 8 ie

nare e ad esaurirsi, mentre sorgon le prime voci di scherno,

di satira e, peggio ancora, di indifferenza. L’ideale dell’ Arcadia, intesa in questo senso e in questi limiti, fu il ritorno alla naturalezza e alla semplicita in contrapposto al fasto e alle

stravaganze verbali dei marinisti; ma si trattava di una semplicita e naturalezza gia investite e soffuse dalla letteratura, concepite secondo un modulo letterario, che era poi quello press’a poco dell’idillio bucolico *). Nella pratica, ispirandosi ai loro concetti di rinnovata di-

sciplina e correttezza formale, gli scrittori dell’Arcadia diedero nuovo impulso alle forme della poesia dotta tradizionale, dalla lirica petrarchesca alla maniera bernesca, dall’ode pindarica e oraziana alla canzonetta anacreontica, dalla tra-

gedia alla commedia, dal melodramma al poema giocoso e a quello didascalico, ovunque portando quella grazia e malizia

di sensi, quella finezza di atteggiamenti misurati e consapevoli, quel languore tra morbido e lezioso, quella tenerezza melodica e cantabile, che erano il dono e il limite al tempo

stesso del costume sociale negli strati pid eleganti e pid su- | *) Non per nulla l’accademia prendeva il nome dall’ Arcadia, re-

gione della Grecia pastorale e poetica per eccellenza; pastori si chia-

mavano i soci; la loro insegna era la sitinga di Pane coronata d’alloro e di pino; il loro protettore, Gest: Bambino;

detto custode italiane.

generale;

colonie,

le affiliazioni

il presidente era

nelle diverse

cittd

391

perficiali della vita settecentesca. Il giudizio negativo, ad ogni modo, che si suol dare dagli storici sulla letteratura arcadica,

vuol essere in parte corretto e temperato. Nessun poeta grande, é vero, diede l’Arcadia come tale (ché non pud dirsi poeta

grande, nonostante la sua enorme fortuna e la sua funzione estremamente rappresentativa, neppure il Metastasio); ma parecchi piccoli poeti, con la loro vena tenue e un po’ frivola e tuttavia schietta e personale, stanno ad attestare la continuita, sia nel campo date teoriche e delle polemiche come in quello dell’esercizio poetico, della tradizione letteraria del Cinquecentd e dello stesso Seicento; e il costituirsi di un gusto elegante e prezioso e di un diffuso lirismo, misto di sensibilita e di malizia, da cui il Parini, fra i molti, derivera se non

altro la gentilezza squisita e l’agevole decoro delle forme. L'avviamento petrarcheggiante e l’imitazione del Bembo, del Costanzo, del Casa, rappresenta fra gli Arcadi poco pit di un freddo e ostinato esercizio stilistico, di cui s’incontrano per tutto il secolo

esempi numerosi, dalle rime del Magalotti e del Crescimbeni fino ai versi amorosi di Gaspare Gozzi e alle rime giovanili del Parini. Pit stretto e coerente, e frutto di un accanito impegno se non altro formale, fu il petrarchismo del cenacolo bolognese, capeggiato dal matematico e astronomo EUSTACHIO MANFREDI

(1674-1739), e al quale

appartennero FERNANDO ANTONIO GHEDINI

(1684-1767), e i fratelli

FRANCESCO MARIA ZANOTTI (1692-1777), autore anche di scritti filosofici e scientifici, © GIAMPIETRO ZANOTTI (1674-1765), pittore e storico dell’arte:

« scrittori pit corretti che animati », come

ebbe a

giudicarli il Foscolo. Anche pit insipida e frivola é l’imitazione della maniera bernesca, pur largamente rappresentata, nelle forme consuete del capitolo e del sonetto caudato, dal Manfredi, dal Gozzi, dal Baretti, dal Parini, dal Passeroni, dal mantovano VITTORE VETTORI

(1697-1763), dal fiorentino GIAMBATTISTA dal milanese CARLO ANTONIO TANZI

FAGIUOLI

(1660-1742),

(1710-62). Maniera petrarche-

sca € maniera bernesca stanno ancora, nella seconda meta del secolo,

a rappresentare il ricorso alla tradizione classica e il fondamento di

una buona educazione letteraria, e trovano impulso e fortuna nelambiente in cui fiorirono le due massime accademie di spirito tradizionalista e conservatore dell’Italia settentrionale: quella milanese dei

Trasformati (tisorta nel 1743), alla quale appartenne il Parini, ¢ quella veneziana dei Granelleschi (fondata nel 1747), da cui vennero fuori i due Gozzi.

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4254.

fete tives My CALE ‘adr sng “ Povera ¢ vacua @ anche la maniera pindarica, o meglio chiabre-

resca, degli arcadi: dalle odi dei gid ricordati Menzini, Guidi

Filicaja a quelle del Crescimbeni, fino agli inni sacri del padre GraMBATTISTA COTTA (1668-1738). Delle due maniere litiche del Chia-

brera, la pindarica e I’anacreontica, sebbene fossero coltivate entrambe



con fervore press’a poco eguale per tutto il Settecento, quella che ebbe maggior fortuna immediata fu Ja seconda, a cominciare da GIAMBATTISTA ZAPPI (1667-1719) di Imola, Nei sonetti pastorali, nelle egloghe, negli scherzi, nelle canzonette, nei madrigali, per cui lo Zappi fu nei suoi tempi ammiratissimo e rimase anche in seguito

il tipo e quasi la caricatura dell’Arcadia lirica, abbondano invero i vezzi ¢ Je leziosaggini, le grazie e i belati di quella falsa pastorelleria, in cui prese forma allora e giunse al suo estremo esaurimento la gia estenuata aspirazione idillica degli umanisti. Ma per un altro verso vi confluisce l’esperienza melica e madrigalesca del Seicento, dal Chiabrera al Lemene, con la sua mollezza di ritmi e di stile, con la-sua

arguzia di concetti, con il suo lessico umile e familiare, facile e dimesso, € gia vi palpita lo spirito della societa nuova delle dame incipriate, dei cicisbei, degli abati mondani e svenevoli, la galanteria che non é l’amore bensi la maschera dell’amore, fatta di moine, d’inchini, di complimenti maliziosi, di tenui desideri sensuali, di simu- —

e lati languori. Questa stessa vena galante risuona, con note pil maliziosamente fresche e pit: sensualmente colorite, negli idilli e scherzi di TommMAso CRUDELI (1703-45) da Poppi; con maggiore varieta di invenzioni e di situazioni nelle canzonette dell’abate genovese CARLO INNOCENZO — FRUGONI (1692-1768), l’opera poetica del quale pud considerarsi d’altronde un campionario di tutte le maniere e tendenze della letteratura arcadica, nel momento della sua maggiore espansione e for-—

tuna. Poeta di corte, a Parma, prima dei Farnese e poi dei Borbone,

ispettore degli spettacoli, segretario perpetuo dell’Accademia parmense, il Frugoni fu uno dei dittatori del gusto contemporaneo:

scrisse odi pindariche, canzonette erotiche, melodrammi; poemetti, © epistole ¢ sermoni in versi sciolti. Con questi ultimi contribui a stabilire e diffondere la moda di un metro, che doveva naturalmente piacere alla mentalita razionalistica e antipoetica del secolo XVIII,

come quello che pit di tutti si prestava, docile e disinvolto, all’espressione di ogni sorta d’argomenti anche riflessivi e didascalici, e tendeva ad assumere i modi dimessi e fluidi della prosa discorsiva;

ma nel Frugoni l’endecasillabo sciolto, pur trattato non senza bravuta e abilmente variato negli accenti e nelle cesure, si riduce ad

essere uno strumento di declamazione sonora, il tipico esempio del

«verso che suona e che non crea », odiato dal Foscolo. Intanto, con

i sonetti su Annibale, Pompeo, Fabio Massimo e Scipione, il geno_-vese dava tra i primi l’esempio di quella maniera descrittiva e pittoresca, falsamente eroica e magniloquente, del sonetto-quadro, che sara poi ripresa dal modenese GIULIANO CASSIANI (1712-78), dal ferrarese ONOFRIO MINZONI (1734-1817) e da parecchi altri fino al Monti. Il meglio dell’opera letteraria del Frugoni @ per altro nelle sue canzonette d’amore, di corteggiamento e per nozze: nelle facili variazioni sui temi eterni della guerra e della conquista erotica e della galanteria, trattati.con lo spirito scettico e blandamente epicureo delle conversazioni mondane.

Se alla finezza di certe situazioni psicolo-

giche corrispondesse, sia pure frammentariamente, l'impegno dell’arte,

e il motivo sentimentale non andasse presto sommerso dalle ragioni esteriori e dai complimenti cortigiani, le canzonette del Frugoni potrebbero forse darci l’equivalente italiano di certa contemporanea poesia erotica francese di tono minore, e in alcuni suoi ritratti femminili e scenette di vita nuziale si rivelerebbe forse quella grazia arguta che ora vi si avverte implicita e come in abbozzo. A una stilizzazione pia accorta e meditata della consunta materia erotica pervengono per altre vie, mantenendosi quasi del tutto estranei al prepotente influsso frugoniano, alcuni lirici, come il Rolli, e poi il Savioli, il Bertola, il Vittorelli, con i quali ultimi il gusto arcadico

si prolunga fino alle soglie dell’Ottocento. Il pit naturalmente dotato fra costoro

@ senza dubbio PAoLo

ROLLI,

nato a Roma

nel 1687,

morto a Todi nel 1765. Allievo del Gravina, visse fra il 1715 e il ’44 a Londra, dove fu maestro d’italiano presso la famiglia reale, curd edizioni di classici, compose melodrammi, tradusse Milton Sha-

kespeare e Racine, polemizzd col Voltaire in difesa di Dante e del Tasso. Guardata nel complesso la sua attivita di grammatico, critico, traduttore ¢ la sua opera stessa di scrittore, pud esser giudicata, « prima vista, quella di un tecnico laborioso della letteratura, e per ‘certi aspetti di un metrico

sul tipo del Chiabrera.

Tentd infatti di

introdurre, nelle odi, la strofe saffica e l’alcaica senza rime, e pit genialmente riprodusse I’endecasillabo catulliano e anche nelle cantate e nelle canzonette si sbizzarri con uma varieta e ricchezza di metri, che é degna di nota e che non rimase senza influsso sugli scrittori venuti dopo. Ma, dietro l’appariscente bravura, palpita a. tratti uma vena sinceramente affettuosa e appassionata: un sentimento schietto, alieno tuttavia dall’approfondirsi, pronto piuttosto a sciogliersi,

placato,

nella

dolcezza

musicale

dell’elegia ovvero

a

rifettersi, rammorbidito, nella tranquilla contemplazione di paesaggi chiari

e sereni.

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classici

antichi,

studiati

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394 ~ «XVII. — LA POESIA E LA LETTE

Rolli riprende le note pid tenui e pit tenere, le pi conformi alla sua indole: da Orazio, la blandizie epicurea, senza la sostanza di moralita; da Catullo, l’abbandono sensuale, senza le note pit intense e pit sofferenti. Nelle sue cose migliori, la commedia dell’amore,

con i suoi ardori e i suoi vezzi, i suoi languori e le sue civetterie, la — sua nostalgia e la sua pena, rivive stilizzata in forme leggere, di { una musicalita facile e orecchiabile, che si direbbe popolare.

IL bolognese LuDovico SavIOLI (1729-1804) si rifa invece ad Ovidio, di cui aveva tradotto nella prima gioventi le elegie amorose. Nei suoi Amori (1765), che godettero di un’immensa fortuna, 1 riti e le varie vicende delle avventure galanti, i sospiri, le civetterie e le gelosie delle damine incipriate, l’eleganza dei salotti, i segreti della toeletta, il fascino del teatro e delle danze, il passeggio e la villeggiatura, tutto il rituale raffinato insomma della societa elegante del Settecento, messa da parte la finzione pastorale, preferisce avvolgersi

in un tenue velo di grazie classicheggianti e riflettersi trasfigurato nella serena gentilezza delle rievocazioni mitologiche. Si pud dire quindi che gli Amori del Savioli ci forniscono, in sede letteraria, un - equivalente del neoclassicismo ammanierato e aggraziato, ma gentilissimo, dei pittori e scultori contemporanei; e preparano intanto iritmi, le immagini, il linguaggio preciso e vero senz’esser grossolanamente realistico, alle odi del Parini, del Monti, del Foscolo,.

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Artista assai minore, pit facile e sciatto, é il riminese AURELIO

DE’ GIORGI BERTOLA (1753-98), in cui la vena arcadica, metastasiana e frugoniana, si arricchisce tuttavia e si complica, anticipando in apparenza certi effetti e colori del lirismo romantico, per l’influsso dei

poeti inglesi e soprattutto Kleist,

Klopstock,

ecc.),

tedeschi

del tempo

(Young,

di cui egli fu il primo

Italia. L'ultimo degli arcadi @ il bassanese Jacopo ViTTORELLI 1835), il quale, morto vecchissimo,

Gessner,

divulgatore

in

(1749-

rimase fino all’ultimo fedele al

gusto poetico nel quale s’era educato nella prima gioventi e parve non accorgersi del profondo rinnovamento culturale ed artistico che’ si veniva operando intorno a lui fra la seconda meta del XVIII e t primi decenni del XIX secolo. Le sue anacreontiche ad Irene e a Dori, in agili quartine di settenari, svolgono, nel loro breve am-

bito, ciascuna un momento o un episodio dell’eterna commedia del-

l'amore: per la chiarezza dello schema psicologico fanno pensare al Metastasio, per la semplicita dello svolgimento melodico s’accostano ai modi della lirica popolare. La rara purezza di un linguaggio cos} emplice e facile da sembrare ingenuo e quasi puerile, mentre é@



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_ estremamente rafhinato, spiega d’altra parte la simpatia che questi versi del Vittorelli seppero suscitare in poeti-artisti come il Tommaseo e il Carducci.

2. Il Metastasio. —

Soltanto in PrETRO METASTASIG

tuttavia la tenue ispirazione sentimentale del mondo arcadico trova una sua voce sicuramente poetica, con un respiro assai

pia ampio e continuato che non nel Rolli e nel Vittorelli e

con un impegno e un’adesione alla materia del canto ben altrimenti forte e cordiale che non sia nel Frugoni. Solo nel Metastasio inoltre, e proprio per la larghezza e la varieta con cui si sviluppano e distendono quei motivi lirici, determinandosi non pia in quadretti e macchiette, bensi in vasti sce-

nari e€ personaggi e contrasti di sentimenti, é possibile cogliere appieno 1 fortissimi legami che avvincono quel mondo a tutta la nostra tradizione poetica.

I momenti pid tenera-

mente fantastici e flebili della psicologia petrarchesca, il mondo ariostesco dei cavalieri delle donne e degli amoti, Veroico del Tasso calato in un’atmosfera idillica, l’Aminta

e il Pastor fido, rivivono nel melodramma metastasiano con tutto il loro contenuto patetico, ma estenuato ed alleggerito (non per nulla-c’era stato di mezzo il Marino e l’Adone), tidotto a motivo e pretesto di effusioni melodiche e di ritmi decorativi. In questo senso il Metastasio é veramente |’ultima voce poetica della vecchia letteratura, in cui si riassume un processo secolare di stilizzazione e di idealizzamento del contenuto sentimentale, e in cui si esprime |’aspira-

zione estetica di un mondo raffinato giunto alla sua estrema maturita. Pietro Trapassi nacque a Roma, di padre assisiate, il 3 gennaio 1698. Fanciullo ancora, trovd un protettore e un maestro nel

Gravina, che gli grecizzd il cognome in Metastasio. Dal Gravina apprese il culto dei classici, I’alto senso della poesia eroica e della tragedia, la disciplina dello stile. Pit tardi, in Calabria, dal Calopreso,

che gli insegnd Ja filosofia cartesiana, impard a distinguere sottilmente ¢ a definite con precisione e con finezza tutti i gradi e le sfumature delle passioni. Aveva cominciato, fin dai dieci anni, a improvvisare versi nei salotti, prima a Roma ¢ poi a Napoli, conqui-

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=e j stando rinomanza in quel genere di giuoco letterario assai caro alla societa colta del secolo; ma a sedici anni il Gravina gli proibi sag_giamente uno sforzo, che danneggiava la sua salute e al tempo stesso” gli impediva di applicarsi con la necessaria intensita agli studi, ¢

del divieto egli si professd pid tardi grato al maestro. Questi, morendo, lo lascid erede della sua biblioteca e di un capitale, che perd gli fu subito conteso e in gran parte tolto dagli altri pretendenti —

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all’eredita. Nel ’18 il Metastasio fu accolto fra gli Arcadi; fra il °17 e il '21 fece le prime prove nel campo della poesia: cantate, idilli, epitalami, serenate, odi, e un’azione drammatica per nozze, Gli Orti

Esperidi, che segna l'inizio della sua carriera teatrale. Introdotto nel — mondo musicale dalla celebre Romanina (Marianna Bulgarelli), nel cui salotto conobbe alcuni dei maggiori maestri e virtuosi di canto del tempo, scrisse per lei nel ’24 la Didone abbandonata, che lo rese subito famoso, e alla quale seguirono, fra il ’26 e il '30, il Séroe, il Catone in Utica, \ Exio, la Semiramide riconosciuta, YAlessandro nelle

Indie e |Artaserse. Nel ’30 fu chiamato a Vienna, come poeta cesareo — alla corte dell’imperatore Carlo VI, con la raccomandazione di Ma-

rianna Pignatelli contessa di Althann, che fu la sua amica e protet-— trice fedele per venticinque anni. Nel primo decennio del soggiorno

viennese (1730-40) compose quasi tutti i suoi drammi pit belli:

lAdriano in Siria, il Demetrio, VIssipile, YOlimpiade, il Demofoonte, la Clemenza di Tito, \'Achille in Sciro, il Ciro riconosciuto, il Temistocle, la Zenobia, \Attilio Regolo, oltre parecchie cose di minor tilievo (cantate, oratori, ecc.), che egli venne allora e poi dettando per le esigenze degli spettacoli e delle feste di corte. La sua attivita

si fece meno intensa negli anni seguenti, ai quali appartengono tuttavia l’Antigono, \'Ipermestra, il Re pastore, |Eroe cinese, il Trionfo di Clelia, il Ruggero, nonché il piccolo dramma fantastico L’isola disabitata, Onotato, accarezzato, colmato di regali dai suoi augusti protettori — Carlo VI e poi Maria Teresa, che gli era stata scolara —, acclamato in tutta Europa come il pi grande poeta del tempo, il Metastasio conservd intatta fino alla morte, avvenuta nell’aprile del’ 1782, la sua indole onesta e semplice, senza doppiezze e senza vanita.

Devotissimo e sinceramente affezionato alla famiglia imperiale, non fu mai un cortigiano volgare: confessava di non aver potuto, in tanti anni di soggiorno presso una corte, «contrarre né l’aria misteriosa, né leroico ventoso esteriore, che ordinariamente vi regna, né quella | dotta dissimulazione che almeno confina con Ia falsitd ». Era amante

del viver quieto e blando (quello che chiamava, nelle lettere, il suo )

«tenor filosofico »), alieno dai contrasti e dagli intrighi, disposto)

alle amicizie, specie femminili, e non

privo di generosita, ma

senzai

abbandono. Anche i suoi rapporti con la poesia sono caratterizzati da

_ questo atteggiamento di riserbo e di cautela « filosofica », come ap_ pare da quel che scriveva nel ’51 alla principessa di Belmonte: _ «il mio costante commetcio di tanti anni con le Museé ormai piut-

_ tosto amicizia che tenerezza. Io conosco tutti i loro capricci, esse non

_ ignorano alcuna delle mie molte imperfezioni. Io le lascio in pace quanto é possibile; €sse non mi stuzzicano che per inavvertenza; ¢€ se talvolta ci accarezziamo,

é pit costume che affetto.... Non

é-

affatto vero (come si crede) che coteste fanciulle siano state meco . ¢ facili e cortesi; sappia che per farle fare a mio modo ho dovuto sempre sudar moltissimo e affannatmi, e che oramai conosco che la

loro compiacenza non metita una pena si grande ». Durante il lungo periodo di declino, che corre dopo il ’40, il Metastasio s’era rivolto a meditare con attenzione e con acume le ragioni critiche della sua arte; e alcune scritture sue di quel tempo — la Poetica d’Orazio tra- dotta e commentata, \Estratto della Poetica a’ Aristotele con le consi-

derazioni su la medesima, le Osservazioni sul teatro greco — ci offrono l’espressione pitt matura dei suoi propositi e dei suoi ideali, solo in parte realizzati, in questo campo. L’antico discepolo del Gra-

vina, discutendo con molta liberta i dogmi appresi dal maestro, si scaglia contro i ceppi imposti alla tragedia dalla tradizione aristotelica; respinge come assurde le unita di tempo e di luogo (che pur sera sforzato di rispettare fino ad un certo punto nelle sue composizioni teatrali); fa buon viso al lieto fine; determina a modo suo il

concetto di catarsi in un senso meno tragico e pia melodrammatico, facendo posto in esso agli esempi di nobile virti e agli affetti pit dolci e gentili e prima di tutto all’amore; e riprende l’idea, che era

stata gid della Camerata fiorentina dei Bardi, secondo cui l’opera moderna sarebbe la pit perfetta riproduzione del dramma greco. Vero @ poi che egli dimostra altrove d’esser consapevole dei limiti che gli imponevano le esigenze del teatro quale s’era venuto concretamente organizzando ai suoi tempi: «il contrasto del vizio e della virti é ornamento impraticabile in questi drammi, perché nessuno della com-

pagnia vuol rappresentare parte odiosa. Non posso valermi di pit che di soli cinque personaggi.... Il tempo della rappresentazione, il numero delle mutazioni di scena, delle arie, e quasi de’ versi é limitato ». Alla radice del melodramma metastasiano sta infatti un problema tecnico, che appassiond profondamente gli uomini del Settecento, ¢ cioé Ja necessita di raggiungere un compromesso fra le esigenze dello spettacolo, quale esso era inteso dal pubblico e preteso dagli attori e in certo senso determinato dall’invadenza crescente dell’elemento

musicale,

e la vecchia

tenace

aspirazione

italiana

di

adeguare il melodramma alle ragioni del decoro poetico edella dottrina aristotelica della tragedia. Che cosa fosse diventato il melodramma nelle mani dei librettisti del secolo XVII s’é detto altrove

(cfr. cap. XV, 5): un macchinoso apparato di vistose scenografie e di — inverosimili svolgimenti romanzeschi. Agli inizi del Settecento questo genere ibrido, in cui la poesia era fatta serva da una parte alla musica ¢ alla prepotenza dei virtuosi e dall’altra ai gusti corrotti € — grossolani degli spettatori, aveva incontrato la rigida opposizione dei ‘teorici, dal Gravina, al Muratori, al Maffei, tutti intenti a restaurare

il principio del « buon gusto » nella letteratura. Senonché le condanne sommarie rimanevano impotenti di fronte alla voga crescente del- — l’opera e all’entusiasmo ch’essa suscitava fra il pubblico in ogni parte — d’Europa; donde i tentativi di alcuni letterati che sul principio del —

secolo si adoperarono a riformare il melodramma per renderlo pit — decoroso e pit ossequente alle regole: primo fra tutti il famoso eru- — dito e critico veneziano APOSTOLO ZENO, che precedette il Metastasio nella funzione di poeta cesareo a Vienna fra il 1718 e il ’28, e si :

sforzd appunto di riportare il melodramma al senso dell’eroico, del solenne, del tragico, tenendo anche presenti gli sviluppi del teatro — francese (Corneille, Racine). Allo Zeno difettava per altro il senso della musica e, cid che pit importa, la sua riforma procedeva assai pit: sul fondamento di un proposito cerebrale che non di una schietta & ispirazione poetica.

Nel Metastasio il compromesso si attua in una forma assai piu spontanea e cordiale: l’esigenza dell’eroico é fortissima anche in lui e risponde alle sue convinzioni teoriche;

senonché l’eroico egli concepisce in quelle forme stilizzate e decorative, liriche e patetiche, che gli offriva la tradizione ariostesca e tassesca e marinistica; e inoltre in lui i motivi —

sentimentali e le esigenze melodiche corrispondono al nucleo pid intimo della sua ispirazione e non contrastano, come nello” Zeno, ai propositi dell’intelletto. Ne deriva quella mirabile

continuita e coerenza di tono poetico, che é uno maggiori della sua arte: la disinvoltura, almeno con cui l’autore si destreggia nei limiti e fra le convenzioni del genere prescelto; la sapienza con

dei segni apparente, molteplici cui riesce

ad eliminare dal suo mondo, ovvero a subordinarle, tutte le

note troppo umili o troppo energiche, troppo realistiche oppure sublimi. Questo mondo é, in vesti eroiche e in forme

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;tragiche, il mondo della commedia amorosa, che non conosce gli urtt drammatici e terribili degli affetti, i tumulti profondi

€ i cozzi violenti delle passioni esaltate sotto il segno del de_ stino e della morte, si soltanto i lievi contrasti e le perplessita dolcemente tormentose del sentimento, e quel suo ripie-

' garsi su se stesso ¢ vagheggiarsi compiaciuto, che consente una varieta infinita di sfumature e di gradazioni sul tema fisso della volutta dolente e sospirosa. Il mondo poetico del Metastasio é quello stesso che vive nelle canzonette del Rolli e del Vittorelli e nelle raffinate invenzioni del Savioli, ma con una nota pit profonda e pensosa di malinconia e con una capacita di riflessione pid intensa e penetrante; mondo limitato, in quanto esclude da sé

i conflitti pit gravi e pit aspri e il travaglio delle grandi idealita umane, ma nei suoi limiti tutt’altro che superficiale,

anzi capace di svolgimenti vari e complessi. Il pericolo pit grave per questa sorta di poesia é quello di cadere in un eroico astratto e di maniera (il che avviene, per esempio, nel Catone, nel Temistocle, nella Clemenza di

Tito, e nell’ Attilio Regolo). L’altro peticolo, presente un po’ dovunque, é quello di rasentare di continuo il ridicolo di un

sentimentalismo smanceroso. Ma dove il Metastasio raggiunge l’equilibrio fra le esigenze del decoro e la propria ispirazione lirica e si mantiene nell’ambito di una sentimentalita comune

ma idealizzata e soffusa di grazia, all’infuori di ogni velleita rettorica e di ogni abbassamento comico, allora egli attua tutto l’incanto della sua poesia e crea i suoi capolavori: l’Olimpiade,

il Demofoonte, il Demetrio. La qualita schiettamente lirica dell’ispirazione spiega la struttura caratteristica del dramma metastasiano: dove l’impostazione drammatica, fondata sul contrasto fra l'amore e la ragione, l’amore e il dovere, l’amore e la gloria, non é pit che un mezzo e un pretesto all’effusione di un lirismo appassionato e intimamente tormentato e per-

plesso; e i personaggi non sono caratteri distinti e contrap-

posti, ciascuno con la sua personalita coerente e complessa,

bensi, sul modello della tradizione epica italiana, figure ideali

e tipiche, pur costruite nei loro limiti con una chiarezza di

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linee e una finezza psicologica, in cui s’avv erte l’educazione _ cartesiana

dello scrittore. I. contemporanei

ammirarono

nel

Metastasio soprattutto questa chiarezza di disegno e precisione di struttura, questa sapienza nel distinguere e delineare le categorie delle passioni e farle oggetto di riflessione morale;

e inoltre

estremamente

la creazione

sobrio

e parco,

di un

limpido

linguaggio

poetico

e puro,

semplice

senz’esser pedestre. Per queste sue doti, non soltanto appariscenti, ma sostanziali, frutto di un’educazione stilistica estremamente raffinata, il Metastasio doveva essere e fu il

poeta prediletto del Settecento, del quale d’altronde esprimeva in un modo cosi intenso e nuovo la delicata sensibilita e la misurata tenerezza del cuore. Per noi é ragione di mera-

_

viglia piuttosto il vedere come quella chiarezza di strutture e quella materia di riflessioni non distruggano il lirismo iniziale dell’ispirazione, anzi lo assecondino docili e obbedienti,

e come quel linguaggio nitido e preciso, cosi conversevole in apparenza e cosi ragionevole, riesca poi dovunque a tramu-

tarsi in un canto, in cui si disciolgono e diventano materia

poetica persino gli schemi psicologici e le sentenze morali. Il lirismo fondamentale del mondo metastasiano pervade di sé tutti i melodrammi; si effonde nelle parti recitative al di sopra, se non proprio al di fuori, del ritmo del dialogo, e si condensa alfine in quelle mirabili ariette, che sono il capolavoro della melica italiana settecentesca e lespressione piu compiuta dell’animo del poeta, della sua sensibilita e del suo”

gusto, della sua umanita cordiale e della sua sottile arguzia : psicologica. 3. I generi

letterari

nell’eta

dell’Arcadia. —

All’in-

fuori del melodramma metastasiano e della varia fortuna della canzonetta, l’Arcadia come tale non diede che letteratura. Letteratura ora pit ora meno decorosa, di mestiere o pit spesso dilettantesca,

nell’ambito dei « generi » coltivati e codificati dal Cinque e dal Seicento, € Ora ripresi e rinverniciati alla meglio secondo il nuovo concetto del buon gusto e con I’innesto degli spiriti polemici e satitici che si venivano a poco a poco diffondendo nella nuova cultuta europea ed italiana. ' Dopo il Metastasio, il melodramma come organismo |letterario

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decade, Dei molti che si provarono ad emularlo non mette conto ricordare il nome; come pure é appena il caso di accennare agli imitatori dell’opera francese, dal Rolli al Frugoni. Pit importante, almeno storicamente, é il nuovo tentativo di riforma del livornese RANIERI CALZABIGI (1714-95), critico acuto e dotto, buon conoscitore

delle letterature straniere e specialmente dell’inglese, il quale vagheggid un ritorno alle linee semplici e caste delle favole antiche, messi da parte gli ornamenti superflui e le stravaganze romanzesche degli intrecci, e trovd nel grande compositore tedesco Cristoforo Gluck il musicista capace di tradurre in atto la sua concezione +),. . Anche nel Settecento, come nei due secoli precedenti, la tragedia - timane il gran « genere » della letteratura teatrale, il punto di partenza e il vertice di tutte le poetiche, l’aspitazione suprema di ogni scrittore. Il bisogno di dare all’Italia il vanto anche della forma poetica consacrata dal genio e dalla teoria aristotelica non é¢ meno vivo e sentito che per il passato, accresciuto anzi ed esasperato dal

parcagone della splendida fioritura tragica della Francia secentesca, nonché dall’enonme importanza che il teatro in genere, come strumento di cultura, acquista nella societa europea del secolo XVIII. Dal Gravina al Muratori, dal Conti al Maffei, dallo Zeno al Calepio, dal Metastasio al Calzabigi, dal Baretti al Cesarotti, tutti i teo-

ric’ e i letterati dissertano sulla tragedia; mentre nell’arringo tragico si provano, s¢ pure con scatsa fortuna, eruditi poeti e poligrafi in ogni parte d'Italia, da Gaspare Gozzi al Goldoni, da Alessandro Verri al Bettinelli, al Varano e via dicendo. Soltanto nell’ultima parte

del secolo |’Alfieri verra finalmente ad appagare quello che era stato il desiderio di tutta l’eta sua, calando nello schema tragico la propria personalissima ispirazione; ma appunto dal travaglio riflessivo e critico ¢ dai tentativi delle generazioni precedenti egli avra preparata la via all’identificazione deila tragedia con la poesia stessa intesa nel suo slancio pitt vasto e nella sua espressione pit nobile e pit tesa,

1) Notevole @ anche, sebbene assai pit nella storia della musica che in quella della letteratura, la fortuna della commedia musicale e dell’opera buffa. Ricorderemo i libretti dei due napoletani FRAn-

CESCO CERLONE ¢ GIAMBATTISTA LORENZI (1719-1807), alla collaborazione del quale ultimo con FERDINANDO GALIANI si deve la vivace € arguta invenzione del Socrate mmaginario

(1775); i melo-

drammi giocosi del Goldoni e del Casti, nonché quelli di LorENzO

pA PoNTE (1749-1838), di cui alcuni (Don Giovanni, Nozze di Frgaro) ebbero l’onore delle musiche di Mozart. 96, —

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"XVII. — LA POESIA E LA LE pii ansiosa di sublime. Frattanto il genere tragico seguita ad essere, com’era stato nel Cinquecento e pit forse che non nel Seicento, un campo sperimentale di testarde esercitazioni intellettualistiche. Il clas-

sicismo grecheggiante é rappresentato, nelle sue forme pit rigide ¢ polemiche, dalle tragedie di GIANVINCENZO GraviNa (Palamede, Andromeda, Servio Tullio, Appio Claudio, Paptiniano), pubblicate nel 1712 e composte quasi per scommessa

in brevissimo

tempo:

docu-

mento degli spiriti ribelli dell’autore, del suo antigesuitismo e dei suoi sentimenti democratici. Legatissimo negli schemi ai modelli francesi é invece il bolognese PizER JACOPO MARTELLO (1665-1727), che nelle sue tragedie

(Ifigenia,

Alceste,

Perselide,

Rachele,

Si-

sard, ecc.) mescola agli elementi comici e satirici, da commedia di costume, un sentimentalismo melodrammatico e uno spirito idillico schiettamente arcadici. Il Martello non incontrd l’approvazione dei letterati contemporanei, soprattutta per l’innovazione metrica, da lui

introdotta e difesa nel trattato Del verso tragico, del doppio settenario a rima baciata, ricalco dell’alessandrino francese. Grandissima fortuna, anche fuori d'Italia, ebbe invece la Merope (1713) di SCIPIONE MAFFEI, opera di decorosa ma fredda letteratura, con la quale si

stabilisce in forma definitiva lo schema esterno della posteriore tragedia italiana (endecasillabo sciolto, in luogo del metro misto di endecasillabi e settenari, che aveva fino allora prevalso; e abolizione del

coro) e si attua un abile compromesso fra la tradizione classica e il gusto francese, capace di conciliare le varie esigenze dei letterati ¢ del pubblico. Pit robustamente ideate e costruite sono forse le quattro tragedie di ANTONIO CONTI (Giunio Bruto, Marco Bruto, Giulio Cesare, Druso), che rappresentano un compromesso analogo ¢ s’ispi-

rano inoltre, come quelle del Gravina, a un intento di alta educazione morale e civile. Anche nel campo della commedia, pur considerata come un genere di letteratura minore e quasi popolare, il rinnovato senso del buon gusto, che é l’anima della poetica arcadica, si esercita, con propositi e tentativi di riforma, in contrasto con i modi scurrili e

ormai discreditati della commedia dell’arte e con l’'inverosimiglianza complicata del teatro spagnoleggiante. Si tende anche qui alla semplicita e alla naturalezza, e ci si sforza di conseguirle sia ritornando ai modi della commedia cinquecentesca, sia pit spesso rivolgendosi a imitare dall’esterno 1 modelli francesi. La cosidetta riforma goldoniana si sviluppera in questo ambiente, e sul fondamento di siffatti presupposti; ma prima ancora del Goldoni son da ricordare le molte

commedie (I cicisbeo sconsolato, Il marite alla moda, ecc.) del fiorentino GIAMBATTISTA FAGIUOLI, gia ricordato fra i berneschi, e

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I GENERI LETTERARI

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pit quelle del senese Jacopo NELLI (1673-1767): dei quali, l’uno € ancora assai vicino alle forme del teatro dell’arte e si limita a semplificare gli intrecci ¢ a render pit umane le maschere; I’altro invece, tisente in misura assai piii forte dell’influsso francese, e nelle sue

composizioni (La serva padrona, Le serve al forno, Suocera e nuora, La dottoressa preztosa, Il geloso disinvolto, ecc.) tenta la rappresentazione di caratteri e d’ambienti con un realismo non privo d’efficacia. Un ingegno pit arguto e una personalita pit risentita si incontrano: nell’altro senese GIROLAMO GIGLI (1660-1722), spirito curioso in cui l’erudizione letteraria e linguaiola, bizzarra e al tempo stesso accademica, di tipo ancora secentesco, si vena e si arricchisce di aspre velleita polemiche e di propositi ribelli schiettamente settecenteschi e illuministici. Nemico dei gesuiti, degli arcadi e dei cortigiani, sfogd _t suoi umori battaglieri, con un’allegra e baldanzosa fantasia, nel Gazzettino (1712), specie di romanzo giornalistico, a mezzo tra i « ragguagli » dell’eta precedente e le Lettres persanes di Montesquieu. Nelle commedie imitd i francesi: i Lit#ganti derivano da Racine; il Gorgoleo,

il Don

Pilone, le Furberte

di Scappino da Moliére; il

Ser Lapo e la Scuola delle fanciulle dal Montfleury; i Vizi correnti all’ultima moda dal Palaprat. Di Moliére e degli altri suoi modelli il Gigli é portato naturalmente ad esagerare le tendenze satiriche e polemiche, adattandole alle esigenze dell’ambiente in cui vive e ai suoi personali

risentimenti;

e cosi i personaggi piu vivi si

trasformano nelle sue mani in tipi e caricature, poveri di umanita e di poesia, se pure importanti

in sede storica come

documento

di una determinata corrente spirituale e culturale. Questo difetto si vede anche nella pit originale tra le commedie del Gigli, la Sorellina di Don Pilone, dove la vena polemica si fa piu accesa e pit chiusa, rivolgendosi contro la stessa moglie dello scrittore rappresentata nella sua grettezza e avarizia e insensibilita e contro un miserabile bacchettone dal quale ella si lasciava dominare e metter su contro il marito. Ai modelli francesi si rifanno anche le commedie regolari in versi sciolti di ScIPIONE MAFFEI (Le Certmonie, Raguet), che, come la Merope dello stesso autore, fappresentano un in-

gegnoso tentativo di conciliazione fra la tradizione classica € lo spirito settecentesco. Stanno a sé invece, per il loro originale colorito atistofanesco, le commedie e le farse satiriche di PIER JACOPO MarTELLO, tra cui notevole per qualita letterarie il Femza Sentenziato, che é un arguto ritratto del vanitoso e ipercritico Maffei e una sorta di

libello polemico contro lo stile ttagico dell’erudito veronese e del Gravina, verseggiato in isciolti con una bravura di suoni non volgari e di ben congegnate spezzature e con una novita ardita di sin-

mai del tutto estranei alla coscienza e alla mentalita del secolo. Meglio si prestava se mai ad esprimetne gli spiriti pit frivoli e leggeri, nonché l’arguzia riflessiva e le blande intenzioni satiriche, il poema eroicomico e giocoso che ebbe infatti una discreta fortuna. Scritture puramente e oziosamente letterarie sono, fra le altre, la riduzione in

ottave di stile bernesco, per opera di venti rimatori (tra cui i due’ Zanotti, il Frugoni, il Baruffaldi) delle avventure di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, gia narrate oltre un secolo prima in scorrevole ed arguta prosa dal cantastorie bolognese Giulio Cesare

Croce;

¢,

ii notevole, il Récciardetto del pistoiese NIccoLO FoRTEGUERRI (1674-1735). Quest’ultimo rappresenta bene certo gusto tradizionalista e accademico della prima Arcadia romana (a Roma visse infatti quasi sempre il Forteguerri, impiegato di curia), come in tima rappresenta il gusto del cenacolo bolognese e emiliani. Nato per gioco e€ quasi per scommessa, con ridar vita alla gloriosa tradizione dell’ottava narrativa

il Bertoldo degli arcadi I’intento di italiana, il

Ricciardetto non é@ certamente opera di poesia; ma neppure é, nei suoi limiti, cosa da disprezzarsi senz’altro. B il divertimento di un

letterato di facile vena e di educatissimo stile in margine alle invenzioni del Pulci e del Boiardo, dell’Ariosto ¢ del Berni, e anche del

Bracciolini e del Tassoni. L’interesse del libro non nasce dal contenuto fantastico, spesso grossolano e meschino e quasi sempre insulso e privo di ragioni e di risentimenti personali; ma é tutto nelle forme, in quel riecheggiamento amoroso di un linguaggio e di uno stile consacrati da una tradizione veneranda e ora idealmente commemorati da uno spirito che di quella letteratura aveva fatto tutta la sostanza della sua anima, la sua gioia e l’oggetto del suo culto. A un fine di mero diletto e di svago immediato @ volta la pure abbondante produzione narrativa di carattere ameno. Mentre si esaurisce miseramente la novella d’imitazione boccaccesca, acquista una certa fortuna nel Settecento la novella in versi di materia erotica e galante, trattata, fra i molti, dal famoso, o per meglio dire fami-

gerato, abate ed avventuriero GIAMBATTISTA CaSTI (1724-1803) di Acquapendente presso Viterbo. Novella e romanzo si complicano e si atricchiscono, nella seconda meta del secolo, di schemi allegorici e di tagioni satiriche e polemiche, sotto !'influsso dei maggiori modelli francesi ed inglesi. Pit vicini ai modi della tradizione secentesca,

_

sebbene non privi neppur essi di grossolane intenzioni pedagogiche, complicati e stravaganti nell’intreccio, abborracciati e scorretti nella forma, sono invece i numerosi

romanzi

(La ballerina onorata,

La

giocatrice di lotto,La bella pellegrina, La viaggiatrice, ecc.) del bresciano PIETRO CHIARI (1711-85), avventuriero della penna e gazzet-

tiere, nonché noto autore di drammi e commedie in concotrenza col

; Goldoni. Solo in parte al di fuori dell’ambiente letterario arcadico, da cui

si distaccano per certa facilita trascurata ¢ approssimativa delle forme, ma dai quale derivano in sostanza gli atteggiamenti generali del gusto e im gran parte anche gli interessi mentali e la materia delle loro scritture, stanno gli avventurieri, di cui il Settecento, continuando

una tradizione ormai antica, forni alcuni tra gli esemplari pid caratteristici e pit fortunati. Tra le molte occupazioni, pil o meno oneste,

alle quali si adattano per campare nei loro incessanti pellegrinaggi, essi trovano anche il tempo di scrivere drammi, romanzi, saggi scientifici e filosofici; e danno il meglio di sé nelle ricche e dense auto-

biografie. Ricorderemo, fra le molte, quella di LorENzZo DA PONTE (1749-1838) di Vittorio Veneto, che fu poeta dei teatri imperiali a Vienna alla corte di Giuseppe II, dove scrisse libretti per le musiche

di Mozart; pit tardi a Londra, libraio, tipografo e agente teatrale; infine in America, professore d’italiano, dantista e propagandista di

cultura italiana; e soprattutto i Mémoztres del veneziano GIACOMO CASANOVA (1725-98), che é anche nel suo genere uno dei personaggi rappresentativi del secolo e una figura di fama europea. Mori nel castello di Dux, dopo aver viaggiato per cinquant’anni in ogni parte d’Europa, da Parigi a Vienna, da Londra a Pietroburgo, da Madrid a Costantinopoli, aiutandosi con tutte le risorse del suo ingegno prontissimo e senza scrupoli e della sua cultura vasta se non profonda: di volta in volta giocatore di professione e baro, diplomatico,

speculatore

e finanziere,

spia. Risenti,

se pure in maniera

superficiale, degli spiriti della nuova cultura illuministica e prerivoluzionaria;

e. in un

romanzo

fantastico dettato in lingua francese,

I'Icosaméron, descrisse una specie di mondo ideale e perfetto, liberato dalle convenzioni e dagli impacci di una civilta antiquata, rinnovato dalle conquiste della scienza. Pure in francese scrisse i Mémoires, nei quali, come Rousseau, si propose di rivelarsi a nudo con

perfetta sincerita, Dove descrive i costumi del suo tempo e gli uomini da lui incontrati e conosciuti, egli appare come un cronista degno di fede e interessantissimo per la ricchezza e la varieta degli aneddoti che vien registrando. Pi dubbiosi ci lascia dove parla di se stesso, tentando una rappresentazione organica e coerente della sua

multiforme personalita. Qui subentra infatti uma volonta costruttiva e idealizzatrice, che @ d’altronde il maggior segno delle sue possibilita d’artista. I Mémoires diventano cosi, non un’accozzaglia di noti-

zie disperse, bensi la storia compiuta di un uomo, che con la sua

astuzia ¢ la sua prontezza domina gli eventi ¢ accentra in sé tutti gli aspetti ¢ le figure del mondo circostante. Ma Ja loro ricchezza¢ pit apparente che sostanziale, tutta esteriore ¢ priva di ragioni ideali;

la nota delle avventure erotiche e galanti prevale su tutte le altre, generando monotonia e rivelando troppo spesso i limiti di una men-

talita superficiale e quasi disumana nella sua tranquilla immoralita. Meglio che un’opera d’arte, i Mémoires rimangono come il documento e la cronaca di certi aspetti singolari ed interessanti, se pure non

essenziali,

della societi

europea

4. La letteratura dialettale

settecentesca.

e G. Meli.



Continua

anche nel secolo XVIII quella ricca fioritura di poesia dialettale, che gia s’era iniziata nel secolo precedente, ma con

caratteri in parte mutati. Al tono di celia o di parodia, che costituiva nel Seicento il rapporto fra la letteratura in vernacolo e quella aulica, sottentra ora un rapporto di affinita

e di simpatia, tanto maggiore quanto pit la materia della poesia arcadica s’attenua e si alleggerisce, a paragone dell’antica solennita, facendosi essenzialmente idillica e descrittiva, graziosa e melodica. In taluno poi il dialetto diventa lo strumento necessario ad esprimere l’adesione affettuosa dell’'animo a un mondo di semplici e candidi costumi e di bellezze naturali e non affatturate ').

Il maggior poeta dialettale del tempo, e uno dei maggiori in senso assoluto nell’ambito del gusto arcadico, @ il

palermitano GIOVANNI

MELI

(1740-1815), che fu medico

*) A Milano l’esempio del Maggi e del Lemene trova continuatori abbastanza garbati ed arguti in CARLO ANTONIO TANZI (1710-62) e in DOMENICO BALESTRIERI (1716-90), nelle cui rime il riecheggiamento dei motivi arcadici, idillici ed erotici, si mescola con spunti di satira lieve e di bonaria canzonatura, specie in certi gustosi quadretti di genere. A Venezia ANTONIO LAMBERTI (1757-1832) detta, con grazia squisitamente settecentesca, maliziose canzonette, apologhi, idilli, e nelle Stagioni cittadinesche e campestri ritrae con simpatia

paesaggi e scenette di costume locale.

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GIOVANNI MELT

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condotto a Cinisi fra il 67 e il ’72, e pit tardi dall’87 fino alla morte professore di chimica nell’Universita di Palermo.

I temi e la struttura delle sue poesie pit belle gli sono offerti dall’Arcadia:

nelle canzonette, la materia erotica-e la rafh-

nata galanteria da salotto, soffusa di grazie mitologiche e di leggiadre pastorellerie; nella Buccolica, Vispirazione idillica e descrittiva, nient’affatto realistica e colorita classicamente. Senonché,in quelle strutture alquanto convenzionali, il Meli trasporta una vena di sentimentalismo pit schietto e pit abbandonato, un senso delicato e appassionato della natura e

della

vita contadinesca, vagheggiate e godute nelle loro ap-

parenze di semplicita, di innocenza, di candore, di riposante solitudine, di umanita schietta e non artefatta. Avverti, in

questo atteggiamento, l’influsso esercitato dai libri di Rousseau; il mito, cos! potente in Francia e nell’Europa tutta della

seconda meta del Settecento e gia cosi ricco di presentimenti romantici, del ritorno alla natura e alle forme dell’innocenza primordiale contrapposte alla corruzione e al fastidio delle citta e delle forme di vita sociale pit evolute. Il Meli invero risenti fortemente delle nuove idee illuministiche e prerivo-

luzionarie (e per questo rispetto egli segna il passaggio dalla vecchia alla nuova letteratura); partecipd, in maniera tutt’altto che superficiale, al desiderio diffuso delle riforme intese

ad attuare una piu vera giustizia nel campo politico e in quello economico, 0, come egli diceva, ad « escogitare mezzi pit plausibili per ordinare e sistemare la societa degli uomini»; ¢ in un poema eroicomico, il Don Chisciotti e Sanciu Panza, pubblicato postumo, tentd anche di esprimere, sotto

specie di allegoria umoristica, il dissidio fra i suoi sogni filantropici e le ragioni di un pit avveduto e prudente realismo che di tratto in tratto subentrava a dissolvere quei sogni e a dimostrarli inattuali e utopistici. Ma il Meli poeta dev’esser

cercato altrove; e cioé proprio in quelle canzonette e idilli, di struttura cosi chiaramente arcadica, ai quali per altro il sentimento nuovo e roussoiano della natura conferisce un’intensita d’accenti, un sapore nostalgico, una vibrazione emo-

tiva, ignoti alle liriche analoghe del Metastasio, del Rolli e del Vittorelli. La limpidezza melodica dell’uno si fa qui meno

ciety pee. as Sy. riflessiva e pit appassionata; la Lie di disegno del Valtro, pid schietta e pid calda. Troppo esaltato da ait hate e aggravato di significati troppo alti, il Meli vive in realta — per certe sue note frammentarie, ma intense e sinceramente

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poetiche. Il suo equilibrio, lo raggiunge proprio in questo incontro di un gusto arcadico, elegante e raffinato, con un’in-— rd genua vena sentimentale, lontano dalle velleita polemiche ¢ satiriche e dai propositi di descrizione realistica. E nell’espressione di questo equilibrio anche il dialetto trova la sua vera ; misura, di linguaggio letterario e non popolare, nobile ed illustre, e al tempo stesso tutto vero e preciso e concreto

nelle immagini particolari di cui s’allieta e s'illumina.

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Carrroto XVIN.

LA CULTURA E LA LETTERATURA NELLA SECONDA META DEL SETTECENTO 1. Lilluminismo e la nuova cultura.

— Nella se.

conda meta del Settecento si fa pid forte e decisivo |’influsso sulla nostra cultura del nuovo pensiero europeo: influsso che non € pero quasi mai accettazione passiva e materiale e dai

migliori € sentito sempre in funzione strettamente italiana, come l’esigenza di rinnovare e purificare l’aria stagnante e chiusa delle nostre accademie e dei nostri salotti, spalancando le finestre alle aure vivificatrici d’oltr’alpe, di ristabilire cioé i contatti, che erano stati una volta fortissimi ma s’eran poi allentati e quasi troncati nel secolo XVII, fra la cultura italiana decaduta e la migliore cultura europea, di riportare insomma I’Italia nel circolo della nuova storia d’Europa, dal

quale sembrava essersi distaccata non senza grave suo danno, per rifarla partecipe del rapido progresso degli studi e delle arti. Questo processo di adeguazione e di rinnovamento intellettuale si attua é vero, in quegli anni in forme talora esagerate e frettolose, indiscrete e sommarie, ma nell’insieme,

esso si rivela veramente utile e benefico, e prepara il sorgere della nuova, originale e italianissima, cultura e letteratura della fine del XVIII e della prima meta del XIX secolo. Senza

tener conto dell’influsso profondo del pensiero europeo, e dei suoi riflessi diretti e indiretti sui problemi della lingua e

dello stile, non sarebbe possibile infatti intendere in tutti suoi aspetti l’opera letteraria, nonché dei Parini e degli Al-

fieri, ma degli stessi Foscolo e Manzoni e Leopardi. Dal nocciolo del razionalismo cartesiano era sbocciata, nel

corso del Settecento, quella che si suol chiamare l’ideologia illuministica, in cui confluiscono e si fondono gli elementi

pit o meno concordi e complementari di una nuova filosofia,

di una nuova storiografia, di una nuova dottrina economica

e giuridica, di un nuovo fervore per le scienze fisiche, di una nuova concezione dei fatti politici e sociali. La gnoseologia sensistica e l’interpretazione materialistica dell’attivita spiri-

tuale; il culto diffuso della ragione (anzi della « raison ») € l’aspitazione a ricostruire la societa umana, nelle sue varie manifestazioni, su princip! puramente razionali; lo spirito cri-

ico con cui si esaminano e si negano i dati della tradizione, nel campo religioso come in quello morale e politico e in uello artistico e letterario, e quindi la negazione di tutte le tedi organizzate e di tutte le chiese in nome di un astratto

teismo, il relativismo etico, il rifiuto dell’organizzazione po-

litico-sociale esistente, il desiderio di vaste e radicali riforme

capaci di sopprimere tutti gli arbitri e le ingiustizie e le incongruenze di un regime che si sentiva ormai superato, la cresciuta insensibilita alle forme poetiche e artistiche delle co-

siddette civilta primitive (Omero; l’architettura gotica e la pittura preraffaellita; Dante e la letteratura del medioevo; il teatro spagnolo; Shakespeare); e poi il mito del « ritorno allo stato di natura », stato di indiscriminata innocenza, don-

de il diffuso spirito egualitario nemico delle distinzioni e delle gerarchie dei ceti, le tendenze antitiranniche e libertarie, le dottrine costituzionalistiche e del contratto sociale: tutti questi motivi, ed altri ancora di minor rilievo che qui non é il caso di elencare, contribuiscono a creare quel movimento intellettuale che si dice illuminismo e che, dalla teoria trapassando sul terreno pratico, favorisce e promuove un complicato sistema di riforme politiche economiche e sociali in

tutti gli stati europei e prepara cosi alla fine del secolo |’am. biente ideale della rivoluzione francese e delle conquiste napoleoniche e in parte anche, prima di queste, della rivolu-

zione americana. Questo movimento, che ha le sue premesse

e trova le sue enunciazioni pit concrete e piu accorte nel-

l’opera di alcuni filosofi ed economisti inglesi (Hobbes, Locke, Hume, A. Smith ecc.), incontra un terreno particolarmente

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favorevole nella Pyaheia cartesiana e razionalista, dove anche si riveste di formule estremamente chiare eleganti e persuasive per opera di intelligenti e originali divulgatori, quali il Voltaire, il Montesquieu, il Diderot, l’Helvétius, gli autori in genere della famosa Enciclopedia, e si colorisce di sfumature preromantiche particolarmente suggestive negli scritti del Rousseau. Dalla Francia lilluminismo si diffonde poi in ogni parte-d’Europa; mentre

dalla Spagna all’Italia, dalla

Germania alla Russia, la lingua francese diventa lo strumento comune delle relazioni fra le classi intellettuali europee, sostituendosi al latino nella funzione di linguaggio universale della scienza e della cultura. A questo movimento era naturale e giusto che partecipasse anche I'Italia, quell’Italia che direttamente o indirettamente, con i suoi pensatori e i suoi politici, con i suoi artisti e i suoi scienziati, aveva avuto tanta

parte nella formazione del nuovo spirito europeo e poteva pertanto riconoscere in esso uno sviluppo e una continuazione delle premesse individualistiche, razionalistiche, antiascetiche

del suo Rinascimento. E percid quegli italiani, che facendosi

seguaci e divulgatori fra noi delle nuove dottrine reagiscono contro il Seicento e l’Arcadia e muovono guerra ai residui della decadenza spagnola e della controriforma e alle insipide manifestazioni di una letteratura oziosa e frivola, sen-

tono di ricollegarsi idealmente all’opera dei maggiori, e intanto ricreano e rinvigoriscono a poco a poco il senso dell'Italia, dapprima come lingua e cultura e costume, poi pit chiaramente come nazione e patria. Liilluminismo italiano della seconda meta del Settecento é d’altronde solo in parte un autentico movimento di cultura, che si svolge in profondita con manifestazioni e tendenze originali e dense di avvenire; in parte @ anche un fenomeno della moda, superficiale ed effimero; né sempre é facile distinguere l'opera degli ingegni pit seri da quella dei mestieranti e dei seguaci della moda: perché gli uni e gli altri si confondono nel tono uguale e diffuso della nuova atmosfera culturale, che tutti insieme contribuiscono a formare. Il fondamento filosofico di questa cultura consiste, in Italia come in tutta I’Europa del Settecento, nelle dottrine empiristiche e sensistiche dei filosofi inglesi, e soprattutto del Locke, penetrate ben presto

da noi, sia direttamente per opera di numerosi proseliti e

divulgatori,

fra i quali ricorderemo almeno, accanto al Genovesi, il Lie FRAN.

CESCO SOAVE (1743-1806) di Lugano, che fu maestro del Manzoni e autore di vari trattatelli lungamente adoperati nelle scuole, — sia indirettamente per l’influsso del sensista francese Stefano di Condillac,

che visse a Parma fra il 58 e il 67 e esercitd in Italia con i suoi scritti una specie di lunga dittatura culturale, che dal Verri e dal Beccaria giunge fino all’ Alfieri, al Foscolo e al Leopardi, nei quali ultimi uno spirito gia schiettamente preromantico o romantico reagisce ancora dolorosamente ai princip?, non mai del tutto rinnegati, di una fondamentale educazione sensistica. I centri pit cospicui per la diffusione delle nuove idee sono ora

Milano e Napoli, i luoghi stessi cioé dove la politica delle riforme amministrative ed economiche, antifeudali ed anticuriali, si afferma in forme pil intransigenti e polemiche. A Napoli insegnarono e scrissero ANTONIO GENOVESI (1713-69), di Castiglione presso Salerno, autore di opere filosofiche (Meditazioni sulla religione e sulla morale; Istituzioni di metafisica; Logica; Diceosina) ed economiche

(Lezioni di commercio), per le quali si colloca degnamente a capo della corrente innovatrice degli studi; GAETANO FILANGERI (1752-88), napoletano,

celebre per quella Sctenza

della legislazione,

che é il

tentativo pit grandioso e sistematico, e in parte il pit rigorosamente e astrattamente dottrinario, di organizzare il piano ideale di una riforma della societa nei suoi diversi aspetti economico, giuridico, demogrtafico, educativo, etico, religioso; e FRANCESCO MARIO PaGANO (1748-99), di Brienza in Basilicata, che scrisse, fra l’altro, quei

saggi Del civile corso delle nazioni, in cui si sforza di stabilire le leggi generali del progresso storico 1). Caratteristici dell’illuminismo napoletano sono un atteggiamento nobilmente speculativo e non di rado utopistico (in contrapposto agli orientamenti essenzialmente pratici degli illuministi lombardi) e insieme un senso assai vivo dei legami con la tradizione di pensiero del Sarpi, del Giannone, del Vico,

che essi si sforzano di metter d’accordo con le nuove ideologie degli enciclopedisti. Con il loro slancio utopistico, con la loro fede assoluta nella ragione, con il loro ingenuo ma sincero cosmopolitismo,

gli illuministi meridionali approdano all’esperienza della Repubblica Napoletana e al sactificio eroico del 1799, in cui trovarono la morte

") Accanto a questi maggiori, son da ricordare GIUSEPPE PALMIERI (1721-93), GIUSEPPE MARIA GALANTI (1743-1806), VINCENZO Russo (1770-99), MELCHIORRE DELFICO (1744-1835).

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fra i tanti ilPagano e il Russo, splendido preludio al martirologio del

Risorgimento. Sebbene assuma, a tutta prima, apparenze pit radicali e

tivoluzionarie e si compiaccia di atteggiamenti anche troppo liberi e spregiudicati nei confronti della tradizione nazionale, Yilluminismo lombardo trova in compenso appigli e legami piu. immediati e spontanei con 1 problemi particolari e con le necessita concrete della vita civile ed economica del suo tempo e della sua terra. Alieni per temperamento da ogni speculazione astratta, gli ideologi del gruppo milanese rivestono i loro concetti di forme pit agili e spedite e pid atte alla divulgazione e riescono ad esercitare con la loro attivita un influsso pid vasto e profondo, che s’insinua e pervade a poco a poco tutti gli strati e gli ordini della vita sociale. Muovendo anch’essi, nel primo fervore della polemica, da un astratto cosmopolitismo, ma temperandolo con un’attenzione

sempre viva ai problemi tecnici e regionali giungono a grado a grado, attraverso la pratica delle riforme promosse dai sovrani e poi l’esperienza diretta del rivoluzionarismo francese, a un senso sempre piti vivo e geloso della dignita nazionale, a una coscienza sempre pili chiara e tormentata dell’imminente risorgimento d'Italia, che essi del resto in qualche

modo preparano e preannunziano sia con la partecipazione intensa agli uffici e alle responsabilita amministrative, e in-

somma all’opera di progresso civile che si attua in quegli anni in Lombardia, sia offrendo spunti e suggerimenti pid di quanto non si creda al movimento romantico milanese e agli uomini del Conciliatore. Lo

svolgersi

di questa

parabola,

dal

cosmopolitismo

astratto alla consapevole accettazione della realta nazionale e al presagio delle sue fortune imminenti, si scorge chiaro nel massimo rappresentante e coordinatore degli sforzi di questi ideologi milanesi, il conte PIETRO VERRI

(1728-97), autore

di saggi di scienza e di storia economica, fra cui le Reflessiont

sulle leggi vincolanti principalmente nel commercio dei grani (1769) e le Meditazioni sull’economia politica (1771); sottile indagatore di problemi psicologici nel Discorso sulla felicita

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(1763) e nel Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773); polemista vivace e franco in tutta una serie di scritture minori d’argomento storico, letterario, politico. Il Verri concepi, si pud dire, tutta la sua vita e la sua attivita come

una continua battaglia: prima contro l’ambiente chiuso e retrogrado della famiglia; poi contro la cultura e la letteratura invecchiate e sterili, e contro le forme di un ordinamento amministrativo economico sociale ormai superato dai tempi. — Chiamato dal governo di Maria Teresa a far parte della nuova amministrazione incaricata di instaurare le riforme nel

Milanese, vi raggiunse ben presto uffici cospicui. Negli ultimi anni, dopo l’entrata dei francesiinMilano, fu richiamato agli ufhici pubblici, che aveva abbandonato nell’86, e, come membro della Municipalita, si trovO accanto al Parini a rappre-

sentare le idee piu moderate e gli interessi regionali e italiani contro le frenesie dei demagoghi e le prepotenze dei nuovi dominatori forestieri. Il carteggio assiduo, che egli tenne per oltre un trentennio col fratello Alessandro, é uno dei documenti pid notevoli per lo storico della vita italiana nella seconda meta del Settecento: vi si rispecchia il rapido evolversi e maturarsi della nuova classe dirigente e il suo trapasso dai primi fervori ed entusiasmi illuministici ad un’approfondita

visione dei bisogni e dei problemi particolari dell’Italia: l’educazione del popolo, la soppressione del potere temporale dei | pontefici e dei privilegi clericali, la costituzione, 1’indipendenza politica. Dal ’64 al ’66 il Verri era stato l’anima di

un giornale coraggioso e vivacemente polemico, I) Caffé: tipico frutto della mentalita illuministica, con il suo gusto per

la divulgazione delle scienze, con le sue proposte di riforme, con il suo culto intransigente del nuovo e dell’utile, con quel

misto di sano entusiasmo, di intemperanza e magari di ingenua pedanteria che é caratteristico dei giovani quando sono intelligenti ed onesti. Intorno al Café si raccolsero, per qualche tempo, tutti gli spiriti migliori dell’illuminismo lombardo: fra gli altri, il milanese CrSARE BECCARIA (1738-94), autore del libro famosissimo De? delitti

e delle pene (1764), che é un’eloquente battaglia per la riforma dei sistemi di procedura criminale, per l’abolizione della tortura e della

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pena di morte, ¢ degli Elementi di economia pubblica; e GIAN RINALDO CARLI (1720-95), di Capodistria, letterato scienziato economista storico di alto ingegno e di vasta dottrina. Fuori dei due centri illuministici di Napoli e di Milano, colla-

borano pit o meno al rinnovamento della cultura nella seconda meta del Settecento uomini e gruppi di tutte le regioni*); poligrafi, divulgatori di idee, propagandisti di utopie, improvvisatori di schemi e

di programmi, a volte anche avversari pit o meno risoluti di certi aspetti dell’ideologia illuministica, ma pur sempre viventi e operanti nel clima delle nuove teorie e dei nuovi problemi ideali.

La maggior parte di costoro interessa soltanto indirettamente la storia della letteratura, sulla quale invece operano dall’interno e con interessi e educazione appunto prevalente-

mente letterari, altri scrittori, come il Bettinelli, il Baretti, i due Gozzi, il Cesarotti, di cui discorreremo fra poco, e gia

prima di essi il veneziano FRANCESCO ALGAROTTI (1712-64), prototipo e fino ad un certo punto modello dei nostri poligrafi settecenteschi. Educato a Bologna, |’Algarotti trascorse molta parte della sua vita viaggiando in Francia, in Inghilterra, in Russia, e pit a lungo in Germania, dove fu ospite e familiare di Federico II. Letterato, dopo il primo tirocinio petrarchista, aderi alla moda del verso sciolto, con le Epistole, in cui tratta di filosofia, di scienza, di economia, di poetica

ovvero descrive maliziosamente i costumi parigini e londinesi; in un romanzo erotico, il Congresso di Citera (1743), imitd il

Tempio di Cnido del Montesquieu; nei dialoghi intitolati Newtonianismo per le dame (1737) tentd, con grande fortuna e non senza garbo, la divulgazione di materia scientifica sulle orme del Fontenelle; nei Viaggi di Russia diede uno dei migliori esempi di descrizione vivace, concreta, arguta e spregiudicata di paesi e costumi contemporanei. Uomo di ricca e varia cultura, assai esperto di cose e libri inglesi e francesi,

ma non ignaro né disprezzatore della tradizione nazionale, 1) In Piemonte, il volteriano e protestante IGNAZIO ADALBERTO RADICATI DI PASSERANO e i due fratelli DALMAZZO e GIAMBATTISTA

Vasco; a Pavia e a Pistoia, i circoli giansenistici, capitanati rispettivamente da PIETRO SCIPIONE DE’ RICCI,

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e dal vescovo

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rivela le sue qualita soprattutto in ungruppo di scritture tate in forma rapida, spigliata moderna (Letere sulla pittura

e sull’architettura; Lettere scientifiche ed erudite; saggi Sopra la pittura, Sopra V’architettura, Sopra Vopera in musica, Sopra la rima, Sopra lo stile di Dante, Sopra il commercio; Pensieri diversi, ecc.). Nemico dei pedanti e dell’ossequio ser-

vile alla tradizione, combatteva in favore di una letteratura aperta ai nuovi problemi, vivace e popolare, indirizzata al-

l'utile e al progresso. Ammirava percié la solidita della cultura inglese, favorita dalle libere istituzioni, e anche, sebbene

un po’ meno, la vivacita divulgativa dei francesi; e considerava con tristezza la difficolta di instaurare una letteratura altrettanto moderna e filosofica fra gli italiani « servi e di-

visi ». Scrittore assai versatile, per quanto superficiale, disinvolto e spedito, se pur privo di una fisonomia e di uno stile

veramente originali e personali, l’Algarotti esercitd un influsso vasto, se non profondo, sui modi della nostra prosa moderna, indirizzandola verso le forme espressive pit snelle e meglio adatte alla rapida diffusione del pensiero: la lettera,

il dialogo, e soprattutto il saggio, che divennero anche per merito suo le forme tipiche e preferite della cultura e della critica italiana nel secolo XVIII e nei primordi del XIX. Fra gli scrittori che con maggiore consapevolezza reagiscono a certi aspetti dell’ideologia illuministica e ne discutono criticamente le premesse, pur rimanendo tutt’altro che estranei all’atmosfera della nuova.cultura, occupa un posto importante, anche come scrittore,

l'abate Napoli, che gli cennio

FERDINANDO GALIANI (1728-87) di Chieti. Mentre era a giovanissimo ancora, compild il trattato Della moneta (1751),

procurd una fama mondiale; a Parigi, dove visse per un de(1759-69) come segretario d’ambasciata, sctisse i Dialogues

sur le commerce des blés, pubblicati poi nel ’70, esempio luminoso

di polemica arguta e tagliente, paradossale e al tempo stesso ben ragionata e meditata, che piacque al Voltaire. A Parigi si forméd quella cultura agile ¢ spregiudicata e quello stile mobile, spiritoso e brillante, che sono la sua caratteristica e che si rivelano specialmente

nella raccoita delle lettere, con le quali anche in seguito si tenne in stretto contatto con gli amici e le amiche della societa parigina. Irreligioso, scettico, materialista, libertino, seppe tuttavia conservare una

straordinaria indipendenza d’atteggiamenti di fronte agli idoli ¢ agli

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secolo, favorito in cid da uno spirito naturalmente

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_ causticoe spregiudicato e sempre disposto al motteggio. Nel secolo della ragionee delle riforme, egli é il critico pid acuto e feroce di tutte le utopie umanitarie e di ogni mentalita intellettualistica; non crede nello stato di natura e nel contratto sociale; disprezza il Geno-

vesi e il Beccaria, richiamandosi volentieri al realismo di Machia-

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velli; riconosce la qualita fantastica della poesia e le ragioni umane

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della religione. La sua critica, meramente negativa e essenzialmente

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frammentaria, dello spirito illuministico, é storicamente sterile o al-

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meno priva di un’immediata risonanza. Ma la sua personalita s’impone,

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con la forza di un’intelligenza acutissima e con la genialita dello stile,

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sui contemporanei e sui posteri, sebbene assai pit in Francia che non presso di noi. é A completare il quadro della nuova cultura rinnovata nella seconda meta del Settecento, giova infine un cenno alla nuova storiografia, intesa anch’essa illuministicamente, sulle orme di Voltaire, come storia della cultura, delle arti, degli studi, alla luce della nuova idea del progresso e della diffusione crescente del sapere, ¢ come pretesto e strumento alla propaganda dei nuovi concetti di umanita e di tolleranza e¢ alla critica degli errori e delle superstizioni popolari. Gli esempi pit notevoli di questa storiografia illnministica sono le Rivoluzioni d'Italia (1768-72), il Discorso sulle vicende di ogni letteratura e le altre opere minori, storiche e letterarie, in italiano e in francese, del piemontese CARLO DENINA (1731-1813) di Revello (Saluzzo), scrittore anche lui di fama ancor pit europea che

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italiana e vissuto lungamente all’estero, a Berlino e a Parigi; e le opere storiche di SaveRIo BETTINELLI, di PieTRO VERRI, di

G. R. CaRLI.

2. La poetica del 'sensismo. — Nell’atmosfera culturale, profondamente agitata e scossa dalle idee e dalle speranze dell’illuminismo, si determina anche una diversa concezione dei fatti letterari, cioé una nuova poetica, pit: conforme ai mutati indirizzi e orientamenti della cultura e del gusto.

L’estetica del sensismo, la quale, con gli empiristi inglesi, da

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Bacone a Locke, e con il Condillac, aveva ridotto l’attivita fantastica a un fatto meramente sensuale, s'incontra da not

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con gli sviluppi delle teorie secentesche del gusto e dell’arte come puro diletto. Spogliate queste teorie di tutti gli elementi razionalistici e intellettualistici, che sopravvivevano in esse € ne costituivano un benefico correttivo, il valore del27, —

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viduo a individuo. Eredi di una civilta che aveva recato ai supremi fastigi la disciplina dell’arte e in cui era stato fortissimo il sentimento del valore universale del bello, questi nostri teorici si ribellano istintivamente alla degradazione della poesia, implicita nell’estetica del sensismo, e da questa

raccolgono soprattutto e quasi soltanto gli elementi in certo senso positivi e benefici che essa esprime, in quanto reagisce

all’eccessivo razionalismo delle dottrine precedenti. Cosi FRANCESCO ALGAROTTI, nei suoi Saggi e in altri scritti, con_tempera l’edonismo sensuale con il concetto della tradizione e dell’ imi-

tazione; e SAVERIO BETTINELLI (Dell’entusiasmo nelle belle arti, 1769) tenta un’analisi eloquente della fantasia, in cui le premesse sensistiche si fondono con l’eredita dell’edonismo secentesco senza disconoscere tuttavia il freno dell’intelletto. Pid strettamente legato ai Nuovi orientamenti filosofici, CESARE BECCARIA, nelle Ricerche sulla

natura dello stile (1770), si propone addirittura di sostituire alla vecchia una rettorica nuova, assoggettata alle leggi generali della psicologia; uma rettorica, cioé, meglio ragionata e al tempo stesso pid libera ed aperta, poiché, mentre le regole tradizionali consistevano nel « ridurre a canoni generali le bellezze gia combinate da’ maestri dell'arte », le regole nuove pretendono invece di esser ricavate « dal fondo del nostro cuore ». Quanto pit vive e numerose le sensazioni che lo stile riesce ad esprimere,

destando nell’animo del lettore un

« fremito interno di piacere soavissimo insaziahile », ¢ quanto pit accorta e consapevole e filosoficamente rigorosa l’arte di associarle ¢

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_dedurle Yuna dall’altra, tanto pit lo stile riuscira ricco ed efficace. Alla

tendenza sensistica si accostano, in maggiore o minor minsura, gli altri teorici italiani del tempo: dal Cesarotti al SoavealPagano. Il pit: acuto e geniale forse tra essi é PreTRO VeERRI, il quale, nel Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773), s'adopera ingegnosamente a distinguere la qualita caratteristica del piacere estetico. Egli muove dal concetto che ogni piacere, fisico o morale, nasca sempre e soltanto da una rapida cessazione o diminuzione di dolore, il quale ultimo é pertanto, in se stesso, il « principio motore di tutto l’uman genere ».

Il piacere estetico differisce dagli altri, in quanto ha per fondamento « dolori » confusi e indistinti 0, come li definisce il Verri, « innominati »: tali il tedio, P'inquietudine, la malinconia. Da queste ambigue e impercettibili nebulosita della psiche ci libera l’arte, procurandoci un sentimento vago di benessere, tanto pit disinteressato, almeno in apparenza, quanto meno é legato a un oggetto concreto e a ad un fine pratico. Il piacere estetico agisce pertanto con minor

forza, e quasi nulla, sugli spiriti tranquilli allegri e soddisfatti, e con forza maggiore sugli animi sensibili e predisposti dall’educazione e dalla cultura a sentirsi in ogni momento un po’ infelici; questi ultimi anzi collaborano in qualche modo con J’artista nella produzione del diletto suscitato dall’opera d’arte, perché sono pit pronti ad abban-

donartsi all’atmosfera suggestiva che da essa emana, e ‘cosi arricchiscono e complicano lillusione in cui consiste propriamente il diletto estetico. -

L’estetica del sensismo, specialmente negli scritti del Verri e del Beccaria, opera nel campo della poetica soprattutto in

virti di questa sottile analisi delle sensazioni, che rivela la tendenza a una psicologia pit concreta e variata, esprime il bisogno di superare I’astratto e il tipico degli schemi letterari tradizionali, e rinnova il contenuto della poesia, riconducendola all’osservazione attenta e minuta della realta comune e naturale. Questo influsso della poetica sensistica si scorge assai bene, per esempio, nella poesia del Parini, insieme con un altro aspetto complementare di detta poetica, sul quale

abbiamo fin qui sorvolato e che é invece importantissimo per le risonanze che esso determina nell’esercizio concreto della letteratura: il concetto cioé dell’utile, attribuito come fine indiretto alla poesia. Per il Verri, come per il Parini e per tutti gli altri, la poesia deve mettere in disparte i vecchi argomenti frivoli e ritriti; deve nutrirsi di filosofia e rivolgersi

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ai problemi concreti e ai bisogni pit urgenti della realta q tidiana, promuovendo l’attivita degli ideologi e dei riform tori e proponendosi- di istruire il popolo e di educarlo con

un’opera di intelligente e garbata divulgazione *). Dalle polemiche del Bettinelli a quelle del Baretti, per tutto il corso

del secolo XVIII si riaffaccia ad ogni momento, insistente e appassionata, la richiesta di una poesia indirizzata al migliora-

mento intellettuale morale e sociale degli uomini. E a questa polemica s’accompagna nei pit, e spesso fa tutt’uno con essa, l’'altra in difesa del verso sciolto, pit libero e maneggevole, pia vicino insomma alla prosa, e perciéd meglio atto a piegarsi alle esigenze del ragionamento e agli uffici della propaganda eloquente. Contro la rima si scagliano il Gravina e il Maffei, il Conti e il Rezzonico, e raccolgono le ragioni di tutti l’Algarotti, nel Saggio sopra la rima, e il Buonafede, nel

Discorso sulla liberta poetica. Cé in tutta questa battaglia, accanto al vieto pregiudizio del fine pedagogico dell’arte, anche il fastidio giusto e generoso di un’arte che s’era venuta sempre pit allontanando

dalla realta della vita, l’ansia di

una poesia. che si avvicini alle passioni e ai bisogni storicamente determinati del popolo, che attenda un po’ di pit alla

verita delle cose e un po’ meno all’eleganza tutta esteriore ed inconsistente delle parole. Per molti aspetti questa battaglia prelude alle formule della poesia utile e popolare esco-

gitate dai romantici lombardi del secolo seguente; e per intanto essa non giustifica soltanto |’effimera, se pur vasta, for-

tuna della letteratura didattica nella seconda meta del Settecento, si anche porge il fondamento all’ispirazione polemica

del Giorno e alla sostanza moraleggiante ed educativa delle Odi pariniane.

3. La questione della lingua. —

Alla battaglia per

un’arte filosofica ed utile si ricollega assai da vicino anche la tipresa nel Settecento della questione della lingua (intesa allora, come gia nel secolo XVI, come un problema essenzial*) Accanto ai maggiori, son da ricordare per questa esigenza di una poesia «utile » il padovano CLEMENTE SEBILIATO, il comense CARLO GASTONE REZZONICO, e il veneto ANTONIO GARDIN.

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mente di stile) ; tipresa che corrisponde del resto a una vera

© propria crisi che la lingua italiana, in quanto strumento letterario e della conversazione, subisce in quegli anni sotto la spinta della cultura e della moda gallicizzante. S’é gia detto come, col diffondersi delle ideologie degli enciclopedisti, procedesse di pati passo anche la diffusione del francese, che diventé allora di fatto la lingua comune della nuova cultura europea. Attraverso il classicismo del gran secolo e il razionalismo cartesiano, il francese s’era via via adattato sempre meglio a diventar lo strumento diun pensiero anelante alla chiarezza e alla semplicita, limpido

e spedito e baldanzosamente polemico; e prima di ogni altra lingua europea,

aveva acquistato quelle qualita di lingua semplice e chiara,

logica € geometrica, prosaica ed antipoetica, che dal Leopardi al principio del secolo seguente dovevano essere acutamente giudicate come limiti e difetti, ma che intanto nel Settecento lo rendevano meglio di ogni altro idioma, adeguato al compito di esprimere lo spirito di un’eta per eccellenza ragionevole e assai poco disposta ai voli della lirica e agli scarti e capricci della fantasia. Per questa via il francese operd anche, indirettamente , nell’ambito delle altre lingue europee, tendendo a semplificarne e regolarizzarne la struttura sintattica, ad afticchitne e modernizzarne il lessico. La crisi linguistica, che si svolge allora in Italia, non é ignota neppure ad altre nazioni e trova analogie, per esempio, in Germania e in Ispagna. Anche da noi ad ogni modo si fa strada rapidamente la persuasione che occorra riformare la lingua letteraria, sia facendola sintatticamente pit leggera e disinvolta, sia accogliendo con franchezza dal di fuori, insieme col pensiero nuovo, anche la terminologia tecnica e filosofica che fa tutt’uno con esso. Gli illuministi italiani, dall’Algarotti al Bettinelli, dal Genovesi al Filangeri, dal Verri al Beccaria, dal Cesarotti al Denina e via dicendo, non esitano a tiempire le loro pagine di gallicismi (non sempre necessari), mentre si sforzano di conferire allo stile un’andatura pitt spedita e pit semplice, imitando con pil o meno garbo e fortuna il procedere geometrico dello stile francese; dando vita insomma a quel tipo medio di prosa settecentesca, che ha certamente il merito di spezzate alla meglio le barriere, ormai troppo anguste e soffocanti, della tradizione boccaccesca € cinquecentesca, ma che d’altra parte si stacca da quella tradizione con rottura troppo brusca e arbitraria, si da meritare in gran parte la condanna sommatia che le scaglieranno contro, prima ancora dei puristi, gli scrittori del rinnovamento poetico nazionale, dal Foscolo e dal Leopardi fino al Carducci. Gli articolisti del Caffé, e in prima linea il Verri e il Bec-

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«pedancaria, ditigono |’andazzo polemico, scagliandosi contro la teria de’ parolai » e la « pretesa purezza della toscana favella ». «Ogni

parola che sia intesa da tutti gli abitanti d’Italia é — secondo loro — una parola italiana ». Quanto allo stile, allo scrittore moderno giova certamente assai pit il modello offerto dai francesi ¢ dagli inglesi (i quali « non sagrificano i concetti alle voci, il genio al metodo, la robustezza dello stile alla languida sua purita »), che non la pedantesca imitazione delle forme tradizionali e dei cinquecentisti, da cui é sempre derivato al nostro scrivere « un non so che di legato, di circondotto, di timido, d’impastato ».

Il nocciolo di verita mici accesi ed ingenui, sulla lingua del Caffé, ben altrimenti rigorose

che traspare, frettolosi e é ripreso, in e dense di

di sotto ai modi polesommari, negli articoli forme piu temperate e vigore speculativo, nel

Saggio sulla filosofia delle lingue (1785) del

poligrafo padovano MELCHIORRE

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(1730-1808).

Questi parte dal concetto della lingua come « interprete del pensamento e ministra del gusto » (definizione pil ampia e pit complessa di quella leibnitziana e condillachiana), e quindi non sostanza immobile, anzi trasformabile nel tempo

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tinelli si trova d’accordo nel propugnare I’esigenza di una letteratura

_attenta prima ancora al valore delle cose che non all’eleganza delle parole, il Parini non é poi affatto disposto a rinunciare a quest’ ultima e s’incontra invece con Gozzi e Baretti nella difesa della tradizione linguistica e della disciplina classica, Potra si, polemizzando col Bandiera, mettere in caricatura la goffaggine e l’affettazione della _ ptosa boccaccevole del suo avversario, e nell’altra polemica col Branda opporsi agli eccessi del fiorentinismo e difendere |’uso di una lingua letteraria comune a tutta la nazione e persino far l’apologia dei dialetti; ma egli é ben lungi dal considerare, come il Verri, secondario e non essenziale «il merito del linguaggio »; in lui anzi l’esigenza della disciplina letteraria @ fortissima e anteriore ad ogni altra e alla fine predominante. Egli sa che «I’arte é difficile », che la fantasia vuol esser corretta e vigilata dalla ragione e dal giudizio, che la facilita naturale e istintiva del poeta, « lasciata in balia di se medesima, é cieca». Forse in nessuno scrittore del tempo il senso e il gusto, e quasi la mania, del lavoro artistico, della correzione meditata e minuta, instancabile e incontentabile, prendono un rilievo cosi forte come nel Parini; e per trovare qualcosa di simile al paziente eser-

cizio di lima e di rifinitura altrettanto disinteressato ed sto e alla lunga correzione cile, fra gli scrittori suoi

ch’egli condusse intorno al Giorno, e di esemplare, bisogna risalire forse all’ Ariodel Furioso. Come pure non sarebbe facontemporanei, trovarne un altro in cui

Vassimilazione della cultura e dell’arte classica, non

soltanto latina

e italiana, ma anche greca, sia cosi ampia e piena, cosi fusa con la personaliti del poeta, elemento e non ornamento di quella personalita. Alla formazione della sua cultura e dei suoi sentimenti poté giovare la conoscenza degli autori francesi e di taluno degli inglesi del Settecento; ma la forma in lui, lo stile e la lingua, non risente per nulla di quell’influsso esotico, si era andata preparando e si era in

buona parte maturata assai prima, quand’egli era ancora Ripano Eupilino. In quest’incontro di una moralita e di un intento civile nuovo con una salda disciplina classica e con un senso raffinatissimo della tradizione poetica, intesa prima di tutto nei suoi valori tecnici, sta

appunto I’eriginalita e l'importanza storica del Parini. Di qui nasce quel senso della poesia cosi settecentesco e classico al tempo stesso, cosi orgoglioso della novita e dell’utilita dei temi che viene affrontando (« Va per negletta via Ognor I'util cercando La calda fantasia »), cosi cosciente della propria compostezza e delicatezza e lindura (« Orecchio ama placato La Musa, e mente arguta, e cor gentile »), cosi sicuro e lieto nel ritrarre l’immagine ideale del poeta

«cui diede il ciel placido senso E puri affetti e¢ semplice costume,...

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Che ai buoni ovunque sia, dona favore; E cerca il vero; € il belle ama innocente »: classicismo permeato di moralita: armonia suprema

di tutte le facolta dell’uomo, in cui la bellezza delle forme e J’onesta — degli intendimenti si identificano in una medesima volonta di equilibrio. Negli ultimi versi testé citati dell’ode Alla Musa, e in quelli che li accompagnano, in cui la figura ideale del poeta, quella sua sanita di mente e di cuore, quella raccolta intimita e gentilezza di affetti, sono contrapposti (e da tale contrapposizione proprio acquistan risalto) al « faticoso ozio de’ grandi », all’« urbano clamor », alla « splendida turba» e al «vano fasto», si avverte anche la coscienza di una cultura nuova, che afferma la propria superiorita e la propria nobilta

e le sottolinea in contrasto con la decadenza morale e la miseria intellettuale dei vecchi ceti privilegiati. Risuona cio€ in quei versi, in forme rasserenate e pacificate dagli anni e dall’esperienza, quella stessa energia etica che, in accenti sdegnosi e polemici, s’era espressa gia dieci anni pit avanti nella Caduta, e prima ancora nell’enfasi di

una strofe famosa della Liberta campestre scritta innanzi ai trent’anni: « Me non nato a percotere Le dure illustri porte Nudo accorra, ma libero, Il regno della morte. No, ricchezza né onore Con frode o

con vilta Il secol venditore Mercar non mi vedra ». Qui appunto si deve cercare l’altro elemento essenziale che sta alla radice della poesia

pariniana: e cioé la sua adesione alle concezioni umanitarie ed egualitarie del secolo, adesione profonda e non soltanto a parole, lenta-

mente maturata tra le asprezze e le umiliazioni degli anni giovanili, rinvigorita dagli urti e dai risentimenti personali, riscaldata anche dalla coscienza dell’origine umile e plebea, la quale, sentita in un primo tempo come un limite e un impaccio, diventa ben presto ragione di orgoglio e stimolo di progresso e di accrescimento morale e inteilettuale. Un’espressione caratteristica dello spirito illuministico del Parini, anteriore alla composizione del Giorno, di cui preannunzia

in forma pit aspra e immediata le ragioni morali e il sarcasmo é il Dialago sopra la nobilta, dove é notevole anche |'incontro, cosi tipicamente pariniano, fra il contenuto attinto alla cultura francese, se pur sinceremente rivissuto dallo scrittore, e la forma italiana e

cinquecentesca, che risale agli esempi del Doni e del Gelli. Immagina il Parini che un nobile e un poeta, morti di recente, si ritrovino per

caso in una medesima sepoltura: ne nasce un dibattito sull’origine, Sui meriti, sui privilegi della nobilta, da cui scaturisce la netta affermazione dell’eguaglianza originaria fra tutti gli uomini e il riconoscimento « della vanita e leggerezza di coloro, che credonsi di metitar venerazione per lo sangue degli altri nelle loro vene disceso; che

s’innalzano sopra gli altri uomini soltanto, perché ricordansi i nomi di pid numero de’ loro antenati, che gli altri non fanno; che vantano.

per merito loro le azioni malvage de’ loro maggiori esigendone rispetto; che usurpansi la mercede delle belle azioni non fatte né imi-

tate da loro per veruna maniera; e che finalmente figuransi d’essersi comperati i meriti insieme co’ titoli». Mancano a questo dialogo quel garbo e quella finezza d’arte che sono del Parini verseggiatore (laddove son quasi sempre assenti dalle sue prose); manca la delicatezza neH’uso dell’ironia, che alleggerisce la materia del poema e ne accresce la forza persuasiva. Ma lo spirito animatore del Giorno é gid presente,

e anche

|’intenzione

ironica, se pur qui, come

nei

capitoli, la violenza dello sdegno compresso erompa ancora con accenti troppo crudi e scoperti.

3. Il « Giorno ». — Del Giorno, le prime due parti furon pubblicate, come s’é gia detto, il Mattino nel ’63 e il Mezzogiorno nel ’65. Dalla dedica « alla Moda», premessa al Mattino, e dal proemio, appariva che il poema avrebbe dovuto completarsi con una terza parte, la Sera; senonché poi l’idea di questa~si venne sdoppiando, nella mente dello scrittore, in due momenti distinti, il Vespro e la Notte, che vennero alla luce soltanto dopo la morte del Parini, nel 1801, a cura del sud discepolo ed ammiratore Francesco Reina, lacunosi e incompiuti come li aveva lasciati morendo il poeta,

insieme con le non poche giunte e le minute correzioni da lui preparate a pid riprese per una nuova e migliorata edizione delle prime due parti. Dell’aver lasciato non finito il Jere e non del tutto perfette nell’opera di rielaborazione formale anche le parti gia compiute, si deve attribuir la cagione so-

prattutto all’incontentabilita dello scrittore, che con gli anni si faceva sempre piti sottile, qualche volta non senza danno per la continuita e l’unita dell’ispirazione poetica: questa incontentabilita tuttavia nasceva a sua volta da un senso sem‘pre pit acuto e squisito dell’arte, per cui il Vespro e la Notte

rivelano, a paragone delle due prime parti, un progresso evidente non soltanto nello stile, ma anche nell’ampiezza e varieta della struttura, e un’analoga impressione di progresso si

ha anche paragonando i testi primitivi pubblicati dal Parini nel 63 e nel ’65 con le aggiunte e le varianti postume. Col 30. —

Saprecno,

Disegno

stor.

della

lett.

it.

passar degli anni intanto era venuta

via via scemando

rua-

lita della materia presa a trattare, e cioé la ragionpolemica

che l’animava: il mutamento sopravvenuto nei costumi della nobilta dapprima, e pit tardi lo scoppio della rivoluzione in

Francia e il decadere delle situazioni sociali privilegiate, facevano apparire sempre pil inopportuno l’atteggiamento satirico iniziale e lo rivelavano troppo vincolato alle condizioni e agli aspetti di un momento determinato della storia; finché, dopo il 1796, entrati i francesi anche in Milano, il poeta fu

indotto «a riguardare qual pretta vilta, niente men turpe che Vinsaevire

in mortuum,

\’acconsentir,

dopo tanto

procrasti-

nare, all’edizione d’uno scritto, ove si pungono di sarcasmo quelli singolarmente che nel gran corpo sociale formavano una classe distinta, di cui i politici cangiamenti sopraggiunti allora nel proprio paese facean veder manifesta la total decadenza ». E veramente il Gzorno era stato, prima di ogni altra cosa, un frutto e un momento di quella letteratura militante, che precede e prepara la rivoluzione: «né pil né meno che un assalto contro la nobilta, una battaglia contro il diritto del

sangue, combattuta da un egualitario d’ingegno e di studi elegantissimi » (Borgognoni).

Il sentimento

democratico

e

umanitario non soltanto é implicito e sottinteso dovunque nella rappresentazione di quel mondo di aristocratici ignavi fatui e corrotti, che costituisce la materia diretta del poema, nonché negli accenni all’ingiustizia e alla prepotenza degli avi, la cui antica ferocia ha posto i fondamenti storici all’effeminatezza e al fasto moderni; ma anche qua e la si scopre

in movimenti improvvisi di sdegno e di ira contro i nobili disumani e crudeli, e di pieta per la plebe condannata alla servitu, al travaglio, all’inopia; eché si fa esplicito in quella fantasia amara e bizzarra, che é la favola del Piacere, nel

Mezzogtorno. Alle radici del poema sta dunque un moto di passione, un’accesa volonta polemica; la quale tuttavia, per riuscir pil efficace, accetta di esser contenuta e repressa, adotta il velo e la grazia dell’ironia, e anziché concentrarsi in un

ragionamento rapido affilato tagliente, preferisce distendersi in un’ampia e compiaciuta descrizione degli aspetti esterni ¢

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alla sua occasionale educazione classicistica. Riflettendo acutamente sui modi della propria operazione poetica, vi distingueva egli stesso

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« tre respiri » 0 momenti successivi, ai quali diceva di essersi sempre oe t

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attenuto nel comporre le sue tragedie: l’ideazione del soggetto, la stesura e la verseggiatura, ovvero l'invenzione, la sceneggiatura e lo stile; la forza emotiva, che é il nucleo della poesia, sta tutta invero nel primo di questi momenti, ché, se non vi fosse, « non si ritrova certo mai pit con le fatiche posteriori »; ma soltanto nel terzo mo-

mento quella commozione immediata ¢ indistinta si purifica e, oggettivandosi col « beneficio del tempo », trova la sua forma e prende

concretezza nel linguaggio. Di qui il lungo studio dedicato dall’ Alfieri allo stile appunto e alla struttura esterna della tragedia, studio che non si risolve nell’adesione passiva alle regole di una tradizione rettorica, si nel ritrovamento e nella conquista di una forma veramente adeguata alla qualita del suo genio: e cioé, quanto allo stile, la ricerca di un verso e di un’elocuzione veramente tragici, antiarcadici e antimelodrammatici, un verso « rotto per lo pit su diverse

sedi» e « impossibile a cantilenarsi », e un’elocuzione timorosa soprattutto di cader nel tenero e nel sentimentale € pronta sempre piuttosto ad esagerare la propria durezza, in un’ansia perenne del sublime, —

TRAGEDIE 7

7

che talora rasenta o tocca senz’altro il barocco; e quanto alla struttura, -T’adozione di una maniera che gli permettesse, come voleva « impe-

tiosamente » la natura rapida lampeggiante fortemente unitaria della Sua intuizione, di «camminare sempre a gran passi verso il fine », donde il suo ossequio niente affatto scolastico ed esteriore alle regole aristoteliche delle tre unita, alla conchiusa fermezza di quel sistema Classico che per lui non costituiva un impaccio e una strettoia e tendeva se mai nelle sue mani verso un’ulteriore semplificazione degli schemi é.del numero dei personaggi. Nella risposta alle critiche mossegli da Ranieri Calzabigi, l’Alfieri descrive questo suo sistema tragico con precisa consapevolezza dei fini e degli strumenti della propria arte: «la tragedia di cinque atti, pieni, per quanto il soggetto da, del solo soggetto; dialogizzata dai soli personaggi attori, e non consultori o spettatori; la tragedia di un solo filo ordita; rapida per quanto si pud servendo alle passioni, che tutte pid o meno so-

gliono pur dilungarsi; semplice per quanto uso d’arte il comporti; tetra e feroce per quanto la natura lo soffra; calda quanto era in me ». {

Queste esigenze di unita, di rapidita, di semplicita, di drammaticita, di calore corrispondono perfettamente alla genesi pit: schietta e poetica della tragedia alfieriana, la quale nasce in un punto di estrema tensione del sentimento, ci porta fin dall’inizio .nel clima e nell’attesa imminente della cata-

strofe, tende a condensarsi tutta nell’impeto lirico di un solo personaggio. Questo impeto lirico consiste sempre nell’affermazione violenta di una volonta eccessiva, che insorge contro

tutte le forze che tentano di comprimerla e contro la vita stessa; una volonta che, gia nell’atto di affermarsi, si mette

in guerra con tutte le leggi umane e divine che regolano e indirizzano la vita; atteggiamento estremo di ribellione, di cui l’Alfieri riconosce in se stesso tutta la grandezza e ch’egli pure avverte al tempo stesso come una forza oscura, come una colpa originale, che non pué altrimenti redimersi e puri-

ficarsi se non colla morte. In questa intuizione poetica I’elemento politico non é, per se stesso, fondamentale, neppure

in quelle tragedie in cui sembra prendere il sopravvento. L’idea antitirannica, di cui s’é indagato piu sopra lo specialissimo significato ch’essa acquista nella mente dell’ Alfieri, qui si rivela in tutta la sua ampiezza, che trascende di gran

lunga i confini dell’esperienza politica in senso stretto: essa

494

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Se LER

é, nell’eroe, Salant di rivolta contro asile tirannide che fa

tutt’uno con !2 vita e con le sue leggi, da cui l’individuo non pud non sentirsi sempre pit o meno limitato e impedito; 6, nel tiranno stesso, anelito a quella liberta assoluta, che é assoluta potenza, la quale non tollera eguali e non puo realizzarsi se non in una solitudine disumana. Questo motivo si

esprime in tutta la sua vastita e in tutta la sua forza nelle due tragedie che rappresentano i! momento pit maturo e pit grande della poesia alfieriana.

Il Saul ésenza dubbio la pit complessa fra le tragedie del-. l’astigiano, per il rilievo che vi prendono anche i personaggi minori, per l’ampiezza del quadro, per lo sforzo dell’ indagine psicologica che qui tende a umanizzarsi e a farsi piu ricca e

meno sommaria a paragone delle opere precedenti. Ma anche qui poi tutta l’azione é riempita dalla presenza def protagonista e aspira a condensarsi tutta nell’irruenza di taluni momenti pit intensamente lirici: si che alla fine non sai bene

se quella maggior complessita dell’invenzione si risolva in una ricchezza o in un impedimento; e certo, mentre essa aiuta

il poeta a ritrovare la via di un’arte pil profonda e meno schematica, costituisce anche, con la sua umanita pid morbida € piu intenerita, con le sue oasi idilliche, con le sue velleita

pittoresche, una ragione di lentezza e di tistagno. Ma Saul, in se stesso, rimane poi l'espressione piu piena dell’animo ales

riano, in cui lo slancio eroico e magnanimo si articola in una complessita di sentimenti, che fa di lui il pit umano dei superuomini creati dalla fantasia dell’Alfieri, e ritrovando innanzi

a sé non

pia la prepotenza

di un

tiranno

o il tenace

odio di un uomo, bensi la stessa ira arcana e implacabile della divinita, si muove in un’atmosfera di grandezza, per cui si esalta e sottolinea la sua vena titanica. E qui inoltre la coscienza che il poeta dimostra del suo mondoé pit forte che non mai: l’esaltazione smisurata dell’io in Saul, é fin dall'inizio una rottura consapevole di tutte le norme dell’esi-

stenza; la sua grandezza @ chiaramente definita come una follia, e sentita come una passione, e si libera e appare vera-

mente grande soltanto nella morte. Nella Mirra, liberato ormai da ogni sovrastruttura di dia-

Een Agate

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LE TRAGEDIE

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495

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lettica politica, quel prorompere immediato di un sentimento immenso e incapace di distinzione e di misura, quell ’irresistibile ribellione alle forme della vita sociale, si esprime in una struttura piu lineare, senza essere schematica, anzi tutta vi-

brante di una tragicita che palpita in ogni parte e trema in ogni parola, con una sobrieta e fermezza di accenti quali l’Alfieri non seppe raggiungere in pari grado né prima né poi. La Mirra non é, in obbedienza al mito, la rappresentazione di

una passione incestuosa; é la tragedia di un amore « orrendo » € « innocente » nel medesimo tempo, del sentimento colto in quel suo primo manifestarsi, nell’adolescente, allo stato germinale, immenso ancora e indiscriminato, senza nome, vio-

lento e pur verecondo, incolpevole e pur trepidante e sbigottito come per l’ansia di una colpa ignota. Se il Sau/ sottolinea Ja nota titanica e libertaria dell’individualismo alfieriano, pur contenendo in sé anche il motivo della tristezza e dell’orrore

che abitualmente lo accompagna; la Mrrra, senza rinunziare alla nota della grandezza, ne sottolinea invece l’elemento dell’angoscia e della colpa. E l’eroismo di Mirra, intimamente legato alla sua debolezza, consiste nella tenacia con cui ella

lotta fino all’estremo contro se stessa, e soprattutto nella chiarezza con cui ticonosce nella sua cieca passione la presenza del peccato, e, come Saul, cerca la redenzione e la liberta nella morte. Senza tuttavia riuscire a trovarla: ché il suo

slancio eroico, a differenza di tutte le grandi creature alfierianeé, culmina

in una

suprema

sconfitta;

ed essa

sente

di

morire « empia ». Quel che di giovanile é in tutto il mondo poetico del nostro si condensa in questa storia di un’adolescente, cui la vita e la realta tutta contrasta ed opprime, non

it con le forze aspre e violente delle tragedie antitiranniche, si con quelle bonarie e affettuose, e pur altrettanto intollerabili e invadenti, della norma familiare; ma qui v’é anche la stanchezza precoce dell’uomo, e la sua malinconia maturata

dagli anni, e l’oscura coscienza dell’inanita delle sue lotte. Il Saul & dell’82, l’ultima delle tragedie anteriori all’edizione senese, e tappresenta il momento culminante di una serie di tentativi poco felici (Agamennone, Ottavia, Marta Stuarda, Merope) rivolti a

umanizzare e variare, con una maggiore complessita psicologica, la

my

RA: scarna linearita dell’ispirazione alfieriana ; la Mirra, scritta fr a due a e 87, appartiene a un periodo di ripresa poetica, seguito di silenzio, periodo al quale risalgono anche |Agide e laSofonisba, opere gid stanche. Dopo 1!’87 la vena poetica dell’astigiano é gia esaurita; nulla, o ben poco, aggiungono alla sua opera la « tramelo-

.

1

gedia » Abele e I’Alceste seconda, che é un rifacimento e un adattamento di quella euripidea, contemporaneo alle traduzioni del teatro

greco, in cui lo scrittore venne esercitandosi negli ultimi anni della sua vita; e anche il Bruto primo e il Bruto secondo son da considerarsi piuttosto come azione e propaganda politica che non come

espressione di poesia. L’ispirazione lirica € presente invece, pil o meno, in tutte le tragedie anteriori al Saul, nonostante i difetti di struttura, di organismo, di maturita, che vi si posson rilevare senza troppa fatica. Quelli che insistono su un presunto carattere essenzialmente oratorio e polemico della tragedia alfieriana, non hanno che

a considerare lo svolgimento stesso cronologico dell’opera, che muove dalla rappresentazione

lirica di sentimenti

immensi

e violentissimi,

ptessoché indifferenti ad ogni specificazione politica (Filippo, Polinice, Antigone); che solo in un secondo tempo si costringe nell’ambito delle « tragedie di liberta » (Virginia, Congiura dei Pazzi, Timoleone), per ritornare subito poi alle sue scaturigini liriche, con l’'Oreste, la Rosmunda, il Don Garzta — visioni di orrore, di frenesia, di delitto —, e culminar finalmente nel Saul e nella Mirra, dove

a nessuno verra in mente, credo, di rintracciare una finalita pedagogica o polemica. Nelle stesse tragedie di liberta, specie nella Congiura e nel Tzmoleone, non vien meno del tutto il motivo lirico; il quale domina poi in tutte le altre, atteggiandosi nei diversi aspetti del furore

eroico, della passione smisurata,

dell’esaltazione

individuale

che corre al suicidio o irrompe nel delitto; e creando, intorno al protagonista, in cui quel litismo si condensa e si accentra, un’atmosfera

adeguata di tristezza e di orrore e di squallida solitudine. La struttura scenica, in senso esteriore, é sempre scarna e scheletrica; l’azione,

in apparenza, statica e sempre ridotta all’essenziale; ma in questa estrema semplificazione degli schemi si acuisce la potenza del lirismo,

che tende a travolgere i limiti del discorso poetico e riempire di sé le pause, i silenzi, gli intervalli del dialogo. Questo lirismo, compresso e tenuto a freno da una fortissima disciplina morale e stilistica, anziché diffondersi in forme elegiache e sentimentali, s’addensa a far vibrare d’un’intensita nuova le parole singole e s’avverte, direi quasi, pil che nelle parole, nelle reticenze, nei sottintesi, nelle segrete accentuazioni, che ne prolungano e ne rifrangono, moltiplicandole, le risonanze.

Vano é forse cercar di tracciare la linea di uno

svolgimento tecnico e poetico della tragedia alfieriana, la quale, come si raccoglie tutta intorno ad un motivo unico, cosi @ quasi priva di una storia chiaramente distinguibile in fasi e momenti di progressiva maturazione, e solo dopo una lunga serie di espressioni tutte notevoli, se pur tutte frammentarie, assurge d’un tratto al capolavoro nelle due opere pit sopra analizzate. Piuttosto a far meglio intendere

la qualita e la novita di questa tragedia, nel periodo che precede i capolavori, giovera soffermarsi ancora su un esempio solo, I’Antigone, che & non soltanto una delle pagine pit rappresentative, ma delle pitt belle, di tutto il teatro alfieriano. Nell’ Antigone risalta anzitutto la linearita della struttura semplificata all’estremo: quattro soli personaggi, di cui tre in funzione dell’unico protagonista; un’azione ferma e quasi senza sviluppo, che crea fin dall’inizio !’an-

sia della catastrofe; un dialogo scarno e rettilineo. E in quella semplicita, quasi geometrica, di struttura prende risalto una nota sola: leroica volonta di morte di Antigone. Anche per lei, come per Saul, la morte é affermazione di liberta, esaltazione di dignita, vittoria contro il destino avverso; e inoltre, come per Mirra, purificazione o

redenzione di una colpa inconfessabile (l’amore che la lega al figlio del tiranno); e verso la morte si affretta, con tutte le parole e con gli atti, quasi in un delirio sereno, questa che é la pit diritta e risoluta e fiera di tutte le creature alfieriane, e nella quale pure é

gia presente in nuce tutta la perplessita e la complessita delle figure pit grandi:

quello slancio eroico, che maschera,

e al tempo stesso

redime, una debolezza segreta; quell’impassibilita, che nasconde, e comprime, le lacrime; quel destino di grandezza che @ vocazione di morte.

5. La fortuna dell’Alfieri. —

Le idealita nazionali,

che si accentuano nell’ultimo periodo dell’attivita letteraria alfieriana; la Prosa prima e i sonetti profetici del Misogallo; quell’odio antifrancese in cui si acuisce il sentimento della

grandezza italiana; il Parere sull’Agide; la dedicatoria del Bruto secondo «al futuro popolo d'Italia », e gia

prima il

capitolo con cui si chiude il trattato Del principe e delle Lettere; spiegano come all’ Alfieri si richiamasse, quasi ad un precursore, tutto il pensiero e la passione del nostro Risorgi-

mento, dal Santarosa e dal Balbo, al Mazzini e al Gioberti,

fino al De Sanctis. Non a torto; perché veramente in quell’opera letteraria c’é una parte che tende a trovare il suo

compimento nell’azione, e qualche pagina persino che é gia 32. —

SapEGNO,

Disegno

stor.

della

lett.

it.

azione per se stessa, propaganda o profezia. Senonché nell’'ammirazione degli uomini dell’Ottocento si nascondeva anche un equivoco, che avrebbe pesato in seguito, non senza grave danno, su tutta la critica alfieriana: e cioé la confu-

sione dell’uomo con il poeta, che tendeva poi a risolversi, e gia si risolve di fatto nel De Sanctis, in una dichiarazione

di superiorita dell’uomo sul poeta, o in altri termini in un’interpretazione tutta oratoria e pratica della sua poesia. Cosi accadde in seguito di vedere questa poesia ridotta a mero documento

di una fase sia pure importantissima

della nostra

storia civile; e accentuata con grandissima esagerazione la funzione pedagogica delle sue parti oratorie; e quell’oratoria stessa avvilita e definita rettorica. Errore gravissimo, che metteva in rilievo soltanto la persistente efficacia, nei critici della cosidetta scuola storica, di un gusto schiettamente arcadico, e la loro incapacita ad affsarsi nella luce di una poesia nuova,

che sgominava e sbigottiva tutte le arcadie. Invero nessuna accusa pil ingiusta, e pit ridicola, di questa taccia di rettorica,

poteva indirizzarsi alla tragedia alfieriana; i cui difetti nascono, se mai, dall’esuberanza di un temperamento lirico fortissimo, da un eccesso di calore, che é proprio tutto il contrario

di quella freddezza cerebrale in cui la rettorica appunto consiste. Difetti strettamente connaturati alla qualita di una poesia, che tendeva, nella prepotenza del suo impulso, a invadere tutte le zone della vita, a sostituirsi persino in un certo senso

alla vita stessa. Contro la persistenza di questo errore, che tuttavia s’ostina a durare e ancor qua e la s'insinua nei di-

scorsi intorno alla tragedia dell’astigiano, occorre

pertanto

tiaffermare che |'Alfieri fu prima di tutto e soprattutto un

poeta; che alla poesia si riporta il suo concetto vita, gia tutto pervaso di intensa tragicita; che in culmina la sua stessa affermazione antitirannica; stato d’animo schiettamente lirico si riporta ogni

stesso della una poetica che ad uno sua attivita

letteraria e la sua stessa polemica, che é la polemica appunto

di un poeta, calda, irruente, fantastica, per nulla ragionata e calcolata in vista di un determinato effetto. Il pericolo vero per lui, come poi per tutti gli uomini della generazione ro-

mantica, era piuttosta quello di lasciarsi travolgere e trasci-

LA FORTUNA DELL’ALFIERI

499

nare da questa forza innata di sentimento verso una forma di espressione effusiva e di lirismo dispersivo. Senonché a lui,

come poi ai maggiori poeti dell’Ottocento, si prestd soccorrevole per questo lato la forza della tradizione letteraria ita-

liana con la sua rigida disciplina classica; e ne derivd la caratteristica struttura della tragedia alfieriana, in cui il lirismo pil intenso e vibrante é sempre dominato e contenuto dalla superiore impassibilita dell’artista. E percid la fortuna pit vera dell’Alfieri, al di 1a di quella in parte estrinseca ed

ambigua che lo ricollega agli spiriti del Risorgimento, é da ricercarsi piuttosto nell’azione profonda che egli esercit6 sui gtandi poeti dell’eta successiva, dal Foscolo al Leopardi, ai quali diede l’esempio di una letteratura che voleva ritornare ad essere, come era stata in Dante e in Petrarca, strumento di conoscenza e di approfondimento intertore, sublimazione di un’esperienza fortemente individuale, forma e disciplina

di vita.

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Caprroto XXII.

LA LETTERATURA

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DEL PERIODO

NEOCLASSICO

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1. La nuova cultura.

— Tra la fine del Settecentoe

il primo quindicennio dell’Ottocento, nel periodo della conquista francese e dell’impero napoleonico, la cultura italiana,

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raccogliendo e recando a maturazione il retaggio dei circoli illuministici napoletani e lombardi,

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rattere nazionale

e pone

accentua

le premesse

il proprio ca-

del prossimo

risorgi-

mento civile. Quanto pit calde e ingenue erano state dapprima nei patrioti le illusioni suscitate dal trionfo e dall’espansione del verbo rivoluzionario e democratico, tanto piu cocente e ricca di ammaestramenti é la delusione che ben

presto vi sottentra dinanzi alla prepotenza militaresca, alla brutalita imperialistica, al cinismo diplomatico dei francesi i

« liberatori »: e, con la delusione, si fa strada anche, negli

intelletti pit animosi, la coscienza che la conquista di un goby

verno libero abbia la sua necessaria premessa nella fondazione di uno stato unitario e indipendente dallo straniero. Intanto, pur tra le adulazioni servili ai francesi e al genio di Napoleone (al quale del resto si riconosce, dai migliori,

il merito di aver stimolato per contrasto il risveglio della co-

scienza nazionale e iniziato l'educazione politica del popolo), ci si sforza di attribuire alla cultura una maggiore impronta di italianita, di riallacciarsi all’insegnamento dei pensatori nostrani dal XVI al XVIII secolo, di ritrovare in essi la so-

stanza della nuova civilté europea espressa in formule meglio

adeguate alle nostre particolari esigenze e alle caratteristiche

della nostra vita. Si inizia la critica dell’astrattismo ideolo-



a

LisAS MPU

"

gico degli illuministi e del dottrinarismo rivoluzionario;

si

contrappone alle formule degli ideologi d’oltralpe la filosofia piu cauta dei nostri Gravina, Giannone, Genovesi, Filangeri, Verri, Beccaria, Parini; si risale con devota ammirazione alle

sorgenti del pensiero di Vico, di Sarpi, di Machiavelli. L’Alfieri, con il suo-tenace attaccamento alla tradizione classica, con il suo senso fortissimo delle miserie attuali e delle fortune imminenti d'Italia, con la sua ostinata polemica antifrancese, é venerato come un maestro di italianita politica e letteraria; e alla sua scuola si educano gli uomini nuovi, tra cui il Foscolo. Dai giornali, dalle cattedre, si eleva frequente |’ammonimento a riconsiderare le glorie della nazione nel passato, € cioé a formarsi una coscienza storica; a superare le tenaci

sopravvivenze del vecchio regionalismo e municipalismo, e cioé a formarsi’ una coscienza italiana. Il centro di questa fervida attivita civile e letteraria é Milano,

capitale della Repubblica Cisalpina prima e poi dell’Italiana e infine del Regno italico. Ivi convengono d’ogni parte i poeti, i filosofi, gli scienziati, gli ideologi, i politici; ivi, sul tronco robusto della civilta filosofica e letteraria instaurata dai Parini, dai Verri e dai Beccaria,

si innesta l’apporto fecondo degli esuli napoletani scampati alla reazione del 1799. L’opera di questi ultimi ha particolare importanza ai fini del rinnovamento e avviamento della cultura: in gran parte per merito loro si attua il ritorno alle sorgenti del pensiero nazionale; é rimesso in onore |’insegnamento di Telesio, di Bruno, di Campanella; é riscoperta la grandezza di Machiavelli, di Sarpi, di Vico;

si incomincia a parlare con maggior forza e al di fuori di ogni tettorica letteraria di una nazione italiana ormai degna di svincolarsi da tutte le interessate tutele e di darsi alfine quell’unita e quell’indipendenza di governo, che rappresentano d’altra parte uno dei puntelli fondamentali nel sistema dell’equilibrio politico di Europa. Bastera accennare qui all’attivita entusiastica e un po’ enfatica

di FRANCESCO LoMoNACO (1772-1810), di Montalbano Jonico, autore di quel Repporto al cittadino Carnot (1800), che é la prima eloquente protesta contro la reazione borbonica del ’99 e la prima affermazione di un ideale unitario italiano, e ricordare rapidamente

la varia e feconda operosita del cosentino FRANCESCO SAVERIO SALFI {1759-1832), che fini la sua vita esule in Francia, dove fu amico del Fauriel e del Ginguené, editore degli ultimi volumi dell’ Hystorre

littéraire d’ Italie di quest’ultimo ¢ autore della pid ampia e a tutt’oggi meglio informata ricostruzione storica della nostra civilta letteraria nel secolo XVII.

Ben altrimenti considerevole ¢ degna di ricordo é l’opera di VINCENZo Cuoco (1770-1823), di Civitacampomarano nel Molise, in un certo senso la pit intensa e la pid rappresentativa della svolta compiuta dala cultura italiana agli albori

del nuovo secolo. Allievo del Genovesi, del Pagano, del Galanti, il Cuoco aveva ricevuto un’educazione

prevalentemente

giuridica ed economica; nell’assidua lettura

di Machiavelli e

di Vico aveva affinato le qualita di un temperamento naturalmente disposto alla speculazione filosofica e alle vaste sintesi storiche; l’esperienza delle sventure della patria e ie circostanze dell’esilio ne fecero, quasi per caso, uno scrittore: scrittore asciutto e breve, senza enfasi, il meno enfatico forse

tra i prosatori della sua eta e il pid alieno da ogni colore rettorico e da ogni violenza drammatica, attento pit alle cose che alle parole, e pid alla logica interna, alla trama ideale, dei fatti che non alla loro successione esteriore e pittoresca.

Il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato a Milano nel 1801, é pid e prima che una storia degli avvenimenti, ai quali l’autore aveva assistito e partecipato, una discussione rigorosa dei principt teorici cui avevano obbedito i patrioti della Partenopea e i primi artefici stessi della rivoluzione francese. Il torto di costoro consisteva,

secondo il Cuoco, in una eccessiva fiducia concessa alle teorie e in una troppo scarsa adesione ai dati della natura e della storia; il difetto della rivoluzione napoletana nasceva principalmente dall’esser sorta come un fenomeno meramente

« passivo », imposto al popolo da una minoranza di patriotti, i quali alla lor volta, anziché affisarsi nelle peculiari condizioni della loro terra, si affidavano ciecamente alle norme di un modello straniero. L’insegnamento di-fatto che scaturiva

dalla esperienza napoletana del ’99 era quello della scissione, tuttavia grave in Italia, fra gli ideali progressisti della minotanza intellettuale ¢ le esigenze concrete delle masse popo-



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lari; laddove per il Cuoco era indiscutibile |’assioma che « rivoluzione non si pud fare senza il popolo, ed il popolo si move per raziocinio, ma per bisogno »: affermazione portantissima, in cui é implicita la coscienza di uno dei

una non impro-

blemi pit gravi del prossimo Risorgimento. Infatti nel Cuoco il realismo critico e lo storicismo non approdano, come in un De Maistre, all’accettazione di un credo reazionario, si

piuttosto .a quegli atteggiamenti di cauto liberalismo e nazionalismo, che costituiranno le premesse e le direttive dellarinascita civile italiana, e che intanto a lui sembravano in parte attuati nelle monarchie popolari del periodo napoleonico.

A questi concetti si ispirano gli articoli del Giornale italiano, che egli fondd a Milano e diresse per oltre un biennio (1804-6), articoli nei quali riprese e svolse molte delle idee accennate nel Saggio. A una

forte ispirazione nazionalistica,

che in parte es

il

mito giobertiano del « primato », obbedisce anche I’idea del Platone in Italia (1804-6), romanzo archeologico in forma epistolare, in cui, attraverso la fantasiosa narrazione dei viaggi del filosofo nella Magna Grecia, il Cuoco tentd di dare corpo a un’immaginazione

del Vico

(nel De antiquissima Italorum sapientia), esaltando le origini autoctone della nostra civilta filosofica artistica ¢ politica. Senonché il Platone @ riuscito un’opera disorganica ¢ frammentaria, redatta in una ptosa che sta a mezzo fra la sciatteria settecentesca e i modi enfatici e declamatori della letteratura del tempo. Il Cuoco scrittore é tutt’intero nel Saggio, dove egli riesce a raggiungere un certo equilibrio fra le due forze pit ricche del suo temperamento: l’intelligenza storica lucida e spregiudicata, e il fervore del missionario e del pedagogo inteso a costruire progetti ¢ miti per l'azione futura e per l’educazione del popolo; ed attua istintivamente un suo ideale di eloquenza

popolare, senza fronzoli e senza aridita, altrettanto aliena dagli espedienti rettorici di scuola, quanto esperta a derivare potenza di com-

mozione e€ concitazione di ritmo dall’evidenza dei fatti e dalla « forza segreta ma irresistibile » delle idee trasformate in sentimenti e sostanza di fede. Minore

importanza,

per il rinnovamento

della cultura letteraria

e dello spirito nazionale, ha !’opera di alcuni ideologi dell’Italia settentrionale, come MELCHIORRE GIOIA (1767-1829) di Piacenza e GIANDOMENICO RoMAGNOSI (1761-1835) di Salsomaggiore. Entrambi, movendo da un’educazione tipicamente settecentesca, che si riflette

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anche nello stile, approdano all’esperienza politica del Risorgimento,

per la quale soffrono persecuzioni¢ prigionia; ¢ in essi st pud cogliere al vivo il trapasso dalla civilt’ del sensismo a quella romantica e lo svolgimento coerente della cultura lombarda dagli uomini del Caffé a quelli del Conciliatore, i quali ultimi tennero i due pensatori emiliani per amici e maestri e il Romagnosi in ispecie vollero collaboratore del loro giornale. ,

La parabola progressiva, che qui si @ sommariamente disegnata, della cultura italiana negli anni che precedono la Restaurazione si inserisce abbastanza agevolmente nella linea storica del progresso europeo, € pud esser rappresentata come un

episodio del grandioso movimento,

per cui, attraverso

l’esperienza e il BARD sgretolamento dell’oppressione francese e napoleonica, le singole nazioni riacquistano la coscienza della propria individualita e delle pee tradizioni, reagiscono al materialismo e al sensismo del Settecento, riscoprono

l’intima necessita della religione e la legge della storia, maturano insomma le premesse delle rivoluzioni nazionali e della cultura romantica. Guardato da vicino e nei particolari, il panorama della civilta italiana si rivela perd assai meno unitario e coerente, pid variato e piu confuso; presenta anzi tutte le caratteristiche di un’eta di transizione, incerta e sbandata fra il vecchio e il nuovo. Non per nulla la fama di un Cuoco ha dovuto aspettare, per essere riconosciuta in tutto il suo valore, tempi a noi vicinissimi, e quella stessa di un Foscolo é tutt'altro che indiscussa e pacifica fra i suoi contemporanei;

mentre grandeggia la rinomanza di un Pindemonte, simbolo superstite del gusto arcadico, e soprattutto quella di un Monti, specchio fedele delle irrequiete aspirazioni e delle incerte convinzioni della maggioranza.

2. Il gusto neoclassico e il purismo. — Anche la poetica e le correnti del gusto letterario non si dipartono, nel primo Ottocento, dalle premesse, assai ricche sf altronde e fertili di contrasti e di spunti e velleita moderne, che avevano

caratterizzato la cultura alla fine del secolo precedente. Prevalgono per il momento, su tutte le altre, le correnti neoclas-

siche, vigorosamente rappresentate dall’arte di Canova, dalla

letteratura di Foscolo Monti e Giordani, dall’erudizione di Andrea Mustoxidi, dalla scienza archeologica di Ennio Quitino Visconti. Due tedeschi, il grande archeologo Winckelmann e il letterato Lessing, nella seconda meta del secolo XVIII, s’erano dedicati per vie diverse a scoprire il vero volto dell’arte e della poesia classica, oltre tutte le deformazioni

e gli arbitri del gusto classicistico elaborato da una secolare tradizione, e avevano in sede teorica rinnovato la dottrina platonica della bellezza ideale, intesa come pura armonia di

forme quasi astratte e depurate di ogni carattere materiale e sensibile. Concepite ed elaborate in Italia, le teorie del Winckelmann (e vel suo discepolo, il pittore austriaco Raf-

faello Mengs) trovarono da noi pronti seguaci, come il Milizia, il Lanzi, il Visconti, l’Arteaga. Nei primi anni dell’Ottocento esse costituiscono, anche nel campo dell’attivita lette-

raria, l’indirizzo dominante del gusto e il presupposto di quella voga classicheggiante, che @ fenomeno europeo, ma che trova in Italia appunto uno dei suoi centri pit importanti

e alcune delle sue pit cospicue manifestazioni:con gli scritti teoricit del Cicognara, del Delfico, del Biamonti, del Talia. Il gusto neoclassico @ per altro assai meno lontano, di quanto non si possa pensare a prima vista, dai concetti del

nascente romanticismo. Intanto, gid col solo fatto di contrapporre una visione pit esatta e pit storicamente definita dell’arte antica alle interpretazioni deformatrici e convenzionali

del classicismo tradizionale, esso contribuisce a sgretolare le norme troppo rigide e meschine che questo era venuto assumendo attraverso le successive formulazioni dell’umanesimo, dell’aristotelismo e dell’arcadia. Inoltre nell’ambito stesso delle correnti neoclassiche operano gli influssi del preromanticismo roussoiano e alfieriano, dell’ossianismo, del culto della poesia

popolare e primitiva, e soprattutto delle teorie del Vico, di cui proprio in quegli anni si incomincia ad apprezzare, sia pure confusamente, e a riecheggiare con compiacenza le formule ardite e profonde. Infine la crescente sensibilita romantica

delle nuove generazioni agisce dall’interno, permeando di sé le maggiori personalita di questo mondo neoclassico, recando

.

Tie chpae OE nei loro scritti un lievito di irrequietezza, di vibrante ‘/passionalita, di contrasto interiore, che @ poi il segreto del

loro fascino e il segno della loro modernita. Temperamenti

schiettamente romantici sono da considerarsi, per questo f1-

guardo, quelli del Foscolo

e dello stesso Giordani; men-

tre l’inquietudine del gusto moderno penetra, sia pure superficialmente, perfino nella tranquilla compagine dell’arte di un Monti.

.

Per un altro verso il classicismo esercitd un’efficace azione nell'ambito della tecnica letteraria e linguistica, reagendo alla licenza e alla sciatteria dei prosatori della seconda meta del Settecento e propugnando, ¢ in parte attuando, l’ideale di una prosa letteraria pik elaborata e meglio conforme alle tradizioni e al genio della lingua, pil decorosa e pid italiana senza rinunziare ad esser moderna ed europea. Risorse allora la questione della lingua, ancora una volta intesa come problema di arte ¢ di stile, in parte come reazione,

in forme talora esagerate, contro quel che di eccessivo e di anarchico era nelle tesi di un Verri e di un Cesarotti, in parte come continua-

zione e approfondimento

dei concetti di temperata modernita gia

accennati dai primi oppositori di quelle teorie, come il Galeani Na-

pione. Il padre ANTONIO CESARI un ritorno ai modi

(1760-1828), veronese, propugnd

schietti e puri dell’uso trecentesco,

da cui era

possibile, a parer suo, derivare uno strumento adeguato a tutte le esigenze dell’espressione moderna; e tradusse in pratica questa sua tesi, senza indietreggiare dinanzi ai pit ardimentosi ed ingenui arcaismi di lingua e di stile, in numerose scritture di materia religiosa e nei volgarizzamenti dell’Imitazione di Cristo e dei classici latini. Dal Cesari prese le mosse la scuola dei « puristi », che sopravvisse fino alla fine del secolo, manifestandosi sia in vivaci polemiche per

litalianita della lingua e in genere della cultura, sia in uma ricca serie di tentativi ed esercizi letterari e in una pit utile e feconda attivita filologica con edizioni e ristampe dei testi dei primi secoli +). *) Ad essa parteciparono uomini d’ogni parte della penisola, dal

trivigiano MICHELE CoLoMBo (1747-1838) al napoletano BasiLio PuoTI (1782-1847), che fu maestro del De Sanctis, fino al lucchese Luici FoRNActiari, compilatore fra l’altro di un’antologia, gli Esempi di bello scrivere (I* ediz. 1829), che ebbe lunga e meritata fortuna nelle scuole.

Nel senso di un classicismo meno rigido e pid aperto agli influssi e alle esperienze della cultura moderna si aa la vivace polemica sui limiti e le qualita della lingua letteratia condotta da VINCENZO Mont! e¢ dai suoi collaboratori, fra i quali primeggia il romagnolo GIULIO PERTICARI (1779-1822) nei sette tomi della Proposta di alcune correztoni ed aggiunte al vocabolario della Crusca (1817-26). Il Monti e i suoi amici erano d’accordo fino ad un certo punto coi puristi nel reagire alla corruzione del linguaggio operatasi nel secolo. precedente;-ma non si rassegnavano all’idea che I’Italia, dopo il Parini e l’Alfieri, avesse un’altra volta a restringersi nei confini troppo angusti dell’uso trecentesco fiorentino. Italiana, e non fiorentina, aveva

da esser ‘la lingua, e conforme all’uso vivo costituito da una splendida tradizione letteraria che, dopo il Trecento, aveva pur seguitato, dal XVI al XVIII secolo, 2 maturare nuovi frutti e ad elaborare e

plasmare in forme sempre nuove il proprio strumento, con quel giusto ossequio dell’antico e quella moderata accettazione del nuovo in cui si attuava spontaneamente l’equilibrio del gusto. Contro la pedanteria dei puristi e al tempo stesso contro Il’esagerata larghezza dei prosatori infranciosati

del Settecento,

le idee della Proposta si presentavano

come un’affermazione del gusto sano e letterariamente educato e di quella liberta artistica, che non distrugge il senso della tradizione, ma la rinnova dall’interno e l’arricchisce con intelligenza e con cautela. Con le loro.discussioni i puristi e i seguaci del Monti offrivano ~ intanto uno degli elementi alle prossime polemiche fra classicisti ¢ romantici, nelle quali anche la questione della lingua fu agitata con intenti e procedimenti diversi, e porgevano il fondamento da una parte alle teorie de! Manzoni, dall'altra agli studi del Tommaseo e alla soluzione rigorosamente scientifica dell’ Ascoli. Del resto, la tesi dei puristi ¢ quella del Monti e dei suoi amici divergono fra di loro molto meno di quanto non appaia a chi sottolinei di ciascuna soltanto le affermazioni pit rigide e polemiche. Da un lato operavano in entrambe pit o meno gli spiriti della cultura e della sensibilita moderna: nei teorici della Proposta, con la dichiarata accettazione delle conquiste del nuovo pensiero e della letteratura europea;

nei puristi, con l’esaltazione dell’ingenuita e della forza degli scrittori trecenteschi,

sentiti come

rappresentanti

di una

poesia spontanea e

schietta, primitiva e popolare, secondo un concetto di origine vichiana e caro agli ambienti preromantici tedeschi. Dall’altro lato rimaneva forte in tutti ugualmente il senso classico della forma, cosi connaturato alla nostra mentaliti: anche nei puristi che, come il Cesari e il

Puoti, cercavano nel Trecento Ia purezza e ricchezza del materiale



Nant oe peedaa a CR ae Ly oi linguistico, ma per lo stile, per la costruzione mobile ¢ comp essa r del periodo, per I’arte insomma preferivano poi richiamarsi ai modelli consacrati della prosa cinquecentesca; anche nei montiani che, accettando con buon senso e con cautela i presupposti delle teorie ifs

-

settecentesche sulla lingua, reagivano poi energicamente alle appli-

cazioni troppo audaci e conseguenti di quelle teorie nell’uso letteratio appunto del Settecento. Alla luce di siffatti concetti e nel quadro

del gusto neoclassico e delle polemiche intorno alla lingua sara opportuno esaminare le diverse manifestazioni della letteratura nostra agli inizi del nuovo secolo: la prosa d’arte del Giordani, del Botta, del Colletta; la poesia del Monti e degli altri minori, che di quel neoclassicismo sono lo specchio pit immediato e superficiale; laddove

il Foscolo, solo ¢ in disparte, ne coglie e riflette tutta la sostanza irrequieta e ne vien tentando via via le pil varie e complesse risonanze, ¢ le pid intime e segrete. r 3. La prosa

illustre. —

Alle idee di un purismo temperato

e inquadrato in una concezione classica dell’arte si ispirava il piacentino PIETRO GIORDANI (1774-1848), che esercitd ai suoi tempi una specie di dittatura letteraria paragonabile, se pure in limiti pit angusti e superficiali, a quella tenuta tre secoli innanzi dal Bembo. Il Giordani fu essenzialmente uno stilista; e in lui, pit che nel Cesari, il purismo si atteggia in funzione di retorica e di poetica,

come indirizzo ed esempio di ragionata restaurazione dello stile illustre nella prosa. Il suo stilismo attinge bensi ragioni di forza e di efficacia in un alto senso delle idealita e delle glorie nazionali, liberamente e coraggiosamente propugnate negli scritti e nella vita: sincero ammiratore del Bonaparte e collaboratore attivo della politica napoleonica in Italia, lo scrittore piacentino non esitd infatti, dopo

il ’15, a dichiararsi nemico degli Austriaci e per il suo fiero e dignitoso atteggiamento di liberale e di patriotta subi frequenti persecuzioni. Ma in lui il senso della parola eletta, del ritmo, del periodo musicale era sempre pit forte di tutti gli impulsi del cuore e dellintelligenza, che nei suoi scritti si piegano dovunque ad esser soltanto pretesti di un laborioso esercizio formale. Tutta rivolta alle forme esterne, alla tecnica verbale, ai legamenti, alle costruzioni, alle

clausole é la critica letteraria, che egli esercitd soprattutto sugli esemplari della prosa del Tre e del Cinquecento e, con significativa predilezione, su taluni secentisti (Bartoli, Pallavicino); descrittiva e ac-

cademica la critica d’arte, in cui pit apertamente si rivela la sua par-

tecipazione al diffuso gusto neoclassico. Per tutta la vita il Giordani vagheggid Videale di una prosa perfetta, in cui l’apparente sem-

plicita, sul modello dei greci, fosse il risultato di una tecnica espertissima ¢ di un orecchio infallibile; e i suoi scritti, tutti di breve respiro, sono altrettanti saggi e prove di questo ideale di prosa intesa soprattutto come eloquenza, e si dispongono nelle forme consacrate del genere oratorio o didascalico: panegirici, discorsi, ritratti, iscrizioni commemorative. Una sottile esperienza psicologica e morale si avverte

talora nei ritratti, specie in quello

scritture storiche, come Odoardo

del Monti,

e in certe

alla spedizione di Carlo

quella Intorno

Stuart; \a gentilezza e la cordialita

degli affetti traspare

nelle Esequie di Gtambattista Galliadi, in talune epigrafi funerarie, nelle lettere; ma su tutto si stende, e domina, la patina dello stilista

sempre troppo vigile e assorto nella sua minuziosa fatica, Egli stesso sentiva, e talora esprimeva, un’impressione di scontento sul valore di questa sua attivita cosl frammentaria e dispetsa; ma si confortava, non del tutto a torto, nel pensiero di essere stato quasi un precursore € un maestro inviato ad aprire e agevolare altrui le strade di quell’« altezza, della quale non aveva speranza ». E veramente |’effi-

cacia della sua presenza nella storia della nostra letteratura dell’Ottocento é da ricercare soprattutto, oltre che nella conversazione dotta

afguta vivace, nei rapporti epistolari che egli mantenne specialmente coi giovani (basti accennare alla memorabile amicizia, cosi calda e fiduciosa, per il Leopardi), e che sono il segno della sua attivissima partecipazione al movimento letterario del suo tempo. Liideale della. prosa illustre domina specialmente la storiografia del periodo neoclassico. Eccetto il Cuoco, si tratta per lo pit di scrittori che continuano, con mentalita pii o meno attardata, il

tipo di storia umanistica e prammatica, descrittiva e psicologica, ma non filosofica, del nostro primo Rinascimento, innestandovi per altro

un intento nuovo di educazione civile e un vivo fervore di passione patriottica. In rapporto alla missione morale e pedagogica che essi attribuiscono alle loro opere, costoro senton fortissima l’esigenza di uno

stile oratorio

decoroso

e solenne,

e il problema

acquista ai loro occhi un valore essenziale

della forma

e dominante. Nessuno di

essi tuttavia pud dirsi un puro stilista, come il Giordani; e nessuno

d’altra parte raggiungeil senso finissimo della musica vetbale, che fu la preoccupazione costante, il dono e il limite, dello scrittore piacentino. Il pid fecondo di questi storiografi del primo Ottocento ¢ CARLO BotTa (1766-1837) di San Giorgio Canavese: che ha lasciato, oltre

alcuni scritti minori, una Storia della guerra dell’indipendenza degli

Stati Uniti d’America, \a Storia d'Italia dal 1789 al 1814, e la Sto-

ria d'Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789. In lui

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il purismo linguistico @ una delle forme dell’amor patrio che l’accende, dettandogli la scelta dei temi e eccitando in lui la coscienza e il tono del missionario laico ¢ del profeta civile: lo stile francesizzante, il nascente gusto romantico sono per lui altrettante maniere di tradimento a danno della cultura nazionale. D’altra parte il suo ideale di scrittura é ben lungi dall’essere coerente e chiaro come quello del Giordani, @ piu pedantesco e pit arbitrario al tempo stesso,

e anche il suo gusto é assai meno sicuro. Cosi per la lingua come per lo stile il suo modo di procedere @ alquanto empirico e frettoloso: semina gli arcaismi nei suoi periodi, senza riuscire a un soddisfacente impasto dei modi lessicali; ondeggia fra lo stile ampio e fiorito delle prose cinquecentesche e la maniera tacitiana del fraseggiare rotto, breve, nervoso:

e spesso hai l’impressione che una

tale diseguaglianza di procedimenti tecnici non risponda affatto a una necessita della materia, e che lo stilista si venga di volta in volta esercitando un po’ a caso in margine ai suoi temi, non senza una

certa goffaggine e un certo sforzo. Assai pit fine scrittore é il napoletano PIETRO COLLETTA (17751831), nella sua Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, composta a Firenze negli ultimi anni della vita, non senza i suggerimenti e i consigli del Giordani, del Niccolini, del Leopardi, che contribuirono a chiarire ed orientare la sua attenzione verso i problemi dello stile, gia vivi in lui per altro fin da quando s’esercitava a Napoli traducendo Tacito, Sallustio, Seneca e Cicerone e studiando gli elementi ritmici della prosa d’arte latina. L’intento civile e morale, che

nel Botta é vivo ma alquanto generico ed astratto, si fa nel Colletta concreto e appassionato. Materia del racconto é la storia della sua terra e della sua gente: le libere aspirazioni e i generosi ardimenti del ceto intellettuale, la virth inconsapevole di un popolo che « avvicenda costumi civilissimi e barbari », linsipienza e la vilta di una

dinastia dapprima pavida e inetta poi fedifraga e sempre inferiore al proprio compito;

attraverso

una

trama

di fatti tutti ancor

vivi

nella fantasia commossa e per gli ultimi anni attinti ai ricordi diretti ' dello scrittore, che li vide da vicino e vi ebbe parte non secondaria.

Questa materia rovente, che in parte rassomiglia e in parte materialmente coincide con quella trattata dal Cuoco nel suo Saggio, é esposta dal Colletta in forma e tono assai diversi. Laddove il Cuoco si

propone soprattutto di capire, e il giudizio é@ il fine ultimo della sua ricerca, nel Colletta il giudizio sui fatti del passato é lo strumento

per commuovere

ed esortare in vista di un’azione

futura; nel primo

lintelligenza domina e sottomette la passione, nel secondo la passione adopera le armi dell’intelletto per far pid incalzante la sua



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vita in quei limpidi disegni, in quelle ferme architetture; |il rigore dell’esercizio artistico placa l’inquieta violenza del lirismo nativo in salde strutture, ricompone l’elegia in forme nettissime. B !’ora in cui la volonta di poesia e la laboriosa — letteratura del Carducci riescono a coincidere, fino ai limiti

del possibile consentiti dai suoi presupposti culturali, con l’esigenza di realismo e di modernita che é di tutta la poetica_ del secondo Ottocento. Poi sopraggiunge rapida la decadenza, © parallela all’involuzione del suo sistemadi idee e di affetti civili. Come la generosa, ma incerta, polemica degli anni pit

belli tende a ripiegare sulle formule della rettorica ufficiosa, cosi gia nella maggior parte delle Odi barbare, e pit nelle Rime e ritmi (1898), il linguaggio si avvia all’astratto, al generico, non ritrova pit gli scatti, irruenza, l’energia dei tempi felici, si fa liscio, prezioso, decorativo. Sopravvive la letteratura, maturata e scaltrita fino all’estrema raffinatezza in un esercizio pit che trentennale; e l’artista sopraffa il

poeta. I paesaggi non hanno pit quel sapore antico di verita e di forza, e piegano ognor pit verso l’oleografia (anche imigliori — Nella piazza di San Petronio, Sogno d’estate — serbano alcunché di troppo prezioso, di alessandrino); le rievocazioni storiche si fanno sempre piu fredde e distaccate, | non senza peso di erudizione professorale: e si giunge fino all’eloquenza celebrativa e di parata delle odi pit tarde (Piemonte, Cadore, Alla citta di Ferrara, Bicocca di San Gia-

como). La fiera nostalgia di un eroico passato, dopo le Primavere elleniche, si svia dietro il miraggio di un’evasione tutta letteraria nel regno del mito, delle belle favole antiche di una Grecia tra parnassiana e accademica. Anche i superstiti motivi polemici, per esempio nell’ode Alle fonti del Clitumno, petdono il loro acre sapore di modernita, si smarriscono nelle volute di un’oratoria splendida, ma ormai stanca.

Qui veramente la letteratura e il neoclassicismo del Carducci, pur cresciuti allo stimolo di una concreta passione polemica,

mettono a nudo il loro residuo estetizzante e apron la via alle effimere bravure dell’eta dannunziana. Come s’é gia detto, perd, il peso della personalita carduc-

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ciana nella cultura del suo tempo non si esaurisce con la sua

opera di poeta e d’artista. Egli @ anche, anzi é soprattutto, il letterato, che, con la sua opera indefessa di storico, illustratore e editore di testi maggiori e minori della nostra an-

tica poesia, educa e anima generazioni di lettori e di studiosi. La sua critica non ha certo il solido fondamento dottrinale di ile del De Sanctis: non quella ampiezza e profondita { visione-storica, né quel sicuro e quasi esclusivo appuntarsi sull’opera d’arte in quanto tale. Il proposito dell’inquadra-

mento storico, il gusto dei panorami solenni non le é intrinseco, bens? derivato proprio dalle intuizioni geniali dei ctitici romantici, da Gioberti, da Quinet, dallo stesso inviso De Sanctis. Di suo, il Carducci vi apporta il senso del pro- . gresso pit strettamente letterario, di forme, di metri, di situazioni fantastiche: qui, e nel culto onesto del vero, della notizia precisa, dei fatti e delle date, é il ‘suo insegnamento, e quello della cosiddetta « scuola storica » della critica, che

da lui prende le mosse, con un sottinteso atteggiamento polemico contro Ja critica estetica o impressionistica della generazione precedente. E percid non cercheremo di lui i grandi discorsi. di sintesi, in cui l’ampiezza del giro oratorio non tanto sorregge, quanto piuttosto nasconde, la poverta del contenuto concettuale; st invece quei luoghi dove il gusto stilistico, l’impressione immediata dell’artista, il senso

della tradi-

zione formale affiora in movimenti di immagini, meglio che di formule, nell’analisi delle odi e dell’endecasillabo del Parini, dell’ottava polizianesca, nei ritratti dei poeti melici ed

erotici del Settecento. Il Carducci letterato é oggi pit vivo forse del poeta, e la sua opera di storico e di sensibilissimo

lettore pud tuttora fornirci un insegnamento prt utile, pid attuale, che non i suoi stessi libri di poesia. 6. | Manzoniani.



Se il Carducci rappresenta con la sua opera

l'ambizione superstite di una poesia e di una cultura letteraria tenute sul tono

alto e nobilmente

decoroso

di una

solenne tradizione,

e

offre all’orgoglio nazionalistico della borghesia della nuova Italia il blasone di un’arte aristocratica e l’eloquenza fastosa dei giorni di parata; il tono medio poi della cultura italiana del secondo Ottocento

é alquanto pid umile ¢ dimesso, pid legato alla povera cronaca quo

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dr, ‘eo tidiana e da vita a una letteratura di novelle e romanzi, commedie, cronache e saggi, nella quale si avverte, pil o meno diretta, l’efficacia del modello manzoniano, sia come problema di lingua e di stile, sia come ricerca di una materia pil « vera », realistica,

sia infine come proposito moralistico e educativo. Questa cultura ¢€ questa letteratura riflettono gli aspetti pi semplici e pit sinceri della —

borghesia del tempo, le sue concrete esigenze di umanita e di sapere, le sue presunzioni e le sue angustie, anche il suo provinciali-

-smo: sono lo specchio veridico di quel piccolo mondo, e talora, negli artisti pit ricchi e profondi — quelli, di solito, che son passati attraverso l’esperienza rivoluzionaria della « scapigliatura » —, anche la coscienza di esso. Possiamo dunque distinguere due modi di influsso manzoniano:

il « manzonismo » vero e proprio, che da il tono

alla letteratura media e al giornalismo dell’epoca; e il realismo e verismo dei maggiori narratori, che si svolge su un piano pit alto e meno effimero e costituisce l’esperienza piu notevole, la scoperta pit intelligente e feconda della nuova letteratura italiana. Gia nel '55 RUGGERO BONGHI aveva pubblicato le sue Lettere critiche, nelle quali s’era proposto il tema, tipicamente manzoniano, « perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia ». Attraverso l’esame, essenzialmente stilistico e linguistico, della nostra tradizione letteraria, e specialmente dei prosatori, egli dava battaglia contro i

modi solenni e paludati dello scrivere italiano di tipo boccaccesco e cinquecentesco, purista e classicheggiante, e in favore dell’ideale di una nuova

prosa « umana

e naturale, esatta e vera».

Il libro, se

lo si assume come un ragguaglio critico, si rivela subito, con i suoi risultati tutti negativi (si salvano appena, in parte, il Machiavelli del Principe, e, senza riserve, il Leopardi e il Manzoni), antistorico

e superficiale. Ma esso va preso, magari contro le intenzioni dell’autore, nel suo valore polemico, che si ricollega a un’esigenza gia viva nella cultura lombarda dell’ultimo Settecento e ribadita nell’ambiente romantico del Conciliatore e riaffermata con estrema coerenza nelle teorie linguistiche del Manzoni: I’esigenza di uno stile che aderisca nella maniera pid netta al movimento delle idee e si adegui al tono di una cultura di popolo, e non di scuola o di cenacolo. Anche il

milanese GAETANO NEGRI (1838-1902), con i suoi scritti storici, filosofici, letterari operd utilmente in questo senso: anche se in lui, come

pure nel Bonghi, sia venuta meno la fede robusta del Manzoni, la setieta profonda delle sue convinzioni e la sua inquieta novita di atteggiamenti mentali ed artistici. Nel fiorentino FERDINANDO MaRTINI (1841-1928), il tipo manzoniano della prosa divulgativa e conversevole, di cronaca e di amabile ragionamento,

con una disinvol-

e

tura senza paragone pid fresca e una facolta di assimilazione cultu-

rale pit agile e duttile, si pra assai bene all’uso giornalistico, e dara vita nel '79, col Fanfulla della Domenica, alla prima rassegna letteraria italiana di tipo moderno, ariosa, spigliata, educatissima senza pedanteria, cui seguiranno nell’ ’82 la Domenica letteraria, e via

via altri periodici pi o meno intonati a quella misura di gusto e di buon senso. Lo sctittore pid rappresentativo di questo manzonismo minore, il pik amato e il pit letto dal gran pubblico, del quale assecondava con bravura i gusti mediocri e le oneste e caute aspirazioni di elevamento’ morale ed intellettuale, € E>DMoNDo De Amicis di Oneglia (1846-1908). Meglio di ogni altro egli riflette il tono medio della civilta del suo tempo, e anche le sue mutevoli idealita e i suoi pro-

blemi: l’esigenza di uscire dal suo isolamento provinciale, il bisogno di un’educazione e istruzione pil estesa e pit intensa negli strati popolari, la questione sociale. Tutte le sue opere rispondono a un

intento di modesta

e onesta educazione e di facile divulgazione:

l'arte vi adempie una funzione puramente strumentale, e non essenziale ed intrinseca. Le Novelle e i bozzetti di Vita militare sono,

meglio che racconti, apologhi, esempi morali. I libri di viaggi (Spagna, Olanda, Marocco, Costantinopoli, ecc.) assolvono un ufficio di informazione non pedantesca, divertente e aneddotica. Gli intenti

didattici e le preoccupazioni morali e sociali sono anche pit scoperti nel Romanzo di un maestro e nel Cuore, il libro per ragazzi

che ebbe tanta e non immeritata fortuna. Meglio che altrove il suo

blando moralismo si esprime a tratti nei libri di osservazione psicologica non vincolata alle esigenze di uno schema narrativo (Gli amici, Sull oceano, La carrozza di tutti): collezioni di ritratti, di macchiette,

di riflessioni argute e disinvolte, se non profonde, limpide e assennate. Il suo stile é chiaro e fluido, attento e preciso, ma con scarso vigore e corto respito, sbandato e senza presa sulle cose e sui problemi; cosi come la sua commozione é schietta, ma breve, inetta a

sostenere l’impegno di un’attenzione rigorosa e ferma, e proclive piuttosto agli abbandoni dell’enfasi sentimentale e piagnucolosa. Accanto al Cuore, Valtro libro per ragazzi che incontrd ed incontra tuttora, anche

fuori d'Italia, una grandissima fortuna

é il P7-

nocchio (1883) di un altto manzoniano, il CoLLop1 (Carlo Lorenzini, 1826-90): ed é@ un libro di qualita pit fine, di pit ilare fanta-

sia, di pid ricca, se pur dissimulata, sapienza psicologica. Il racconto vi @ vivo e alacre, verissimo nei particolari, gustoso nel fiabesco, con-

dotto da capo a fondo con un ritmo pieno senza soste né deviazioni.

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7, Narratori fra la « scapigliatura » e il verismo.

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Nell’ambiente milanese, l’erediti manzoniana, attraverso l’esperienza confusa ma ardente della « scapigliatura », tende,

al iffuori di ogni preoccupazione strettamente linguistica ¢ grammaticale, ‘a sottolineare l’esigenza di una rappresentazione realistica, adeguata al tono grigio e un po’ triste di una — societa, che ha perduto di vista gli ideali generosi ma un ~ poco astratti del periodo risorgimentale, di un mondo senza — epopea, in cui salgono in primo cies gli stimoli e 1 contrasti economici, le necessita oscure del vivere quotidiano, e con esse i conflittl e i turbamenti, non vistosi né eroici, delle anime semplici, che operano nell’atmosfera di uno squallido

e duro costume borghese. Del Manzoni sopravvivono il proposito di una letteratura cordiale ed aperta, l’attenzione nuova e quasi esclusiva alla psicologia degli umili, le ragioni morali ed educative. E all’influsso manzoniano si sovrappongono gli esemplari del romanzo francese (da Balzac a Zola), le ambizioni in senso realistico ¢ gli spiriti ribelli, tormentati dalla « scapigliatura » In questo clima letterario si formano, oltre i veristi propriamente detti (Verga, Capuana), altri scrittori che in vario modo, e con procedimenti pit eclettici, riflettono ancor essi quella trasformazione pro-

fonda degli spiriti e¢ quel bisogno di verita e nudita della rappresentazione artistica. Li nasce la narrativa opaca e moraleggiante, ma aon priva di un suo valore documentario per quel tempo, del sardo SALVATORE FARINA; li si svolge, con le sue varie vicende, l’attivita teatrale di GIUSEPPE GIACOSA; li incontrano la loro rapida e vasta

fortuna i romanzi del bresciano GIROLAMO ROVETTA (1851-1910), oggi troppo dimenticati o disprezzati dai lettori di gusto sopraffino, e invece estremamente significativi per chi voglia rendersi conto di certi aspetti predominanti,

anche polemici, della cultura e della so-

cieta borghese italiana in quegli anni. Il Rovetta é un narratore grossolano; la sua arte manca di finezza e la sua analisi psicologica non scende in profondita; ma in pochi scrittori é cosi forte, come in lui, l’ambizione di costruire una commedia umana di tipo balzacchiano,

di dar rilievo alle ragioni economiche del vivere sociale, di registrare i contrasti e le miserie segrete della vita politica; pochi hanno sentito,

come lui, l’esigenza della satira, della rappresentazione oggettiva

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insieme aggressiva, spregiudicata, di un costume in tuttii suoi particolari, e fin nelle minuzie.

Nel clima della « scapigliatura » e del verismo nascente sera formata anche l’arte del milanese EMILIO DE MARCHI 1851-1901), che occupa un posto importante nella storia

ella narrativa italiana della fine dell’Ottocento. L’intenzione morale ed educativa, o per meglio dire il senso vivo e concreto: dei problemi morali (trasportati nel quadro della vita correnté d’ogni giorno, adattati a uno spirito di buon senso casalingo), lo studio della lingua e dello stile semplici e familiari, l’equilibrio degli elementi di rappresentazione e di riflessione, perfino certi giri di frase e movenze sintattiche ci

riportano, nei suoi libri, al grande modello dei Promessi spost. Ma la concezione della vita, nelle migliori novelle e nei ro-

manzi pit maturi del De Marchi (Demetrio Pianelli, Arabella, Giacomo Videalista) & pik povera pet un verso, meno

complessa e solenne che non quella del Manzoni, e per un altro verso pit triste e tormentata. Tutti i suoi personaggi pit caratteristici sono dei vinti, che al mondo duro e prepo-

tente e alla.violenza distruttiva delle passioni non sanno opporre altro se non una rassegnata e umiliata bonta, un’inesauribile

capacita

di sacrificio, una

sensibilita intensa

ma

schiva ed umbratile. IL De Marchi raggiunge alcuni dei mo“menti pit alti della sua arte nelle pagine appunto di intonazione pit intima e insieme dimessa, di una malinconia profonda, ma contenuta. Vero é che in quel suo modo pacato,

un po’ lento e pedestre, di ritrarre i drammi segreti dei cuori semplici si insinua un tormento, un fuoco segreto, uno spunto ribelle, che gli viene dalla prima educazione « scapigliata », e da ai suoi racconti un lievito e un movimento poetico mo-

derno. Le pagine pit ricche, se pur variamente segnate dalla potenza dell’arte, sono nei suoi libri sempre quelle in cui prende rilievo, quasi facendo forza al ritegno e al pudore dello scrittore, questo fermento inquieto, questa urgenza di disperazione e di annientamento: nel Demezrio, le ultime ore

di Cesarino suicida, ritratte in poche pagine dense e precipiti, con um senso di opaca fatalita senza tragedia; in Arabella,

capitolo febbrile e allucinato della fuga di Celestina. ‘

Il fermento romantico é pid scoperto, anzi ostentato, ma anche pid superficiale, in un altro narratore, il faentino ALFREDO ORIANI (1852-1909), la cui esperienza si svolse un po’ in disparte, solitaria e spaesata, nel quadro della letteratura contemporanea. I suoi primi racconti sono caratterizzati dall’intervento di una fantasia truce ed eccitata, da uno spirito anarchico distruttivo antisociale; e nei modi A vistosi, di un barocco un po’ grossolano, della scrittura, rivelano |’in-

flusso dell’Hugo e pit ancora del Sue e di aliri romanzieri francesi d’appendice. Romantica

in senso

deteriore @ la struttura stessa, ri-

sentita, della sua personalita: la prepotente affermazione dell’io, che si accompagna a una coscienza di solitudine al tempo stesso scontrosa e amareggiata; la mescolanza, che é spesso confusione, di tendenze

artistiche, filosofiche e pratiche. Anche nei suoi romanzi migliori {La disfatta, Gelosia, Vortice, Olocausto) persiste sempre, pur nella severita e nobilta cresciute dell’intento realistico, qualcosa di spro-

porzionato e di falso, di enfatico e di declamato. La parte pit significativa dell’opera di Oriani @ piuttosto nei libri di riflessione sto-

rica (La lotta politica in Italia) e di polemica civile (Fino a Dogali; La rivolta ideale): qui @ infatti la ragione della sua effimera fortuna di scrittore e precorritore per molti aspetti del torbido indivi-

dualismo e delle tendenze nazionalistiche e imperialistiche delle generazioni del primo Novecento 2).

8. Verga e il verismo.



Nell’ambiente

milanese,

fervido, come s’é visto, di esperienze e di discussioni, e nel qa meglio che altrove era profondamente sentita l’esigenza una letteratura moderna nel contenuto e nella forma, si *) Gli elementi romantici della « scapigliatura » operano anche in un altro narratore di-secondo piano, il torinese EDOARDO CALANDRA

(1852-1911), la cui esperienza si svolse ancor essa in disparte e con scarsa risonanza fra i contemporanei. Nel suo maggior romanzo

(La

bufera) e nelle sue novelle, che attingon la materia all’aneddotica storica del Piemonte settecentesco, si vede soprattutto il raccoglitore e il rievocatore

affettuoso di antiche memorie;

sco e sensibile ai grandi temi

uno

spirito cavallere-

patetici e letterari dell’amore, del do-

lore, della fede, del sacrificio, fat morte.

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elabora anche la dottrina e la pratica del verismo, e cioe del movimento culturale-letterario, che a quell’esigenza vuol dare la risposta pil coerente, la pith chiara e decisiva, la pid adeguata al grado raggiunto dall’evoluzione del gusto europeo contemporaneo. Sulla poetica del verismo esercitarono un influsso certo imodelli del grande realismo narrativo inglese e russo, conosciuti per vie pit. o meno indirette e malsicure, e

pit d’ogni altro |’esempio vicino del romanzo d’osservazione e naturalista francese (e Flaubert a Daudet, ai De Goncourt, a Zola).“Ma non meno evidente é la continuita e spontaneita

del processo, che lega il verismo di Verga e Capuana, attraverso la polemica della « scapigliatura », ai motivi antilette‘rari e antiumanistici della rivoluzione romantica manzoniana.

D’altra parte, per intendere la mutata

atmosfera in cui si

svolge l’esperienza veristica in Italia e fuori, e per cui diversamente satteggiano e si coloriscono, rispetto ai romantici, la sua esigenza di arte viva, la sua antiletteratura e la sua tendenza antiumanistica, si deve tener conto di due fatti imortanti: e cioé la nuova concezione filosofica diffusa, il

trionfo delle dottrine positiviste, il culto della scienza da un lato (che

penetra anche nella letteratura e nella critica lette-

raria), é€ dalbalere lato l’urgenza con cui s’'impone dapper-

tutto, nella lotta economica e politica e sul terreno della cultura, la questione sociale. Anche per i veristi, come gia per i romantici, la letteratura

rimaneva strumento di conoscenza e diffusione del vero; persisteva nel proposito di rendersi sempre pit largamente accessibile, See

« popolare »; ma la materia della rap-

presentazione si ampliava e si approfondiva, portando alla -ribalta una sostanza finora intatta di sentimenti e di istinti, di fatti e di documenti, non di rado al limite estremo dell’umano e dell’esprimibile. Delle varie correnti cultu-

rali ed artistiche nate dalla dissoluzione degli ideali romantici — talune delle quali approdavano al rifugio di un estremo: individualismo e di una sterile anarchia, altre alla

nostalgia delle vecchie forme idoleggiate come un luminoso ¢ perduto paradiso di pace e di armonia estetica —, il natu-

ralismo era dunque quella che meglio di tutte aderiva allo

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‘slancio vitale, al ritmo progressivo della storia,

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quella che

raccoglievalaparte pil positiva e feconda dell’eredita roman-

af ; tica per trasmetterla alle generazioni future. — come proporsi doveva verismo il In Italia, in particolare, il frutto, pi maturo, in letteratura, del ripiegamento riflessivo che tenne dietro al moto del Risorgimento, nell’ora in cut

si rendevano chiare agli occhi di molti le insufficienze della

rivoluzione testé compiuta, il parziale fallimento delle spe-

ranze vagheggiate, l’instabile equilibrio dell’unita raggiunta

con mezzi in gran parte estermi, provvisori, effimeri; la so-— pravvivenza, sotto la vernice della democrazia e della liberta, di una struttura politica essenzialmente burocratica e poliziesca, inetta a ae una vera solidarieta delle forze sociali

diverse, a sanare il conflitto fra il nord e il sud della penisola, a immettere nella vita dello stato, come elemento attivo e partecipe, le plebi meridionali soffocate dalla miseria, dallignoranza e da un’inveterata consuetudine di rapporti feudali. E percid da noi il verismo doveva assumere quel colore

speciale, che lo contraddistingue nel quadro di un’esperienza

europea: colore regionale e dialettale, primitivo ed epico, che

naturalmente accompagnava la scoperta e l’illustrazione di un mondo pressoché vergine e ignaro, il mondo del meridionale e delle isole, delle plebi contadine e artigiane, chiuse nella loro opaca renitenza alle forme e agli statuti della civilta. moderna, affioranti dal buio di una civilta arcaica e stranamente sopravvissuta dietro le barriere di una secolare solitudine. Il verismo italiano ha d’altra parte rispetto ai suoi modelli francesi ed europei, una minore popolarita, un carattere di esperienza pit solitaria ed aristocratica, che dipende dal persistere in Italia, e specialmente nel sud, e nelle isole,

di una frattura pit grave e profenda fra l'intelligenza dei pochi e la cieca e muta desolazione dei pit. Il verista italiano

rimane, in sostanza, il gentiluomo che si piega a contemplare

con pieta sincera, ma un tantino condiscendente, la miseria

morale e materiale in cui le plebi sembrano immerse senza speranza di salvezza in un prossimo futuro; laddove il verista europeo ritraeva un mondo, che era anche il mondo suo, con

il quale aveva in comune una volonta positiva d’azione e di

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E progresso, un patrimonio vivente di aspirazioni, di idee, di

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_ parole. Egli trovava intorno a sé, gid fatto per dir cosi, il suo linguaggio; mentre al verista italiano era d’uopo foggiarselo, risolvere !’assurdo problema di mettere in carta, in patole, quel silenzio chelo circondava.

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La poetica dei veristi deve essere studiata nei saggi, assai notevoli

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per chiarezza di idee e buon gusto di giudizi, del Capuana, e nelle scarse ma nette e vigorose formulazioni teoriche del Verga, se si

vuol rendersi conto sia della consapevolezza con cui essi si inseriscono nella linea di una tradizione di letteratura, aliena da ogni _ improvvisazione e da ogni brusca frattura, sia dell’influsso potente e vasto, per quanto sotterraneo, che essi dovevano esercitare sugli _ svolgimenti posteriori della snarrativa e del teatro italiano fino ai nostri giorni. Uno dei canoni essenziali di questa poetica é anzitutto il primato della letteratura oggettiva, narrazione o dramma, senza intrusioni liriche 0 autobiografiche: il romanzo é «la pil completa e la pitt umana delle opere d’arte », escludere ogni intervento personale dello scrittore, risolvendosi nella purezza degli elementi figurativi: dialogo e paesaggio. Il punto di partenza dello scrittore sara «lo studio del vero, come direbbero i pittori », la scelta e l’inquadratura del « documento umano »; quindi lo sforzo di ricostruire con precisione oggettiva, scientifica, il processo dei fatti, non dall’esterno, ma aderendo intimamente alle ragioni necessarie, naturali, di esso;

e infine il ritrovamento di un linguaggio che si adegui in ogni punto a questo studio dal vero, che si spogli di ogni residuo accademico e convenzionale, che faccia parlare i personaggi con la loro lingua, e non con quella astratta dell’autore, e illumini le cose con la lin-

gua stessa e allo specchio dei sentimenti dei personaggi. Allorché si siano ben

compresi

questi

principi

fondamentali,

si intendera

senza sforzo l’insistenza con cui il Verga e il Capuana ripeterono, derivandolo dal Flaubert, il canone dell’impersonalita dell’opera _d’arte, che non significa adesione materiale al documento, si soltanto eliminazione dell’autobiografismo e delle indebite incrostazioni liriche ed oratorie; e la loro fiducia nel metodo naturalistico e scientifico, in cui si esprime l’umilta dell’artista, il suo rigore, la sua coscienza morale, il rifiuto dell’improvvisazione e delle deformazioni propa-

gandistiche. GIOVANNI

VERGA

nacque a Catania, il 2 settembre

1840, e tra-

scorse l’infanzia e la prima giovinezza in Sicilia: fin d’allora si esercitava in un’attivita giornalistica e componeva romanzi storici sulle orme di Dumas

padre (J carbonari della montagna; Amore e patria;

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Sulle lagune). Dal 1865 al '71 visse a Firenze, dove trové il Dall’On-

garo che lo introdusse nel mondo letterario e inizid !’amicizia strettissima col Capuana: son di quel tempo Una peccatrice e la popolaris- _ sima Storia di una capinera. Nel '72 passato ad abitare a Milano, vi — rimarra, salvo brevi intervalli, fino al ’93; @ questo il periodo pit importante della sua vita di uomo e di scrittore; allora egli viene

in contatto con l’ambiente letterario pit vivo dei tempo, stringe amicizia col Massarani, col Farina, col Boito, col Praga, col Gualdo, col

Giacosa, col De Roberto; partecipa nei salotti e nei caffé alle discussioni e alle polemiche delle varie tendenze, incomincia a maturare, in collaborazione col Capuana e col critico Felice Cameroni, le idee

nuove che approderanno ben presto alla poetica del verismo. Dopo alcuni romanzi, in-cui il proposito dell’osservazione psicologica realistica si intorbida per il sopravvento di un inquieto autobiografismo romantico (Eva; Tigre reale; Eros), da nel '74 con Nedda il primo racconto d’ambiente siciliano e il primo saggio del suo nuovo orien- —

tamento artistico, Trovata la sua via, scrive in un breve giro di anni quasi tutti i suoi capolavori: la silloge di racconti Vita dei campi (1880), i Malavoglia (1881), le Novelle rusticane (1883), il Mastro-don Gesualdo (1889), il dramma Cavalleria rusticana (1884). In tutte queste opere domina il paesaggio siciliano e l’attenzione alla — vita degli umili: contadini, pastori, pescatori, piccola borghesia di

provincia. Ma la fantasia del Verga é ben lungi dal rinchiudersi di proposito nel ristretto quadro di una letteratura regionale: anzitutto i due maggiori romanzi s’inquadrano nella sua mente in una tela di proporzioni assai piu ambiziose, la storia dei « vinti », « una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro e all’artista, e assume tutte le forme, dalla ambizione al-

lavidita del guadagno, e si presta a mille rapprésentazioni del gran gtottesco umano »; e inoltre quasi nello stesso tempo egli s’accosta, nei racconti Per le vie (1883), e in Vagabondaggio (1887), all’esistenza derelitta della plebe cittadina e delle creature traviate e sradicate; tratta nel Don Candeloro e C. (1894) con un animo tra affettuoso e grottesco la vita dei guitti; ritorna, col romanzo I/ marito di Elena (1882) e coi Racconti del capitano ad’Arce (1891), alla psicologia mondana e raffinata dei suoi primi libri, ma con finezza e arte senza paragone pit maturi; tenta infine, con Dal tuo al mio (nella duplice redazione drammatica e narrativa, 1903-905), una forma d’arte pil propriamente sociale, con la fappresentazione realistica dei conflitti di classe. Dopo il 1905, quando gia la sua vena

mostrava pet molti segni d’essersi involuta ed in parte esaurita, il

Verga sf chiuse nel silenzio e si ridusse a una vita di benestante sfac-

-cendato nella sua Catania, dove la morte lo colse parecchi anni pid tardi, il 27 gennaio del 1922. |

Scrittore antiletterario per natura, con scarsa grammatica

e anche pit scarsi legami con la tradizione altamente intonata della nostra prosa, il Verga giunse al verismo attraverso un

processo di maturazione abbastanza coerente e¢ rettilineo. _ L’adesione alla nuova poetica venne a coincidere con il mo- ©

- mento in cui egli eee coscienza delle ragioni pit intime e decisive. della sua vocazione, si liberava della zavorra di un'immaginazione sovrabbondante, violenta, proclive all’ap-

_ prossimativo, e ritrovava la sua vena, il suo linguaggio. Quella che si suol chiamare la sua esperienza romantica e « scapi-

gliata » (da Una peccatrice a Eros) @ pid popes un lungo tirocinio in margine alla letteratura ufficiale, su un piano minore, cronachistico e documentario, dove le cose, i

fatti, la singolarita e il rilievo delle situazioni psicologiche _.contano

sempre molto di pit dell’elaborazione artistica al-

quanto sommaria. Ad ogni modo, gia nei primi romanzi, la violenza del contenuto passionale, e pit ancora il realismo di certi ambienti e situazioni borghesi, fanno presentire la novita dello scrittore. Molto prima d’aver trovato una forma,

uno stile suo e riconoscibile, il Verga era uno che aveva una sua umanita da esprimere, una sostanza viva di affetti e di

vicende da raccontare. Quanto al modo di raccontarla, po-

teva per allora contentarsi di un gergo giornalistico informe, in cui la rettorica va a braccetto, come suole, con la sciatteria.

Comunque egli si teneva lontano sempre dall’accademia, non peccava per corruzione d’arte, bens? rimaneva al di fuori e al di sotto dell’arte, sul piano di un mestiere onesto e non

_sgradito presso un certo pubblico di gusto facile e non schizzinoso. Non risulta che tenesse a portata di mano, né allora né poi, i classici; i suoi autori erano

1 romanzieri

popolari

italiani.e francesi (Dumas, Feuillet, Guerrazzi, Dall’Ongaro,

la Percoto). Pit tardi, insieme con le amicizie degli « scapigliati » e dell’ambiente letterario milanese, dei critici e teotici del verismo, sopravvenne anche la scoperta del romanzo

francese moderno, da Balzac a Maupassant, da Flaubert a 45, —

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Disegno

stor.

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Zola; e allora, sempre tenendosi a debita distanza dalle acca-—¥,

. 7 demie e dai cenacoli estetizzati, e senza deporre la sua fortu-

nata ignoranza della tradizione illustre, Verga veniva a contatto d’un balzo con una letteratura che, per essere in tutto

valida e degnamente accolta nel regno dell’arte, non rinun-

ziava pero ad esser viva e contemporanea, sostanziata di documento e di cronaca, tale insomma da poter offrire anche

ad un uomo come lui suggerimenti e spunti preziosi di conte-_ nuto e di tecnica narrativa. Ad ogni modo, fin da quando scriveva la Storia di una capinera, Verga era ben lontano | dall’obbedire consapevolmente a una vena di languido e fan-

tastico sentimentalismo, si documentava con cura sui parti- : colari della vita nei conventi e del folklore siciliano; e il ro-_ manzo al suo apparire fu lodato per la sua verita ed efficacia sociale. Del resto il proposito scientifico, di un’analisi psico-

logica oggettiva, ricompariva anche nelle prime pagine di Una peccatrice e di Eva, a conferma di un’esigenza costante e non mai dimenticata della poetica verghiana. Quel che oggi suona romantico in quei libri giovanili é una certa invadenza

_ autobiografica, un soprappil di giovinezza appunto, focosa, appassionata, esuberante, che intorbida e corrompe il rigore

dell’analisi, falsa e deforma i fatti e i personaggi, distrugge insomma quella « verita », che era nell’intento dello scrittore,

ma che non era prima di tutto nella sua stessa esperienza di uomo.

La conversione

e J’inizio

dell’arte

grande

di Verga

nacque proprio da una reazione intima contro questo fervore

giovanile: donde la dottrina dell’impersonalita, che era in

sostanza, come s’é gia detto, un ripudio dell’autobiografismo} e il rinnovamento del contenuto, che equivaleva al riftuto di una materia gia consunta e corrosa dal tarlo di una consue-. tudine della conversione

letteraria, si nascondesse una crisi.

semplicemente umana, di stanchezza e quasi di nausea nei!

confronti di quella societa di ricchi mondani, di gaudenti, di! spostati, di femmine oziose e frivole, che era stato fin allora: il mondo del Verga nell’arte e anche nella vita, reale 0 so-:

gnata che fosse. E lecito supporlo, perché una nota di uma-nita immediata si avverte nelle pagine iniziali di Nedda, che:

insistono appunto sulla sazieta dell’uomo, sul fastidio che ’ha preso di quelle esperienze ed esaltazioni di una fantasia lussuriosa, sulla nostalgia di una vita pit schietta e non fit-

tizia, quale risorgeva dal fondo perduto dei suoi ricordi casalinghi e paesani; e perché un’analoga intonazione, non meno

personale, ritorna

nella

novella

Fantasticheria

(specie di

preannunzio.e abbozzo sommario dei Malavoglia), dove anche la polemica esplicita contro la fatuita e l'incomprensione dei

ricchi ha tutta l’aria di essere anzitutto una polemica contro se stesso, contro il se stesso di ieri che ancora si ostinava a so-

pravvivere. Verga s’accostava insomma alla materia nuova degli umili e casalinghi affetti, con |’atteggiamento dell’uomo di mondo, che ha vuotato fino in fondo il calice di un’esistenza sterile e viziata, e se n’é distolto alla fine con ripugnanza, e ora si sforza di aprire nuove strade pit riposate e pit sane alla stanca fantasia, di placare, come diceva, « le irre-

quietudini del pensiero vagabondo.... nella pace serena di quei

sentimenti

miti,

semplici,

che

si succedono

calmi

e inalterati di generazione in generazione ». Nel Verga vita ed arte procedono

sempre

strettamente

congiunte

e inter-

ferenti: e la conversione doveva essere al tempo stesso una conquista di verita poetica e di serieta morale. Resta il fatto che la sua adesione a quella nuova materia di vita pid genuina e pil pura avveniva pil per contrasto che per maturazione spontanea, non per un incontro naturale, ma per

un processo di stanchezza e di ripiegamento. E si trattava ercid di un’adesione insieme intima e distante, necessaria ed instabile, che stentava comunque a farsi subito piena, immediata e cordiale. C’é qualcosa di voluto, almeno inizialmente, nell’arte nuova del Verga, che risponde a quell’esi-

genza polemica di liberazione, di purificazione morale e arti1

stica. Di qui quel che di troppo secco s’avverte talora nella rappresentazione di certi conflitti elementari di passioni, cui lo scrittore assiste, senza parteciparvi, come ad uno eee avvincente ed assurdo; di qui il ritornare abbastanza frequente di un’ironia sdegnosa, che accentua e sottolinea il distacco dello scrittore dalla materia un tempo idoleggiata; di qui

infine quel tanto di puntiglioso, diret di ascetico, che carat-

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ped. a:

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terizza la lingua e lo stile, specie nelle parti pit stanche del. | ‘opera maggiore del Verga, come per uno sforzo dicancellare ogni traccia della rettorica sentimentale, di cui aveva altra volta abusato. Nelle pagine pit stanche, dico: perché

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nei Malavoglia, nel Mastro don Gesualdo e nei tacconti pid belli di Vita dei campi e delle Rusticane, lo scrittore mostra

Rae ne seg = a a

di avviarsi a possedere sempre pit intimamente il suo contenuto fantastico: e solo resta fra di lui e i suoi personaggi— quel limite non eliminabile di superiorita intellettuale ed etica che gli era imposto dall’educazione, dal temperamento ~ e soprattutto dalle condizioni storiche; quell’atteggiamento | contemplativo ed aristocratico, che é@ di tutto il miglior ve- —

Ci

rismo italiano, e del Verga, in special modo, e che circoscrive la misura dell’immediata popolarita di quell’episodio letterario. Quella conquista di una moralita pid schietta e pura, di un mondo poetico non pit disperso e svagato per le mille

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strade di un’immaginazione torbida e viziata, bensi retto da

leggi ferree e severe, radicate nella consuetudine di una vita quotidiana, aderenti alle nozioni istintive di una societa primordiale (la religione del nucleo familiare, la norma duramente economica delle relazioni sociali, l’esigenza della giustizia anteriore a tutte le forme giuridiche, la liturgia del costume consacrato nelle formule, nei proverbi, in tutto il

complesso rituale che sottolinea il ritmo immutabile delle opere e dei giorni); quella conquista di una realta tanto pit,

cara quanto pil semplice e non artefatta, era per Verga anche un assiduo sforzo di riprender possesso della sua natura pit

profonda e segreta di provinciale inurbato, ma solo par-

zialmente corrotto dagli usi di una civilta tutta fatta di convenzioni, di formalismi, di paura e di rispetti umani; di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia € riprender contatto con la sua terra. Alla quale

egli ritornava con !’animo del figliuol prodigo, come all’unico bene che ancora gli rimanesse, intatto e solido dopo tanta

dissipazione, bene vicino e tangibile, eppure indecifrabile e

remoto come un miraggio, come I’ideale oggetto di una suprema e gia disperata nostalgia. Riveduti cos} nella luce della

memoria, in quell’alone di misterioso silenzio che li ricinge, in quell’atmosfera di stilizzata liturgia, sullo sfondo di una natura ostile e tirannica come una divinita imperscrutabile,

i contadini e i pastori, gli uomini del mare e delle terre bruciate dalla lava e avvelenate dalla malaria, di cui adolescente

aveva visto o udito narrare le gesta nelle campagne di Viz-_zini, di Tébidi, di Trecastagni o tra le scogliere di Aci Trezza,

risorgono con una grandezza e una maesta che é il segno della loro qualita poetica, e suscitano intorno a sé, con ogni loro gesto e con le rare parole, un’aura di trasognata epopea. Il che non toglie nulla alla loro realta e alla verita minuta, e documentata in ogni particolare, della rappresentazione. Solo che ogni vicenda, anche minima, della loro esistenza di tutti

i giorni attinge, in virth di quella disposizione nostalgica dello scrittore, al valore di un simbolo, si innesta in una

trama di leggenda. E i paesaggi e i personaggi di quel mondo poetico, il pastore Jeli, il pescatore padron ’Ntoni, il garzone di miniera Rosso Malpelo, il capomastro arricchito Gesualdo, restano « veri », con un loro preciso contenuto documentario, € pure immersi in un’aura di remota favola, quasi in una civilta senza tempo e senza storia. Anche i particolari satirici,

sarcastici, caricaturali (negli episodi e figure di secondo piano dei due maggiori romanzi), gli spunti drammatici o idillici, le acerbe note polemiche, onde s'intesse la complessa trama di

una fantasia che ha assorbito senza parere un infinito tesoro di esperienze, non. creano fratture e dissonanze perché tutti

alla fine confluiscono a comporre quell’atmosfera corale, lo sfondo su cui campeggera e prendera risalto la tragedia dei

protagonisti. Cosi la potenza fantastica dello scrittore, stimolata e sorretta dalla sua fedele e accorata nostalgia, scopre e inventa, in quella materia realissima di paesaggi e figure

familiari, un intatto patrimonio di poesia. E la Sicilia di Verga é veramente la Sicilia, quale si rivela all’occhio di ogni viaggiatore attento e non frettoloso, e al tempo stesso lo specchio della sua dura serieta morale, il panorama della sua desola-

zione e della sua amara pieta. Attraverso il verismo Verga tenta insomma e raggiunge una sorta di liberazione poetica,

lirica, imprevedibile e tutta sua. Ma la forza di questa poesia

@ proprio in quel suo attingere e aderire a una materia reale,

densa di contenuto morale e di esperienza concreta, con un suo sapore terrestre e riconoscibile, con il suo peso di umana sofferenza, di mortificato lavoro, di lotta quotidiana per il pane, che le conferisce, oltre l’arte, un valore di documento

insostituibile per la storia di un popolo. Solo in quella luce di poesia d’altronde egli poteva ricomporre nell’armonia del-

l’arte quel suo mondo senza scampo e senza speranza, deso-

lato e intristito, nel quale egli aveva fin dal principio proiettato quel suo prepotente lirismo (fattosi con gli anni sempre pid discreto e ritroso), ritrovandovi alla fine ancora una volta se stesso, con la propria chiusa yey ela prope rinunzia, e la

totale assenza d’ogni fede, che fosse capace di rinfrescare davvero le radici della vita e di lottare e vincere contro il destino. Ché anzi, mentre la sua arte, maturandosi, dalle prime no-

velle alle Rusticane, dai Malavoglia a Mastro don Gesualdo (senza dimenticare il Don Candeloro, e le minori esperienze,

non sempre felici, ma sempre estremamente impegnative, di Per le vie, di Vagabondaggio, del Marito di Elena, di Dal tuo

al mio), si articolava in modi ognor pit vari e complessi, si snodava in un orizzonte pit vasto e differenziato, segnato di tratti pid duri, potentemente realistici, anche il suo pessimismo cresceva e s'incupiva finché prese un decisivo sopravvento e impose allo scrittore il lungo silenzio dell’inaridita vecchiaia. E poetica é anche la qualita della sua prosa nei libri pit grandi: quel lessico ritrovato alle sorgenti con uno strano sapore di arcaicita dialettale; quel discorso infittito di for-

mule e di proverbi, che richiama Omero e la Bibbia; quella sintassi scarna e povera, ma originalissima, segnata di musicali cadenze, con un ritmo di canzone di gesta; quella tecnica

del disegno e del colore, di un impressionismo primitivo e sommario, che ripete e varia all’infinito il suo gruzzolo di immagini e di toni; quel linguaggio di Verga, insomma, che

é senza dubbio, dopo Manzoni, e in perfetta coerenza con le

idee sulla lingua e lo stile della poetica verista, l’apporto pil nuovo e di pit alto rigore stilistico nella storia della nostra letteratura fino ad oggi. Novita di cui Verga si mostrava appieno consapevole, allorché, contro i critici fretto-

+

Rath

pSSota Oar:

L’ARTE DEL VER

a

‘ ae

_ losi e i grammatici pedanti, riaffermava la necessitd di una forma che aderisse dall’intimo alla materia nuova, svincolan-

dosi finalmente dalla « solita nenia delle frasi cullate da cinquant’anni ». E tuttavia la fecondita, su un piano storico-

culturale, di questa forma verghiana si misura, almeno per ora, in una stretta cerchia letteraria, di lingua scritta ad ogni modo, e non parlata. Resta un fattd piuttosto individuale che

sociale. Per il suo stesso atteggiamento pit contemplativo che partecipe, piu nostalgico che attivo, di fronte alla materia

popolare delle sue favole, Verga non poteva ripetere senz’altro il miracolo di Manzoni, inventare un linguaggio che fosse o diventasse immediatamente la parlata di tutti. Ancheda un punto di vista strettamente formale e espressivo, Verga rimaneva, contro ogni sua intenzione, un artista solitario, senza

il conforto e il sostegno di un ambiente congeniale. Venutogli meno il pubblico piccolo borghese dei romanzi giovanili, non gli era dato dalle circostanze di crearsi d’un tratto un pubblico nuovo, popolare. Il mondo delle sue fantasie interessava mediocremente i borghesi piccoli e grandi; e il popolo non leggeva né i suoi libri, né altri, e gustava se mai il dramma_ della* Cavalleria rusticana attraverso la musica facile e un po’ volgare di Mascagni. Ed é bello e nobile che egli non s’inducesse percid a tradire la sua missione, che accettasse con dignita, serbandosi

fedele al suo destino, di

rimanere fra i contemporanei un incompreso. Ma soprattutto resta importante che il suo poetico gergo si sia formato, fin da principio, fuor d’ogni accademia e contro ogni tradizione, su una base tutta viva, umana e paesana, scavalcando anche

l’esperienza manzoniana di una lingua comune borghese, per attingere direttamente alla sostanza antichissima e perenne, corposa e fantastica, di una parlata plebea: il che gli consente, a parer nostro, un margine illimitato nel futuro. Forse non

é lontano il giorno in cui, non pochi letterati di gusto rafhnato, si tutto il popolo d'Italia vorra riconoscere alfine un

classico in questo primo poeta e memorialista delle sue pene secolari. Mentre Jartificioso linguaggio dannunziano dopo aver servito all’effimera eloquenza delle parate, gia rivela la sua innata decrepitezza, mentre

é caduta gran parte anche

9. Altri narratori veristi.— Gli altri scrittori del verismo

stanno tutti molto al di sotto del Verga, sia come statura morale, sia

per potenza di rappresentazione artistica. Non pochi fra essi tut-

tavia sono scrittori di non comune levatura, con una loro personalita _ riconoscibile e un loro fervore, gid di per sé notevole, di interessi —

culturali e di travaglio espressivo. In essi il verismo a volte decade a semplice documento di costume regionale, elemento di pittoresco ¢ di folklore; ovvero nei pit si complica e s’intorbida, ma anche s’arricchisce, per l’apporto di altri motivi, che erano rimasti estranei al

Verga maggiore, e sfruttati in modo ancora sommario e su un piano

sentimentale dal Verga minore: penso soprattutto all’influsso della narrativa di analisi psicologica, o anche inglese e russa.

Questo si vede gid in LuiIcI CAPUANA (1839-1915), di Mineo, che piega la tecnica del naturalismo, del « documento umano », a trattare, per esempio, nel romanzo Giacinta e nelle novelle Appassio-

nate, argomenti di complicata e ambigua casistica psicologica; mentre nelle Paesane riprende i temi del paesaggio rusticano e dei conflitti elementari di passioni, con una curiosita assai pit documentaria che poetica; e perfino ad un certo momento si volge a ricavare, da quel

patrimonio di folklore pittoresco, felici motivi di fiabe e bozzetti per bambini. Il Capuana ha un’intelligenza lucida e ferma, una curiosita vivacissima e aperta a tutti i problemi, ma senza calore, senza

lievito poetico. I suoi libri rimangono come documenti, studi, indagini penetranti e condotte con finezza e non comune rigore di costumi ¢ situazioni psicologiche; non propriamente come opere d’arte. Anche nel tomanzo

I/ marchese di Roccaverdina,

che @ la sua opera

pit felice e di pil tenace impegno, e quella in cui meglio riescono a fondersi ed equilibrarsi i motivi di pittoresco e di costume dell'ambiente

siciliano

e il gusto dei temi

psicologici

ardui e sottili,

la vicenda tragica, potentemente immaginata, non trova per altro il suo ritmo giusto, non raggiunge una sufficiente concentrazione drammatica, rimane un po’ esterna e sommaria, e la stessa figura nuova

interessantissima

¢

di Agrippina, l’amante-schiava, @ piuttosto abboz-

zata che scolpita, non arriva alla pienezza dell’immagine e alla con-

creta evidenza del carattere poetico, ma é quasi lo schema di un’im-

magine carica di elementi suggestivi e poetici non appieno sfruttati.

Cé pit calore e pid istinto nei molti, troppi, libri di MATILDE

SERAO, nata a Patrasso, di padre napoletano, nel 1856, e vissuta poi

el a IOS

:

Bee)

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eure,

;

quasi sempre a Napoli fino al 1927. Figlia e moglie di giornalisti, al giornalismo la Serao si dedicé anch’essa fin dalla prima giovinezza con abilita e con fortuna; e molta parte della sua attivita pit pro-

priamente letteraria ha l’aria infatti di venir fuori dagli appunti e schizzi di una cronaca un po’ improvvisata, ma vivace e pittoresca.

Nei suoi libri migliori (i bozzetti Piccole anime; il Romanzo della fanciulla; Fantasia; La virti di Checchina; La conquista di Roma; Il

ventre di Napoli; Il paese di cuccagna, ecc.), la scrittrice dipinge la vita e gli ambienti del popolo e della piccola borghesia napoletana e romana, con una fedelta e un’evidenza di immagini e di tinte, con una simpatia intenerita e cordiale, con una finezza d’intuito psicologico tutto femminile, applicato alla minuzia, all’episodio, i quali

tutt’insieme caratterizzano il suo particolare verismo. Un verismo di portata assai pid angusta e limitata a paragone di quello d’un Verga, e anche d'un Capuana, che nasceva da complesse ragioni morali e tendeva, soprattutto nel primo, alla trasfigurazione simbolica e poetica; un verismo aneddotico e cronachistico, tutto impressione e colore e commozione istintiva, con radici culturali scarsissime e limitate virti di illuminazione fantastica, in uno stile alquanto frettoloso e approssimativo, che, dove non aderisce strettamente alle cose viste con una precisione e un’abbondanza talora soverchia di notazioni,

tende quasi subito a precipitare nel falso o nel generico. In questo ambito di letteratura regionalistica, documentaria e aneddotica, sarebbero da ricordare molti altri scrittori: quasi ogni regione d'Italia ebbe allora il suo interprete e illustratore attento ed affettuoso. Cosi, accanto alla Serao, si posson citare i Racconti calabresi

di NIcoLA MIsasI; e quelli di vita piemontest, intonati a un gusto pit bonario e un po’ arcaico, di ACHILLE GIOVANNI CaGNa. Una fisionomia pit distinta e singolare ha la letteratura regionalistica toscana. Solo negli ultimi anni si é riscoperta e collocata al posto che le spetta l’arte di un Pratesi, che di quella letteratura é il rappresentante pit dotato e significativo. Nato a Santa Fiora (Monte Amiata) nel 1842, morto nel 1921, MARIO

PRATESI esprime nelle sue opere

una concezione dolorosa e severa della vita umana, temperata da una fede profonda e in quegli ideali di giustizia del Risorgimento, che avevano accompagnato e sorretto gli inizi della sua formazione di uomo e di scrittore. Il mondo, che rivive nei suoi libri migliori (i romanzi L’eredita e Il mondo di Dolcetta; \e novelle In provincia) @ quello dei contadini della campagna senese (dove egli aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza), realisticamente ritratto nelle sue miserie, nelle sue debolezze e nelle sue virti, negli urti e nei contatti inevitabili con le forze corrosive e¢ malefiche del costume cittadino

¢ borghese. Per questo rifarsi con predilezione a una materia provinciale e di umili personaggi (che é poi anche un ritornare nostalgico all’intimita e alla purezza delle prime memorie: si veda soprattutto il lungo racconto Memorie di Tristano), per il modo realistico ¢ drammatico della rappresentazione, per !'attenzione ai problemi sociali e l'inquieta polemica contro il mondo corrotto e artefatto della citta e della ricchezza, per la concezione stessa che la regge di una necessita dolorosa e crudele, la narrativa del Pratesi ha qualcosa che l’accosta al Verga, sebbene da lontano, in un’atmosfera pid chiusa

e squallida e pit povera. una

Oltre il Pratesi, il solo fra i veristi toscani che si presenti con fisionomia ben distinta di artista € RENATO Fucini. Nato a

Monterotondo (Pisa) nel 1843, morto nel 1922, egli acquistd larga fama con due raccolte di « scene e macchiette »: le Veglie di Neri ¢ All’aria aperta. In queste opere la curiosita dello scrittore si atteggia ora nel senso della rappresentazione comica di un mondo paesano (e qui spesso la comicita inclina al caricaturale e al grottesco), ora invece nel senso della considerazione pietosa e accorata delle miserie e sofferenze del popolo (e qui, almeno dove la pieta non si diluisce nel sentimentalismo, il Fucini raggiunge i suoi risultati migliori). Di lui si loda comunemente lo stile schietto e immediato, antiletterario; ma, a guardar bene, sotto quella disinvoltura apparente, non é difficile scoprire talora alcunché di manierato e di artificioso; quasi un residuo, attenuato e rammodernato, del vecchio gusto to-

scano di infilzare proverbi e riboboli. In qualche altro scrittore, che appartiene alla generazione successiva a quella del Verga e del Capuana, del Pratesi e del Fucini, ¢

che pure s’é formato in quel clima ed é@ mosso da quella poetica, il fondamentale atteggiamento verista assume aspetti pit variegati, si complica di nuove tendenze e di venature decadentistiche, preannunzia e introduce i modi della narrativa del Novecento. Un’irrequietezza di curiosita intellettuali, in un temperamento

in complesso freddo,

s'avverte gid nel De Roberto, con una curiosa mescolanza di leggerezza mondana e di nostalgie classicheggianti. Un pid oscuro fondo romantico, aspro e ribelle, lirico e musicale, vive nelle pagine mi-

gliori della Deledda. L’opera del napoletano FEDERICO DE. ROBERTO (1866-1927) ha piuttosto un significato storico e culturale, che non poetico. B note-

vole, in lui, soprattutto la fedelta, intesa in largo senso, agli spiriti

della civilt’ ottocentesca, il proposito consapevole di inserire le conquiste della nuova letteratura e della nuova tecnica nel quadro della grande cultura romantica. Sctivendo I Viceré, vasta e complessa cro-

ae

naca di vita siciliana nella fase di trapasso dal regno borbonico alYunita, egli tenta di riportare per dir cosi il verismo alle sue origini, € compone un vero e proprio romanzo storico, mescolando ed equilibrando lo scrupolo filologico del documento con un rigido ossequio al canone moderno dell’impersonalita. L’opera, che serba un suo

fascino per la grandiosita dell’intento e l’impegno dell’esecuzione vigilatissima e studiata in ogni particolare, difetta di calore umano, di intensita drammatica;

¢ pit uno

sforzo

che una

conquista sul

piano dell’arte; e conta soprattutto come esemplare estremo di dignita e severita letteraria in un’epoca gia proclive agli sbandamenti, alle svogliature, alle seduzioni artificiali o superficiali. Un valore pii genuino di poesia é da riconoscere ai molti romanzi della sarda GRAZIA DELEDDA (1871-1936), al di la dell’innegabile monotonia dei temi, della noia delle troppe ripetizioni e dell'incertezza stessa dei risultati espressivi. Fin dai primi libri (ed é tra i primi il pid bello: Elias Portolu), la tecnica verista, il folklore regionale furono per lei soprattutto un pretesto a sfogare, attraverso

il pittoresco decorativo e stilizzato del paesaggio e dei personaggi di un mondo primitivo e favoloso, la radice lirica e romantica della sua ispirazione, il fondo oscuro delle sue inquietudini di fanciulla assorta, ardente e ribelle. Un lirismo ingenuo, e non decadentistico : che tende a rapprendersi e condensarsi in figure morali, in spunti di parabole,

e si rispecchia nel fondo etnico di una concezione elementare della vita, nella moralita opaca e superstiziosa, pregna di ragioni religiose e magiche, della Sardegna pit arcaica e pid chiusa. Pit tardi, il fermento ribelle e irrequieto, che é l’elemento attivo vivace e stimolante della poesia della Deledda, si attenua e tende ad infiacchirsi nella

accettazione rassegnata di un ordine e di una legge etica abbastanza convenzionale, in cui si smorza e vien meno quell’impeto nativo.

10. 1 Fogazzaro. — Nella narrativa italiana dell’ultimo ventennio dell’Ottocento occupa un gran posto il nome del vicentino ANTONIO FoGAZZARO (1842-191 i} la cui esperienza si ricollega anch’essa al verismo, sia direttamente, nelle zone minori e periferiche della sua arte; sia indirettamente

e polemicamente, nella parte maggiore e pit vistosa, in quanto tentativo di contrapporre alla poetica dei veristi di un’arte nuova, idealistica e trasfiguratrice, ricca blemi e di complicazioni sentimentali che non. di fatti. Nei primi suoi scritti — il poemetto Miranda

il concetto pia di prodi cose e

(1874) e le

Ts

nz

wor

liriche di Valsolda (1876) — @ possibile riconoscere gli elementi della sua formazione letteraria: il romanticismo senti-

mentale aleardiano, il prosaicismo in versi di Betteloni, certe

irrequietezze della « scapigliatura ». Nei romanzi che segut-

rono — Malombra (1881), Il mistero d'un poeta (1888), Daniele Cortis (1885) — e nelle novelle (Fedele e altri racconti, Racconti brevi), gia s'incontrano i temi e le qualita della sua arte pil matura:

il gusto degli ambienti

aristocratici, dei

conflitti intimi che agitano le anime elette e i cuori sensibili; gli influssi della poesia romantica, specialmente straniera, inglese tedesca francese; il lirismo e l’ambiguita delle situazioni tra erotiche e religiose, infernali e paradisiache; la tendenza all’autobiografia; l’amore del vago, dello strano, del mistetioso; il cattolicesimo torbido e combattuto, incerto fra l’os-

sequio alla tradizione e alla gerarchia e un indefinito proposito di rinnovamento della liturgia e riforma degli istituti. Questi diversi elementi si compongono nella sintesi artistica del capolavoro, Piccolo mondo antico (1895), che doveva assicurare allo scrittore un larghissimo successo di critica e di pubblico, anche fuori d'Italia. Poi essi tornano a scindersi e a squilibrarsi, attraverso la dissipazione dei morbidi motivi sentimentali e sensuali e il crescente prevalere degli schemi ideologici, nei tre ultimi romanzi: Piccolo mondo moderno

(1900), I/ Santo (1906), Leila (1911).

Dotato di una sensibilita acuta e squisita, e a volte un po’

torbida e quasi patologica, tormentato da problemi religiosi e morali, che invano si sforzava di dominare riportandoli a

una matura coscienza filosofica, il Fogazzaro non giunse quasi mai a tradurre in forme di arte equilibrate e compiute |’indeterminato

fermento della sua vita affettiva, e spesso riusci

soltanto a complicarlo e guastarlo con la fastidiosa intrusione dei suoi, del resto sincerissimi, propositi teorici e polemici. Il nucleo pit vivo della sua personalita era un retaggio di gusto romantico:

il gusto del mistero, dell’ineffabile, del-

l'indefinito, del suggestivo, che

percorre tutta la sua opera di

romanziere, da Malombra a Leila Ad esso si sovrappone per

altro, in vista dell’accettata intenzione narrativa dailo scrittore, uno

spirito di osservazione

minuto

e un

po’ esterno,

{

*

4

macchiettistico e caricaturale, che risalta soprattutto nelle de-

scrizioni d’ambiente e nei ritratti dei personaggi di secondo piano. Assai di rado la tecnica verista di queste zone minori ed episodiche riesce ad accordarsi e fondersi col nucleo poetico pit personale di origine lirica e vagamente emotiva: di AS lo squilibrio e l’incerta struttura di quasi tutti i romanzi ogazzariani. Il momento di maggior equilibrio tra il fondo romantico e le esigenze narrative, realistiche e comiche, del suo

temperamento, il Fogazzaro lo raggiunse senza dubbio nel Piccolo mondo antico, dove gli spunti sentimentali e auto-

biografici, le ragioni ideali dello scrittore, la sua arguzia di osservatore acuto e bonario, e ricco di umore nei particolari,

si fondono in un’intonazione pacatamente nostalgica e quasi fiabesca, attraverso la rievocazione di un chiuso ambiente di

provincia, con il suo paesaggio molle e un po’ sbiadito, i suoi conflitti e drammi segreti e lo sfondo solenne, remoto e stilizzato delle nobili passioni del Risorgimento. Ad assicurare il successo dell’arte fogazzariana contribuirono senza dubbio la predilezione dello scrittore per gli ambienti mondani e raffinati, per le psicologie complicate e sottili, nonché la sua problematica religiosa e il suo conservatorismo politico, con cui assecondava i gusti tra moderati € irrequieti, timidi e avidi, della borghesia contemporanea. Ma nella storia letteraria il significato del Fogazzaro sta altrove: egli rappresenta la prima, ben chiara, rottura del mondo culturale e morale ottocentesco, della fede nel reale, nella scienza positiva, l’insorgere di una sensibilita perplessa

¢ decadentistica, la rivincita del lirismo e dell’inquietudine romantica. 11. Poeti in dialetto: Pascarella, Di Giacomo. — Anche la letteratura in dialetto, che riprende vigore in quella -rinnovata e diffusa attenzione alle particolarita regionali di costume, d’ambiente e di paesaggio, risente in vario modo

Vinflusso del verismo, che da una parte ne esalta le gia forti tendenze al realistico e al pittoresco della rappresentazione, dall’altra ne rinnova i temi costringendola a un’attenzione pit appassionata e cordiale alls vita della plebe, con le sue mi-

serie, le sue passioni, 1 suoi delitti, la sua vitalita energica e animalesca, elementare e incorrotta. Vero é che in questo

campo, pit che altrove, sopravvivono certi elementi di grettezza provinciale, di inerzia letteraria, certi schemi fissi del

comico pit meccanico e dozzinale. Molta parte di questa pro-

duzione @ scadente; ma non tutto é da gettar via. Si pensi, per esempio, a certe note pili amare e pietose dei sonetti pisani del Fucini; o a taluni accenti pit caldi ed intensi del napoletano FERDINANDO Russo. E fra gli scrittori in dialetto stanno anche, e non per un'indicazione meramente esterna e tanto meno casuale, un artista squisito e sottile: il Pascarella, e il poeta pit schietto, di pit calda e limpida

vena, di quegli anni: il Di Giacomo. -E l’'uno e I’altro maturano la loro arte in un ambito di

esperienze scopertamente veristiche. Nei primi componimenti del romano CESARE PASCARELLA (1858-1940) si avverte su_bito quella volonta di rappresentazione ferma, quel taglio sicuro, quell’evidenza di scorci drammatici; e la partecipazione umana del poeta, dolente e polemica, illumina tragiche visioni di cronaca quotidiana in una luce squallida e fredda sullo sfondo dei vicoli deserti e dei lividi paesaggi dell’Agro: Er fattaccio, La serenata, Er morto de campagna, Cose der monno, Li pajacci, Piccolo commercio. Ma c’é anche fin d’ora, nella tecnica densa del sonetto, nel modo d’attaccare e chiu-

dere e circoscrivere il racconto, fino in certi giri di frase, una scoperta bravura, un soprappit di abilita letteraria, che si accentua e domina nelle scritture posteriori, di maggior lena e di pit ambiziosi propositi: sia nell’epica intenzionale, ma

non sorretta da un’adeguata ampiezza di respiro, di Villa Gloria, o peggio della postuma e incompiuta Storia nostra; sia nel comico abilissimo e frizzante, ricco di trovate e di

arguzie, spassoso e pungente della Scoperta dell’ America; componimenti tutti in cui appunto campeggia la bravura delVartista, e il genuino istinto poetico non si ritrova pit con quell’impeto e quella pienezza dei primi sonetti. La tecnica e la materia dei veristi sono ancor pit evidenti nelle prime cose del napoletano SALVATORE D1 GIACOMO (1860-1934): nelle novelle in lingua. nel teatro, e anche

A

ts

nelle parti narrative e drammatiche del canzoniere (O Mznasterto, A San Francisco, ecc.). Li possiamo vedere il formarsi della sua arte, con i temi e quel tono che la definisce ¢ la isola fra le esperienze contemporanee, affine e pur dissimile; li i colori e le trame e le avventure del suo mondo

poetico: quegli ambienti plebei, e quegli aneddoti di malavita, quei cortili, quei vicoli, quei fondaci, quelle scene d’ospedale, d’ospizio, di prigione, quei tipi di vagabondi, di reietti, di donne

appassionate,

che torneranno

anche

nelle poesie

pit belle, sebbene con altro accento. Nel narratore si matura € nasce a poco a poco il poeta, che é il Di Giacomo pit vero. Anche i suoi sonetti, le sue canzoni, le sue ariette in

dialetto svolgono spunti e riproducono cadenze non nuove, adottano schemi e pretesti figurativi di un repertorio comune ed elementare: quadri di vita popolare, ritratti con colorito realismo; la commedia

e la tragedia eterna dell’amore;

la

melodia sospirosa delle canzoni di Piedigrotta; e quello sfondo di paesaggio, anch’esso in fondo senza novita: il mare fermo e turchino, l’aria dolce e profumata di primavera, il cielo d’oro dei tramonti, la luna bianca che sale nel cielo. Ma il lirismo, dello scrittore ¢ cosi intenso e immediato, che

rinnova di volta in volta gli schemi pit frusti, le materie pit trite, la metrica piu consunta. Con mezzi apparentemente poveri e monotoni, suscita figure, cose, ambienti, paesagsi, con ii loro colore e il loro sentimento, e pur immersi in un’aria nuova e trasfigurata. Sceglie le parole pia precise, le

pil vere e evidenti, e al tempo stesso le libera da ogni peso; le tratta, insieme con il gioco abilissimo e pur naturalissimo delle pause, delle spezzature, delle clausole ritmiche, dei r-

tornelli, come uno degli elementi di quella musica pura e incantata, verso cui tende e a cui si riduce tutta la sua poesia: un canto in cui il nucleo lirico si effonde con la sua forza

intatta, trepida, palpitante. Nessuna preziosita di cultura o sottigliezza di psicologia; nessun tema alto o complicato; nessun affetto, fra i tanti messi in scena, scrutato e sviscerato a fondo da un’intelligenza superiore; si invece un’immediata adesione e partecipazione quasi carnale a tutti gli aspetti pit

vaghi e fuggevoli delle cose, degli esseri, della vita senti-

+

Mh aioe

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mentale quotidiana. A volte questa tendenza alla musica, che é di tutta la poesia del Di Giacomo, sembra appagarsi in una —

musicalita un po’ esterna, un po’ facile, con un avvio di can-

meV

zonetta popolare; a volte si modula con una grazia un po’ ar- ;

ny: ae a

tefatta, con un sapore di virtuosismo e di gioco troppo squisito e compiaciuto nella sua incantevole puerilita, sulla scia di un’estenuata dolcezza e delicatezza settecentesca e meta-

ieee...

stasiana. Ma questo é il Di Giacomo minore, quando la sua — tenerezza espansiva si lascia prender la mano e decade in

LP

.

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ovvero

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sentimentalismo,

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sua musica é piuttosto riflessa e studiata che spontanea e si

2a

anni, l’arte del poeta s’é venuta sempre piu raffinando, sé

accade spesso) quando la

sorregge con gli espedienti di una virtu letteraria abbastanza gracile e perfino Tirateadteabas Ed é veto poi che, con gli fatta pit intima, pit leggera, pudica, con un impressionismo vibrante, una rapidita intensa di tocchi, un dono tutto nuovo, e attuale, felicissimo, di analogie e di corrispondenze, di armonie verbali e di accordi melodici. Marzo; ’Na tavernella; Dint’'a Villa; Arillo, animaluccio cantatore: poesie che sem-

brano nascere dal nulla e attingono a quella perfezione, a quella pienezza d’incantesimo, che é solo dei lirici grandi, attraverso l'immediata rispondenza dell’oggetto e del sentimento. Qui é il Di Giacomo vero, e uno dei poeti, come s’é detto, pit vivi del tempo suo; il pit schiettamente poeta anzi, per vocazione nativa, senz’ombra di complicazioni intellettuali ed estetizzanti. iY i Hn

12. Il teatro. — Per completare il panorama della letteratura ottocentesca, ci resta da fare un cenno del teatro, che anch’esso risente, pur nel suo ambito pit provinciale ed effimero e¢ nelle sue

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esigenze in complesso non profonde, della tendenza comune al rinnovamento in senso realistico dei contenuti e delle forme e, da ul-

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timo, della poetica naturalista e verista.

Solis oe

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Si proclamava a modo suo «verista» (e fin dal ’71) anche il romano PIETRO Cossa (1830-81), che pur dettava i suoi drammi (Nerone, Messalina, Giuliano I’apostata, I Napoletani del 1799, ecc.)

mientemeno che in endecasillabi: endecasillabi, per dire il vero, alquanto sciatti e prosastici. Ma il suo verismo consisteva soltanto in

una volonta di trascrizione dei fatti storici dimessa e particolareggiata, mediocre e senza luce di epopea.

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Poco di pit valgono i drammi a tesi del modenese PAOLO FER-

RARI (1822-89), che per il primo vi porta certe preoccupazioni di problemi sociali, o per meglio dire di galateo mondano, largamente dibattuti al suo tempo (J/ duello, Cause ed effetti, I ridicolo, Il sui-

cidio), facendosi paladino dei pregiudizi e dei luoghi comuni della borghesia contemporanea. Ma in lui almeno c’é una capacita di, os-

servazione attenta, se non profonda, dei costumi e dei caratteri, che

ana volta.tanto (nel Goldoni e le sue sedici commedie), gli permise di costruire il quadro di un ambiente con precisione e vivacita pit aerata e allietata di fantasia, e un po’ dovunque conferisce ai suoi

drammi un autentico valore di documenti di una certa societa e di un certo clima intellettuale. Un’arte pit fine, sempre in quell’ambito di situazioni mondane e di casistica sociale raffinata, é nelle commedie del napoletano ACHILLE TORELLI (1841-1922), delle quali una almeno (I mariti) sopravvive per il garbo e la grazia leggera con cui svolge un tenue spunto moralistico e satirico e lo realizza in figure e scene di felice evidenza. La debolezza di questo teatro italiano, agli inizi della seconda meta del secolo, sta nel suo scarso mordente, nella poverta o timidezza dei movimenti satirici e polemici, nella sua insufficiente ca-

pacita insomma di reagire allo spirito della societa. Anche qui, sebbene in misura assai minore e con risultati assai pit: poveri che nella

narrativa, il verismo operera nel senso di imporre un’attenzione pit ferma e virile agli aspetti pii duri ed urtanti, ai contrasti, alle asprezze, alle miserie della realta. Ma gia molto prima, sul piano della letteratura dialettale, si era avuto, fin dal ’63, il piccolo mira-

colo del dramma piemontese di VITTORIO BERSEZIO (1828-1900): Le miserie d’ monssh Travet. Qui non la celebrazione condiscendente di un’oziosa cerchia aristocratica, con i suoi piccoli problemi erotici

e il suo complicato galateo, si il ritratto dal vero di un impiegatuccio, i] quadro di una famiglia piccolo-borghese, con le sue angosce dissimulate, le sue borie un po’ ridicole, le sue ambizioni pericolose, la sua fondamentale rettitudine. Intorno a temi siffatti e nel giro di questo mondo di piccola borghesia si muove anche, nell’ultimo ventennio del secolo, il cosiddetto teatro verista, che si attiene in fondo per lo pit a una posizione

di compromesso fra le esigenze di realismo integrale e i gusti bonati e tranquilli di un pubblico che non ama troppo le novita e non vuole esser turbato nelle sue convinzioni. Il tentativo d’avviarsi

con risolutezza su una strada nuova, pit severa, lo fece soltanto il

VERGA con i suoi drammi 46, —

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lupa, Dal tuoalmio), nei quali portava a compimento l’esigenza drammatica gid cosi forte nei racconti; ma

la sua concezione

desolata,

amara, intimamente tragica della vita non era tale da incontrar durevole successo fra il pubblico delle platee. Sul piano di un verismo pid esterno e pittoresco, comico oppure sentimentale, si collocano i tentativi teatrali in dialetto siciliano del CAPUANA

(Malia, Lu para-

ninfu, ecc.) e di NINo MarrTocLio (San Giuvanni decullatu, L’aria del continente) e quelli in napoletano del Di Giacomo (’O mese mariano, ’O voto, A San Francisco, Assunta Spina). Nell’Italia del nord, dove il travaglio della vita sociale é pil ricco, pit mobile e

irrequieto, pid fertile di contrasti, di urti, di ribellioni compresse e irritate dallo squallore e dall’asprezza della lotta quotidiana, qualcosa

di quella sorda e opaca tragedia si rispecchia, in modi grezzi e non poetici, nei drammi gia citati del Rovetta, e meglio in quelli dell’altro lombardo CARLO BERTOLAZZI (L’egoista, La gibigianna, ecc.), scrittore senz’arte e un po’ meccanico, ma pit di molti altri coraggioso nella scelta dei temi e nella volontd di approfondirli. Altri sono pero gli autori che meglio vengono incontro al gusto del pubblico, temperando le esigenze del realismo con l’intervento di uno spirito ottimistico, oppure con la delicatezza aristocratica delle situazioni psicologiche, da Giacosa a Praga (in disparte, con una sua vena pit autentica di poeta, il Gallina). GIUSEPPE GIACOSA (Ivrea, 1847-1906) ebbe un posto di primo piano nelle relazioni letterarie del tempo; e, come scrittore, gli toccd

il compito di rispecchiare nitidamente l’intricato e mutevole svolgimento del gusto nella fase di trapasso fra le esperienze del tardo romanticismo e della « scapigliatura » e quelle del verismo. La sua opera é il risultato e lo specchio di tutte le contraddizioni e i compromessi della cultura letteraria del secondo Ottocento. Questo si vede bene, oltre che nelle novelle, anche e soprattutto nello svolgimento

del teatro, che @ la parte pid appariscente della sua attivita,

dal sentimentalismo e dalla coreografia dei drammi di argomento medievale (La partita a scacchi, Il trionfo d’amore, La contessa di Challant, ecc.) al verismo e all’ibsenismo, attenuati e rammorbiditi, dei drammi pit tardi, che segnano una data indubbiamente no-

tevole nella storia del teatro italiano alla fine dell’Ottocento (Tristi amort, I diritti deil’anima, Come le foglie). Il verismo di questi drammi é per altro soprattutto esterno, di situazioni sceniche e in

parte di linguaggio, e continuamente insidiato dalle tenaci sopravvivenze di una vena languida e sentimentale. Resta viva la rappresentazione di un ambiente, col suo grigiore e la sua tristezza, ¢

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i suoi conflitti latenti che non riescono a maturare ed esplodere in un clima di convincente drammaticita. Il tono tragico é escluso fin dal principio anche nelle commedie del veneziano GIACINTO GALLINA (1852-97). In una generica aura di tradizione goldoniana, vive in queste commedie un mondo nuovo,

quello della piccola borghesia, con le sue miserie e i suoi compromessi, i suoi umili tesori di bonta ignorata e le sue segrete vigliaccherie; un mondo che rassomiglia un poco a quello dei romanzi di De Marchi, ma ritratto da uno spirito meno

inquieto, pit dolce e

perplesso. Alla pienezza della sua arte il Gallina giunse lentamente e dopo- molti tentativi: aveva cominciato con opere di fattura raffinata e gradevole, ma un po’ letteraria; ma soltanto intorno al '90,

e dopo un silenzio di dieci anni, le sue esigenze realistiche, il suo umorismo poetico e la sua malinconia riuscirono a trovare un accordo perfetto nel tono’medio delle commedie migliori (La famegia del santolo, Serenissima e La base de tuto): in esse il contatto con

la realta @ pit pieno e pitt audac,

la vena

comica

e

satirica pit intensa, e quella patetica pil spoglia di sentimentalismi e pil umana. Lo scrittore

di teatro

che pit di tutti forse, fra gli italiani,

conduce fino in fondo I’esperienza veristica e tenta un ritratto di costumi pil spregiudicato, senza compromessi né attenuazioni, é il milanese MARCO PRAGA (1862-1929). B un verismo il suo che si rivolge essenzialmente ad esplorare situazioni psicologiche, con un lavoro di analisi spassionata e scientifica. E la sua psicologia, gia nelle Vergini e soprattutto nella Moglie ideale, che é la sua commedia piu riuscita, é amara, tagliente, stimolata da un’ironia sempre

pronta a sottolineare senza parere i paradossi e le contraddizioni di un costume profondamente falso e corrotto. Vero é che gli manca una radice culturale salda, una pit chiara consapevolezza della sua poetica: donde la sopravvivenza, nella sua opera, di elementi estranei, di motivi romantici e sentimentali, la scarsa compattezza della

costruzione scenica e l’incertezza degli strumenti espressivi. Negli ultimi anni del secolo, la produzione teatrale é divisa fra l’esigenza realistica, imposta dal verismo, e Vambizione di un teatro d’idee, di problemi morali assunti in una sintesi simbolica,

sulle orme del grande drammaturgo norvegese Ibsen. L’influsso ibseniano si sente, ma in un modo tutto esteriore, gia nei Diritti delVanima

di Giacosa,

non

é estraneo

a Rovetta, a Gallina, a Praga;

e si mostra in maniera pit evidente nell’opera del milanese ENRICO ANNIBALE BurTTi e del napoletano RoBERTO Bracco. Il loro ibsentsmo @ perd in gran parte un equivaco: il profonde contenuto rivolu-

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zionario, la violenza polemica, ilcrudo |mess. smo del r lontanissimi dallo spirito di questi suoi imitatori italiani. 1

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se mai un Ibsen a rovescio, che si atteggia a difensore e profeta —

di un vago lismo ¢ il democrazia e incolori,

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e dolciastro spiritualismo e polemizza contro il materiapositivismo del suo tempo, contro lo spirito laico, la e il socialismo: in questi limiti, fra tante opere fredde gli riusci una volta di scrivere un dramma abbastanza

e persuasivo, Fiamme

nell’ombra. Nelle novelle e in alcuni

drammi del Bracco c’é gusto e garbo di trovate psicologiche non ba- | nali, ¢ una tenerezza tutta napoletana di sentimento, nella pittura — degli ambienti e dei caratteri. In qualche dramma del periodo verista (Don Pietro Caruso, Sperduti nel buio) quella tenerezza diventa la poesia di un mondo oppresso da una maledizione, condannato alla miseria e all’abiezione morale ¢ fisica: il mondo dei « bassi » napoletani, con la loro popolazione di reietti e disperati. Assai meno persuadono, invece, proprio i drammi d’idee (La piccola fonte, Il piccolo santo), dove se mai le note pit sincere sono ancora, al di 1a delle ambiziose intenzioni simboliche, accorata, crepuscolare.

quelle di una tenerezza

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CAPITOLO XXVIIL

LA LETTERATURA

I. Premessa. —

DEL NOVECENTO

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La letteratura degli ultimi cinquan-

anni € ancor troppo vicina a noi perché si possa tentarne una fappresentazione storica in senso rigoroso. E difficile

creare una prospettiva, disegnare gli elementi essenziali di un quadro, Anche per le figure pit eminenti (D’Annunzio, Pascoli, Pirandello) il giudizio, non dico del pubblico, ma dei critici pii autorizzati, rimane tuttavia pieno di contrasti, © di oscillazioni, di risentimenti polemici; né il tempo ha maturato per essi quella condizione di distacco equanime e serena,

con cui gia possiamo guardare all’arte di un Carducci, di un Verga. E, a prescindere dai singoli scrittori, ci sta dinanzi una somma di esperienza, di tentativi, di ricerche, che ancora ci toccano, che ancora sentiamo per molti rispetti come nostre

e presenti. Intorno al ’900, la cultura italiana ci appare in uno stato di crisi, inquieta, avida di schemi nuovi, pit moderni ed europei, desiderosa di uscire dalla barriera del suo

provincialismo, di tentare esperienze piu ardue, coraggiose € spregiudicate. L’incontro con la nuova cultura europea si attua da noi su due linee divergenti, di cui una é sufficientemente chiara gia oggi alla riflessione critica, l’altra é rimasta

invece pil in ombra, trascurata e talora rinnegata. Da una parte, nella poesia, si avverte un progressivo sciogliersi del discorso aulico e tradizionale, un accostarsi alle correnti delVirrazionalismo lirico d’oltralpe, che va dal decadentismo tutto esteriore di D’Annunzio e da quello intimo, ma sprov-

visto di ragioni e di riferimenti culturali, del Pascoli, attraverso il crepuscolarismo, il futurismo, il neoromanticismo « vociano », fino ai tentativi estremamente consapevoli e lu-

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cidi dei poeti nuovi. Dall’altra, sul piano di una letteratura narrativa e drammatica, assistiamo invece allo sforzo di proseguire e modernizzare le esperienze del realismo verghiano, dell’analisi psicologica sempre pit rigorosa e spregiudicata,

del racconto morale, del ritratto amaro e inquieto di un costume e di una societa: e anche qui non senza contatti con certe espetienze parallele della cultura moderna, francese in-

glese e tedesca, e russa ¢ americana. Ma questa seconda linea ha meno rilievo, a tratti sbiadisce, talora sembra persino spezzarsi e dissolversi. E tuttavia, a guardar bene, si pud

scorgerne la presenza e la continuita, da Pirandello e da Svevo, attraverso le molteplici velleita e i propositi ambiziosi

di qualche scrittore minore, e gli infelici compromessi di altri (di un Tozzi, per esempio), fino ai narratori nuovi delle

pil giovani generazioni. Occorre aggiungere del resto che le due correnti sono assai meno

distinte e contrapposte di

quanto non risulta dal nostro discorso, che obbedisce a un tee

di semplificazione, e quindi di schematismo classi-

catorio. Esse si mescolano assai spesso, influiscono a vicenda

fra di loro, ed entrambe si muovono in un’atmosfera identica, almeno in un primo tempo, di cultura inquieta, ma senza appigli, fervida, ma provvisoria, e sempre in fondo provin-

ciale. Donde l’incertezza, lo scarso rigore, la ristretta risonanza, la poverta complessiva dei risultati sul piano dell’arte e della poesia. La coscienza riflessa dell’epoca, la guida e al tempo stesso il moderatore di questa cultura che tende confusamente a rinnovarsi é

BENEDETTO CROCE (n. a Pescasseroli, 1866): del 1902 é@ la prima edizione dell’Estetica, e nell’anno seguente s’inizia la pubblicazione della Critica, che sara fino al ’43 l’organo pit autorevole e sistematico, quasi ufficiale, della vita culturale

italiana. Non

é@ questo il

luogo di valutare nel suo insieme l’importanza della filosofia del Croce e di collocarla al suo giusto posto nel quadro del pensiero contemporaneo. Giovera piuttosto avvertire che la solida e quadrata

intelligenza del filosofo abruzzese, le sue doti fortissime di chiatezza, di tigore, di semplificazione hanno operato nei riguardi della

cultura italiana in un duplice senso e secondo un duplice proposito: di stimolo. da una parte, s svecchiare l’ambiente, a rinnovare le

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_premesse e gli schemi, a demolire le strutture di una mentalita superata; di moderazione e di cautela, per un altro verso, per stabi-

lire e consolidare certe posizioni di un buon senso un po’ facile e timido ed evitare le avventure, rischiose ma proficue, di un pensiero e di una Jetteratura che volessero andare oltre certi limiti, avviarsi per

strade proibite, gettarsi francamente allo sbaraglio. Cosi, per quanto si riferisce

alla cultura letteraria, si deve senz’altro riconoscere

al

Croce il merito d’avere enunciato un concetto pit rigoroso e pid umano della poesia, come forma primordiale e intuitiva dell’attivita teoretica, richiamandosi, contro le grettezze del positivismo e

Varidita della scuola storica, alle fondamentali scoperte del periodo romantico e svolgendo e coordinando in un nitido e compatto organismo le idee del Vico e del De Sanctis. Ma del Vico e del De Sanctis per l’appunto gli mancano poi la larghezza e la concretezza dello sguardo storico, il senso umano e sociale dell’opera d’arte, _ Sentita da quelli sempre come un documento, un riflesso o un modo di manifestarsi di determinate condizioni storiche, di un certo tempo

e di carsi della zione

un certo costume. E cosi in un sopramondo, in un prassi quotidiana; torna contemplativa, metafisica:

un superamento

da un lato la poesia torna a collopiano diverso e superiore a quello ad essere concepita come una posiun’idealizzazione, una trasfigurazione,

della realta. E dall’altro

lato la critica letteraria

tende a prescindere dalle condizioni storiche, e a configurarsi come la ricerca di un rapporto tra un complesso di stati d’animo universali ed eterni

(fuori dello spazio e del tempo, che é quanto dire fuor

del reale e dell’umano) e una « forma» non diversamente assoluta ed astorica, regolata da certe norme fisse di decoro, d’equilibrio classico. Per molti aspetti l’estetica del Croce sembra, soprattutto agli inizi, farsi portavoce

delle tendenze

estetizzanti

del decadentismo,

della poesia pura, del frammentismo lirico. Ma anche qui sottentra ben presto l’istintiva cautela dell’uomo, con i suoi limiti, i suoi di-

vieti, la sua vocazione moderatrice. L’estetica crociana (specialmente nei suoi ultimi svolgimenti: Nuovi saggi d’estetica, La poesia) pat

piuttosto adempiere alla funzione di convogliare e assopire i motivi essenziali della poetica romantica nel quadro di un’educazione neoclassica ed umanistica. E la critica di Croce ¢ quella che avrebbe potuto fare Carducci: un Carducci ideale, s’intende, provvisto di un.

bagaglio meno sommario e confuso di idee generali. Incapace di accogliere interamente e di portare all’estremo le esigenze della civilta romantica, la critica del Croce misconosce Leopardi come Baudelaire

(per non parlare della grande lirica decadente postbaudelairiana), respinge fuori dei confini dell’arte il realismo di Manzoni e accetta

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solo con molte riserve la narrativa naturalista e verista, elimina o rifiuta gli elementi decadentistici di D’ Annunzio, Pascoli, Pirandello e, salvo pochissime eccezioni, tutti i moderni. Non si pud, si capisce, dimenticare l’ampiezza del lavoro di dissodamento ¢ riordinamento



.

che Croce ha compiuto nel patrimonio letterario italiano ed europeo, la vastitd quasi sterminata delle sue ricerche, che dai saggi sulla Letteratura della nuova Italia (il suo capolavoro), si allargano alla revisione di tutta la nostra storia letteraria (Poesia popolare e poesia d’arte; La poesia di Dante; Ariosto; Uomini_e cose

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del pieno e del tardo Rinascimento; Storia dell’eta barocca) e delle maggiori figure del mondo classico e delle varie civilta moderne (Shakespeare; Corneille; Goethe; Poesia e non poesia; Poesia antica

e moderna). mas."

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i limiti



di quest’opera, che coincidono con i limiti appunto della sensibilita del critico, della sua educazione e formazione mentale, del suo

D’altra parte non si debbon tacere neppure

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‘ gusto umanistico e carducciano (ma naturalmente pit ampio, e senza . i risentimenti e gli esclusivismi del Carducci) con la sua tendenza ~ alla considerazione astratta ed astorica della poesia, e quindi al gioco delle formule e delle definizioni psicologiche, che si aggrava e si accentua nei pigri e scolastici discepoli. Oggi contro l’eredita ammirevole, ma

per certi aspetti sterile e perfino dannosa,

di Croce,

¢ pit contro il formulismo dei crociani osservanti, si tende a friprendere il filo piuttosto della nostra tradizione critico-letteraria foscoliana e desanctisiana. E non @ un caso che gia nel recente passato tutti i critici pih accorti e di personalita pid risentita, sia nel campo della critica militante come di quella accademica, da Thovez

a Borgese, da Cecchi a Gargiulo, da Serra a Pancrazi,

a De Ro-

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bertis, da Donadoni a Momigliano, abbiano operato chi pia chi meno fuori dell’orbita del crocianesimo ortodosso, anche se hanno

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risentito in vario modo e misura dell’influsso di Croce. La personalita del filosofo abruzzese ad ogni modo sta fino ad un certo punto al di sopra del suo tempo, e comunque in disparte. Nei suoi scritti solo in parte (e solo in quanto si riflettono nel nitido e impassibile specchio della sua mente equilibrata e senza sorprese) @ possibile cogliere le linee essenziali della fisionomia dell'epoca. Altri scrittori vissuti a cavallo fra i due secoli — D’An-

;

nunzio,

Pascoli, Pirandello,

Svevo,

in parte Fogazzaro —

giovano

assai meglio di lui a fornirci un primo orientamento nell’indagine: e son quelli infatti da cui si dipartono le correnti fondamentali della civilta letteraria del Novecento italiano.

2. D’Annunzio.

— L’importanza storica e culturale di

D’Annunzio sta tutta nella larghezza delle sue molteplici e abili assimilazioni del gusto e delle tendenze artistiche delEuropa post-romantica. Una facolta assimilatrice davvero _ prodigiosa, attenta a tutte le suggestioni, pieghevole a tutti gli influssi: e per suo merito l’orizzonte della tematica letteraria si amplia, il patrimonio estetico si arricchisce, il senso

dei valori linguistici metrici musicali si raffina. Ma si tratta di una conquista altrettanto rapida e splendida quanto superficiale: sia per l’assenza di un criterio rigoroso di scelta, sia anche perché l’indole del poeta lo porta piuttosto ad ornarsi delle sue esperienze innumerevoli, che non ad approfondirle e viverle con intima adesione. Nonostante l’apparente dovizia, enormemente moltiplicata, dei temi, l’ispirazione di D’An-

nunzio resta nel fondo povera e assai meno nuova di quanto non sembri; e con tutta la sua scaltrezza, apparentemente consumata, degli strumenti tecnici, si rivela alla fine alquanto frettolosa ed empirica, casuale ed improvvisata. Nato a Pescara nel 1863, morto nel 1938, GABRIELE

D’ANNUNZIO fu lo scrittore pid largamente noto, se non il pit letto ed amato, della generazione post-carducciana. Alla notorieta contribuirono anche le vicende della vita, che egli volle ricinte di un fascino di leggenda, composte in un ritmo ascendente dalla chiassosa mondanita degli anni giovanili fino alla gloria nazionale dell’interventista, del combattente, dell’acceso polemista del dopoguerra, del liberatore di Fiume: una vita di esteta, ma sorretta da un fondo di paesana robustezza, intesa ad esaltare |’anarchia e l’indisciplina di un tem-

peramento egocentrico nella luce fittizia di una missione civile, di un esasperato patriottismo. Anche nell’arte egli fu uno

dei rappresentanti

pit acclamati

di quell’estetismo,

di

quel culto da bel gesto e della parola ornata, che ebbe allora i suoi campioni tra gli epigoni del decadentismo europeo: un decadentismo, che aveva cessato di essere una religione € una vocazione poetica, per diventare una moda e una posa,

€ apparteneva piuttosto alla storia del costume che non a quella della letteratura. Tutta chiusa nei limiti di un’espe-

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- rienza sensuale e verbale acuita ed esasperata, sorda nono-

stante le apparenze ad ogni interesse spirituale, poverissima

d’interiorita fino a riuscir quasi disumana, quest’arte, florita

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in opere innumerevoli, cimentata nelle pid difficili prove di bravura, variata dall’esterno con un gioco abile di pretesti e di atteggiamenti (ma sostanzialmente immobile, incapace —

di progresso e priva di svolgimento), ci appare oggi nel complesso assai lontana dal nostro gusto, ci costringe talora ad ammirare, ma non ci commuove, e non di rado ci infastidisce.

Le prime prove di D’Annunzio prendono I’avvio nella lirica (Canto novo, 1882) dal Carducci, e quasi contemporaneamente nei racconti (Terra vergine, 1882; San Pantaleone, 1886) dal Vergae dai naturalisti. Ma il Carducci imitato nelle poesie non é quello pid —

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umano e nuovo dei giambi e delle rime, si quello delle odi barbare, spogliato per giunta delle sue generose intenzioni civili, ridotto a una misura di impressionismo sensuale e di rettorica paganeggiante.

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E cosi nelle novelle, assenti le ragioni sociali e la pieta di Verga

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o di Maupassant, resta intatto soltanto e si esaspera il gusto di una vita primordiale e ferina, e il canone dell’impersonalita si converte in un’ostinata e gratuita volonta di osservazione, fredda e crudele, impassibile. Il momento essenziale della storia poetica di D’An-

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nunzio, quello in cui si riconosce e prende forma la sua vocazione,

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é il soggiornotromano: allora egli comincia ad attuare nella vita il suo ideale estetizzante, e intanto accoglie nella sua poetica gli influssi dell’ultima cultura europea. Dalle esperienze parnassiane dell'Intermezzo di rime (1884), dell’Isotteo (1885) e delle Elegie ro-

out

mane (1891), il poeta passa ai toni languidi, sfibrati, di una sensualita stremata e triste, alla Verlaine e alla Maeterlinck, del Poema

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paradisiaco (1893). Il romanziere, dopo avere, nel Piacere (1889), esaltato in forme tra autobiografiche e favolose la sua esperienza ;

di vita salottiera, mondana,

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del romanzo psicologico russo nel Giovanni Episcopo e nell’Innocente (1892); quindi scopre in Nietzsche il mito del superuomo, che egli deforma nel senso di un amoralismo per creature privilegiate, che si costruiscono al di fuori di ogni legge la loro « vita inimitabile », e in parte adegua al vieto concetto del poeta-vate, profeta ed eroe della sua stirpe. Da quest’ultimo atteggiamento nascono quasi tutti i nuovi romanzi (Le vergini delle rocce, 1896; Il Fuoco; 1900; Forse che s) forse che no, 1910) e gran parte del teatro del D’Annunzio (La cittd morta, 1898; La Gloria, 1899;

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La Gitoconda, 1899; Francescada Rimini, 1901; La fiaccola sotto il moggio, 1905; Pid che l’amore, 1907; La Nave, 1908; Fedra, 1909, ecc.), nonché tre dei libri delle Laudi, che rappresentano il

momento maggiore della sua attivita lirica: Maia (0 Laus Vitae, 1903), Elettra (1903) e Merope (1912). B il periodo in cui D’Annunzio attinge il vertice della sua sapienza e della sua arte, intesa come possesso raffinatissimo degli strumenti linguistici, metrici, musicali. Ma in tanto splendore di forme, la poesia é per lo pit assente.

Nei romanzi cerchi invano rigore costruttivo, immediatezza di racconto, umanita di personaggi. Le tragedie sono esercitazioni letterarie, -tepertori d'immagini suntuose o lussuriose, del tutto privi di senso drammatico. Le poesie epiche, celebrative, patriottiche an-

negano nell’enfasi oratoria e nell’artificio verbale. Dappertutto, « una perfezione che suona falso», come dird poi il Serra. Si salvano, di questo periodo, due opere: un dramma, La figlia

di Jorio (1904), dove l’estetismo dannunziano si alleggerisce e si sfuma collocandosi con maggior naturalezza in un paesaggio remoto, favoloso, quasi in un mobile coloritissimo arazzo (e in quell’aria di fiaba e di pannello decorativo |’assenza dell’impegno umano meno savverte); e poi le liriche dell’ Alcyone (il terzo volume delle Laudi, 1904), dove il suo costante dilettantismo isola il nucleo genuino di un abbandono al ritmo inesauribile delle sensazioni, liberate da

ogni interventa estraneo ed intellettualistico, da ogni velleita eroica e simbolica: sensazioni che si traducono immediatamente in musica di parole, parole che si richiamano e si dilatano in un gioco di echi, di corrispondenze, di inflorescenze puramente musicali. Qui sembra nascere anche, ¢ si svolgerd nelle prose liriche ed autobiografiche degli ultimi anni (dalla Contemplazione della morte e dalla Leda senza cigno alle Faville del maglio, dal Notturno, 1921, fino al Libro segreto, 1935), un D’Annunzio nuovo, pid intimo, pid raccolto, pit umano insomma. In realta anche questi scritti non fioriscono sul terreno di una poetica nuova, pit matura; bensi rap-

presentano il supremo affinamento del consueto atteggiamento dannunziano, che in essi si libera almeno in parte delle peggiori incrostazioni di una cultura dilettantesca e svagata e lascia affiorare in tutta purezza il suo gusto della musica verbale, che in sé s’appaga senza residui. Qui pit che altrove — si veda la Sera fiesolana, nell’ Alcyone, e certi passi pit intensi del Notivrno — D’Annunzio sembra venire incontro ai modi della grande lirica decadente; e per la prima volta pil palesemente tocca note di una malinconia nuova,

che attinge a strati pid profondi della sua psicologia. Non per nulla sono proprio questi (oltre il Poema paradisiaco) i \ibri del poeta

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che hanno esercitato un pit chiaro influsso sugli scrittori— del Novecento, dai crepuscolari fino agli ermetici. Ma anche qui, pit del — movimento umano e patetico, interessa la leggerezza nuova dell’arte,

una musica pid lieve, meno appariscente e pit schietta, la rarefazione e la semplificazione del tessuto verbale, che si libera dall’enfasi ¢ dagli ornamenti barocchi senza perder nulla della sua virti: non insomma un’umanita nuova e-un’arte pil aderente a quell’umanita, pit sofferta, si appunto uno studio pid attento, devoto, esclusivo dell’arte. Anche qui D’Annunzio

soffre, non le cose che dice, ma

il modo di dirle, la forma (e solo in questi limiti di uno squisito

tirocinio umanistico é possibile parlare, a proposito di questa o quella opera di lui, di una maggiore 0 minore severita ed austerita

d’ispirazione). L’adesione di D’Annunzio alla poetica del decadentismo resta, fino all’ultimo, esteriore: non é la conquista di una sensibilita pid ricca e profonda, di un litismo pid intenso e affrancato da tutte le consuetudini del discorso poetico tradizionale, ma solo di un complesso pitt vasto, pit ricco, pil variato, di strumenti tecnici. Dietro l’apparente modernita di un’orchestra dilatata e con-

dotta al massimo delle possibilita sonore, sopravvive quell’ozioso atteggiamento umanistico, quella sensualita dilettantesca della parola, vecchia tabe della nostra civilta, che fa di D’Annunzio, in una condizione storica e culturale tanto diversa, e meno propizia, una specie

di Monti o di Marino

redivivo.

3. Pascoli. — Ma D’Annunzio, con la sua poverissima sostanza morale e poetica e le sue prodigiose risorse d’artista, non é soltanto un fenomeno di attardato umanesimo; egli é anche l’interprete pid clamoroso di una tendenza allora nelVaria; e la sua opera @ uno dei tanti segni dell’esigenza in quegli anni diffusa di un rinnovamento del contenuto e della forma della lirica. Si sente il bisogno, dopo Carducci, di allargare l’orizzonte. I bonari ideali ottocenteschi si sfaldano, e sottentra una condizione pit tormentata, avida, smaniosa.

Il positivismo, che aveva dato alla cultura degli anni precedenti un saldo fondamento psicologico, é sbaragliato dalla tisorgente filosofia idealistica, e pit ancora da un indeterminato desiderio di vaporosi idealismi, da una vaga nostalgia di atteggiamenti fideistici, mistici, cattolicizzanti. (Anche nella

narrativa il verismo sembra esaurito, mentre, dietro l’esempio

del Fogazzaro, si avanzano i nuovi « cavalieri dell’Ideale »).

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Alla poesia si chiede di riflettere questa condizione dello spirito, questo smarrimento, questa nuova pit complessa e sfumata intuizione del reale. E qui vengono incontro le espetienze del decadentismo europeo, delle quali si ha d’altronde

una conoscenza scatsa e confusa: non si riesce a distinguere in modo netto tra quella che é la novita reale dell’esperienza

decadente, come processo di conoscenza immediata e assoluta degli strati pii misteriosi e insondabili della vita psicologica, e le varie soprastrutture estetizzanti, le pose, le mode, le poetiche pit o meno effimere. Per questo rispetto anche l’opera di D’Annunzio ha una concreta funzione culturale, sebbene incerta confusa e dispersiva. Ma in altri scrittori la richiesta di una poesia nuova si affaccia anche come bisogno di un’espressione pit immediata, aderente alla nuova realta sentimentale con maggiore sincerita, con un linguaggio pit semplice e diretto. E im questo senso acquistano rilievo e significato talune figure minori di poeti, la cui attivitd difficilmente si salverebbe in base ad una pura valutazione di concreti risultati sul piano dell’arte. Cosi, per esempio, ARTURO GRAF (n. ad Atene, 1848-1913), che effonde nei diversi volumi delle sue rime il suo sentimento del mistero e del male inerente alla vita umana, oscil-

lando fra un’esigenza di immagini nuove e di simboli densi e una superstite ingenuita di vecchi temi del basso romanticismo lugubri ¢ tetri (ec non a caso egli é tra i primi da noi a scrivere un saggio sui poeti sitmbolisti, e anche nella vita sembra rispecchiare il turbamento e l’evoluzione della cultura del suo tempo con la finale conversione dal positivismo al cattolicesimo). Cosi ancora DoMENICO GNOLI (1838-1915), che, formatosi nell’ ambiente classicheggiante della vecchia

scuola romana,

d’un tratto, gid pit che sessantenne,

irrompe sulla scena con un nome nuovo e una nuova forma poetica, si sforza di dar voce alla sensibilita diffusa agli inizi del nuovo secolo, e avverte l’esigenza di far corrispondere al rinno-vamento del contenuto un analogo rinnovamento degli strumenti espressivi. Ma appunto questa é la mancanza che pit s’avverte in cotesti poeti di transizione: la loro incapacita di conquistarsi un nuovo linguaggio. Forse pid degli altri riuscl a cogliere l’inquietudine e il disagio polemico, in cui s’andava elaborando in quegli anni l'esigenza

di una

poesia nuova,

il torinese

ENRICO

THOVEZ

(1869-1925): soprattutto nei suoi libri di critica, nei quali ragionava acutamente lo scontento dei contemporanei per la rettorica e l’ac-

cademismo

dell’opera carducciana, riflutava altrettanto risolutamente ‘

gli artifici di D’Annunzio, e proclamava la necessita di un ritorno alla poetica del lirismo leopardiano, della quale scorgeva con chiarezza le profonde radici romantiche.

Solo GIOVANNI PascoLi riesce in quegli anni in Italia a svolgere fino in fondo una sua origiuale esperienza di poeta decadente; e la svolge inconsapevolmente, per un bisogno irresistibile della sua indole, per una via tutta sua e con poverissimi sussidi culturali, anzi in contrasto quasi dovunque con le premesse della sua cultura letteraria, umanistica e provinciale, e talora con le stesse intenzioni umane ed artistiche. Nato a San Mauro di Romagna nel 1855, il Pascoli ebbe un’infanzia e un’adolescenza sconvolte dalla sventura, afflitte dalla poverta

e rose dal tarlo di un’angoscia assidua e chiusa. Aveva dodici anni, quando il padre, amministratore di una tenuta agricola, mori assassinato. L’omicidio rimasto impunito, il crudele destino che da quel

momento sembra accanirsi sulla sua famiglia (facendogli morire in un breve giro di anni anche la madre e tre fratelli), determinano nel suo animo una crisi di ribellione. Aderisce alle ideologie internazionaliste, si stringe d’amicizia con Andrea Costa, nel ‘79 é arrestato e trattenuto in carcere per alcuni mesi. Ne esce con un

animo diverso: non é@ pit un ribelle, ma un uomo che china il capo dinanzi al mistero crudele e all’infelicita che accomuna in una sorte medesima gli oppressori e gli oppressi, tutti ugualmente miseri ¢ travolti da una forza superiore e sconosciuta. D’allora in poi é una creatura smarrita, che si sottrae per quanto pud alla lotta e cerca soltanto di salvare per sé e per i suoi um cantuccio di pace e di stlenzio. Nell’ ’82 inizia la sua carriera di professore di greco e latino nei licei: a Matera, poi a Massa, a Livorno. Passa quindi a insegnare filologia classica nelle universita di Messina e di Pisa, dal ‘97 al 905; allorché @ chiamato a succedere al Carducci sulla cattedra bolognese di letteratura italiana. A Bologna morira nel 1912. Fin dall’’84 aveva chiamato a vivere con sé le sorelle Ida e Maria;

e quest’ultima gli rimarrd accanto fino alla fine. Per esse s’era adoperato a ricostruire il nido familiare distrutto dalla cattiveria degli uomini, sistemandosi una casetta rustica a Castelvecchio, dove amava

rifugiarsi in tutte le pause che gli eran concesse dagli obblighi del suo ufficio. Solo tardi, nel '91, pubblicava Myricae,

la prima rac-

colta dei suoi versi (e quasi dello stesso tempo @ anche |’inizio

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della sua migliore attivita di poeta in latino, che doveva procu-

rargli una fama internazionale e una lunga serie di vittorie nei concorsi di Amsterdam).

Myricae sono un libro nuovo, senza precedenti nella storia della nostra letteratura. Questo scolaro del Carducci, fin dalle prime sue cose, parla un linguaggio diverso, spezza il movimento ampio e decoroso del discorso, cerca una musica pit. moderna, rotta, tormentata alle sue strofe e ai suoi versi. E inoltre rinunzia alle strutture composite e ambiziose, isola il frammento, |’impressione lirica nel suo palpito breve e ge-

nuino. Le Myricae sono paesaggi, sentiti con un’aderenza sofferta che esclude ogni compiacimento idillico e descrittivo; palpiti e smarrimenti dell’animo, colti nella loro immediatezza, senza intrusioni culturali o intellettualistiche. Alla ra-

dice di questo tono nuovo é un atteggiamento antiletterario: un reciso, se pur non ostentato, riftuto di tutta la tradizione

aulica, con il suo bagaglio di schemi e di temi, di contenuti e di forme. \ Nella poetica del « fanciullino », il Pascoli esprime la consapevolezza Li suo poetare inconsueto, cerca di teorizzare il suo istin-

tivo decadentismo, e al tempo stesso ne rivela i limiti. Il poeta é un

fanciullo,

che, nella vasta trama

delle esperienze comuni,

sa

cogliere e isolare le sensazioni e le impressioni pit fuggevoli e quelle che pit facilmente sfuggono ai piu, le fissa in parole, le illumina con la sua sensibilita ancora intatta, acuta e fresca. Qualunque soggetto, anche il pit trito, si aureola di meraviglia in quegli occhi nuovi, anche la pit tenue cosa pud diventare importante e apparire enorme. E di cose piccole anzi é¢ fatta sempre la poesia, che « consiste nella visione di un particolare inavvertito fuori e dentro di noi». E percid essa rifiuta sia le vaste e complesse architetture, sia

la ricerca di un tono alto e di un linguaggio indeterminato e stilizzato. Sta tutta nell’intensita con cui é@ vissuto |’attimo contempla-

tivo, ¢ non nel processo intellettuale per cui si ordinano e si compongono in organismo le intuizioni originarie (che dal quel ptocesso uscitanno sempre, pil o meno, deformate). Ed é un modo di vita, prima e assai pid che un complesso di strumenti espressivi; tanto pit poesia, quanto meno diventa letteratura, quanto

meglio riesce a serbarsi aderente alla sostanza inconscia e indiscriminata della sensibilita. Sono evidenti gli spunti di novita insiti im

: 34

Cyrene una siffatta poetica, allorché la si paragona alla recente esperienza ic Shel

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carducciana e anche a quella contemporanea del D’Annunzio, en_trambe ancorate, sebbene in modo diverso, a una concezione uma- — nistica dell’arte. E altrettanto evidenti sono i punti di contatto della ~

poetica pascoliana con lo spirito del decadentismo europeo: soprattutto in quella concezione mistica della poesia come scoperta diretta e pil piena della verita delle cose e della loro poeticita potenziale;. e poi nell’esplicita rottura con la tradizione letteraria italiana: e infine nella distinzione nettissima stabilita fra la poesia pura e quella applicata, costruita, artificiosa e intellettualistica. Per un altro verso

la poetica del « fanciullino » rivela anche le insufficienze del Pascoli, le scarse e precarie radici della sua modernita, piuttosto istin-

tiva che consapevole: largo residuo

la sua spregiudicatezza lascia sussistere un

di sentimentalismo

ingenuo,

languido,

piagnucoloso;

la misteriosa comunione del poeta con la natura apre la via all’equivoco di una disposizione fanciullesca, primitiva, che diventa a sua volta una maniera e si estenua in un compiaciuto gioco di attucci, di vezzi, di finti stupori e tremori e capricci infantili; il senso della

id

cosa poetica si stempera nel gusto di certe parole, cui si attribuisce gratuitamente una virt magica di suggestione, e ripropone cosi la

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possibilita di soluzioni

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estetizzanti,

a modo

loro letterarie.

In Myricae la nuova sensibilita di Pascoli si presenta pid

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pura, nei suot aspettt essenziali, scevri da ogni contamina-

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zione. Nelle raccolte che seguitono — Primi poemetti (1897),

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respiro del canto tende ad allargarsi in superficie, la ricchezza

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delle sensazioni si piega a un proposito di composizione, si ricompone in strutture fittizie, si complica di intenzioni ora-

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torie, di velleita umanitarie. E anche |’arte si raffina, esaspera le sue istintive tendenze alla musicalita, ma non di rado

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Canti di Castelvecchio (1903), Nuovi poemetti (1909) — 1l

anche degenera in squisitezze e leziosaggini, si adatta a subire le suggestioni di un decadentismo pit facile e spurio (quello

di D’Annunzio), va in cerca di una sua dignita letteraria,

che la condurra ai moduli parnassiani estremamente eleganti, ma un po’ meccanici, dei Poemi conviviali (1904). Sarebbe tuttavia un errore puntare lo sguardo esclusivamente su

Myricae, per svalutare le opere successive, nelle quali non si

amplia soltanto l’intenzione del poeta e la scaltrezza dell’artista, st anche egli approfondisce e matura, sebbene frammen-



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tariamente, le sue risorse native. Proprio nei Canti di Castel-

_ vecchio sono da cercare, se mai, alcuni dei risultati pid alti’ _delia sua poesia, dov’egli attinge d’un tratto, con accento

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- originalissimo, una sua trascrizione tutta musicale dei dati

sensitivi, una possibilita di corrispondenze, di analogie, di si-

os

multaneita delle sensazioni, che potrebb definirsi senz’altro simbolistica: Gelsomino notturno, Nebbia. E d’altronde i se-

7

-gni di questa musica nuova non sono da rintracciare in questo 0 quel libro soltanto di Pascoli, si in tutta la sua opera, anche nei Conviviali, e nei Carmina, persino nelle Odi e

Inni; sebbene essa si attui di solito frammentariamente, e si scopra solo al lettore attento e paziente, e assai di rado riesca

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a consolidarsi e a trovar la sua misura definitiva in un singolo

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componimento. Quasi tutte le liriche di Pascoli, se le si guar-

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dano nel complesso, anziché nella ricchezza ed intensita dei

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particolari, vanno al di la del segno, non soddisfano per intero. La sua poesia é quasi dovunque piuttosto in potenza, che in atto. Ma la sua importanza storica é grande. Egli crea un tipo di discorso poetico e un linguaggio, che é il pid li-

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bero € nuovo nella lirica italiana del primo Novecento, e il

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pid fertile di suggerimenti: un linguaggio ricco, immediata-

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mente aderente alle cose, fatto di nomi propri, di termini tecnici, dialettali, di onomatopeie, eppure estremamente sensibile, e pil suggestivo che realistico; un discorso aperto, ap-

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pena intonato sul livello della prosa quotidiana, ma reso vibrante dall’intensita del ritmo; un verso spezzato, singhiozzato, quasi senza forma, dove tutta la musica sta nella forza

degli accenti che insistono su certe parole, che sottolineano

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certe sfumature e sospensioni della voce. Vero é che !a profonda tendenza al simbolismo della poe-

sia pascoliana minaccia troppo spesso di naufragare in un gioco di simboli tutti esteriori e cerebrali, non connaturali all’impressione sensibile, bensi applicati ad essa un po’ dall’esterno, e tali che, invece di esaltarla, piuttosto la corrom- — pono. Cosi anche la liberta naturalmente acquistata della lingua e del discorso tende a sua volta a diventare maniera e artificio, diluendo la nativa musicalita in un’apparenza di

canto, in una sorta di nenia un po’ vacua e leziosa. Negli 47, —

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ultimt tempi il Pascoli sovrappone anche alla sua na ura | pia genuina un’ambizione di poeta-vate, maestro di moralita, —

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di umanitarismo, di ragioni civili, del tutto estranea alla sua

indole, sebbene implicita nella poetica del « fanciullino », e | poeta pri: in quell’equivoco, che essa lasciava sussistere, del mitivo, omerico: nascono allora le Odi e Inni (1906 ; notevoli-

quasi soltanto per l’esasperata esperienza metrica (oltre, s'in-|| tende, la sincerita del movimento

umano),

le fantasie al-—

quanto composite dei Poem# italici, e, peggio, gli insoppor- | tabili Poem: del Risorgimento o le Canzoni di re Enzo. Ma |

il vero Pascoli non

pud esser misurato soltanto alla stregua

delle sue debolezze, delle sue insufficienze autocritiche, o delle | sue deviazioni; deve esser rintracciato e compreso nei mo- —

menti in cui si mantiene veramente fedele a se stesso, e stu- :

diato in quella novita duplice e una di elementi sensibili e di modi espressivi, che é la sua conquista e il segno della sua presenza nella nostra storia letteraria. Questo é il suo t— insegnamento, che i poeti venuti dipoi non hanno pid potuto — dimenticare. .

4. Pirandello. — Parallela all’esperienza lirica dannunziana e fae si svolge quella dei narratori vissuti tra la fine

dell’Otto e i primi del Novecento; e porta anch’essa

il segno dell’inquietudine dei tempi, di quella smania di novita, di quel fastidio delle situazioni

comuni,

dei moduli ©

consueti. La nuova narrativa non sorge pil su un terreno.

sociale, ma individualistico; ¢ lo specchio di una mentalita anarchica, distruttiva, di una ribellione solitaria pil o meno * cosciente e decisa, che assume a tratti risonanze fortemente

polemiche. L’umorismo (preparato dai tentativi degli « scapi- \ gliati »), Vironia, l’analisi dissolvente, incisiva, mordace fun-

zionano da reagenti ase alla materia borghese e illumi-

nano la posizione decadentistica dello scrittore. Cid si vede — bene in Pirandello, Svevo, e, in minor misura, in Panzini.

ALFREDO PANZINI (n: a Sinigallia, 1863-1939) @ forse il primo

a recare, fra gli srrittori della sua generazione, una nota di inquietudine e di insofferenza, una vibrazione, che é il segno della sua modernita. Scolaro del Carducci, l’educazione classica rimane in lui.

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oltre

che

in

taluni

vezzi

e pose

tipicamente

letterari,

soprattutto

come una misura di stile e di lingua, nel senso della parola precisa e chiara, del periodo limpido e fermo, senza fratture né sbavature.

Per il resto la nota lirica, che lo contraddistingue, é una disposizione mista di curiosita soffocata e di irritazione scontrosa dinanzi alle forme della vita moderna, disposizione messa in rilievo da non so qual ripiegamento nostalgico verso i modi e le norme di una civilta pid umana e pacata, idillica e gentile. 2 una vena appunto pit lirica che narrativa, esile e magari un po’ ambigua e viziata, scarsamente disposta ad approfondire esasperandola o purificandola la sua intima pena, proclive invece ad eluderla in pit facili soluzioni variamente graduate fra l’ironico e il sentimentale (un atteggiamento che assomiglia, per certi rispetti, a quello che analizzeremo

nei « crepuscolari », ma pid superficiale). Questa vena é pid scoperta nei libri di viaggi e divagazioni (La lanterna di Diogene, Viaggio - sentimentale di un povero letterato), dove la tenuita stessa della struttura permette di isolare facilmente i frammenti di pit fresca e immediata

commozione

personale e sottolinea

d’altra parte I’in-

_genuita delle pose e dei vezzi artificiosi e libreschi. Ma il meglio del Panzini é da cercare forse negli scritti di invenzione e di fantasia (le raccolte di novelle: Pzccole storie del mondo grande, Fiabe della virtn, ‘i romanzi: Io cerco moglie, La Madonna di mama, I} bacio di Lesbia,

La pulcella senza pulcellaggto, ecc.), dove la vena lirica si condensa in figure e quadretti, attraverso il pretesto di una trasparente trama narrativa, sottile schera residui

acuendo nei contatti e contrasti con la realta attuale la sua insofferenza, e lasciando cadere a poco a poco, se non la madel moralista e del satirico deluso e senza fede, almeno certi pid fastidiosi della sua formazione professorale e pedantesca.

La posizionedi Luici PIRANDELLO

(n. a Girgenti, 1867-

1938) & pit decisa e di gran lunga pit impegnativa. Il suo nome acquisto quasi d’un tratto risonanza non solo italiana, ma europea e mondiale, nell’ultimo ventennio della sua vita, da quando cioé egli si venne dedicando prevalentemente al teatro, con una novita e originalita di temi, di impostazioni,

di procedimenti tecnici, che s'imponeva al pubblico costrin-

gendolo ad evadere dal solito repertorio di schemi conven-

zionali, e insieme con un vigore patetico ben altrimenti persuasivo a paragone

dei tentativi teatrali

estetizzanti

di un

D’Annunzio. Ma al teatro egli giungeva dopo una lunga produzione

di novelle e romanzi, che aiutano,

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‘ricostruire e definire pit intimamente le genesi della sua arte, in quel che essa ha FFpit personale ed intenso. Non é diffi- ;

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cile cogliere i rapporti che lo vincolarono dapprima alle in-

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certe sembianze della civilta letteraria del suo tempo, fra i

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residui di un verismo ormai proclive a inaridirsi e meccanizzarsi e i tentativi spesso ingenui e scialbi di liberazione umo- — ristica. Senonché il suo verismo ha fin dall’inizio un colore

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pit cupo e greve, un accento pit duro e polemico; e il suo | umorismo esprime una nota pil intimamente amara e corrosiva. Pit che alla pittura di un ambiente o di un costume, ~

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riassunto nelle sue ragioni sociali e morali, Pirandello s’appiglia all’individuo, con la sua pena e l’angoscia che !’op-

prime e lo definisce. Il suo mondo é quello dei piccoli bor- —

ghesi, dei provinciali sradicati e inurbati, con la loro esistenza

.

gtigia e soffocata, con le loro manie e la loro sorda dispera-

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zione, in cui avverti una cieca smania di vivere, di distinguersi, di affermarsi, sempre insoddisfatta ed esasperata,

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pronta ad esplodere in gesti improvvisi stravaganti e bizzarri. A questo mondo in pena lo scrittore aderisce con immediatezza appunto piuttosto polemica che poetica, di apostolo

cote

senza fede: donde il tono aspro, sarcastico, dolente vel suo raccontare; e donde anche I|’intrusione di un elemento intel-— lettualistico, che si sfoga nell’ingegnosita delle trovate, delle

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invenzioni strane e paradossali. Gia nelle novelle e nei romanzi € possibile dunque individuare le caratteristiche essenziali del futuro teatro di Pirandello: la radice umana e dolorosa, la nota polemica antiborghese, l’ansia di evasione verso

una vita pit libera e naturale, l’ingegnosita e la stravaganza degli schemi inventivi. Fin dai primi romanzi (L’esclusa, 1901; Il turno, 1902; Il fu Mattia Pascal, 1904; I vecchi e i giovani, 1912; Si gira, 1914)

e dai racconti (pit tardi riuniti nei 24 volumi della raccolta di Novelle per un anno) appare chiaro quello che si potrebbe chiamare l’impulso anarchico, antisociale, dell’epoca pirandelliana. L’umotismo ¢ la dialettica sono le armi di cui lo scrittore si serve per disintegrare e far esplodere la sua materia apparentemente umile e dimessa. L’umorismo mette allo scoperto le ipocrisie dei tapporti umani e la solitudine senza scampo dell’individuo; la dialettica, distruggendo le

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impalcature provvisorie del senso comune, giunge a investire alle radici il presupposto stesso dell’unitd sostanziale della persona, che tende a dissolversi in una serie di atti incoerenti e in un gioco d’apparenze e d’atteggiamenti fittizi. Questo furore distruttivo che demolisce i suoi personaggi, e pid spesso li denuda, li scarnifica, illumina

il nucleo genuino di sofferenza al di sotto delle maschere variopinte; quel riso aspro, a prima vista impudico e senza pietd; quella logica tormentata e delirante contengono gid in sé evidentissimi i germi di uno svolgimento drammatico, e approderanno senza discontinuita ‘alla dialettica sofferta e tormentosa delle commedie e tragedie composte fra il '16 e il "36. Molti di questi drammi raggiungono un gtado non comune

di efficacia poetica (Pensaci, Giacomino!; Cos é

(se vi pare); Il piacere dell’onesta; Liola; Sei personaggi in cerca @’autore; Enrico IV; L’uomo dal fiore in bocca; Questa sera si recita

a soggetto; I giganti della montagna). Al di la degli schemi abnormi, delle situazioni paradossali, degli artifici teatrali (in cui del resto Pirandello rivela una sapienza tecnica prodigiosa, fertile e innovatrice), dappertutto si esprime e si impone quell’impeto disperato, quel grido di condanna altrettanto disperato di liberazione, quella nostalgia di una vita piena e sincera, naturale e pura, che erano la pena e la soffocata speranza di Pirandello.

I difetti dell’arte pirandelliana sono anche troppo evidenti: l’impegno umano fortissimo attenua e quasi esclude l'impegno letterario, e spiega, anche se non la giustifica, la

quasi costante incertezza delle risoluzioni stilistiche. Tutta l’opera del siciliano (e i drammi anche pit delle novelle) serba qualcosa di grezzo, di provvisorio, di non finito. Per un gusto umanisticamente educato i modi antiletterari e l’estremo romanticismo di Pirandello debbono di necessita apparire urtanti, quasi sconvenienti; ma anche ad un gusto meno

con-

venzionale si rilevano di rado i segni della fretta, dell’esuberanza, le fratture e le contraddizioni fra lo schema logico e il

modulo fantastico, e solo a tratti il linguaggio coincide appieno col sentimento, lo trascrive in maniera piana e persuasiva. Cid non deve tuttavia impedirci di riconoscere il significato storico importantissimo del messaggio umano e poetico di Pirandello: senza il suo esempio, non si spiega gran parte del teatro moderno,

americano,

non

tanto italiano, quanto europeo

E la sua importanza non é@ meno 4

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grande per



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"quanto riguarda i successivi svolgimenti della nostra letteratura narrativa. Profondamente radicata nella condizione tor-

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mentosa del nostro tempo, con il suo oscuro fermento liber-

tario e religioso, la sua denuncia di tutte le menzogne e i

compromessi del costume corrente, la sua genesi appassionata

e antilibresca, l’arte di Pirandello ha esercitato un influsso

tanto pit vasto, quanto meno appariscente, sugli scrittori delle ultime generazioni, tra i quali bastera ricordare, a titolo di esempio, un Bontempelli, un Alvaro, un Moravia.

5. Svevo. — Pit appartata e quasi sotterranea é l’esperienza che prende le mosse dal triestino ITALo SvEvo (Ettore Schmitz, 1861-1928), ma non meno significativa per gli svol-

gimenti della narrativa dei nostri giorni. Anche Svevo muove da un’educazione naturalista per approdare a risultati di una straordinaria modernita, che suscitano l’interesse e l’ammirazione, prima ancora che in Italia, nei circoli letterari pid —

avanzati di Parigi e di Londra. Anche la storia della sua fortuna di scrittore é sintomatica e singolare: nel 92 e nel '98, rispettivamente, pubblica due romanzi, Una vita e Senilita, composti, almeno per quanto si riferisce al ta-

glio, all’architettura, al modo di muovere le situazioni e i personaggi e di farli vivere per se stessi, e infine alla qualita della materia, opaca

gtigia banale, e dello stile arido e antiletterario, secondo la ricetta del verismo e dello psicologismo francese di Zola e dei Goncourt. Un occhio pitt attento potrebbe peré fin d’allora scorgere nella sua arte un altro elemento pili nuovo ed attivo: una sottile e torbida inquietudine autobiografica, un modo di raccontare, almeno per quanto ri-

guarda il personaggio che fa da protagonista, pit analitico e tortuoso, sottilmente polemico, che tende a un realismo meno esterno, e pit

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che alla rappresentazione oggettiva dei fatti, si volge all’esplorazione spregiudicata della realta di una coscienza nei suoi recessi pit segreti, nelle sue tare pit inconfessabili. Senonché i due libri passano in un silenzio pressoché totale, ignorati dal pubblico e dalla critica. ~ Dopo un intervallo di venticinque anni, Svevo da alla luce, nel ’23, il suo terzo romanzo, La coscienza di Zeno, con cui s’affianca natural-

mente agli esemplari pit arditi e inquietanti del moderno romanzo analitico e conquista d’un tratto, proprio quando ne aveva dimesso

ogni speranza, la fama italiana e eutopea, che lo confortera nel-

’estremo scorcio della sua esistenza: una fama promossa e alimentata

nei circoli letterari d’avanguardia, proprio quella che pik sembrava lontana dalle sue aspirazioni e dal suo temperamento, e da cui il -significato della sua opera esce in parte deformato e stravolto. In realta la Coscienza di Zeno non fa che sviluppare talune premesse

gia ben chiare nei libri che I’avevan preceduta; e la stessa tecnica del « monologo interiore », che l’apparenta su un piano tutto esterno alla narrativa di un Proust e di un Joyce, non vi é adottata per obbedire alia moda di una stagione, ma é una conquista che si sviluppa naturalmente e necessariamente su un terreno di esperienze tutte per-

sonali, nient’affatto improvvisate e tanto meno gratuite.

A spiegare la singolarita del « caso Svevo » serve anzitutto il fatto della sua nascita a Trieste:

in un ambiente

appartato, cioé, scarsamente legato alle correnti fondamentali della tradizione letteraria italiana, e aperto per contro agli

influssi di tutte le culture europee, e specialmente della tedesca e della slava, con i loro accesi e umanissimi

fermenti

romantici. Svevo é il primo rappresentante e uno dei pit notevoli di quella cultura della Venezia Giulia, che nella prima meta del Novecento costituisce una delle punte estreme e pit

attive, uno degli innesti pit vigorosi e decisivi ai fini di un rinnovamento della nostra letteratura. Questo spiega il riso-

luto impianto psicologico, e non di costume e dicolore, dei suoi romanzi, la qualita non provinciale e folcloristica, bensi

universalmente umana, della materia che egli prende a trattare; e anche la tendenza antiletteraria del suo stile 0, per meglio dire, l’assenza, quasi impensabile nel quadro lette-

rario italiano, di un autonomo impegno stilistico. E di un altro fatto occorre tener conto, che affonda le sue radici negli strati pit. profondi e segreti della sua stessa psicologia. L’arte

di Svevo si esercita tutta, a guardar bene, sul fondo di una materia autobiografica sorda e opaca, che egli ritrae con il freddo rigore scientifico di un referto medico e al tempo stesso esprime con |’immediata e oscura necessita di una confessione personale e impudica. Anche l’opera di Svevo, e pit

ancora di quella pirandelliana, sorge su un terreno, non sociale, ma individuale, e spesso da l’impressione al lettore di

trovarsi di fronte piuttosto a un prezioso documento di vita

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che non ad uno sforzo di ricreazione poetica. In cia icono dei ‘suoi romanzi diresti che la pittura ferma e distaccata degli ambienti e dei personaggi minori, visti con un’intelligenza — acuta e un sapore raro di concretezza e di verita, abbia so- — prattutto la funzione di sottolineare e mettere in moto la morbosa passivita, l’incapacita radicale di vivere, la natura

informe e dispersa del protagonista. Alla quale lo scrittore

aderisce con un curioso sentimento misto di pena e di rancore, —

di ripugnanza e di simpatia, che é il segno visibile di un so- — pravvento delle oscure ragioni autobiografiche su quelle distaccate e rasserenate dell’arte. Proprio da questa incrinatura,

d’altronde, da questa urgenza di stimoli umani e troppo umani, nasce l’aspro e inquieto fervore di un romanzo come Senilita, il suo tono nuovo e sconicertante. Si capisce che, per questa via, l’autore dovesse esser portato ad imsistere sempre

pit su quella solitudine del protagonista, a ricondurre ad essa, attraverso la sua visione deformata e dissolvente, frantumata e corrosiva, il ritmo delle vicende esteriori, persone e cose: ed ecco nascere, con Zeno, la tecnica del monologo interiore, l’ironica trascrizione di un fondo iridescente e allucinato di memorie. Ma in Zeno, e in alcune novelle minori degli ultimi anni, si fa strada anche, con gli anni e l’espe-

rienza cresciuti, una disposizione di pit rassegnata indulgenza verso il ae raemale, che colorisce di umore gaio ed ironico la materia

.

di per sé triste e squallida e attenua, se pur non

sopprime, l’urgenza delle ragioni autobiografiche, aprendo un varco meno stretto all’intervento di una fantasia piu sciolta

e leggera. Di Svevo resta ad ogni modo soprattutto quel sapore immediato di umanita, cosi schietta, cosi poco libre-

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sca, ¢ la novita persuasiva del contenuto: quella sua Trieste — cosi viva e salda, con i suoi fondaci e i suoi uffici bancari, i suoi interni popolani e i suoi tinelli borghesi, il suo piccolo mondo impiegatizio e mercantile, le sue donne, e le strade,

il mare, l’aria, la luce particolare delle ore e delle stagioni, indimenticabile.

6. Dai «Crepuscolari» alla « Voce»,

— Dalle esperienze

poetiche di D’Annunzio e Pascoli dipendono, in maggiore o minor

misura, tutti senza eccezione gli svolgimenti della sensibilita lirica

Miialisss ne primi tre lustri del secolo, nonostante le velleita pole-

miche e gli affermati propositi di ribellione. Al Pascoli delle piccole

cose e al D’Annunzio del Poema paradisiaco si rifanno i cosiddetti « ctepuscolari », e creano una loro tonalita caratteristica solo col modulare in forme pit dimesse i languori e le malinconie d’eccezione della sensualita dannunziana, 14 dove é pit stanca e abbandonata, o

col dar risalto all’umilta e al sentimentalismo pascoliano, spogliato delle sue -complicazioni

intellettuali ed umanitarie.

I futuristi alla

loro volta espasperano e moltiplicano la rettorica pugnace, le frenesie attivistiche, V'esuberanza immaginifica del poeta abruzzese, quando non ripiegano ancor essi, quasi senza accorgersene, sul tono di un

sentimentalismo mascherato di ironia e di cinismo. B comune ai due movitmenti anche il distacco dagli elementi tradizionali del linguaggio e della metrica, che negli uni si risolve nella ricerca di una sorta di prosa ritmata con lievi inflessioni di canto (e comporta una dissoluzione, non apparente, ma sostanziale, delle forme « chiuse »), ¢ negli

altri proclama la rottura di tutti i vincoli, la disintegrazione del discorso e dell’organismo

sintattico. L’affinita delle posizioni origi-

narie spiega, al di 1a delle apparenze diversissime, la comunanza di certi modelli forestieri, e perfino le disinvolte evoluzioni di taluni uomini dall’una all’altra scuola. L’influsso dannunziano e pascoliano

é evidentissimo proprio negli elementi formali: a spiegare la nascita di certo Jinguaggio, di certi procedimenti tecnici, non solo dei crepuscolari e dei futuristi, ma di tutta le poesia moderna, bastano

quasi sempre il modulo del verso di Pascoli con le sue caratteristiche fratture e i suoi voluti abbassamenti tonali, nonché la liberta con cui D’Annunzio rompe e dissolve le chiuse strutture classiche, in obbe-

dienza a un’atmosfera musicale, per esempio nella Proggia nel pineto. Quanto alla « Voce », anch’essa si presenta non esente da atteggiamenti polemici nei riguardi di D’Annunzio e, in minor misura, di Pascoli. Essa si propone di scuotere, di rinnovare il gusto, di eliminare i residui rettorici, gli stanchi sentimentalismi, di restaurare certe ragioni umane e morali. Ma la sua letteratura é, nel complesso, assai meno nuova delle intenzioni culturali a cui s’inspira; e queste intenzioni stesse sono non di rado confuse ed incerte. Per altro il movimento della « Voce », con tutti i suoi errori e le sue dispersioni, resta

un crogiuolo di esperienze e di avventure, alcune delle quali matureranno nel periodo successivo. La caratteristica dei poeti che furon detti « crepuscolari » (senza che si possa parlare di una scuola o di un gruppo nel senso stretto ¢ preciso del termine) si configura in una superstite volonta di canto,

che s’innesta su una totale incapacita di aderire al ritmo vivo del-

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Let

’operare,



con la coscienza sempre vigile della vanita di questo sognare. Questo



ambiguo equilibrio di toni sentimentali ed ironici, che all’inizio e nei -migliori corrisponde a una condizione reale dell’animo, tende per altro assai presto, e non solo negli epigoni, si anche nei rappresentanti — pia dotati del crepuscolarismo, a diventare una maniera, una posa, a —

fissarsi in un repertorio convenzionale di temi e d’immagini: stanchezze domenicali,

vecchie

case e giardini sonnolenti,

colori stinti,

musiche appassite, piccole cose di cattivo gusto. Anche la cadenza nuova, che é, fino ad un certo punto, in Gozzano e in Corazzini, il tono necessario del loro superstite desiderio di poesia, quella prosa cantata in sordina, si trasforma nei minori in un modulo stanco, in un ritmo un po’ falso e dolciastro. E qui appunto, nell’adozione di un .

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repertorio tematico e di una determinata intonazione linguistica e musicale, s'insinua, accanto ai modelli vicini di Pascoli e D’Annunzio, l'elemento culturale ¢ d’imitazione di certi poeti decadenti d’oltralpe,

non dei grandi maestri tuttavia, si pit spesso dei tardi discepoli pit © facili e di minore impegno. Verlaine e Rodenbach, Jammes e Samain



e Laforque offrono via via ai crepuscolari spunti, motivi, cadenze del

linguaggio e del sentimento. Per la maggior parte di questi poeti il crepuscolarismo ¢ appunto una

poetica, un atteggiamento

letterario, con il quale s’incontrano

in una fase della loro vicenda culturale e artistica, e dal quale presto si distaccano, allorché giungono a definire con maggior chiarezza i limiti del proprio mondo: cos} in MARINO MoRETTI (n. a Cesenatico, 1885), il quale dalle Poesie scritte col lapis (che, di quella poetica, ci offrono

uno

dei repertori pit rappresentativi

e quasi siste-

matici) passa pid tardi a un’attivita abbondante e fortunata di novelle e romanzi, in cui la materia sentimentale, umile e intristita, delle liriche € ripresa con un’aderenza pit schietta, e lievitata nei libri

migliori (L’Andreana; La vedova Fioravanti, le pagine autobiografiche del Tempo felice) dall’intervento di un’ironia meno esteriore, pit intensa e mordente; cos} ancora in Palazzeschi, che, dopo essere stato di volta in volta crepuscolare e futurista, trovera la sua strada solo

pit tardi nelle prose di memorie e di invenzioni (e dovremo riparlarne); cosi in altri parecchi che non mette conto ricordare. Solo nel romano SERGIO CoRAZZINI (1887-1907), morto tisico a vent’anni e nel Gozzano, distrutto dallo stesso male poco dopo i trenta, l’atteggiamento crepuscolare tappresenta un’esperienza totale

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che coincide appieno con lo spazio della loro breve giornata e si traduce in una poetica non

riflessa, ma

veramente

vissuta e sofferta.

Ma in Corazzini c’é poco pit che la traccia e il primo avvio di uno stato poetico, in forme ancora acerbe e scarsamente

personali, lette-

rarie non di proposito ma per giovanile inesperienza; e solo dove si raccoglie ad affisare la sua deserta stanchezza di fanciullo che Piange, senza tentare di esaltarla o di ironizzarla, trova una sua musica pid sincera di accorata elegia.

La personalita poetica di GUIDO GOZZANO (n. ad Aglié Canavese, 1883-1916) ha avuto campo invece di svolgersi e maturarsi fino a raggiungere un suo inconfondibile accento. In lui la « giocosa aridita larvata di chimere » é tutt’altro che una disposizione letteraria, nasce da una profonda radice umana; ma neppure si riduce a un’effusione acerba e immediata del sentimento, @ riscattata prima di tutto dal rigore inconsueto dell’arte, impegnatissima e messa in risalto dalla tenuita stessa e quasi inconsistenza della materia su cui |’artista si esercita a comporre i suoi rari e delicati ricami « di

sillabe e di rime ». La sincerita dello spunto umano si ricava

agevolmente dalle sue prose di fantasia e di viaggi, che me‘titano uno studio pit attento da parte dei critici: in esse la sua malinconia, Ja sua rinunzia consapevole e rassegnata, il suo sentimento assiduo della morte della caducita della corruzione, che s’annida in ogni spettacolo di vita e di bellezza, sono espressi in forme piu dirette e immediate. Nelle due

raccolte poetiche (La via del rifugio, I Collogut), quello stesso mondo sentimentale, con la sua desolata indifferenza e le sue evasioni nel sogno e nel passato e la sua stanca nostalgia di salute e di felicita, riafhora, ma come attraverso un diaframma di ragioni intellettuali, in toni scherzosi e umoreschi,

che introducono a tratti un’ambiguita, un’apparenza di gioco e di artificio, ma sono anche, nei momenti migliori, lo stru-

mento appunto di un’arte pit raffinata, il mezzo pit opportuno ritrovato dal poeta per stabilire un sufficiente distacco fra sé e la sua materia. Assai

pit del crepuscolarismo,

€ nonostante

tutte le sue pretese

rivoluzionarie, il futurismo si esaurisce in un programma letterario.

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Intanto esso si atteggia, anche esteriormente, come una scuo a, u ce gruppo ben definito, con una sua dottrina, enunciata in una serie di ;

manifesti, divulgati dal 1910 in poi, e illustrata in conferenze, esposizioni, riviste, con tutti gli espedienti della propaganda pit clamorosa e della pubblicitd commerciale. Ma, a prescindere dall’efficacia eser- 7 citata nell’ambito di altre arti — pittura scultura architettura e urba-— nistica —— e nel costume, il futurismo si rivela assolutamente sterile nel campo della letteratura: non ne é venuto fuori nessun a, an-

che se per un momento ha potuto raccogliere l’effimera adesione di — alcuni transfughi del crepuscolarismo (Palazzeschi, Govoni) o del ~ movimento vociano (Papini, Soffici); né pud considerarsi un poeta il

suo fondatore, Fitiprpo TOMMASO MARINETTI (n. Alessandria d’Egitto, 1876-1942), che é@ piuttosto un personaggio rappresentativo di una certa civilta e un abile raccozzatore e agitatore di certe idee cor-

.

renti nella cultura del suo tempo, francese e anche italiana, le quali acquistano un’apparenza di novita e di sistema, passando attraverso

l’'indubbia e alquanto mistificatoria abilita dei suoi procedimenti aforistici e delle sue chiassose esemplificazioni. In letteratura, il futurismo teorizza l’aderenza pit stretta all’attivismo e al dinamismo del mondo moderno, il rifiuto di tutte le poetiche classiche e romantiche, e la richiesta di nuovi strumenti espressivi, attraverso l’abolizione della

sintassi, la soppressione degli elementi qualificativi del discorso (aggettivi, avverbi), l’uso delle parole in liberta, che traducono immedia-

ss —

tamente la simultaneita, i rapporti analogici, le concatenazioni temporali e psichiche, e al tempo stesso il disordine, dei dati intuitivi. Sono

evidenti-gli spunti antiletterari, mistici, irrazionali, che Marinetti nei

suoi manifesti deriva dalla poetica dei simbolisti, su cui si era formato, nonostante le sue sparate polemiche contro Mallarmé (da cui

pur derivano direttamente persino le sue proposte di innovazioni sintattiche e grafiche). E altrettanto evidente é l’impoverimento, il processo d’esteriorizzazione che quegli elementi subiscono passando attraverso il filtro dell’aridita e dell’ingegnosita marinettiana. Del re-

sto € qui proprio che si deve riconoscere la relativa importanza, sul piano culturale, dell’esperienza futurista, in quanto esperienza di decadentismo, pit superficiale e improvvisata, ma anche pia estesa e

aggressiva,

€ pronta in ogni istante a trascendere gli stessi confini

dell’arte, per tradursi in uma pratica di vita frenetica e febbrile e

adeguarsi alle effervescenze dell’irrazionalismo nel campo sociale e politico. Nel campo tecnico l’esperienza futurista si affianca, senza sostanziale novita, ai tentativi assai pid meditati, spontanei e importanti di Pascoli e D’Annunzio, in un identico bisogno di rompere le strutture troppo chiuse e stereotipate dei metri, del verso, del periodo

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- poetico e della sintassi prosastica. Ma n on

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si pud dire che, neppure |

in questi limiti, la sua efficacia risulti vasta e tanto meno profonda.

Assai pit larga e duratura fu senza dubbio quella del movimento, che per un certo periodo raccolse tutte le forze pit vive e coraggiose della cultura italiana intorno alla Voce, la rivista fondata a Firenze

nel 1908 da GIUSEPPE PREZZOLINI

(n. a Perugia, 1882). L’aveva

preceduta, dal 903 al ’907, il Leonardo di Prezzolini e Papini; e dal

13 al ‘15 le si affiancd, affine e discorde, Lacerba di Papini e Soffici. Nel Leonardo prevale la preoccupazione filosofica e politica; Lacerba ha un programma pid strettamente letterario e aderisce nella sua fase culrhinante al futurismo di Marinetti; nella Voce le esigenze ideologiche e culturali si alternano, si contemperano:e tentano di fondersi con quelle artistiche. Il movimento vociano del resto nasce da un bisogno neo-romantico di esperienza integrale, che tende all’'affermazione di una nuova cultura e di una nuova letteratura nello stesso tempo, e s'impegna quindi in ogni campo con uno spirito inquieto e avventuroso, impetuoso e confusionario: una specie di «Sturm und Drang» in formato ridotto, italiano e novecentesco. In letteratura, partiti da un generico atteggiamento estetizzante, i « vociani » vengono via via accogliendo e sistemando gli apporti

delle poetiche d’oltralpe, e son tra i primi a rivelare fra noi e ad assimilare, su un piano di cultura sufficientemente seria e in maniera meno occasionale e frammentaria, Mallarmé e Rimbaud, Claudel e

Péguy e Apollinaire, tutta insomma la lirica e la letteratura francese moderna, e i russi, e Ibsen.

E possibile distinguere abbastanza nettamente, in questo complesso culturale, due elementi di diversa origine e qualita: da un lato, un’in-

tenzione genericamente rinnovatrice, che si traduce in un’opera essenzialmente divulgativa, un po’ confusa e torbida, ed ha il suo animatore e il suo rappresentante nel Prezzolini; dall’altro lato, una pit

concreta e fervida esperienza morale, torbida anch’essa, ma stimolante e alimentata da esigenze profonde, l’esperienza di estremo romanticismo di alcuni scrittori dell’Italia settentrionale. Analogamente sul piano artistico, alla letteratura da giovani vecchi, apparentemente all’avanguardia e sostanzialmente accademici, di Papini e di Soffici, fa tiscontro quella immatura ed acerba, intimamente tormentata e tutta

sperimentale, di Boine e Jahier, di Slataper e Michelstaedter. Papini e Soffici accettano i dati della cultura nuova con animo di letterati di vecchio stile: il primo per farsene pretesto di una prestigiosa esercitazione rettorica, l’altro per sfogarvi la baldanza del suo giovanile impressionismo e del suo rivoluzionarismo superficiale; € non a caso entrambi ripiegano, in una seconda fase, sulle posizioni

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so er tradizione, della dell’ordine, ingenui ed -tono a paladini imbronciati di partenza, da cui s’erano allontanati con tan to chiasso, e€ si c

della disciplina pit borghese e filistea. Che poi l’esperienza tutta

esterna,

oratoria, sofistica di GIOVANNI

PAPINI (n. Firenze,

abbia potuto esser scambiata dapprima per un momento

1881) a

essenziale—

¢ rappresentativo della cultura « vociana », questo é solo un segno, —

fra i molti, dei limiti e delle incertezze di quel rinnovamento cultu- — rale. Papini ha potuto infatti tentare ad una ad una tutte le strade,

dovunque ostentando una posa di ribelle e di iconoclasta: dalla filosofia (Crepuscolo dei filosofi) alla critica letteraria (Stroncature), dalla prosa lirica (Cento pagine di poesia) alla poesia ermetica (Opera prima), dal racconto metafisico (Tragico quotidiano) all’autobiografia intellettuale (Un xomo finito); ma in ogni suo libro risaltera anzitutto qualcosa di volontario, un proposito di bella composizione, di bravura tutta verbale, che abbassa a pretesto le materie pit varie, le pi meschine come le pit serie. Né ha giovato a trasformarlo,

almeno per questa parte, la sopravvenuta conversione al cattolicesimo : la Storia di Cristo é ancora, come sempre, una raccolta di temi svolti:

mutati i temi, non il modo scolastico dello svolgimento. Nei primi libri di ARDENGO SoFFICI (n. a Rignano in Valdarno, 1879) c’é. forse qualcosa di pit: se non altro, quel piglio giovanile piu sincero, quell’abbandono pit franco al gioco delle impressioni e degli umori elementari, che si dispongono sulla carta con Ja loro freschezza immediata,

nativa, popolaresca. Ma si tratta di un’arte assai grezza,

senza possibilita di svolgimenti né complessita di riferimenti intimi. Si che passando dal diario e dalla cronaca (Arlecchino, Giornale di bordo, Kobilek, La ritirata del Friuli) alla misura ben altrimenti com-

plicata del romanzo, sia pure allegorico e satirico (Lemmonio Boreo) o addirittura del carme pseudo-foscoliano (Elegia dell’Ambra), era naturale che Soffici precipitasse anche lui a capofitto nell’accademia e nel componimentino scolastico. Boine, Michelstaedter, Jahier, Slataper arrivano invece alla poesia,

non immediatamente e nei modi elementari ed effimeri di un Soffici, e neppure di proposito e con la superficiale baldanza del rétore, come Papini; si per una necessita profonda, che trova il suo stimolo

in un’inquieta e sofferta esigenza morale e si alimenta di concrete esperienze umane. L’arte di questi moralisti é tutta sperimentale, uno sforzo di liberazione, una volonta protesa allo scopo di dominare e riassumere

il proprio mondo per mezzo della parola, in forme pid intense e assolute. Questo si vede bene gid nel goriziano CARLO MICHELSTAEDTER (1887-1910), nel quale la preoccupazione filosofica appare pid



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forte e ae Beclasiva e si traduce, nell’ETO

Onclettibte di un si-

ve stema di idee. In alcune pagine della sua opera filosofica e in alcune poesie é possibile additare le rare e travagliate soluzioni artistiche, a cui approda la sua anarchica esigenza di affermazione della per-scnalita liberata da tutti i pretesti e da tutti i legami. Ma in Michel~ staedter é difficile comunque distinguere in modo netto l’opera dalla ‘ ; vita, isolare il valore oggettivo dei testi scritti dal fascino del temperamento, ‘che s'impone con una forza e una pienezza d’umanita

inconsueta. Anche nel ligure GIOVANNI BOINE (1887-1917) l’espee, tienza religiosa (intesa come il residuo vitale che sfugge a tutte le sistemaziOni rigorose del pensiero) e l'esperienza artistica (alla quale tende, come alla sola capace di accostarsi in modo diretto a questo

disordine profondo della vita e di interpretarlo immediatamente, al _ di fuori di tutti gli schemi e le classificazioni intellettualistiche) coincidono. Anch’egli giunge alla poesia solo attraverso un travaglio di sofferta riflessione: vuole «una filosofia che sia arte, un’arte che sia

filosofare ». Naturalmente respinge tutte le soluzioni strettamente letterarie; ma neppure l’appaga lo sfogo autobiografico (I'« impeto lirico »); cerca una forma di espressione totale, uno strumento di comunicazione piena, che lo metta in rapporto con gli altri uomini,

_ che I’aiuti a superare la sua solitudine. Donde I'esigenza, e l’impegno, “del problema formale, ¢ insieme l’ambizione sempre insoddisfatta di una letteratura di vasto tespiro e di larga umanita. Ma il tentativo del romanzo (J/ peccato), in cui dovrebbero fondersi e equilibrarsi le esigenze di concretezza rappresentativa e di riflessione, l’arte che cresce su un tormento filosofico e la filosofia che si risolve in arte,

fallisce allo scopo. E del Boine oltre le pagine che documentano la sua singolare posizione teorica, e quelle di critica letteraria, tra le pit

_ acute Larte, sole), ansia

e sensibili del suo tempo, restano soprattutto, sul piano deltaluni frammenti di prose liriche (come il Ragionamento al in cui l’espressione della sua personale sofferenza e della sua mistica raggiunge una straordinaria intensitd di linguaggio e

di ritmo.

- L’esigenza del ritmo e del linguaggio intenso, in quanto risoluzione artistica di un travaglio morale profondo, si avverte anche piu

forte e con risultati pid fermi e riconoscibili in Slataper e in Jahier, nei quali il conforto dell’arte, non a caso, si presenta come un dono raro e difficile, al vertice di un’esperienza complessa e impegnata, a prima vista, su un terreno di indagini e di problemi nient’affatto artistici e tanto meno estetizzanti. I] triestino SCIPIO SLATAPER (n. nel 1888, morto in combattimento nel 1915) giunge alla poesia non

subito, e una

sola volta, con

il diario-racconto

I/ mio

Carso.

irta di problemi e di esigenze morali ancora irresolute e inquietanti,

é poi anche nelle sue pagine pit felici la testimonianza di una sensibilita straordinariamente intatta e fresca, che si esprime con una asso-

luta novita di linguaggio e di immagini. I/ mio Carso riflette la concezione austera, religiosa, antiletteraria che ha dell’arte il suo autore,

ma s'impone con un’intensita di risultati lirici, che é il segno di una ~ vocazione lungamente costretta. Problema artistico e problema | etico si sovrappongono, pur senza confondersi, e il travaglio dello stile, attraverso un’estrema semplificazione e riduzione all’essenziale

degli strumenti espressivi, vuol esser conquista di una disciplina al tempo stesso letteraria e morale, imposta a una natura e a una fanta-

sia impetuosa, che ha qualcosa di esuberante e di giovanilmente selvaggio. Anche PIETRO JAHIER (n. a Genova nel 1884, di famiglia piemontese e protestante) é scrittore di pochi libri (e tace ormai da oltre un ventennio). Alla radice della sua arte si sente il rigore di un’educazione puritana: uma severa dialettica delle categorie morali; una disposizione costante e irresistibile ad atteggiarsi di fronte a se stesso ed agli altri, non come spettatore, ma come giudice intransigente. Di qui nascono, dopo la polemica e la satira scoperta, arida e soffocata, ma a tratti anche crudelmente estrosa, delle Resultanze in merito al

carattere di Gino Bianchi (ritratto e caricatura della burocrazia moderna), anche i motivi profondi dei due libri pid belli di Jahier: il tono di confessione spietata e solitaria, senza pace, in Ragazzo; le celebrazione di un clima di eroismo e di sacrificio, senza rettorica,

nel diario di guerra Con me e con gli alpini. In Jahier, artista prima ¢ pid ancora che moralista, l’intimo bisogno di verita e di rigore si traduce soprattutto in uno sforzo di sinceritd espressiva: una sin-

cerita, che non é immediatezza,

ma

approfondimento,

adesione al

contenuto pid arduo e segreto della propria esperienza, trasfigurazione lirica e non lirismo autobiografico. Nessuna sua pagina suona gratuita, priva o anche soltanto povera di giustificazioni umane; ma dappertutto I’immediatezza della confessione @ redenta da un ostinato

impegno di stile. Ma l’apporto del movimento « vociano » agli svolgimenti della

nostra letteratura non si pud considerare esaurito nell’opera di que-

S

yo

sti scrittori moralisti, che senza dubbio ne rappresentano il fermento

_ pit attivo e l’insegnamento pit duraturo. La Voce, e soprattutto nella sua ultima fase (allorché prese a dirigerla, tra il 14 e il ‘16, Gru-

_

SEPPE DE ROBERTIS, sottolineandone le funzioni in limiti appunto piu strettamente letterari), rappresenta anche per un altro verso un ‘momento importante nell’evoluzione del gusto, nel senso di un accfesciuto e pit diretto sentimento dei problemi artistici come tali. A promuovere questo sentimento sta, oltre le poetiche indigene o

importate del decadentismo, anche l’estetica stessa di Croce interpretata in senso decadentistico come poetica della liricita pura, del-

Vintuizione fantastica compiuta e perfetta nel suo ambito breve. Ne deriva l’abbandono, o se non altro la svalutazione, delle forme com_ plesse, narrative drammatiche epiche; e un restringersi alle ragioni

puramente liriche, o addirittura autobiografiche, dell’esigenza espressiva. Donde la fortuna del « frammento », del « saggio », della pagina lirico-riflessiva, che si appaga in se stessa ed esclude di proposito, ovvero annulla nel fatto, l’ambizione di una struttura e di una | durata pit ampie e complesse. Il frammento diventa allora veramente la misura di un gusto, la proposta di un « genere », che coincide nelle sue ragioni pi o meno consapevoli con un’esigenza di lirismo puro, ricondotto alla sua essenza di vibrazione autonoma del sentimento, irrazionale e immotivata. Non a caso, proprio nell’ambito di questo gusto « vociano », anche se non ad opera esclusivamente di scrittori« vociani », si pongono le basi — con Campana, Sbarbaro, Onofri, Ungaretti, Cardarelli — di questa « poesia nuova », della quale dovremo fare presto oggetto di pit preciso discorso. E si deve aggiungere che questo gusto investe allora anche le opere di impianto pid esteriormente narrativo: agisce anche in scrittori apparentemente orientati in tutt’altra direzione, un Tozzi, per esempio, e perfino un Cicognani. Naturalmente la poetica del « frammento » comporta anche una prevalenza degli interessi letterari in senso formale; e i cultori del frammento

sono quasi sempre prima

di tutto degli stilistii Uno degli esempi migliori ¢ CaRLo LINATI (di Como, n. 1878), che nella sua arte fonde le esperienze « vociane » della prosa lirica e gli insegnamenti, anch’essi essenzialmente stilistici, della scuola lombarda - scrittore ricco di molte

e specialmente

belle doti, e con

del Dossi. £ uno

un’umanita

sua

cordiale

e vivace, arguta e sensibile. Ma tutto in lui @ come passato al filtro di uno stato d’animo letterario (¢ in questo senso appunto deve intendersi anche il suo cosiddetto manzonismo); ogni fermento romantico @ distanziato e pacificato nell’aria tersa e nella fluidita un po’ industriosa 48. —

Saprecno,

dello stile. Disegno

stor.

della

lett.

it.

we

Alle origini di quest’arte del frammento e della prosa li-

= rica sta una misura di gusto, una capaci ta di sceltae di celi-

. ae Bee papi:

-minazione di tutti gli elementi extrapoetici, una forte dose ; insomma di controllo autocritico. La die é infatti uno degli ingredienti pil caratteristici ¢ significativi della letteratura _

« vociana » e post-vociana, che da un lato ne spiega il tono

po

:

in complesso alto e raffinato, dall’altro ne determina i ritegni, le limitazioni, e addirittura le timidezze, la ritrosia ad affrontare i rischi e le avventure, la tendenza a rinchiudersi in un’

otticello esiguo, per quanto coltivato con diligenza amorosa e ammirevole. Non é un caso che molti scrittori formatisi in — quegli anni siano anche critici, come Boine o Slataper, o addirittura in un primo tempo quasi esclusivamente critici, come

Cecchi; e che all’opera degli artisti si afanchi, con un processo di collaborazione particolarmente intima ed efficace, quella dei critici militanti, dal Cecchi stesso al De Robertis, al Gargiulo, al Pancrazi. Ma

lo scrittore che, pit d’ogni altro, incarna

in sé, nei suoi

scritti e nella stessa vicenda umana, questa presenza di un controllo autocritico, nella sua duplice funzione di stimolo e d’impedimento,

é RENATO SERRA (di Cesena, 1884-1915). Alla cultura, al gusto del suo tempo egli aderiva in un modo, che é insieme profondo ed ambiguo,

appassionato ma

anche combattuto



ed evasivo. I suoi

atteggiamenti mentali, le sue preferenze e il suo stesso costume di vita erano di decadente: inquieti, con un fondo torbido di umori e malinconie, ansie e rinunzie accidiose, restii a darsi una disciplina,

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a comporsi in un organismo. Anche la sua cultura era quella dei

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€ umanistico, che gli veniva dalla scuola bolognese e carducciana; poteva indugiare su un verso di Gozzano, un’impressione di Soffici,

: sii . Pe, Toe

una ballata di Paul Fort, ma sapeva sempre, volendo, risalire ai classici, al suo Petrarca, al suo Virgilio, ai suoi greci. Di qui quella sua thaniera tra fraterna e irritata, docile e infastidita, di accostarsi -

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Kane “ae

|

moderni, alacte, curiosa, un po’ viziata, ma pid ricca, con un bagaglio pil severo e signorile di nozioni letterarie in senso tecnico

ai testi contemporanei, che egli sente affini al suo turbamento, ma nei quali avverte anche ad ogni passo un’insufficienza, un che di

incompiuto e di meschino, a paragone dei grandi modelli classici, un difetto d’arte e di mestiere. Da questo contrasto tra una sensibilita decadente

e un’educa-

~

zione. umanistica di. tanto pid esperta e ‘minuziosa a paragone dei

contemporanei, nascono da una parte i tanti giudizi di Serra dispettosi o evasivi o addirittura inerti e sfasati sugli scrittori del suo tempo; ma dall’altra anche le sue pagine pit belle, quei suoi saggi che si maturano

attraverso

un’esplorazione

cauta

e in apparenza

svagata, che tenta il suo tema per molte vie, per non eluderlo, per

attingerne il fondo e farne affiorare alla luce tutti i segreti, per -approdare -alla fine a un giudizio che incide e tocca il segno, pur fra mille esitazioni e titubanze e tentennamenti: il saggio su Pascoli, per esempio, tanto per indicare solo uno dei risultati piu scbietti e di maggior impegno. D’altra parte, anche a prescindere dai risultati particolarmente felici sul piano dell’analisi critica, l’inquietudine di Serra, quel suo combattuto amore per la letteratura del suo tempo,

quella sua stanchezza venata di nostalgia, quell’alternativa di abbandono

e di distacco, di simpatia e di fastidio, ha quasi un si-

gnificato simbolico nei riguardi di tutta una civilta letteraria. Della quale Serra avverte si l’insufficienza, la poverta di ragioni umane, la ristrettezza dell’orizzonte ideale; ma alla quale poi non sa con-

trapporre nient’altro che la sua nostalgia appunto, anch’essa decadente

e crepuscolare,

di un

decoro

umanistico,

di una

superstite

dignita formale. Donde quella sua ansia sempre inappagata, e la costante tendenza ad evadere dalla critica verso la confessione e fa lirica, e quell’aspirazione desolata a una preclusa pienezza di vita,

che gli ispira, alle soglie della morte, l’Esame di coscienza di un letterato: che vorrebbe essere, ¢ non é, un’accettazione convinta della

vita, un andaré incontro alle ragioni e alle passioni degli uomint comuni,

per sentirsi

solidale con

essi di fronte a quell’esperienza

estremamente impegnativa che la guerra rappresenta; ed é€ piuttosto un lasciarsi afferrare dalla vita, nell’impossibilita di dominarla, un abbandonarsi docile al ritmo cieco delle cose, perché esso sciolga

nel nulla l’inestricabile nodo delle sue insufficienze e delle sue contraddiziont.

7. Altri scrittori in versi e in prosa.— II quadro, tracciato nel paragrafo che precede, coglie le caratteristiche dominant, la linea essenziale secondo cui si svolge la letteratura negli anni che vanno dall’inizio del secolo fino alla prima guerra. Occorre ora trovar posto all’opera di alcuni scrittori, che non si collocano facilmente in quello schema di svolgimento, se put ne tisentono a modo loro e in varia misura l’influsso. Né si tratta sempre di scrittori minoti,

e tanto meno trascurabili. E possibile, si, sorvolare sulle esperienze di verseggiatore pre-

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zioso, impeccabile ma sterile, di un FRANCESCO PASTONCHI (tAES Riva Ligure, 1877), oppure sull’ingenuo e delicato estetismo di un — ApoLFo Dz BosIs (n. ad Ancona, 1863-1924). B lecito fors’anche trascorrere senza soffermarsi sulla nobile fatica di un GIOVANNI CENA Fa

(n. a Montanaro Canavese,

1870-1917), anche se resta importante

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il suo sforzo per sottrarsi alla cappa di piombo dell’estetismo dan-— nunziano,

la sua ricerca di una materia umile e grigia, umana

popolare, che anticipa taluni procedimenti dei crepuscolari.

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Una personalita pid risentita, era nei primi versi di ADA NEGRI |

(n. a Lodi, 1870-1944). Pit tardi essa si é sforzata di superare — quel che vera d’immaturo nella sua arte, adottando un po’ dalVesterno moduli e cadenze di Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, e riuscendo, specie negli ultimi libri, a ritrovare accenti pit puri e pacati,



senza smarrire del tutto quell’impeto e quel calore giovanile ch’era la sua forza; ma, meglio che nei versi forse, persuade nel tono dimesso di certe prose narrative e autobiografiche. SIBILLA ALERAMO (di Alessandria, 1876) ha una volonta pit robusta e una pit lucida intelligenza. Il fermento romantico e ribelle, che la fa parlare, il coraggio inesausto che é@ la regola della sua vita e la disciplina dei suoi errori, hanno le loro* radici in un’uma-

nita pitt profonda; come anche é@ pid profondo e serio l'impegno con cui ella aderisce via via agli svolgimenti della letteratura del suo tempo

(non esclusi il frammentismo

vociano e la lirica pura),

sforzandosi di assimilarne le conquiste sul piano tecnico e di adeguarle alle esigenze del suo lirismo. Proprio questo impegno, ch’essa reca nel suo proposito di far coincidere senz’altro :l’arte e |l’autobiografia, @ la forza onde nei momenti pit felici riesce a riscat-— tarsi in una purezza di accenti che non ha pit nulla di gratuito, che s'impone con un sapore immediato

di verita lirica, in alcune

almeno delle sue Poesie e in molte pagine di diario. In altri poeti i legami con le varie correnti letterarie del tempo sono pili evidenti, senza che si possa tuttavia assegnar loro un posto ben definito e incasellarli in un gruppo, in una tendenza. Un crepuscolare con nostalgie classiche é il napoletano FRANCESCO GAETA (1879-1927), le cui liriche trovarono un fervente ammiratore nel (Croce, proprio forse per quell’ingenuo proposito di fedelta a certi moduli tradizionali che le caratterizza. La materia dei suoi versi é decadente: una sensualita un po’ carica ed acre, un animo inquieto torbido e diviso, un’attenzione minuta ai particolari della realta

quotidiana e prosaica; cui s’aggiunge per altro una tensione, un’aspirazione di discorso elevato, di respiro ampio, una vaga nostalgia di ritmi e suoni carducciani. Ma il tentativo di cantare con voce

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-lasciano nel Jettore I’impressione di un’esperienza parn assiana

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-voluta e mortificata, piena di fatica e di stento. Da un’esperienza

crepuscolare era partito anche Corrabo Govoni

(di Tamara, nel

Ferrarese, 1884), il quale @ passato poi per una fase futurista e ha

~collaborato alla Voce: ma, meglio che un poeta, nelle sue lunghe

“¢ a lungo andare fastidiose carovane di immagini, @ quasi un cantastorie popolano, con un suo candore un po’ affatturato e corrotto _ da una patina di frettolosa cultura. Raffinatissima @ invece l’arte del veneto DizGo VALERI (n. 1887), nei cui versi senti 1’educazione pascoliana e crepuscolare, ma passata al filtro di una cultura larga e modernissima, arricchita di tutte le scaltrezze dei lirici contemporanei, soprattutto francesi.

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io et =. SA;

Tutti questi poeti stanno, come s’é detto, un po’ fuori del quadro,

ai margini della strada maestra, ma pur vivono in quell’atmosfera, si muovono in un ben definito ambiente di cultura e di gusto. Ve-

- ramente

isolata, quasi in contzasto

Novecento,

con

le tendenze

letterarie

del

o per meglio dire ignara di esse, salvaguardata dalla

stessa umiltd delle sue intenzioni ed occasioni, @ piuttostola voce del romano TRILUSSA (Carlo Alberto Salustri, n. 1873), la sola _ voce satirica dei suoi tempi e anche la sola relativamente popolare. Non @ una satira, la sua, che incida e bruci nel profondo, resta in superficie, si ferma all’episodio, all’aneddoto; tende piuttosto allo

scherzo che all’invettiva, pit all’epigramma che al sarcasmo; e alle sue radici non c’é l’indignatio magnanima e feroce dei grandi moralisti fustigatori di una societa corrotta, s! un mediocre buon senso,

e anche una furberia e uno scetticismo tutti popolani e terra terra, Trilussa ha una vena, non lirica, ma di narratore e bozzettista, a tratti assai felice, rapido, efficacissimo. E anche la sua arte, dove

é buona, ha un tono suo, alacre e pungente, e un suo linguaggio, una sorta di gergo furbesco e burlesco (pit vicino alla lingua parlata che al dialetto veto e proprio, una lingua insaporita e variegata di smorfie e cadenze dialettali), e una versatilita inesauribile di trovate e di motti calzanti. Accanto agli scrittori in versi, ci sarebbe da ricordare tutta una serie di prosatori, o meglio di professionisti della narrativa amena e del pezzo di cronaca per riviste e giornali di larga divulgazione, dallo Zuccoli all’Ojetti, dal Beltramelli al Gotta, al Brocchi, e via

discorrendo:

costoro obbediscono

a ragioni prevalentemente

com-

merciali, e la storia letteraria pud anche non tenerne conto. Piut-

tosto é il caso di indugiare sul desiderio di un ritorno al realismo, all’oggettivita della narrazione, alla vastiti e complessitd degli assunti

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umani, che si manifesta da molte parti e in forme uanto- dissimili, ma tutte convergenti a un medesimo intento, negli anni che ~

immediatamente succedono alla prima guerra mondiale. Si tratta di_ scrittori che in vario modo reagiscono alla poetica del frammento e mostrano di tendere a una letteratura di impegno pit largo e di risonanza pit vasta, popolare: senonché in alcuni la reazione ha qualcosa di frettoloso e di meramente programmatico, in altri ¢ — solo una velleitd che si sovrappone dannosamente alle qualita pid ia‘ sincere del temperamento. ae:5 Il pid schietto, nei suoi limiti, é forse il florentino BRUNO CI- —

COGNANI (n. 1879), il quale si ricollega alla tradizione del verismo — toscano di Pratesi e Fucini e inoltre risente dell’influsso del romanzo francese e russo. Il gusto fuciniano della caricatura, della macchietta, del bozzetto é chiaramente visibile nelle sue prime invenzioni; ma

assai presto il suo modo di narrare e rappresentare (nelle novelle — di Strada facendo, nei romanzi: La Velia, Villa Beatrice, nelle prose di ricordi: L’etd favolosa), pur conservandosi un po’ trito, insi- stente, talora crudele, realistico sempre, tende a rivelare un fondo

di pieta amara e dolente, un’attenzione psicologica intensa e insieme cordiale, che affronta con coraggio temi e situazioni di una rara e inquieta complessita, e non per un gusto tutto sperimentale, si col proposito di isolarne il nucleo umano appunto, l’angoscia segreta. Un altro narratore-artista, attentissimo ai problemi della sua arte,

é il ticinese FRANCESCO CHIESA (n. 1871). La sua attivita ¢ dapprima prevalentemente di poeta, con una solida, ma un po’ dura e fati- — cata, educazione umanistica, che scopre a tratti un’inclinazione parnassiana. Ma pia conta la sua opera, venuta dopo, di prosatore,

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nella quale s’avverte il segno della vicina tradizione lombarda e , ' un sentore di pacatezza manzoniana, ma gia piegata al divertimento personale e alla divagazione in senso umoristico. I risultati migliori — sono in alcuni libri, a mezzo tra la favola e l’autobiografia (Racconti del mio orto, Tempo di marzo, Sant’ Amarillide). La prosa di Chiesa resta ad ogni modo assai pit lirica che narrativa; e il suo tono é Vidillio, un idillio lievitato e reso vibrante dai trasalimenti di una

sottile e curiosa psicologia. Il dissidio fra una vocazione lirico-frammentaria e l’aspirazione ad una letteratura di pi vasta portata, capace di una complessita e profondita di risonanze e riferimenti psicologici paragonabili ai modi della grande narrativa europea, raggiunge il suo vertice e un’intensita drammatica e quasi simbolica nel senese FEDERIGO Tozzi

(1883-1920), che é una figura importante, anche se il giudizio sulla sua opera timanga

nel complesso negativo.

Di origine popolana,

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il Tozzi. condusse un’’esistenza breve e difficile e fu, sche in let-teratura, un solitario, distaccato ‘dalle correnti fondamentali della cul-

tura e dell’arte contemporanea (con le quali mantenne se mai solo ‘i contatti saltuari e sempre incerti dell’autodidatta), tutto dedito a una sua esasperata ambizione di rinnovamento della materia e della 2 forma artistica, e della forma in nome e in virti della materia.

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4Birt ecnats in una totale adesione alla sostanza immediata, violenta,

sensuale della propria anima; agli impulsi, alle irritazioni, all’accidia, alle immagini ossessive di un’ esperienza intensa, ma chiusa e immatura, erano negate al Tozzi sia la possibilita di obbiettivare i dati della sua’ psicologia in forme narrative, in personaggi e vicende " capaci di una almeno relativa autonomia, sia anche I’altra facolta pit propriamente lirica di liberarli e trasfigurarli in canto, nel pacato

_ linguaggio della poesia. L’esigenza narrativa (il richiamo, cosi forte -e cosi vano al tempo stesso, al modello verghiano) ¢ per altro giu‘stificata nel Tozzi dall’urgenza stessa delle ragioni psicologiche e ‘materiali che si addensano e intorbidano la sua sensibilita; senonché la sua capacita di obbiettivarsi non va oltre i limiti di una figura o di un paesaggio offerti dalla memoria e tutti intrisi ancora di una commozione e di una pietd strettamente personale, una realtd insomma

non

tanto veduta quanto sentita e subita e tuttora immersa

in un fondo indistinto il carattere frammentario

gratuito e immotivato Varia dei suoi romanzi ‘il migliore resta Con vicina alla misura del forse Bestie, dove il

di immaginazioni

e allucinazioni. Donde

delle sue opere narrative, e quel che di

s’avverte nella vicenda e di soffocante nelpit lodati (Tre croci, Il podere). Dei romanzi, gli occhi chiusi, che ¢ quello che pit s’avdiario; e il libro pid significativo del Tozzi ¢ lirismo dello scrittore si afferma nelle forme

pia inimediate e genuine, con la sua ricchezza torbida e diseguale,

che d’altra parte esercitera un influsso profondo sui modi lirici ¢ autobiografici di tanta parte della narrativa recentissima. Ii teorico per eccellenza della necessita di un rinnovamento della ‘nostra letteratura, non pit in senso stilistico e formale, ma di con-

tenuto, di materia psicologica, é stato GIUSEPPE ANTONIO BoRGESE (n..a Palermo 1882). Miglior critico che artista, gli si pud riconoscere il merito d’aver sottolineato, sebbene in modi grossolani e poveri di discrezione, certe insufficienze limitazioni poverta del» gusto contemporaneo, ¢ quindi l'esigenza di una letteratura di respiro pil vasto, pi umana, pit rica. Ma si deve aggiungere che tutto cid era poi soltanto un programma (buono o cattivo, non importa), aperto ad ogni modo a tutte le confusioni, e sollecitato non tanto dall’urgenza ‘di una concreta disposizione fantastica, quanto

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da un’ambizione frettolosa e piuttosto gener ca. Questa disposizi approssimativa, informe, con cui Borgese s’accosta alla sua ma e

¢ tenta di ridurla in forme d’arte, e riesce soltanto « far violenz all’arte, @ evidentissima nelle Poesie, dove non accade mai d'im

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tersi in un tono giusto, in una parola precisa, e tutto sa di falso e di freddo, Pit importante é il romanzo Rubé (1921), se non altro —

come documento di quell’aridita e impotenza morale, che caratterizzd

tanta parte della nostra piccola borghesia pseudo-intellettuale alla vigilia del fascismo. Certi tratti della rappresentazione non mancano di qualche verita e scaltrezza di analisi; ma l’autore non riesce mai

a stabilire un distacco sufficiente fra se stesso e la materia rappre- — sentata, e quindi la possibilita di un giudizio: i personaggi han l’aria di marionette, escogitate dall’intelligenza, meglio che imposte dalla — fantasia e dal sentimento; la vicenda é tutta gratuita, priva di ne- —

cessita e d’organismo; I’atteggiamento dello scrittore, indefinibile e ambiguo; la scrittura, estremamente astratta ed inerte, oscillante fra

la sciatteria e una certa caricata violenza di immagini, che rasenta il barocco. .

8. denze agitate visati,

«La Ronda» ela prosa d’arte. — Contro queste tena una letteratura di gran respiro, psicologica e drammatica, in modi tuttora confusi e non di rado frettolosi e improvreagivano anzitutto gli scrittori che si raccolsero fra il '19

e il ’23 intorno alla rivista romana La Ronda, Pit largamente, essi

si contrappongono a tutto il neoromanticismo vociano, confondendone in una medesima e a sua volta sommaria riprovazione gli aspetti pit superficiali, alla Papini, con quelli pid Sanit e@ figorosi, alla Jahier. I rondisti respingono il mito della sincerita, dell’immediatezza, insistendo sull’importanza degli elementi riflessi e consapevoli dell’elaborazione artistica; guardano con diffidenza alle

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contaminazioni della letteratura con la morale e la filosofia, sottolineando il concetto appunto di letteratura, come esercizio disinte-

ressato e risoluzione assoluta di un qualsiasi contenuto in termini es:

di stile. Il loro classicismo, il loro richiamarsi alla tradizione va messo in relazione con certe poetiche d’oltralpe, per esempio di un

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Paul Valéry, che rivalutano, su un fondo di sconvolto ed esasperato decadentismo, l’esigenza superstite della petfezione tecnica, della metrica chiusa, del divertimento verbale. Non @ il caso di prendere i rondisti alla lettera, allorché essi rifiutano in blocco tutta lesperienza

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letteraria dal Carducci in poi, per « riallacciarsi alla pid grande e schietta tradizione italiana, interrotta dopo Manzoni e Leopardi». Questa rimane tutt’al pid una nobile intenzione, troppo al di sopra |

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elle fonsforze reali. Il loro merito @, se mai, quello d’aver restaurato genericamente, in un’etd difficile e irta di confusioni e di ingenui rivoluzionarismi, il concetto di una letteratura pit consa-

pevole, pit attenta alle sue regole intrinseche e imprescindibili. Ma

da uma parte la loro arte resta decadente, e dall’altra s impoverisce _e s’estenua, lasciando cadere tanta parte dei vivacissimi fermenti

_ fomantici, dei motivi umani e polemici, che la Voce aveva tentato d'assorbire convogliare. ___Il significato vero dell’esperienza, che La Ronda espresse in termini alquanto recisi, é da cercare, non nelle provvisorie enunciazioni dei suoi ‘redattori, si piuttosto in un’idea del Gargiulo, che ne fu in certa misura il teorico pit risoluto e consapevole: l’idea che « la , letteratura, come pura arte, poesia » non pud risorgere oggi in Italia se non attraverso la macerazione culturale e ctitica». Del resto La Ronda si definiva da sé un « luogo di ritrovo»: dove il punto di coincidenza tra le diverse esperienze degli scrittori che vi confluirono non puod esser trovato se non in una ripresa ed estrema esasperazione di taluni dei risultati, e non dei pit ricchi, a cui era

pervenuta gia la generazione vociana. Non a caso gli sctittori della Ronda erano stati tutti collaboratori della Voce e si eran formati nell’ambito

di quelle esperienze,

da cui si ritraevano

ora

delusi

inseguendo il miraggio di un approdo pit riposato e sereno. Niente pit che un miraggio é invero il loro neoclassicismo leopardiano, e la realta della loro opera si inserisce nella preesistente poetica del frammento, della prosa lirica, e cioé nella disperazione di poter

mai attingere una pienezza poetica, che sia anche pienezza di uma nita: donde la ricerca di un limite, di una misura breve, meglio conforme alla brevita del loro respiro, e la persuasione, tra I’altro, che la poesia in versi dopo Leopardi si sia venuta esaurendo,

per

lasciar il posto a un genere di prosa modulata e numerosa, pit atta a rispecchiare il lirismo riflesso, ragionato, del mondo contemporaneo. Cosi si spiega come l’opera dei rondisti si risolvesse in gran parte nell’esperienza di una prosa d’arte, che ebbe senza dubbio la sua utilita e il suo pregio e la sua forza esemplare, ma di cui non

si debbono nemmeno sottacere i limiti e la sostanziale aridita. Lo scrittore pi rappresentativo della polemica rondista é VIN-°

CENZO CARDARELLI (di Tarquinia, 1887). In lui la poetica del gruppo prende risalto dall’individualismo risentito, orgoglioso, prepotente dell’uomo, e assume gli accenti pit nettamente, e magari ingenuamente, polemici. Il classicismo, che egli proclama, é tutt’altro

che ingenuo del resto; vuol esser riconquistato attraverso l’estrema dissoluzione di tutte le esperienze ed esigenze romantiche (che egli

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riconosceva impersonate in Baudela esprime insomma la sua disperata volonta di piegare a un a nor "di stile il fermento della sua sensibilita decadente, ¢ in ultima analisi della sua autobiografia. I significato della sua opera si esaurisce 4 in questa nostalgia di stile alto, in questo sforzo di superare Yimmediatezza del frammento, o per meglio dire di creare, nell’ambito di del frammento, una suggestione di eloquenza piena, la presenza un’architettura, di una compattezza, di un ritmo definito e concluso. Da un siffatto sforzo nascono quei rari momenti di una lirica sostenuta ed intensa, fitta di ragioni morali e culturali, di cui s‘illu-— minano a tratti le Poesie e piu spesso le prose di paesi, fantasie e rimembranze. B una lirica che prende rilievo, e una forza tutta sua,

piena di sorprese e di suggestive dissonanze, dall’incontroe dall’urto fra la tensione estrema del discorso poetico e Ja materia umana — sconvolta ed inerme, fra il desiderio di un’assoluta semplificazione

ed elevazione musicale e la dispersione patetica dei particolari auto-— biografici. : Affine a Cardarelli per la sua educazione di autodidatta e per i modi della sua esperienza scapigliata, errabonda,

di conversatore

peripatetico e di polemista da caffé, ma assai meno impacciato dall’orgoglio e dalla pretesa dell’eloquenza, €éBRUNO BARILLI (di Fano1880). Compositore ¢ critico musicale, eppoi giornalista, la sua attivita — letteraria (cronache del teatro d’opera; libri di viaggi) ha sempre qualcosa di occasionale, d’improvvisato, che non vuol dire perd di

esteriore e tanto meno di marginale. Barilli ¢ forse il temperamento — lirico pil schietto e naturale fra i rondisti, il pit ricco ed estroso, e il pit antiletterario. Il suo linguaggio @ una caotica miscela, ta- ——| lora un gergo approssimativo, su cui galleggiano a tratti luminose immagini. Lo si direbbe un poeta smarrito e spaesato nel basso mondo della cronaca e del diario: passando per le sue mani, i pre-

testi narrativi e descrittivi ne escono esaltati e carichi di una potenza —

nuova; d’altronde, senza tali pretesti, il suo lirismo profondo, ma — dispersivo e inconsapevole, non riuscirebbe forse a trovare la sua forma, e sia pure quella forma sempre provvisoria e allo stato in-

candescente, che é@ la misura e il limite di un’arte cosi tesa e peticolante come la sua. | Cardarelli e Barilli non si possono mai comunque considerare come dei puri letterati. Quello, fra gli scrittori della Ronda, che con’maggiore agio, quasi senza urti ed attriti, riesce ad aderire agli

schemi della comune

poetica classicistica, nei suoi aspetti piu facili,

é piuttosto il romano ANTONIO BALDINI (n. 1899). Una sensibilita, non propriamente povera, ma sempre contenuta e aliena dall’im-

pegnarsi troppo a fondo, un ingegno armonioso e felice, senza frat: ture e senza turbamenti, un umore che non nasce da un moralismo risentito, si da una contemplazione distaccata e sortidente della realti,

una cordialit’ temperata e volutamente bonaria, lo aiutano ad acquetarsi in una soluzione elegantemente, e talora un po’ freddamente, umanistica e letteraria, in uma sorta di abile e affascinante compro-

messo fra il reale e il fantastico, fra la letteratura e la vita. Il let_tore d’oggi cercherd volentieri nelle opere di Baldini, e soprattutto nei libri di viaggi e di paesaggi, i tratti di umanita pit cordiale e commossa;

resta vero che nell’insieme l’impressione della bravura ¢

del gioco predomina, e sia pure d’un gioco piacevole ed avvincente, di un garbatissimo ed estremamente consapevole ozio letterario. _ Meglio di Baldini, al di fuori di ogni elegante dilettantismo, il vero maestro della prosa d’arte contemporanea, lo scrittore che ne

incarna in maniera esemplare e quasi simbolica i caratteri di estrema attenzione e consapevolezza, é il fiorentino EMILIO CECCHI (n. 1884). Nel suo lungo tirocinio di critico nel campo della letteratura italiana ed angloamericana e delle arti figurative, egli ha avuto modo dapprima di mettere alla prova un’intelligenza acuta e squisita, una cultura raffinata, una sensibilita inquieta e vibratile. Il suo passaggio x

dalla critica alla letteratura in senso stretto é stato lento e insieme

spontaneo, attuandosi nella forma del « saggio », rappresentazione e interpretazione insieme di un dato umano o naturale, frutto estremo e al tempo stesso liberazione in senso scherzoso di una somma di esperienze culturali ormai consumate e ridotte a pretesto ed avvio

_di invenzioni capricciose imprevedibili e di peregrini sondaggi della fantasia. Dai Pesci rossi, che segnano il momento culminante di questo trapasso, Cecchi é venuto via via svolgendo e affinando le qualita della sua prosa, le virti e i difetti della sua maniera, attra-

vetso una serie nutrita di capitoli e saggi, articoli e appunti di viaggio, dall’Osteria del cattivo tempo a Qualche cosa, alle Corse al trotto, da Messico a Et in Arcadia ego, ad America amara. La nota pit schietta, e la pit intensa e fruttuosa, di questa arte rimane pur

sempre quella sensibilita giovanile, inquieta e penetrante, che isola i dati della realta, per coglierne le ragioni segrete, l’atmosfera arcana e poetica, con quell’intensita di partecipazione umana e quella ricchezza di motivi morali, per cui resta sempre possibile riconoscere

in Cecchi una delle intelligenze pit pronte, agili e spregiudicate della civilta letteraria contemporanea. Un posto a parte infine é da attribuire, fra i rondisti, al bolo-

gnese RICCARDO BACCHELLI (n. 1891). Se agli altri I’avvicina I’educazione libresca e un alto senso dei problemi artistici, a distinguerlo

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sta invece un ideale letterario meno puro, pid misto e complesso, —

che coinvolge una molteplicita di interessi intellettuali, storici, sociali,

i quali d’altronde prendono impulso da un esuberante calore d’im-

maginazione. La sua vena lirica e sensuale, doviziosa e fastosa, ha bi-

sogno per fiorire di questo clima di riflessione ¢ di cultura, che insieme la tempera, la contiene, e intanto le fornisce sempre nuovi

suggetimenti ed appigli. Donde anche la carriera dello scrittore, cosi intrecciata e varia e difficile ad afferrarsi, che procede per tentativi

e sondaggi in molte direzioni’ diverse, con riuscite parziali, e non senza sbandamenti, involuzioni, intemperanze. Ad ogni modo, dopo le esercitazioni in versi (Amore di poesia), la favola satirica (Lo sa il tonno) e il lirismo autobiografico (Memorie del tempo presente), egli sembra aver trovato la sua via pit sicura in una sorta di narrativa storica e morale, nella quale le figure e i paesaggi si collocano in un’atmosfera determinata nel tempo e nello spazio, diventano elementi e simboli di un’eta, di una condizione del sentimento, di un

gusto, di un costume. Bacchelli é@ scrittore di larga vena, fluida e talora intemperante; ma alcuni suoi romanzi e racconti, dal Diavolo al Pontelungo fino al Mulino del Po, sono tra i libri pit fortunati

e forse tra i pit letti del nostro tempo. E tuttavia nessuna delle sue opere lascia

una

soddisfazione

piena;

si ha l’impressione

che la:

sua umanita genuina sia mortificata e impigliata in una rete di ripari e di cautele. B un autore che non concede quasi nulla all’istinto, che

teme sopra ogni cosa i rischi.e le avventure del sentimento. Nemico di tutte le rivoluzioni e le utopie, Bacchelli é il vivente esempio dei limiti imposti agli scrittori rondisti, anche a quelli che voglion parere pili spregiudicati: con tanto ingegno e tanto ostinato sforzo per aderire a una realta di passioni e costumi e raccontarla in forme piane e accessibili, non gli é permesso tuttavia in nessun momento di attingere ad un ritmo veramente narrativo, sciolto e veloce, concreto ¢ persuasivo.

9. I poeti nuovi.

senza impedimenti,

— In grembo all’esperienza vociana si ma-

tura anche la poesia dei lirici nuovi. Alle radici di questa poesia é@

ptesente una fortissima esigenza autobiografica, di tanto pit forte e nuda e inerme, quanto meno intervengono a sorréggerla e ad allargarne il respiro quelle forze ideali, quelle ragioni civili e sociali, che avevano dilatato il canto di altri poeti di eta pid ricche e felici. La solitudine pit desolata e consapevole, il lirismo individuale piu

esacerbato, la riconosciuta vanita di tutte le fedi che fanno l’uomo

solidale agli altri uomini e lo mettono in relazione col suo tempo e gli creano il consenso di una societ’, sono i presupposti di tutta la



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"poesia moderna, che si suol chiamare decadente (attribuendo

all’epi-

_ teto un valore puramente qualificativo e storico, con esclusione di

ogni sfumatura dispregiativa in senso moralistico). In quella solitudine, il poeta tende a un’esplorazione integrale dei dati della sua

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pit oscuri ed irrazionali: donde il riftuto degli strumenti offerti dalla logica e dalla fantasia comune (dell’idea chiara, del contorno prea ciso, dell’immagine netta e del pensiero fermo), il predominio del _ subcosciente, del sogno, la tendenza all’unione mistica del soggetto e dell’oggetto, il disprezzo della sintesi e dell’architettura letteraria, _ Lesaltazione del palpito lirico in se stesso, nella sua misura breve, come punto d’arrivo di un’assoluta concentrazione e di un’estrema

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aderenza alle voci del caos interiore. Le enunciazioni teoriche di Baudelaire, di Poe, e poi dei simbolisti da Mallarmé a Valéry, fino ai surrealisti, illuminano questo atteggiamento di una poesia che si _ chiude nella sua solitudine e l’esaspera, che tende a distruggere ogni

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hai a sciogliere il suo inquieto travaglio in limpido ‘ antfib con gli anni, fra tante esperienze ch’egli ha tentato, ora pid

ora meno fertili e vitali, egli @ venuto anche raffinando la sua arte, placandola a poco a poco in parole fare € leggere, attenuando il be peso di quell’irta prosa auto. grafica iniziale, dove l’accento poetico =

sembrava salvarsi ed emergere, quando emergeva, dal tritume di un gergo provvisorio, quasi per caso. Ma non ha mai petso il con-

=, tatto con Ja realta umile, con la cronaca dei sentimenti elementari. Anche la sua poesia migliore nasce, non dalla rinunzia, anzi dall'in- — tensificarsi e inasprirsi della sua tenace volonta di confessione, di diario denso d’opache vicende, di figure anonime e banali. Saba é r

riuscito in ogni tempo a trarre luce di poesia dalla materia pid umile e popolare: é il lirico pi umano del nostro tempo, e ci sem-

bra di tanto pid vicino, quanto pid gli altri sono remoti e pid chiusi ~ ed astrusi. L’accentuata umanita di Saba, il suo abbandono, il suo candore lo -

isolano nel quadro della poetica contemporanea. In Ungaretti e in Montale é pit facile scorgere gli addentellati e i rapporti, che li legano a una civilta poetica moderna ed europea, nata dalla dissoluzione delle forme e degli schemi tradizionali. In entrambi é alla radice un’estenuata e desolata autobiografia, una disperata solitudine, © e insieme l’esigenza di superare la disperazione del lirismo per cogliere l’essenza, il valore puro ed intenso dell’attimo lirico. Ma su |

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questo fondo comune di cultura e di gusto moderno, il cammino dei

due poeti si svolge poi in direzioni diverse e quasi opposte. Unga-

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retti, attraverso una assoluta adesione alla propria materia autobio-

gtafica, ne estrae faticosamente il palpito originario e isola, per cosi_ dire, ed esalta la musica pura del sentimento, con il suo peso ancora

is_

intatto, ma non piu torbido, di umana sofferenza. Montale invece, — muovendo da un distacco altrettanto assoluto da quella materia e

quasi da un rassegnato rifiuto del dato sentimentale, tende ai modi di una

contemplazione

oggettiva,

in cui come

in uno

specchio

si

rifletta e si consumi la sua immobile disperazione. L'umanita di GIUSEPPE UNGARETTI (n. ad Alessandria d’Egitto,

di famiglia lucchese, 1888) é stata fin dall’inizio avvertita e citco-

scritta dai lettori e dai critici in formule precise, e tanto pit concordi fra loro quanto pit s’affidavano alle esplicite confessioni del poeta stesso, specie nella prima fase della sua poesia (Allegria di

naufragi), in cui l’aderenza alle occasioni di una vita vissuta era cosi

immediata da rasentare a tratti il pericolo di un impressionismo frammentario. « Uomo di pena», egli reca fra gli altri uomini la sua anima «ben sola e ben nuda senza miraggio »; il suo anelito insod-

ee ae Se C —

Seek Sa Baa aly

disfatto é di « sentirsi in armonia », una « docile fibra dell’universo »,

‘in balia del tempo «come una foglia accartocciata »; la sua pena certa @ la coscienza di una solitudine senza rimedio, che non vien meno, anzi s’acuiscea contatto con gli yomini e le cose; da questa “angoscia, egli affisa lo sguardo all’im/ossibile sogno di un mondo _ignaro e inconsapevole, senza peso di storia, senza macchia di colpa,’

_ di un « paese innocente », in cui gli sia dato alfine « godere un solo minuto divita iniziale ». Situazione estremamente

romantica, da. cui

si riscatta con il fermo rifiuto di tutte le facili consolazioni sentimentali e con la forza di un’implacabile disciplina espressiva. Anche le poetica di Ungaretti é stata sottolineata dai critici con una chiarezza, che anche qui si appoggiava sulle dichiarazioni esplicite dello scrittore: poesia é l’umanita filtrata attraverso il fermo possesso della parola, la «limpida meraviglia Di un delirante fermento », il vertice di un’assidua meditazione sulla propria sconvolta materia autobiografica, da cui la parola risale alla superficie carica di lirismo, ma senza peso e rarefatta, tanto pid limpida e intensa quanto pit si @

maturata e levigata in un lungo silenzio: « quando trovo In questo mio silenzio Una parola Scavata é nella mia vita Come un abisso ». Di qui, fin dall’inizio, i modi della tecnica sillabata d’Ungaretti, che

sembra rifarsi alle origini della sintassi poetica; di qui il valore conferito alle pause, che spezzano il verso isolando J'intensita e il compito

‘evocativo di ciascun vocabolo. Nella fase pit recente (Sentimento del tempo), la poesia di Ungaretti, senza venir meno al suo propo-

sito di esclusiva purezza lirica, anzi rompendo ogni residuo legate con le ragioni appariscenti dell’autobiografia, mostra di orientarsi verso strutture

pit distese

e complesse;

mentre

quel rigore, che in un

peed tempo s’adopera a ricostruire il senso della lingua nelle sue orme elementari, ora si esercita con altrettanto impegno nell’ansiosa ricerca di un discorso e di un ritmo pit largo e confidente. Si ha tuttavia l’impressione che al processo di rarefazione e dissoluzione della materia

umana

corrisponda

anche,

in Sentimento

del tempo,

un prevalere di scoperti espedienti letterari, di tendenze oratoric, di _ tisoluzioni puramente formali, che accentuano e sottolineano l'im-

poverimento del tema sentimentale e poetico. Un’analoga vicenda di arricchimento e raffinamento tecnico, cui s’accompagna, non una maggiore intensita, ma un indebolimento della commozione poetica, si avverte anche nel passaggio dal primo al secondo libro di Montale, dagli Oss? di seppia alle Occasioni. Alle sorgenti della poesia di EucENIO MonrTALE (di Genova, 1896), il fermento romantico, che scuote con improvvise e forti lacerazioni il

mondo di Ungaretti, appare sedato e separato. Movendo da una di49.— SapEGNo,

Disegno

stor.

della lett. it.

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ven

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dita s'impunta, fino a farne il motivo di un’interpretazi

lel

mondo. La sua sensibilita viene pertanto a risolversi in un atteggia~

mento di assoluta contemplazione, in cui i pretesti offerti dai sensi

e dalla memoria diventano materia di uma cromaca rigorosa ¢ severa, —

da accettarsi come qualcosa di irrevocabile; e tutto l'impegno del — poeta, e dell’artista, si riconosce nello sforzo di fissarle in figure— ferme e distaccate, dense di significato simbolico. Da questa disposizione contemplativa deriva, in Montale, la relativa ricchezza della

materia e la sua particolare concretezza e aderenza alle cose ¢ alle figure di un paesaggio tutt’altro che indeterminato ed evanescente. Dall’intensita poi della riflessione, che accompagna quel contemplare ~ e isola gli oggetti in un’atmosfera di remoto stupore, dipende la possibilita del loro innalzamento in funzione di simboli. Di qui viene anche la particolare classicitt di Montale, che non risiede nel linguaggio (irto anzi di modi contrastanti, parlati, prosaici), si nell’aspirazione al ritmo, alla strofe, alla forma conclusa e ferma di una ragionata rappresentazione. Con Montale, si ha l’impressione che tutta una fase del lirismo

moderno si sia conclusa, dopo esser giunta ad un grado di tensione suprema, che ora sia necessario rifare a ritroso il cammino, o meglio

_

cercare strade nuove. & difficile appoggiare quest’impressione col con- ' F forto di esempi, di testi persuasivi. Se da un lato l’esperienza della

« poesia ermetica », che muoveva dai modelli di Ungaretti e Montale,

si @ risolta, persino nei suoi rappresentanti meglio dotati e pit significativi (ricorderemo SALVATORE QUASIMODO, ALFONSO GATTO, Mario Luzzi, e, a parte, GlorGIo VIGOLO, che dipende piuttosto da Onofri e da Cardarelli), in una vicenda di tentativi di carattere quasi soltanto letterario, in una ricerca pitt o meno raffinata e squisita sul piano della tecnica verbale, metaforica e metrica; d’altra parte € anche vero che la tendenza verso una poesia pi umana, pid legata alla cronaca di tutti i giorni, non si @ per ora (dopo l’esempio,

che resta pur sempre valido, di Saba) condensata in risultati capaci di sopravvivere e di imporsi con una loro forza autonoma e per-

suasiva. Si potra citare, se mai, proprio per l’impegno con cui si mostra consapevole della necessita d’aprire un’altra via, di ritrovare un equilibrio smarrito, le forme di una sensibilita pid aperta e accessibile, impegno che investe tutt’insieme un problema di contenuto ¢ di linguaggio, il libretto Lavorare stanca, pubblicato nel ’36 da CxSARE PAVESE, che resta fino ad oggi il pit serio tentativo, da parte di

— __

|

|

4n giovane, di una poesia non elusiva né allusiva, bensi tutta risolta in racconto, con un senso non pit di astratta e remota pietd, ma di concreta partecipazione alle pene e alle gioie dell’uomo.

10. | narratori, — Pit che nella poesia, gli elementi attivi, le speranze e le promesse di una letteratura nuova sono da cercare del resto nell’esperienza narrativa dell’ultimo ventennio: una narrativa ancora incerta, dispersa troppo spesso in tentativi e ricerche tecniche e avventure letterarie, ma nella quale tuttavia si fanno strada e pren-

dono rilievo a poco a poco quelle esigenze di realismo e di moralita, quella problematica umana e terrestre, che da Manzoni a Verga, da Pirandello e Svevo ai moralisti della Voce, a Tozzi, costituiva un

filone non

mai

del tutto

interrotto

della nostra

cultura letteraria

moderna, e probabilmente il pii importante e il pit ricco di vitalita potenziale. Non

tutti i narratori ultimi, per altro, sono ugualmente

significativi in questo senso. In alcuni si attua un singolare compromesso fra la poetica del racconto e quella del frammento liticoautobiografico, del saggio, della prosa d’arte, e ne nascono espe-

rimenti interessanti, ma ambigui. Su questo fondo, pit riflesso che istintivo, si innestano le voghe pit o meno effimere o profonde, utili

o frivole, del giorno: la tecnica dell’analisi e del monologo intetiore di Proust e Joyce, il realismo magico, la psicanalisi freudiana, il surrealismo dei francesi e di Kafka, il cronachismo violento e il

taglio cinematografico degli americani. Vi ¢ in questa narrativa un certo predominio quasi costante dell’intelligenza e deile facolta tecniche su quelle pit propriamente istintive e fantastiche. B esemplare in questo senso la vicenda di uno sctittore, che nella sua opera rispecchia, si pud dire, tutto il vario evolversi del

gusto negli ultimi quarant’anni, e lo rispecchia appunto pit per virti: di intelletto che di sentimento. Dalle prime prove carducciane e

classicheggianti, consumate nella giovinezza con uno spirito elegante e fredda esercitazione, l’arte di MASsIMo BONTEMPELLI (di Como, 1878), attraverso le esperienze di un umorismo

disseccato, gli aridi

giochetti futuristi e la polemica « novecentista», giunge fino alle soglie della pid sottile e inquietante fantasia moderna, e adotta 0 precorre le conquiste della pit recente narrativa lirica e surrealistica.

Si pud dire dunque che su di lui abbiano di volta in volta operato, e non superficialmente, le pit varie forme e mode della cultura lette-

raria odierna. Ma alle inquietudini e alle ambagi dell’avventurosa , sensibilitd contemporanea, Bontempelli reagisce con quello che ¢ il dono suo, di un’intelligenza limpidissima e armata,

illuministica,

un’intelligenza non applicata alle cose, ma alle apparenze delle cose, 49.* —

Saprcno,

Disegno

stor.

della

lett.

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senza appigli né sostegni nella realta

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il consueto diaframma di una struttura cerebrale e fittizia, anche una rata ricchezza e molteplicita di motivi umani e uno spirito che ade-

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risce alle ragioni pii profonde e ai turbamenti pit segreti della vita d’oggi. Un altro scrittore, venuto su con la generazione della Voce, ha



dovuto anche lui faticosamente districare il nocciolo umano e il fondo tradizionale della sua vena attraverso tutta una serie di av-

venture tecniche e di apparenti sbandamenti. ALDO PALAZZESCHI — (n. a Firenze, 1885) si presenta oggi come uno dei nostri novellatori pit divertenti e meno complicati, e il pit legato inoltre ai modi di quella narrativa toscana, che ha una sua storia secolare, e di

cui egli riprende, con un piglio nuovo e moderno, i motivi spassosi — arguti e beffardi. Gid nelle Poeste giovanili, attraverso una dissoluzione giocosa e bizzarra dei tempi crepuscolari e poi dei moduli futuristi, egli mostrava di tendere a una rappresentazione oggettiva dei sentimenti, tradotti in figure o macchiette ricche di estro e di umana pieta. In seguito, Palazzeschi venne raffinando e¢ rinsaldando la sua esile vena umoristica in alcuni libri di prose, dove, con una dovizia



oggi inconsueta di atteggiamenti e tentativi in senso fantastico sati-

rico burlesco fumistico, é¢ notevole soprattutto, nelle pagine pit alte e felici, l’approfondimento e la nuova semplicita ed intensita degli spunti emotivi. Ma il vertice della sua opera é nei libri pit recenti

— una serie di ricordi d’infanzia (Stampe dell’Ottocento), un romanzo

(Sorelle Materassi),

una

raccolta

di novelle

(Il palio det

buffi) — dove il tono ancora svaria dall’arguzia satirica alla comicita, dalla bizzarria alla tenerezza, ma il gioco dell’ironia e del sentimento, del ridicolo e della pieta, si é fatto pit serrato e insieme

pid ricco, pi umano, pit vero. Resta, nel fondo, quell’aria di gioco appunto, e quel sapore d’invenzione un po’ letteraria; ma in quei limiti la fantasia allegra e costruttiva dello scrittore pud oggi spaziare con una libertd nuova e assimilare gli spunti offerti da uno spirito d’osservazione alacre e pungente. Sul piano della tradizione novellistica italiana, nella quale il pro-

blema della forma prevale su quello del contenuto, I’arte conta di

gran lunga pit del documento siamo anche con altri scrittori, nei

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oe s‘avverte l’influsso del moralismo e del lirismo vociano, e poi.

lel neoclassicismo rondesco, e delle esperienze rigorosamente formali del gruppo fiorentino di Solaria e di Letteratura. Alla Voce si ri-

collega Enrico PEA (di Serravezza, 1881), che da giovane é state marinaio, operaio, mercante in terra d’Egitto, e anche pid tardi ha _ sempre mescolato i commerci con la professione letteraria. Alle radici della sua ispirazione sta dunque una materia autobiografica ricca e un po’ torbida, accesa di fermenti sensuali e densa di avventure e di meraviglie; e insieme con essa una certa inclinazione morale, che na-

sce da una varia e vasta esperienza, e giudizio, di uomini e cose. Memoria e saggezza si compongono e s’accordano nei libri pid riusciti di Pea (Moscardino, I} forestiero, La maremmana, Il trenino dei $assi, ecc.) in un tono di favola un po’ svagata: quasi un tenue filo,

che ha il compito di raccogliere e ricomporre la materia frammentaria, estrosa e poetica dei ricordi. Anche lo stile di Pea, maturato in modi spontanei e un po’ avventurosi tra echi di cadenze popolaresche e influssi di scrittori dotti, e pit di poeti che di prosatori, é uno stile lirico meglio che narrativo, musicale e fiorito, sensibile e inventivo,

pronto a sottolineare le note pit intense e le pit delicate, in un clima di candore fanciullesco disposto a tutte le scoperte e le avventure di cui s’arricchisce la storia d’ogni giorno. Anche il triestino GIANI STUPARICH (n. 1891) é nato alle lettere nell’ambiente della Voce, a contatto soprattutto con Slataper. C’é in

lui un impegno antiletterario, che non s’appunta all’intensita della pagina, e tende piuttosto a perseguire il ritmo, la durata di una vi-

cenda; e inoltre quel coraggio, che é un po’ di tutti i giuliani, che - mon arretra dinanzi ai temi a alti, che son poi i pit semplici e popolari. Tutta la sua opera é la testimonianza di un’umanita piena, nobile e severa, e insieme modernamente

inquieta, nervosa;

alcuni

suoi libri (il diario Guerra del ’15, il romanzo Riforneranno) contano prima per il loro contenuto umano,

per la loro sostanza educativa,

che non per Ja qualita dell’arte. Ma, nonostante il rigore con cui si —attiene al suo proposito di oggettivita, le note pil persuasive, poeticamente, restano ancora quelle che affondano le loro radici in una

materia autobiografica, lirica. Una viva problematica morale e un buon possesso degli strumenti

dell’analisi psicologica sono anche in BONAVENTURA TECCHI (di Bagnoregio, 1896), insieme con un ideale umanistico di misura e di chiarezza, che |’aiuta a ricomporre e modulare i pretesti di una ma-

teria inquieta e ricca di sottigliezze e di perplessita in schemi ¢ disegni di una nitidezza e gentilezza antica. Artista scrupoloso, é venuto affinando i suoi mezzi a contatto con le esperienze della pid

recente narrativa europea, soprattutto tedesca; e nei libri di novelle —

(Il vento tra le case, Tre storie d'amore) ha taggiunto risultati, nei

loro limiti, assai felici. Ha tentato anche il romanzo, con molto im- — pegno, ma con assai minore fortuna. La sua misura @é l'idillio, o il

pacato titratto morale; e anche nei suoi romanzi le pagine migliori

son quelle che rendono

un’atmosfera,

un paesaggio, una

situazione



psicologica. L’ambizione del romanzo, a pid riprese tentato, fallisce anche pec un altro verso in GIOVANNI CoMIsso (di Treviso, 1894), il cui limite sta piuttosto in un impressionismo intenso, ma frammentario e

in un’estrema

poverta di elementi riflessi. Un’adesione

sensuale e

immediata ai dati della realta umana e terrestre; una gioia e una pienezza di vita, che restituisce a ciascun istante e a ciascuna situazione

la sua virtd di festosa freschezza; un gusto intatto e animoso del- — l’avventura, che anch’esso si risolve in una gioiosa accettazione della

|

vita varia, colorita, ricca di godimenti e di sorprese: questi 1 motivi e le condizioni della sua arte. Ma non é dato a Comisso di risalire dalla cronaca alla storia: sebbene ricca e varia nel suo ambito di

;

pure sensazioni, a quest’atte sembra precluso ogni sviluppo nel senso di una rappresentazione umana menti spirituali.

pit complessa, pid densa di riferi-

A differenza di Comisso, uomo di mare, di commerci e di viaggi,



e scrittore tutto istintivo, con scarse e deboli radici letterarie, i nar-

ratori del gruppo di Solaria sono letteratissimi; e pur meritano attenzione, perché proprio attraverso le loro pazienti indagini prevalentemente tecniche si fa strada, con l’assimilazione dei procedimenti della pii moderna letteratura europea, l’esigenza di un ritmo di racconto, di una durata narrativa pid genuina: un’esigenza di racconto per cosi dire astratta, indipendente dalla materia che in essa confluisce. In ARTURO LoRIA (n. a Carpi, 1902), per esempio, risalta

anzitutto la qualita capricciosa dell’immaginativa, una virth di narrare, che si esercita per se stessa in difficili esperimenti, meccanicamente e un po’ a vuoto. Solo a tratti, nei libri di racconti del Loria,

l’ingegnosita non resta del tutto gratuita; e dietro la logica serrata dell'azione s’avverte un fondo di umanita desolata e consunta, arida e

triste. Ma l’opera di Loria @ importante, non solo per questi racconti © episodi pit umani, si anche per le prove d’ingegno e di bravura,

per il tenace esercizio di stile dei racconti minori. Anche la narra-

tiva di ALESSANDRO BoNSANTI (di Firenze, 1904) ha un’origine let-

teraria, riflessa. Come in Loria, sebbene in tutt’altro modo, la realta

ch’egli trasctive sembra vagheggiata e ritratta attraverso una vela-

tura libresca. A dar questa impressione contribuisce, in Bonsanti, J

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colore remoto, ovattato dei personaggi e dell’ambiente, che nelle prime raccolte di novelle é la Toscana granducale dell’inizio del-| l'Ottocento e nel Racconto militare il mondo tranquillo e monotono di una caserma:

ambienti dove il tempo trascorre lento, senza frat-

ture e senza imprevisti, sebbene punteggiato da una serie di piccole | avventure,

di minuti

incidenti pressoché privi di rilievo. Senonché

per Bonsanti personaggi e vicende son poco pit che pretesti, e la sua attenzione vera é€ tutta intesa a cogliere questo lento trapasso del tempo, non nei fatti esterni,.bensi nell’intimo della coscienza. Di qui il ritmo minuto, sottile, rallentato del raccontare di Bonsanti, stilla traccia di una materia cosi spesso effimera e quasi in-

consistente: ritmo che ha richiamato giustamente, su un piano tuttavia di umanita troppo pit rarefatta e indiretta, il grande modello di Proust. Il problema letterario, formale, é assai forte e in un certo senso preponderante anche in altri scrittori di Solaria, per esempio in Gadda, nella Manzini; nei quali per altro la sostanza umana é pid ricca, pitt vibrante. Il milanese CARLO EMILIO GADDA esaspera, in forme alquanto riflesse e cerebrali, certe caratteristiche della tradi-

zione lombarda

da cui deriva, degli scapigliati, del Dossi. Di li

gli viene l’umore bizzarro, scontroso, insofferente, irto di motivi po-

lemici e satirici, ma ricco anche di esigenze liriche, che in quell'umore trovano insieme uno stimolo, una spinta verso soluzioni ardite ed estrose, e una sorta di travestimento misto d’ironia e di pudore. Scrittore ricco e complicato, con la sua softocata istanza

romantica e la sua insofferenza d’ogni abbandono effusivo, con il suo

lirismo

e la sua

acerba

e alquanto

stridula ironia, il Gadda

ha dato finora, accanto a pagine di un preziosismo arguto ma un po’ esterno, alcune altre di qualita pit alta e di profonda vena, tra cui un diario di guerra, I/ castello di Udine, di notevole valore umano e poetico. La pistoiese GIANNA MANZINI riprende invece nei

suoi racconti, su un piano di raffinata letteratura, certe esigenze di Tozzi, e soprattutto il suo e narrazione. Su un fondo

compromesso caratteristico tra lirismo di inquietudine e di sofferenza tutta ©

carnale, legata alle reazioni e ai turbamenti dei nervi e del sangue, la Manzini sovrappone un atteggiamento di assoluta lucidita intellettuale, di estrema chiaroveggenza, che le permette di dominare e incanalare le inclinazioni effusive e il nativo lirismo, senza rinne-

garli, anzi acuendoli ed esasperandoli in un tormento di scoperta e di illuminazione di quella sua sensibilita nei suoi strati pit oscuri ¢ reconditi, Un'intelligenza acutissima, dunque, tutta applicata ad ascoltare e trasmettere

i brividi e i sussulti della carne,

attraverso

un gioco colorito e un po’ affannoso di immagini, anzi di sensa-

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In questo quadro di esperienze squisitamente letterarie, che volte toccano i confini del virtuosismo e del divertimento, e sempre comunque restano ai matgini di una concreta vocazione narrativa, — possono trovar posto anche il surrealismo tutto cerebrale ¢ cultu. tale, di un ToMMASO

LANDOLFI;

le favole metafisiche di un DINO ~

BuzzaTI; i simboli e le visioni di un Nicota List. Scrittori indub- —

biamente dotati, e ciascuno dei quali ha, se non proprio una personalita, certo una sua maniera

tipica; ma

di fronte ai quali le

, curiosita del lettore resta sospesa ¢ un po’ anche sospettosacon V'impressione di una bravura alquanto gratuita o addirittura inutile.

4

In alcuni altri scrittori, invece dell’ultima, o delia penultima, sta-

gione, l’umanita della materia rappresentata risalta prima e pit de’ fattore stilistico e per opera loro si attua un ritorno alle esigenz realistiche, alla concretezza problematica del romanticismo ottocen tesco; talora anche per vie alquanto indirette, ma non mai del tutt: gratuite; cos) che é sempre possibile per essi, al di 14 dei modell

pit vicini (francesi, russi, americani), ristabilire un’ideale continuit: con gli esemplari di Manzoni e di Verga. Il riferimento ai modi dell’arte verista e regionalista é pid evi dente, nei libri di CorraDO

ALVARO

(n. a San Luca, 1895). I suoi —

temi, i suoi paesi e le sue figure appartengono al tipico repertorio della letteratura regionale: la Calabria coi suoi pastori, le sue donne,

i suoi signorotti e i suoi briganti, con la sua povertd fiera e chiusa, ~ dura ¢ remota. Ma in quel realismo Alvaro introduce un lievito . di fantasia, che trasfigura persone e vicende e ambienti in un’aria

.

favolosa e allucinata; quella Calabria é prima di tutto il luogo, la meta ideale della nostalgia dello scrittore, la patria delle sue me-

morie, con un sapore d’infanzia e d’innocenza perdute e un mondo di passioni e d’affetti semplici ancora e non contaminati. Di fronte al tema idillico e paesano, che @ il pid fertile e schietto, si pone poi, a guisa di simbolo avverso, l’altro tema delle grandi citta; con

i loro spazi immensi ed ostili, in cui s’inacerbisce la solitudine nuda ¢ cupa dell’uomo, con la sua fatica, la sua pena, il suo deserto fantasticare. La ricchezza stessa, e talora l’esuberanza, dei motivi-

umani e letterari che confluiscono nella prosa d’ Alvaro, creando una fitta trama di riferimenti morali e di simboli, spiega quel che di fermentante,

di irrequieto, di torbido, di saltuario s’avverte talora

nella struttura delle sue invenzioni e nello stile. Ma dove egli tocca

1 suoi temi pil congeniali (meglio che nei romanzi, in alcune delle

novelle, nei volumi:

L’amata alla finestra, Gente in Aspromonte,

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: La signora dell’isola), allora anchelo stile, con l’affollarsi delle im‘magini dense e indefinite, con l'impasto greve ed acceso dei coloti, con quella sorta d’alone musicale che investe e trascina anche le scorie e i detriti di un linguaggio non di rado incerto ¢ approssimativo, s’intona. appieno alla materia idillica e fiabesca. Narratore nato, con un fondo polemico e satirico singolarmente -. acre e risentito,

€ ALBERTO

Moravia

(di Roma,

1907), forse la

_ personalita di maggior rilievo tra gli scrittori della nuova generazione. Una disposizione morale, non moralistica, a ritrarre gli aspetti

disperati e corrotti della vita e del costume di oggi, con una lucidita e una fteddezza puntigliosa, che paion rifiutare, e sottintendono, il giudizio dello scrittore; una vocazione al racconto, in senso antico, come creazione d’ambienti e di caratteri, come invenzione d’intrecci

e di situazioni; un’arte infine grezza, talora provvisoria, sempre antiletteraria, non aliena neppure da certi effetti troppo facili, vistosi

e sgarbati, e nonostante tutto potente e segnata dall’impronta di una forte individualita: queste le principali caratteristiche del Moravia narratore, presenti gid nel romanzo Gli indifferenti, pubblicato a ventidue anni e che valse subito a procurargli una posizione di primo piano tra i letterati contemporanei. Da quel romanzo risaltavano

anche evidenti certi pericoli insiti nell’arte di Moravia:

la

resenza, accanto a un proposito di feroce rappresentazione oggettiva, di un torbido residuo autobiografico; e per contro, nelle parti meglio liberate dal peso dell’immediata psicologia, un realismo grigio, opaco, squallido, pit vicino alla cronaca che alla poesia. A volte I’abilita narrativa dello scrittore si svolgeva un po’ meccanicamente,

a vuoto,

su una materia estranea al suo sentimento; altre volte l’adesione della sensibilita al tema poetico appariva anche troppo stretta, serbava alcunché di ambiguo e di vizioso, sottolineata per contrasto dall’acredine stessa della satira. Nelle opere successive l’impegno delVartista si é indirizzato appunto, con chiara consapevolezza, a eludere

quei peticoli e a svolgere le qualita pit genuine del suo temperamento: dalla fredda costruzione psicologica del romanzo Le ambizioni sbagliate all’inquieta e acuta sensibilita di alcuni racconti della Bella vita, dalla fertilita inventiva e dal gusto dell’intreccio e delVavventura nei romanzi brevi (L’imbroglio, La mascherata) fino ai moduli neoclassici dei miti e dei ritratti morali e alle prove in senso allegorico-satirico e surrealistico (1 sogni del pigro, L’epidemia), la varia e complessa operosita di Moravia serba un carattere per molti aspetti sperimentale e si sottrae a ogni formula e definizione troppo perentoria. In Agostino e in alcune novelle degli ultimi anni si pud gia misurare fino a che punto il tirocinio delle prove precedenti

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gli ha giovato: la materia é di nuovo quella stessa degli Ind rer bi, ma approfondita con un impegno che investe insieme il rigore € le >

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verita dell’analisi e la qualita del linguaggio.



Moravia tende a presentarsi come un ritrattista spregiudicato €—

oggettivo del costume e insieme come un romanziere di idee; ‘ Gupo PiovENE (di Vicenza, 1907) é@ invece tutto impegnato in — una problematica psicologica sottile, analitica, ricca di sfumature ¢ — di distinzioni, con riferimenti abbastanza evidenti alla tecnica dei moralisti e romanzieri della tradizione francese dal Seicento in poi. La sua stessa educazione

cattolica, e la violenza polemica con cui—

reagisce a quell’educazione, lo avviano casistica

dei sentimenti,

a una lucida e stringente

rivolta a mettere

sofismi di cui i vizi e le debolezze

in luce gli appassionati

umane amano rivestirsi e ador-

narsi. Ma Piovene rimane, almeno per ora, pid un saggista ¢ un descrittore di caratteri morali, che un romanziere. La vena morale

e l'intento romanzesco, nella sua opera, si svolgono su due piani distinti, piuttosto accostati con rara abilita che non mescolati e veramente fusi. L’avventurosa ricerca di un libero ritmo narrativo si

appaga quasi sempre in moduli e schemi di scoperta originale letteraria, e di quegli schemi s’avvale con funzione di pretesti o canovacci, su cui si modula la trama delle raffinate indagini introspettive del moralista. Se Moravia e Piovene hanno gia una loro fisionomia abbastanza definita e riconoscibile, che non consente soverchio margine di possibili sorprese, assai pit difficile si presenta il tentativo di un giudizio a proposito di alcuni altri narratori giovani, la cui attivita @ ancora in una fase mobile e assolutamente sperimentale, aperta agli

esiti pit imprevedibili. ROMANO

BILENCHI

(di Colle Wal d’Elsa,

1909) ci ha dato finora alcuni racconti e un romanzo,

Conserva-

torio di Santa Teresa, che apron la via alle pit promettenti speranze. Attraverso’ l’esposizione nuda e umile dei fatti, lo scrittore esprime, ma tutta implicita, tutta risolta in quella trama di eventi esterni, la sua storia interiore, il lento maturarsi nel tempo di uno

stato di segreta tensione, lo svolgersi di una sensibilita acre e scontrosa di adolescente. L’autobiografismo di Bilenchi si ritrova in pa recchi altri giovani (e in modi pid schietti e persuasivi in un altro toscano, VASCo PRATOLINI), ma in nessuno con un impegno cosi serio e concentrato e con una cosi ferma coerenza di risultati -stilistici. In altri s’avverte assai forte l’influsso della recente narrativa ameticana (soprattutto di Faulkner e di Hemingway), attraverso il quale tinasce indirettamente una sorta di fedeltd tutta verghiana ai temi

e O

della natura e dell’anima popolare e un’inquieta ricchezza di spunti morali e sociali. Cosi nei racconti di Eto VirrorINI (di Siracusa, 1908) si pud intravedere una ricchezza e una forza, ancora in buona parte implicite, inespresse, eppure

sensibili attraverso la vicenda e

il progresso delle sue prove narrative tutte pi o meno difettose e torbide. Dalle novelle di Piccola borghesia al romanzo I] garofano rosso (che é il suo primo libro veramente importante, e il pit ricco), dagli appunti di viaggio alla Conversazione in Sicilia (che tappre-~ senta, fin qui, il momento di maggiore equilibrio poetico), fino a Uomini ¢ no (in cui.c’é una materia umana pid varia e folta, e una volontaé pit risoluta di affrontarla, ma anche una minore felicita di risoluzioni artistiche), Vittorini é@ riuscito, se non altro, ad

attestare gli sparsi elementi della sua vocazione di scrittore: un’in-' tensita, anzi un

furore lirico, che penetra

addentro

nella materia

delle memorie e le trasfigura in simboli, isolandone ed esaltandone il puro valore sentimentale e patetico; un lievito oscuro di preoccupazioni morali e sociali, rivoluzionarie,

che si traducono in fer-

menti polemici ed oratori; un’esigenza di prosa che sia insieme immediata e poetica, sentita piuttosto nella concretezza fantastica del

ritmo che non nella scelta minuziosa e raffinata del linguaggio, esigenza tutta sperimentale e in via d’arricchimento sulla scia delle tecniche pit varie. Un progresso

pit continuo,

costante, persuasivo si avverte nei

racconti di CESARE PAVESE, che, soprattutto sulle ultime prove (J/ compagno, Prima che il gallo canti), forse lo scrittore che pid si avvicina alla misura di un realismo rigoroso e al tempo stesso poetico. Meriterebbero pil ampio ricordo anche altri romanzieri e novellieri, che hanno gia dato frutti maturi e di grande impegno: prima di tutti FRANCESCO JoVINE, e, tra i pil giovani, GIUSEPPE Dessi, NATALIA GINZBURG, LIBERO BIGIARETTI, ITALO CALVINO, ecc. EB ad ogni modo su questi narratori che oggi s’appunta lo

sguardo, e l’aspettazione, dei lettori pit attenti. Usciti dallo squallore degli anni bui, nonché dalle esperienze di uno stilismo raffinato e di un elegante calligrafismo decorativo, I’Italia che rinasce avverte il bisogno di una letteratura che l’accompagni nel tormentato processo del suo rinnovamento con una partecipazione pit intensa e coraggiosa. Intorno all’opera degli scrittori, che svolgono le loro qualita mative e si adoperano

a portarle in salvo, sottraendole al

fervore delle polemiche e dei programmi improvvisati e frettolosi, cresce l’attesa dei lettori, sempre pi ansiosa e non di rado impaziente. 8 mancata da noi una vera e propria letteratura della resi-

es rol libridi memorie robustezza ed efficacia, ma non operenetfieun

\

bello: Cristo £2 fermato ad Eboli, del pittore torinese CARLO LE Le ultime prove dei narratori gid noti, da Alvaro a Moravia, non escono per ora essenzialmente dalle linee di un quadro— tracciato. Da che parte si orientino la nostra attesa e la nostra spe-tanza risulta abbastanza chiaro,io penso, dalle pagine che ptecedono ‘ma é altrettanto chiaro che a questo punto vien meno la possibili di un’indagine storica, anche provvisoria e polemica, e solo il tem potra confermare o distruggere il credito che da parte nostra

s’

voluto assegnare, forse con soverchia indulgenza, a taluni uomin ealle loro opere. ‘5

INDICE

Abano (d’) Pietro, 127. _ Abba Giuseppe Cesare, 572. ._ -Asburgo (gli), 583. Acciaiuoli

Nicola,

102.

___

Acerbi Giuseppe, 557. |

x -

Achillini Claudio, 345. Acquapendente () Girolamo Fabrici,

q

324,

Acquasparta

(d’) Matteo, 36.

__

Adami Tobia, 307. Addison Joseph, 430.

_ -

Adriani Giambattista, 237. Adriano VI, 228. Agostino (Sant’), 47, 68, 69, 74, 84,

a “3

86, 87, 88.

_Agudio (canonico), 458: Alamanni

-.

Luigi, 250, 255, 256, 257,

259, 281, 288, 346, 434.

- Aibergati Francesco, 454. Alberti Leon Battista, 143, 148, 152, 173-175, 213.

j

Alberto Magno, 47. Albizzi (degli) Albiera, 151. Alcamo (d’) Cielo, 14. Alceo,

Aldobrandeschi, 37 Aldobrandini Cinzio, 280.

_ Aldobrandini Pietro, 280, 340. Aleardi Aleardo, 574, 575, 680, 685. 280.

Alessio (Sant’), 135.

Alfani Gianni, 25. ‘Alfieri Vittorio, 260, 390, 401, 409,

412, 425, 433, 438, 477-499,

512, 521, 525, 526, 552, 650, 657, 688.

339,

Algarotti Francesco, 415, 416, 418, 420, 421, 427.

Alighieri Antonia, 36. Alighieri Dante, 5, 6, 10, 16, 19, 20, 21, 23; 25, 28,.,32,

34-66,

67, 16, ile 79, 99, 103, 0id, 124, 125,

126, 144,

175,

185,

301, 338, 416, 499, 564,

308, 341, 424, 529, 601,

314, 369, 425, 532, 617,

334, 393, 487, 551, 637,

337, 410, 491, 552, 652,

658,

728.

333, 386, 480, 539, 636,

Alighieri Jacopo, 20, 36. Alighieri Pietro, 36. Alvaro Corrado, 742, 777, 780. Amari Michele, 564.

Ambrogini Angelo, v. Poliziano. Amenta Niccold, 355. Ammannati Giulio, 308. Ammirato Scipione, 316. Amoretti Maria Pellegrina, 472. Anacreonte,

537.

Aleramo Sibilla, 756. Alessandro (d’) Giampietro,

NOMI

507, 541,

Accetto Torquato, 322, 361. a _

DEI

347.

Ancona (d’) Ciriaco, 156. Ancona (d’) Domenico, 254. Andrea d’Ungheria, 101. Andreini Giambattista, 355.

Andres Angiod Angid Angid Angid

Giovanni, 372. (d’) Carlo, 10, 137. (d’) Carlo IL, 37. (d’) Giovanna I, 70, 123. (d’) Roberto, 39, TOs TisalOl,

Angiolieri Cecco, 18, 26, 127, 253. Anguillaia (dell’) Ciacco, 15, 17. Anguillara (dell’) Orso, 70.

‘y Annibale,| 81, 393.

Arrighi

“Annunzio (d’) Gabriele,

725, 728, 729-732,

736, 739,

744,

582,

679,

733, 734,

745, 748, 756,

766. Antici Adelaide, 634. Antici Carlo, 639. Antiochia (d’) Federico,

Atene (d’) Duca, 223. Aubignac (D’) Frangois, 385.

16.

v.

Baglioni Giovanni,

Balestrieri Domenico,

243, e252. 296,

254,

Bandiera Alessandro, Barbato, 83.

338,

339,

348, 404, 428, 463,

516,

529,

652,

685,

458, 462, 463.

(da) Francesco, 20. Barbi Michele, 45 n.

Barbier

Auguste,

690, 692.

Bardi (i), 101, 274, 308, 397. Bardi (de’) Giovanni, 274. Bardi (de’) Piero, 351. Bardi (dei) Simone, 35.

‘ 4:

Baretti Giuseppe, 242, 391, 401, 415,

420, 423, 424, 425-429,

437,

445, 455, 462, 463, 552. Barga (da) Pietro Angelio, 277.

728.

Ariosto Niccold, 190. Ariosto Orazio, 296. Ariosto Virginio, 192, 195. Aristofane, 140, 442.

Barili Bruno,

762.

Baronio Cesare, 180, 374. Bartas (du) Guillaume, 301.

Aristotele, 35, 47, 84, 140, 142, 186, 282,

406, 426, ssi

Barberino

247, 205. 308,

480,

563,

Bande Nere (delle) Giovanni, 210. Bandello Matteo, 250, 266, 267, 356.

Arezzo (d’) Guittone, v. Guittone. Argiropulo Giovanni, 140, 169. Arici Cesare, 518, 650. Ariosto Gabriele, 190, 198. Ariosto Galasso, 195. Ariosto Ludovico, 8, 165, 179, 180, 181, 189, 190-205, 25055254, 257)) 20d 288, 289, 293, 295,

561,

Balzac Honoré, 698, 705.

(gli), 145.

251,

288,

296

300, 309, 310, 337, 397.

Maria, v. Voltaire.

*.

Baldini Antonio, 762, 763. Baldinucci Filippo, 371 Baldovini Francesco, 349.

labria, 177.

Aretino Pietro, 246-247, 260, 261, 372.

365,

371.

Balbo Cesate, 497, 560, 564. Baldi Bernardino, 256.

Aragona (d’) Alfonso II, 149. Aragona (d’) Federico, 152, 177. Aragona (d’) Ferdinando I, 149. Aragona (d’) Ferdinando II, 149. Aragona (d’) Pietro, 118.

Arouet Francesco

? a

603.

379, 417.

Aquino (d’) Rinaldo, 15, 17. - Aquino (d’) Tommaso, v. Tom' maso (San). Aragona (d’) Alfonso, duca di Ca

257,

(d’) Cesare,

Bacchelli Riccardo, 763-764. Bacchilide, 518. _ Bacchini Benedetto, 372, 374. Bacone Francesco, 233, 340,

Cimminelli

che Fiammetta.

256,

Giovanni,

Azeglio

Azio Sincero, v. Sannazzaro.

(de’) Serafino. Aquino (d’) Jacopo, 16. Aquino (d’) Maria, 101, 109. v. an-

187,

140.

Aurispa

ae nS 5

oe Azeglio (d’) Massimo, 560, 561, S71, 5755, 376:

Appiani Andrea, 435. Apuleio, 163, 265. Apuliese Ruggeri, 14.

Aragonesi

Arti, re, 7, 257.

Ascoli (d’) Cecco, 20.

Aosta (d’) Anselmo, 6. i Apollinaire Guillaume, 749.

Serafino,

Artale Giuseppe, 345, pk 3 Arteaga Stefano, 372, 505.

Ascoli Graziadio Isaia, 507.

Antoniano Silvio, 277. Antonio (Sant’), 133.

Aquilano

to, 6

, ‘Arrigo VII, 38, 39;;

2

Bartoli Daniello, 189, 324, 357, 358, : 359, 508.

Baruffaldi

Girolamo,

367, 404, 434.

Basile Giambattista, 362-363. Basville Ugo, 512.

e — S

Si hd en or

ORG iho nye

;

: Heee*INDICE ‘DEL NOME ase a

Battaglia Giacinto, 562. Battifolle (conte di), 39. Battista Giuseppe, 345, 356.

Bignami Maddalena, Bilenchi Romano,

53, 56, 59, 60, 62 Beaumarchais Pierre Augustin,

438,

598. Beccari Agostino, 272, 283. Beccaria Cesare, 412, 414, 417, 418,

419, 421, 427, 438, 460, 472, 475, 501, 513, 600, 605.

Beccaria Giulia, 600, 601. Belcari Feo, 153. Bellarmino (cardinale), 310.

191, 193, 195, 243, 249, 250, 251, 263, 283, 391, 428, 508. 277.

Bene (del) Sennuccio, 25, 71. Benedetto XI, papa, 29.

Beni Paolo, 296. Bentham Geremia, 418, 606. Bentivoglio Ercole, 254, 261. Bentivoglio Guido, . 322, 323, 329, 330. Benucci Alessandra,

324,

436, 438, 439, 517, 521.

Bertolazzi

Carlo, 722.

Bessarione

di Trebisonda,

Saverio, 401, 415, 417, 418, 420, 421, 423, 424, 425,

Bettinelli

426, 430, 462, 636. Biamonti Giuseppe Luigi, 710.

;

v. Dovizi

167,

529. Boccalini Traiano, 336, 337, 339.

175,

183,

184,

30350316,

uoli7s

Bodin Jean, 319. Boezio Severino, 6, 35. Boiardo Matteo Maria, 8, 138, 163-166,

172,

199,

200,

202, 205, 254, 257, 404.

Boileau Nicolas, 294, 364, 366. Boine Giovanni, 749, 750, 751, 754. Boito Arrigo, 681, 682, 704. Boito Camillo, 683. Bon Francesco Augusto, 598. Bonald (de) Louis, 606. Bonaparte Napoleone, 460, 500, 508, 51359

514,521

5 22emouoy

377,

Bonarelli Guidubaldo, 354. Bonarelli Prospero, 354. Bonaventura (San), 6, Bondi Clemente, 434. Bonghi Ruggero, 562, 604, 696.

Bonichi Bindo, 18. Bonifacio VIII, papa, 29, 36, 37,

della Riva, v. Riva

la) B. Borbone (i), 392. Borgese Giuseppe

Antonio,

759-760.

505. 381,

Bernardo.

511,

136,

Bonna Febo, 279. Bonsanti Alessandro, 774-775. Bontempelli Massimo, 742, 771-772.

Bonvesin

140.

Betteloni Vittorio, 680, 685, 716.

Bibbiena,

154,

524, 532, 619, 620.

Giovanni, 556, 557, 558, 559, 577-578, 619, 622, 637, 648, 658, 689, 692. Bernardino (San) da Siena, 153. Berni Francesco, 26, 166, 180, 251. 253-254, 349, 404, 433, 460. Bersezio Vittorio, 721. Bertéla De Giorgi Aurelio, 393, 394,

43, 47, 93,

:

72, 80, 100-125, 126, 129, 130,

5127

192, 195.

262.

Berchet

Bibbia,

572.

Biondi Giovan Francesco, 356. Biondo Flavio, 141. Birago Girolamo, 584. Bisaccioni Maiolino, 329, 356. Blacatz (ser), 10. Blanc Louis, 690. Blessig, 643. Blondel Enrichetta, 602. Boccaccio Giovanni, 6, 32, 56, 71, 138,

Bellori Giovan Pietro, 372, 373. Beltramelli Luigi, 757. Bembo Pietro, 180, 182-184, 185,

Beolco Angelo,

Bini Carlo,

544,

778.

205, 213, 226, 263, 339, 428,

' Belli Gioacchino, 582, 587-591. Bellini Lorenzo, 313, 352, 428.

Lucrezia,

;

Bigiaretti Tibelo’ 779.

Baudelaire Charles, 555, 600, 727, 762, 765. Beatrice, 35, 39, 40, 41, 42, 43, 47,

Bendidio

MCR

Borghini Vincenzo, 180. Borgia Cesare, 207, 218. Borgognoni, 466. Born (de) Bertrando, 10,

(del-

728,

PASS

Pa ee

eee

aan

: i Hospoaet Carlo Emanuele I, 319. Borromeo Carlo (San), 319. Borromeo (card.) Federico, 319. Borsieri Pietro, 556, 557, 559. Boschini Marco, 362.

522.

ids

Callisto Andronico, 169.

Boscovich Ruggero Giuseppe, 365.

- Calmete

Vincenzo,

184,

Calmo Andrea, 262.

Co

ee

330. Botta Carlo, 508, 509-510, 563, 640,

Calogera Angelo, 374. vag Calopreso Gregorio, 367, 368, 393.fan Calvino Italo, 779. Boo

650, 690. Bouhours Dominique,

Camerana Giovanni, 682,

366.

Bourdaloue Louis, 602. Bouterweck Federico, 554, 649. Bracciolini Francesco, 349, 351, 353, 354, 404. ~ Bracciolini Poggio, 139, 140, 148. Bracco Roberto, 723, 724. Bramante,

“> Brocchi Virpilio, 757.

Bruto, 78.

Buffon (de) Georges Louis, 668. Bulgarelli Marianna, 396, : Bulgarini Belisario, 333. Bunsen (von) Robert Wilhelm, 643. ‘Buonafede Appiano, 420, 426. TST;

Michelangelo, 2585)

a ae

Campanella Tommaso, 303, 304, 305-

1239;

2ole

:

;

Canoniero Pietro Andrea, 321. Canossa (di) Ludovico, 243. Canova Antonio, 435, 505.

Cantoni Alberto, 683, 684. Cesare;

563,

566,

567,

574,

Capponi Gino, 639, 640.

562, 563, 564, 572,

Capponi Piero, 231.

Capua (di) Leonardo, 346, 390. Capuana Luigi, 698, 701, 703, 704,

501.

- Brusoni Girolamo, 356.

491.

Campana Dino, 753, 765-766.

575, 604.

Bruni Leonardo, 38, 139, 148. Bruno Giordano, 303, 304, 305, 308,

Buonarroti

Camerini Eugenio, 562. Cameroni Felice, 704. Cammelli Antonio, v. Pistoia (il). Campana Cesare, 299. us

Canth

-Brofferio Angelo, 562. Brossano (da) Franceschino, 72. 364,

on

= =

Canigiani Eletta, 67.

101. . - Braschi Luigi, 511. ‘Brienne (di) Giovanni, 16. Brignole Sale Anton Giulio, 322, 356.

340,

Calzabigi Ranieri, 401, 493.

308, 365, 379, 501,

174.

Branda Onofrio, 458, 462. Brandeburgo (di) Ludovico,

_

Calepio Pietro, 367, 401. Callimaco,

Bossuet Jacques Benigne, 6(2. Botero Giovanni, 227, 303, 319, 320,

fey

deo Fe asic Barca pia

174,

179,

2526

55,

712, 713, 714, 722.

Caracciolo Antonio, 250. Caraffa Antonio, 380. Cardarelli Vincenzo, 753,

Carducci Giosue, 42, 120, 282, 283,

347, 359, 375, 395, 421, 436, 457, 458, 460, 469, 475,

560, 573, 582, 622, 679, 680,

686, 687-695, 725, 727,

Buovo d’Antona, 8. Burchiello, 26, 155, 253.

Burke Edmund, 552. Butti Enrico Annibale, 723. Buzzati Dino, 776. Byron Giorgio, 555, 556, 574, 576, 646, 678, 685.

Cabanis Pierre Jean, 602. Caccini Giulio, 274, 275. Cagna Achille Giovanni, 713. Calandra Edoardo, 700.

761-762,

770.

5 dL

54;

V1) 21 38 p0100s

766. Cariteo (il), v. Gareth Benedetto, Carletti

Francesco, 330. Carli Gian Rinaldo, 415, 417, Carlo IV, 71, 76, 127.

Carlo V, 210, 228, 247, Carlo Carlo Carlo Carlo

VI, 377, 396. VIII, 155, 164. Magno, 7, 52, 621, Martello, 36.

|

= P

/

5 ~ Carnot ibaa 501.

Caro

Annibale, 250, 237, 258, 262, 469.

_- Carrara (da) Francesco, 72. - Carrer Luigi, 574.

Pracptenhee Jan Antoine, 522.

Chansons de geste, 7. Chanson de Roland, 7. Chapelain Jean, 341. Chateaubriand

(de)

Francois

551,

0574,"

5815

‘Cartesio Renato, 340, 364, 369, 379.

Casa (della) Giovanni, 242, 245, 246, 250, 288, 295, 314, 337, 346,

391.

Casanova Giacomo, 405. Casella, 62: _ Cassi Gertrude, 655. Cassiani Giuliano, 393.

Castelbarco (di) Maria, 473. Castelli Benedetto, 310, 313. Castelvetro Ludovico, 186, 187, 333, 374, 442. Casti Giambattista, 401, 404, 436. Castiglionchio (da) Lapo, 71. Castigiione Baldassar, 180, 181, 184, 189,

242-245,

272i

250,

seh,

Castiglioni

Paola,

265,

266,

472, 473.

Castracani Castruccio, 209, 222, 239. Castro (di) Scipione, 321.

Caterina

(Santa), 134, 135.

Cattaneo Carlo, 560, 561, 562, 565, 566, 597.4

Catullo, 147, 150, 373, 394, 522, 685.

Cavalca Domenico, 133, 134. Cavalcanti Guido, 23-24, 25, 35, 36,

660. Chauvet Victor, 603, 610. Chellino (di) Boccaccio, 100. Chiabrera Gabriello, 339, 344, 346,

Chiarini Giuseppe,

Chiaromonte

544.

Scipione, 321.

Chiesa Francesco, 758. Ciani Gioacchino, 102. Cicerone M. Tullio, 35, 68, 78, 79,

81, 84, 85, 139, 140, 141, 147, 297, 436, 510, 639.

Cicognani Bruno, 753, 758.

Cicognara Leopoldo, 505. Cicognini Giacinto Andrea, 442. Cimminelli (de’) Serafino, 126, 155. Cimmino Angiola, 388. Cini Francesco, 274. Cino de’ Sighibuldi da Pistoia,

35, 50.

V,

Clemente

VI, 70.

Cavalieri Bonaventura, 313. Cavalieri (di) Emilio, 274.

Clemente

VII,

Cavour (di) Camillo Benso, 604. Cecchi Emilio, 728, 754, 763. Cecchi Giammaria, 261. Celestino V, papa, 29. Cellini Benvenuto, 240-242, 428,

Clemente VIII, 280. Clemente IX, 356.

39, 55. 195,

210,

222,

Clodasso, Coen

257.

Marco,

612.

Cena Giovanni, 756.

Cerchi

Colletta

Francesco, 401. Luigi, 435.

Cervantes Michele, 267, 478. Cesari Antonio, 506, 507, 508. Cesarotti Melchiorre, 401, 415, 418,

421, 422, 423, 439, 506, 516, 552, 557, 648.

Cesi Federico, 312. Ceva Tommaso, 368.

228,

235, 240, 244, 264.

Collalto (di) Collaltino, 252. Collenuccio Pandolfo, 155.

(famiglia), 36, 37.

25,

Cioni Gaetano, 632, Claudel Paul, 749. Claudiano, 283. Clemente

42, 44, 118.

Cerlone Cerretti

René,

(637; 1657,

347, 348, 349, 353, 354, 392, 393, 424, 440. Chiala Luigi, 562. Chiari Pietro, 405, 443, 455.

-Cassoli Francesco, 435,

4

50;

;

Pietro,

508,

510,

511,

563,

639, 640. Collodi, v. Lorenzini Carlo. Colombini Giovanni, 134. Colombo Michele, 506. Colonna

Ascanio,

338.

Colonna (cardinali), 29, v. anche Colonna Giovanni. Colonna (famiglia), 69. Colonna Francesco, 176.

py

‘Colonna Giacomo, 69, 83. Colonna Giovanni, 69, 71. Colonna Vittoria, 247, 251. Colonne (delle) Guido, 16. Colonne (delle) Odo, 15, 17. Comisso Giovanni, 774. Compagni Dino, 136, 137. _ Condillac (di) Stefano, 412, 417, 433. - Condorcet Sofia, 602. Confalonieri Federico, 557, 572. ~ Conti Antonio, 365, 369, 370, 374,

379, 401, 402, 420.

Conti

(de’) Giusto 126,

da Valmontone,

154.

Conti Stefano, 581. ‘Contrari Ercole, 277. Copernico Nicola, 303,

304,

310.

Corazzini Sergio, 746, 747. Cornaro Caterina, 183. Corneille

Pierre, 353, 398, 728.

351.

Cortese Giulio Cesare, 337, 362. Cortese Paolo, 147. Cossa Pietro, 720.

» a9. 392.

Cotta Giovanni, 180, 193. Crescimbeni Giovan Mario, 371, 372, 37351974, 389, 391, 392: Manuele,

140.

Crispi Francesco, 691. Cristina di Svezia, 239, 389. Croce Benedetto, 726-728, 753, 756. Croce Giulio Cesare, 362, 404. Crudeli Tommaso, 392, 436. Cuoco

Vincenzo,

510,

Da

Feltre

502-503,

504, 509,

563, 601, 605.

Vittorino,

144.

D'Alembert Jean, 668. Dall’Ongaro Francesco, 704, 705, Damiani Pietro, 6. Dandolo Daniello

Andrea, 76. Arnaldo, 10, 45.

Dati Carlo Roberto,

1

De Marchi Emilio, 699, 723. De Meis Angelo Camillo, 563. Demostene, 140. ‘ Denina’ Carlo, 417, 421,

569.

Sanctis

Francesco,

92, 94,

120,

230, 359, 454, 457, 460, 474, 479, 498, 506, 529, 565-569, 604, 695, 727. De Sinner, 641, 642, 643, 676. Dessi Giuseppe, 779. Destouches Philippe, 438. Eedomtn

,—

556, 557, 62:0,

648.

Costantini Antonio, 280. Costanzo (di) Angelo, 238, 250, 346,

Crisolora

.

Delfino Giovanni, 354. De Maistre, 503, 551, 606.

Di Breme

Costa Andrea, 734.

Cotta Giambattista,

=

Deledda Grazia, 714, 715. : Delfico Melchiorre, 412, 505.

De

Correggio (da) Azzo, 70. Correggio (il), 179. Corsi Jacopo, 274, 275. Bartolomeo,

De Bosis Adolfo, 756.

Degola Eustachio, 602.

De Robertis Giuseppe, 728, 753, 754. De Roberto Federico, 704, 714.

‘Cornelio Nepote, 163.

Corsini

Davanzati Chiaro, 18, bis 2. Davila Enrico Caterino, 324, 330. De Amicis Edmondo, 697.

313,

Diderot, 411, 438, 444, Di Giacomo "Salvatore, 717-720, 722. Dini Piero, 310. Diodoro Siculo, 222: Dolce stil novo, 5, 20-25, 27, 43, 50. Dominis (de) Marcantonio, 326. _ Donadoni Eugenio, 728. Donati Alessio, 129. Donati Corso, 37.

Donati

(famiglia),

Donati Donati Donati

Forese, 45, 62. Gemma, 36. Manetto, 36.

36.

Doni Anton Francesc, 246-248, 266, 464. : Doria Percivalle, 16. Dossi (Pisani) Carlo Alberto, 683, — Td3Dottori Carlo, 351, 353, 357. Dovizi Angelo, 253.

Dovizi Bernardo, 243, 253, 261. Dumas

314,

356.

Alexandre,

703, 705.

Durini Angelo Maria, 472.

ae i i

: 4rua Grebsrie? aa Spiiléto! 190.

Ferrari Giuseppe,

_ Emiliani Giudici Paolo, 566.

Enrico

Il, 255, 329.

Enrico



IV, 329.

_ Enzo (re), 16, 350.

Epitteto, 639.

Fiammetta, 104, 105, 106, 108, 109,

__

Eritreo

Be -___

___

Vittorio. Erodoto, 164.

Errico Scipione, 337.

Maria. Ficino Marsilio, 142, 143, 167, 169,

Bt __

Eschilo, 140. Esiodo, 150, 637.

Fieschi Gian Luigi, 324. Filangeri Gaetano, 412, 421, 501.

og

Esopo, 582.

Filelfo Francesco,

“Este

Gian

565.

Ferrari Paolo, 721. Ferreti (dei) Ferreto, 78. Ferrucci Francesco, 239. Feuillet Octave, 705.

Nicio,

v, Rossi

Gian

110, 113. v. anche Aquino

(d’) Alfonso, 191.

(d’) Ercole,

_

163, 191,

197.

K

Filicaia

if

:

145, 152, 156.

(da) Vincenzo,

ne

348, 389,

re

392, 657. Filippo (di) Rustico, 18. Fiorentino ser Giovanni, 129.

BE: ¢

Fioretti Benedetto, 337.

F

Este (d’) Filippo, 278.

Fioretti di San Francesco, 133.

ie

Este (d’) Ippolito, 191, 193.

Firenzuola

rae

Este (d’) Lucrezia, 277, 278. Este (d’) Luigi, 277. Este (d’) Niccolé, 190. Estensi (gli), 145, 163, 192, 201.

Y

Pate:

379.

Este (d’) Alfonso II, 272, 277, 278. Este (d’) Borso, 190. _ Este (d’) Eleonora, 277, 278. Este

(d’)

TES:

Folengo Giambattista,

Fabio Massimo, 393.

Folgore di San Gimignano.

Fagiuoli Giambattista, 391, 402, 442,

445. Fagnani Arese Isabella, 522, 531. Faisinelli (de’) Piero, 26. Falconieri Costanza, 511. Faldella Giovanni, 684. Fantoni Giovanni, 439, 521. Farina Salvatore, 698, 704. Farinata degli Uberti, v. Uberti

(degli) F. Farnese Pierluigi, 240. Faulkner William, 778. Claude,

501,

613, 616, 631.

Federico

690. Fracastoro

163.

_Fermo (da) Oliverotto, 208. Ferrante di San Severino, 276. Ferrara (da) Antonio, 127. Saprcno,

Disegno

stor.

Frachetta

lett.

Girolamo,

Girolamo,

180,

186, 187.

321.

Francesco I, 240, 241, 247, 255, 257.

Francesco I (duca di Modena), 338. Francesco (San) d’Assisi, 11, 133. Franco

della

v. San

394, 409, 412, 421, 432, 437,

II (di Prussia), 415, 513.

Ferdinando, granduca di Firenze, 280. Ferdinando il Cattolico, 207, 228.

50. —

Gimignano,

439, 460, 499, 501, 504, 505, 506, S08sho1 3p Lose Litas 520-547, 552, 575, 605, 688,

Federico II (imper.), 4, 15, 16. Feltre (da) Vittorino, 144. Feltrino,

ne

Fontana Ferdinando, 686. Fontanella Gerolamo, 344. Fontanini Giusto, 372. Fontenelle (de) Bernard, 415, 635. Forese Donati, v. Donati F. Fornaciari Luigi, 506. Fort Paul, 754. Forteguerri Niccolé, 404. Fortini Pietro, 264. Foscolo Floriana, 523, 524. Foscolo Giovanni, 535. Foscolo Ugo, 317, 347, 391, 393,

554, 602, 604,

il.

Niccol6,

251.

Ae heres ects ue ard

269.

Folengo Teofilo, 268-271.

78.

Faggiuola (delta) Uguccione, 39.

Fauriel

183, 264, 265.

- Firmian (di) Carlo Giuseppe, 459. Flaminio Marcantonio, 180, 193. Flaubert Gustave, 701, 703, 705. Fogazzaro Antonio, 715-717, 728,

Ettorri Camillo, 367.

Fabrizio,

Agnolo,

ty

se

| ikbare

Tiedes Federico, Be Fregoso Ottaviano, 243.

Cb Ginlaane 403, “442,AA ¥ , 374. Gimma Giacinto, 371, 372,

" a Frescobaldi Dino, 25. Ginguené P. Louis, 501. iW im, Frescobaldi Matteo, 255 A eee i _.Ginzburg Natalia, 779. Frezzi Federigo, 20. Gioberti Vincenzo, 497, 551, 560, Frugoni Carlo Innocenzo, 392, 393, 562, 566, 695. 2 a by 395, 401, 404, 433, 435, 511, Gioia Melchiorre, 503. wi $21, 635. Giordani Pietro, 359, 432, 505, 506, Frugoni "Fulvi F., 351, 357, 360, 361. 508-509, 510, 518, 557, 637;., 9 ' Fucci Ercole, 278. 639, 648, 654, 657, 690. 2 Fucini Renato, 714, 718, 758. Giorgi (de) Bertdla Aurelio, vedi Fuga Ferdinando, 435. Bertola A. ae oh Fumagalli Angelo, 372. Giotto, 118. Ww Fusinato Arnaldo, 574. Giovannetti Marcello, 345. e Giovanni del Virgilio, 54, 78, 124. Gadda Carlo Emilio, 775. Giovanni (di) Domenico, v. BurGaeta Francesco, 756. chiello. ; Galanti Giuseppe Maria, 412, 502. Giovanni re di Francia, 71. Galeani Napione, 425, 506. Giovio Paolo, 180, 299.

Galiani Ferdinando, 401, 416.

Galilei Galileo, 179, 181, 189, 294,

296, 303, 304, 308-312, 313,

185, 242, 245, 417,

421.

425,

437.

438,

Salomone,

394,

517.

Ghedini Fernando Antonio, 391. Gherardesca (della) Ugolino, 62. Giacometti Paolo, 598. Giacomino Pugliese, 5a Gy Giacosa Giuseppe, 698, 704, 722-723. Giambullari Pier Francesco, 185, 238. Giannone Pietro, 371-378, 412, 501. Giannotti Donato, 236, 261, 318.

Gibbon

Edward, 376.

Gregorio,

238,

Giulio Pomponio Leto, 143. Giuseppe II, 405, 460. Giusti Giuseppe, 582, 591-593, 632, Giustinian Leonardo, 155, 156, 157. Gluck Cristoforo, 401. ae

Gnoli Domenico, 733. Goethe Volfango, 281,

ne

a 438, 455,

511, 515) 5315553" 5345955500 556, 604, 646, 685, 728.

Gogol Nicola, 598. Goldoni Carlo, 401, 402, 404, 431,.

437, 441-456, 598, 721.

Goncourt

(De)

fratelli,

455,

701,

Luis,

333,

742.

Gongora

501, 502.

Gessner

Lelio

Giraud Giovanni, 598. Giulio II, 191, 207.

_ Gando Giuseppe, 578. Gardin Antonio, 420. Gareth Benedetto (il Cariteo), 155. Gargiulo Alfredo, 728, 754, 761. _ Garibaldi Giuseppe, 594. Gassendi Pietro, 364, 377. ' Gatto Alfonso, 770. Gemisto Giorgio, 140. Genovesi Antonio, 412,

Giambattista,

283, 288, 300, 356.

Gambara Veronica, 251.

Giambattista, 246, 261, 464.

Cinzio

257, 259, 260, 267, 272.

Giraldi

324, 340, 364, 434, 686. Galilei Vincenzo, 274, 308. Galliadi Giambattista, 509. Gallina Giacinto, 722, 723. Galluppi Pasquale, 562. Galvani Luigi, 365.

Gelli

Giraldi

y Argote

(de)

360. Gonzaga

(i), 145, 170, 299.

Gonzaga Elisabetta, 243. Gonzaga Gian Francesco, Gonzaga Francesco, 243. Gonzaga

Francesco

144.

I, 338.

Gonzaga Margherita, 278. Gonzaga Scipione, 176, 277, 280. Gonzaga Vincenzo, 279, 280. Gori Francesco, 484, Gotta Salvatore, Sk



_Govoni Corrado, 748, 757. _ Gozzano Guido, 746-747,

754, 756.

_Gozzi Carlo, 391, 415, 423, 426,

~

432-433,

436, 443, 445, 455.

Gozzi Gaspare, 391, 401, 415, 425, 426, 429-432, 436, 437, 462, 463, 601.

Herder Giovanni Goffredo, 553. Herschel John Frederik William, 641. No

369, 379, 386, 396, 397, 398, 420, 442, 501, Gray Thomas, 439, Graziani Girolamo,

Hoeldelia Friedrich,

Hugo

368,

389, 393, 395, 401, 402, 403, 552, 557, 648. 517. 350. v. Lasca.

283,5335, 337,41, 354.

277,

227-236,

560,

Innocenzo

ae

fern aa

VI, 101.

Intelligenza

3

(L’), 20.

age!

Kafka Franz, 771. Kant Emanuele, 551,

Kleist

Bits:

554.

,

,

515, 555, 600.

As

(von) Ewald, 394.

Klopstock

Friedrich S115

Gottlieb,

394,

D2:

686. 181,

217,

Labindo, v. Fantoni Giovanni.

237,

318,

327,

La Bruyére (de) Jean, 233. La Farina Giuseppe, 564. La Fontaine (de) Jean, 436. Laforgue Jules, 746.

240,

509.

Guinicelli Guido, 19, 22, 23, 42, 50. --Guittone d’Afezzo, 17,-18, 19, 25, 43, 341. Giorgio,

553.

Harvey James, 425. Hegel Georg Wilhelm, 551, 554. Heine Enrico, 685, 690, 692. Helvetius, 411, 427, 478, 482. Hemingway Ernest, 778.

~*\

Lagrangia Giuseppe Luigi, 365, La Masa Giuseppe, 564. Lamberti Antonio, 406.

Lamberti Luigi, 435. Lambruschini Raffaello, 563. Lamento della sposa padovana, 14, Lami Giovanni, 374. Landini Francesco, 129. Landino Cristoforo, 143,

169. Lando

:

639.

Francesco,

Giovanni

Sts



Imbonati Giuseppe Maria, 458. Ingegneri Angelo, 279.

425458

Guicciardini Pietro, 231. Guidi Vincenzo, 348, 368, 389, 392, 657. Guidiccioni Giovanni, 250, 346, 657.

Hamann

Imbonati Carlo, 460, 472, 601.

Kepler Giovanni, 304, 309.

(di) Carlo, 27.

Guerrazzi Francesco Domenico, DIDO DF ynOD:

Olindo,

Ignazio (Sant’) di Loiola, 358. Imbonati (gli), 459.

Keats Giovanni,

Guarino Veronese, 156, 190. Guastavini Giulio, 296.

Guicciardini

eek

a

Jahier Piero, 749, 750, 751, 752, 760. Jammes Francis, 746. Johnson Samuel, 426. Jovine Francesco, 779. Joyce James, 743, 771.

154.

Guarini Alessandro, 280. Guarini Battista, 188, 272-274,

Guerrini

515, 600, 646.

576, 690, 692,

Jacopone da Todi, v. Todi (da) J.

Grozio Ugo, 364, 379. -Gualdo Luigi, 704.

Guerra Cavicciuoli

555,

Hume David, 410.

Tsocrate,

574, 575, 576.

Guardati Tommaso,

Victor,

hoa

Ibsen Enrico, 724, 749, 752. 365,

Grazzini Anton Francesco, Gregorio XI, 135. Grillo Angelo, 279. Gritti Camillo, 472. Gritti Francesco, 436. Grossi Tommaso,

5p

Gee Giovanni Cam., v. Foscole

700.

Graf Arturo, 733. Granelleschi (i), 426, 430, 443, 686. 310. Vincenzo,

fa pea

Hobbes Thomas, 379, 410, 526, 527.

Gracian Baltasar, 233, 245, 361. Grassi Orazio, Gravina. Gian

Bae

Ortensio,

251.

152,

153,

os

an

rans 176.

Lanzi Luigi, 372, 373, 505.

Luciano, 164, 174.

Lapo Gianni, 25, 35. La Rochefoucauld Francois, 233. Lasca (il), 251, 254, 261, 265, 460. Lascaris Costantino, 140, 182. Latini Brunetto, 19, 20, 32, 34, 35, 47, 62, 63.

Laura, 68, 71, 82, 83, 87, 91, 96, 97, 98.

La Vista Luigi, 568.

Legenda aurea, 7, 31. Leibnitz Gottfried Wilhelm, 374. Lemene (de) Francesco, 346, 389, 392, 406. Lentini (da) Jacopo, 16. Lenzoni Carlo, 185.

364. 374,

da Vinci, 173, 175, 176.

Leopardi

Giacomo,

Leone X, 170, 182, 191, 228, 243. 348,

409,

412,

499, 509, 2195 527, oly re STs. 679, 688,

690, 696, 727, 760, 761, 762.

Leopardi Monaldo, 634, 636, 642. Leopardi Paolina, 658. Leopoldo di Toscana, 311.

Luigi XII, 207. Luigi XIII, 341. Luigi XIV, 330. Luigi

639,

Sone a ax aay

XV, 513.

Luigi d’Ungheria, 101. Lutero Martino, 234. Luzzi Mario, 770. Lyly John, 333.

Maccari Giambattista, 687. Maccari Giuseppe, 687. Machiavelli Bernardo, 206. Machiavelli

Leonardo

421, 439, 458, 460, 510595145515; 118,45 Shep Spbhee oly Bbyh 599, 600, 634-678,

Lucrezio, 140, 301. Ludovico il Moro, 243.

185, 230, 239, 315,

Niccolé,

189, 231, 240, 316,

478, 501, 502, 526, 696.

Macpherson Maeterlinck

Tito, 68, 78, 81, 139, 220, 237.9 3595911 Locke John, 364, 379, 410, 411, 417. Lombardelli Orazio, 296. Lombardo Pietro, 6. Lomonaco Francesco, 501, 601. Loredano Antonio, 316. Loredano Gian Francesco, 356.

Lorena (di) Cristina, 310. Lorenzi Bartolomeo, 434, 462. Lorenzi Giambattista, 401. Lorenzini Carlo, 697. Loria Arturo, 774.

eaten

.

Maffei Giampietro, 324.

:

Maffei Scipione, 373, 374, 398, 401, —

402, 403, 420, 442, 445,

Maggi

Livio

181,

229, 237,— 303, 320, —

Giacomo, 439. Maurice, 731.

Lessing Gotthold

Leti Gregorio, 357. Levi Carlo, 780. Libro dei sette savi, 32. Linati Carlo, 753. Lippi Lorenzo, 351. Lisi Nicola, 776.

227, 236, 266, 319,

327,365,0310; O99, kd

Leporeo Ludovico, 345, 361. E., 368, 438, 505,

179,

206-226, 232, 235, 244, 260, 317, 318,

Magalotti Lorenzo, 356, 389, 391.

552.

117,

ae ye

313,

314,

352, 7%

Carlo Maria, 346, 362, 374, —

390, 406, 584.

Mai Angelo,

Malaguzzi Malaguzzi Malaspina Malespini Malherbe Malispini Malispini Mallarmé

658, 659.

Annibale,

195.

A

Valeri Daria, 190. (marchesi), 37, 56. Celio, 279. (de) Francois, 256. Giacotto, 32. Ricordano, 32. Stéphane, 748, 749,

766.

pe.

oye. 765, are

Malpighi Marcello, 313. Malvezzi Teresa, 639, Malvezzi Virgilio, 316,

322, Beth 361. Mameli Goffredo, 560, 578-579. Mamiani Terenzio, 689. Mandello (di) Giovanni,

Manetti Giannozzo, Manfredi, 15, 62.

143.

83.

Ate:

cme

"Manfredi Bustachio, 367, 391. Manin

Daniele,

379,

Manso

Giambattista,

556, 560, 562, 566, 572, 580,

597.

592, 594.

280.

Mazzoni Jacopo, 333. Mazzucchelli Giovanni

Manzini Gianna, 775.

Manzoni

Alessandro, 409, 412, 460,

474, 557,

507, 563,

582,

594,

696,

698,

518, 564,

551, 555, 567, 575, 597, 599-633,

556, 579, 658,

669, 673, 679, 683, 689, 690. 699,

710,

760, 771, 776.

711,

727,

Manzoni Pietro, 600.

Marchese Cassandra, 177. Maria Luigia (d’Austria), 513. Maria Teresa (imp.), 396, 414, 459,

460, 478. Marinetti

:

Filippo

Tommaso,

748,

749. Marini Giovanni Ambrogio, 356. Marino Giambattista, 189, 253, 296, 334, 335, 337, 339, 340-345,

347, 349, 359, 395, 511, 732.

Marivaux (de) Pierre, 438. Marmontel Jean Francois, 438. Maroncelli Pietro, $57, 572. Marsilio (re saraceno), 7. Martelli Lodovico, 185, 259, 445. Martello Pier Jacopo, 402, 403. Martinetti Cornelia, 523, "544, Martini Ferdinando, 696. Martoglio Nino, 722. Marullo Michele Tarcaniota, 149, 150.

Marx Carlo, 550. Masaniello "(Tomaso Aniello,

detto),

240. 236,

237, 241.

Medici (de’) Cosimo U, 309, 310. Medici (de’) Giovanni, v. Bande Nere (delle) Giovanni. Medici (de’) Giovanni, 170, 208. v. anche Leone X. Medici (de’) Giuliano, 170, 243. Medici (de’) Giulio, 210. Medici

(de’)

240, 261,

Lorenzino,

487.

Medici

(de’) Lorenzo

di Piero, 219.

Medici

(de’) Lorenzo

il Magnifico,

138, 152, 156, 158, 160, 166169,

Medici Medici Medici

170,

172,

182,

222,

235.

(de’) Maria, 341, 343. (de’) Pierfrancesco, 240. (de’) Piero, 170, 231.

Medici (i), 206, 210. Meli Giovanni,

406-408,

436.

Melosio Francesco, 345. Mengs Raffaello, 372, 434, 505. Menzini

Benedetto,

348, 389, 392.

Mercantini Luigi, 579. Merlin Cocai, v. Folengo

Teofio.

Metastasio Pietro, 296, 331, 347, 391,

394,

395-400,

401,

407,

435, 442, 454, 478, 690.

Mascagni Pietro, 711. Mascardi Agostino, 324, Lorenzo,

372,

Merula, 243.

349, Mascheroni

Maria, BWhek, Medebac Girolamo, 442. Medici (de’) Alessandro, 228, Medici (de’) Clarice, 170. Medici (de’) Cosimo I, 228,

428,

Michelet Jules, 690.

365, 434,

513.

Michelstaedter

Carlo,

749,

750-751,

767.

Massarani Tullio, 704. Massillon Jean Baptiste, 602. Massimiliano (imp.), 207.

Milelli Domenico,

Massinissa,

Milton John, 301, 393, 511, 686. Minturno (il), 183, 186. Minzoni Onofrio, 393. Mirandola (della) Giovanni Pico,

Milizia

Mazzini

81.

(card.),

Giuseppe,

329.

497,

532,

4372,

373,

435,

505.

Masuccio Salernitano, v. Guardati Tommaso. Matelda, 62. Maupassant (de) Guy, 705, 730. Mauro Domenico, 574. Mazza Angelo, 433. Mazzarino

686.

Francesco,

550,

143. Misasi Nicola,

713. -

Mocenni Magiotti Quirina, 523. Moliére (J. B. Poquelin), 403, 448. Molina (de) Tirso, 355.

.

a

4 Nhe wise Maria, 250, WS ae ee iiae Attilio, 728. mA Nay” 523, 544, Mommsen Teodoro, 383. ‘ ; Nese (del) Bernardo, 231. Moniglia Giovanni Andrea, 356. Newton Isaac, 374, 434. a Montaigne — (de) Michel, 233, 245. Niccolini Giambattista, 510, 598, bs 478. Nicole Pierre, 602. ; Montale’ Eugenio, 767, 768, 769-170 Niebuhr Bertoldo Giorgio, 383, Me ” Montani Francesco, 367. Nietzsche Friedrich, 730. Monte Andrea, 19. ‘Montecuccoli ‘Raimondo, 322, 330 Nievo Ippolito, 532, 560, 575, 582if 594-597.

D2oe

- Montefeltro

(da) Guido, 62.

Montefeltro (da) Guidubaldo, 243. Montefeltro (da) Ulisse, 62. Montesquieu

(de) Charles, 376, 402

411, 415, 427, 478, 482.

Monteverdi

Claudio,

Monti Teresa, 531. Monti Vincenzo, 393, 394, 437, 438,

439, 504, 505, 506, 507, 508,

*$09,° 511-517, 518, 520, -$21, DL25,29, 57, DD ty iOase OS:

* 637, 648, 649, 732.

Morando Bernardo, 345, 356. Moravia Alberto, 742, 777, 778, 780. Moretti Marino. 746. Morgagni Giambattista, 365, 374.

Morra (di) Isabella, 251. Mosco, 283, 637. Mozart Volfango A., 401, 405. Multedo Giuseppe, 581. Muratori Ludovico Antonio, 365, 366, 367, 368, 369, 370, 371379,

389,

390,

398,

401,

442, 563. Murtola Gaspare, 340, Mussato Albertino, 78, 80, 124. Mustoxidi Andrea, 505. Muzio Girolamo, 184, 245. Nardi

Jacopo,

Qddi Niccold, 296. Oderisi,

275, 355.

Montfleury Antoine Jacob, 403. Montgolfier Joseph, 511.

376,

Nisi (di) Niccolé, 27. Novalis Friedrich, 554. Novellino, 32.

236, 237.

Narrazione di San Brandano, 39. Navagero Andrea, 180, 193. Neckeer di Staél-Holstein Germaine, v. Staél (de) Madame. Negri Ada, 756. Negri Francesco, 330. Negri Gaetano, 696. Negro (del) Andalone, 101. Nelli Francesco, 71.

his

62.

Ojetti Ugo, 757. Omero, 78, 140, 186, 256, 282, 299, 301, 334, 338, 339, 3697 0m 486, 516, 517, 385, 386, 539, 542, 552, 636, 637, 710. Onofri Arturo, Orazio Flacco,

753, 766, 770. 147, 186, 193, 194, 199, 254, 347, 394, 397,

434, 474, 685. . Orbicciani Bonaggiunta,

19.

Ordelaffi (degli) Francesco, 101. Oriani Alfredo, 700. Orlandi Guido, 18. Orlandini Francesco Silvio, 544,

: .

3 Sd “a

Orsi Giuseppe, 367, 374. Orsini Felice, 572. Orsini Paolo, 269. Ossian, 425, 439. Ottonelli Giulio, 296. Ovidio,

59, 109, 150, 164, 199, 255,

283, 394.

Padova (da) Marsilio, 127. Padula Vincenzo, 574. Pagano Francesco Mario, 412, 413, 419, 502.

:



Palaprat Jean, 403. Palazzeschi Aldo, 746, 748, 772. Pallavicini Luigia, 522.1 536; Pallavicino

Ferrante,

357.

Pallavicino Sforza, 324, 339, 379, 508.

328,

334,

Palmieri Giuseppe, 412. Palmieri

Matteo,

175.

PI eee,

ote

Pananti_ Filippo, 519. ancrazi Pietro,

728,

, 193, 249, 754.

Panvinio Ohofrio, 180. ‘et -Panzini Alfredo, 684, 738-739. Paoli. Pasquale, 576. - Paolo Ill, 182, 236, 240. Paolo V, aa _ Papini Giovanni, 748, 749, 750, 760. - Parabosco Girolamo, 265. _ Paradisi Agostino, 435, Paradisi Giovanni, 435. _

_ Parini Giuseppe, 347, 390, 391, 394, '. 404 409, 414, 419, 425, 426, 431, 433, 434, 435, 437, 438,

457-476, 501,. 513, 514, 515,

e

_

Dots el, 5 2,5 505059, 557, 558, 583, 601, 650.

Paruta

-

541,

Paolo, 303, 318.

Parzanese Pietro Paolo, 574. Pascal Blaise, 602. Pascarella Cesare, 717-718. | Pascoli Giovanni, 528, 679,

-

4

725,

Pascoli Ida, 734. Pascoli Maria, 734. Passavanti Jacopo, 132, 133, 153. Passeri Giambattista, 371.

_\ Passeroni Gian Carlo, 391, 426, 436, 437, 584. : Pastonchi Francesco, 756. -Patrizi Francesco, 186, 296. 'Pavese Cesare, 770, 779.

Pazzi

80, 82, 85.

Petroni

Piccolomini

277.

Pepoli Carlo, 639, 665. _ Percoto Caterina, 705. 274, 275.

_Pericle, 511. Pers (di) Ciro, 345. Perticari Giulio, 507, 514. Perugia (da) Paolo, 101. Petracco (ser), 67. Petrarca Francesca,

102.

365.

Alessandro,

262.

Piccolomini Enea Silvio, 148.

Piermarini Giuseppe, 435. Pigafetta, Antonio, 239:

Pigna Giambattista, 277, 288. Pignatelli Marianna, 396. Pilato Leonzio, 122. Pindaro, 347. Pindemonte Ippolito: 20%, 517-518, 538.

Pio Emilia, 243. Pio VI, 512, 514. Piovene Guido, 778. Pirandello Luigi, 684, 725, 726, WA 738-742,

771.

Pisa (da) Guido, Sle hale Pisacane Carlo, 560, 561, 564, 579. Pistoia (da) Cino, v. Cino. Pistoia

(il), 155, 253.

Pitt Penelope, 478. Platen (von) August, 643, 690. Platone, 84, 142, 143, 297, 301, 503, Plutarco,

Peri Jacopo,

Pietro,

Piazzi Giuseppe,

Peguy Charles, 749.

Pellegrini Matteo, 335, 340.

_

:

Plauto,

Laura,

298,

Petrarca Giovanni, 70, 72,

Pea Enrico, 773.

Peperara

\as0nie

287, 294,

667.

(i), 170.

Pellegrino Camillo, 295, 296. Pellico Silvio, 557, 569, 574, 598. _

286,

338, 339, 341, 369, 424, 480, 487, 524, 529, 551, ' 567, 639, 754. Petrarca Gherardo, 67, 68, 69, 70,

520,

732-738, 744, 745, 748, 756.

s

283,

Piccolomini (arcivescovo), 311.

Pariati Pietro, 442.

|.

275,

‘Petrarca Francesco, 6, 9, 10, 20, 41,

67-99, 100, 102, 111, 122, 124, 126; 271 29,139) "144; 145;

197,

225,

260, 442,

225, 478.

Poe Edgar Allan, 765. Poerio Alessandro, 579, 639, 643. Polenta (da) Guido Novello, 39. Polenta (da) Ostasio, 101. Polibio, 237. Poliziano Angelo, 138, 147, 148, 149, 150,

151,

152,

156,

169,-173,

182, 185, 205, 272, 275, 283. Pompeo,

393, 635.

Pomponazzi Pietro, 269. Pontano Adriana, 150. Pontano

70, 72.

140,

Giovanni,

149,

150, 172,

176.

Pontano Lucio, 150. Ponte (Da) Lorenzo,

Porro Lambertenghi

401, 405. Luigi, 557

ix

De

iam

BE

ey

=

‘Rice (de’) Scipione, 413. ° Ricciardi Ghicnee, ‘36. *

S

Porta Carlo, 582-587, 589, 591.

Porta (della) Giambattista, 261, 324, 442 Portinari Portinari

Bice, v. Beatrice. Folco, 35.



Porzio Camillo, 238. Possevino Antonio,

Pratesi

Mario,

713,

714, 758.

574, 575, 680.

Prato (da) Convenevole, 68. Prato (da) Niccold, 67, 68. Pratolini Vasco, 778. Preti Girolamo,

Proudhon Joseph Pierre, 690. Proust Marcel, 743, 771. 355.

Pseudo Longino, 385. Pucci Antonio, 128, 130, 131, 253.

Pulci Luigi, 26, 138, 156, 158-163, 165, 271, 404, 433. Puoti Basilio, 506, 507, 643. Purgatorio di San Patrizio, 59. Quadrio Francesco

Saverio, 372, 373.

Quasimodo Salvatore, 770. Quevedo Francisco, 360, 361. Quinet Edgar, 690, 695. Quintiliano,

78,

139,

141.

Giovanni Battista, 239.

Riva (della) Bonvesin,

13, 29, 59.

Robertson William, 668. Robortello Francesco, 186, 187.

1

:

mM

Rolli Paolo, 393, 394, 395, 399, 401, 407, 440.

Romagnosi Giandomenico, 503-504.

Roman de la Rose, 20. Romanina (la), v. Bulgarelli rianna. Roncioni Isabella, 522, 531.

Ma-

Ronsard (de) Pierre, 346. Rosa Salvator, 349.

Rosenkranz Federico, 554. Rosmini Antonio, 551, 562, 579, 580, 603, 612.

Rospigliosi Giulio, 356. Rossetti Gabriele, 578.

Rossi Gian Vittorio, 371. (de’) Bastiano,

295.

Rousseau Jean Jacque, 378, 405, 407,

411, 427, 437, 478, 482, 484, 526, 531, 552, 606, 644, 646.

Rovani Giuseppe, 574, 597. Rovere (della) Francesco Maria, 243,

272, 287.

Rovere (della) Guidubaldo, 276.

Antonio, 642, 643, Paolina, 643.

Rapisardi Mario, 686, 687. Ravagnani (de’) Benintendi,

wil

Rinuccini Ottavio, 275, 355. POLS Ripano Eupilino, v. Parini Giusepp me

Rossi

Raccolta aragonese, 152. Radicati di Passerano Ignazio Adalberto, 415. Ranieri Ranieri

te

Riccoboni Antonio, 3357 Richardson Samuel, 437, 448. Rienzo (di) Cola, 70, 77, 137.

Rossi (de’) Giovanni Gherardo, 454, Rossi (de’) Porzia, 276. Rossiglione Guglielmo, 115. Rota Bernardino, 250.

- Rabelais Francois, 271. Racine Jean, 393, 398, 403, 602.

Ramusio

Meio

Rodenbach Georges, 746.

Prezzolini Giuseppe, 749. Priorato Galeazzo Gualdo, 329. Properzio, 283. Francesco,

\

Rocca (i), 397.

345.

Prevost (Abate), 436.

Provenzale

164.

Rimbaud Arthur, 749, 766. Rinuccini Cino, 126.

374.

Praga Emilio, 682. Praga Marco, 704, 722, 723. Prati Giovanni,

Riccobaldo,

72.

Rebora Clemente, 767. Redi Francesco, 313, 314, 356, 389, 428.

Reina Francesco, 465. Rezzonico della Torre Carlo Gastone, 420, 434.

Rovetta Girolamo, 698, 723. Rucellai (i), 209. Rucellai Giovanni,

259, 454.

255, 256, 258,

Rudel Jaufré 10. Ruffini Russel Russo Russo

Giovanni, 560, 572. Carolina, 524. Ferdinando, 718. Vincenzo, 412, 413.

a

:

-—-Rusticheilo, 31.

peer Friedrich, 455, 553, 554, 556,

_ Rusticio di Filippo, 253. Ruzzante (il), v. Beolco Angelo. Saba Umberto,

8.

Schlegel Federico, 455, 554, 556, 649. Schlegel Guglielmo, 455, 554, 556.

767-768, 770.

Schleiermacher

- Sacchetti Franco, 128, 129, 130.

Sagredo Giovanni, 356. _ Sainte-Beuve (de) Charles Augustin, 581,

604.

Saint-Pierre. (de) Bernardin, 438. Salerno (di) Ghismonda, 115. Salfi Francesco Saverio, 501. Salimbene (frate) da Parma, 7, #1. Sallustio, 510. Salomoni Giuseppe, 345. Salustri Carlo Alberto, v. Trilussa. Salutati Coluccio, 139, 140. Salviati Leonardo, 185, 295. Salvini Anton Maria, 367, 374.

Samain Albert, 746. Sammartini Giovanni Battista, 459. Sand George, 581. San Gimignano (di) Folgore, 27. Sannazaro

Jacopo,

138,

149,

150,

Tipe BIS ply yes liich a lnkovean ihe}

271, 272, 283.

Sanseverino Roberto, 158. Santarosa (di) Santorre, 497. Sanvitale Eleonora, 277.

Sanzio Raffaello, 179, 181, 243, 244. Sarpi Paolo, 189, 303, 325, 328, 330, B20

570,9 D0Ty AL2.

Sassetti Filippo, 239. Savioli Ludovico, 393, 394, 399, 434,

435, 521.

Savoia

339, 340, 348.

Savoia (di) Maurizio, 338. Savenarola Girolamo, 144, 154.

Sbarbaro Camillo, 753, 767. 150.

Scala (della) Bartolomeo, 37. Scala (della) Cangrande, 39. Scaligero Giulio Cesare, 186. Scalvini Giovita, 579, 630. Scannabue Aristarco, v. Baretti Giuseppe. Scarlatti Alessandro,

355.

Schelling Friedrich, 554. Schettini

554.

Schulz, 643. Scipione, 81, 393, v. anche Scipioni. Scipioni (gli), 78. Scott Walter,

556, 575, 613.

Scroffa Camillo, 268.

Sebastiani Antonio, v. Minturno.

Sebiliato Clemente, 420. Segneri Paolo, 361, 362. Segni Bernardo, 237. Sempronio Giovan Leone, 345.

Seneca, 74, 78, 85, 259, 297, 352, 361, 510.

Senofonte, 140, 163. Serao Matilde, 712-713. Serassi Pier Antonio, 281. Serbelloni (i), 459. Serbelloni Vittoria, 459. Serdini Simone, 127. Serra Renato, 728, 731, 754-755. Settala Ludovico, 321. Settembrini Luigi, 120, 566, 567, 569, 570; S71.

Sforza (gli), 145, 155. Sforza Ippolito,

154.

Sgruttendio Filippo, 362. Shaftesbury, 552. Shakespeare Guglielmo,

260, 267, 268, 393, 410, 426, 428, 512,

551, 552, 553, 623, 728.

(i), 691.

Savoia (di) Carlo Alberto, 592. Savoia (di) Carlo Emanuele I, 338

Scala Alessandra,

Friedrich,

Schmitz Ettore, v. Svevo Italo. Schopenhauer Arturo, 554.

Pirro, 346.

Shelley Percy B., 600, 646, 690. Siena (da) Bianco, 132. Sighibuldi (de’) Cino, v. Cino, Sigismondo (imp.), 140. Signorelli Pietro Napoli, 372. Sigonio Carlo, 180, 374. Silio Italico, 140. Siri Vittorio, 330. Sismondi (de) Sismondo, 554,

556,

606, 648. Slataper

Scipio,

749,

750,

751-752,

754,. 167, 773.

Smith Adam, 410. Soave Francesco, 412, 419, 600. Soderini Paolo Antonio, Soderini Pier, 207.

231.

soled ne 748, 749,750,oe “*eens

2

ce \

~

276-302, 308, 341, 346, 347, 354, 366, 369, 511, 639, 652,

Sordello, 10, 62.

Spallanzani Lazzaro, 365. Spaventa Bertrando, 562.

Tassoni

276, 277, 300.

Spinozza Benedetto, 379: Spolverini Giambattista, 434, Squarcialupi Abate, 269. Staél

(de) Madame, 455, 554, 556, 602, 637, 644, 648, 649, 657. Stampa Gaspara, 252. Stazio, 62, 139.

Alessandro, 317,

‘Tavola rotonda, 8, 32. Tazio Achille, 283. Tebaldo Antonio, 126, 155. Tecchi Bonaventura, 773. Tedaldi Fores Carlo, 598.

Tedaldi

Pieraccio, 26.

Telesio

Bernardino,

379,

304,

Tenca Carlo, 562, 566. Teocrito, 178, 255, 283. Terenzio, 197, 225, 260, Tesauro Emanuele, 334,

Luisa

contessa

di Albany,

' Straparola Gianfranco, 265.

190.

_ Stuparich Giani, 773.

Svevo Italo, 726, 728, 738, 742-744, 767, 771.

Swift Jonathan, 437.

Tieck Ludwig, 554. Tiraboschi Girolamo,

388,

510.

Battista, 505.

Pietro, 415.

Tansillo Luigi, 252, 254, 255, 272,

299.

Claudio,

185.

Tolomei Giovanni, 299. Tolomei (dei) Pia, 62. Tommaseo Nicold, 395, 432, 507, 560, 566, 579-582, 604, 669. Tommasini (dD, 640. Tommasini Adelaide, 639. Tommasini Antonietta, 639. ‘

Tanzi Carlo Antonio, 391, 406, 584. Tarchetti Iginio Ugo, 682.

Tommaso

Targioni Tozzetti Fanny, 642.

Torelli Ippolita, 244.

Tari Antonio,

563,

Tarsia (di) Galeazzo, 250, 251. Tasso Bernardo, 250, 255, 257, 276, 281, 288, 296, 346.

281, 371, 372,

Tiziano, 179. Todi (da) Jacopone, 13, 28-31, 132. Toledo (di) Garzia, 252. Toledo (di) Pietro, 252. Tolomei

i Girolamo, 426.

Talia Giovan

Tibullo, 150, 193. 373.

Sue Eugéne, 700. Svetonio, 239.

361,

339,

Thovez Enrico, 728, 733.

Stuart Carlo Edoardo, 480, 509.

Tagli

317,

Thierry Jacques Nicolas 690. Tiberio, 237, 316.

Stratone da Lampsacco, 645. Strozzi Ercole, 190. Strozzi Piero, 274. Strozzi Tito Vespasiano, 163, Stuarda Maria, 353.

Tacito, 237, 317,

Fulvio,

349, 351, 353, 434, Thompson Giovanni, 437.

Strada Famiano, 324. Strada (da) Zanobi, 71.

Tamburini

360, 379. Testi

479.

305,

S01.

Stefano Enrico, 237. Stolberg

i

:

Stecchetti ‘Lorenzo, 680, 686. Stella (editore), 639. Sterne Lorenzo, 437, 523, 533, 657.

-

331, 337, 349, | 372, 670.

340, 344, 349, 350, 404. ;

Speroni Sperone, 183, 186, 257, 260,

.

quato, 175

189, 345, 250,"953," 3

——_ Sofocle, 140, 300, 301 mr 7 Sografi Simeone Antonio, 454. Soldani Jacopo,3 Soldanieri Niccolo, 129.

(San) d’Aquino, 6, 35, 47.

Torelli ‘Achille, 721. Torelli Pomponio,

260, 352.

Tornabuoni Lucrezia, 158. Torricelli Evangelista, 312. Tosi Luigi, 602, 606.

Nt ite gr

Luigi, 563,564,

“Fedetigo, 726, 753, 758-759, .>

Pilea

ca

Vergerio Pier Paolo, 140.

THT aE

‘acy (Destutt de). Claude, 602. rapassi Pietro, v. Metastasio, ae_— Trasformati (i), 426, 458.

-Verlaine

Paul,

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30, 746, 766,

; ;

Verona (da) Giacomino, 11, 13, 59. Verri Alessandro, 401, 414, 438, 605. Verri Pietro, 412, 413, 414, 417, 419, 421, 427, 438, 444, 460, 462,

Traversari Ambrogio, 156. ong.

tise’ 3, ay 721, 725, Ba

757.

463, 475, 605, 607.

Vespucci

501,

506,

Simonetta,

513,

558,

151, 170, 171.

Vettori Francesco, 209. Trivulzio (march. 375; _ Trivulzio (principesse), 514. _ Tron Cecilia, 472, 473. _ Troya Carlo, 563, 564, 643. ~Tuldo (di) Niccolé, 135. - Turinetti di Prié Gabriella, Turoldo, 7. » Uberti

Uberti

Vettori

Vico

753, 767,

768,

769, 770.

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2552,

(di) Carlo,

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Ennio

Verdi Giuseppe, 604. Verga Giovanni, 633, 681, 698, 700-

es

369, 424, 1516, 9518,, 551, (582.0

Visconti

' Vega (de) Carpio Lope, 267, 355. Vendramin Francesco, 443, ~Ventadorn (de) Bernardo, 10.

Ly?

643, 652, 754.

37.

Giorgio, 238, 239, 266, 371. Vasco Dalmazzo, 415. Vasco Giambattista, 415.



-

131, 147, 150, 278, 199,” 255, 256, 282, 283, 294, 299, 301, (i), 145. Bernabd, 71.

Vasari

63.

Virgilio, 53, 59, 60, 68, 78, 81, 82,

Visconti Visconti

257,

-

Mahe.

365, 374.

Valois (di) Renata, 279. Valvason (di) Erasmo, 256, 299. _ Vannozzo (di) Francesco, 127. Vanvitelli Luigi, 435. Vaqueiras (de) Rambaldo, 10. Varano Alfonso, 401, 438, 511, 514. Varazze (da) Jacopo, 7. Varchi Benedetto, 183, 185, 186, 237,

e242.

=5025503,

ey

557, 563, 601, 636, 648, 727. Vida Marco Gerolamo, 180, 511. \ Vidal Peire, 10. Vieusseux Giampiero, 562, 639, 640. Vigna (della) Piero, 15, 16, 62. V2 Vigny (de) Alfred, 600, 646. Vigolo Giorgio, 770. Villani Giovanni, 19, 128, 136, 137s Villanova

Valeri Diego, 757.

Valois a

35013

365, 412,

VIII, 306, 310.

Antonio,

‘eae

die 340, 390,

Villani Nicola, 337.

Vallisnieri

:

334, 389,

V, 101. VI, 135.

Valery Paul, 760, 765. Valla Lorenzo, 140, 141, 142, Valle (della) "Federico, 353. Valle (della) Pietro, 330.

2

Giambattista, 376, 378-388, 425,

479.

(degli) Fazio, 20, 126. Giuseppe,

iat

180.

Vettori Vittore, 391.

(degli) Farinata, 62, 63.

Ungaretti

Pietro,

5055, DLL. Visconti Ermes,

Quirino,

tue

peas ey

372,

373,

a

556, 557, 559.

Visconti Galeazzo, 71, 72. Visconti Giovanni, 71. Visconti Nino, 62.

Visioni di San Paolo, 59. ‘Visioni di Tundalo, 59. Vitelli Vitellozzo, 208. Vittorelli Jacopo, 393,

399, 407, 521.

394,

Vittorini Elio, 779. ~ Viviani Vincenzo, 312, 313. 203,

376,

393,



sce ana

Be 411,

416,

417, 425, 426, 427, 428, 444,

478, 479, 482, 513, 552, 602,

606, 636, 668.

ae

:

Volta Alessandro, 365. Voltaire,

Soi ay

395,

aes.

798

)

il Ak RUA

CA

INDICE DEI NOMI Se

Wackenroder Wilhelm, Wagner Riccardo, 455.

ER,

Sees sone ed Wee SNORE BERS Ere

Zappi Giambattista, 392. 372,

373, 435, 505.

Wolf Friedrich August, 385. Young Edoardo, 394, 425, 438, 439, 551%

Zaccaria Antonio,

374.

Zanella, 680, 686, 687.

A

Zanotti Francesco Maria, 391, 404. Zanotti Giampietro, 391, 404, 511.

554.

Webster John, 267. Winckelmann Johann Joachim,

ee IE

Zeno

Apostolo,

355, 367, 372, 374,

398, 401, 442. Zeno Pier Caterino, 374. Zola Emilio, 568, 698, 742.

701,

Zola Giuseppe, 415. Zuccoli Luciano, 757. Zuccolo Ludovico, 303, 321, 334.

706,

TNDICE

GENERALF

s

BSEOLouy

Le origins(i) °

4,

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Peis

ent

“H Spag,

1. Le origini della lingua italiana. - 2. L’eredita della cultura latina e romanza. - 3. Primi documenti di letteratura religiosa e morale. - 4. Lirica popolare. - 5. Le origini della poesia d’arte in Sicilia e in Toscana. - 6. Il « Dolce stil novo ». - 7, Rimatori borghesi e realistici. - 8. Jacopone da Todi. - 9. Prosa popolare e prosa d’arte.

PAPI OLE

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a)

33

1. Dante e i suoi tempi. - 2. La vita. - 3. La « Vita Nova ». 4. Le Rime. - 5. Il « Convivio ». - 6. Il «De vulgari eloquentia». - 7. La « Monarchia». - 8. La « Quaestio », le egloghe e le epistole. - 9. La « Commedia ».

CaPITOLO III. - [/ Petrarca 1. La ideali opere 7. Il

SA

eRe

dG

ee a

a.

67

vita. - 2. La personalita del Petrarca. Gli epistolari. - 3. Gli politici. - 4. L’umanesimo e la cultura del Petrarca. - 5. Le ispirate all’ideale umanistico. - 6. Filosofia e religiosita. «Secretum ». L’indole del Petrarca. - 8. Le « Rime» e i

« Trionfi »

CaPITOLoO IV. - // Boccaccio .

depend

wide

we s

100

1. La vita. - 2. I romanzi e i poemi giovanili. - 3. Il « Decameron». dantista

CaPiroLo

- 4. Il Boccaccio

erudito e umanista.

V. - Scrittori minori del Trecento

- 5. I] Boccaccio

.

126

1. I rimatori aulici. - 2, La letteratura fiorentina e il Sacchetti. 3. Versi e prose popolari. - 4. Letteratura devota. - 5. Le cronache.

CaPiToLo

VI. - L’ Umanesimo

.

1. Critica e filologia. - 2. Il nuovo pensiero. - 3. I letterati e il costume. - 4, La poetica degli umanisti. - 5. Arte e poesia nella

letteratura umanistica.

138

INDICE GENERALE

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Es

CaPITOLO VII. - Poeti ¢ prosatori del Quatirocento.

. pag.

152

9a

1, Gli umanisti ¢ il volgare. - 2. Epigoni della letteratura trecentesca, - 3. La letteratura popolare e gli umanisti. L. Giusti-

nian, - 4. Il Pulci. - 5. Il Boiardo. - 6. Il Magnifico. - 7. I

Poliziano. - 8. La prosa oratoria e scientifica: L. B. Alberti e Leonardo. - 9. La prosa poetica: il Sannazzaro.

CApIToLo VIII. - J] Rimascimento . >. . ey ak 1. L’ereditd dell’umanesimo e la nuova cultura. - 2. Il Bembo e la cultura poetica del Cinquecento. - 3. La questione della lingua. - 4, Aristotele e la poetica del Rinascimento, - 5. I germi della decadenza e la continuita dello spirito umanistico.

CaPITOLO IX. - Ludovico Ariosto .

$i?

yin

179

190

eae

1. La vita. - 2. Le opere minori: liriche e satire. - 3. Le Commedie. - 4. L’« Orlando Furioso ».

CaPITOLO X. - Niccold Machiavelli

Sere

ae.

5%

.

206

1. La vita. - 2. La nuova scienza politica: il « Principe ». 3. I « Discorsi ». - 4. L’« Arte della guerra » e le opere storiche. - 5. Lo stile di Machiavelli. Gli scritti letterari e la « Mandragola ».

CaPITOLO XI. - // Guicciardini, gli storict e i moralistz . 1. Il Guicciardini. - 2! Gli storici minori e il tacitismo. - 3. Storie speciali; scritture biografiche e autobiografiche. - 4, Il Cellini. - 5. Il Castiglione. - 6. Il Casa e il Gelli. - 7. Poligrafi e avventurieri

della

penna:

I’Aretino

227

e il Doni

CAPITOLO

XII. - / generi letterari. . | 1. La lirica. - 2. Rime burlesche, familiari, autobiografiche. Il

249

Berni. - 3. Il poemetto epico-lirico e il poema didascalico. 4. Il poema eroico e il poema romanzesco. - 5. La tragedia. 6. La commedia, - 7. La novella. - 8. Poesia fidenziana e poesia maccheronica: il Folengo. - 9. I! dramma pastorale e il melodramma.

Capiro.o; XIll..~ Torquaio’ Tassa’

2

is

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0+

eee

276

1. La vita, - 2. Il « Rinaldo », I’« Aminta » e le Rime. - 3. La « Gerusalemme liberata». - 4. I «Dialoghi» e le Lettere. 5. Le opere poetiche degli ultimi anni.

CaPITOLo XIV. - La letteratura filosofica e la storiografia del tardo Rinascimento

.

loa.

8

Tayo.)

oe

1, Giordano Bruno. - 2. Il Campanella. - 3. Galileo. - 4. La tradizione galileiana e la prosa scientifica del Seicento. - 5. La « Ragion di stato» e Ja morale. - 6. Paolo Sarpi e la storiografia.

302

|

fare

UK:

rae

TTT

aes

OLO XV. - La letteratura dell’ eta barocea . Sit pag. “3 :

-

ark La poetica e il gusto del Seicento. - 2. La cultura e la critica -detteraria. - 3. Il marinismo. - 4. I generi letterari: la lirica, la

satira e la poesia giocosa, i poemi eroici ed eroicomici. - 5. I ge

neri letterari: il teatro, la novella e il romanzo. - 6. La prosa d’arte. - 7. La letteratura

dialettale e G. B. Basile.

CapiToLo XVI. - L’estetica e Ja filologia nell'eta di G. B. Vico.

364

1, La poetica e la critica letteraria. - 2, L’erudizione e la storio-

grafia: L. A. Muratori e P. Giannone. - 3. La filosofia ¢ la ‘poetica del Vico.

4 7 = -CAPITOLO XVII. G La poesia e la letieratura dell’ Arcadia. 1. L’«Arcadia » e la lirica. - 2. Il Metastasio, - 3. I generi ‘Jetterari nell’eta G. Meli.

KS:

dell’Arcadia.

- 4. La letteratura

dialettale

389

e

Aeooy

CaPiToLo XVIII. - La cultura e la letteratura nella seconda meta del Settecento. . SE 1. Bled ae cake

gr at

, ce ae

= or at

Wy

1. L’illuminismo e la nuova cultura. - 2. La poetica del sensi-

X

smo. - 3. La questione della lingua. - 4, La critica letteraria: il

hes

Bettinelli e i] Baretti. - 5. I due Gozzi. - 6. Letteratura minore.

441

CapiroLo XIX. - Carlo Goldoni 1. La vita. - 2. I « Mémoires » e la riforma della commedia.

:

ae

-

3. Storia della commedia goldoniana. - 4. La poesia goldoniana. - 5. Gli epigoni e gli antagonisti del Goldoni.

BeeGarirolo

XX, - Il Paint’.

457

.

1. La vita. - 2. I precedenti letterari, estetici e morali della poesia pariniana negli scritti minori. - 3. Il « Giorno». - 4. Le Odi. U letterato e il poeta.

CAPTYOLOIXAL.

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1. La

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vita.

- Li Alfiert -

2. La

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WON

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poetica dell’Alfieri e¢ le opere

. 476

Wa minori.

-

‘s 4

3, Dalla letteratura alla poesia: la « Vita» ¢ le «Rime». -

4, Le tragedie. - 5. La fortuna dell’Alfieri.

a _CapiToto XXII. - La letieratura del periodo neoclassico . . 3, La nuova cultura. - 2. Il gusto neoclassico e il purismo. 3. La prosa illustre.

- 4. Vincenzo.

Monti.

500

- 5. Poeti minori.

520 CapiToLo XXIII. - I/ Foscolo . — Foscolo Il ». Ortis L’« 3. poetica. la e L’indole 2. vita. La 1. Fe prosatore. - 4. I sonetti e le odi. - 5. I «Sepolcri». - 6 Le « Grazie ».

GENERALE

\ INDICE

802

CAPITOLO

XXIV.

italiano e la letteratura

- I/ Romanticismo

del Risovgimentd

\.0

0.0

26

ath

re

548

Pn Ds

1. Caratteri generali del romanticismo europeo. - 2. Il romanticismo italiano; le prime poetiche. - 3. La letteratura politica del Risorgimento. - 4. Poligrafi e storici. - 5. La storiografia letteraria e l'opera di F. De Sanctis. - 6. Memorialisti. 7. Aspetti minori della letteratura romantica: la poesia sentimentale e il romanzo storico. - 8. Il Berchet e la lirica patriottica. - 9. Il Tommaseo. - 10. Il realismo e la poesia di Carlo Porta. - 11. G. G. Belli. - 12. Il Giusti. - 13. Il Nievo. 14. Il teatro del periodo romantico.

CAPITOLO

XXV.-

Manzomi.

.

.

599

.

1. La vita. - 2. Le idee. - 3. La poetica. - 4. La lingua. - 5. Le liriche e le tragedie. - 6. Il romanzo.

CAPITOLO XXVI. - Leopardi

634

1. Storia di un’anima. - 2. Le idee. - 3. La poetica. - 4. Il primo tempo della poesia leopardiana. - 5. Le « operette morali» e il Leopardi prosatore. - 6. ] grandi idilli. - 7. L’ultimo Leopardi.

CAPITOLO

XXVII.

- La /etteratura della seconda meta dell’ Ot-

tocento . 1. Premessa,